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. Collalto Sabino Alla fine del 1800 così si leggeva in una enciclopedia. Collalto.- Comune nella provincia dell’Umbria, circondario di Rieti, mandamento di Orvinio. Comprende le due frazioni di Ricetto e di San Lorenzo. Ha una superficie di 2086 ettari. Trovasi situato alla sommità di ameno colle, ove si respira un’aria di sommo grado salubre e donde si gode di un bell’orizzonte, e di una visuale pittoresca, scorgendosi da colà circa ventiquattro paesi; giace all’estremità dell’alta Sabina ed è l’ultimo paese della provincia Umbra in confine colla comarca di Roma e con la provincia di Aquila”. E’ posto alla distanza di 65 chilometri a greco da Roma, di 51 a scirocco da Rieti e di 10 a levante da Orvinio”. 1 Il giorno mercoledi 17 dicembre 1924, il giornale “Il Mondo” pubblicava l’articolo, “Uno dei più alti paeselli della Sabina”. L’autore dell’articolo era Tulli Enrico nato a Collalto Sabino il 25-4-1889 e morto a Roma il 30-9-1950. Corrispondente del giornale “Il Tempo” e collaboratore di altre testate, così scriveva per caratterizzare geograficamente Collalto Sabino.

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. Collalto Sabino

Alla fine del 1800 così si leggeva in una enciclopedia. “Collalto.- Comune nella provincia dell’Umbria, circondario di Rieti, mandamento di Orvinio. Comprende le due frazioni di Ricetto e di San Lorenzo.

Ha una superficie di 2086 ettari.Trovasi situato alla sommità di ameno colle, ove si

respira un’aria di sommo grado salubre e donde si gode di un bell’orizzonte, e di una visuale pittoresca, scorgendosi da colà circa ventiquattro paesi; giace all’estremità dell’alta Sabina ed è l’ultimo paese della provincia Umbra in confine colla comarca di Roma e con la provincia di Aquila”.

E’ posto alla distanza di 65 chilometri a greco da Roma, di 51 a scirocco da Rieti e di 10 a levante da Orvinio”.

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Il giorno mercoledi 17 dicembre 1924, il giornale “Il Mondo” pubblicava l’articolo, “Uno dei più alti paeselli della Sabina”. L’autore dell’articolo era Tulli Enrico nato a Collalto Sabino il 25-4-1889 e morto a Roma il 30-9-1950. Corrispondente del giornale “Il Tempo” e collaboratore di altre testate, così scriveva per caratterizzare geograficamente Collalto Sabino.

“Collalto Sabino è uno dei più alti e graziosi paeselli della Sabina da poco ricongiunta a Roma, appollaiato com’è sulla cima di una altura a 995 metri su livello del mare con le sue case strette intorno al castello medievale le cui mura e le cui torri si ergono ancora a sfidare i venti e a dominare la campagna, a ricordare un passato di eroismi e di lotte. Da Collalto nelle giornate di sole lo sguardo giunge sino al cuore della Sabina e dell’Abruzzo e abbraccia circa trenta paesi. Si sale a Collalto da Carsoli e per raggiungerlo debbonsi attraversare fitte boscaglie di castani e quercie. Di minuto in minuto mano mano che si avvicina la meta, l’orizzonte si allarga.

Ecco a destra le cime nevose della catena di Monte Velino; ecco a sinistra la vetta del Gennaro da cui sidomina Roma; ecco infine, per parlare soltanto dei punti più caratteristici e conosciuti, il monte Cervia dalle falde dirupate e prive di alberi e dietro di esso il monte Terminillo, che ai primi freddi non tarda a incappucciarsi di un candito manto.”

Attualmente il Comune di Collalto dipende dalla provincia di Rieti ed è compreso nella regione Lazio.

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Le origini Per poter collocare la storia di Collalto nel contesto di quella Italiana, dobbiamo risalire a Carlo Magno. Carlo Magno (742-814), Re dei Franchi, su richiesta del Papa Adriano I (morto nel 795) invase l’Italia, occupandone il centro nord dopo aver sconfitto l’esercito Longobardo, guidato da Re Desiderio (756-774), il 5 giugno del 774. Nel 787 Carlo Magno donò al Papa Adriano I i ducati di Viterbo e Spoleto. Dall’unione di questi territori con il ducato di Roma, denominato “Patrimonium Sancti Petri” (Patrimonio di San Pietro), nacque lo “Stato Pontificio”. Dopo questa donazione si hanno le prime notizie storiche di Collalto (Collis Altus), che risalgono al X secolo. Infatti Collalto nasce nel territorio del ducato di Spoleto intorno all'anno 891 quando, per effetto delle scorrerie saracene, le popolazioni della valle del Turano si ritirarono sui rilievi montuosi. Il borgo di Collalto si formò intorno alla torre d’avvistamento o di difesa che è rimasta pressoché immutata. Situata nel punto più alto del colle, nel tempo essa è diventata il maschio del castello.

Il territorio molto accidentato ove è situato Collalto, ha sicuramente influito sul suo destino storico, garantendone sicurezza e inespugnabilità. Nell’anno 910 il Papa Giovanni X (860-928) fece appello a tutti i governanti “cristiani” affinché si opponessero all’invasione saracena.

Nel giugno dello stesso anno i reatini e i sabini guidati da Tachiprando o Archiprando di Rieti, sconfissero i saraceni nella valle del Turano, precisamente nei pressi della città sabino-romana Trebula Mutuesca (l’attuale Monteleone Sabino).

I saraceni subirono un’altra sconfitta a Bracciano da parte degli abitanti delle città di Nepi e Sutri e costretti a ripiegare verso sud, ma al Garigliano dovettero affrontare una nuova battaglia contro un esercito formato da Sabini, Toscani, Laziali, Spoletini e Greci (quest’ultimi governavano parte della Puglia).

Tale esercito, capeggiato dal Papa, era coadiuvato dai soldati dei ducati di Napoli, Gaeta e Benevento.

Dopo un duro assedio durato tre mesi, i saraceni furono definitivamente sconfitti e i sopravvissuti alla battaglia furono fatti schiavi. Questa sconfitta determinò la fine dell’invasione saracena nel centrosud d’Italia. Nel VI secolo i Longobardi divisero l’Italia in 18 regioni che comprendevano 36 ducati, ogni Duca poneva a comando delle città principali, un ufficiale regio detto Castaldo o Gastaldo, il quale governava il territorio, amministrava la giustizia, presiedendo il tribunale, e comandava la guarnigione del castaldato. In origine Collalto si chiamava Castaldio, come il primo castaldo che l’ebbe in possesso, in seguito prese il nome attuale per la sua posizione orografica. Il feudo cui apparteneva Collalto, era quello del Turano che comprendeva: Collepiccolo (Colle di Tora), Castelvecchio (Castel di Tora), Antuni, Ascrega (Ascrea), Offiano (castello ormai diroccato), Pietraforte, Petescia (Turania), Malamorte, etc.

XI Secolo

Nel secolo XI, a causa dell’aumento della popolazione del borgo di Collalto, fu abbattuta la palizzata che fungeva da recinzione e ne fu costruita una nuova in muratura con l’aggiunta di torri, allargandone il perimetro.

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Nel secolo XI il castaldato di Collalto passò dalla dipendenza dal ducato di Spoleto all’abbazia di Farfa.

L’abbazia di Farfa diede a sua volta il castaldato di Collalto in enfiteusi (diritto reale in forza del quale un soggetto, enfiteuta, esercita la signoria a tempo determinato o perpetuo, con facoltà di successione, corrispondendo un canone in denaro o in natura) ad un ramo dei conti dei Marsi, come lo indicano vari documenti del cartario Farfense. Alcuni storici sono convinti che la contea dei Marsi comprendesse molte città ed abbracciasse l’intera provincia Valeria ed inoltre, che Carlo Magno avesse nominato Conte dei Marsi un suo Paladino, cui diede e conferì la contea indipendente dal ducato di Spoleto. I Marzi fecero di Collalto un caposaldo della loro proprietà, perché, essendo ubicato ai confini del Regno di Sicilia con lo Stato Pontificio, faceva di fatto parte di entrambi.

XII Secolo Nell’anno 1122 il trattato di Worms (Germania) tra il Papa Callisto II (morto nel 1124) e l’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico V (1081-1125), sancì la fine delle lotte per le investiture. Con il trattato l’investitura dei vescovi tornò ad essere prerogativa del Papa ed in cambio i possedimenti dell’abbazia di Farfa furono ceduti all’Imperatore, il quale s’impegnò ad essere “il difensore della chiesa”.

Così Collalto, nell’arco di un secolo, cambiò di nuovo appartenenza; al ducato di Spoleto prima, a seguire all’Abbazia di Farfa e per finire al Sacro Romano Impero. Nell’anno 1153 il Papa Anastasio IV (morto nel 1154) effettuò una visita pastorale presso tutte le chiese della zona di Rieti.

Dopo questa visita il Pontefice emanò una Bolla “ In Eminenti” ove vi elencava tutte le chiese visitate, tra queste risultava la “Pieve” ( chiesa) di Collalto, dedicata a Santa Lucia definendola “Plebs” (parrocchia). Inoltre fa menzione di un convento di suore dell’ordine delle Clarisse ubicato vicino la chiesa di Santa Lucia, di cui attualmente non rimangono tracce. Questo periodo storico collaltese coincide con l’avvento dei Normanni nell’Italia meridionale. I Normanni, popolo guerriero di origini scandinave, erano dediti a scorrerie piratesche ed a guerre d’espansione. Essi si stabilirono nel IX secolo nel centro dell’Europa, esattamente nella zona oggi conosciuta come Normandia, da dove partivano per nuove conquiste. Il Re dei Normanni, Roberto il Guiscardo, (1015-1085) conquistò il Regno di Sicilia dopo aver sconfitto l’armata del Papa Leone IX (1002-1053) a Civitate sul Fertone nell’anno 1053, ed in seguito subirono la stessa sorte i Longobardi, i Bizantini, i Greci e i Saraceni (che governavano la Sicilia). Nell’anno 1156 fu definita la frontiera politica che divideva il territorio dei Normanni dai domini della chiesa, con l’accordo stipulato tra il Re di Sicilia Guglielmo il Malo (1120-1166) ed il Papa Adriano IV (1100-1159). Il confine che divideva il Regno di Sicilia (governato dai Normanni) dallo Stato Pontificio nella nostra zona, aveva un andamento tortuoso e si estendeva sull’intera Piana del Cavaliere fino al passo di Arsoli. Il confine terminava ai piedi dei monti Sabini, mantenendo territori della Chiesa: Riofreddo, Vallinfreda e Vivaro. All’imbocco della valle del Turano comprendeva Poggio Cinolfo, ma escludeva Collalto e Montagliano (o Montaliano); scavalcava quindi la dorsale collinare che separa le valli del Turano e del Salto. Di quest’ultima comprendeva, sul versante meridionale,

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Roccaberardi, Pescorocchiano, Macchiatimone e Varri, sul versante settentrionale e l’intero territorio fino a Capradosso.

Nel XII secolo a Collalto, sempre in funzione dell’aumento della popolazione del borgo, fu costruita una seconda cinta muraria più ampia verso la valle del Turano.

Ci sono testimonianze che parlano di “uomini di Collalto”, dei quali la storia ha tramandato i nomi: Gualtiero Oddone, Rodolfo Gandolfo, Pandolfo di Collalto, i quali si distinsero per il loro coraggio nelle diverse contese che opposero le varie famiglie baronali per il possesso dei feudi. Per riconoscenza dei servigi ricevuti dai collaltesi, i principi normanni concessero a Collalto l’uso nello stemma, della rosa normanna a cinque foglie arrotondate e bottone d’oro.

XIII Secolo I collaltesi dimostrarono ancora una volta coraggio e audacia nelle battaglie di Benevento (1266) e di Tagliacozzo (23 agosto 1268). Nella battaglia di Benevento si fronteggiarono gli eserciti di Manfredi di Svevia (1232 1266), che fu sconfitto, e quello di Carlo D’Angiò (1226-1285), fratello del Re di Francia Luigi IX (1214-1270). Nella battaglia di Tagliacozzo gli angioini comandati di nuovo da Carlo D’Angiò ebbero il sopravvento sull’esercito capitanato da Corradino di Svevia (1252-1268), Re di Sicilia e di Gerusalemme. Nella battaglia di Tagliacozzo parte dei collaltesi si schierò nelle file dell’esercito di Corradino di Svevia e parte in quelle di Carlo D’Angiò. I collaltesi che combatterono nelle file dell’esercito comandato da Corradino di Svevia e Federico di Baden occuparono come milizia feudale, perciò di rango, il primo gruppo nello schieramento sul campo di battaglia.

I collaltesi invece che combatterono nelle file dell’esercito comandato da Carlo D’Angiò e Francesco Brando di Valery si posizionarono nella quarta schiera. La battaglia fu combattuta nella località denominata Campi Palentini, situata tra Magliano dei Marsi e Scurcola Marsicana. Corradino di Svevia fu sconfitto determinando la fine del dominio svevo in Italia e l’avvento di Carlo d’Angiò al trono del Regno di Sicilia e di Gerusalemme. Nello stesso anno (1268), dopo varie peripezie, Corradino di Svevia fu catturato, condotto a Napoli e decapitato: aveva 16 anni. A seguito del fallimento nel 1265 della VII Crociata, Papa Clemente IV (inizio del XIII secolo-1268) chiamò a raccolta le armi dell’Europa Cristiana. Fu il Re di Francia Luigi IX (proclamato Santo dopo la sua morte) ad organizzare e condurre, al grido “ Dio lo vuole”, la nuova Crociata in Terra Santa, la VIII ed ultima. Collalto che aveva stretto delle relazioni con Carlo D’Angiò, partecipò alla VIII crociata con 86 cavalieri e 126 serventi (fanti); era l’anno 1268. L’ottava crociata, dopo un inizio promettente, si rivelò per i Crociati un disastro. Fu negativamente decisivo per l’armata “cristiana” il lungo assedio alla città di Tunisi, dove morì il Re Luigi IX con la conseguente fine della spedizione. E’ in questo periodo che si ha notizia della famiglia “Collalto” (la quale acquisì il nome del borgo), che creò una signoria territoriale, trasformatasi poi nel 1300, in baronia. Nel periodo compreso tra il 1270 e 1280 Collalto, sotto la guida di Gandolfo o Landolfo, primo signore del feudo, partecipò attivamente alla politica della regione circostante. Carlo D’angiò per punire il conte Mareri che aveva parteggiato per Corradino di Svevia, lo spogliò di tutti i suoi feudi e li donò a coloro che lo avevano sostenuto.

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Alla signoria di Collalto donò: Pietrasecca, Poggio Cinolfo, Macchiatimone, Montefalcone e Rocca di Sotto. In seguito a ciò risulta che Collalto nell’anno 1279 fu tassata dal Regno di Sicilia per i possedimenti appena citati. Con la donazione di Re Carlo D’Angiò a Gandolfo, Collalto estese i confini della signoria; il feudo risultò così compreso tra i monti Carsolani e la Valle del Salto.

Intorno al 1280 Collalto intraprese una controversia violenta con Montagliano, antico castello con borgo, che si trovava ai confini del suo territorio in località Ariana, ad altitudine inferiore.

Nell’anno 1282, durante il Regno di Carlo D’Angiò, ci fu una rivolta in Sicilia contro lo strapotere degli angioini, ricordata dalla storia come “i vespri siciliani”, i quali furono sostenuti dal Re Pietro III D’Aragona (1239-1285). Il Re Carlo D’Angiò morì a Foggia il 7 gennaio 1285, gli succedette il figlio che aveva il suo stesso nome. L’erede al trono non poté prenderne possesso perché prigioniero in Sicilia del Re Pietro III D’Aragona. Carlo D’Angiò (1248-1309) fu liberato nel 1288 dopo il trattato di Campoformio in virtù del quale agli Aragonesi venne attribuito il Regno di Sicilia e al D’Angiò quello di Napoli, che governò con il nome di Carlo II. La guerra tra angioini e aragonesi riprese subito, poiché il Re Carlo D’Angiò II volle tentare di riconquistare il Regno di Sicilia. Nel 1297 il Re Carlo D’Angiò II ordinò all’Alto Giustiziere d’Abruzzo, Landolfo Franco di Capua, di cedere Collalto alla curia Pontificia per punire il castaldo Oddone e suo fratello Roberto, che avevano appoggiato la causa aragonese.

Relativamente a questo episodio esiste un’altra versione storica: sembra che il Re Carlo D’Angiò II fece restituire alla curia Pontificia da Oddone e Roberto, castaldi di Collalto, i

castelli e le terre del Cicolano che avevano occupato unitamente al principe Pietro Colonna e ai fratelli conti Mareri. Collalto, trovandosi a cavallo del confine tra lo Stato Pontificio ed il Regno di Napoli, divenne strategicamente e militarmente importante; la zona alta del paese, quella vicino la torre, divenne di conseguenza esclusivamente di uso militare. Per questa ragione ed anche perché la popolazione del borgo era aumentata, verso la fine del XIII secolo fu necessario costruire una nuova cinta muraria, l’attuale, sempre verso la valle del Turano.

XIV Secolo La guerra tra angioini e aragonesi dopo venti anni di belligeranza, si concluse nel 1302 con la sconfitta di Carlo D’Angiò II. Con la pace di Caltabellotta del 1302 tra Carlo D’Angiò II e Federico II D’Aragona (1272-1337), terminò definitivamente il dominio degli angioini sul Regno di Sicilia e iniziò quello degli aragonesi .

Nell’anno 1342 il sacerdote Bartolomeo De Angelis di Poggio Cinolfo, rinunciò alla rettoria della chiesa di S. Pietro di Bulgaretta, che con Ascrega (Ascrea) faceva parte della baronia di Collalto sin dal secolo XII. I fratelli Giacomo e Oduzio, signori di Collalto, diedero la rettoria della chiesa di Bulgaretta, che era “jure patronato” cioè di loro proprietà, ad un certo Don Angelo, il quale era già reggente della chiesa di S. Nicola di Ascrega, anche questa baronale. Tra il 1300 e il 1400 a Collalto ci furono delle lotte interne, le quali crearono una spaccatura che divise il castaldato in due nuclei: una parte era controllata dalla contea dei Mareri

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compresa nel Regno di Sicilia, l’altra parte, come baronia, dipendeva dallo Stato Pontificio. Ci sono testimonianze scritte che affermano come in quell’epoca la popolazione della baronia che si trovava nella zona del Regno di Napoli fosse di 1322 famiglie con 6660 persone. Aggiungendo coloro che abitavano nella zona dello Stato Pontificio si raggiungeva la cifra di circa 10.000 persone. Nei documenti del Regno di Napoli di quel periodo , Collalto era nominato come “Collaltus in Aprutio” (in Abruzzo).

In alcuni documenti, risalenti all’anno 1355 e rinvenuti al Vescovado Reatino, risulta che la “Baronia di Collalto” era tassata per “le decime papali” (la tassa corrispondeva a un decimo del reddito).

XV Secolo Nel 1400 Collalto concluse da vincitore la controversia che l’opponeva a Montagliano. Ancora oggi gli anziani raccontano che Montagliano fu completamente distrutto (Montajanni sfasciatu), cannoneggiato dai bastioni del castello di Collalto. La versione degli storici però sulla “distruzione” di Montagliano, si distacca di molto da quella appena raccontata e che è arrivata sino a noi come leggenda. Da fonti storiche risulta che Montagliano non fu distrutto dai collaltesi ma abbandonato spontaneamente e da quell’esodo nacque un nuovo borgo nella baronia di Collalto; San Lorenzo. Infatti il declino, con relativo abbandono del borgo, era cominciato già prima della sua cessione in enfiteusi da parte del principe Colonna al principe Orsini nell’anno 1437. Dopo pochi anni dalla cessione si ha notizia del completo e definitivo abbandono di Montagliano.

La popolazione rimasta si trasferì a Collegiove, a S. Lorenzo e a Collalto. Il 15 giugno 1440 Antonuccio e sua sorella Vannozza, signori di Collalto e figli di Oddone, vendettero , a causa di problemi finanziari, Ascrega al conte Cola Mareri, la cui famiglia già controllava i castelli di Rigatti, Marcetelli ed altri nell’alta Sabina. Essendo Collalto baronia soggetta alla giurisdizione del Sacro Romano Impero, i due fratelli dovettero chiedere il consenso per la vendita all’imperatore Alberto V D’Asburgo (1397-1439). Il consenso giunse attraverso un documento rilasciato a Buda (Ungheria) il 14 ottobre 1439; esso conteneva la clausola che Ascrega restasse feudo imperiale e fedele all’Imperatore. Questa notizia, che per altro è documentata, lascia qualche perplessità poiché fino a poco prima del 1440, il signore di Collalto era Ludovico, Gaspare invece era il suo successore. Il documento che attesta questa notizia è un codicetto reatino redatto dal notaio della baronia Cola, che era anche vicario del signore di Collalto. Nel Diritto Romano il “codicetto” indica un tipo di testamento che non è vincolato dal sistema di successione. Da documenti redatti dal notaio Cola, risulta che Collalto aveva giurisdizione su: Nespolo, Ricetto, San Lorenzo, Collegiove, Paganico, Spanisco (Ospanisco), Villa Pacis (Pace), Maclatemone (Macchiatimone), Civitella e Bacharecia (Baccarecce). Nel 1464 la famiglia Collalto perse la baronia a causa della ribellione di Battista a Ferdinando I (1430-1494) Re D’Aragona, di Sicilia e di Napoli. Nell’anno 1499 Federico I D’Aragona (1451-1504), per riconoscenza dei servigi ricevuti, donò la baronia di Collalto ai fratelli Antimo e Ludovico figli di Cristoforo Savelli.

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Sul finire del XV secolo la famiglia Savelli, già feudataria di Poggio Cinolfo, Tufo e Tonnicoda, cominciò a spadroneggiare sulla popolazione di Collalto. In questo periodo, per contenere lo strapotere dei Savelli e difendere i diritti ottenuti nei secoli dai vari feudatari, si formò la “Magnifica Comunità” di Collalto, costituita da un consorzio di settantatre famiglie. La Magnifica Comunità era costituita da una “Camera super Barones”, composta dai rappresentanti di settantatre famiglie chiamati i “Magnifici Priori”, capeggiati da un “Governatore” che rimaneva in carica per sei mesi. Veniva eletto inoltre il “Massaro” o “Depositario”, che aveva l’autorità di rogare atti con la mansione di “pubbliconotaro”. La Magnifica Comunità gestiva con il barone, la baronia.

XVI Secolo Antimo Savelli partecipò a Roma nel 1511 con il principe Pompeo Colonna, alla rivolta contro la Chiesa scaturita dalla falsa notizia della morte di Papa Giulio II (1443-1513). La rivolta fallì e Antimo Savelli fu costretto a fuggire da Roma, raggiunse l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Sicilia e di Napoli Carlo V (1500-1558), cui chiese e dal quale ottenne aiuto e protezione, finendo per essere arruolato nell’esercito imperiale. Anni dopo Antimo Savelli, che si era distinto al servizio dell’Imperatore Carlo V, ricevette da questi alcuni feudi in Abruzzo: Pescorocchiano, Castelmenardo, Macchiatimone, Roccaverruti e Leofreni. Alcune fonti storiche invece indicano il figlio di Antimo, Onorio, come beneficiario della donazione. Nel 1555 era in atto una guerra che contrapponeva il Pontefice Paolo IV (1476-1559) a Filippo II D’Aragona (1527-

1598) Re di Sicilia e di Napoli; il barone Ludovico Savelli che parteggiava per quest’ultimo raggruppò le sue truppe a Collalto per prepararsi a sostenere la causa. Il principe Fabio Colonna, anch’esso dalla parte degli spagnoli, a causa d’intrighi interni alla sua alleanza, fu indotto a sospettare che il barone Savelli avesse concordato un'intesa segreta con il Pontefice. Il barone Savelli, saputo il fatto, decise di distaccarsi dalle truppe dei Colonna di cui era alleato e marciò, a capo del suo esercito, contro tale capitano Moles, suo accusatore, il quale si trovava nella città di Celle l’attuale Carsoli (Celle assunse il nome di Carsoli il 31 gennaio 1608). Dopo circa otto giorni di combattimento, all’arrivo di cento archibugieri provenienti dal presidio dell’Aquila mandati in aiuto del Moles dal principe Fabio Colonna, il barone Savelli dovette abbandonare il campo di battaglia e fare ritorno a Collalto. Con atti di vendita datati 1555 e 1558, Cristoforo Savelli cedette al fratello Ludovico parte della baronia di Collalto comprendente i castelli di Castelmenardo, Pescorocchiano, Pietrasecca, Macchiatimone, Rocca Veruta, Tonnicoda, Leofreni, Tufo e Poggio Cinolfo. Così la baronia di Collalto risultò divisa in due, quella di Cristoforo Savelli, sotto lo Stato Pontificio, quella di Ludovico Savelli, sotto la giurisdizione del Regno di Napoli; questi avvenimenti coincisero con la definizione dei confini tra i due Stati. La divisione della baronia chiuse per Collalto un periodo di doppia dipendenza, dallo Stato Pontificio e Sacro Romano Impero da una parte e dal Regno di Napoli dall’altra. Nel 1564 Cristoforo Savelli, a causa degli ingenti debiti contratti, vendette al suocero Roberto Strozzi per 18.000 scudi, la baronia comprendente Collalto, Collegiove, Nespolo, Paganico, Ricetto e San Lorenzo.

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Roberto Strozzi era figlio del famoso banchiere fiorentino Filippo e fratello di Piero che fu esponente di primo piano nell’opposizione al regime tirannico dei Medici. Il primo restauro del castello di Collalto fu effettuato da Roberto Strozzi che, dopo precoce morte, lasciò la baronia in eredità al figlio minore Leone. Maddalena, rimasta vedova di Roberto Strozzi, vendette il 24 gennaio 1568 la baronia di Collalto per conto del giovane figlio Leone, per la stessa somma con cui era stato comprato, ad un altro nobile fiorentino Alfonso Soderini. Costui, esule da Firenze a causa dell’ostilità dei Medici, era provvisto di consistenti capitali. Nella seconda metà del XVI secolo, Alfonso Soderini fece ristrutturare il palazzo baronale in occasione del matrimonio di un membro della sua famiglia con una dama della nobile famiglia Mattei. Il restauro conferì al castello le caratteristiche generali esterne che si possono ammirare ancora oggi. Il Soderini fece apporre lo stemma “partito” con le armi della sua famiglia e dei Mattei, sulla porta d’ingresso al salone del castello e sull’altare della chiesetta di Santa Maria, ubicata in località “Vapinciuni” (Valle Pincioni), ove avvenne la cerimonia religiosa. Inoltre trasformò la rocca sovrastante il palazzo, in fortezza d’artiglieria munita di un volume di fuoco eccezionale per l’epoca, rendendola imprendibile, ad indicare un complesso progetto militare, che andava oltre la semplice difesa della residenza baronale. Collalto, a coronamento di un periodo di mutamento delle funzioni politiche e della configurazione territoriale della baronia, in questa nuova realtà assunse un ruolo di maggior rilievo anche per il fatto di trovarsi nella zona di confine dello Stato Pontificio.

Nel 1561 si ha notizia di una visita pastorale del Vescovo di Rieti alla chiesa parrocchiale di Collalto, dedicata a S. Gregorio Magno (Papa santo nato nel 540 e morto nel 604). La chiesa di S. Lucia, sino ad allora parrocchia, presumibilmente fu declassata e rimase solo per letumulazioni, anche perché ubicata lontano dalle mura baronali, mentre quella di S. Gregorio situata all’interno di esse era stata realizzata modificando il granaio del castello. Nell’anno 1564 si ha notizia di un certo Latino Ciabatente (soprannome), della famiglia Latini, fiduciario del barone e dotato di un buon patrimonio fondiario. La famiglia Latini ebbe gran rilievo nel settecento e ottocento nella società di Collalto: a loro nome risultavano gran parte dei terreni della baronia. E’ alla fine del 1500 che la Magnifica Comunità di Collalto, costituitasi alla fine del 1400, fu riconosciuta legalmente come potere civico.

XVII Secolo Nei primi anni del 1600 iniziò una controversia tra la Communità di Petescia, appartenente al feudo di Canemorto (Orvinio) retto dalla famiglia Muti, e quella di Collalto dei Soderini, per questioni di confine. La Communità di Petescia asseriva che il territorio di loro competenza finiva oltre il fiume Turano verso Collalto, mentre i Soderini ritenevano che proprio il fiume rappresentasse il confine naturale. Nell’anno 1615 Collalto contava 360 abitanti, San Lorenzo 130, Nespolo 450, Ricetto 260 e Collegiove 360. Nel 1632 la famiglia Muti scambiò il feudo con quello del principe Marc’Antonio Borghese.

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La famiglia Muti divenne proprietaria del feudo di Rignano (Viterbo), mentre al principe Borghese andò quello di Canemorto. Nel frattempo la controversia tra le baronie era degenerata, i “terrazzani” (contadini) collaltesi avevano costruito delle palizzate per difendere i confini. Durante la notte tali palizzate venivano spostate e con esse i confini della baronia, a discapito dei petesciani. A difesa del loro “possedimento” i collaltesi avevano per giunta sparato colpi di archibugio uccidendo e ferendo dei petesciani. A tal proposito citiamo una testimonianza tratta da atti giudiziari. “Di quanto V.S. mi dimanda li posso dire per la veritàcome hieri stando con Virgilio di Santo di Pietraforte e Santo suo figlio e con Valerio di Petescia, mentre stavamo a riponere il pesce in territorio di Petescia, che avevamo pescato, all’improvviso dalla parte di dietro vennero adosso da sette a otto persone armate di archibugio e di pugnali, et uno di essi che credo fosse lo sbirro si mise al dosso al detto Virgilio di Santo al quale dette molte spontate di archibugio per tutta la vita al peggio, con apparizione di sangue e rottura di carne e di più si levorno, il pesce, che preso fu in detto fiume di Petescia, le reti e i panni di detto Virgilio, con braccare e sforzature di volerlo menare in prigione. Li percotitori erano di Collalto.” Deposizione di Antonio Valentini Durante il papato di Urbano VIII Barberini (1568-1644) furono soppressi i monasteri di: S. Angelo di Cervia e S. Giovanni in Fistola. Il monastero di S. Giovanni in Fistola era ubicato sul monte omonimo a nord di Collalto; a testimonianza di ciò rimangono i ruderi ed una chiesetta che fu restaurata l’ultima

volta presumibilmente nel 1920 e che, ancora intorno al 1960, era meta di pellegrinaggio. Attualmente la chiesetta, ormai sconsacrata, si presenta fatiscente ed è spesso utilizzata come ricovero di ovini. Nell’anno 1636 il principe Borghese, pressato dai petesciani esasperati, citò in giudizio Collalto presso il tribunale di Rieti per “risolvere una volta per tutte” la questione dei confini. Erano anni in cui tutto doveva venire dalla terra, quindi occorreva difenderla con tutti i mezzi; purtroppo occorreranno molti anni per risolvere la controversia. Nel 1629 Nicola Soderini, succeduto ad Alfonso, era talmente coperto di debiti che la Camera Apostolica fu costretta ad assumere l’amministrazione della baronia a tutela dei creditori. Tra gli anni 1635-1640 la Camera Apostolica mise all’asta il castello per liquidare i creditori. Il 23 maggio 1641 vinse la gara d’asta, in competizione con il principe Marc’Antonio Borghese, tale Giovan Battista Honorati di Jesi offrendo 102.000 scudi, nella forma “dell’aggiudicazione per persona da nominare”. Dopo la gara d’asta si seppe il nome del compratore, il cardinale Francesco Barberini, nipote del Papa regnante Urbano VIII, il quale si affrettò ad autorizzare la vendita in data 31 maggio 1641.

Il cardinale Barberini comprò il castello “non come proprietà ecclesiastica ma come privata persona”, quindi il 31 maggio 1641, la baronia entrò a far parte del patrimonio della famiglia Barberini.

Nell’atto di vendita del castello sono indicati complessivamente la natura e l’estensione dei diritti baronali; essi consistevano, oltre che nel possesso del territorio, degli insediamenti e dei titoli, anche in estesi poteri giurisdizionali e diritti signorili con “facoltà di ordinare, comandare, imporre ed esigere qualsivoglia imposizione,

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dazi, gabelle, risposte, servizi, pesi pecuniari, reali e personali”.

Nell’atto di vendita non si fa menzione dello “jus primae noctis” che era un “diritto” della nobiltà dell’epoca.

Il cardinale fece restaurare completamente ed abbellire il castello.

Secondo quanto ha lasciato scritto un frate del Convento di S. Francesco di Poggio Cinolfo, le stanze del palazzo baronale erano rivestite di preziosissimi marmi; il salone aveva il soffitto ornato con api d’oro (l’ape si trova nello stemma dei Barberini) e il pavimento era ricoperto da un mosaico raffigurante l’incendio di Troia. Le pareti erano impreziosite da arazzi della manifattura Barberini e da armature ed armi riccamente istoriate. Nell’anno 1644 Collalto aveva 390 abitanti divisi in 65 famiglie. Nel 1655 il cardinale Francesco Barberini acquistò da Tommaso Mareri, il territorio comprendente il paese di Marcetelli per la somma di 25000 scudi. I nuovi possedimenti permettevano di esercitare nuovamente un più esteso controllo, lungo il confine con il Regno di Napoli.

Nel 1662 Maffeo Barberini principe di Palestrina, nipote delcardinale Francesco, acquistò dagli eredi di Pompeo Colonna principe di Gallicano, tutti i beni da lui posseduti nel Regno di Napoli, tra cui la contea dei Mareri. Quando il principe Maffeo ereditò la baronia di Collalto, sotto il suo dominio si ricostruì quella unità territoriale in un'unica signoria delle valli del Salto e del Turano, che era stata essenziale alle origini della baronia, anche se tale stato di cose ebbe come effetto una maggiore coesione patrimoniale e proficue opportunità economiche piuttosto che una migliore gestione politica e strategica della frontiera.

XVIII Secolo Nel 1705 Urbano Barberini principe di Palestrina, titolare della baronia di Collalto, ancora una volta per debiti (causa molto ricorrente), cedette la baronia ad un fratello, cardinale Francesco, per una cifra dimezzata rispetto a quella pagata per l’acquisto sessant’anni prima. Il cardinale Francesco Barberini ebbe un ruolo importante nella storia del castello di Collalto giacché fece eseguire, sia nella fortezza che nel palazzo, lavori di riattamento e miglioramento che sono ancora evidenti e caratterizzano l’aspetto attuale. La contabilità del cardinale (tenuta in un libro apposito e utilizzato nel 1710 fino al 1738, anno della sua morte), registrava pagamenti eseguiti fin dal 1709, quando fu collocata la scala a chiocciola nel maschio della rocca e fatta fondere la campana per l’orologio collocato sul piccolo edificio che ancora la sostiene. Da allora e fino al 1714 i pagamenti per le opere nella rocca si successero con regolarità ed erano destinati ai Maestri di scalpello Giacomo Panizzola, Giovan Battista Rainaldi; e Francesco Sommaruchi che lavorò più a lungo degli altri, in qualità di capomastro muratore.

Dal 1712 i lavori si estesero al palazzo. Fin dall’inizio essi furono diretti e controllati dall’architetto romano Giulio Domenico Contini e occasionalmente anche dal padre Giovan Battista, che già lavorava per i Barberini a Roma. Sfortunatamente non è possibile dire quali interventi vennero realizzati, perché le notizie in tal senso si sono perse. I lavori di scalpellino dovettero almeno in parte riguardare gli elementi in pietra della rocca con sopraincisa l’ape, stemma dei Barberini, ma come si è detto non è possibile individuare, in base alla documentazione contabile, quali opere murarie furono eseguite.

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L’epigrafe, datata 1712 e fatta porre dal cardinale Francesco sopra l’arco di accesso al cortile interno del palazzo insieme all’ape che decora la volta dell’androne d’ingresso, fa presumere che in quel periodo i lavori si concentrassero in quella zona; è documentata anche la fornitura di tegole, mattoni e piastrelle prodotte a Petescia e la posa in opera di lastre di piombo nella rocca.

La somma complessiva pagata, come si desume dalle registrazioni eseguite dall’anno 1709 all’anno 1714, ammonta a circa 1060 scudi, ma forse tale somma non indica la spesa effettivamente sostenuta. I lavori mostrano comunque che l’interesse militare nella baronia non era venuto meno; la rocca ospitava una guarnigione permanente che, nei primi tempi del governo del cardinale Francesco, era composta da quattro soldati, un sergente, un tamburino, un corriere e un bargello (comandante di polizia) con uno sbirro (poliziotto), tutti stipendiati dal prelato. Il comando era affidato a un castellano che, per l’intero periodo del possesso da parte del Cardinale Francesco, fu Giuseppe Morena. Costui in qualità di castellano ricopriva vari incarichi di fiducia ed era responsabile dell’ordine pubblico.

Il cardinale Barberini si preoccupava anche dell’equipaggiamento militare; nel 1710 fu registrato il pagamento di 13 dozzine di bottoni di ottone per giustacuori destinati ai soldati di Collalto; più sostanziali gli acquisti di armi, tra cui quattro cannoni di bronzo, poi posizionati sui bastioni nel 1721. Il cardinale dispose anche l’addestramento di una sorta di milizia civica di Collalto, che doveva fare servizi di guardia agli ordini del castellano.

Che la baronia dovesse trovarsi nella imminenza di combattere lo si deduce dal repentino aumento del numero dei

soldati che divennero 25 nel dicembre del 1737, 44 con quattro caporali nel gennaio dell’anno seguente, per toccare il numero di 53 nell’aprile, e diminuire poi gradualmente fino ad una trentina negli anni successivi. L’allarme è probabilmente connesso con le vicende di Napoli, dove appunto nel 1734 Carlo di Borbone (1716-1788) andò a conquistare militarmente il regno, che poi governò con il nome Carlo VII, sottraendolo agli Austriaci che lo avevano governato per poco tempo. Resta con ciò confermata la posizione di piazzaforte di frontiera rivestita dalla rocca di Collalto.

Una notizia che risale al 1738 dà la misura dell’attenzione che il cardinale Barberini dedicava alle funzioni militari del paese.

Da un documento risulta che “la terra di Collalto era stata ampliata in foggia di fortezza con nuova fabbrica dal cardinale”, ciò solleva il dubbio che non solo la rocca, ma anche l’abitato (la terra) fosse stato fortificato.

Anche la ristrutturazione del palazzo residenziale è significativa, poiché lascia supporre l’intenzione di utilizzarlo per i soggiorni del cardinale barone.

Nel 1793 finalmente si concluse la controversia sul confine iniziata nel 1636 tra Collalto e Petescia.

Il Tribunale di Rieti con una sentenza stabilì infatti che il confine che divideva i due paesi si trovava oltre il fiume Turano, verso Collalto.

Si rese così giustizia al Principe Borghese e ai petesciani, chi ne subì le conseguenze furono i terrazzani dei due feudi che per 157 anni si esasperarono a vicenda innalzando palizzate, tagliando alberi o distruggendo i raccolti.

Alla fine della disputa si contarono 14 persone tra morti e feriti.

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Le spese che si affrontarono in quei 157 anni sicuramente superarono il valore dei terreni ma a volte “Vale più un gusto che un casale”, come recita un vecchio detto della zona.

Nel 1789 la Francia fu teatro della “Rivoluzione” che sancì la fine del medioevo,

La trasformazione dello Stato francese da Monarchico a Repubblicano determinò uno sconvolgimento che segnerà una svolta nella storia dell’umanità.

Nella primavera del 1796 Napoleone Bonaparte (1769-1821), al comando dell’esercito di spedizione francese denominato Armeè d’Italie, varcò le Alpi, occupò il nord dell’Italia fino a Bologna ed invase parte dello Stato Pontificio. Fallito il tentativo di armistizio con il Papa Pio VI (1717-1799), il primo febbraio 1797, Napoleone invase i restanti territori dello Stato Pontificio sbaragliandone l’esercito con facilità, ma evitò di occupare Roma per non umiliare il Pontefice. Il 19 febbraio 1797, Napoleone concluse con il Papa la pace di Tolentino, che sancì l’annessione di Avignone e del ducato di Vanessino alla Francia.

Mentre Bologna, Ferrara e la Romagna furono cedute alla Repubblica Cispadana.

In realtà la Repubblica Cispadana, nata nell’ottobre 1796, già comprendeva la Romagna, Bologna e Ferrara. Il parlamento della Repubblica Cispadana, che si era riunito a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, tenne a battesimo il tricolore Italiano. Il deputato Compagnoni decretò “Che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti”. Il 29 giugno 1797 nasceva la Repubblica Cisalpina che, il 9 luglio dello stesso anno, annesse la Repubblica Cispadana.

Nel 1797, a Roma durante una dimostrazione organizzata dai giacobini romani, poi degenerata nella violenza, la cavalleria papalina intervenne per riportare la calma. Durante gli scontri che ne seguirono ci furono delle vittime tra cui un generale dell’esercito Francese, L. Duphot. A causa di questi eventi, l’11 gennaio 1798, il generale Berthier, che era succeduto a Napoleone al comando dell’Armeè d’Italie, mosse dalla Lombardia verso sud con il suo esercito seminando terrore e operando saccheggi (come era d’abitudine).

Il 10 febbraio, arrivato alle porte di Roma, si accampò in attesa di sferrare l’attacco, ma il 15 febbraio la città capitolò e venne occupata senza colpo ferire. Il 15 febbraio 1798 con “l’Atto del popolo Sovrano libero e indipendente” nasceva la Repubblica Romana, tenuta a battesimo dai giacobini romani che in verità erano in numero esiguo, appena 300. Dopo l’instaurazione della Repubblica, il 17 febbraio 1798 il Papa Pio VI fu arrestato e mandato in esilio a Valence in Francia e qui, ormai ottantenne e di salute cagionevole, morì il 29 agosto 1799 senza più far ritorno a Roma.

Il governo d’occupazione francese divise lo Stato Pontificio in otto Dipartimenti o Province: Tevere (con capitale Roma), Cimino (Viterbo), Circeo (Anagni), Clitunno (Spoleto), Metauro (Senigallia), Musone (Macerata), Trasimeno (Perugia) e del Tronto (Fermo). Uno dei primi atti del governo francese, che segnò l’inizio della fine dei feudi, fu quello di cancellare i previlegi feudali nella valle del Turano. Con una lettera datata 4 brumaio, l’edile (magistrato) Giovanni Latini comunicò al Ministro delle Finanze del Dipartimento De Rossi, l’occupazione di Collalto da parte di una compagnia di genieri dell’esercito francese, forte di 500 uomini.

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Brumaio è terminologia del calendario istituito in Francia il 22 settembre 1792, nascita della Repubblica e coincide con il giorno successivo al vero equinozio d’autunno, rimasto in vigore fino al primo gennaio 1806. I nomi dei mesi conosciuti vennero sostituiti con quelli che erano in relazione alle caratteristiche specifiche legate alla meteorologia e all’agricoltura: Vendemmiale (22 settembre 21 ottobre), Brumaio (22 ottobre 20 novembre), Frimaio (21 novembre 20 dicembre), Nevoso (21 dicembre 19 gennaio), Piovoso (20 gennaio 18 febbraio), Ventoso (19 febbraio 20 marzo), Germinale (21 marzo 19 aprile), Floreale (20 aprile 19 maggio), Pratile (20 maggio 18 giugno), Messidoro (19 giugno 18 luglio), Termidoro (19 luglio 17 agosto) e Fruttidoro (18 agosto 16 settembre). I rimanenti cinque giorni vennero chiamati “complementari”. Il mese era diviso in decadi, i giorni erano trenta e si chiamavano; primodì, secondodì, terzodì, quartodì, quintodì….….decadì, etc. Nel nuovo calendario furono completamente aboliti i Santi, le ricorrenze religiose e le domeniche ed al posto di quest’ultime vennero istituite feste patriottiche. Tornando all’occupazione di Collalto, i soldati francesi si presentarono al popolo collaltese con l’ordine scritto dal Principe Barberini di consegnare loro la fortezza. Cosi’ i soldati napoleonici occuparono Collalto senza colpo ferire e fu l’inizio del periodo più buio per il castello. I “genieri” lo depredarono di tutte le migliorie che i Barberini avevano apportato: arazzi, armature, mosaici, marmi e rivestimenti dei soffitti, il tutto venne spedito in Francia. La fortezza fu smantellata e l’opera costò scudi 67,99, come si legge nel documento ove sono riportate le spese straordinarie sostenute in quell’anno dalla Comunità di Collalto.

Fu durante la prima Repubblica Romana che vennero asportati e trasferiti a Roma i cannoni dalla fortezza di Collalto: era l’anno 1798. L’ordine di requisizione venne dal generale transalpino Communeau, comandante di piazza, per evitare che i cannoni finissero in mano agli insorti papalini. La quantità dei cannoni non è certa: alcuni ricercatori storici affermano che il numero ammontasse a 36. In quegli anni di radicali cambiamenti, vi furono persone che approfittarono della loro posizione per tornaconto personale; la giustizia non era sempre ben servita, i magistrati non sempre davano esempio di rettitudine e le ingiustizie erano all’ordine del giorno. Non solo i magistrati erano scorretti verso il popolo, ma le stesse Autorità spesso non pagavano le somme ai privati cittadini per i servigi resi; come avvenne a Luigi Di Giovannantonio, o Di Giannantonio, di Collalto, che fu costretto a chiedere giustizia. Il querelante reclamava il pagamento di otto mazzi di corde “folignate” e di due corde grosse “ossia canapi di mezza fattura” usate per trasportare a Roma i cannoni asportati dalla fortezza di Collalto per ordine del Generale Commeneau “….ordinò la scuarnizione della fortezza di Collalto e condurre li canoni in Roma e ordinò a molti il portare delle corde per detto straporto…”. Come la vicenda finì non è dato sapere; se al malcostume imperante aggiungiamo la esosità delle richieste dell’esercito Francese, che pretendeva dalle popolazioni sottomesse tutto l’occorrente per il proprio esercito (vestiario, armi, derrate), l’imposizione dei tributi divenuti particolarmente pesanti, risulta evidente il malcontento generale e il conseguente rimpianto del tempo in cui c’era il Papa Re. Libertè, Egalitè e Fraternitè le tre parole che stavano cambiando il mondo, in Italia, per i fatti citati, di certo non

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furono applicate ed onorate dall’esercito francese che ne era il preteso ambasciatore. Il 27-11-1798 le truppe borboniche del vicino Regno di Napoli, di cui era Re Ferdinando IV (1759-1816) di Borbone, marciarono su Roma e la liberarono. La reazione delle truppe francesi fu immediata e vincente su i borbonici, con il conseguente ripristino dei confini, ma quest’azione servì ad unire i sudditi del Papa in una aperta avversione per i repubblicani. Nei primi mesi del 1799, quando la prima Repubblica Romana (15 febbraio 1798-19 settembre 1799) aveva ormai i giorni contati e l’esercito francese vacillava sotto i colpi delle milizie borboniche al sud e dell’esercito austriaco al nord, alcuni collaltesi presero parte attiva in un’azione di guerriglia. Essi infatti si unirono ai briganti, assoldati dal Re Ferdinando IV e giunti numerosi dal vicino Regno di Napoli. Insieme occuparono Castelvecchio (Castel di Tora), Collepiccolo (Colle di Tora) ed Antuni. Innalzando poi sui tre paesi la bandiera della rivolta, sperando che il moto rivoluzionario si estendesse. La reazione dell’esercito francese fu immediata e violenta, una colonna di truppe partì da Rieti e liberò i tre paesi. Era la fine di aprile, i francesi per rappresaglia saccheggiarono Antuni, ritenuto l’unico paese che aveva appoggiato i briganti. Il 19 settembre 1799 i repubblicani romani e i francesi furono sconfitti dalla coalizione dell’esercito borbonico e austriaco. Morto in esilio Papa Pio VI il 29 agosto 1799 i cardinali si riunirono in conclave a Venezia. I borbonici approfittarono dell’occasione e occuparono Roma. Il 14 marzo 1800 fu eletto il nuovo Papa, Pio VII (1742-1823) il quale fece ritorno a Roma il 3 Luglio 1800 riprendendo possesso della città.

XIX Secolo

Il giorno 11 Aprile 1803 la guarnigione francese abbandonò Collalto, come si rileva da un atto di consegna della fortezza da parte dell’ufficiale del genio Chabrix, al castellano cittadino Antonio Palma. Il 21 ottobre 1805 la flotta francese fu sconfitta a Trafalgar per opera di quella inglese, guidata dall’ammiraglio Nelson. Napoleone, avendo di fatto conquistato quasi tutta l’Europa, tentò la carta dell’isolamento dell’Inghilterra per costringerla alla resa, instaurando l’embargo e imponendo l’adesione anche a tutti gli altri stati europei. Poiché Roma si rifiutava di obbedire alla Francia, Napoleone nel 1808 ne ordinò nuovamente l’occupazione. L’esercito che difendeva Roma fu sconfitto e il 17 maggio 1809, con un decreto Imperiale, quel che rimaneva dello Stato Pontificio fu annesso all’Impero francese. L’ex Stato Pontificio fu scisso di nuovo, questa volta in due Dipartimenti: il Trasimeno e il Tevere, ognuno dei quali era diviso in Circondari (Capoluoghi). Il Dipartimento “Tevere” aveva come Circondari: Roma, Tivoli, Velletri, Viterbo, Frosinone e Rieti. Il Circondario era ulteriormente diviso in Mandamenti o Cantoni; Rieti ne aveva nove: Narni, Poggio Mirteto, Monte Leone, Torri, Canemorto (Orvinio), Stroncone, Castel Vecchio (Castel di Tora) e Magliano.

Il mandamento di Canemorto governava i Comuni di Collalto con 1695 abitanti (comprese le frazioni), di Marcetelli con 1915 abitanti, Petescia (Turania) con 1861 abitanti e Pozzaglia con 912 abitanti.

La notte fra il 5 e il 6 luglio del 1809, con un “blitz”, l’esercito francese, agli ordini del generale Miollis, occupò

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il Quirinale, arrestò il Papa Pio VII e lo deportò prima in Toscana, poi a Savona ove rimase fino al 1812. L’arresto del Papa causò a Napoleone una forte impopolarità; tra i cittadini si diffuse malcontento e un profondo senso di risentimento. I francesi iniziarono una vera e propria persecuzione contro il clero e coloro che ricoprivano cariche pubbliche. Tutti furono costretti ad un giuramento la cui la formula era “Io giuro obbedienza alle leggi, alla costituzione dell’Impero e fedeltà all’Imperatore”. Molti preti , frati e monache, per ossequio ed obbedienza al Papa, rifiutarono il giuramento; come conseguenza subirono la deportazione e la confisca dei beni. Dei 31 Vescovi del dipartimento Tevere, 17 si rifiutarono di giurare ed essendo alti prelati, le pene furono più severe, oltre la confisca dei beni, vennero deportati in Francia ed in alcuni casi subirono la condanna a morte per mezzo della ghigliottina. I parroci di Nespolo e di Ricetto, Don Alfonso Latini e Don Testa si rifiutarono di giurare e ne subirono le conseguenze, mentre quello di Collalto accettò di sottomettersi al volere francese. Il 7 maggio 1810, Napoleone fece sciogliere tutti gli ordini religiosi dei dipartimenti Tevere e Trasimeno. Nell’anno 1810 fu istituita dal governo Francese la leva militare, a partire dai giovani nati nel 1789. I soldati da arruolare erano in proporzione al numero della popolazione, il cantone di Castelvecchio, che aveva 6954 abitanti, arruolò nel 1812, 14 soldati. Nel 1811 il sottoprefetto di Rieti così scriveva, a proposito di Collalto: “ E’ questa una delle comuni più povere di tutto il circondario. Dei nudi sassi, delle selve, e piccoli tratti di sterile terreno formano il patrimonio. Essi non hanno né strade, né commercio, né industria,

né risorse. Chiusi tra mezzo alle gole di alcuni monti conosciuto sotto il nome di baronia di Collalto, bloccati per una gran parte dell’anno dentro le loro case dai ghiacci e dalle nevi,essi menano una vita disgraziata, che sostengono con uno scarso alimento di castagne e di formentone (polenta)”. Nel 1811, anche se il sistema feudale non esisteva più, i rapporti dell'amministrazione comunale con l’allora barone, il principe Carlo Barberini, figlio secondogenito di Urbano, erano buoni, e in merito a ciò non può sfuggire la menzione di un episodio particolare; la parrocchia di S. Gregorio non avendo i soldi per comprare la campana richiese ed ottenne in prestito quella del castello. Dopo la sconfitta di Napoleone (6 aprile 1814) Collalto tornò al ricostituito Stato Pontificio retto allora da Papa Pio VII, ed il principe Barberini ridivenne proprietario del castello, ridotto al solo edificio dopo il saccheggio dei francesi. Dopo il ritorno al potere, Papa Pio VII concesse a Collalto ed altri paesi in difficoltà finanziarie, l’esenzione della tessa sul macinato. Nel novembre 1817 ci fu un riordinamento dell’assetto territoriale della delegazione di Rieti (per questa ragione la città venne creata provincia di III classe); Collalto, con i suoi 424 abitanti, fu considerato uno dei sei mandamenti retti ciascuno da un governatore.

Il governatore esercitava la sua giurisdizione su un gruppo di Comuni, retti da un Priore o Podestà. Il Podestà aveva giurisdizione sul paese e sulle frazioni, ed era coadiuvato da un “consiglio” cui furono chiamati a far parte cittadini di ogni ceto sociale. Il governatore di Collalto era il principe Barberini ed estendeva la sua autorità alle frazioni di S. Lorenzo, Ricetto, Nespolo e Collegiove.

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Fino al 13 dicembre 1817 i baroni succedutesi nel tempo a Collalto avevano esercitato sull’intero territorio tutti i diritti feudali. Questi consistevano in diritti sul pascolo invernale, sul “ghiandatico” (l’utilizzo delle ghiande per il bestiame da parte della popolazione) su tutti i terreni della baronia; su un contributo di 10 scudi annui, da parte di ciascun paese, a titolo di “pagarelle” e di 12 scudi ogni sette anni a titolo di “calcara”, (l’autorizzazione per cavare pietre destinate a produrre calce). Non potevano essere stipulati contratti di compravendita senza la licenza del principe, al quale doveva essere corrisposta una tassa pari al 8 % della stima del valore dei beni, oggetto di transazione. Il principe diveniva proprietario dei beni mobili e immobili di tutti coloro che morivano senza eredi diretti; beni che potevano essere rivendicati dai parenti più prossimi, previa corresponsione del 30 % del loro valore. Nel caso poi di erede figlia unica, in cambio dei beni mobili e immobili il principe accordava una dote di 60 scudi. Se invece l’erede rifiutava la dote e richiedeva i beni dell’asse paterno, questi venivano alleggeriti da un prelievo pari al 30% del loro valore. In alcuni paesi della baronia era rimasta ancora in vigore la consuetudine delle regalie; ogni famiglia doveva “regalare” al principe una gallina e la spalla del maiale, ucciso durante l’inverno. Dopo il 13 dicembre 1817 però, il principe Don Francesco Barberini, figlio di Carlo, rinunciò ufficialmente ai suoi diritti feudali sul castello e sull’intera baronia. I paesi di Collegiove e Nespolo, dopo questa rinuncia chiesero ed ottennero di divenire Comuni dissociandosi così da Collalto, al quale, come frazioni, rimasero S. Lorenzo e Ricetto.

A quei tempi le imprese pubbliche, sia commerciali che di pubblica utilità, erano concesse in appalto annuale con gara d’asta. Per fare qualche esempio erano oggetto di appalto:

l’osteria, il macello, il forno, la pizzicheria, il diritto di pesca nel fiume del Turano (il permesso di pescare in esclusiva in una data zona del fiume), il bollatore di carni da macello (colui che dava il consenso alla macellazione di animali e ne stabiliva la qualità), il custode degli animali neri (colui che pascolava i maiali, cioè il porcaro), etc.

La gara d’appalto era regolata dall’articolo 179 della legge “Motu Proprio” (emanata il 28 ottobre 1817 dal Papa Pio VII che regolamentava ogni tipo di commercio).

La legge a garanzia del regolare svolgimento delle gare, prescriveva che dieci giorni dopo l’espletamento della prima gara, questa fosse ripetuta. Si dava quindi inizio a una nuova gara d’appalto con l’accensione di una candela, detta “Vigissima”: allo spegnimento della quale si dichiarava aggiudicata l’asta all’ultimo offerente. La legge Motu Proprio recitava inoltre che, coloro i quali rendevano un servigio alla popolazione esercitando imprese di pubblica utilità, benché non conferite con gare d’appalto, avessero diritto ad un equo compenso da parte delle Autorità competenti. In quei tempi i branchi di lupi erano numerosi nelle nostre montagne e costituivano un grave pericolo per l’incolumità delle persone e degli animali da pascolo. Il danno economico per la pastorizia era enorme, quindi in funzione della legge suddetta, era nato il pericoloso ed affascinante mestiere del “luparo”. Quando il luparo uccideva un lupo, riceveva dalle Autorità un compenso pari a 15 scudi, che per quell’epoca era

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un’ottima cifra, inoltre i contadini e i pastori gli offrivano, riconoscenti, prodotti del loro lavoro. Nell’anno 1829 a Collalto c’erano quattro chiese: la parrocchia di S. Gregorio, Santa Maria, Santa Lucia, e quella privata della famiglia Latini, la Madonna della Speranza; gli abitanti erano 696 riuniti in 115 “fochi” (famiglie). Nell’anno 1835 in Francia scoppiò un’epidemia di colera, o “Morbo Asiatico” come si chiamava allora, a quel tempo mortale. L’infezione attraversò l’Italia, fino a giungere nella zona del Turano tra la fine del 1836 e l’inizio del 1837. Venne istituito un cordone sanitario in maniera capillare, al confine con il Regno di Napoli e nel territorio nei pressi di Roma ove si riscontrarono vari casi d’infezione. Ad ogni passaggio di confine con il Regno di Napoli furono costruite delle casermette con annessa “Officina di disinfezione Sanitaria”, a presidio delle quali fu destinato un drappello di quattro uomini al comando di un caporale. Il personale addetto ai presidi era costituito da militari delle truppe di confine e da guardie comunali, ma il più delle volte da comuni cittadini; alcuni di essi erano volontari e la maggioranza era obbligata dalle autorità locali con il sistema “fochale”, ossia uno per famiglia. Collalto con il sistema “fochale”, contribuì al cordone con 100 guardie sanitarie. Esse controllavano che le persone fossero munite del certificato sanitario e che le merci e gli animali fossero provvisti di bolletta di accompagno sanitaria. In mancanza dei documenti scattava l’isolamento, per le persone di dieci giorni, per le merci o il bestiame per un periodo più lungo. Le guardie sanitarie di Collalto, che controllavano per una ragione logistica il confine con il Regno di Napoli nella zona del Turano, si distinsero per la loro “negligenza”.

Si legge in un documento la seguente denuncia “Invece di essere assidui in guardia, si fanno lecito girovagare per la Commune e passare il tempo nelle

bettole gozzovigliando senza punto fare il loro dovere….”. Il comportamento di tali individui fu a tal punto poco corretto che vennero più volte rimproverati per aver infastidito la cittadinanza con i loro canti notturni a squarciagola cui si abbandonavano, a notte fonda, in preda ai fumi dell’alcool uscendo dall’osteria. I riflessi dello stato di grave emergenza determinato dal colera, non tardarono a farsi sentire nella vita sociale ed economica delle famiglie, la cui già precaria esistenza veniva ancor più aggravata dalla mancanza delle migliori braccia per i lavori nei campi e dal blocco dell’emigrazione stagionale verso la campagna romana. Nel novembre 1837 giunse da Roma l’ordine di smobilitare i presidi sanitari; l’emergenza colera era finita ed il gran pericolo scampato.

Nell’anno 1841 nella valle del Turano ci furono alcuni tentativi di dissociazione di paesi appodiati (frazioni) dal loro capoluogo.

In questo fermento fu coinvolto anche Collalto; due paesi ad esso appodiati, Ricetto e S. Lorenzo, tentarono di distaccarsi dal capoluogo per divenire Comuni autonomi.

I due paesi addussero, per rendere meritevole la loro richiesta, una ragione logistica; l’impossibilità d’inverno di raggiungere il capoluogo, per via di un torrente che in quel periodo, per il notevole aumento delle acque, era difficile guadare. L’altra ragione era di carattere amministrativo; avendo Ricetto una popolazione di 350 persone, poteva aspirare a divenire “Communità Principale”, appodiando S. Lorenzo che contava 250 persone.

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Le spese sarebbero diminuite e ne avrebbe giovato l’amministrazione, più semplice e più snella. Il tentativo di distacco da Collalto però fallì. Collalto, intorno alla metà dell’Ottocento, aveva

una popolazione di 722 persone che costituivano 248 “fochi” (famiglie); 111 vivevano in campagna e i rimanenti 137, in 124 abitazioni che si trovavano all’interno delle mura baronali o nei pressi di esse. Il paese era suddiviso in due contrade, quella di “Piazza della Chiesa” e quella di “Piazza Comunale”. Le feste popolari erano celebrate il 10 agosto, in occasione di S. Lorenzo ed il 16 dello stesso mese, per S. Rocco, protettore degli appestati. La festività dedicata a S. Rocco risale all’anno1669 quando vi fu una pestilenza che anche a Collalto causò numerosi decessi. Il medico era di scavalco, (la sede della sua condotta non era Collalto) e percepiva uno stipendio di 15 scudi annui, parte dei quali veniva dato in natura (20 coppe di grano). A Collalto si trovavano una farmacia di proprietà della famiglia Latini, una bottega di ferri lavorati, una rivendita di sali e tabacchi, un ferraro, un calzolaio, due sarti ed una mola a grano, appartenente al principe Del Drago (Barone di Antuni). Nell’anno 1853 il barone di Collalto era il principe Carlo Felice Barberini figlio di Francesco, comandante della guardia nobile del Papa. Nell’anno 1856 il principe Barberini cedette alla principessa Del Drago, come dote, il castello di Collalto. A sua volta la principessa Del Drago, nel 1858, lo vendette al conte Corvin Prendowski. Il conte Prendowski era discendente, per ramo polacco, del Re d’Ungheria Mattia Corvino, di nascita transilvano ed amico dei Medici, signori di Firenze.

Lo stemma del Conte Prendowski era uguale a quello del Re transilvano: un corvo nero che stringe nel becco un anello d’oro. Nel 1858 Collalto contava 1287 abitanti, unitamente a quelli delle frazioni. Nell’anno 1860 e sino a giugno 1861 il sindaco di Collalto fu Giorgi Filippo. Il 15 dicembre 1860 quando le truppe del nascente Regno d’Italia occuparono Rieti, il marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, Regio Commissario Generale, abolì i mandamenti e Collalto passò sotto la giurisdizione Umbra con riferimento Perugia. Il 13 febbraio 1861 Collalto fu assaltato e conquistato da soldataglia, al comando del Generale Saverio Luvarà, ex colonnello dell’esercito borbonico. Il generale tenendo conto della posizione strategica di Collalto, facilmente difendibile, contava di farne il suo quartier generale. Le truppe di questo sedicente “esercito” erano composte da soldati borbonici sbandati, delinquenti comuni e da reparti dell’esercito pontificio e mercenari, che dimostrarono tutto il loro “valore” saccheggiando il paese e uccidendo persone indifese. Tale spedizione era stata decisa da nobili borbonici e da seguaci del Papa, che non accettavano l’esito del plebiscito del novembre 1860 che sanciva l’annessione della Sabina al Regno d’Italia. Tra i “colonnelli” del Luvarà vi erano, il famoso brigante Chiavone, al secolo Luigi Alonzi (1823-1864) originario di Sora e Giacomo Giorgi di Civitella Roveto, un avvocato che condusse la guerriglia contro i piemontesi principalmente nell’aquilano e nel teramano. Su questo fatto di sangue esiste una relazione storica, stampa datata 1865, redatta dal giudice di Canemorto,

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Baldassarre Cenni, di cui riproduciamo la copia.

Il 13 febbraio 1861, giorno dell’aggressione di Collalto da parte del generale Luvarà, il Re Francesco II di Borbone (1836-1894) fu definitivamente sconfitto a Gaeta dalle forze guidate da Garibaldi. Francesco II dopo la sconfitta riparò a Roma; questo evento segnò la fine del dominio della dinastia dei Borbone sul Regno delle due Sicilie che fu annesso al Regno d’Italia. L’aggressione di Collalto fu uno degli ultimi episodi della resistenza reazionaria borbonica e papalina all’avanzata nel sud delle truppe del Regno d’Italia. L’eco delle violenze e delle efferatezze perpetrate a Collalto, da parte dei reazionari, suscitò profonda impressione e notevole indignazione, non solo in Sabina, ma anche in Umbria. A Perugia fu organizzato un Comitato Centrale per raccogliere soccorsi in favore degli abitanti di Collalto, affinché essi fossero risarciti dei danni subiti da parte delle “orde reazionarie”. Fu affisso un apposito manifesto con le indicazioni dei punti di raccolta del denaro e l’invito ai cittadini ad esprimere la loro solidarietà. Nel 1861, per effetto del referendum già menzionato del 1860, la Sabina fu annessa al Regno d’Italia, sotto la giurisdizione della provincia di Perugia. Dall’anno 1861 al 1863 il sindaco di Collalto fu Pompei Carlo, mentre, dal 20 luglio 1864 al 26 aprile 1869, fu Casini Giovanni. Il 31 dicembre 1861, nel “novello” Regno d’Italia, venne effettuato il censimento della popolazione. Rimasero escluse le popolazioni di ciò che restava dello Stato Pontificio (la città di Roma, di cui era Papa Re Pio IX,

1792-1878) e del Regno di Venezia Trento e Trieste, ultimo baluardo dell’impero austroungarico nel territorio italiano. Dal censimento risultò che la popolazione italiana era composta da circa 22 milioni di persone (precisamente 21.777.334). Nello specifico emergono i seguenti dati: 5 milioni di bambini di età inferiore ai 10 anni; 8 milioni di contadini; 1 milione tra possidenti e liberi professionisti; 4 milioni di persone impiegate nell’industria; 4 milioni sono gli indigenti, senza arte ne parte. A Collalto si contarono 1506 persone (comprese le frazioni) di cui 849 maschi e 657 femmine. La ragione per la quale furono censiti i bambini era dovuto al fatto che i 10 anni rappresentavano la soglia minima per accedere nel mondo del lavoro. Intorno al 1860 il voto non era un diritto di tutti, per potervi accedere era necessario avere determinati requisiti; ne avevano diritto solo gli uomini con età superiore ai 25 anni e dovevano avere un reddito per il quale pagavano almeno 40 lire di tasse annue. Il salario di un contadino in quel periodo era di 50 centesimi di lira al giorno (mezza lira) e l’orario di lavoro, a prescindere dal periodo dell’anno, andava dall’alba al tramonto, come si soleva dire “da stella a stella”. Chi era impiegato nelle fabbriche (in Italia per la maggioranza manifatturiere) lavorando dalle 14 alle 18 ore al giorno percepiva la paga di 1 lira se uomo e 50 centesimi se bambino o donna. Nel 1863 i cittadini di Collalto con diritto di voto, iscritti nelle liste elettorali del collegio di Poggio Moiano erano tre, mentre nel 1866 diventarono quindici. Il 13 luglio 1789, costituita dal Direttorio come propria difesa, fu istituita in Francia la Guardia Nazionale.

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Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone, molte Regioni italiane adottarono l’istituzione della guardia nazionale, che poteva essere costituita da volontari civili e veniva utilizzata per servizio pubblico e in caso di grave emergenza. La guardia nazionale collaltese, nell’anno 1866, era composta di 113 militi attivi e 77 di riserva. L’ufficio postale si trovava a Canemorto (Orvinio), dove un apposito corriere, il procaccia (postino), stipendiato dal Comune di Collalto, ritirava la corrispondenza tre volte la settimana. Intorno all’anno 1880 nella valle del Turano furono costruiti i cimiteri. In precedenza le tumulazioni si effettuavano all’interno delle parrocchie ubicate al di fuori delle mura dei castelli (extra castrum), ove c’era anche la fonte battesimale, “la chiesa è il grembo e la tomba del cristiano”. La sepoltura nelle chiese avveniva in maniera molto rozza ed era a pagamento. Si scavava una buca nel pavimento, lasciato in parte o per intero in terra battuta, vi si calava il defunto e si ricopriva alla meglio, cercando di livellare il suolo. Chi aveva possibilità finanziarie erigeva sopra la buca un sepolcro, un monumento funebre come nei moderni cimiteri che certamente non contribuiva al decoro della chiesa. Questo sistema creava inconvenienti di non poco conto: il pavimento risultava dissestato per via delle tumulazioni e l’interno della chiesa ristretto per via dell’ingombro dei sepolcri. Le esalazioni inoltre che provenivano dal sottosuolo, specie d’estate, sicuramente causavano non pochi problemi. Collalto è stato il primo paese a costruire il cimitero, ”verso il piano dalla parte che guarda Nespolo a poca distanza dal paese….”, l’attuale, ed era l’unico ad avere uno spazio per i non cattolici.

Nell’anno1895 il Conte Prendowski restaurò il castello, mal ridotto dai francesi, dandogli un aspetto vagamente fiabesco.

Alla fine del XIX Collalto aveva circa mille abitanti.

XX Secolo Alla morte del Conte Prendowski, che aveva sposato la Marchesa Cavalletti, il castello passò in eredità al cognato, Giuseppe Cavalletti. Scapolo e gaudente, il Marchese Cavalletti amava le donne tanto quanto odiava i bambini. Era frequente sentirlo invocare Erode, se capitava in ambienti ove giocavano dei fanciulli. Nel 1915 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, che terminò nel 1918 con la vittoria della coalizione cui apparteneva l’Italia. Il prezzo pagato in vite umane fu alto ed anche Collalto pianse i suoi figli morti: Tenente Blasi Dottore Gustavo, Sergente Testa Luigi, Caporal Maggiore Giuseppini Domenico, Soldati Angelini Benedetto, Censi Alfredo, Censi Benedetto, Contiliani Angelo, Damiani Damiano, D’Antonio Aurelio, D’Eliseo Domenico, De Santis Pietro, Di Casimiro Antonio, Di Casimiro Bernardino, D’ulisse Giovanni, Di Mastropaolo Francesco, Felli Settimio, Giorgi Filippo, Giorgi Giulio, Giorgi Riccardo, Giuseppini Antonio, Giuseppini Enrico, Lugli Bernardino, Macchia Alessandro, Peruzzi Francesco e Veneti Sebastiano. Nell’anno 1915 fu costruita la strada, sterrata, che collegava la Via Turanense, dalla località Casabianca, a Poggio Cinolfo quindi a Collalto; come manodopera furono utilizzati prigionieri di guerra austriaci. Nell’anno 1918 ci fu in Europa un’epidemia influenzale che causò più morti della prima Guerra Mondiale.

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Il nome che fu dato alla epidemia era “la Spagnola”, conosciuta anche come “virus dei polli”, poiché era stato dimostrato che esse avevano propagato il contagio. Alla soglia della vecchiaia, il marchese Cavalletti, stipulò un vitalizio con il Capitano dei Carabinieri Ottavio Giorgi di Petescia. Costui applaudito cavaliere di concorsi ippici, aveva sposato una ricca ereditiera americana, Claire Monfort, dalla quale ha avuto due figli: Piero e Diana. Il capitano Giorgi, avendo sostenuto finanziariamente il marchese Cavalletti, divenne proprietario del castello alla morte del nobile. Da un articolo di giornale dell’anno 1921, si ha la notizia che la corrispondenza per Collalto e paesi limitrofi, veniva ritirata dal procaccia a Carsoli e non più ad Orvinio. Il procaccia partiva da Collalto alle 6,30 del mattino per arrivare alle 8 a Carsoli (evidentemente faceva il tragitto a piedi), ritirava la posta e s’incamminava per la strada di ritorno alle ore 9. L’orario di questo servizio fu contestato dai comuni interessati, per i notevoli ritardi. Il disservizio era causato dal fatto che il treno proveniente da Roma che trasportava la posta, giungeva a Carsoli alle ore 10 ma gli addetti alle Poste non provvedevano con solerzia allo smistamento della corrispondenza che rimaneva in deposito fino alle ore 8 del giorno dopo, orario di arrivo del procaccia.

Il corrispondente del giornale “il Tempo” Enrico Tulli, fece presente in un suo articolo, che i responsabili delle Poste si ostinavano a non dare risposta alle rimostranze dei comuni interessati e di rivedere quindi modificare l’orario del servizio. Non è dato sapere se la protesta produsse dei risultati. Nello stesso anno, con l’interessamento dell’Onorevole Cingolani, fu istituita una pratica per la richiesta di un mutuo

alla Cassa Depositi e Prestiti del Ministero dell’Interno, Sezione Sanità, per la costruzione di un acquedotto a Collalto. Nell’ottobre del 1923 venne concesso il prestito ed iniziarono i lavori. Nel 1926 terminati i lavori, l’acquedotto risultò della lunghezza di circa otto chilometri ed univa Collalto a Collegiove. L’opera fu realizzata dalla ditta Passalacqua. Così finì il grande disagio delle donne collaltesi, che per approvvigionarsi d’acqua erano costrette a percorrere molta strada a piedi, con la conca, per raggiungere le fonti fuori l’abitato di Collalto dove, per altro, erano costrette a lunghe e noiose file (chiacchiere tra “comari” a parte). L’anno 1927 fu di particolare importanza per Collalto poiché cambiò regione d’appartenenza passando dall’Umbria al Lazio e, di conseguenza, provincia. Dalla provincia di Perugia passò a quella di Rieti, appena nominata tale. Tra gli anni 1932-34 i Giorgi-Monfort restaurarono il castello, apportandovi piccole modifiche. Il primo ottobre 1932 fu inaugurata la linea degli autobus, da Collalto a Carsoli stazione ferroviaria e viceversa, gestita dalla ditta Curci. L’itinerario era: Collalto, ponte Giovannetti, Poggio Cinolfo, Casabianca e Carsoli stazione, per un percorso di Km 13,500. La vettura, che poteva contenere dalle 12 alle 15 persone a viaggio, faceva due corse al giorno di andata e ritorno; una la mattina e l’altra il pomeriggio, in orari che coincidevano con quelli dei treni da e per Roma. Nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale furono ospiti nel castello personalità del mondo politico e artistico: fra gli altri il Principe ereditario dei Savoia , il trasvolatore del polo nord Generale Nobile, l’attore Ettore Petrolini, il pittore americano di origine danese Andersen.

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Quest’ultimo, peraltro, fu assiduo frequentatore del paese dove dimorò per molti anni nel periodo estivo, in via dello Stradone. L’Andersen prendeva in fitto un’abitazione di Di Bonifacio Vittoria (1905-2001), ed era solito ospitare noti personaggi quali lo stesso Nobile, il noto attore Vittorio Gassman ed altri. Negli anni antecedenti la seconda Guerra Mondiale, era in atto l’isolamento dell’Italia Fascista dalla gran parte degli Stati Europei e della conseguente “autarchia”, per via delle sanzioni cui era soggetta. Pertanto nell’anno 1937, la ditta Terni, sotto la direzione tecnica dell’ingegnere Rimini, iniziò i lavori per realizzare un lago artificiale nella valle del Turano, per conto del consorzio del Velino. Il lago fu costruito nel tentativo di produrre due miliardi di Kwh di corrente pari al 40% del fabbisogno Nazionale di allora, per sopperire all’embargo dei produttori del carbone, il combustibile più usato per produrre energia. La diga di sbarramento fu costruita nella strettoia fra la valle del Turano e Posticciola; era alta 79 metri, lunga 256 e larga 50 alla base. Essa creava un bacino capace di contenere 150 milioni di metri cubi di acqua. Il lago nacque da un disegno complesso che onora la genialità italiana, se si considera il periodo in cui venne realizzato e fu completato nell’anno 1939; subito dopo iniziarono i lavori per la realizzazione di un nuovo bacino, l’attuale lago del Salto, nella zona del Cicolano. Nel dicembre 1940 fu terminato il lago del Salto comunicante con quello del Turano per mezzo di una galleria lunga 9 Km del diametro di 3 metri, al fine di ottenere un unico bacino, benché diviso dalle montagne. Furono costruite inoltre un’altra galleria per unire il lago del Salto a Cotilia e una conduttura all’interno di essa per il

trasferimento forzato dell’acqua che alimentava una centrale idroelettrica. Successivamente l’acqua si riversava nel fiume Velino, quindi nel lago di Piediluco, alimentando inizialmente la centrale di Galletto Popigno poi anche quella di monte Argento presso Terni. Dopo Terni l’acqua arrivava alla centrale di Narni, quindi nel fiume Nera e, per la quinta e ultima volta era utilizzata per creare energia prima di immettersi nel Tevere. Se si vuole avere un’idea delle difficoltà che si affrontarono e la “tecnologia” applicata per la realizzazione del lago del Turano, si può attualmente percorrere la strada costruita per congiungere la valle del Turano a Posticciola, partendo dalla diga. . La strada fu tracciata con il metodo detto a “passo di mulo”, procedendo nel seguente modo: caricarono sull’animale un sacco di farina praticando un foro nella parte sottostante. Il mulo, camminando lungo la costa della montagna lasciò una scia bianca che indicò il percorso su cui lavorare e quando un grosso sperone di roccia ne ostacolò il passaggio, si decise di tagliarlo anziché scavare una galleria.

L’ostacolo fu superato a forza di colpi di mazza, rubando il passaggio alla roccia con notevole difficoltà e fatica.

Una volta terminata la strada, del grosso sperone di roccia, verso valle, rimase una sorta di dente canino alto almeno 20 metri, che ancora oggi fa bella mostra di sé come un monumento. Per realizzare il lago del Turano furono eseguiti molti espropri, occupati ed allagati terreni con la conseguente scomparsa delle colture di lino e canapa, che avevano trovato nella zona l’habitat naturale ed erano fonte di guadagno per molte famiglie. Con il lino si poteva realizzare dell’ottima stoffa.

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Con la canapa si ottenevano lenzuola e finissima biancheria, come la “pelle d’uovo” (di cui solo le persone anziane possono averne il ricordo) oppure dei comunissimi sacchi per il grano o corde. Nel 1940 l’Italia Fascista alleata alla Germania Nazista, partecipò al conflitto in atto: la Seconda Guerra Mondiale. La guerra finì nel 1945 con la sconfitta della coalizione cui apparteneva l’Italia ed anche in questo caso Collalto pianse i suoi morti: Sergente Cimei Carlo, Soldati D’Iginio Andrea, Felli Giuseppe, Porzi Andrea e la Camicia Nera Uri Carlo. Il 31 ottobre 1954 fu terminata la costruzione del monastero delle suore dell’ordine “Missionarie Catechiste di Gesù Redentore” e accorpata la chiesetta dedicata a Santa Maria situata in località Vapinciuni. Nell’anno 1963 fu asfaltata la strada che dalla Turanense, in località Casabianca, portava a Collalto, ma solo il tratto che arrivava al confine regionale detto “le colonnelle”. La località era così denominata per la forma cilindrica delle pietre che in passato segnavano il confine con il regno di Napoli. Il secondo tratto di strada, quello che arrivava a Collalto, fu realizzato nell’anno 1965 dalla ditta Genghini.

Alla morte del proprietario, Piero Giorgi Monfort nel 1988, il castello è stato acquistato dalla società “Quattrostelle”, il cui maggiore azionista è Massimo Rinaldi, figlio di Alessandra Latini appartenente all’antica e facoltosa famiglia collaltese.

Massimo Rinaldi ingegnere e progettista elettronico, ha raggiunto la notorietà nell’anno 1964 avendo, primo nel mondo, ideato e realizzato una calcolatrice completamente elettronica o come si diceva allora “transistorizzata”. Egli ottenne negli anni seguenti altri successi con i suoi progetti, uno degli ultimi in ordine di tempo, la realizzazione della validatrice per il gioco del Totocalcio.

L’ingegnere Massimo Rinaldi ha voluto il radicale restauro statico e architettonico del castello ponendo particolare cura nel ricreare l’epoca di massimo splendore mediante decorazioni, quadri e mobili antichi. Il Comune di Collalto, come è già stato detto, attualmente comprende le frazioni di Ricetto e S. Lorenzo, già antichi borghi della baronia. Ricetto, posto ai margini del territorio comunale ai confini con Tonnicoda di Pescorocchiano e abbarbicato su un costone di montagna, è l’ultimo centro abitato immerso in un ambiente naturale particolarmente suggestivo. L’origine del nome sembra essere collegato alla presenza di un insediamento militare nella zona avente la funzione del “ricetto” o “ricettacolo” per la popolazione della zona in caso di pericolo. Ricetto, inoltre, che si trovava a poche centinaia di metri dal confine con il Regno Di Napoli, è ricordato come rifugio o ricettacolo di briganti, che potevano attraversare facilmente i confini per sfuggire alla giustizia. S. Lorenzo invece, nacque come borgo nel XV secolo, quando gli abitanti di Montagliano abbandonarono il paese e s’insediarono nel vicino territorio ospitati da un eremita che già vi abitava e cominciando ad edificare le loro nuove case. Siamo così giunti alla fine della ricerca storica su Collalto, questa galoppata a ritroso nel tempo ci ha arricchito di una nuova e piacevole conoscenza sulle nostre origini e sui nostri avi. Una volta usciti dal binario della storia, per completare il quadro della conoscenza di Collalto, affrontiamo altri argomenti di cui il paese è stato oppure è ancora protagonista. Gli argomenti sono: le origine dei Sabini, le ricorrenze, le tradizioni, le leggende, i costumi, il dottor Staffa, proverbi e detti, dialetto, la cucina tipica e una poesia di un collaltese per Collalto.

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Mi scuso in anticipo, se la trascrizione del dialetto non risulterà corretta poiché, essendo “lingua” parlata e non scritta, è difficile stabilirne l’esatta ortografia.

Origine dei Sabini A conclusione della ricerca ritengo opportuno fornire notizie sulle teorie relative all’origine del popolo dei Sabini. Si crede che il capostipite dei Sabini e loro primo Re fosse Saba o Sabo, uno dei primi pronipoti di Noè, denominato poi Sango, Semone, Sabino, Santo e Dio Fidio, cioè uomo caro a Dio e venerato dagli uomini per santo. Saba sarebbe stato figlio di Regma, anche lui chiamato Saba e Sango, il quale era nipote di Cus, a sua volta nato da Cam, figlio di Noè. Cus, Curino o Quirino, conosciuto anche sotto il nome di Saturno, fu venerato come un nume nel Lazio, ove ebbe culto e templi. Non mancano coloro che affermano doversi ritenere Noè stesso progenitore dei Sabini e comune patriarca delle popolazioni d’Italia; vi fu persino chi ha asserito che fosse morto a Roma sul colle Gianicolo e venerato sotto il nome di Giano.

Ricorrenze Le ricorrenze più “sentite” a Collalto attualmente sono: la Madonna dell’Annunziata il 25 marzo, Sant’Antonio il 13 giugno, San Gregorio patrono del paese il 3 settembre, la Madonna del Rosario la prima domenica d’ottobre e Santa Lucia il 13 dicembre. Intorno al 1960 le feste di Santa Lucia e della Madonna del Rosario richiamavano a Collalto tanti fedeli dai paesi limitrofi.

Madonna dell’Annunziata La ricorrenza della Madonna dell’Annunziata, che cade il 25 marzo, si celebra il sabato e domenica successivi alla data suddetta. La festa coinvolge, in particolare, tutte le bambine, le ragazze di Collalto e il “festarolo” (il nucleo famigliare che ha custodito in casa la statuina della Santa Vergine per l’anno trascorso). Le celebrazioni iniziano il sabato; partendo dalla casa del festarolo, la statuina della Madonna viene portata in processione fino alla parrocchia, San Gregorio, ove viene officiata la Santa Messa. Dopo il rito, la processione accompagna la statuina della Madonna nella casa che l’ha ospitata per un anno, poi a tutti gli invitati è offerta la cena. La domenica mattina si riforma la processione, preceduta da una doppia fila di bambine e ragazze vestite di bianco che a modo di guardia d’onore, scortano la statuina della Madonna per tutto il percorso. Il corteo, raggiunta la parrocchia, fa una breve sosta, il tempo di prendere la statua grande della Madonna che viene condotta in processione portata a spalla da un gruppo di volontari; si dirige quindi verso la chiesetta di Santa Maria dove si celebra la Santa Messa. Terminata la cerimonia religiosa, la processione riprende il suo cammino, la statua grande viene ricollocata nella chiesa di San Gregorio, mentre quella piccola torna nella casa del festarolo, infine agli invitati viene offerto il pranzo. La sera, la statuina viene portata in parrocchia dove viene “scartabellato” (estratto) il nuovo festarolo, il quale custodirà la Madonna fino al successivo 25 marzo.

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Madonna del Rosario La festività religiosa della Madonna del Rosario, che si celebra la prima domenica di ottobre, ha origine antica.

Fu istituita dal Papa Gregorio XIII (1502-1585) in seguito alla battaglia navale di Lepanto che fu combattuta e vinta dalle forze “cristiane” su quelle turche la domenica del 7 ottobre 1571. Si racconta infatti che, mentre infuriava la battaglia, molti fedeli si riunirono per recitare il rosario e pregare per la vittoria finale della flotta cristiana, denominata Sacra Lega.

Quest’ultima era composta da navi di tutte le potenze navali Italiane. Il Papa Gregorio XIII volle, per ricordare la vittoria di Lepanto, che la prima domenica di ottobre di ogni anno a venire, fosse dedicata alla Madonna del Rosario.

Venerdi Santo Un’altra ricorrenza religiosa molto sentita dai collaltesi, è la processione del Venerdi Santo, le cui origini sì perdono nel tempo. La processione, che coinvolge tutto il paese, ha subito nella seconda metà degli anni 70 una modifica; è stata infatti aggiunta una parte recitata, ai passi salienti della passione di Cristo. Lucilla Colasanti, coadiuvata da Franca Tulli e Adriana Macchia, fu la prima che ne ha curato la regia della parte recitata e della realizzazione dei costumi, riscuotendo i consensi della popolazione. Negli anni successivi sotto la guida di Giovanni Porzi che ha apportato sostanziali modifiche alla parte recitata e ha reso notevolmente suggestive le scene, la processione del Venerdi Santo ha raggiunto buoni livelli, tanto è vero che attualmente l’affluenza delle persone che si recano a Collalto per assistere alla manifestazione è rilevante e i giudizi entusiastici.

Sant’Antonio Abate Il 17 gennaio ricorre la festività di S. Antonio Abate, protettore degli animali. A Collalto, fino a pochi anni fa, dopo la Santa Messa, il sacerdote impartiva la benedizione agli animali domestici. Terminata la funzione religiosa venivano distribuite delle pagnottine di pane, una per “foco”, per conto della famiglia Latini. Si racconta che un anno, nei primi del 1900, non fu rispettata la tradizione del dono del pane, ma in quello successivo venne ripresa dalla famiglia Latini, poiché in quell’anno accaddero degli strani incidenti e morirono alcuni animali. Della tradizione sopravvive solo la donazione delle pagnottine, sempre offerte dalla famiglia Latini. Oggi l’abbandono della terra ha determinato una drastica diminuzione degli animali come mucche, asini, muli, pecore, etc etc, quindi la benedizione degli stessi è caduta in disuso. La trasformazione in atto della struttura sociale è causa del lento, costante ed irreversibile abbandono della terra da parte dei collalltesi.

Madonna della Speranza Il giorno 12 settembre, festa della Madonna della Speranza, fino agli anno 70 era tradizione recarsi, muniti di un recipiente, nei giardini del palazzo della famiglia Latini, anche in questo caso promotori dei festeggiamenti; ai convenuti veniva offerta della minestra di pasta, fave e cotiche ed una fetta di pane.

Come già accennato, la tradizione è caduta in disuso.

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Le tradizioni La Pasquarella Il 5 gennaio, per antica tradizione, era il giorno della “Pasquarella” che coinvolgeva adulti e bambini che andavano di casa in casa a richiedere e ricevere in dono ciò che le famiglie potevano concedere come dolci, salsicce, vino, pane, frutta etc etc. La richiesta di doni veniva accompagnata da allegri canti:

Scenderemo giù in cantina A spiulà la meglio ‘ottePer questa allegra compagniaViva la Pasqua Pifania

Siamo quattro e non siamo ottoTutti e quattro portiamo il fagottoSiamo stanchi che è lunga la viaViva la Pasqua Pifania

……………………………………………..

Dopo aver visitato tutte le famiglie, l’allegra compagnia si riuniva per mangiare ciò che aveva raccolto. La tradizione è ancora viva tutt’oggi, ma vi partecipano solo i bambini.

“La raganella “ e “iu retrecene”

Il giovedi Santo ricorre l’anniversario della morte di Nostro Signore Gesù, per questa ragione alle ore 12 tutte le campane e campanelle delle chiese vengono legate, “attaccate”.

Alle ore 12 del sabato Santo, per commemorare la “Resurrezione di Nostro Signore Gesù, vengono sciolte, .”sciote”.

Per lo stesso motivo si coprono, con un drappo viola, tutte le immagini sacre, “cruci accappate”, per poi scoprirle due giorni dopo, il sabato Santo.

In questo lasso di tempo i fedeli rimangono orfani del suono amico delle campane che annunciano l’inizio delle funzioni religiose.

Fino ai primi anni “60”, questa mancanza, veniva sopperita con degli attrezzi rumorosi: “la raganella” e “iu retrecene”.

Per annunciare l’inizio della Santa Messa, il prete reclutava dei volontari, sia bambini che adulti, dato che di “retrecene” ne esistevano di due misure, una piccola e leggera e l’altra grande più pesante.

Ciascuna delle persone reclutate armata di “raganella” o di “retrecene” si dirigeva, ognuna in direzione diversa, verso i limiti dell’abitato, suonando lo strumento assegnato e gridando “alla chiesa, alla chiesa, sona ‘na vota”.

Dopo aver annunciato ai fedeli l’approssimarsi della Santa Messa, questi novelli banditori tornavano sui loro passi per poi ripartire suonando e gridando “alla chiesa, alla chiesa, sona du vote”.

Quest’azione veniva ripetuta di nuovo al grido “alla chiesa, alla chiesa, sona tre vote”, per la terza ed ultima volta.

Quindi anche durante la Santa Messa la “raganella” veniva utilizzata, per sopperire al suono della campanella, laddove la liturgia lo richiedeva.

Calennemajo Il primo di maggio è antica tradizione, a Collalto, fare un rito propiziatorio, il “calennemajo” (calende di maggio). Si prepara un bicchiere con del vino e una manciata di noci sbucciate. Prendendo nel pugno di una mano le noci, si pronuncia il rituale: “San Filippo e Giacomo faccio a calennemajo se

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moro vado a fonno sennò presto ritorno” detto questo si debbono versare le noci nel vino. L’espressione vuole significare che, riferendosi ai Santi Filippo e Giacomo, se le noci vanno nel fondo del bicchiere la persona che ha fatto il rito morirà, altrimenti vivrà. Nel caso che le noci rimangono sospese al centro del bicchiere, la persona sarà soggetta a qualche malessere. Dopo aver constatato il responso del rito, si beve il bicchiere di vino e si mangiano le noci. Questa usanza potrebbe avere origine da un fatto accaduto nel Regno di Napoli. Una volta nel Regno di Napoli i traslochi venivano effettuati solo un giorno dell’anno e nel mese di agosto. Stando così le cose gli addetti ai traslochi, per guadagnare di più, erano costretti ad un lavoro massacrante a causa dello scarso tempo a loro disposizione. Quindi la grande stanchezza sommata alla disidratazione, dovuta al caldo del mese di agosto, erano causa di svariati decessi tra gli addetti ai lavori. Dopo tante proteste fu spostata la data dei traslochi e scelto il mese di maggio, il giorno dedicato ai Santi Filippo e Giacomo. Oggi i Santi Filippo e Giacomo vengono ricordati il tre di maggio.

Leggende C’era una volta.…..….si racconta che…...…nonno mi raccontava…. Ci sono degli episodi realmente accaduti tanti o tantissimi anni fa, divenute poi nel tempo, leggende, oppure l’esatto contrario.

I quattro Vescovi Un esempio simpatico e particolare è quello della leggenda dei quattro Vescovi, della cui origine non si ha memoria, l’unica cosa certa è che l’episodio potrebbe essere avvenuto nel medioevo. Si racconta quindi che ogni anno quattro Vescovi consumavano un pranzo all’aria aperta in località S. Angelo, sotto Poggio Cinolfo, non distante dal fiume Turano; precisamente nei pressi della fonte detta oggi “dei sette Vescovi”. Nel punto suddetto convergevano e tuttora convergono i confini di 4 paesi: Poggio Cinolfo, Collalto Sabino, Vivaro e Petescia (Turania). La tavola imbandita era posta sul punto d’incontro dei 4 confini e i commensali si sedevano ognuno sul terreno della propria Diocesi; per Poggio Cinolfo il Vescovo dei Marsi, per Petescia quello della Sabina, per Vivaro quello di Tivoli e per Collalto Sabino quello di Rieti.

La ragione per la quale si tenevano questi convivi non è dato sapere, rimane la particolarità dell’episodio.

San Giovanni in Fistola A nord di Collalto, sulla vetta dell’omonimo monte, ci sono i ruderi dell’abbazia di S. Giovanni in Fistola e la chiesetta, oggi ridotta quasi un rudere. Il 24 Giugno, festa di San Giovanni, un tempo gruppi di fedeli si recavano alla chiesetta per assistere alla Santa Messa e, dopo colazione, organizzavano giochi. I fedeli però, per raggiungere la vetta del monte dovevano sottoporsi ad un rituale che consisteva nel depositare sul “macerone dei frati”, collocato a 60 70 metri dalla chiesetta, un sasso raccolto strada facendo. Il rituale serviva ad evitare di dover “incollare la vecchia” (“incollare” sta per “mettere sulle spalle”)

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Il detto “incollare la vecchia” si riferisce ad una antica leggenda, e racconta di una vecchia, di nome Cleomira, guardiana di un tempio posto sul monte San Giovanni dedicato alla Dea Vacuna (Dea del tempo libero): Alcuni barbari attaccarono il tempio, lo depredarono, ed uccisero la guardiana, la quale prima di morire invocò la Dea e le chiese di punirli. La Dea punì i barbari facendoli precipitare con i loro cavalli in un burrone, vicino un fiume chiamato “Resfonnato” (Rio Sfondato). La vecchia guardiana fu seppellita nello stesso punto dove ora sorge il già menzionato cumulo di sassi detto “macerone dei frati” e la leggenda conclude dicendo “chiunque affronta la salita e non si carichi di una pietra da depositare sulla tomba, dovrà sopportare sulle spalle il peso dell’anziana custode”.

Costume caratteristico Per descrivere il modo di vestire delle donne collaltesi nei secoli passati, ho trovato interessante trascrivere integralmente un articolo di giornale, del già citato corrispondete Enrico Tulli, scritto nel 1921.

“Costumi caratteristici dell’alta Sabina” Tra le caratteristiche dell’alta Sabina Baronale, restano ancora vive nel popolo la foggia di vestire e la cerimonia nuziale. Come tutti i costumi, quello sabino soddisfa pienamente l’ambizione femminile e alla praticità della vita campestre. L’abbigliamento si attiene a queste norme: veste ampia a colori con crespe e grembiule (zigare) quasi sempre bianco; busto esterno sempre colorato; corpetto liscio quasi sempre di colore della veste con maniche corte sino al gomito; fazzoletto per le spalle (pannespalle) e per la testa (mantile)

dello stesso colore e stoffa del grembiule, fermato da uno spillone detto spadino e da una spilla con ciondolo detto tremantino. Secondo la condizione sociale della donna, la foggia di vestire può essere più o meno ricca, dalla veste di broccato e pizzo a quella di cotone.

I colori preferiti sono, il verde, il rosso e il turchino. L’eleganza sta nell’affinare la vita e nel portare calze a fondo unito con puntini colorati.

Nei giorni di festa per andare alla Messa la donna indossa mantile o pannespalle sempre bianco.

Il Dottor Attilio Staffa

Ritengo doveroso citare e giustamente inserire nel contesto storico collaltese, un cittadino che il paese ricorda con riconoscenza, il dottor Staffa Attilio, affinché nel tempo non sia dimenticato. Il dottor Staffa nacque a Falconara Albanese (Calabria) nel 1899 e giunse a Collalto nell’anno 1930 come medico condotto. Conquistò subito l’ammirazione e benevolenza della popolazione per la sua alta capacità professionale e la sua dedizione al malato, come accade per chi della medicina ha fatto una missione scaturita da una vocazione. In quegli anni la malattia che mieteva più vittime era la tubercolosi; il dottor Staffa, che era specializzato in tisiologia, ne divenne un esperto al punto tale che giunse ad avere in cura i malati di 36 paesi del circondario. Sono state tantissime le persone che sono guarite dalla tubercolosi con le sue cure, inoltre la sua alta competenza gli consentiva di curare con ottimi risultati anche le altre malattie.

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Il dottore Staffa aveva creato a Collalto la struttura Sanitaria “Dispenseria Antitubercolare”. Vicino la torre del castello faceva bella mostra di sé un cartello con su scritto “Stazione Climatica” e la croce di S. Andrea a lato: l’aria pulita dei mille metri di altezza dava effetti benefici ai malati di TBC. Con l’aiuto della sezione del partito fascista collaltese e, si racconta, di una “bugia”, il dottor Staffa chiese all’Autorità competente il macchinario per i Raggi X, erano gli anni intorno al 1940. La “bugia” consisteva nel fatto che, avendo in cura malati di tubercolosi provenienti dai 36 paesi già citati, il dottore pensò di farli figurare tutti residenti a Collalto. L’elevato numero dei malati nel paese avrebbe infatti certamente aumentato la possibilità di ottenere la macchina per i Raggi X. La popolazione collaltese non fu contenta della “bugia” del dottor Staffa che presentava Collalto come un paese con un eccessivo numero di malati di tubercolosi. La nomea infatti ebbe come conseguenza il crollo della richiesta dei mietitori nella campagna romana, provocando una notevole perdita finanziaria. Ci furono quindi accese proteste da parte della popolazione, ma non modificarono la situazione e così il dottor Staffa ottenne il desiderato macchinario per i Raggi X. Lo stesso macchinario esisteva solo a Rieti; questo fattore fece aumentare ulteriormente l’impegno del dottore, perché sempre più numerosi si rivolgevano a lui pazienti bisognosi di una radiografia. Nell’anno 1960 il dottor Staffa lasciò Collalto per andare a dirigere un ospedale a Rimini, in seguito quello dei Cavalieri di Malta “Buon Pastore” di Roma.

Nel 1961 si ritirò dalla professione a causa delle radiazioni che aveva assorbito lavorando con il macchinario dei Raggi X. Le radiazioni infatti gli causarono la deformazione delle mani e minarono la sua salute in maniera irreversibile. Il dottor Staffa andò a vivere ad Anzio dove morì il 10 novembre 1967. Ora riposa nel cimitero di Collalto, il paese da lui tanto amato e che tanto lo amò.

Proverbi e detti collaltesi

Chi non pòtte vatte j’asinu, vatté ju mmastu.

Non va a chiégli bene se non va a cacchiégli male.

Ha trovatu Cristu a mète e San Pietro a récoglie.

Tè’ la magnaóra bassa.

Acqua e chiacchiere ‘on fau frittégli.

Le cóse ‘nfrì ‘nfrì se nne révau ‘nfrà ‘mfrà.

Chi fa ‘n pórco j’allèva rassu, chi fa ‘n figliu j’allèva mattu.

Sotto la ficora ce nasce ju ficurigliu.

Chi nasce de caglina ‘nterra ruspa.

L’acqua ‘élla Rocca a nui ‘n ce tòcca.

O paglia, o raglia!

Si’ còmme la cóttóra: o tigni o cóci.

La vatta prescigliósa fégge i figli ciéchi.

‘N so’ pe’ j’asini i convétti.

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Asinu che non védde mai bardella cent’anni se nne fégge meraviglia.

Chi ‘n te conosce caru te sse compra.

“Te conoscio mal’erba” disse ju cuiu alla urtica.

Dio te sarvi da tóniti e lampi e dalla fame dei musicanti.

Partita rarrivata ‘n fu mai vinta.

Natale aju macchióne, Pasqua aju cantóne.

Se piove agli 4 abbrilante piove 40 giorni filante.

S’ha fattu prima ju mmastu e pó’ j’asinu.

Si’ più stupidu ‘ell’acqua ‘elle cucòzze.

La merla primaròla de’ marzu féda l’òva, d’abbrile so’ j’uccégli , de maju so’ più bégli.

Se febbraru ‘n febbrarìa, marzu e abbrile rapparìa.

Chi l’ha messa, la lèva.

La farina ‘eju diavuiu se nne va ‘n crusca.

Acqua passata ‘on macina più.

Finita la festa gabbatu ju santu.

‘N cuiu scì ‘n capu no.

Alla Trinità se canta allo révenì.

Trótto d’asinu póco dura.

Chi penza a ora magna a témpo.

Chi giovane se governa vécchio mòre.

Quanno te dice male móccecanu pure le pecora.

‘Na calla è bòna pure quanno se mète.

Se piagno ‘on pòzzo ‘ngollà.’.

A magna’ chi magna magna, a beve tantu pirunu.

Lo sangue ‘on è acqua.

J’asinu repòrta la paglia e j’asinu se lla magna.

Pasqua ‘on vè’ se la luna de marzu pina ‘on è.

Era de maiu e se fégge notte.

Te retòcca ju santu pure oi!

Tè paura ma ‘on tremi.

A chi gli féda pure ju valle, a chi mancu la caglina!

Bee fa la pecora e j’upu se lla magna!

La pecora che fa bee perde j‘occone.

Addó ‘on ci sta ju guadagnu, la reméssa è certa.

Aju zappu ji fa male la trippa e la crapa strilla.

Ju vattu che ‘on pòtte arriva’ allo lardu disse che sapea de rancicu.

E’ partitu asinu, è rivinutu pucittu.

Manca sempre ‘n sórdo a fa ‘na lira.

Chi tróppo raru cerca, conciatura trova.

Durasse ‘n signore a palazzu quantu dura la nève de marzu.

Bòtte, carcerati e trenta paui.

Chi tè’ i sórdi mura, chi ‘on gli tè’ pittura.

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Chi lavora magna, chi ‘on lavora magna e beve.

‘Na ‘ngustia caccia l’ara; tutt’e dua caccianu le mani dalle saccòccie.

Chi béglio vo’ appari’ ca’ pena ha da pati’.

Quanno Céria se mette ju cappéglio ‘on scappa’ senza j’ombréglio.

Quanno j’òmo sfurtunatu nasce, finu a quanno ‘on se lla piglia ‘n cuiu ‘on la finisce.

Ju vattu male usatu quello che fa gli va pensatu.

L’óglio dagli sassi ‘on ce pò scappa’.

Quanno tòneta de jennaru remitti la rusura aju pagliaru.

Chi ròtta è ‘n pórco, chi scoréa è ‘n signore.

Tu parla quanno piscia la caglina.

Cristu fa le montagne pó’ ce fiòcca, fa i cristiani pó’ j’accòppia.

Chi va co’ ju cioppo se ‘mpara a cióppeca’.

‘Na bòtta aju circhiu e una alla ‘ótte.

A ‘na parte ha da pènne ju mmastu.

Roma: i vécchi j’ammazza e gli giovani ji dóma.

Lo tróppo attrippa.

Chi ténéa ju fóco campò e chi ténéa lo pane se mòrse.

I lavuri fatti de notte se revidu de giorno.

Chi ‘n tè’ la casa, la cerca.

Chi tè’ lo pane ‘n tè’ j’enti e chi tè’ j’enti ‘n tè’ lo pa’.

Quanno ju bòve ‘n vò’ ara’ ‘onn ara.

Piu rusciu e cane péttatu ammazzuju appena natu.

Ju bove disse curnutu aj’asinu e j’asinu ji respóse récchióne.

Bruttu fume fa la pippa!

Figli cichi guai cichi, figli róssi guai róssi.

A capo abballe s’arrucicanu pure li ciócchi.

I sórdi mannanu l’acqua a capo ammónte.

Anni e picchiéri ‘e vinu ‘on se contanu mai.

Chi soménta spini s’ha da fa le scarpi bòne.

Attacca j’asinu addó dice ju padrone.

Lo pane ‘e j’ari tè’ 7 cróste e la più tòsta è la muglica.

‘On chiama’ San Duminicu prima de vede’ la sèrpe.

Ma’, Peppe me pizzica! Pizzica Pe’!

L’acqua spalla i ponti e allaga i piani; penza che po’ fa aji corpi umani!

Ju meglio sirricchiu aju capannu.

Si’ mannatu ju corvo pe’ ciccia.

Si’ raccumannatu le pecora aj’upu.

L’ora deju cazzu mattu passa a tutti.

J’au misso a pane ‘e ranu.

Sta a canzona’ i ciéchi.

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Chi ‘on tè’ gnente da fa se fa cazzótti aj’ócchi.

Póchi, maliditti e subbitu.

Le pecore aj’upu e ju montone a sòreta.

Tu ‘on si’ de razza còrridóra.

I préti so’ mercanti: se vinnu Pietro, Madonna e santi.

Se lavora pe’ campa’, ‘on se campa pe’ lavora’.

Da’ a beve aju prète che ju chiricu ha sete.

La vecchia che ‘on se voléa muri’, più sta più ne voléa sapi’.

Se vó’ j’agliu ‘ncaporatu a Natale ha da essse natu.

La femmóna che zézzeca l’anca, se ‘n’è puttana póco ce manca.

‘Na mamma po’ campa’ cénto figli, cénto figli ‘on so’ capaci de campa’ ‘na mamma.

Quanno fiòcca a confettigli, póraccia la mamma co’ tanti figli.

Ciéio a pecorelle, acqua a cottorélle.

Quanno tira tramontana batte ju cuiu alla campana.

Ju piru quanno è fattu casca sóio.

Dagli e dagli le cipolle diventanu agli.

Ju vattu alla dispensa quello che fa penza.

La pigna crètta gira cént’anni pe’lla casa.

Omo de vinu ‘on vale un quattrinu.

Ce refa’, se vede ch’è dórge.

Tróppi vagli a canta’ ‘on se fa mai giorno.

La ruvina aji arruvinati ji passa a mmézzo alle cianghe.

Ju più pulitu tè’ la rogna.

Puzza de palle ‘ncatenate.

Puzza addó passa.

Ju figliu deju carzolaru va scauzu.

Peppe pe’ Peppe, me tèngo Peppe meo.

E’ partitu pe’ frega’, è rivinutu fregatu.

Chi ‘on è bóno pe’ ju re ‘n è bóno mancu pe’ la reggina.

Ognunu sa sé e Dio sa tutti.

Chi presta deserta.

Le cóse c’allonganu piglianu viziu.

Chi fa bene, appiccaju.

Ficca ju capu addó ju diavuiu s’appatólla.

‘On ‘ntrica’, ‘on tarda’ e ‘on fa la sicurtà, che te lla tòcca paga’.

Chi se ‘mpiccia degli affari artrui, de tre parti ji nne tòccanu dua.

E’ meglio un giorno a ardi’ che cénto a fumegà.

La femmóna mannarina ‘on alleva né pórco né caglina.

Alloggia quanno alloggia la caglina e quanno ju valle canta tu cammina.

Dio te sarvi dagli póveri arriccati e dagli ricchi ‘mpoverati.

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‘On t’affila’ a chi ha filatu e ‘on i’ ‘n’opera co’ chi c’è stato.

Chi dorme ‘on pècca, ma mancu magna!

Quaranta molenari, quaranta macellari e quarant’osti so’ céntovinti ladri giusti giusti.

Un occóne bóno ‘on grassa, ma raffiata.

I frascaregli ‘mpeganu i piatti.

Gli guai della pigna ji sa iu copérchio che l’accappa.

Chi della róbba dej’ari se veste, présto se spoglia.

La ruvina è degli arruvinati.

A chi tòcca ‘on se ‘ngrugna.

Tutte le mosche agli cavagli stracchi.

Chi ‘on ‘ngrassa le scarpi, ‘ngrassa i carzolari.

Ogni morte è ‘na scusa.

Chi tróppo abbraccia nulla stregne.

Fa’ del bene a certa gente è còmme pista’ l’acqua aventro aju mortale.

Fa’ del bene e scòrdatenne, fa’ del male e penzace.

Scappa de fore e chiedi consigliu, reentra a casta e fa’ còmme te pare.

Chi tardi arriva male alloggia.

Acqua e fóco Dio gli dia lóco.

Pasqua Bifania tutte le fésti se porta via, arevè’ San Binidittu se nne porta ‘n saccoccittu.

Santa Barbera, Santa Lisabetta sarvatece da ogni saetta.

La caglina cieca la notte ruspa.

Sta a cerca lavuru e prega Dio de ‘on trovagliu.

Rii, rii che mamma ha fatt’i gnocchi.

Chi rie de venardì, piagne sabbatu, domeneca e luneddì.

‘N compagnia piglia moglie pure ‘n prete.

Chi tè’ tanti quatrini tantu conta, chi tè’ la moglie bella

sempre canta.

Se móru più abbacchi che pecore.

Se magna pe’ remagna’, se beve pe’ rebbeve.

‘On si bóno mancu pe’ cancegliu aj’órto.

La casa sea ‘on mena guerra.

Te sse ‘ncanala l’acqua pe’ ju canale.

Ju létto allètta.

Co’ ju témpo e co’ la paglia se maturanu le nespole.

Iu ciéio a fa’ friddu e nui a trema’.

Alla fine se recontanu le pecore.

’On magna pe’ ‘on caca’.

Dopo tantu rie vè’ tantu piagne.

Chi me battezza m’è compare.

Te va ju capu ‘n tridici.

Pure i puci téngo la tossa.

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‘On si bóno a caccia ‘n aiuccu da ‘n buciu.

Ragno, ragno quantu m’abbusco tantu me magno.

Ciuì, ciuì quello che té’ ‘n mani ‘on te llo fa’ fui’.

Du’ péi aventro a ‘na scarpa ‘n ce pózzo entra’.

Ognunu all’arte sea e j’upu alle pecora.

Quello che meo ‘on è, de mamma fosse.

Lo be’ ‘n se po’ dura’, lo male pe’ forza.

Chi vò’ fa’ ‘n bon rapugliu j’ha da somenta’ de lugliu.

Una vòta passò Carlo pe’ Fucinu.

Ogni bòtta ‘na ‘ntacca.

‘Nha fatte quant’e Carlo ‘n Francia.

‘On è bóno né a fótte né a fa’ la guardia.

Co’ la róbba mea….e vè’ a bballe.

Se mòre prima ca’ asinu a ca’ pover’omo.

Tè’ da fa più quigliu che chi se mòre de notte.

Ha refattu le sette chiese.

Me rengricca lo pa’ addó ‘on c’arrivo.

Do ‘n cuiu aju vénto e faccio i figli volenno.

Se era pecora mo’ mo’ magnea.

Madonna mea recacciace allo largu.

Va a mette i prézzi alle saraghe.

Meglio ‘na passonata forte che sette pianu pianu.

Si remastu più arreto della coa dej’asinu.

Quigliu puzza più da vivu che da mórto.

La biastima gira, gira casca ‘n capu a chi la tira.

Tutti i mórti si j’ha da piagne Marta, chi se la piagne Marta quanno è mórta.

Ecco ce remettemo l’unguénto e le pezze.

Fa’ prima a zompagli ‘n capu che a giragli ‘ntorno.

Mai sabbatu senza sole, mai donna senz’amore.

Lo friddu de marzu sfonnò le corna aju bòve.

Ju cucule fa un’arte sòla.

Chi tantu a lavora’ e chi a tantu spassu, chi se beve lo vinu e chi l’acqua deju fosso.

Chi aju piccu , chi alla pala e ju fesso alla carriola.

Aju cavagliu biastimatu ji reluce ju piu.

Una ne penza j’asinu e cénto j’asinaru.

Chi cammina ‘nciampa, chi ferra ‘nchioa.

Chi vive de speranza, co’ pane e lengua pranza.

Commanna e fa’ da te si servitu còmme ‘n re.

Chi desperatu vive, disperatu mòre.

Quanno se mète se mète.

Lo sangue degli poveracci piace a tutti.

Disse la merla aju turdu: “Senterrai ju botto se ‘on si surdu!”.

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Fatte la nomina bòna e po’ fa la zoccola.

Ammazza, ammazza è tutta ‘na razza.

Se la femmóna ‘on vò, j’omo ‘on po’.

E’ Bambinu o nonnè Bambinu?

Chi non s’accomda da vivu… penza da morto!

Fugni e fregne non se ‘nsegnanu a chiégli.

Chi beve e chi se ‘mbriaca.

A Collautu unnici mesi de friddu e unu de friscu.

Hau da piscià tutti addó piscia Giordano.

E’ cane de tutta caccia.

Non si bóno né a chiacchera’ né a statte zittu.

Non se move foglia che Dio non voglia.

Sta a ‘nsegna’ la messa agli préti.

E’ meglio esse ‘nvidiati che compatiti.

Ferragustu è capu d’immérno.

Ju pucinu reporta a spasso la iocca.

In guerra ogni buciu è trincea.

Arrivi sempre dóppo i fóchi.

Si gli sta a frana’ sempre la terra sotto i péi.

T’aiutanu tutti a capu a bballe.

E’ bella ma ‘on parla.

‘On te vurria esse mancu pedalinu.

‘On se cce vede mancu a biastima’.

Te vè’ ‘nacqua appresso…

Fa’ quello che ju prete dice, no quello che ju prete fa’.

Se sa quanno se parte, non se sa quanno s’arriva.

Gli spinaci se recocio co l’acqua sea.

La coa è la più difficile da scorteca’.

Prima de Natale né friddu né fame; dóppo Natale friddu e fame.

J’omo séi e ju pórco otto.

Febbraru giorno e notte è paru. Quissi so’ sassi che’n se cóciu.

Dialetto Collaltese

Abballe giù' in basso Abbotà pulire il grano dopo la trita Acchiapò esclamazione di meraviglia Accottorati presi nel discorso, compatti Àccui corda per legare le cose al basto

Àccule anelli di legno attaccati al bastoAccurrùta richiamo, per es. ” la iocca

accurruta i pucini”Acqua cotta zuppa di zucchineAfferraturu arnese per uccidere i maialiAffiaratu si dice di animale o di persone che cerca

di aggredireAffilatora spiraglio da cui passa una corrente di aria

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Aggallettatu Abbacchiato, con poco vigoreAgghiaià non si mastica oppure cosa faticosa Alèstri semi di una erba selvaticaAlla serena lasciare qualcuno o qualche cosa all'aperto

di notte al freddoAllettatu persona a letto perché malataAmmacchiatu persone o animali rifugiate nel folto degli

alberiAmmaglià smorfie fatte con la bocca dai somariAmmannitu preparato, allestito, appassitoAmmattucciatu sgualcito Ammattuta incontrata per casoAmmero legno ricurvo che serviva ad appendere i

maiali per la macellazioneAmmone pezzo di gamba posto sopra il ginocchio

del maialeAmmonte su in altoAmmorgià non reagireAppaglià mettere da mangiare agli asiniAppatollate detto di galline appollaiateAppettata salita molto ripidaAppicoglio portato sulle spalleAppittiricatu qualcuno salito molto in alto senza

l’ausilio della scalaAquiglioio trapano a mano per bucare le bottiArcone cassa di legno per conservare il granoArdita pecora femmina con la campana che

guida il greggeArfiero detto di persona combattivaArquigliu boria (abbassa le penne)Arrabbiuu esclamazione di disappuntoArrone palo con dei rami che serviva come

sostegno per le vitiArzegogole fare le moine

Assamera chiacchiericcio inconcludenteAssassinatu nel senso di bagnatoAttraccià' passare nel mezzo Avà esclamazione di stuporeAzzimelle dolci tipici nataliziBarbaglie guanciali del maialeBardella lana che non si tosava sulla schiena

negli agnelli più giovani, fatica, sudataBarzotto si diceva di formaggio non ancora

induritoBarzu legatura dei covoniBibbigasse vecchie cucine con due o tre fornellettiBiferine mucchi di neve fatti dal vento mentre

nevicaBraccioio ramo dell'albero che sostiene la viteCallarozzo grande paiolo nel quale bolliva l'acqua

usata per pelare il maialeCama foglioline del grano separate dalla

trebbiaturaCamele aggettivo dispregiativoCanalicchia canalina che si metteva sotto lo zaffo

per raccogliere le gocce di vinoCanneleroCannelle

persona molto altacanne infilate sulle dita per non tagliarsi durante la mietitura

Capiti rami della viteCapizzinu cordino che si legava attorno alle corna

dei buoiCapoccio nome dato ai funghi porcini di media

grandezzaCapurriata colpo dato con la parte posteriore della

zappaCardamacchi pelli di pecora che i pastori si mettevano

sul davanti

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Carracciu piccolo fosso in cui scorre l'acqua piovanaCarrapone grossa pianta di castagno vuota con

apertura da un latoCaulaCauticchia

rubinetto per la bottetinozza piena di panni coperti di cenere per l'ugada

Cautu buco per il passaggio delle gallineCavicchiaCeppe

chiodo che ancora l’aratro al giogopunta dell'aratro di legno alla quale siattaccava la umera

Chioo chiodo di legno per fissare la coacchia all'aratro

Ciaramegli ghiaccioli che si formavano dai tetti per lo scioglimento della neve

Ciaula

Cicciatu

tipo di uccello, si dice anche di persone che parlano moltosi dice quando dei frutti o dei semi germogliano

Caocchia attrezzo che serviva per tenere l'aratro dritto

Cocchi buccia dei chicchi di uvaConceri anelli per legare la stanga dell'aratro al

giogo (juu)Concia pulitura al vento del granoConocchia serviva per filare la canapaCrivella piccolo trapano a manoCrivigliucciu setaccio per pulire i legumiCucchiari castagne poco sviluppate all’interno

del riccioCucozzata

Cupelle

durante il disgelo neve impastata con l’acquapiccole botti da 5 e 10 litri

Curioi lacci per scarpe e scarponi fatti con cuoio o pelle

Dà picciu iniziare a fare qualche cosa, afferrare unapersona per aggredire

Demollà mettere a bagno i panni prima di lavarliDè ‘nfrascu pane o pizza fatti con farina di grano e di

maisEcc’attorno qui intornoEnnece

Ess’attorno

uovo, anche finto, che si metteva nel nido delle galline per far fare le uova li intorno

Fascittu piccolo fascio di legnaFetane deporre le uovaFianchelle nome dato ai fianchi di persone o animaliFiucculia quando nevica radoFrascaregli pasto fatto di acqua e farina, veniva dato

alle partorientiFrocette anelli che si mettevano al naso dei buoiFroscia foglie secche cadute per terraFugnu 'nfraò fungo “grifola frondosa”Funnacchiu depressione del terreno tra due collineFurracchia bastone spaccato sulla punta usato per

cogliere i grappoli di uvaGnaccara pettegola, molto scioccaHa refattu faccia si dice di persone che rispondono male o

di cose digerite maleIeri addemà ieri l'altroIerimmattina ieri mattinaJonte corde per legare i buoi durante l'araturaJuera punta di ferro per l'aratro di legnoJure scintille del fuocoJuu attrezzo che si metteva sul collo dei buoi

per legare la stanga Labberone aggettivo dispregiativo di chi ha le labbra

grosseLamà Franare

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LamatuLamatura

FranatoFrana

L'ara notte ieri notteLeccafarre schiaffo dato con molta forzaLentala invito deciso a smettere di fare o dire

qualche cosaLoc’ attorno li intornoLoggio si dice di persona molto alta e un po’

addormentataMacinula attrezzo per lavorare la canapaMannarina donna che pensa troppo a se stessa ed

anche un po’ scioccaMannati spighe di grano che cadevano durante

la mietituraManocchioMantacittu

fascio di granopiccolo mantice per dare lo zolfo alle viti

Marcatutu epilessiaMastere legni anteriori e posteriori dei masti

Mazzabugliu insieme di genteMe ‘ncaglio cedo, mi abbandonoMizzuro parte centrale della testa della botteMascari persone mascherate, usato anche come

dispregiativoMette a vau

Mmastejo

far passare le pecore in un varco perla mungiturasecchio di legno per la vendemmia

MmastuMmolle

bastoarnese per sistemare il fuoco acceso

Moletta intestino di maiale usato per fare i sanguinacci o lo strutto

Morcone pezzo di bastone sporgente, ramo non tagliato alla congiunzione

Morrone terreno in discesa con molti sassiMrone vuol dire non al centro ma di lato

Munnuiu attrezzo che serviva per pulire il forno dalla brace

Naticchie ganci piccoli in legno che servivano per tenere chiusi gli scuri

Ncacazzatu si dice di persona seduta senza fare nienteNcagnati persone che non si parlano più Nca’nnoegli da qualche parteNcapunitu deciso a fare quello che sta facendo ad

ogni costoNcollate portare qualche cosa sopra le spalleNcollatu portato sopra le spalleNcordati muscoli o cose rigidi come una corda

bagnataNcottorate si dice di cose cucinate e mangiateNdrillingu malattia delle mucche “te pozza da un

ndrillingu”Nebbiaru nebbia molto fittaNfantigliole malattiaNfrociàoNfrociatu

sbattere o incastrare frontalmentepersona che ha sbattuto

Ngrillatu si dice di un uomo che è eccitatoNgrugnato rimanere male, fare il muso lungo o

prendersela per qualche cosaNnoegli da nessuna parteNsenecà impicciarsi ed intromettersi nei

discorsi altruiNsugliatu molto sporco o che si è rotolato per

terraNtincatu essersi irrigiditi per il freddoNtriminti nel mentreNzippulà fomentare facendo delle insinuazioniOta a mollore durante l'inverno quando la temperatura

si alza e il ghiaccio si ammorbidiscePampani foglie della vite, detto anche di orecchie

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molto grandiPampanizze si dice quando animali o persone si

impuntano o si alteranoPanonta piatto tipico fatto con salsicce e pizza

cotta sotto il fuoco ed unta con il grasso delle salsicce

Pastenacici pianta grassa commestibilePastenaturu terreno molto fangosoPatugliu gallinaio, casa delle gallinePecone parte inferiore di un fungo, di un tronco o

di una verduraPennazzà persona che per il sonno inizia a chiudere

gli occhi Pennecchie grossi fiocchi di neve Pennelero persona molto alta Pennelle parti laterali della testa della botte

Pertecà fare la maggese con la pertecaraPertecara aratro Pezza pezzo di stoffa legato sotto la pancia dei

montoni per non permettere la montaPiantarrone nome dato alla cartoccia fatta con la vangaPiegature salsicce lunghe circa 1mtPieghe rami della vite che si legavano ai rami

dell'alberoPieme piena di un fiume oppure acqua che

scorre per strada dopo un temporale Pipinara grande assembramento di persone che

parlanoPipita malattia che colpisce la lingua delle gallinePistacannavicchiu persona leggera e che non riesce a stare

fermaPizzuco bastone appuntito che serviva a forare il

terreno per piantare le piantinePretorella sgabello con tre piedi che serviva per la

mungituraPrimarola pianta o animale che anticipa la stagione

della frutta o dell'accoppiamentoPulla polvere che si produceva durante la

trebbiaturaPuzzoio piccolo pozzo nelle cantineRaganella

Rancata

arnese rumoroso per sostituire le campane nella settimana Santagrano che si prendeva in una mano durantela mietitura

Ranzoi tipo di precipitazione più dura della neve ma più morbida della grandine

Ranzuischia quando cade un particolare tipo di neve (ranzoi)

Rappoingà cucire in modo frettolosoRasora arnese per raccogliere la farina quando si

impastaRazzinnà fare sì che i piccoli animali bevano il latte

dalla madreRecapotatu vuol dire che il vino è andato a maleRecretta ferita che non si rimarginaRemissinu piccolo recinto all'apertoRincriccatu messo in una posizione poco sicura

ed abbastanza in altoRenfossà interrare una vite per farne nascere

una nuovaRentortà mettere a bagno cose di legno tipo

botti o martelli per farli ingrossare Reppa dislivello del terreno che sale quasi

verticalmenteResicu ramo della vite con le gemme che

restava dopo la potatura Respigne pianta commestibile con le foglie

leggermente spinose

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Retrauiu arnese per ammucchiare il grano oppure persona che cammina lentamente

Retraula attrezzo per lavorare la canapaRetrecene arnese rumoroso per sostituire le

campane nella settimana santa Rincriccatu

Rimmelle

messo in una posizione poco sicura ed abbastanza in altopezzi di carne di maiale, appena macellato,asportata per preparare il pasto per ilmacellaio e i suoi collaboratori

Rippiu erba infestante che cresceva nei campispecie in mezzo al grano

Risciui pasta che si recuperava grattando la tavola dopo aver impastato

Ronzane grosse gocce di acqua che cola dai tetti Rostera padella bucata usata per cuocere le

castagneRucella rimanenze di fieno nel pagliaio, fungoRusura rimanenze di fieno nel pagliaioSaraminti resti della potaturaSarvognunu esclamazione di preoccupazioneSaucione grossa pianta di saliceScacchià pulire la vite dai rami o anche

rottura di giunzioni o cucitureScapicollasse cadere in malo modo o anche andare

di frettaScarpurì pulire gli zoccoli degli animali prima

che vengano ferratiScarracciatui si dice di acqua uscita dal fossoScartocci foglie che coprono la pannocchia Schiariche schegge di legno di diverse formeScicià sgranare il mais o i legumiScifa piatto di legno di forma rettangolare Scinicarola arnese per far uscire i chicchi dalla

spiga di granoSciuerghetta furba astuta ma buonaScommerdate sporche di escrementi, si dice in

particolare delle pecoreScota manico di attrezzi di media lunghezza Scunocchiate

Scupellata

si dice di cose animali persone che sono rovinate piegate messe maletermine che di solito indica una pianta cava

Scupigli pianta simile alla ginestraScurà lavorazione delle castagne messe a

bagno per conservarleSdevezzatu cambiato strada, instradato, pronto per

la vitaSdraiozza detto di persona sfaticataSeneca oppSerpe rospara

persona impicciona che si intromette nei discorsi

Sfrizzui pezzettini di grasso cotti per fare lo strutto

Soa animale che non procreaSoeglio bricco fatto di rame o di legno di

forma quadrangolare utilizzato perattingere l’acqua

Solletrone si dice di una brutta cadutaSomentatu sparpagliato, seminatoSommonnà tagliare l'erba nei campi di castagne

prima della raccoltaSoo terreno incoltoSparra fazzoletto piegato che le donne si

mettevano sul capo per trasportare pesiSparrozza grande fazzoletto a quadri utilizzato per

avvolgere il cibo per chi lavorava nei campi

Sperella raggio di sole che colpisce una zona

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ristrettaSpianatora tavola sulla quale si impastava o si

mangiava la polentaSpresciareglio tavola con le spondine usata per

spremere il formaggioSpuntatu si dice quando il vino prende il sapore

dell'acetoSquagliareglio arnese di legno per girare la polenta

o il formaggioStaccetta serraturaStaglittu stalla molto piccola di solito usata per

maiali o gallineStajoi paletti che di solito si usavano nelle

recinzioni per gli animaliStammuccu pianta del granturco che rimaneva

nel campo dopo la raccoltaStraccale fascia del basto che passava sulla

schiena e sotto la coda del mulo o asinoStrinaSubbia

vento molto freddoarnese per bucare cuoio o pelli

Suffittu tubo con il quale si soffia sul fuoco per ravvivarlo

Susta corda che serviva per legare i carichi al basto

Svernà passare l'invernoTe tengu adetraziu ti additano e parlano di teTina recipiente che si usava per l'ugadaTirella sottopancia per tenere il basto sugli

animaliTizzone pezzo di legno non completamente

bruciatoToe tavole laterali della botteToe sporgenze superiori “degliu mmastejo”

usate per legarlo

Trabuccu botola del pagliaio che corrisponde alla mangiatoia della stalla sottostante, personeche mangia molto “magni comme unpagliaru a trabuccu”

Traglia arnese che si metteva sul b asto per portare più covoni di grano

Traglione

Tutumagliu

mucchi di grano che si preparavano per la trebbiaturapersona poco sveglia

UgataUmera

bucato lavato con la cenerepunta di ferro per l'aratro di legno

Ummejo filetto di maiale posto nella cassa toracica posteriormente

Urrina vento freddo che soffia quando nevica e forma le biferine

Urzumeglio gola o tracheaUvera legno che teneva attaccato l'aratro ai buoiVardarecchie aratro di ferro che gira quando i buoi

cambiano direzione Vattirutu arnese fatto con due bastoni legati tra loro

alle estremità che si usava per la tritaVau varco attraverso il quale passavano le

pecore per la mungituraViareglio nome del montone con la campana che

guida il gregge, piccolo sentieroVinghi

Zappeteglio

rami di salice usati per legare le viti durante la potaturapiccola zappa usata per ripulire dalle erbacce i campi seminati

Cucina tipica

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Dopo aver appagato la mente con questa lettura, che ne dite di fare un’altra escursione, questa volta per soddisfare lo stomaco? Andiamo a scoprire alcune ricette antiche e “povere”, tipici esempi della appetitosa cucina dei nostri avi; poca spesa,…ma tanto piacere per il palato e lo stomaco.

Sagne strappate Dose per 4 persone. Ingredienti1 Kg di farinaaglio olio peperoncinoprezzemolo un barattolo da 250 g. di pomodoro a pezzettoni sale Q.B.acqua Q.B. Versare la farina sulla “spianatora” (la tavola per preparare la pasta fatta in casa), formare una piramide, quindi fare un foro al centro, aggiungere un pizzico di sale, acqua ed impastare. Impastando aggiungere acqua tanta quanta “ne prende” la farina, fino ad ottenere un impasto omogeneo, un poco morbido.

Quando l’impasto è pronto avvolgerlo in un canovaccio e lasciar riposare per un quarto d’ora. Quindi stendere la sfoglia con un mattarello e far sì che essa risulti poco spessa, 2 millimetri circa, e lasciarla “asciugare”. Quando la sfoglia si è un poco asciugata strapparla con le mani (non esagerate nella grandezza); la pasta è pronta per essere cotta in acqua abbondante e salata.

Per il condimento: soffriggere in una pentola aglio, olio e peperoncino, quindi aggiungere prezzemolo e pomodoro. Far bollire il sugo evitando di farlo restringere troppo, deve essere un poco liquido, aggiungerlo alla pasta cotta, quindi spolverare con del pecorino, e….buon appetito!

Ora per concludere in maniera piacevole questa visita alla cucina collaltese vi propongo due dolci tipici.

Ciammiglitti co’ ju gélo Ingredienti

3 uova 1 cucchiaio di olio di oliva extra vergine un pizzico di sale un pizzico di semi di anice farina Q.B. Sbattere le uova aggiungendo olio, il sale e i semi di anice. Versare della farina sulla spianatora, formando una

piramide, fare un foro al centro e versateci il composto già battuto, quindi impastare. L’impasto alla fine deve risultare morbido, la quantità della farina necessaria è “quella che si prende”. Tagliare l’impasto a strisce e arrotolarle ricavando dei cilindri con il diametro di un centimetro e mezzo. Tagliare le strisce a pezzi lunghi 10 centimetri, quindi unire le due estremità formando una ciambella. Mettere dell’acqua in una pentola e portarla all’ebollizione, immergerci le ciambelle e lasciarle bollire per 4-5 minuti. Scolare le ciambelle, fare un taglio trasversale sulla parte superiore. Per la cottura al forno utilizzare il piano centrale, la temperatura deve essere di 200°, le ciambelle sono cotte quando assumono un colorito dorato.

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Preparazione dello sciroppo: in un recipiente versare una tazza di latte, una di zucchero e una di acqua. Mettere a scaldare il recipiente per sciogliere lo zucchero, per poter controllare la giusta cottura, ungete con lo sciroppo il polpastrello dell’indice e contrastatelo con quello del pollice, se il liquido risulta appiccicoso è pronto. Quando lo sciroppo è pronto, immergetevi le ciambelle e mescolare per bene per far attecchire il caramellato, senza togliere il recipiente dal fuoco. Scolare i ciammiglitti co’ ju gélo e lasciarli freddare.

Pastarelle con le nocchie Ingredienti3,5 etti di nocchie3 etti di zucchero3 albumi Tritare le nocchie grossolanamente; montare a neve gli albumi; unire zucchero e nocchie; amalgamare in un impasto omogeneo. Oliare una teglia e depositare l’impasto a cucchiaiate scarse. Cuocere in forno ad una temperatura di 160° posizionando la teglia al ripiano centrale per 20 minuti. A cottura ultimata devono risultare leggermente dorate, dopo di che ……buon appetito.

Poesia

Gustiamoci ora la lettura dei versi che un collaltese ha dedicato al suo amatissimo Collalto.

Collalto

Rimiri di lassù tempo che scorreForte e bello a te muove lo sguardo

Luce e ariadi te sono amantiLa notte apertadolce riposo

Son qui tutti i tuoi figlihan quiete nell’attesa

Scarmigliato e spoglio come vecchiod’improvviso l’onde del giovane verde,i colori d’autunno al tramontoquieto e bianco d’inverno.

Luigi Di Bonifacio

La storia continua…..……………………

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Bibliografia Collepiccolo e la valle del Turano

Autore Pietro Carrozzoni Pereto Autore Enrico Balla Montaliano Autori E. De Minicis, E. Hubert

Storia, architettura e restauro nel castello di Collalto Sabino

Autori Vari Rieti e la Sabina Autore Renzo Di Mario Rieti nel Risorgimento Italiano

Autore Angelo Sacchetti Sassetti Ascrea inventario di un territorio

Autore Roberto LorenzettiPetescia Sabina oggi TuraniaAutore Mario IoriCastaldato di Collalto e Magnifica ComunitàAutore A. LatiniSanta Maria delle Grazie in TufoAutore Fulvio Amici Reazione e brigantaggio nel CicolanoAutore Domenico LuiginiProverbi e detti collaltesi

Raccolta a cura della Pro Loco di CollaltoMemorie storiche della RegioneEquicola ora CicolanoAutore Domenico Luigi Luglio 2001

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