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-1- CAPITOLO I - LA LIRICA ITALIANA DEL DUECENTO Introduzione Il Duecento : secolo della « nascita » della letteratura italiana ? Il Duecento venne considerato come il secolo della « nascita » della letteratura italiana. Ma pur tuttavia, tale affermazione dev’essere riconsiderata perché la letteratura in volgare italiano aveva già dato, come l’abbiamo visto nell’ambito dell’introduzione, i suoi primi documenti. Possiamo dunque considerare il Duecento come il secolo che offre una produzione letteraria in volgare che contrasta con il vuoto, o meglio con il « semivuoto » dei secoli precendeti in cui la lingua volgare appariva per lo più legata a documenti giuridici e soprattutto a testi del tutto estranei alle preoccupazioni artistiche. Quali sono le ragioni del decollo della letteratura in volgare italiano ? Dopo tale constatazione, sarebbe opportuno interrogarci sulle ragioni di un tale sviluppo e specie sulle ragioni della rapidità di tale sviluppo. Infatti, perché la letteratura in volgare italiano conobbe un vero e proprio decollo nel Duecento ? Innanzitutto, va ricordato che la letteratura e la sua espressione linguistica in volgare è sempre stata legata al contesto storico e politico e nel caso dell’Italia al suo frazionamento politico in diverse regioni. Il decollo della letteratura in volgare nel Duecento va collegato al decollo della civiltà italiana soprattutto nel Regno delle Due Sicilie che era sotto il governo dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen ed anche all’apogeo raggiunto dal mondo comunale. Un’altra ragione di tale decollo può essere individuata nel regresso generale che conosce l’Europa e soprattutto il latino e le lingue d’oc e d’oïl. La produzione letteraria appare dunque sempre più connessa al policentrismo economico, politico e culturale delle diverse regioni d’Italia. La situazione politica e culturale delle principali regioni d’Italia Il Nord è caratterizzato dalle corti feudali e dai liberi comuni. In seno a questi due ambienti diversi nacquero due nuovi tipi di intellettuali : il poeta cortiggiano nell’ambito delle corti feudali e il laico borghese nell’ambito dei comuni.

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CAPITOLO I - LA LIRICA ITALIANA DEL DUECENTO

Introduzione Il Duecento : secolo della « nascita » della letteratura italiana ?

Il Duecento venne considerato come il secolo della « nascita » della letteratura

italiana. Ma pur tuttavia, tale affermazione dev’essere riconsiderata perché la letteratura in

volgare italiano aveva già dato, come l’abbiamo visto nell’ambito dell’introduzione, i suoi

primi documenti. Possiamo dunque considerare il Duecento come il secolo che offre una

produzione letteraria in volgare che contrasta con il vuoto, o meglio con il « semivuoto » dei

secoli precendeti in cui la lingua volgare appariva per lo più legata a documenti giuridici e

soprattutto a testi del tutto estranei alle preoccupazioni artistiche.

Quali sono le ragioni del decollo della letteratura in volgare italiano ?

Dopo tale constatazione, sarebbe opportuno interrogarci sulle ragioni di un tale

sviluppo e specie sulle ragioni della rapidità di tale sviluppo. Infatti, perché la letteratura in

volgare italiano conobbe un vero e proprio decollo nel Duecento ?

Innanzitutto, va ricordato che la letteratura e la sua espressione linguistica in volgare è

sempre stata legata al contesto storico e politico e nel caso dell’Italia al suo frazionamento

politico in diverse regioni. Il decollo della letteratura in volgare nel Duecento va collegato al

decollo della civiltà italiana soprattutto nel Regno delle Due Sicilie che era sotto il governo

dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen ed anche all’apogeo raggiunto dal mondo

comunale.

Un’altra ragione di tale decollo può essere individuata nel regresso generale che

conosce l’Europa e soprattutto il latino e le lingue d’oc e d’oïl.

La produzione letteraria appare dunque sempre più connessa al policentrismo

economico, politico e culturale delle diverse regioni d’Italia.

La situazione politica e culturale delle principali regioni d’Italia

Il Nord è caratterizzato dalle corti feudali e dai liberi comuni. In seno a questi due ambienti

diversi nacquero due nuovi tipi di intellettuali : il poeta cortiggiano nell’ambito delle corti

feudali e il laico borghese nell’ambito dei comuni.

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Nel Sud, il regno è fortemente accentrato attorno alla figura di Federico II che tenterà invano

di unificare politicamente l’Italia.

Nel Centro siede la Chiesa in quanto istituzione universalistica sul piano culturale e politico.

Tale frazionamento politico va di pari passo col frazionamento linguistico e letterario che è

possibile rintracciare nei diversi centri.

1°) In Lombardia e nel Veneto, la letteratura è prevalentemente morale e didascalica e in

ciò corrisponde allo spirito pratico dei comuni. Nelle corti feudali ha il sopravvento la

letteratura cortese e cavalleresca di Francia.

2°) In Umbria, sotto l’impulso di San Francesco, la spiritualità conosce un profondo

rinnovamento. L’apparizione degli ordini mendicanti segna profondamente la vita sociale,

letteraria ed artistica. La poesia è prevalentemente religiosa, scritta in volgare umbro e si

manifesta sotto forma di laude liriche e drammatiche come quelle del famoso Jacopone da

Todi. Accanto a tali manifestazioni letterarie ci sono anche le sacre rappresentazioni che

hanno un carattere più popolareggiante.

3°) L’Italia meridionale è sotto l’influsso della corte di federico II nell’ambito della quale

nasce la poesia in volgare con intenti di raffinamento artistico. Tale poesia riprende le

tematiche e le forme della poesia in lingua d’oc « traducendole » in volgare siciliano.

4°) Alla metà del Duecento col venir meno della potenza sveva, l’eredità della poesia

siciliana passerà in Toscana dove i poeti trascrissero con diversi mutamenti linguistici i

canzonieri siciliani emulandoli. La lirica siculo-toscana instaurerà una tradizione tematico-

espressiva che verrà poi arricchita da Dante, Petrarca e Boccaccio e sarà poi eretta a modello

da altre regioni d’Italia. La Toscana duecentesca è quindi contrassegnata da una vasta

produzione poetica ma alcuni scrittori si dedicano anche alla prosa per via dei bisogni

culturali della nuova classe politica in prevalenza borghese. A tale periodo appartengono

scritti originali ma anche un certo moltiplicarsi di volgarizzamenti di trattati francesi e latini

che vertono sulle scienze, la filosofia morale e politica, la retorica.

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Per riassumere è possibile sostenere che la maggior parte delle opere letterarie del

Duecento italiano provengono da tre zone.

1°) La Sicilia, la Toscana e Bologna per quanto riguarda la poesia lirica

2°) Italia centro est e soprattutto l’Umbria nei confronti della letteratura religiosa

3°) Il Nord degli Apennini e il Po per la letteratura cavalleresca in lingua d’oïl e

più precisamente ancora la regione del Veneto ; la poesia cortese in lingua d’oc

soprattutto nelle corti feudali come quella di Genova. ; la letteratura morale e

didattica in Lombardia ed in Emilia.

Inoltre, va considerato che gli scrittori esitano ancora spesso tra diverse lingue. Il

trovatore Sordello (Sordel) scrive il lingua d’oc, Brunetto Latini (Brunet Latin) (che sarà il

maestro di Dante) scrive il suo trattato più importante, il Trésor, in lingua d’oïl proprio come

le memorie di viaggio di Marco Polo saranno scritte da Rustichello da Pisa in lingua d’oïl e

raccolte in un libro intitolato : Livre des merveilles du monde. Inoltre gli scrittori d’Italia

settentrionale esitano tra l’umbro, il toscano ed il siciliano. Finalmente il latino rimane la

lingua usata per un’importante produzione letteraria e più specificamente per le opere dell’alta

cultura ma anche per opere di divulgazione come le cronache oppure anche come le vite dei

santi.

Infatti, va ricordato che gli intellettuali conoscono e scrivono in latino. Dante per

esemipo scriverà parte della sua opera in latino. Basti ricordare la Monarchia, il De vulgari

eloquentia, le Ecloghe. I classici latini sono sempre più ritenuti come un alto modello

stilistico. Dante prenderà Virgilio come guida del suo viaggio escatologico e riconoscerà

l’ Eneide come alto modello di stile.

La tradizione classica diventa dunque sempre più un elemento unificatore

dell’esperienza letteraria italiana.

Per riassumere, il Duecento si presenta come un secolo ricco per la letteratura

italiana con l’apparire della poesia lirica tramite l’esperienza della « scuola » dei siciliani che

verrà poi ripresa dalla scuola toscana alla quale farà seguito il dolce stil nuovo. Ma anche

tramite la letteratura religiosa e le Laude di Jacopone da Todi e la letteratura in prosa con

Marco Polo e Brunetto Latini. Nell’ambito della lezione ci interesseremo soprattutto e quasi

esclusivamente alla poesia lirica.

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I – La scuola Siciliana

I.1 - Definizione e delineamento del contesto storico-politico

“ I Siciliani ” come li chiamerà il Petrarca nel Trionfo d’Amore furono i primi

trovatori o poeti aulici in volgare di sì. Ricordiamo che gli iniziatori di questa forma di poesia

cortese erano stati i trovatori in senso stretto, cioè i trovatori operanti dunque in lingua d’oc :

l’antica lingua letteraria della Francia meridionale anche chiamata provenzale.

Cominciamo con una breve genealogia della poesia lirica. In origine legata al canto ed

alla musica come ne testimonia il suo nome, la poesia lirica nei secoli XII e XIII viene

considerata come la “grande” poesia, vale a dire come il genere che implica i sogetti ed i

livelli di lingua e di stile più alti. Fino alla metà del Duecento, la poesia lirica si esprime in

lingua d’oc. Tovatori provenzali fanno soggiorno in Italia e portano con loro questa poesia.

Italiani cominciano a comporre poesie direttamente in lingua d’oc. Per via di conseguenza

liriche in lingua d’oc a poco a poco circolano nella penisola, vengono ricopiate ed imitate.

Intorno al 1230 quest’imitazione diretta viene progressivamente sostituita da un adattamento

in volgare italiano. Questo cambiamento avvenne sotto l’impulso dell’imperatore Federico II

di Hohenstaufen(1194-1250).

I.1.1 - La politica centrale di Federico II

Come l’abbiamo già detto parecchie volte, la letteratura italiana è legata alla situazione

politica e soprattutto al frazionamento politico che divide la penisola in diverse regioni. Con

Federico II di Hohenstaufen, il mondo conoscerà l’ultimo grande imperatore e soprattutto

l’ultimo grande interprete del sogno di un Impero universale. A 14 anni divenne re di Sicilia e

a 21 anni fu eletto imperatore per volontà del suo tutore papa Innocenzo III. Venne incoronato

nel 1220.

Federico II nutriva il progetto di un impero universale, assoluto, romano ma di un

impero che contemporaneamente si fondasse sui singoli regni ognuno dei quali sarebbe

dovuto essere robustamente organizzato.

Tentò anche di unificare politicamente l’Italia e soprattutto la Sicilia, e per ciò fare

rafforzò il potere monarchico nel regno di Sicilia. Imperatore germanico e re delle Due

Sicilie, creò una monarchia assoluta centralizzata ed identificata con la realtà nazionale della

Sicilia sulle basi del mecenato

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Insomma, Federico II esercitò un potere centrale. Abbiamo visto che organizzazione

politica ed espressione letteraria vanno di pari passo, non è dunque fatto sorprendente che

durante il regno centrale di Federico II, la cultura si accentrasse e si unificasse intorno a lui.

I.1.2 - La politica culturale di Federico II

Con Federico II il legame tra politica e cultura si rafforzò. Perché se era uomo politico, re di

Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, era anche un uomo colto che esercitava un

assolutismo illuminato anche nell’ambito culturale. Federico II si rivelò essere non solo un

sovrano capace di unificare il regno di Siclia ma anche un sovrano che diresse una vera e

propria politica culturale. Infatti se Federico II era re di Sicilia ed erede dell’impero romano,

la sua politica comportava anche un aspetto culturale : voleva creare una cultura che fosse la

cultura della corte di Palermo e per realizzare tale progetto si circondò di vari specialisti e

letterati. Lo stesso Federico II fu perfino un uomo di lettere, scrisse un trattato di falconeria, il

De arte venandi cum avibus, un trattato sull’arte di cacciare con uccelli di preda, trattato che

può anche, per via delle numerose conoscenze che divulga sul mondo aviario essere

considerato come un trattato ornitologico. Scrisse anche alcune poesie1. Appare poliglotto

nelle Cronache di Giovanni Villani che indica che « seppe la lingua latina e la nostra volgare,

tedesco e francesco, greco e saracinesco [arabo] ». Enciclopedico, illuminista, naturalista,

sperimentatore, Federico II è tutto nella presenza attiva e politica della cultura, « amò molto

delicato parlare » e attrasse alla sua corte « d’ogni maniera gente ». Per via di questo suo

carattere propenso alle lettere, intorno a lui si raccolsero poeti che a poco a poco diedero

forma al volgare petico italiano.

Va precisato che da imperatore illuminato che era, voleva opporsi alla Chiesa perfino

nell’ambito della cultura e creare una cultura depurata da tutti i legami con la Chiesa. Per

realizzare tale compito, si circondò di un’ « équipe » di dotti di varie lingue e culture tra i

quali l’astrologo scozzese Michele Scoto per esemipo. Accolse alla sua corte giuristi, filosofi

e scienziati e fece tradurre le opere di Aristotele. Scienze nuove vennero studiate anche quelle

ritenute a carattere magico-astrologico. La Magna Curia (come veniva chiamata la corte di

Palermo) porse un’attenzione particolare alla produzione letteraria varia per i generi adottati e

per i temi affrontati. Si inscriveva nel quadro di una cultura ricca e raffinata in cui confluivano

interessi molteplici (scientifici, letterari, giuridici, filosofici…) e tradizioni che andavano da

1 Cf. I primi due componimenti che aprono la raccolta di poesie del Duecento : De la mia disïanza e Misura, provedenzia e meritanza.

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quella araba a quella normanna, da quella tedesca a quella bizantina, richiamando così alla

corte intellettuali di grande prestigio provenienti da varie parti d’Italia e d’Europa. Insomma,

tutti gli intellettuali collaboravano allo sviluppo della cultura scientifica e filosofica in modo

libero e laico. II regno di Federico II permise un vero e proprio decollo della cultura e gli

intellettuali si misero a poco a poco al servizio della politica.

Federico II ricevette diversi giudizi. Venne considerato come un superuomo, come un

anticipatore del Rinascimento ma anche come un vero despota.

I.2 – La « scuola » siciliana

I.2.1 – La nascita della « scuola » siciliana

Comunque sia, vero è che alla sua corte fiorì la prima poesia lirica italiana con un

intendimento artistico diversamente quindi da san Francesco d’Assisi che attraverso il Cantico

di frate sole nutriva uno scopo religioso. Fu verso la fine degli anni venti o più probabilmente

ancora all’inizio degli anni trenta del Duecento che la corte federiciana cominciò a coltivare, a

fianco delle scritture latine, anche la poesia in volgare. Federico stesso fu poeta come i suoi

figli Manfredi, Enzo2, Federico d’Antiochia. Poeti furono anche alcuni degli alti funzionari

della sua corte e fra i più famosi : Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle

Colonne che era giudice oppure notaio ammirato da Dante che lo riteneva per uno dei più

grandi siciliani, Rinaldo d’Aquino ed altri.

Questi non erano dunque veri e propri letterati ma giuristi per la maggior parte d’essi.

Tuttavia, il fatto che uomini politici diventassero uomini di lettere non deve sorprendere

anche se si tratta di una cosa ignota al nostro mondo moderno. Nel Medioevo, politica e

letteratura non erano discipline così remote. Anzi, tutti gli studi di diritto presso le università

implicavano anche lo studio delle artes dictandi, cioè della retorica. Gli studenti dovevano

comporre raccolte di lettere in latino e grazie a tale formazione, Pier della Vigna per esempio

produrrà una raccolta di epistole in latino che diventerrà un modello di stile e

contemporaneamente scriverà il Liber augustalis anche conosciuto sotto la denominazione di

Liber constitutionum Regni Siciliae oppure sotto il nome di Costituzione di Melfi (1231), cioè

una legislazione unificata per tutto il regno di Sicilia.

Sarà propio tale raggruppamento di intellettuali intorno a Federico II a dare le luci alla

cosiddetta « scuola » siciliana. Ovviamente, il termine « scuola » non va inteso nel senso

2 Cf. La canzone Amor mi fa sovente.

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moderno, ma nel senso medievale di riunione di intellettuali mossi da una medesima passione

per la lirica ed i componimenti poetici ed appartenenti tutti all’ambiente della corte di

Palermo benché tutti non fossero originari di Sicilia. Il termine di « scuola siciliana » indica

dunque un gruppo di scrittori uniti da predilezioni di gusto, di stile, di contenuti tematici. La

sorte di tale scuola era del tutto legata alla fortuna della casa imperiale che aveva creato

l’ambiente, il costume e la cultura di cui era parte. Costituitasi non molto dopo

l’incoronazione imperiale di Federico II, negli anni 1230, si disolse alla morte del re Manfredi

(1266) che aveva successo al padre nel 1250. La « scuola siciliana » si disolse dunque quando

crollò la potenza della casa sveva in Italia.

I.2.2 – Le caratteristiche della lirica siciliana

Sotto l’impulso di Federico II nacque dunque la lirica italiana che si presentò per lo

più come l’imitazione della lirica provenzale in lingua d’oc e che consistette massimamente

nel suo adattamento in volgare italiano e più precisamente in volgare siciliano. Ma l’opera dei

siciliani presenta alcuni problemi perché per la maggior parte dei rapprensentanti non

abbiamo la redazione originale. Comunque sia è possibile sostenere che le liriche vennero

redatte in volgare meridionale, in un volagre depurato dal linguaggio curiale cioè dalla lingua

che veniva parlata nell’ambito della corte fino a creare un linguaggio nuovo adatto alle

esigenze politiche, un linguaggio diverso dalla lingua d’uso cioè dalla lingua quotidiana.

Il primo ad aver assunto il compito di trasporre una poesia cortese in italiano fu Jacopo da

Lentini riconosciuto da Dante come capofila della « scuola » siciliana e ritenuto come

l’inventore del sonetto.

Ma qual’erano le caratteristiche, i motivi fondamentali e tipici della lirica siciliana ?

Quello che possiamo definire come il suo aspetto saliente è un consapevole

convenzionalismo. I temi, il vocabolario, le immagini ricalcano il modello francese e

soprattutto quello provenzale talvolta in un rapporto di libera emulazione. Bisogna dunque

sapere in che cosa consistette la poesia provenzale. La lirica provenzale applicava all’amore

profano la dottrina cristiana dell’amore mistico ma era insieme poesia di corte che assimilava

il servizio amoroso al rapporto feudale. Il valore sostanziale dell’essere amato era totale,

quello dell’amante nullo. La passione si fondava dunque su una sproporzione essenziale. Per

il secondo aspetto la donna era come il signore a cui il vassallo doveva obbedienza e fedeltà

totali. Naturalmente questa metafisica così teologica come politica diventerà presto un

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semplice sistema di tropi e di metafore convenzionali. Ma sarà proprio su questo fondo di

cultura letteraria che andrà letta la poesia feudale del Duecento italiano. Infatti i poeti siciliani

assunsero a modello la poesia cortese francese in lingua d’oc e d’oïl che costituiva il modello

poetico per eccellenza dell’epoca. Federico II lo scelse come modello perché volle dare

all’Italia una poesia che avesse la stessa natura e la stessa grandezza. Ma imitatori della poesia

provenzale esistevano già da tempi, la novità consiste nel fatto che i poeti siciliani scrivono in

volgare italiano a differenza degli altri che componevano le loro poesie in provenzale od in

francese senza usare la propria lingua.

Pur tuttavia, una prima differenza distacca la lirica provenzale da quella siciliana.

Infatti, diversamente da quella provenzale che era di norma poesia per musica, così che di

solito uno era l’autore del testo e della melodia, la poesia siciliana è ormai semplice poesia per

la lettura. Ma nonostante questa differenza formale, la poesia siciliana appare fedelissima al

suo modello : la poesia cortese che era giunta ormai sul suo finire, una poesia incapace di

rinnovarsi, fissata in diverse formule che celebravano soprattuto l’amore virtuoso e la donna

come fonte di ogni virtù. Per via di conseguenza, la lirica siciliana svilupperà una temica più o

meno unica e centrale : l’amore per la donna. Si tratta di una poesia manierata che si sviluppa

sulla trama della fenomenologia amorosa complessa e convenzionale nella quale risulterebbe

vano cercare verità umane e un qualche riflesso della realtà siciliana dell’epoca. Si tratta di

una poesia fatta da funzionari della corte, una poesia che si voleva elegante ed innocua perché

non doveva urtare l’assolutismo di Federico II ma servirlo, e lo servì per via delle innovazioni

linguistiche capitali, per via delle numerose formule lessicali, grammaticali e stilistiche che

fonderanno la tradizione ed il codice poetico italiano.

L’arte poetica appare dunque del tutto connessa al costume della società elevata con

regole eleganti e rigorose, in altre parole alla società raffinata della corte federiciana.

I.2.3 – Le tematiche della lirica siciliana

Prima di tutto, si deve insistere sul fatto che il poeta deve ricercare non tanto la propria

originalità quanto la dignità di partecipare, di far parte della civiltà raffinata della corte. Non

si cerca dunque l’innovazione bensì si prova a rimanere fedeli ad una tradizione della quale è

ritenuto dignitoso far parte.

Le tematiche dunque non si evolvono rispetto alla lirica provenzale ma rimangono

quelle dell’amor cortese cioè dell’amore per la donna e del suo galateo.

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La Donna : La donna occuppa il posto centrale e principale della lirica ma si tratta di una

donna stereotipata fatta di caretteri tipici ed astratti. Non c’è posto per l’individualità, le

descrizioni, i dettagli fisici. La donna è definita senza lineamenti personali, è bella il che

significa che è bionda ed ha un viso chiaro. È spesso inaccessibile, è savia cioè ha una finezza

di educazione e di costume, è cortese e per via di conseguenza è capace di nobile amore.

Viene paragonata alla rosa profumata, alla stella luminosa. La donna è sempre superiore

all’amante che la canta. Si tratta spesso della donna del signore cioè di una donna che occuppa

un posto elevato nelle gerarchia sociale, posizione elevata che si riflette anche nelle sue

qualità, nelle sue doti personali superiori come la saviezza e l’intendimento.

L’Amante : L’amante intratiene con essa un rapporto di vassallaggio cavalleresco,

nasconde il suo amore che deve rimanere segreto. Non si deve dimenticare che la donna è

spesso maritata e per via di conseguenza, la donna per lo più non viene mai nominata oppure

tramite l’uso di un senhal, cioè del nome di un’altra donna chiamata donna schermo o donna

dello schermo (dame écran). L’amore cantato dal poeta è nobile e casto e corrisponde alla

fin’amor provenzale. Le relazioni amorose vengono presentate e descritte sul modello del

sistema feodale. Vediamo che anche in questo caso la poesia riflette nel suo microcosmo il

mondo politico del tempo.

Le Lodi e l’amore nobile : La donna viene lodata per la sua bellezza, per le sue doti

intellettuali e questa lode è legata ad un altro motivo molto sviluppato nella lirica siciliana :

quello dell’amore considerato come nobilitamento, cioè si riteneva che l’amore rendesse il

poeta, l’amante più nobili e che tale amore si accompagnasse d’esaltazione e di gioia.

A poco a poco si profilano veri e propri « generi » lirici :

I lamenti per l’allontamento della donna amata, le sofferenze, il dolore d’amore,

l’amore lontano, l’amore infelice, le profferte d’amore e le lodi della donna, l’esaltazione

d’amore, le questioni sull’origine e la natura d’amore. Accanto a queste tematiche topiche e

provanzali, i poeti sviluppano sempre più considerazioni teoriche : il poeta si rende conto dei

cambiamenti che l’amore opera in lui, s’interroga sulla natura e l’origine di amore ma anche

sui propri sentimenti il che apre la via alla psicologia, all’analisi dei sentimenti talvolta

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contrari generati da Amore. Questa componente psicologica costituisce un aspetto importante

della lirica siciliana.

A poco a poco si viene così formando un repertorio limitato e fisso che permette di

delineare in forma esemplare gli aspetti psicologici della vicenda amorosa che non consiste

nel narrare una vicenda particolare bensì nel raccontare una vicenda esemplare.

Se la « scuola » siciliana non rinovella la materia dell’amore cortese che imita dalla

poesia provenzale, realizza pur tuttavia innovazioni linguistiche capitali. I poeti creano la

lingua della lirica a partire dal fondo della parlata siciliana cioè dal volgare del regno siciliano

ma epurato dai suoi particolarismi e nobilitato dalle riprese della lingua d’oc, d’oïl, dal latino

che danno il vocabolario tecnico dell’amor cortese.

La scuola siciliana ed i suoi diversi rappresentanti possono così essere considerati

come i fondatori della tradizione di lingua e di stile, come i creatori del codice poetico

italiano, come gli elaboratori di un linguaggio poetico che sarà ripreso e continuato per anni.

I.3 – I principali rappresentanti

I.3.1 - Giacomo da Lentini

Giacomo da Lentini fu notaio, funzionario della corte di Federico II e dunque uomo

politico. Viene chiamato per antonomasia il Notaro. Venne considerato da Dante come il

caposcuola, cioè come il rappresentante più insigne e, in certo modo come il « maestro » dei

poeti siciliani. Sembrerebbe aver scritto le sue liriche tra il 1233 ed il 1240. Considerato come

l’iniziatore, il capofila della « scuola » siciliana, si potrebbe dunque assegnare a questi anni

l’inizio della produzione della « scuola ». Si è anche soliti attribuirgli l’invenzione, la

paternità del sonetto, ma nonostante le molte ipotesi che sono state avanzate, la genesi di

questo genere metrico resta tuttora ancora assai misteriosa. Unico dato certo è che la

concisione e la leggerezza del sonetto ne fecero subito un componimento di rara efficacia per

la possibilità che offriva al poeta di concentrare in quattordici endecasillabi un vero e proprio

microcosmo lirico. La paternità di Giacomo è tutt’altro che sicura e va intesa come

convenzione acquisita. È un fatto peraltro che egli si dimostra, oltre che il più prolifico di

questi rimatori, anche la personalità senz’altro più cospicua sia sul piano dell’inventività sia

su quello propriamente tecnico. È l’autore di 14 canzoni, d’un discordo e di 24 sonetti,

produzione che lo colloca in posizione eminente all’interno del gruppo dei siciliani. Nessun

altro rimatore può infatti vantare un numero sì cospicuo di componimenti al proprio attivo.

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Alcuni fra i suoi componimenti sono la canzonetta di settenari Meravigliosamente, i sonetti

Amor è desio che ven da core, Io m’agio posto in core a Dio servire, Madonna dir vi

voglio…Inoltre va notata la ragnatela di rispondenze che lega i suoi testi ad alcuni degli altri

poeti il che dimostra che venne guardato come un maestro. La memorabilità di alcuni inizi di

canzone dovette anche contribuire al consolidarsi del suo primato. L’esperienza poetica di

Giacomo da Lentini si sviluppò a stretto contatto con la corte e con gli altri poeti di corte

come lascia intuire la sua corrispondenza in versi con il cancelliere Pier delle Vigne e con

Iacopo Mostacci identificato con un falconiere di Federico II. Federico e suo figlio Enzo

scrissero poesie vicine allo stile del Notaro così come la maggior parte degli altri rimatori

siciliani. I più prolifici furono Rinaldo d’Aquino con dieci canzoni ed un sonetto,

Giacomino Pugliese con sei canzoni ed un discordo, Mostacci con quattro canzoni, Stefano

Protonotaro e Guido delle colonne ciascuno con tre canzoni e lo stesso Pier delle Vigne con

due canzoni. Intorno a tali figure, appaiono anche autori di un testo solo come per esempio

Cielo d’Alcamo a cui spetta il merito di aver scritto l’unico componimento di carattere

parodico se non propriamente comico, il celebre contrasto fra uomo e donna.

I.3.2 - Guido delle Colonne

Notizie di lui sono pochissime. Sappiamo soltanto che fu messinese, giudice, cioè alto

funzionario e che nacque forse nel 1210. Tranne il fatto caratteristico dei poeti siciliani, cioè

che siano uomini di lettere ed allo stesso tempo uomini appartenenti alla sfera politica, non

sappiamo un gran che della sua vita. Dante lo riconosce come uno dei più grandi fra i siciliani

per via soprattutto della sua abilità tecnica. Di suo componimento è la canzone Gioiosamente

canto che dà libero sfogo al canto felice dell’amore corrisposto. Ma il suo capolavoro

menzionato appunto da Dante, ricco d’immagini di filosofia naturale che anticipano Guido

Guinizzelli, è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi.

I.3.3 - Giacomo Pugliese

Non abbiamo notizie sulla sua vita. Possiamo tuttavia precisare che la sua pesia ha

goduto grande fervore presso i critici del secolo scorso i quali videro, erroneamente in lui il

rappresentante di una poesia popolare, più viva e sincera, che veniva contrapposta a quella

aulica e stilizzata dei rimatori di corte. Ma la critica più recente ha dimostrato bene che

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Giacomino come gli altri, è poeta colto, ripete temi e motivi comuni alla « scuola » e ricerca

un’espressione limpida e raffinata anche se ha una sua vena dolce che piace forse di più al

lettore moderno. È l’autore della canzone Morte, perché m’hai fatta sì gran guerra che

corrisponde ad un compianto in morte della donna amata secondo lo schema del planctus dei

provenzali.

I.3.4 - Rinaldo d’Aquino

Anche lui è conosciuto soltanto per via del suo nome e delle sue liriche ma della sua

vita nulla si sa. Il suo canzoniere è assai breve, raccoglie soltanto una decina di

componimenti, la maggioranza dei quali appartengono al tono raffinatamente cortese. Alcuni

come la canzonetta Già mai non mi conforto, esprimono una situazione psicologica con

schiettezza e vivacità. Ma non si deve pensare che si tratti di una novità nel genere. Infatti,

anche in questo caso, non mancavano modelli nella letteratura francese e provenzale. I

« lamenti », i « contrasti » sono poesie in cui il poeta benché non parli in prima persona,

esprime situazioni oggettive. Nella canzonetta Già mai non mi conforto si tratta di una

fanciulletta che lamenta la partenza dell’amato per la crociata.

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II – La scuola toscana

Intorno alla metà del Duecento, col tramonto della potenza sveva in Italia, si dissolve

l’ambiente di raffinata cultura della corte siciliana. La Toscana divenne il nuovo centro

d’irradiazione della poesia in volgare.

II.1 – Dalla “scuola” siciliana alla “scuola” toscana

Innanzitutto abbiamo già sottolineato parecchie volte che la letteratura e la sua

diffusione erano legate alla vita politica e soprattutto per l’Italia al frazionamento politico

della penisola in diverse regioni. La creazione della “scuola” siciliana era stata favorizzata

dalla politica accentrata di Federico II e dipendeva tutta dal suo assolutismo illuminato. Per

via di conseguenza, quando la dinastia sveva s’indebolì fino a scomparire dalla scena politica

italiana, l’ambiente che era stato propizio al diffondersi della lirica siciliana si dissolve

anch’esso. Ma pur tuttavia, tale dissoluzione non segnò la fine del volgare italiano

nell’espressione poetica ma soltanto il suo spostamento, la sua migrazione dalla Sicilia verso

la Toscana. Dopo il fallimento della politica svolta da Federico II, avvenne una certa

disseminazione, una certa migrazione della poesia che era quella della « scuola » siciliana.

Infatti, Federico II si era circondato da uomini colti di diverse culture e nazionalità.

Alla corte di Sicilia non c’erano soltanto siciliani ma uomini di origini diverse tra i quali

figuravano poeti e copisti toscani. Questi poeti e copisti toscani che avevano dimorato alla

corte di Federico II costituiscono un elemento decisivo, un fattore chiave nella diffusione

della lirica siciliana : servirono di legame tra la tradizione siciliana e la futura tradizione

toscana. Infatti, a poco a poco trascrissero e diffusero nella loro terra la poesia dei siciliani

permettendo così di salvaguardare il patrimonio letterario della « scuola » e di darlo in

retaggio ai poeti toscani. Furono dunque i poeti toscani a riprendere ed a continuare la lirica

siciliana data loro in retaggio e della quale ripresero la tecnica e parte della lingua e vennero

perciò chiamati « siculo-toscani ». In effetti, i nuovi poeti che operarono in Toscana durante la

seconda metà del Duecento ereditarono dai siciliani un linguaggio poetico elaborato, il gusto

per una tecnica raffinata, l’ammirazione per i poeti provenzali e francesi che d’altronde

imitarono più di quanto non avessero fatto i loro predecessori, e la tematica dell’amor cortese

alla quale, però, aggiunsero nuovi motivi morali e politici, riflettendo gli ideali, le lotte e le

passioni della vita comunale.

-14-

II.2 – Le caratteristiche della lirica toscana

Il passaggio della lirica italiana dalla Sicilia alla Toscana è dunque segnato da una

ripresa cioè da una continuità ma anche da una certa rielaborazione che corrisponde

soprattutto ad un adattamento della materia alla realtà della società che non è più quella della

corte imperiale di Federico II ma quella della società comunale. Il trasferimento della poesia

siciliana richiede un certo adattamento della materia alla realtà politico-sociale ma anche al

pubblico nuovo al quale è destinata. L’ambiente cortese di Palermo era del tutto retto

dall’aristocrazia. Invece, Italia del nord rappresenta il mondo feodale che sta scomparendo

accanto allo sviluppo, all’incremento dell’industria e del commercio due settori che

coinvolgono la popolazione che partecipa alla vita politica del comune, cioè alla classe

emergente della borghesia. Il pubblico, i destinatari della poesia toscana sono molto più

diversificati del pubblico siciliano che si poteva prevalentemente definire come un pubblico

curiale in opposizione al pubblico municipale che sarà quello della poesia toscana. La base di

ricezione della lirica divenne più ampia coinvolgendo ampi strati della borghesia mercantile. I

poeti toscani non vivono, infatti, in una corte, ma nei liberi comuni della loro terra

caratterizzati da una vita intensa, realistica, complicata da lotte talvolta sanguinose fra le

fazioni dei ghibellini e dei guelfi favorevoli rispettivamente all’impero e al papato nella

disputa per il potere temporale che si scontrano all’interno del comune e fra diverse città.

Inoltre, i rimatori toscani non erano più funzionari di corte come erano stati il Notaro e gli

altri siciliani e non si riuniscono intorno ad un unico centro di potere. I poeti toscani sono per

lo più notai, medici, giudici, banchieri spesso impegnati nella gestione della vita comunale. Il

diverso assetto politico non mancò di proiettare i propri riflessi sulla storia della poesia il che

implicò un’evoluzione della tematica ed un’apertura verso argomenti politici sull’esempio del

sirventese provenzale. I poeti toscani hanno ripreso la tradizione siciliana adattandola e

trasponendola ad un ambiente differente, alla realtà linguistica, sociale e politica della

Toscana.

Cambiando atmosfera politica, ambiente e pubblico, la poesia si adatta alla realtà

nuova che la circonda. I poeti toscani assumono la tematica amorosa tradizionale ma

approfondiscono allo stesso tempo il piano psicologico ed intelletuale con un ulteriore

processo di spiritualizzazione dell’amore che viene concepito come un incentivo alla

conquista della virtù non soltanto cavalleresca, ma morale in senso lato. Questo motivo,

attraverso Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati, Monte Andrea e Bonagiunta da Lucca,

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prepara l’originale esperienza degli stilnovisti. Sul piano contenutistico la novità di maggior

rilievo consiste dunque nell’ingresso della tematica religiosa e spirituale nel repertorio della

lirica volgare

II.3 – I maggiori rappresentanti

II.3.1 - Guittone d’Arezzo

L’esperienza della poesia toscana è massimamente rapprensentata da Guittone

d’Arezzo considerato come il suo massimo esponente che ha fatto sue le tematiche

privilegiate della « scuola » siciliana introducendovi però alcune differenze dovute ad una

situazione politica e sociale diversa. Guittone d’Arezzo vissuto fra il 1230 e il 1294, è il

principale esponente letterario dell’agiata borghesia guelfa, anzi il fondatore, in quell’ambito,

della sua espressione volgare. Per l’oltranza del suo zelo formale, nutrito di cultura provenzale

non meno che latina, e spinto in qualche parte della sua produzione ad eccessi verbalistici,

non di rado enigmistici, molto di là dal punto raggiunto in alcuni sonetti del Notaio, Guittone

sembra trasferire alla sua regione ed alla sua classe e parte, ingigantendola, l’ambizione

retorica degli aristocratici siciliani. È l’autore di un ampio canzoniere che lascia trasparire una

forte personalità di uomo e di scrittore. Il canzoniere come la sua vita è diviso in due parti.

Nella prima parte prevale (domina) la poesia amorosa sul modello siciliano e soprattutto

provenzale al quale lo scrittore attinse (puisa) più direttamente. Descrive i momenti della vita

amorosa con l’alternarsi di gioia e dolore ed insiste su una tematica che appariva già presso i

siciliani : quella che considera la donna come fonte d’ogni valore, d’ogni virtù capace di

introdurle nel cuore degli uomini. La seconda è dominata dall’esperienza religiosa che spinse

l’autore e l’uomo ad abbandonare la vita mondana e cioè la vita del mondo, la moglie, i figli,

la vita di famiglia, di sposo e di padre, per ritirarsi nel mondo religioso ed entrare a far parte,

nel 1265, dell’ordine dei Cavalieri di Santa Maria, fondato nel 1261 a Bologna, e detto anche

ordine dei Frati Godenti, i cui ideali erano la salvaguardia della pace, l’accordo fra le opposte

fazioni, la difesa delle donne (ma fatto strano, Guittone non esitò ad abbandonare la sua per

salvare le altre), la difesa dei fanciulli ( !), dei poveri in nome della Vergine Maria.

Altro tratto saliente del canzoniere giuttoniano, tranne la divisione in due parti, è il

fatto che Guittone appare molto legato all’ambiente poetico del suo tempo come lo

sottolineano le frequentissime rime di corrispondenza che scambiava con i più noti rimatori

toscani dell’epoca. Questi scambi rivelano come Guittone almeno per un venticinque anni (dal

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1255 al 1280) esercitava una specie di dittatura (parola che viene dal verbo « dettare » e

dunque legata al mondo della scrittura come il francese « dicter ») intellettuale ed artistica su

tutta la Toscana. Guittone venne considerato ed ammirato come un maestro. Fu innanzitutto

maestro di stile ma anche di moralità e di umanità. Creò un modello di canzone d’amore

ampio nel ritmo e nello svolgimento concettuale. Diede i primi alti esempi di canzone

politico-civile. Segnò l’avvio alla moralizzazione e alla cristianizzazione del mito dell’amore.

Richiamò insomma, la poesia alla realtà immettendo in essa il rigore morale, la sua cultura e

la sua dottrina. Va anche notato che con Guittone, per la prima volta nella storia della lirica

italiana, appare l’aspirazione di un poeta a costruire un vero e proprio libro di versi.

Tramite questo ritratto di Guittone avvertiamo già un certo cambiamento rispetto ai

rappresentanti della « scuola » siciliana. Infatti essi legavano il mondo poetico al mondo

politico. Rispetto all’ambiente cortile delle poesia siciliana, la situazione si era evoluta.

Infatti, la volontà primiera di Federico II era quella di unificare l’Italia. La situazione della

Toscana è molto diversa. Questa regione è in preda a diversi conflitti che oppongo i guelfi ai

ghibellini tramite scontri feroci e numerosi in seno ai comuni e tra le diverse città. Tali

conflitti per via della loro importanza e frequenza non potevano essere ignorati dalla poesia

toscana perché facevano parte della vita sociale e politica, della vita quotidiana dei toscani..

Per via di conseguenza, la poesia amorosa si accompagna alla poesia politica e civile che

riflette i conflitti che lacerano la vita toscana.. La poesia provenzale aveva già lasciato spazio

accanto alla poesia cortese ai problemi politici, due tematiche che venivano talvolta legate in

seno ad un poema che trattava insieme di guerra e d’amore. Questo ravvicinamento è stato

facilitato dal topos della guerra d’amore. Ma con i poeti toscani e soprattutto con Guittone

d’Arezzo, la poesia sembra più vicina alla realtà politica ma insieme al mondo religioso.

Infatti, la vocazione primiera di Guittone non fu quella di poeta, ma tramite la poesia si eresse

in maestro e correttore di costumi, apparve come amatore e sollecitatore della virtù. Questo

carattere spiega il fatto che la poesia sia costantemente portata all’oratoria, al dialogo e non

cadda mai nel convenzionalismo. Provò a dare all’arte poetica un fine utilitaristico, un fine

virtuoso per gli uomini. Prese l’impegno di piegare l’arte a tutte le esigenze del vivere sociale

e per ciò fare, dovette ricercare un’orditura complessa e sapiente che anticipa le canzoni di

« rettitudine », cioè le canzoni che esaltano la virtù e la diritta via che permette di ritrovarla,

in una parola, le canzoni di Dante.

Inoltre, la sua poesia contrasta con la lirica siciliana soprattutto nel modo di trattare la

materia. I siciliani trattavano certe immagini che erano elementi essenziali e permanenti della

poesia come per esempio il topos della donna bionda dal viso chiaro. Guittone invece è molto

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più intellettuale e parla di amore tramite un ragionamento nel quale discuta e dimostra diversi

suoi aspetti. Gli sarà d’altronde rimproverato di essere troppo professolare il che conferisce un

lato pesantemente dimostrativo alle sue liriche perché sia apprezzato da tutti come per

esempio nel sonetto Dolente, triste e pien di smarrimento. Il marchio più evidente della sua

poesia è senz’altro la tendenza ad un discorso in versi prevalentemente ragionativo che

procede per antitesi e per ipotesi. Alfredo Schiaffini osservò che « la stessa poesia amorosa da

cortese si trasforma, nel Canzoniere guittoniano, in ragionante ».

Pur tuttavia Guittone non può essere considerato come un grande poeta per via dei

suoi componimenti, ma grande fu la sua importanza nella letteratura del Duecento. Infatti fu

proprio lui a rompere, a staccarsi un po’ dai modelli siciliani e provenzali per diventare

l’iniziatore, il precursore, un letterato sapiente che diede vita a nuove forme ed a nuovi schemi

che fossero atti ad accogliere e trascrivere la multiforme vita della coscienza umana. La sua

poesia esercitò fascino sui lettori e sugli altri rimatori per via della sua cultura poetica. Infatti,

oltre a conoscere i poeti siciliani, risulta esperto di lirica trobadorica più di chiunque altro

della sua epoca.

Per quanto riguarda la sua espressione poetica : il suo linguaggio è mescolato di

espressioni dialettali che Dante gli rimproverava acerbamente e ferocemente ed anche di

suggestioni colte, latine, siciliane, provenzali spesso in tono disarmonico. Spiace anche

generalmente al nostro gusto « moderno » l’abuso di certi procedimenti stilistici che

appesantiscono il ritmo come per esempio quello della replicacio, cioè della ripetizione delle

parole. Possono anche spiacere certi giochi di parole che sembrano essere attribuibili ad un

compiacimento di enigmista più che di scrittore. Facciamo un esempio. In una sua canzone

« amore » significa « a morte », cioè gioca sulla grafia quasi simile delle due parole per

insistere sul fatto che l’amore porti con sé tristi effetti morali che possono essere quelli della

passione amorosa. Ma di tale ricerca stilistica non può venire imputato Guittone perché era

legata al gusto del tempo che intendeva la poesia soprattutto come artificio stilistico e specie

in accordo con la tradizione dei provenzali che erano addirittura giunti ad una sorta di

linguaggio ermetico chiamato « trobar clus » in opposizione alla poesia più semplice e

trasparente chiamata « trobar clar ». Guittone si iscrive nella linea dei poeti del « trobar clus »

che intende emulare.

Del suo ampio canzoniere, possimao ricordare i sonetti Tuttor ch’eo dirò “gioi’, gioiva

cosa il cui verso liminare lascia già intravedere lo stile guittoniano; Dolente, triste e pien di

smarrimento; la canzone Ahi lasso, or è stagion del doler tanto…

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II.3.2 - Bonagiunta Orbicciani

Nei principali centri di Toscana appaiono poeti nella scia di Guittone. Vennero

chiamati i siculo-toscani ed apparvero soprattutto nelle città di Lucca, Pisa, Pistoia e Firenze.

Tra questi cosiddetti siculo-toscani possiamo fare il nome di Bonagiunta Orbicciani.

A differenza di Guittone d’Arezzo, si sa poco su di lui tranne il fatto che fosse lucchese e

probabilmente notaio, vissuto intorno alla metà del Duecento. I critici lo considerarono spesso

come un guittoniano, vale a dire come un seguace di Guittone d’Arezzo, ma ora si è piuttosto

inclini a considerarlo come « l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana » come lo

sostiene il Contini. Bonagiunta da Lucca fungerebbe quindi da legame tra la materia

guittoniana ed il dolce stil novo che le farà seguito. In realtà non appare dunque come un

massiccio guittoniano ma piuttosto come un rimatore rimasto vicinissimo ai Siciliani e

particolarmente a Giacomo da Lentini come gli rimproverava l’autore, forse Chiaro

Davanzati, del sonetto Di penne di paone. Comunque sia, molto incline alla canzonetta ed alla

ballata, non sprovvisto di iniziative metriche, è il miglior ponte fra i Siciliani e gli stilnovisti

fiorentini, la cui produzione giovanile ne contiene precisi ricordi ; e polemizzò col

Guinizzelli, rimproverandogli un certo intellettualismo universitario. Certo è che lui appare

lontano dal trobar clus, cioè dallo stile arduo e spesso volutamente oscuro di Guittone e la

predilezione per i temi morali risale alla tradizione provenzale. Comunque sia appare più

vicino agli stilnovisti di cui anticipa certe cadenze e la predilezione per lo stile piano. È

l’autore del sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera rivolto a Guinizzelli nel quale prende

posizione contro il dolce stil novo, al quale Bonagiunta, seguace del trobar leu, cioè di una

poesia più immediata e facile da capire, d’un poetare chiaro e piano, rimprovera la sottigliezza

intellettualistica che si traduce in stile oscuro e difficile.

II.3.3 – Chiaro Davanzati

È di gran lunga il più abbondante dei « siculo-toscani » oltre Guittone. Scrisse varie

decine di canzoni ed oltre un centinaio di sonetti. È quindi il più fecondo dei fiorentini. La sua

opera è un compendio di medie qualità trobadoriche ma non ebbe fortuna duratura. Non viene

mai nominato da Dante. Lo ricordiamo per il sonetto Di penne di paone che gli è stato

attribuito e nell’ambito del quale accusa Bonagiunta da Lucca di aver plagiato Giacomo da

Lentini.

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III – Il dolce stil novo

III.1 – Le origini del Dolce Stile e la definizione dantesca

Nel corso della storia, si sa, i mutamenti non avvengono di soprassalto, ma sono il

risultato di un processo lento e graduale. Così fu anche per la novità rapprensentata nella

Toscana dello scorcio del Duecento, dalla maniera poetica che si è soliti indicare con la

formula dantesca di « stil novo ». La generazione di rimatori fiorentini nata durante gli anni

sessanta o al principio del decennio successivo era cresciuta in un’aura intrisa di guittonismo.

Se alcuni non pensarono di affrancarsi da quella poetica, altri ne sentirono prepotentemente il

bisogno a partire almeno dagli anni ottanta. Fra gli ultimi decenni del Duecento ed i primi del

Trecento si sviluppa nella lirica d’arte italiana, il movimento che prenderà il nome di « dolce

stil novo ». A Bologna dove era pur penetrato l’esempio poetico di Guittone, un rimatore era

riuscito a liberarsi da tale condizionamento come da quello cortese e sicilianeggiante. Tale

personaggio è Guido Guinizzelli che si è soliti identificare con un uomo di fede ghibellina.

Venne seguito da un gruppo di fiorentini tra i quali figuravano : Guido Cavancanti, Dante

Alighieri, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia.

Il nome di questo nuovo movimento poetico deriva dallo stesso Dante e più

precisamente ancora dal canto XXIV del Purgatorio nel quale l’Alighieri immagina

d’incontrare Bonagiunta Orbicciani tra i golosi del sesto girone.

« O frate, issa vegg’io, diss’elli, il nodo che ‘l Notaro, Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo », Purgatorio XXIV, v.55-57

Interrogato da Bonagiunta se egli sia veramente l’autore della straordinaria canzone

Donne ch’avete intelletto d’amore, e per via di conseguenza l’inventore delle « nove rime »,

Dante finge di darsi ad una dichiarazione poetica secondo la quale l’originalità dei poeti del

dolce stile rispetto ai siculo-toscani consisterebbe nel fatto che essi scrivono seguendo la

diretta ispirazione d’Amore, ciò che egli « ditta dentro ». In altre parole, all’invito di

Bonagiunta, Dante replica con la dichiarazione poetica che lo vuole trascrittore dei dettami di

Amore :

« E io a lui : -I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando », Purgatorio XXIV, v.52-54

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Tale concezione sarà ribaditi nei versi seguenti pronunciati dallo stesso Bonagiunta :

« Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne ; e qual più a guardar oltre si mette, non vede più da l’uno a l’altro stilo e, quasi contentato, si tacette », Purgatorio XXIV, v.55-63

Ma l’interpretazione del passo dantesco è molto più complessa e rivela in realtà che

l’Alighieri non è affatto discepolo di una poesia immediata. Insomma, con tale esposizione,

Dante non rivendica una maggiore immediatezza o spontaneità che sia, ma la capacità di

penetrare più a fondo il significato, l’essenza dell’esperienza amorosa, sia sul piano

psicologico sia sul piano intellettuale o conoscitivo e di rappresentarla con uno stile adeguato

all’oggetto : atto cioè ad esprimere la « dolcezza » del sentimento amoroso. Questo stile

nuovo viene qualificato di « dolce », vocabolo quasi tecnico ad indicare un ideale di fusione

melodica, e di « novo », cioè ispirato all’iniziativa che detta le « nove rime », all’intenzione

« di prendere per materia de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa

gentilissima » come Dante dice nella Vita Nuova. Inoltre, va notato che la definizione

dantesca trasferisce nell’ambito della poesia profana una definizione dell’espressione

dell’amore mistico formulata circa il 1152 da frate Ivo, discepolo di san Bernardo che si trova

anche nel Tractatus de gradibus charitatis ossi Trattato dei diversi gradi della santissima

carità di Riccardo da San Vittore (Richard de saint Victor). Tale trasferimento indica quanto il

dolce stil novo sia ricco d’intenzioni culturali. La poesia diventa celebrazione d’amore, e

amore è conoscenza di « miracoli », vale a dire per analogia, degli enti e delle verità superiori,

ineffabili. Il linguaggio che ispira il Dolce stile è sempre più nettamente quello della

Scolastica, ma va subito precisato che la filosofia vi è presente soprattutto come fonte

linguistica e riserva d’immagini.

Va anche precisato che il « dolce stil novo » non può essere considerato come una

scuola in quanto i poeti non sono organizzati attorno ad una dottrina o ad un programma

comune ed uniforme ma si tratta invece di una riunione di poeti che condividono interessi

comuni, esperienze poetiche ed amorose simili che sono ravvicinati da una lingua ed uno stile

comuni. I poeti che ricevettero l’epiteto di stilnovisti si caratterizzano soprattutto da una

tonalità, associante freschezza melodica e carica concettuale e da una forma di visualizzazione

struggente e modulata. Il Dolce stile rappresenta differenze dottrinali soprattutto per quanto

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riguarda la concezione di amore, divergenze che possono lasciare pensare che certi poeti

fossero opposti ma pur tuttavia le tematiche comuni rimangono fondamentali.

III.2 – Le caratteristiche del Dolce Stile

III.2.1 – La fedeltà alla tradizione anteriore

Benché si tratti di un movimento poetico che rivendica la novità e l’originalità, non

mancano tuttavia certe tematiche, certi motivi presi alla lirica « cortese » di cui riprendono i

motivi distintivi. La nobiltà d’Amore : Per esempio, gli stilnovisti accogliono il tema

dell’esaltazione di Amore come suprema forma di aristocrazia spirituale e affermano che la

vera nobiltà o « gentilezza », termine che torna spesso nelle loro poesie, risiede nell’animo

anziché nei diritti della nascita e del censo. La nobiltà passa dalla sfera del sangue a quella del

cuore e dell’intelletto. Proveniente dal mondo borghese, il dolce stil novo celebra il cor gentil

(le noble cœur), topos che identifica nobiltà ed amore e rimette in causa il principio della

nobiltà di sangue a favore della nobiltà di cuore. La Donna Angelo : Inoltre, riprendono e

sviluppano la rappresentazione tipica degli ultimi provenzali che facevano della donna una

figura angelicata ispiratrice di un amore che corrisponde prima di tutto all’elevazione

spirituale. La donna appare dunque sotto i tratti della donna angelo (de la dame ange) che

permette di innalzare le virtù morali e spirituali degli uomini. Insomma gli stilnovisti

riprendono numerosi altri spunti figurativi organizzando tuttavia queste suggestioni in una

ideologia più complessa.

III.2.2 – L’originialità del Dolce Stil Novo

Vediamo ora in che consiste la loro originalità. Un pubblico nuovo : Originale è, in

primo luogo, il loro definirsi come un pubblico nuovo di produttori e utenti della poesia,

legato da amicizia. Definiscono il loro gruppo come la libera accoglienza di « cori gentili »

capaci di vivere e di intendere una nobilitante esperienza d’amore. Gli stilnovisti si rivolgono

ad un pubblico ideale composto di donne e di uomini che « hanno intelletto d’amore ». Si

tratta di un gruppo di intellettuali che non coincide più con la corte ma che vive nella civiltà

cittadina e fonda il sentimento della propria aristocrazia prima di tutto sulla cultura percepita

come conquista individuale. Per via di conseguenza, la loro dottrina d’amore non si

accontenta del tradizionale galateo cortese (cioè del regole dell’amore cortese) ma s’ispira

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anche e soprattutto alla filosofia insegnata nell’Università : il « senno » che viene da Bologna

cioè dalla famosa università di Bologna, secondo il rimprovero ironico rivolto loro da

Bonagiunta Orbicciani nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera.

Ma in che cosa consiste quella loro mainera nuova ?

La Psicologia dei sentimenti : Gli stilnovisti si interrogano principalmente

sull’origine e la natura di amore che intendono definire attraverso il loro fondamentale aspetto

psicologico. La poesia raggiunge sempre più un certo livello di coerenza e di logica tramite lo

sperimento della lingua poetica. I poeti desiderano dare una dottrina d’amore. Per via di

conseguenza i sentimenti antitetici cagionati da Amore : gioia e tormento amoroso, il

contrasto tra joy e dolor dei provenzali, la contemplazione entusiastica della bellezza e la

passione conturbante vengono ricondotti a quel complesso di rappresentazioni mentali che

generano il sentimento. L’analisi del sentimento amoroso coinvolge allora tutta la vita della

coscienza perché la psicologia medievale consisteva nella dottrina filosofica dell’anima. Gli

stilnovisti possono definirsi da una totale fedeltà all’ispirazione amorosa, sono attenti alla

singolarità di ogni esperienza intima d’amore. Coltivano una poesia d’introspezione e di

autobiografia interiore ma sono anche in cerca di oggettività che mira ad enunciare lo statuto

dell’amore e dell’amante nel linguaggio che era quello della metafisica e della psicologia del

Duecento.

La Filosofia : Si avverte così negli stilnovisti l’influsso della ricerca filosofica del

tempo dal nuovo aristotelismo alle correnti mistiche confluite nella filosofia di san

Bonaventura di Bagnoreggio, fra le quali particolare importanza riveste la cosiddetta

« metafisica della luce ». Secondo questa teoria, la luce sarebbe il principio dell’essere, della

vita ; lo splendore, in tutto il creato, della suprema mente creatrice, cioè di Dio, riflessa dalle

intelligenze angeliche motrici dei cieli e dalle creature umane più elevate che diventano un

vero incentivo a partecipare all’essere e alla verità. Questa teoria ispirò profondamente la

presentazione e l’esaltazione della donna e dell’amore. Pur tuttavia, questa come altri punti di

pensiero non sono svolti su di un piano filosofico sistematico ma tradotti in un sistema di

immagini poetiche che potrebbe essere sintetizzato così :

Sistema di immagini : La bellezza della donna (che si esprime attraverso metafore di

luce e di splendore) è manifestazione della perfezione dell’essere alla quale aspira l’anima e

l’amore corrisponde a quest’aspirazione. La bellezza viene così considerata come la

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rivelazione del bene e amore come l’esaltazione della nobiltà dello spirito, ma anche come

tensione spesso insoddisfatta e tormentosa.

Lo spiritualismo : La lode della donna ricoprirà con Dante un significato metafisico e

mistico. Al capitolo XIX della Vita Nuova (Vie Nouvelle) Dante identifica la lode della donna

all’esenza d’amore e della poesia d’amore : inaugurando così un lirismo che celebra un amore

puro, lodativo, disinteressato che si compiace delle lodi. Ma la lode della donna anche quando

questa viene « angelicata » rimane un semplice topos. Tale misticismo che colorisce la lode

della donna ricuopre due forme. Per certi come per Guido Guinizzelli, si tratta soltanto di un

ornamento di stile lessicale e tematico, una specie di gioco letterario, di metafora. Quando

Guinizzelli, nella sua canzone dottrinale Al cor gentil rempaira sempre amore, paragona la

sua donna ad un angelo si tratta soltanto di un’immagine topica. Altri invece s’ispirano

direttamente alla letteratura religiosa e mistica. Di quelli fanno parte Dante. La Vita Nuova,

può, sotto diversi aspetti essere considerata come la « leggenda di santa Beatrice », cioè come

un’opera realizzata sul modello dell’agiografia francescana.

Ma tale spiritualismo e miticismo ai quali il solo Guido Cavalcantoi farà eccezione

nella sua canzone Donna me prega, non possono far dimenticare che il dolce stil novo canta

un amore adultero o per lo meno un amore estraneo alle leggi del matrimonio e per via di

conseguenza che dovrebbe essere del tutto incompatibile con la mistica cristiana. Si tratta

dunque anche in questo caso di un’espressione poetica topica fatta di convenzioni letterarie

nell’ambito della quale sarebbe inutile cercare la traduzione immediata della realtà oggettiva.

III.2.3 – Lo stile

Ma più che nella tematica, la dimensione unitaria della « scuola » si avverte soprattutto

nell’ambito dello stile. Caratteristici degli stilnovisti sono il gusto per la drammatizzazione

degli eventi interiori, la donna come baleno di luce, di primavera e l’impegno stilistico

culmina nella ricerca di un linguaggio « dolce » adatto ad esprimere la soavità d’amore e le

immateriali sfumature della vicenda interiore. Il dolce stil novo è l’opera d’intellettuali laici e

borghesi profondamente legati alla vita dei Comuni. Si tratta di una poesia scritta da e per

l’« élite » intellettuale che si sta formando in seno al mondo comunale. Rialza il volgare

toscano al livello di lingua letteraria nobile e di modello linguistico supraregionale.

Il dolce stil novo rimase un’esperienza aristocratica fortemente selettiva nei confronti

del pubblico e anche negli argomenti in tal modo che riflette soltanto parzialmente la realtà

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complessa dell’epoca. Ma importante è il suo significato storico. Prima di tutto per il suo

perentorio richiamo all’interiorità, il suo impegno filosofico che attesta l’affermarsi di un’alta

cultura laica in volgare, la sua rifondazione del mito d’amore ricondotto alla vita della

coscienza delineando così una visione più complessa della psicologia umana. Questi motivi

tranne alcune astrattezze passeranno nella lirica del Petrarca e poi in quella posteriore.

III.3 – I maggiori rappresentanti

III.3.1 - Guido Guinizzelli

Guido Guinizzelli per primo cominciò questa poesia nuova. Venne d’altronde

considerato da Dante come il “padre” del dolce stil novo al canto XXVI del Purgatorio, cioè

come il suo iniziatore e fondatore.

Guido Guinizzelli nacque a Bologna fra il 1230 e il 1240, parteggiò per la famiglia dei

Lambertazzi che erano ghibellini e fu per questo mandato in esilio a Monselice. Morì circa nel

1276. Ecco le poche indicazioni che abbiamo della sua vita. A parte questo, certi suoi

componimenti ci lasciano intravedere un apprendistato legato alla tradizione siciliana come

per esempio la canzone Donna, l’amor mi sforza e ossequioso dell’autorità di Guittone come

ne testimonia il sonetto O caro padre meo, de vostra laude. Scrisse infatti componimenti

ispirati al più intenso manierismo del tipo siculo-toscano. Altri tuttavia provocarono presto

reazioni più o meno violente da parte dei maestri toscani. Probabilmente verso

l’incondizionato elogio muliebre dei suoi sonetti Io vogl’ del ver la mia donna laudare e

Vedut’ho la lucente stella diana, Guittone stesso rivolse la reprimenda del proprio S’eo tale

fosse ch’eo potesse stare. Bonagiunta Orbicciani lo rimproverava nel sonetto Voi, ch’avete

mutata la mainera di aver stravolto i modi della lirica d’amore rinfacciandogli anche un

eccesso di sottigliezza. L’attacco si chiude con una dichiarazione di meraviglia in senso

negativo per la fattura di canzoni tanto dotte quanto astruse, composte con materiali prelevati

dalla letteratura dottrinale. L’accenno a tale testura dottrinale fa pensare che il bersaglio di

Bonagiunta fosse costituito dal testo più celebre del Guinizzelli ovvero dalla canzone

programmatica che fin dalla prima stanza poneva la nobiltà di cuore a fondamento del

sentimento e del discorso amoroso, vale a dire la canzone Al cor gentil rempaira sempre

amore. Insomma, Guido Guinizzelli, da buon fedele guittoniano che era stato, divenne

l’innovatore denunciato da Bonagiunta come soverchiato dall’intellettualismo.

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Dal suo canzoniere lo vediamo in effetti ripercorrere ed assimilare la tradizione

siciliana e toscana, chiamar Guittone suo maestro ma distaccarsi progressivamente da ogni

modello precedente per via della sua genialità inventiva. Il Guinizzelli comincia dunque col

riprendere la poesia ed i motivi che erano stati quelli di Guittone d’Arezzo per volgersi dopo

verso uno stile più « dolce » nella sua espressione ma pur tuttavia sommamente intellettuale.

Sarà effettivamente chiamato « il saggio » da Dante, naturalmente per la canzone Al cor

gentil, fin dal sonetto incluso nella Vita Nuova che comincia « Amor e ‘l cor gentil sono una

cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone ». Certe sue immagini nuove saranno riprese e

sviluppate da altri stilnovisti. Per esempio, il motivo della donna angelo, del saluto che porta

beatitudine e salvazione all’animo liberandolo da ogni peccato e donandogli purezza e virtù,

del poeta piagato d’amore, che « porta morte » in sé, nel senso che l’amore pone l’anima in un

travaglio angoscioso.

Per quanto riguarda le tematiche ed i concetti, se non è nuova l’identificazione di

amore e virtù, di amore e nobiltà vera, che è prerogativa dell’anima e non dote ereditaria,

nuovo è l’entusiasmo con cui vengono espressi. Caratteristico del Guinizzelli è anche

l’atteggiamento di riflessione sui propri sentimenti, la passione intellettuale con cui definisce

il proprio animo e gli effetti che l’amore produce in esso. Amore per lui è trionfo di

spiritualità, di fervore e d’intima vita. Nella sua poesia la donna è quella che porta il

« saluto ». Il poeta si compiace dell’analogia tra « saluto » che indica il fatto di salutare

qualcuno e « salute » nel senso che la donna col suo saluto porta la salvezza dell’anima.

Inoltre, il valore della donna consiste nello « stupore » quando appare al poeta. Lo stupore

equivale più o meno al colpo di fulmine tramite il quale il poeta amante viene sbarazzato,

depurato da ogni cattivo pensiero, purificato dal valore della donna. Ma tale purificazione si

accompagna ad una paralisi di tutte le funzioni vitali dell’amante chiamate dalla medicina

medievale « spiriti ».

Al suo canzoniere appartengono la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore che

viene considerata come il « manifesto » del dolce stil novo, cioè come l’esposizione, la

definizione dei principali temi di questo movimento poetico. Alla sua opera appartengono

anche numerosi sonetti come Io voglio del ver la mia donna laudare ; Lo vostro bel saluto e ‘l

gentil sguardo ; Vedut’ho la lucente stella diana ; Sì sono angostïoso e pien di doglia…

Ma nell’ultimo quarto del Duecento un problema in particolare s’imporrà

all’attenzione dei lirici in volgare quello di coniugare l’esperienza della lirica d’amore con la

società comunale e soprattutto con la spiritualità cristiana. Dante rimoverà in modo

concettuale l’ostacolo che si frapponeva tra il poeta e il suo canto d’amore instaurando lo stile

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della lode come lo spiega nella Vita Nuova XVIII : ovvero tratteggiando un nuovo tipo

d’innamorato che non si prefigge di ottenere ricompensa alcuna se non quella di tessere

l’elogio della propria donna. Su questo terreno si svilupperà la riforma stilnovistica

avvalendosi delle acquisizioni guinizzelliane.

III.3.2 - Guido Cavalcanti

Anche di lui abbiamo scarse notizie. Nacque da una nobile e potente famiglia

fiorentina fra il 1255 e il 1259. Fu guelfo di parte bianca e amico di Dante anzi il suo « primo

amico » come dirà lo stesso Dante nella Vita Nuova al quale dedica l’opera giovanile. Fu un

appassionato uomo di parte, fieramente avverso a Corso Donati, capo della fazione rivale cioè

dei guelfi Neri. Fu esiliato nel 1300 a Sarzana ma subito dopo riammesso a Firenze. Morì

poco dopo il ritorno in patria.

I cronisti dell’epoca, Dino Compagni e Giovanni Villani e, più tradi, il Boccaccio lo

rappresentarono come un uomo aristocratico nei modi e nel sentire : « uno giovane gentile,

figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e

solitario e intento allo studio » dice il Compagni ; filosofo di profonda dottrina : tutti e

soprattutto il Boccaccio insistono su questa concentrata vita interiore volta alla meditazione

delle ragioni dell’esistenza, meditazione che non sembra essersi placata nella certezza di una

fede rasserenatrice.

All’inizio della sua produzione lirica, si muoveva ancora nel solco dei siciliani e di

Bonagiunta come nella celebre ballata Fresca rosa novella composta probabilmente per una

festa di Calendimaggio. Poi diventerà fedele ai modi ed alla tecnica di Guido Guinizzelli in

componimenti come Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira. Ma a poco a poco e già con la

canzone dottrinale Donna me prega, si allontana decisamente dalla poetica della dulcedo in

favore di un tessuto formale artificioso che riflette la densità e la durezza del raginamento. Al

centro del suo canzoniere sta l’esperienza dell’amore colta nel suo carattere di nobile

avventura dell’anima. Ma negli schemi tradizionali della poesia stilnovista, il Cavalcanti

esprime un tormento, una tristezza che lo distinguono sia dal Guinizzelli sia da Dante e

rivelano una visione conflittuale non solo dell’amore ma della vita in genere.

Anch’egli ha la sua canzone-manifesto, Donna me prega perch’eo voglio dire, una

canzone che si rivela difficile a capire per l’oscurità del frasario filosofico e la complessa

elaborazione stilistica. Ma pur tuttavia, la conclusione appare chiara : il poeta consepisce

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l’amore come passione propria della parte sensitiva dell’animo e quindi non come spinta al

perfezionamento delle virtù intelletuali e morali secondo le concezioni guinizzelliana e

dantesca, ma come sentimento violento e tormentoso, come sofferenza, e spesso come

distruzione d’ogni facoltà fisica e spirituale. Parimenti estranea all’ideologia stilnovistica è la

teoria dell’amore come passione dell’anima sensitiva che sovverte le facoltà dell’intelletto. Il

contenuto filosofico, di matrice averroistica ha poi le sue implicazioni sul piano del lessico

con i tecnicismi attinti alla terminologia della filosofia naturale.

Allo stesso modo, la donna non è più considerata come faro di luce e di spirituale

perfezione, ma creatura la cui bellezza sensibile è fonte per il poeta di entusiastica

contemplazione, senza però che questo sentimento si innalzi a un’idealità superiore. Amore è

dunque forza tirannica che affascina e al tempo stesso addolora. Di qui l’alternarsi nel canto

del poeta di immagini di luce e di tenebra, di gioia e d’angoscia.

La tonalità più specificamente stilnovistica della poesia del Cavalcanti consiste nel

fatto che questo dramma è colto e rappresentato in rarefatte immagini d’interiorità, in una

sorta di mitologia dell’animo e della passione.

Della sua composizione sono oltre la canzone-manifesto Donna me prega, i sonetti

Avete ‘n vo’ li fior’ e la verdura ; Chi è questa che vèn, ch’ogn’om’ la mira ;Voi che per li

occhi mi passaste ‘l core ;Tu m’hai sì piena di dolor la mente ; le ballate La forte e nova mia

disaventura ; Perch’i’ no spero di tornar giammai ; Era in penser d’amor quand’i’ trovai…

III.3.3 - Cino da Pistoia

Cino è il diminutivo di Guittoncino dei Sigibuldi. Nacque a Pistoia intorno al 1270 e vi

morì nel 1336 o 1337. Fu insigne giurista e scrisse importanti commenti ai codici. Prese parte

alle lotte politiche della sua città e sostenne per questo l’esilio. Fu amico di Dante la cui morte

pianse in una canzone e come lui appoggiò e sostenne la politica di Arrigo VII. La donna che

canta nelle sue poesie si chiama Selvaggia.

Tecnico di diritto, Cino fu anche un pregevole dilettante di poesia, molto vicino al

Dante della Vita Nuova. Più a lungo del Cavalcanti rimase fedele alla poetica stilnovista. Fu

l’autore di un vastissimo canzoniere, insieme uniforme di accento e disparato di temi che non

ha né la compattezza cavalcantiana né l’organica sperimentalità dantesca, ma è giunto

nell’elaborazione del medio gusto lirico italiano. Questo suo canzoniere godette fortuna

presso i posteri immediati mentre la critica moderna ha limitato il valore della sua poesia. Gli

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viene riconosciuto il merito di essere stato un mediatore tra il dolce stil novo fiorentino e la

poesia petrarchesca (del Petrarca). Meditando e rielaborando i modi stilnovistici, ne dissolve

l’atmosfera rarefatta ed estatica, svolgendoli in un discorso che tende alla rappresentazione di

sentimenti più quotidiani. Se il Cavancanti si astrae dalla realtà di tutti i giorni per farne

sostanza di simboli universali, Cino intende rappresentare la sua vicenda d’amore in termini

psicologici concreti con alternanza di speranza, desiderio, dolore e ricordo. Con Cino da

Pistoia, la poesia amorosa torna ad un’espressione meno intellettuale che esprime il

sentimento quotidiano in un linguaggio meno ricercato ed oscuro. Cino da Pistoia prese

l’opzione quasi esclusiva nei confronti dei temi amorosi e il disinteresse verso sottili

discettazioni filosofiche. In tono spesso elegiaco modulò molti motivi tipici dello stilnovismo:

dalla donna angelicata nella ballata Angel di Deo simiglia in ciascun atto, alla subitanea

apparizione del sonetto Una gentil piacevol giovenella, all’attesa della morte nella canzone

Degno son io di morte e al plazer del sonetto Una ricca rocca e forte manto.

Al suo canzoniere appartengono anche la canzone La dolce vista e ‘l bel guardo soave,

il sonetto Io fu’ ‘n su l’alto e ‘n sul beato monte, ma maggior successo di ogni altro riscosse il

testo della canzone che si apre con la stanza memorabile : La dolce vista e ‘l bel guardo

soave. Il longevo ed insigne giurista, addottoratosi a Bologna nel 1314 e divenuto poi lettore

nelle università di Siena, di Perugia e di Napoli, ebbe non solo modo di piangere la scomparsa

del grande amico Dante (avvenuta il 14 settembre 1321) nella canzone Su per la costa, Amor,

de l’alto monte, ma di continuare ancora per una quidicina di anni a far sentire la propria

presenza nel panorama poetico italiano, guadagnandosi all’atto della morte, nel 1336 o nel

1337 il compianto funebre scritto da Petrarca, il sonetto Piangete, donne, e con voi pianga

Amore, nel quale piange « ‘l nostro amoroso messer Cino ».

Ecco per quanto riguarda il panorama della lirica duecentesca che nasce con la lirica

siciliana, si sviluppa con la poesia toscana e finalmente con il Dolce Stile. Attraverso questo

sguardo complessivo abbiamo già fatto il nome di quelli che saranno considerati come i tre

maggiori poeti fiorentini del Duecento e perciò chiamati le « Tre corone », vale a dire Dante,

Petrarca e Boccaccio ai quali saranno dedicati i seguenti tre capitoli.

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