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Capitolo I Diritto e morale

Una volta Oliver Wendell Holmes, mentre andava in carrozza alla Corte Su-prema […], dette un passaggio al giova-ne Learned Hand. Questi scese alla pro-pria destinazione e, salutando la carrozza che ripartiva, urlò allegramente: «Fa’ giu-stizia, giudice!». Holmes fermò la vettu-ra, fece invertire la marcia al conducente e tornò indietro verso il sorpreso Hand. Si sporse dal finestrino e disse: «Non è quello il mio lavoro!».

(R. Dworkin, Justice in Robes)

1.1. Premessa

Quando è nata come materia universitaria, alla fine del Set-tecento, la filosofia del diritto si occupava del diritto (lat. quid ius): mentre la dottrina giuridica (privatistica, pubblicistica, pe-nalistica …) si occupava del diritto tedesco, o francese, o italia-no (lat. quid iuris) 1. Dire cosa sia il diritto, fornire una defini-zione del diritto, è ancor oggi, per alcuni, il compito principale della filosofia del diritto 2; ma nei due secoli trascorsi si è capito che esistono due modi molto diversi di affrontare il problema.

1 Cfr. già I. Kant, Die Metaphysik der Sitten (1798), trad. it. La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 33-34.

2 Cfr. ancora M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino, 1998, p. 35.

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Un modo di affrontarlo consiste nell’accertare cosa sia il diritto vigente o positivo, che significato abbia la parola ‘diritto’: che è poi il compito di una teoria del diritto (solo conoscitiva). Un modo molto diverso di affrontare il problema, invece, consiste nel proporre il diritto moralmente giusto, ossia nel suggerire co-me debba essere il diritto positivo conforme alla morale: che è invece il compito di una filosofia del diritto (non solo conosciti-va, ma anche normativa).

Si tratta di questioni tanto diverse da generare due dottrine molto differenti: il positivismo giuridico, teoria prevalentemente conoscitiva, mirante soprattutto a descrivere cosa il diritto sia, e il giusnaturalismo, filosofia prevalentemente normativa, che vuole soprattutto prescrivere cosa il diritto debba essere. Le due attività sono così diverse – almeno per chi aderisca alla Grande divisione fra linguaggio conoscitivo e normativo (cfr. § 2.2) – che prima di procedere occorrerà scegliere fra giusnaturalismo e giuspositivi-smo: scelta cui è dedicato questo capitolo preliminare. Anzitutto (§ 1.2), si farà il punto sullo stato della questione diritto-morale negli ultimi cinquant’anni; poi (§§ 1.3-6), si confronteranno quat-tro filosofie o teorie del diritto (anzitutto giusnaturalismo e giu-spositivismo, ma anche loro varianti odierne quali realismo giuri-dico e neocostituzionalismo); infine (§ 1.7), si opterà per una ver-sione aggiornata della teoria giuspositivista.

1.2. Dopo Auschwitz

La filosofia del diritto è nata secoli o forse millenni fa, ma è cambiata radicalmente dopo Auschwitz. Sino ad allora, tutti con-cordavano che al diritto si dovesse obbedire: dopo, anche su que-sto si è cominciato a discutere. I giusnaturalisti hanno accusato il giuspositivismo di complicità con il nazismo perché i giuspositivisti considerano il diritto nazista diritto come qualsiasi altro (§ 1.2.1). I giuspositivisti si sono difesi ribadendo che il diritto nazista era diritto, ma che questo non implicava affatto che si dovesse obbe-dirlo (§ 1.2.2). I giusrealisti, benché ancor più ostili al giusnatura-lismo, hanno attaccato a loro volta il giuspositivismo come ideo-logia dell’obbedienza al diritto statale (§ 1.2.3). Infine, gli odierni

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neocostituzionalisti sembrano considerare superata l’intera di-sputa: al diritto dello Stato costituzionale contemporaneo, ormai, si potrebbe tranquillamente obbedire (§ 1.2.4). Qui di seguito si illustreranno, schematicamente, queste quattro posizioni.

1.2.1. Dopo Auschwitz, è rinato il giusnaturalismo: filosofia

del diritto data tante volte per morta, eppure sempre risorta. Na-to già nell’antichità classica, in Grecia e a Roma, proseguito in forme diverse nel pensiero cristiano antico e medievale (giusna-turalismo antico), infine rifiorito in versione laica in epoca mo-derna (giusrazionalismo moderno), il giusnaturalismo ha incon-trato una lunga eclissi dopo la codificazione 3. La redazione del diritto continentale, detto civil law perché erede del ius civile romano, in documenti legislativi chiamati codici, aveva infatti escluso il diritto naturale – insieme con la dottrina (lo studio u-niversitario del diritto) e la giurisprudenza (le decisioni dei giu-dici) – dalla lista delle fonti del diritto: l’insieme delle norme applicabili nei tribunali, che si era appunto ridotto ai codici, alle leggi speciali (ossia non comprese negli stessi codici), ai rego-lamenti, alle consuetudini e più in generale al diritto positivo, di produzione umana. In questo modo, il diritto naturale era rima-sto materia d’interesse quasi esclusivamente filosofico; nelle fa-coltà di giurisprudenza il suo insegnamento era stato affiancato o sostituito dall’insegnamento della teoria generale del diritto giuspositivista.

Dopo la scoperta dei campi di sterminio nazisti (ted. lager), a cui seguirà la scoperta dei campi di concentramento staliniani (russo gulag), il giusnaturalismo conosce la più vivace delle sue resurrezioni otto-novecentesche, qui denominate neogiusnatu-ralismo. La responsabilità dell’olocausto venne attribuito all’at-teggiamento di deferenza verso il diritto positivo tipico dei giu-risti tedeschi ben prima di Hitler: atteggiamento compendiato nel motto tedesco Gesetz ist Gesetz (lat. dura lex sed lex, il diritto è diritto e va comunque obbedito) e attribuito frettolosamente al giuspositivismo. Questa attribuzione di responsabilità storica è

3 Cfr. M. Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna, 2011, cap. 1.

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frettolosa per una ragione ben precisa; vero, il giuspositivismo ottocentesco e primo-novecentesco ha condiviso l’idea che al di-ritto si debba comunque obbedire: ma questa idea è antica quan-to la riflessione occidentale sul diritto, e risale almeno al giu-snaturalista Platone 4.

Ciò che impressionò particolarmente il pubblico colto dell’e-poca, d’altra parte, fu la circostanza che il neogiusnaturalismo postbellico fosse soprattutto un’invenzione di autori giuspositi-visti “convertiti” al giusnaturalismo dopo Auschwitz. In Germa-nia, in particolare, il neogiusnaturalismo si deve ai ripensamenti di Gustav Radbruch, filosofo e giurista giuspositivista, già mi-nistro della giustizia socialdemocratico della Repubblica di Weimar e oppositore del nazismo: uno dei pochi oppositori, sia detto per inciso, fra i filosofi del diritto tedeschi 5. Il Radbruch dell’immediato dopoguerra, in effetti, corregge la propria posi-zione, rimasta sempre complessivamente giuspositivista, su un solo punto, ma essenziale; il diritto positivo resta diritto e va ob-bedito anche se ingiusto: ma non sino al punto in cui esso diven-ta intollerabilmente ingiusto (cosiddetta formula di Radbruch) 6.

Radbruch è troppo buon filosofo per non rendersi conto di quanto sia vaga questa formula; giustizia e ingiustizia sono qua-lità largamente soggettive: e l’intollerabilità dell’ingiustizia non vale a renderla molto più oggettiva. Tuttavia, questa stessa for-mula – che ammette comunque un generale obbligo di obbedire al diritto anche ingiusto, beninteso purché non sia intollerabil-mente ingiusto – è precisa almeno su questo punto: il diritto na-zista non era diritto, e dunque non andava obbedito. La formula di Radbruch, quali che fossero i suoi limiti, toglieva comunque ai gerarchi nazisti, processati a Norimberga (1945-46) per lo ster-minio di ebrei, zingari, omosessuali e oppositori – ma anche al-le guardie di frontiera della Germania orientale, processate dopo

4 Cfr. Platone, Critone, in Id., Opere complete, Laterza, Bari, 1971, vol. I. 5 Cfr. E. Garzón Valdez, Introducción a Id. (comp.), Derecho y Filosofía,

Fontamara, México, 1988, pp. 5-41. 6 Cfr. G. Radbruch, Gesetzliche Unrecht und übergesetzliches Recht (1946),

trad. it. Ingiustizia legale e diritto sovralegale, in A.G. Conte et alii (a cura di), Filosofia del diritto, Cortina, Milano, 2002, pp. 152-163.

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la caduta del Muro di Berlino (1989) per aver sparato sui dissi-denti in fuga – il loro principale, se non unico, argomento difen-sivo: l’argomento di essersi limitati a obbedire al diritto 7.

La stessa formula, del resto, viene presupposta dalla Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca (1949), e dalla giurisprudenza del Tribunale costituzionale da essa istituito; en-trambe distinguono il diritto dalla legge: alludendo a una sorta di diritto sovra-positivo e sovra-costituzionale – il diritto natu-rale? – che nessuna legislazione potrebbe violare senza smettere di essere diritto. Tutto ciò, com’è chiaro, costituiva una bella sfi-da per il positivismo giuridico: non tanto per il giuspositivismo tecnico da un secolo e mezzo dominante fra i giuristi, e consi-stente nel servirsi solo del diritto positivo, quanto per il giuspo-sitivismo teorico, ossia per l’insieme delle teorie sostenute da giuristi e teorici giuspositivisti fra Otto e Novecento. La sfida ven-ne raccolta, fra fine degli anni Cinquanta e inizio degli anni Ses-santa, dai principali teorici del diritto giuspositivisti e giusreali-sti: come vediamo brevemente qui di seguito.

1.2.2. Dopo Auschwitz il positivismo giuridico entra in crisi.

Per rispondere alle obiezioni giusnaturaliste, peraltro, i principali autori giuspositivisti cominciano a distinguere più rigorosamente: intanto, fra giusnaturalismo e giuspositivismo; poi, fra diversi tipi di giuspositivismo. A distinguere più precisamente giusnaturali-smo e giuspositivismo – tradizioni di pensiero nate l’una millenni prima, l’altra solo due secoli fa – è Herbert Hart: filosofo analiti-co, che usa il metodo dell’analisi del linguaggio, ma soprattutto docente di jurisprudence (sorta di teoria generale) a Oxford. I giusnaturalisti di ogni età, secondo Hart, avrebbero sostenuto tutti almeno una tesi comune: la Tesi della connessione necessaria fra diritto e morale, secondo cui il diritto positivo non è diritto se non è moralmente giusto. I giuspositivisti di ogni epoca, invece, sa-rebbero accomunati dalla Tesi della separabilità: diritto positivo e morale sono distinti, il diritto ingiusto è pur sempre diritto 8.

7 Cfr. G. Vassalli, Formula di Radbruch e diritto penale, Giuffrè, Milano, 2001. 8 Cfr. H.L.A. Hart, Positivism and Separation of Law and Morals (1958),

trad. it. Il positivismo e la separazione fra diritto e morale, in A. Schiavello,

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Dal punto di vista storico, la distinzione di Hart è inaccurata; giusnaturalismo e giuspositivismo sono trattati come dottrine di-stinte solo dalla diversa risposta a una stessa questione: il diritto è connesso o separato rispetto alla morale? Dal punto di vista teori-co, invece, la distinzione è opportuna; giusnaturalismo e giuspo-sitivismo, occupandosi rispettivamente di diritto giusto e di di-ritto posto, si erano quasi ignorati sino ad allora: e Hart, attri-buendo loro risposte diverse a una stessa domanda, li obbligava a discutere. Di fatto, lo stesso Hart criticherà Radbruch e polemiz-zerà con i maggiori filosofi giusnaturalisti dell’epoca; ma soprat-tutto difenderà la Tesi della separabilità interpretandola sempre più spesso come la scelta di un giuspositivismo meramente meto-dologico: una teoria del diritto, cioè, che applica un metodo pura-mente conoscitivo, astenendosi dalle valutazioni tipiche della fi-losofia del diritto giusnaturalista 9.

A distinguere fra diversi tipi di giuspositivismo, e anzi a di-fendere per primo una forma di giuspositivismo metodologico, è però Norberto Bobbio: filosofo del diritto italiano che oppone (cfr. § 1.4) giuspositivismo metodologico, teorico, e ideologico 10. Lo stesso giuspositivismo metodologico è la scelta, per uno stu-dio del diritto tanto dottrinale quanto teorico, di un metodo ri-spettoso del Principio di avalutatività (ted. Werfreiheit): metodo che impone tanto allo scienziato quanto al teorico di astenersi da valutazioni. Il giuspositivismo teorico, invece, è il semplice insieme delle tesi sostenute dai giuspositivisti otto-novecente-schi: tesi spesso criticate e anzi ampiamente superate dagli stes-si giuspositivisti successivi. Ma soprattutto il giuspositivismo ideologico è la tesi normativa che al diritto si debba comunque obbedire: tesi rifiutata da Bobbio, come vedremo (cfr. § 1.4.3).

Grazie alla duplice distinzione di Hart e di Bobbio, comun-que, il giuspositivismo è uscito dal vicolo chiuso in cui l’ave- V. Velluzzi (a cura di), Il positivismo giuridico contemporaneo. Una antolo-gia, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 48-89.

9 Cfr. da ultimo H.L.A. Hart, Postscript (1994) a The Concept of Law (1961), trad. it. Poscritto a Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1965, specie pp. 309-314.

10 Cfr. già N. Bobbio, Il positivismo giuridico (1961), Giappichelli, Tori-no, 1996, pp. 233-250.

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vano spinto le critiche neogiusnaturaliste. Il diritto è concettual-mente distinto dalla morale: dunque, che qualcosa sia diritto non vuol ancora dire che quel qualcosa debba essere obbedito. Il giuspositivismo metodologico è tenuto solo a conoscere avalu-tativamente il diritto positivo; non è affatto tenuto a valutarlo, né negativamente né meno che mai positivamente: come facevano il giuspositivismo ideologico e, almeno sino ad Auschwitz, la stes-sa tradizione giusnaturalista. Imboccando questa strada conosci-tiva, peraltro, i giuspositivisti finivano per prestare il fianco a una duplice serie di obiezioni. Prima, prestavano il fianco alle critiche di una forma di giuspositivismo metodologico più radicale: il rea-lismo giuridico. Ma poi, e soprattutto, il loro abbandono di ogni questione normativa prestava il fianco alle critiche di un folto gruppo di filosofi e teorici odierni, che si può forse riunire sotto l’etichetta di neocostituzionalismo.

1.2.3. Dopo Auschwitz, il giuspositivismo viene criticato dal

realismo giuridico: forma di giuspositivismo metodologico ra-dicale che rimprovera al giuspositivismo di essere solo una spe-cie di giusnaturalismo favorevole allo Stato e al diritto positivo. Vi sono due principali scuole giusrealiste: il giusrealismo statu-nitense, che fra anni Venti e Trenta del Novecento si occupa di problemi strettamente giuridici, riguardanti soprattutto l’appli-cazione giudiziale (ingl. adjudication) del diritto nordamerica-no; il giusrealismo scandinavo, che invece critica appunto i re-sidui di giusnaturalismo nel giuspositivismo. L’accusa mossa da Alf Ross, il principale teorico giusrealista, a Hans Kelsen – il maggiore teorico del diritto del Novecento – è proprio quella di aver condiviso ciò che Ross chiama quasi-positivismo: ossia una sorta di giusnaturalismo caratterizzata dalla tesi normativa che al diritto si debba comunque obbedire 11.

L’accusa era doppiamente ingenerosa. Era ingenerosa sul pia-no personale: Kelsen era stato uno dei pochi teorici di lingua

11 Cfr. A. Ross, Validity and the Conflict between Legal Positivism and Natural Law (1961), trad. it. Il concetto di validità e il conflitto fra positivi-smo giuridico e giusnaturalismo, in Id., Critica del diritto e analisi del lin-guaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 137-158.

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tedesca a opporsi al nazismo, ed era stato costretto all’esilio ne-gli Stati Uniti. Ma l’accusa era ingenerosa anche sul piano teo-rico: si rivolgeva soprattutto a una tesi kelseniana – la teoria della validità di norme – che ammetteva anche interpretazioni più caritatevoli. Kelsen ha sempre sostenuto, in effetti, che l’espressione ‘norma valida’ ha il triplice significato di norma appartenente al sistema giuridico, norma esistente, e anche nor-ma obbligatoria: ossia vincolante per giudici e cittadini (cfr. § 4.4). Questo terzo significato di ‘validità’ fa dire a Ross che Kelsen prescriverebbe di obbedire al diritto: interpretazione as-sai poco caritatevole, perché Kelsen sembra piuttosto limitarsi a descrivere, avalutativamente, che il diritto stesso prescrive di essere obbedito.

Quale che fosse la fondatezza di questa critica, peraltro, il giusrealismo, in particolare scandinavo, finì per accreditarsi co-me una teoria del diritto destinata a soppiantare il giuspositivi-smo; lo stesso Kelsen, in quegli anni, qualificò la propria Teoria pura del diritto (ted. Reine Rechtslehre) come «una teoria es-senzialmente realistica» 12. Mentre il giusrealismo è incompati-bile con il giusnaturalismo, in effetti, è difficile distinguerlo dal giuspositivismo: di cui spesso si limita a radicalizzare le tesi. Inoltre, l’astensione dai giudizi di valore costituisce sia la mag-giore ragione di forza sia il principale elemento di debolezza del giusrealismo. Intanto, a partire dal Sessantotto, si è imposta l’esi-genza di elaborare filosofie anche normative della giustizia e del diritto; ma soprattutto, nei sistemi giuridici di paesi come Sta-ti Uniti, Germania e Italia, sono andati acquistando una tale im-portanza i principi costituzionali che su di essi si è basata una quarta filosofia del diritto: il neocostituzionalismo.

1.2.4. Sempre dopo Auschwitz, ma vent’anni dopo, si è svi-

luppato il neocostituzionalismo: famiglia di teorie e filosofie del diritto, sostenute in America e sul continente europeo sotto eti-chette differenti, ma accomunate almeno da un oggetto d’inda-gine e da un atteggiamento normativo. L’oggetto d’indagine è il

12 Cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1960), trad. it. Dottrina pura del di-ritto, Einaudi, Torino, 1966, p. 128.

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diritto del cosiddetto Stato costituzionale (ted. Verfassungstaat): forma di Stato che, dopo la sconfitta dei totalitarismi di destra e di sinistra, ha finito per imporsi anche sul continente europeo. Lo Stato costituzionale è caratterizzato da tre elementi: costitu-zioni rigide (ossia modificabili dalla legge ordinaria solo con maggioranze rafforzate); Corti supreme o costituzionali che di-sapplicano o annullano le leggi contrastanti con la costituzione; processi di irradiazione o costituzionalizzazione del diritto, per cui l’intero diritto, in tutte le sue parti, finisce per essere perva-so dai principi costituzionali 13.

L’atteggiamento normativo, invece, consiste nella difesa in-transigente dei valori etici (morali, politici, giuridici) formulati come principi costituzionali nelle costituzioni rigide: in partico-lare nelle loro dichiarazioni dei diritti. Si tratta ancora dell’onda lunga di Auschwitz; nella seconda metà del Novecento, in Eu-ropa e Latinoamerica, i regimi autoritari o totalitari vengono pro-gressivamente sostituiti da Stati costituzionali. Certo, nessuno s’illude che dichiarazioni dei diritti e Corti costituzionali possa-no definitivamente prevenire regimi autoritari: ma rendono mol-to più difficile istituirli per via legale, com’era avvenuto nel-l’Italia fascista e nella Germania nazista. Comunque, tanto nei paesi di più antica democrazia, come gli Stati Uniti, quanto nel-le nuove democrazie postbelliche, si diffondono filosofie del di-ritto che sostengono la connessione del diritto e della morale tramite i principi costituzionali.

È questo il caso della filosofia del diritto di Ronald Dworkin: filosofo e giurista statunitense, successore di Hart sulla cattedra di jurisprudence di Oxford, che già negli anni Sessanta sferra il primo sistematico attacco al «modello delle regole» giuspositi-vista distinguendo regole e principi: distinzione poi da lui ab-bandonata 14, ma largamente ripresa dai neocostituzionalisti suc-cessivi. È questo il caso della teoria del diritto di Robert Alexy: costituzionalista tedesco il quale considera l’argomentazione giu-

13 Cfr. R. Guastini, La “costituzionalizzazione” dell’ordinamento giuridi-co italiano, in “Ragion pratica”, 11, 1998, pp. 185-206.

14 Cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously (1977), trad. it. I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 37-79.

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ridica un caso speciale dell’argomentazione morale 15, e coren-temente difende la Formula di Radbruch 16. Ed è questo, infine, il caso della teoria del diritto di Carlos Nino: giurista argentino che prima tenta di conciliare giusnaturalismo e giuspositivismo, poi attacca il secondo sostenendo una triplice connessione ne-cessaria (definitoria, giustificativa e interpretativa) fra diritto e morale 17.

Si tratta, evidentemente, di autori molto diversi, operanti in paesi di cultura giuridica differente: ai quali peraltro la comune etichetta ‘neocostituzionalismo’ si applica senza troppe forzatu-re proprio perché oggetto d’indagine e atteggiamento normativo sono comuni. Di fatto, la discussione odierna sui rapporti dirit-to-morale potrebbe ridursi al dibattito fra neocostituzionalismo e forme sempre più sofisticate di giuspositivismo. Specie nei paesi di lingua inglese e per rispondere alla sfida di Dworkin, come vedremo nella conclusione del capitolo (cfr. § 1.7), i giu-spositivisti si sono infatti divisi in tre correnti: il giuspositivi-smo inclusivo, che ammette la connessione contingente, non necessaria, fra diritto e morale già ammessa da Hart; il giusposi-tivismo esclusivo, che sembra negare qualsiasi connessione; il giuspositivismo normativo, che ammette possibili connessioni, salvo contestarne l’opportunità.

Dopo Auschwitz, in conclusione, i rapporti fra diritto e morale

sono tornati al centro del dibattito filosofico-giuridico: ammesso che se ne siamo mai allontanati. Da quanto si è già detto, d’altra parte, appare chiara almeno una cosa. Ognuna delle quattro filo-sofie del diritto che partecipano alla discussione su diritto e mora-le ha una storia che comincia molto prima di Auschwitz – a suo modo, ce l’ha anche il neocostituzionalismo, che si riallaccia alla

15 Cfr. R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation (1978), trad. it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffrè, Milano, 1998.

16 Cfr. R. Alexy, A Defence of Radbruch’s Formula, in D. Dyzenhaus (ed.), Recrafting the Rule of Law: the Limits of Legal Order, Hart, Oxford, Portland (Or.), 1999, pp. 15-39.

17 C.S. Nino, Derecho, moral y política (1994), trad. it. Diritto come mo-rale applicata, Giuffrè, Milano, 1999.

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millenaria tradizione politica del costituzionalismo – e un ampio ventaglio di posizioni. Proseguendo nello sforzo di Hart di rende-re comparabili posizioni largamente eterogenee, qui di seguito si presenteranno, per ognuna di esse, tre tesi caratteristiche – sui rap-porti diritto-morale, sui giudizi di valore e sull’interpretazione – nonché teoria, metodologia e ideologia rispettive. Non solo il giuspositivismo, in effetti, può dividersi in teorico, metodologico e ideologico; per certi versi si può farlo anche per le altre posi-zioni, esplicitando quanto in esse resta largamente implicito: a cominciare proprio dal giusnaturalismo.

1.3. Giusnaturalismo

Per il giusnaturalismo qui, come per giuspositivismo, giusrea-lismo e neocostituzionalismo poi, si procederà sempre nello stesso modo: si indicheranno tre tesi tipiche o caratteristiche, benché non necessariamente condivise da tutti i loro sostenitori, e teoria, me-todologia e ideologia rispettive. In tutti e quattro i casi le tre tesi riguarderanno sempre i rapporti fra diritto e morale, l’oggettività o soggettività delle valutazioni etiche (morali, politiche, giuridi-che), e il problema dell’interpretazione; la teoria, ossia i problemi rispettivi, la metodologia, cioè il metodo conoscitivo, l’ideologia, ovvero l’atteggiamento normativo. Questa tecnica di presentazio-ne ha il pregio espositivo di mostrare somiglianze e differenze fra le quattro filosofie del diritto; ha però il difetto storiografico di in-durre a pensare che tutti i filosofi del diritto si siano occupati, sempre e ovunque, degli stessi problemi eterni: il che, naturalmen-te, non è affatto vero.

Giusnaturalismo: 1) Tesi della connessione necessaria fra diritto e morale: solo

il diritto moralmente giusto è diritto, il diritto (intollerabil-mente) ingiusto non è diritto.

2) Oggettivismo etico: i giudizi di valore sono veri o falsi, o almeno oggettivamente giusti o ingiusti.

3) Formalismo interpretativo: a ben vedere, ogni caso giudi-ziale ha una sola soluzione, ogni disposizione giuridica un solo significato.

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Sulla tesi 1), la connessione necessaria fra diritto e morale, va anzitutto ricordato che essa presenta due varianti: una forte (il diritto ingiusto non sarebbe diritto) e una debole (il diritto in-tollerabilmente ingiusto non sarebbe diritto). Peraltro, solo la seconda, incorporata nella Formula di Radbruch, è davvero so-stenibile; per la prima, qualsiasi norma giuridica anche lonta-namente sospetta d’ingiustizia vedrebbe sempre messa in dub-bio la propria giuridicità. Occorre poi precisare che ai giusnatu-ralisti interessano assai meno le connessioni conoscitive – la con-nessione definitoria (il diritto ingiusto non può neppure dirsi di-ritto) e la connessione identificativa (il diritto applicabile non può neppure individuarsi come tale senza prima chiedersi se sia giusto) – e molto di più le connessioni normative: la connessio-ne giustificativa (al diritto ingiusto non si deve comunque obbe-dire) e la connessione interpretativa (l’unica norma applicabile a un caso, o attribuibile come significato a una disposizione, dev’es-sere la più giusta).

Bisogna insistere, infine, che nonostante le critiche rivolte al giuspositivismo dopo Auschwitz, il giusnaturalismo è, delle quat-tro filosofie del diritto, la più favorevole all’obbedienza al diritto: anche al diritto positivo. Il più autorevole esponente odierno di questa tradizione, il filosofo cattolico John Finnis, anch’esso allievo di Hart, sostiene espressamente una presunzione di legit-timità del diritto positivo: bisognerebbe pensarci due volte prima di disobbedire al diritto, perché si rischierebbe di incrinare una sana abitudine all’obbedienza 18. La stessa formula di Radbruch, del resto, presuppone un obbligo generale di obbedire al diritto positivo: obbligo generale che viene meno solo quando il diritto supera una certa soglia d’ingiustizia. Di regola, insomma, si deve obbedire anche al diritto ingiusto; l’unico diritto che va davvero disobbedito è il diritto intollerabilmente ingiusto.

Sulla tesi 2), l’oggettivismo etico – i giudizi di valore sono veri o falsi, o almeno oggettivamente giusti o ingiusti – occorre accennare che, nella sua storia millenaria, il giusnaturalismo l’ha sostenuta con almeno tre varianti. Per il giusnaturalismo antico

18 Cfr. J. Finnis, Natural Law and Natural Rights (1980; 1992), trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 397-401.

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(e medievale) la giustizia dipende dalla natura delle cose, igno-rando la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, o fra proposizioni e norme: non distinguendo, cioè, il giudizio di fatto che la terra è piatta e il giudizio di valore che l’aborto è cattivo. In entrambi i casi, i giudizi – affermazioni della forma ‘x è …’ – descriverebbero, come una proposizione empirica, qualità delle cose stesse, date nella natura stessa delle cose 19. I giudizi di va-lore sarebbero dunque veri-o-falsi (ossia apofantici), e comun-que oggettivi, come i giudizi di fatto della scienza moderna: al-lora non ancora nata e confusa con la filosofia.

Per il giusnaturalismo moderno, o giusrazionalismo, svilup-patosi nell’epoca moderna, dalla scoperta dell’America alla Rivo-luzione francese, la giustizia dipende invece dalla ragione umana: non più dalla natura delle cose. Le scoperte geografiche, la fine dell’unità politica e religiosa del mondo, e soprattutto la scienza moderna, che impone di distinguere giudizi di fatto e giudizi di valore, rendono inconcepibile l’idea che bontà o giustizia siano qualità delle cose stesse: in realtà, si tratta sempre di idee della ragione umana. Quest’ultima è ancora ritenuta comune a tutti gli uomini, e dunque produttiva di verità oggettive; chiunque sia dotato di ragione, cioè, dovrebbe ritenere autoevidenti verità e-tiche o principi giuridici come i diritti dell’uomo. Il giusrazio-nalismo è ancora una forma di oggettivismo etico, ma apre la strada al soggettivismo etico: basta ammettere che le ragioni so-no plurali e soggettive (lat. tot capita, tot sententiae: tante teste, tante opinioni).

Per il neogiusnaturalismo, infine, emerso negli ultimi due se-coli, la giustizia può dipendere dalla natura delle cose o dalla ra-gione umana, a seconda del giusnaturalismo che si recupera; si tratta infatti delle varie “resurrezioni” del diritto naturale, dato per morto dopo due eventi settecenteschi: la distinzione fra giu-dizi di fatto e giudizi di valore, proposizioni e norme, operata da David Hume (cfr. § 2.3); la codificazione del diritto, ossia la sua redazione in costituzioni e codici. Giusnaturalismo e ogget-

19 Cfr. M. Villey, Le droit dans les choses, in P. Amselek, C. Grzegorgczyk (sous la direction de), Controverses autour de l’ontologie du droit, Puf, Paris, 1989, pp. 127-135.

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tivismo etico entrano così in crisi; nella prima metà del Nove-cento i filosofi dell’etica smetteranno persino di avanzare giudi-zi di valore (di fare etica normativa): dedicandosi piuttosto a discutere se i giudizi di valore siano oggettivi oppure soggettivi (tipo di interrogazione chiamata metaetica) 20. L’etica normativa rinasce con Una teoria della giustizia (1971), di John Rawls; ma qui i valori non sono più dati nella natura o nella ragione, bensì costruiti (cfr. § 3.6).

Quanto alla tesi 3), il formalismo interpretativo – ogni caso giudiziale ha una sola soluzione, ogni disposizione giuridica un solo significato – nel capitolo quinto (cfr. § 5.3) si distingueran-no tre teorie dell’interpretazione: lo stesso formalismo interpre-tativo, la Teoria mista e lo scetticismo interpretativo. Il giusna-turalismo antico e moderno, per la verità, non si è mai occupato di teoria dell’interpretazione: questa nasce solo nel Novecento. Peraltro, sembra esservi un legame fra oggettivismo etico e for-malismo interpretativo; quantomeno, i neogiusnaturalisti odierni che si occupano di interpretazione sono di solito formalisti 21. Ma l’unico formalista interpretativo degno di nota, oggi, è il neoco-stituzionalista Dworkin: il quale peraltro sostiene una forma tutta normativa di formalismo interpretativo, per la quale (non vi è, bensì) vi deve essere un’unica soluzione corretta (cfr. § 5.3.1).

Delle tre tesi appena considerate, comunque, l’unica che per-metta davvero di distinguere giusnaturalismo e giuspositivismo è la 1); sulla 3) i giusnaturalisti non hanno di solito alcuna tesi, mentre sulla 2), benché tutti i giusnaturalisti siano oggettivisti, non tutti gli oggettivisti sono giusnaturalisti: sono oggettivisti an-che autori utilitaristi come Jeremy Bentham e John Austin, rite-nuti peraltro giuspositivisti perché avanzano, prima ancora di Hart, la Tesi della separabilità (cfr. § 1.4). Un autore può in effet-ti classificarsi come giusnaturalista anche solo se sostiene la Te-si della connessione necessaria fra diritto e morale, in una o più delle sue varianti (definitoria, identificativa, giustificativa o in-

20 Cfr. R.M. Hare, Sorting Out Ethics (1997), trad. it. Scegliere un’etica, Il Mulino, Bologna, 2006.

21 Cfr. M. Moore, A Natural Law Theory of Interpretation, in “Southern California Law Review”, 58, 1985, pp. 277-298.

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terpretativa). Per intendere meglio la posizione giusnaturalista, d’altra parte, occorre ancora considerarne aspetti teorici, meto-dologici e ideologici: benché questi siano raramente distinti da-gli stessi giusnaturalisti.

1.3.1. Dal punto di vista teorico, che riguarda l’insieme delle

teorie (solo conoscitive) e delle filosofie (anche normative) so-stenute dai giusnaturalisti, queste ruotano proprio attorno al problema dei rapporti fra diritto e morale, e spesso si riducono a mere filosofie della giustizia. Bisogna ricordare che la tradizio-ne giusnaturalista si sviluppa soprattutto in epoche e culture le quali non distinguono il diritto dalla morale, e i giudizi di fatto dai giudizi di valore. Quanto all’indistinzione fra diritto e mora-le, tipica delle culture antiche ed extraoccidentali, basti dire che essi sono indicati, nella filosofia greca, da un unico termine, il greco antico ‘dikaion’ (letteralmente il giusto, la giustizia): ciò che rende difficile distinguere morale e diritto, pur senza render-lo impossibile. I sofisti prima e Aristotele poi, ad esempio, distin-guono un giusto per natura (gr. ant. dikaion fusei) e un giusto per convenzione (gr. ant. dikaion thesei).

Quanto all’indistinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valo-re, e fra proposizioni e norme, essa è quasi ignota al pensiero an-tico; ancora il filosofo e logico giusnaturalista Gottfried Leibniz, contemporaneo di Hume, considera le norme come proposizioni. In entrambi i casi si tratterebbe di giudizi, predicazioni di qualità rispetto a un ente: ignorando la differenza fra qualità fisiche (co-me leggero o pesante) e qualità etiche (come giusto o ingiusto). Se non si distinguono giudizi di fatto e giudizi di valore è più fa-cile ritenere che i secondi siano oggettivi come i primi, e che da giudizi di fatto possano dedursi giudizi di valore: come solo Hume comincia a negare (cfr. § 2.3). Ancor oggi, l’oggettività dei giu-dizi di valore è ammessa dalla maggioranza dei filosofi morali almeno per qualità etiche spesse (ingl. thick) come coraggioso o degradante: se non anche per qualità etiche sottili (ingl. thin), co-me buono o giusto 22.

22 Cfr. B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy (1985), trad. it. L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1987, cap. 8.