Capitolo 4 Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia ... · mologia a cavallo tra l'individuo e la...

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86 Capitolo terzo impressioni sensoriali esplicano nei confronti degli oggetti situati nel tempo e nello spazio: alla coerenza tra le varie impressioni sensoriali nella conoscenza oggettiva corrisponde, nella cono- scenza soggettiva, un'esperienza emotiva consensuale" (p. 182). Possiamo così considerare le idee di Bion il frutto di un'episte- mologia a cavallo tra l'individuo e la relazione - "transizionale", potremmo dire, in omaggio a Winnicott -, tra l'emozione vissuta nella relazione e la cognizione del singolo, tra lo scambio rela- zionale e il pensiero. Un'ottica sempre rivolta a ciò che unisce i di- versi termini e ambiti, piuttosto che separarli. La lettura di questo saggio può essere propedeutica allo studio delle altre opere di Bion, perché ci rivela il suo modo di pensare, di associare insieme i diversi modelli e i concetti della psicoanali- si classica. Concordo con i Symington (1996), psicoanalisti e allievi di Bion, quando sottolineano la necessità di considerare il suo lavo- ro come sganciato e indipendente dalle teorie di Freud e della Klein. Chi propone una continuità tra il pensiero di Bion e la psi- coanalisi "classica" sottovaluta, tra l'altro, la sua drastica scelta di vita, quella di lasciare l'Inghilterra e di stabilirsi negli Stati Uniti per evitare l'assimilazione ai maestri. Concludendo, possiamo ribadire che tutto lo sforzo teorico di Bion è rivolto a definire la mente e il lavoro clinico come un "evento relazionale", una serie di trasformazioni possibili solo se si considerano i processi mentali come il lavoro congiunto di due persone che si incontrano mettendo in comune emozioni, paure, immagini e narrazioni, in un contesto il più possibile "sicuro". Questo mi sembra il più importante lascito di Bion, insieme al- la diffidenza verso ogni sclerotizzazione del pensiero, quel pro- cesso che vede le ipotesi - sempre necessarie - trasformarsi in dogmi prima e in manifesti ideologici poi. Come disse anche nei seminari in Italia, al termine della sua vita, bisogna combattere queste "calcificazioni" per poter apprezzare la continua evolu- zione delle idee che ci porta termini, concetti e ipotesi sempre nuovi, pensieri "in cerca di un pensatore". Capitolo 4 Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale In questo capitolo intendo proporre alcuni confronti fra le teo- rie di Bateson e quelle di Bion, ricercando una sorta di dialogo tra i due grandi pensatori del secolo appena trascorso. A un'attenta analisi, Bateson e Bion sembrano sviluppare presupposti, meto- dologie di studio e stili di pensiero del tutto compatibili. Dai col- legamenti che, col tempo, si sono materializzati davanti ai miei occhi potrebbero emergere nuovi stimoli, sia per la psicoanalisi che per la terapia sistemica, e anche per le scienze sociali. Il vertice da cui comporre tale dialogo non può che essere una concezione relazionale, che vede le interazioni fra gli individui e fra i gruppi come processi bidirezionali di influenzamento reci- proco, sempre aperti a nuove soluzioni. Dunque il confronto Ba- teson-Bion sarà utile solo se riusciremo a guardare ai soggetti e ai loro sistemi - al cambiamento e all'evoluzione - da un punto di vista interattivo: se sapremo, cioè, collegare il concetto di mente alle relazioni e ai diversi contesti intersoggettivi. Uno tra i maggiori meriti di Bateson è sicuramente quello di aver introdotto un'ottica relazionale in biologia, considerando l'intera disciplina come un insieme di "storie", processi e intrecci che portano a evoluzioni e cambiamenti continui. Come abbiamo visto nel primo capitolo, la differenza tra il pun- to di vista intrapsichico e quello relazionale condiziona il piano di

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impressioni sensoriali esplicano nei confronti degli oggetti situatinel tempo e nello spazio: alla coerenza tra le varie impressionisensoriali nella conoscenza oggettiva corrisponde, nella cono-scenza soggettiva, un'esperienza emotiva consensuale" (p. 182).

Possiamo così considerare le idee di Bion il frutto di un'episte-mologia a cavallo tra l'individuo e la relazione - "transizionale",potremmo dire, in omaggio a Winnicott -, tra l'emozione vissutanella relazione e la cognizione del singolo, tra lo scambio rela-zionale e il pensiero. Un'ottica sempre rivolta a ciò che unisce i di-versi termini e ambiti, piuttosto che separarli.

La lettura di questo saggio può essere propedeutica allo studiodelle altre opere di Bion, perché ci rivela il suo modo di pensare,di associare insieme i diversi modelli e i concetti della psicoanali-si classica.

Concordo con i Symington (1996), psicoanalisti e allievi diBion, quando sottolineano la necessità di considerare il suo lavo-ro come sganciato e indipendente dalle teorie di Freud e dellaKlein. Chi propone una continuità tra il pensiero di Bion e la psi-coanalisi "classica" sottovaluta, tra l'altro, la sua drastica scelta divita, quella di lasciare l'Inghilterra e di stabilirsi negli Stati Unitiper evitare l'assimilazione ai maestri.

Concludendo, possiamo ribadire che tutto lo sforzo teorico diBion è rivolto a definire la mente e il lavoro clinico come un"evento relazionale", una serie di trasformazioni possibili solo sesi considerano i processi mentali come il lavoro congiunto di duepersone che si incontrano mettendo in comune emozioni, paure,immagini e narrazioni, in un contesto il più possibile "sicuro".

Questo mi sembra il più importante lascito di Bion, insieme al-la diffidenza verso ogni sclerotizzazione del pensiero, quel pro-cesso che vede le ipotesi - sempre necessarie - trasformarsi indogmi prima e in manifesti ideologici poi. Come disse anche neiseminari in Italia, al termine della sua vita, bisogna combatterequeste "calcificazioni" per poter apprezzare la continua evolu-zione delle idee che ci porta termini, concetti e ipotesi semprenuovi, pensieri "in cerca di un pensatore".

Capitolo 4

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale

In questo capitolo intendo proporre alcuni confronti fra le teo-rie di Bateson e quelle di Bion, ricercando una sorta di dialogo trai due grandi pensatori del secolo appena trascorso. A un'attentaanalisi, Bateson e Bion sembrano sviluppare presupposti, meto-dologie di studio e stili di pensiero del tutto compatibili. Dai col-legamenti che, col tempo, si sono materializzati davanti ai mieiocchi potrebbero emergere nuovi stimoli, sia per la psicoanalisiche per la terapia sistemica, e anche per le scienze sociali.

Il vertice da cui comporre tale dialogo non può che essere unaconcezione relazionale, che vede le interazioni fra gli individui efra i gruppi come processi bidirezionali di influenzamento reci-proco, sempre aperti a nuove soluzioni. Dunque il confronto Ba-teson-Bion sarà utile solo se riusciremo a guardare ai soggetti e ailoro sistemi - al cambiamento e all'evoluzione - da un punto divista interattivo: se sapremo, cioè, collegare il concetto di mentealle relazioni e ai diversi contesti intersoggettivi.

Uno tra i maggiori meriti di Bateson è sicuramente quello diaver introdotto un'ottica relazionale in biologia, considerandol'intera disciplina come un insieme di "storie", processi e intrecciche portano a evoluzioni e cambiamenti continui.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, la differenza tra il pun-to di vista intrapsichico e quello relazionale condiziona il piano di

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spiegazione a cui si può giungere. Nel modello intrapsichico (ounipersonale), il punto di partenza per elaborare una teoria dellamente non può che essere il singolo soggetto, le sue caratteristichee la sua dotazione biologica. Nel modello relazionale, invece, labiologia del singolo non appare più come un aspetto primario eanche il dato biologico può essere considerato il prodotto di unafamiglia, di una cultura, di un'evoluzione millenaria. Il singolosoggetto è considerato un frammento del contesto sociale, il pro-dotto - storico, relazionale, biologico - di un campo più comples-so che lo determina, come ci mostrano chiaramente anche gli stu-di sul "mondo interpersonale" del neonato (Stern, 1985).

Le teorie di Bateson e di Bion sono state tra le prime a impo-stare su nuove basi, nelle scienze biologiche e nelle scienze socia-li, il tema dell'identità. L'identità del soggetto è il prodotto di unsistema dinamico che si evolve, si (ri)elabora e si (ri)struttura al-l'interno di contesti più generali.

Dalle idee del singolo - con le sue "difese" e i suoi "meccani-smi psichici" - si passa a una più ampia logica della relazione,una "danza interattiva" capace di creare scenari complessi. Sitratta di un punto di vista insaturo che lascia aperte moltissimedomande. Esiste una mente? Che confini ha? Come la possiamoosservare? Come interagisce con le altre menti? E come possiamopensare il cambiamento?

Tutte domande che sia Bateson che Bion hanno continuato aporsi nel loro percorso, e che ci poniamo anche noi leggendo i lo-ro lavori. I due autori ci inducono a riflettere sul ruolo della rela-zione, delle emozioni e del cambiamento, senza accettare facili ri-sposte di comodo. La spiegazione, infatti, potrebbe limitarsi a in-trodurre alcuni princìpi primi banali che Bateson, citando II ma-lato immaginario di Molière, definisce "princìpi dormitivi" ("l'op-pio provoca il sonno perché contiene un principio dormitivo"). Ditali spiegazioni non sappiamo che farcene. Abbiamo bisogno dispiegazioni più sofisticate, di metafore utili per definire i processimentali e sociali.

Bateson ha scritto alcuni "metaloghi", dialoghi immaginari tra

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lui e sua figlia Mary Catherine in cui la figura del saggio si con-fronta con quella del non esperto in un dialogo irriverente, cheguarda con occhi nuovi ai temi classici della conoscenza. Bion ciha lasciato alcuni appunti "sospesi", spunti liberi tratti dalle sueterapie, e altre riflessioni "selvagge", in Cogitations. Al terminedella sua vita, ci ha lasciato una versione poetica delle sue teorie,scritte in forma di romanzo, uno stream ofconsciousness della stes-sa fattura delle narrazioni in seduta. Ma anche quando il loro sti-le diviene poetico, possiamo apprezzare il rigore che entrambi gliautori perseguono nel descrivere i processi mentali, confrontan-doli sempre con i dati biologici ed evolutivi, senza mai operare fa-cili riduzioni.

Quella che intendo proporre non è una semplice analogia; sitratta piuttosto di un'ipotesi di lavoro. È un dialogo immaginarioche, se si fosse effettivamente svolto, avrebbe facilitato il supera-mento di alcuni dannosi steccati ideologici. Sia Bateson che Bion,nella loro vita, hanno sempre ignorato i confini tra le diverse di-scipline, e hanno cercato di rispettare la complessità degli eventiche volevano studiare.

Ma come procedere nel costruire tale dialogo?Ancora una volta, ci viene in aiuto la metodologia utilizzata

dai due autori. Bateson, nella creazione di nuovi modelli, utilizzal'abduzione, una modalità di pensiero da affiancare alla deduzio-ne e all'analisi sistematica degli eventi.

Bion, sulla stessa lunghezza d'onda, per uscire dai soliti circui-ti di pensiero ricorre aH'"immaginazione speculativa", una com-mistione tra un pensiero rigoroso e sistematico e un pensiero "ri-lassato", libero e immaginativo, ricco di intuizioni e nuove aper-ture.

Solo con questo metodo - che definirei al cento per cento scien-tifico e al cento per cento poetico - possono emergere nuovi pun-ti di vista e spunti fecondi per comprendere l'uomo e le sue rela-zioni, e quel particolare contesto che è la "cura", la psicoterapia.

L'abduzione è sia il metodo sia il processo di pensiero che Ba-teson e Bion hanno utilizzato per elaborare le loro teorie. Il pen-

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infatti sull'immaginazione. Entrambi gli autori non prendono inconsiderazione esclusivamente il pensiero razionale, ma rivolgo-no la loro attenzione a una logica relazionale ed emotiva, propriadel "mondo delle cose viventi".

Partirò, allora, dall'esplorazione di questa forma relazionale e f"laterale" di pensiero, l'abduzione, che è la materia stessa di cuiè composta Inestetica della relazione".

Il termine è stato introdotto dal linguista Charles Sanders Peir-ce, tra i padri fondatori della semiologia, e definisce uno stile diragionamento basato sulle similitudini, in base al quale si può os-servare che un'analogia o una regola formale può valere per fe-nomeni di diverso genere (si veda Peirce, 1901; Padovani, in Man-ghi, 1998).

Nell'abduzione si parte da alcuni "fatti" per mettersi alla ricer-ca di una regola, una teoria, capace di spiegarli. Come ci ricordaPeirce, l'abduzione ci consente di accostare fenomeni simili e, inun secondo momento, giungere a dar loro un ordine attraversouna regola unitaria.

Utilizzando l'abduzione, dobbiamo mantenere però una sortadi fiducia nella capacità di giungere infine a una conclusione. Sitratta di tollerare il dubbio e l'incertezza (che Bion chiama "ca-pacità negativa" o - K) senza affidarsi subito al già noto o a rego-le di comodo.

Grazie all'abduzione, le leggi e le regole sono solo un puntod'arrivo, un approdo dopo un lungo percorso in cui possiamo di-segnare nuovi e più ampi confini per le conoscenze precedente-mente accettate. L'abduzione stimola nuovi pensieri e nuove pos-sibili categorizzazioni dei fenomeni e contribuisce a farci rime-scolare i presupposti teorici, per esempio osservando - come fa-ceva Bateson - le similitudini tra granchi, anemoni di mare e schi-zofrenici.

L'abduzione si differenzia dall'induzione, in quanto descriveuna traiettoria opposta che parte dall'acccttazione di una regolaastratta, già data, codificata e mai messa in dubbio, per definire i

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fenomeni che si osservano come campi d'applicazione di tale re-gola. In proposito, Bateson ricorda Francesco Bacone quando af-ferma che "ci sono due modi, e possono essere soltanto due, dicercare e trovare la verità. Un metodo si allontana dalle sensazio-ni e dai particolari per partire da assiomi più generali e da questiprincìpi e dalle loro verità stabilite, una volta per tutte, inventa ecrea assiomi intermedi. L'altro metodo raccoglie assiomi dallesensazioni e dai particolari, salendo continuamente e per gradi cosìda arrivare, alla fine, ad assiomi più generali; quest'ultimo è quel-lo vero, non provato fino ad ora" (Dove gli angeli esitano, p. 234;corsivo aggiunto).

Possiamo, allora, apprezzare la differenza ma anche la com-plementarità tra queste due forme di pensiero: l'abduzione "è ilprimo passo del ragionamento scientifico, così come l'induzioneè il passo conclusivo" (Peirce, 1901).

Grazie all'abduzione possiamo assistere al procedere della co-noscenza non solo per deduzioni logiche (da regole e concettiastratti) ma anche per "estensioni laterali" di componenti (rela-zioni di relazioni), confrontando fenomeni diversi che possonosottostare alle medesime regole. L'induzione, invece, come ricor-da Peirce, "parte da un'ipotesi promettente, senza all'inizio averedi mira fatti particolari". In questo modo, mentre il pensiero ab-duttivo si nutre di similitudini e cerca una teoria tutta ancora dainventare, l'induzione è alla ricerca di fatti capaci di sostanziareuna teoria già accettata e conferirle "uno statuto di verità". Co-me afferma Bateson, "l'abduzione è un modo per proporre somi-glianze a partire da altre somiglianze", e costituisce il metodo mi-gliore per studiare i fenomeni emotivi e relazionali, in quanto"tutta l'arte, la terapia, la religione, il totemismo, l'umorismo, so-no fenomeni abduttivi" (Mente e natura, p. 192).

L'abduzione è la logica del pensiero emotivo: un pensiero sen-sibile alle relazioni e ai diversi contesti, capace di creare nuove im-magini e nuovi concetti a partire da esperienze vissute. Tale mo-dalità può rendere conto dei processi emozionali, in quanto de-scrive una logica "prossima" agli scambi relazionali, e ci svela la

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logica propria dell'ascolto psicoanalitico: un ascolto libero, alla ri-cerca di un patterà che possa connettere la narrazione del pazien-te al transfert/controtransfert (o co-transfert?) e alle risorse emoti-ve e narrative della coppia psicoanalitica.

L'analista, secondo Bion, deve essere in grado di mettere in co-municazione un piano di conoscenza (K) con un piano vissuto(O); deve cioè "danzare" tra l'essere (o T'essere con" di Jean-LueNancy) e il conoscere, a volte costruendo e a volte disarticolandomodalità conoscitive accettate e patterà ricorrenti. Deve sempremuoversi tra il noto della coscienza e il "perturbante", l'ignoto delnon pensato. Anche la narrazione terapeutica si muoverà dal giàconosciuto fino a ciò che non è ancora accaduto, i "pensieri na-scenti".

Lungo questo percorso, l'interpretazione psicoanalitica non èpiù quella descrizione "oggettiva" a cui ci aveva abituati la psi-coanalisi freudiana, ma diviene un'azione-emozione. E così può(o deve) essere pensata per divenire infine conoscenza. L'analistadeve "funzionare" nello spazio della pazienza e "attendere chedalle parole dell'analizzando emerga uno schema (patterrf) su cuibasare l'interpretazione. Quando l'analista comincia a sentire chele libere associazioni e le narrazioni del paziente non sono real-mente diverse perché mostrano lo stesso tipo di struttura (pattern),allora diventa importante aspettare fino a che non sia in grado dicapire com'è quella struttura" (Memoria del futuro, p. 22).

Come si vede, anche Bion è alla ricerca del "pattern che con-nette", di una storia capace di cogliere la ridondanza che fondale azioni o le narrazioni del paziente.

Devo subito aprire una parentesi per ricordare che, secondoBion, l'interpretazione psicoanalitica classica comporta una sor-ta di isolamento degli elementi, mentre il corrispettivo della "co-struzione" è, come sostiene Fabio Galimberti, "la formulazionedi una relazione simmetrica che rende il materiale d'analisi ri-spondente a uno schema (pattern), a un modello in cui si articola-no in modo costante gli elementi individuati" (2000, p. 228).

Tutto questo è possibile solo con un ascolto "sognante", rare-

fatto, un ascolto abduttivo, affettivo e iconico - direi "poetico" -che lascia condensare nella mente della coppia psicoanaliticanuove storie e nuove immagini.

Utilizzando la mia immaginazione speculativa e il mio pensie-ro abduttivo, cercherò dunque di tracciare alcuni paralleli Bate-son-Bion, creando delle zone di sovrapposizione, accostando di-verse idee - spesso nate in contesti teorici molto distanti - per rac-coglierle in alcuni campi metaforici comuni.

Dall'incontro tra le idee di Bateson e quelle di Bion potrà emer-gere, così, un percorso capace di indicarci delle prospettive origi-nali.

Sarà bene ricordare che, nonostante la sua lunga storia di in-comprensioni, Bateson oggi è considerato il padre della modernateoria sistemica, una disciplina che ha saputo superare gli aspettistrategici e neo-comportamentali dei suoi esordi (Telfener e Ca-sadio, 2003); e Bion è uno dei primi psicoanalisti che hanno ab-bandonato le teorie freudiane e kleiniane per creare un modellodella mente e della cura puramente relazionale.

Secondo Gilles Fauconnier e Mark Turner (2001) la metaforaè lo strumento migliore per operare un confronto tra due diversicampi di esperienza (o "spazi input"). Le loro teorie, complessee sofisticate, non isolano i singoli aspetti che compongono la me-tafora ma tratteggiano un processo di base del pensiero, del ra-gionamento e dell'immaginazione: 1'"integrazione concettuale".

Il pensiero è concepito da Fauconnier e Turner in maniera tan-to concreta che le rappresentazioni sono viste come oggetti collo-cati in "spazi mentali". Le metafore ci aiutano a manipolare leidee, perché ci consentono di mettere in relazione due diversi spa-zi mentali, grazie al processo di integrazione. Il risultato di taleprocesso, l'amalgama - armonizzato da "cornici comuni" - pro-pone spesso delle novità, in quanto permette una sintesi utile allarisoluzione di problemi e stimola la creatività e il ragionamentoproduttivo.

Le metafore, in questa accezione, non sono mere figure retori-che, ma veri e propri processi di pensiero che fondono insieme gli

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aspetti salienti di due diversi domimi concettuali e guidano le no- jstre riflessioni coniugando, o amalgamando, diversi campi se-!mantici.

Svolgendo in parallelo le idee di Bateson e quelle di Bion, pos-siamo creare alcune nuove metafore, vere e proprie "miscele" ca-paci di legare i pensieri dei due autori in un'unica teoria della 'mente e delle relazioni.

Da teorie simili (anche solo in parte), alla fine avremo un in-sieme di idee e di descrizioni, una rete di analogie capace di ren-dere più chiari e comprensibili i presupposti delle nostre episte-mologie. In questo modo, avremo creato un pattern che connettee amplia le ipotesi dei due autori.

Per capire appieno il concetto di "miscela" di Fauconnier eTurner può essere utile un esempio tratto dalla poesia. Jorge LuisBorges, nel suo volume dedicato alla poesia (2000, p. 41), com-menta una metafora, un frammento minimo, tratto da una poesiadi Byron, una miscela a proposito di una donna e della notte:

She walks in beauty like thè night(Cammina nella bellezza come la notte).

Per Borges, il verso nasconde una complessità interna, in quan-to "c'è una bella donna; poi ci viene detto che costei cammina inbeltà (...) c'è, in primo luogo, una bella donna, una bella signoraparagonata alla notte. Ma per poter capire il verso, dobbiamo an-che pensare alla notte come ad una donna; altrimenti il verso nonha senso. Così in queste parole tanto semplici, c'è una doppia me-tafora [una miscela, per noi]: una donna viene paragonata allanotte, ma la notte viene paragonata alla donna".

Così facendo, si evidenzia "un paragone a due vie", una fusio-ne tra le due immagini, che trasforma la nostra rappresentazionesia della donna che della notte.

Se la miscela è un modo razionale di riflettere sui problemi,possiamo pensare l'inconscio come "una fabbrica" - del tutto in-consapevole - di amalgami. Da questo punto di vista, la "notte-

donna" o la "donnanotte" diverrebbe una sola immagine - ma-gari propria del sogno - con caratteristiche misteriose e affasci-nanti, tutte da scoprire.

Proporrò, dunque, alcune miscele Bateson-Bion. Questi cam-pi metaforici ci permetteranno di cogliere il loro stile di pensieroe la loro specifica modalità di costruzione (abduttiva) delle teorie.Così facendo, c'è forse il rischio di minimizzare le differenze traloro, ma è un rischio calcolato, perché appare utile, ora più chemai, cogliere le interconnessioni tra queste diverse idee più che leopposizioni, che segnano confini, steccati e (in)differenze. In ul-timo, credo che questo lavoro possa contribuire a chiarire le teo-rie di due autori troppo spesso relegati in una strana terra di mez-zo, contemporaneamente "all'interno" e "all'esterno" di precisetradizioni di ricerca: la psicoanalisi (freudiana e kleiniana) perBion, e la scienza sistemica, l'antropologia, la cibernetica (del se-condo ordine) per Bateson.

Tra Bateson e Bion, allora, scopriamo uno spazio creativo chepuò stimolare domande e ipotesi, per far crescere nuove idee, teo-rie e metafore praticabili per le scienze sociali, per l'epistemolo-gia, come per la clinica.

Primo confronto. Una questione di stile: metaloghi, miti, iperbuliestorie

Gli aspetti formali sono quelli che maggiormente colpisconochi cerca di studiare congiuntamente le teorie di Bateson e diBion. Molto si è scritto sulle loro modalità espositive e narrative(mai paragonandole tra loro) ma, a uno sguardo attento, tali si-militudini non possono che amplificarsi, tanto che le zone di so-vrapposizione diventano davvero significative.

Vorrei consigliare la lettura in parallelo della vita e delle ope-re dei due autori attraverso almeno quattro libri; quello di Stefa-no Brunelle (1992) e quello a cura di Marco Deriu (2000) su Ba-teson, e quelli di Gerard Bléandonu (1990) e di Fabio Galimber-

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ti (2000) su Bion. Questi volumi permettono una lettura diacro-nica della vita e dell'opera degli autori e aiutano a collegare imolteplici aspetti del loro percorso intellettuale. I parallelismisalteranno immediatamente agli occhi, e mi limiterò a propornealcuni.

Entrambi gli autori sono stati apprezzati soprattutto nella se-conda metà della loro vita professionale. Bion - che divenneanalista solo dopo i cinquant'anni - verso la fine della sua vitadecise di lasciare Londra per stabilirsi in California, soprattuttoper non essere considerato l'erede della tradizione kleiniana. InCalifornia, però, non fu capito a fondo, anche se raggiunse undiscreto successo. Anche Bateson, nello stesso periodo, si rifugiòa New Esalen, in California, dopo aver incassato il completo di-sinteresse per le sue opere da parte dell'establishment universi-tario.

Bateson, che per tutta la vita è passato da un progetto all'al-tro, era sempre alla ricerca di qualcuno che potesse sovvenzio-nare i suoi studi e spesso si lamentava di non essere capito, arri-vando a urlare: "Qualcuno mi ascolta?" alludendo al suo scar-so seguito.

La loro vita è percorsa da esperienze svolte in diversi campiteorici: un arco che lega l'antropologia alla psichiatria, la biolo-gia, le scienze naturali e la genetica alla logica, per quanto ri-guarda Bateson; la storia, la medicina, la psicoanalisi, la psicolo-gia dello sviluppo alla filosofia, per quanto riguarda Bion.

L'arte e la poesia sono passioni comuni, citate da entrambi gliautori nei convegni e nei momenti salienti della loro esistenza.Colpisce l'amore per gli stessi poeti: Milton, Eliot, Blake e Cole-ridge. A questo proposito, Bion preparò una scelta di poesie a usodegli psicoanalisti, per sottolineare l'importanza di una "sensibi-lità artistica" nel lavoro clinico.

Le loro biografie mostrano numerosi tratti comuni: un'infanziae un'adolescenza travagliate, la contiguità con esperienze di an-nichilimento, lutti, impotenza, la guerra, il suicidio di un fratel-

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lo, la morte di mogli e figli, scelte familiari rigide, la sensazione difallire e di non trovare uno sbocco adeguato per le proprie idee eper le proprie intuizioni innovative.

Entrambi hanno avuto un'esistenza difficile e per lunghi trattidominata dalla sensazione di essere incompresi.

Sia Bateson che Bion hanno seguito un percorso inimitabile.È impossibile dirci bioniani o batesoniani. Come ricorda

Parthenope Bion Talamo, "non possiamo dirci bioniani, perchéesserlo significa essere in primo luogo noi stessi, essere mental-mente liberi nei nostri viaggi di scoperta, sempre però sulla basedi una ferrea disciplina personale, perché libertà e anarchia nonsono sinonimi".

I due autori sono stati sempre dentro e fuori le teorie, le tradi-zioni concettuali, mantenendo una disciplina rigida ma coltivan-do sempre una totale libertà di pensiero. Entrambi hanno vissutoun rapporto creativo e, al contempo, vincolante con le istituzionicon cui sono venuti a contatto seguendo più o meno un copionesimile:

- dapprima seguendo le proprie intuizioni personali (l'espe-rienza nei gruppi per Bion e i primi studi antropologici per Bate-son);

- poi, passando per una forte codifica formale, legata all'uso diun linguaggio matematico: le Macy Conferences, l'avventura ci-bernetica e i contatti con von Foerster, McCulloch e Wiener, perBateson; la ricerca matematica, le intuizioni di Poincaré, l'incon-tro con Matte Bianco, per Bion;

- all'apice della loro carriera, hanno compiuto una svolta chemolti autori hanno definito "mistica", ma che potremo com-prendere meglio se riusciamo a coglierla come contraria alle va-rie forme di dualismo, di separazione tra i diversi campi del sa-pere: una svolta segnata da un uso "narrativo", più che assiolo-gico, dei modelli teorici, con riferimenti all'arte, ai miti e alle ri-flessioni libere.

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II termine "mistico" può apparire confusivo,1 soprattutto se ri-ferito a due autori che hanno sempre sottoposto le loro idee a ve-rifica scientifica. Il termine, però, descrive bene la discontinuitàtra un periodo di massima formalizzazione, caratterizzato dal-l'uso di un linguaggio matematico, e un periodo di ricerca narra-tiva ed estetica (i metaloghi e lo studio sul sacro, per Bateson; i se-minali cimici e la "trilogia del futuro" per Bion).

Questo passaggio ha portato entrambi gli autori a preferire al-le "lezioni" formali le conferenze libere, improvvisate, in cui pos-siamo apprezzare un pensiero innovativo grazie anche alla ricer-ca di nuove similitudini, nuovi esempi e nuovi collegamenti tra lediverse discipline.

La nota di stile più rilevante, che definisce anche un contenuto"forte" dell'opera sia di Bateson che di Bion, è l'interesse perquello che Bateson ha battezzato il "pattern che connette". Sitratta di una costruzione, uno strumento inventato dall'osserva-tore per poter penetrare il proprio campo di studio cogliendo le re-lazioni e i sistemi di interazione di cui l'osservatore è necessaria-mente parte. Non è una realtà sovrasistemica, ma una descrizio-ne dell'osservatore immerso nel processo che osserva.

Lo stile rarefatto e allusivo di Bateson è dovuto alla necessità dinon trattare singoli temi slegati, ma di mostrare le embricazioni,il pattern che connette i diversi esempi proposti: "Se si vuole spie-gare un fenomeno psicologico si consideri l'evoluzione biologica;se si vuole spiegare un fenomeno dell'evoluzione, si cerchi un'ana-logia psicologica formale e si consideri la propria esperienza sucosa significhi avere o essere una mente. In fin dei conti l'Episte-mologia, il pattern è uno, non molteplice" (Dovegli angeli esitano,p. 140).

1 Può essere utile ricordare la definizione di Bateson: "II mistico vede l'universo in un granello disabbia", e come, per Bion, il mistico sia capace di cogliere l'emozione condivisa e di comunicarla al grup-po con efficacia. Per Bion "i mistici sono i soli a credere che la realtà assoluta non sia inaccessibile".

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale f

II parallelo con Bion è immediato; i seminari, le "cogitazioni",i "pensieri selvaggi" e le teorie sul "mistico" sono della medesimafattura, perché sono rivolti alla relazione tra i diversi argomenti,più che ai singoli temi. Nelle sue conferenze, Bion passava im-mancabilmente dalla clinica psicoanalitica alla psicologia cultu-rale e sociale, riflettendo spesso sulla storia, sui miti e sulla biolo-gia. Le reazioni dell'uditorio erano del tutto simili a quanto ac-cadeva nei seminari di Bateson, in cui immancabilmente qualcu-no si alzava e chiedeva se l'oratore voleva dire esattamente quel-lo che stava dicendo, o era solo una specie di esempio. Questeconferenze trasmettono l'esperienza tangibile di un pensiero com-plesso che spesso si scontra con la richiesta di soluzioni lineari,proprie di un mondo fatto di forze e oggetti (il "pleroma"), chenon interessa i nostri autori.

"Pensare per storie" è l'aspetto centrale del pattern che con-nette. Se il pattern che connette è una costruzione dell'osservato-re, allora le storie non possono che essere "la colla che tiene in-sieme il vivente e la mente". L'interesse di Bateson e di Bion è ri-volto a una storia capace di rendere conto dei contesti di appren-dimento, delle emozioni condivise: "Un pattern che si dipana neltempo e che connette i suoi protagonisti in un contesto che da si-gnificato a ciò che accade" (Mente e naturò).

Pensare per storie ci permette di connettere noi stessi a piante,animali o altre persone del tutto diverse da noi. Queste storie nonsono altro che ripetizioni di moduli ("ripiegamenti" e "spiega-menti", Deleuze, 1988), di emozioni condivise, di metafore, gestie altre narrazioni che hanno un valore costruttivo nel "qui e ora",perché "le storie più importanti sono vere nel presente, non nelpassato", come ci ricorda Bateson. Le storie, in questo modo, mo-strano tutto il loro valore costruttivo.

Anche i concetti utilizzati dai due autori sono sempre presen-tati in un'accezione "debole": "funzione a", "doppio legame" so-no termini insaturi, prowisori, capaci di adattarsi all'evoluzionecontinua del linguaggio e dei modelli. Si tratta di definizioni che

100 Capitolo quarto

A.

non introducono entità astratte, ma che descrivono processi. Perquesto motivo, sono sempre concetti temporali - mai metafisici -in quanto gli autori sono sempre consapevoli del loro divenire.

La ricerca di entrambi gli autori è rivolta a temi non comuni, acampi inesplorati, come per esempio il sacro. Bateson e Bion han-no esplorato il rapporto con la divinità, il "tutto", sempre da unpunto di vista psicologico e laico. Si sono interessati alla formadel mito, alle narrazioni situazionali, utilizzando linguaggi capa-ci di rendere conto dello sviluppo del tempo.

Bateson ha utilizzato nelle sue opere i metaloghi: dialoghi li-beri che rappresentano un pensiero non codificato, un processoche replica e trasforma l'andamento della relazione con modalitàricorsive - ma anche progressive -, per estensioni laterali, per ge-neralizzazioni e per inclusione di nuovi casi, di eccezioni, intro-ducendo via via nuove idee.

Bion ha sondato la capacità "poietica" di alcuni miti, propo-nendo nuove modalità di lettura del mito della torre di Babele, delgiardino dell'Eden e delle vicende di Edipo. Narrazioni che, a unaprima lettura, possono apparire sfrangiate, ma sempre rivolte allostudio delle emozioni condivise, ai gruppi, a "ciò di cui non si puòparlare" (Wittgenstein), al pensiero nascente. Un processo apertoa molteplici "futuri", più che a definire le entità in gioco.

Possiamo definire Bateson e Bion due pensatori "irriverenti"capaci di relativizzare, ignorare o anche solo ri-contestualizzarele teorie precedenti: la psicoanalisi classica (piena di personaggiingombranti come Freud o la Klein), la logica lineare, gli assiomidella fisica, i nostri presupposti (che erano anche i loro), propo-nendo un metodo innovativo e idee originali tutte ancora da svi-luppare.

Sia Bateson che Bion sottolineano l'importanza delle domandeben più che delle possibili risposte. Il loro interesse sembra quellodi aprire nuovi campi di ignoranza più che scoprire conoscenze

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 101

stabili, sempre fedeli al motto di Maurice Blanchot: "Le rispostesono la tomba delle domande." Le domande, a loro avviso, sonosempre più interessanti delle risposte, e ci invitano a estendere ledomande piuttosto che rispondere immediatamente. Ci invitano atollerare l'incertezza, l'ignoranza (sviluppare la "capacità negati-va") piuttosto che cercare una qualche certezza rassicurante.

Entrambi propongono una serie di nuovi termini e costruttiche, a un primo sguardo, possono apparire non sufficientementedefiniti. Questo aspetto può risultare irritante, ma cela una sceltaben precisa, quella di lasciare i termini volutamente insaturi, maitotalmente contenuti in definizioni incapaci di accogliere i signi-ficati futuri, di fare spazio alle definizioni che verranno. Si trattadi concetti in evoluzione, che non svolgono un ruolo prestabilitosulla scacchiera della conoscenza, ma agiscono liberamente, conuna propria storia e una relazione cangiante con gli altri concettie le ipotesi già accettate.

Sia Bateson che Bion pensavano che per favorire un cambia-mento - di qualunque natura - ci fosse bisogno di una coevolu-zione dei soggetti in interazione; un cambiamento del "campo",che avvolge e da senso ai soggetti e ne orienta il pensiero. Un cam-biamento proprio del gruppo in azione, del contesto co-costruito,più che di uno solo dei soggetti.

Come afferma Trist, amico e collega di Bion alla Tavistock Cli-nic di Londra, "lo stile [clinico] di Bion era molto caratteristico.Era distaccato ma caldo, imperturbabile e inesauribilmente pa-ziente. Dava un senso di immensa sicurezza (...) faceva interven-ti rari e nitidi, perché parlava solo quando si erano accumulatemolte prove di ciò che stava per dire. Si esprimeva in un linguag-gio diretto e conciso che tutti potevano comprendere. Se un pa-ziente diceva lui quello che avrebbe potuto dire Bion, tanto me-glio: non c'era più bisogno che lo facesse lui stesso. Si comporta-va come se volesse rendere il gruppo il più possibile capace di au-tointerpretarsi e facilitare l'apprendimento a questo fine" (inBléandonu, 1990, p. 69).

102 Capitolo quarto

iAppare chiaro lo sforzo di Bion di lasciare spazio all'autorga-

nizzazione e alla possibilità di sviluppare il pensiero piuttosto chefornire una risposta pre-confezionata. Bion intendeva creare lecondizioni per cui il gruppo potesse "apprendere dall'esperien- !za", dare forma a un sistema in perenne coevoluzione (Casadio,2009).

Questo aspetto ha un risvolto interessante per l'attività clinica, ;su cui non si è riflettuto abbastanza, che differenzia una tecnica Ida applicare da un modo - quello proposto dagli autori - di in-tendere la clinica e le relazioni col fine di cambiare i propri puntidi riferimento, le proprie concezioni. Bion sostiene che lo psico-analista del futuro sarà quello che saprà confrontarsi con ciò cheè più distante dalla psicoanalisi. Tale modo di pensare differenziauna relazione basata sul potere da un'altra basata sulla collabora-zione e lo scambio, anche teorico, sulla possibilità di cambiare edi crescere insieme. I

Bateson ha sempre pensato il cambiamento come un processo Ibiologico, una trasformazione di pattern, un movimento a doppia ielica in cui si ritorna sugli stessi temi, ma ogni volta da un punto Jdi vista diverso. A questo proposito, spesso citava un brano dauna poesia di T. S. Eliot: "La fine di ogni nostra esplorazione ;giungerà laddove eravamo partiti e conosceremo il luogo per laprima volta."

Basterà accostare a questi versi una breve storiella di Bion percomprendere lo stile di pensiero comune: "Quando ero studentein medicina, una piccola gattinà nera arrivava con orari molto re-golari nel cortile dell'ospedale. Faceva i suoi bisognini, li coprivaordinatamente e se ne andava. Le fu dato il nome di MelanieKlein - Melanie perché era nera; Klein perché era piccola; e Me-lanie Klein perché era senza inibizioni. Ho la sensazione che que-sto venga ripetuto, per così dire, a un livello piuttosto diverso del-la progressione a forma d'elica della mente umana [sembra diascoltare Bateson] - per prendere in prestito un'immagine dalladistribuzione molecolare del DNA. Torniamo alle stesse cose, maa un livello piuttosto diverso. Penso che stiamo cercando di tor-

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 103

nare a livelli diversi senza perdere il contributo vitale dato da que-sti arcaismi" (Bion, 1977d, p. 229).

Gli arcaismi a cui Bion si riferisce sono le formazioni storiche,ma anche le spiegazioni prefabbricate che gli analisti a volte pro-pongono ai loro pazienti, imitando i terapeuti del passato.

Questo accade spesso, ma certamente non aiuta a capire l'uni-cità della situazione che si sta vivendo con il paziente. Non hamolto senso, infatti, ricercare interpretazioni comuni in due di-versi pazienti o scimmiottare i risultati della propria analisi di-dattica. Bion ci invita a essere sempre originali e creativi. Si trat-ta di una doppia sfida lanciata a due diverse consuetudini di pen-siero: al clinico che segue i propri maestri senza pensarli e finisceper diventare incapace di guardare con occhi nuovi le narrazionie le azioni del paziente, ma anche a chi cerca di comprendere leteorie degli autori precedenti senza provare a conoscere quel"luogo" per la prima volta.

Secondo confronto. Campo, sistema, ethos, assunti di base, gruppodi lavoro, emozione, senso comune

La prima contaminazione teorica che intendo proporre è quel-la che lega lo studio dei gruppi a quello delle emozioni. I due te-mi appaiono talmente intrecciati tra loro che non possono essereaffrontati se non insieme. Mi occuperò prima dei concetti di cam-po e di sistema e poi del tema delle emozioni.

Assegno a questo confronto un posto primario per diversi mo-tivi: anzitutto perché i due autori si sono sempre interessati aigruppi e alla loro cultura. Sia Bateson che Bion sono partiti dallostudio dei gruppi: il rito del naven in Nuova Guinea e lo studiodella cultura balinese, per Bateson; i gruppi di Northfield e la psi-coanalisi di gruppo alla Tavistock di Londra, per Bion.

Entrambi gli autori, inoltre, grazie a queste esperienze hannopotuto elaborare nuove idee e nuove metafore capaci di aggior-nare le teorie accettate fino a quel momento, introducendo con-

104 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 105

cetti (P"ethos", Bateson; gli "assunti di base", Bion) che qui in-'tendiamo rivalutare nel loro potenziale teorico e clinico. Come jvedremo anche in seguito, queste idee si basano sulla necessità di jcogliere almeno due modalità comunicative compresenti che in- ;teragiscono nella formazione delle rappresentazioni: i processi :emotivi e quelli cognitivi, che agiscono in parallelo.

Bateson e Bion, dunque, differenziano i circuiti comunicativipropri delle emozioni da quelli legati alle narrazioni e alle finalitàcoscienti, che affronteremo nel prossimo paragrafo.

Il concetto di "campo" in un'ottica psicoanalitica (Gaburri,1997; Ferro, 2002; Baranger e Baranger, 1961-1990) e quello di"sistema complesso", proprio dell'ottica sistemica (Telfener e Ca-sadio, 2003), ci possono aiutare in questo compito. I due concet-ti sono del tutto compatibili.

Bion è stato un precursore del concetto di campo. Dobbiamoricordare, però, che il riferimento al campo elettrico o magneticostudiato in fisica è solo una metafora che svela il bisogno di com-prendere la situazione psicoanalitica come un tutto e non come lasomma di due processi separati, uno a carico del paziente e l'al-tro a carico dell'analista. Con il concetto bioniano di réverie ma-terna abbiamo già visto come madre e bambino (o paziente e ana-lista) formino un sistema (emozionale e cognitivo) unico, una Ge-stalt fondamentale per lo sviluppo di entrambi i soggetti.

Una prima definizione del campo potrebbe essere quella cheidentifica "il luogo (mentale e teorico) nel quale si addensano sen-sazioni, emozioni, pensieri condivisi. Gli elementi del campopossono essere pensati dal pensiero del gruppo e divenire fonte diuna trasformazione evolutiva che riguarda sia i pensieri, sia lepersone che prendono parte al lavoro". In questo modo "le per-sone che fanno parte di un gruppo sono immerse nel campo; que-sto è limitato dai legami (o vincoli) preesistenti e da quelli che viavia emergono" (Neri, in Bion Talamo, Borgogno e Mereiai, 1998,pp. 28 sg.).

In questa sede vorrei sottolineare che Bateson e Bion cercanodi comprendere le relazioni e i gruppi non come una mera som-

ma di elementi, ma come qualcosa da valutare nel suo insieme,qualcosa che definisce alcune Gestalten più generali che condi-zionano il pensiero e il sentire dei singoli soggetti, i quali risulta-no immersi nel campo da loro stessi generato. In questo modo,anche l'emozione è un aspetto condiviso e non una prerogativaesclusiva dei singoli. Entrambi gli autori fanno ricorso alla me-tafora del campo, introdotta dalla psicologia della Gestalt nellaprima metà del Novecento. Lo stesso concetto è stato utilizzatonella psicologia sociale da Kurt Lewin (che aveva partecipato al-le Macy Conferences) e nella filosofia da Merleau-Ponty, per ela-borare una teoria dell'uomo "in situazione" senza partire dai suoiaspetti biologici, come le pulsioni.

Il concetto di campo costituisce una svolta paradigmatica nel-la psicologia perché permette di porre l'attenzione sugli aspetticondivisi dai gruppi.

Le idee di Bion sulle emozioni sono un contributo molto ricco,da sfruttare anche in ambito sistemico e ancora di più in un'otti-ca costruzionista, dove manca, a tutt'oggi, una chiara teoria del-le emozioni (Casadio, 2006a).

Collegando le idee di Bateson a quelle di Bion, si apre uno spi-raglio inatteso che può dare sostanza alle connessioni e alle in-terdipendenze tra modalità e aspetti comunicativi diversi, come leemozioni e le narrazioni. Anche se la maggior parte dei terapeu-ti sistemici si ispirano all'opera di Bateson, pochi tra questi ri-prendono la sua teoria delle emozioni e la sua interpretazione del"processo primario" freudiano. Provo a sintetizzarle. In un cor-poso articolo del 1967 dal titolo Stile, grazia e differenza nell'arte pri-mitiva, Bateson differenzia diversi livelli della mente: quelli taciti,preverbali, propri "dei muscoli e delle posture" (studiati a Bali);quelli iconici, di stampo metaforico (di cui si è occupato per tuttala vita); quelli semantici o linguistici, propri della coscienza e del-la finalità cosciente.

Riprenderemo tale suddivisione a proposito dei rapporti tracoscienza e inconscio. Qui mi preme sottolineare che ancheBion, in fondo, propone la stessa suddivisione discriminando tra

106 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 107

due diversi aspetti del gruppo: il "gruppo di lavoro" e gli "assun-ti di base".

In Esperienze nei gruppi (1961) Bion propone la medesima di-|scontinuità introdotta da Bateson (e una successiva connessio-jne)2 tra i processi emotivi - gli assunti di base - e i processi co-\i delle finalità consapevoli propri del gruppo di lavoro.

Entrambi gli autori ci mettono in guardia dalle incompletezze,dalle patologie e dai paradossi che emergono quando si tiene con-,to della sola finalità cosciente, soprattutto se questa non viene in-tegrata con il campo delle "inconsapevolezze" (si veda Manghi,1998).

Vorrei evidenziare, ancora una volta, la condivisione degliaspetti emotivi nei gruppi e nelle relazioni duali, e come - grazieagli studi di Bateson e di Bion - si possa uscire da una sempliceopposizione antinomica tra emozione e pensiero, ormai sterile esuperata. L'opposizione da decostruire è quella che oppone l'ot-tica neo-cognitivista, che definisce le emozioni come un fattorebiologico e "unipersonale" (una sorta di auto-linguaggio privo dilegame sociale), all'ottica "costruzionista sociale" (Hoffman,1983; Fruggeri, in Manghi, 1998), che tende ad assimilare le emo-zioni alle definizioni semantiche e alle etichette linguistiche, per-dendo di fatto il legame con il corporeo, con tutto ciò che è nonlinguistico.

L'opposizione pensiero/emozione non permette di coglierel'interdipendenza tra aspetti che continuamente collaborano - sep-pur con frizioni e opposizioni - nella costruzione delle idee e delpensiero.

Bateson, in veste di antropologo, ha incontrato tale problemagià dopo il primo viaggio in Nuova Guinea, quando, a contattocon la popolazione latmul, aveva ben compreso le dinamichesimboliche che legavano le persone, i diversi significati del rito del

2 Come un ipertesto è formato da diversi tipi di linguaggi (visivo, testuale, cenestesico ecc.), co-sì possiamo ipotizzare diversi livelli della mente, diversi linguaggi, che però ci appaiono fusi nella rap-presentazione, nella comunicazione.

naven. Tutto questo - come ammette lui stesso - senza aver coltoperò la complessità di tali aspetti (si veda Deriu, 2000). Solo riu-scendo a pensare le emozioni come aspetti condivisi3 e transper-sonali, il naven poteva apparirgli comprensibile.

Nel rituale del naven - caratterizzato da una sorta di scambio diruoli tra gli atteggiamenti tipici degli uomini e quelli tipici delledonne, per cui gli uomini scimmiottano le donne, e le donne gliuomini - tutto avviene all'interno di una grande messa in scena,mantenendo comunque intatta la relazione tra i "caratteri" ma-schili e femminili. Bateson descrive questo rito come l'attualizza-zione di un rapporto che ripropone e trasmette lungo le genera-zioni le caratteristiche emotive proprie della cultura latmul.

Nel naven vengono messe in scena alcune polarità relazionaliproprie del rapporto tra maschi e femmine: vergogna/fierezza,esibizione/ammirazione, minaccia/aiuto, realtà/rappresentazio-ne. Solo a partire dall'articolazione di questi diversi piani - nar-rativi e taciti - si può tentare una comprensione della cultura lat-mul.

È di fondamentale importanza definire in maniera non univo-ca la relazione tra emozioni e parole. Per lungo tempo, anche Ba-teson ha proposto una rigida gerarchizzazione tra emozioni e lin-guaggio, come se le emozioni e gli aspetti non verbali apparte-nessero a un livello logico superiore a quello delle narrazioni.Queste ipotesi hanno dato adito a incomprensioni, anche in rela-zione al "doppio legame" che, dopo un primo momento di entu-siasmo, ha segnato la fine degli studi di Bateson nel campo dellapsichiatria.

Le emozioni e gli aspetti semantici non sono considerati livellilogici già gerarchicamente determinati, ma "strati di senso" daconnettere tra loro, con la possibilità, ognuno, di essere il conte-sto per l'altro (Cronen, Johnson e Lannamann, 1982), in una dan-za complessa da cui nasce il senso. Solo dall'attrito irriducibile di

3 "... in cui gli uomini manifestano gioia per le azioni di un altro e le donne un ruolo da spet-tatore, gli uomini si travestono da cooperativi e le donne da orgogliose".

108 Capitolo quarto

questa "doppia descrizione" - emotiva e relazionale, ma anchesemantica e ontologica - è possibile produrre senso, e così crearenuove idee.

Come afferma anche Bion, "non può esistere un gruppo senzaemozioni condivise (...) l'assunto di base è il sostrato emotivo eorganizzativo del gruppo, l'intelaiatura senza la quale il gruppocome tale non esiste" 4 (Esperienze nei gruppi, p. 82). Come si vede,anche Bion studia il gruppo dal suo interno e osserva l'osservato-re come un prodotto del contesto, impregnato delle emozioni delgruppo che cerca di comprendere. Bion propone un'ottica ricor-siva; osserva infatti un gruppo attraversato da dinamiche affetti-ve che contiene l'analista stesso che lo descrive.

Ugualmente, Bateson studia i fenomeni antropologici - comela cultura latmul - cercando, al contempo, di capire quali sianole proprie categorie, i propri presupposti o le emozioni che vivenell'interazione con una popolazione e una cultura così diversadalla sua. Ogni osservatore è sempre collocato all'interno del pro-prio campo d'osservazione (emotivo e linguistico), e non può cheosservare se stesso in interazione con gli altri. Come scrive Bate-son, "riusciamo a dire che tipo di personalità ci sta di fronte solocombinando l'osservazione delle sue abitudini comunicative conl'osservazione introspettiva del tipo di persona che siamo noi stes-si quando abbiamo a che fare con l'altro (...) gli unici strumentidescrittivi che l'antropologo ha a disposizione sono gli aggettivie le espressioni della sua cultura" (1958b, p. 151).

Queste osservazioni, se trasportate nel campo della clinica, di-ventano estremamente interessanti e suggestive. Non possononon ricordarci Bion (1987) quando definisce la psicoanalisi "unatempesta emotiva dovuta all'incontro di due personalità". PerBion, l'analista non occupa più una posizione preferenziale dacui decrittare i contenuti mentali del paziente, ma deve compren-dere se stesso per capire il campo comunicativo che condivide con

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 109

pò 4 La citazione prosegue così: "La sua finalità è l'autoconservazione, il mantenimento del grup-identico a se stesso, e ogni attività che tuteli o comprometta questa identità viene ostessiata."

l'altro. L'incontro clinico è così centrato sugli aspetti emotivi del"gruppo in azione", sulla struttura del campo che contiene e av-volge le "due persone che parlano in una stanza", nell'espressio-ne di Luciana Nissim Momigliano (1997).

Venendo alle emozioni: la partecipazione a un gruppo (ancheduale) non implica solo una messa in comune di narrazioni ospiegazioni, ma anche la condivisione di modalità cenestesiche,emotive e posturali. Le emozioni, in quest'ottica, non sono piùaspetti propri del singolo soggetto, ma elementi condivisi, un vis-suto comune che lega e definisce le interazioni del singolo con ilsistema più grande di cui è parte.

Il concetto bioniano di "senso comune" sottolinea la creazionedi questa consensualità gruppale, nello stesso modo in cui Bate-son, a proposito dei balinesi, afferma che "apprendono con i mu-scoli" la loro cultura. "L'aspetto interessante di questa osserva-zione è l'idea, che sarà ripresa altrove, che certe persone possonopartecipare intimamente alle emozioni di altre persone per imita-zione cenestesica. Secondo questo tipo di concezione il corpo sa-rebbe un analogo sperimentale, un modello che copia i muta-menti che avvengono nell'altra persona, e le conclusioni di questacopiatura sperimentale sarebbero ricavate dal sistema più digita-le, il sistema nervoso centrale che riceve gli stimoli propriocetti-vi"5 (1958, in Una sacra unità, p. 194).

Se accettiamo tali idee, il transfert-controtransfert viene com-pletamente rivisto, e diventa un processo tacito di coppia.

Per sottolineare l'importanza degli aspetti emotivi condivisi,Bateson compie quella che per l'epoca è un'innovazione etnome-todologica: usa fotografie, tavole e filmati per osservare la "cor-poreità" balinese. Questo materiale mostra come la cultura del-l'isola nasca dalla messa in comune di posture, atteggiamenti,emozioni che prendono forma a partire dalla danza tradizionale

5 Tale definizione del 1958 apre interessantissimi campi di confronto con i concetti di identifi-cazione proiettiva di Melanie Klein (1946), e di "esperienza emozionale correttiva" (o trasformativa),e anche con i "neuroni specchio" delle moderne neuroscienze.

110 Capitolo quarto

balinese. La diffusione dell'ethos - quasi un "contagio emozio-nale" - avviene tramite il ballo tipico dell'isola, che evoca stati ditrance e un atteggiamento posturale che induce al "dono", cioèl'esperienza disarticolata del proprio corpo, in una sorta di cram-po. Questo particolare stato corporeo permette al danzatore di vi-vere concretamente l'indipendenza dalle singole parti del propriocorpo come se ciascuna fosse dotata di vita propria. Bateson evi-denzia che tale senso muscolare costituisce un aspetto fonda-mentale dell'identità balinese, necessario per la riproduzione del-la loro cultura, popolata da parti del corpo autonome, scroti stri-scianti e divinità composite (Casadio, 2006b).6

La danza balinese - un'esperienza preverbale - è per Bateson alcentro della costruzione e della trasmissione della cultura locale,e indica, come ricordano Gianni Nebbiosi e Remolo Petrini aproposito di Bion (in Bion Talamo, Borgogno e Mereiai, 1998),"un'esperienza armonica di tutti i sensi che conferisce verosimi-glianza alla sensazione come modo di interpretare la realtà" e,quindi, il primo passo per la "sensazione di avere una realtà co-mune" (p. 115).

Il senso comune costituisce nei gruppi un substrato capace didare coerenza ai vissuti, alle emozioni e alle narrazioni sociali:una mappa di mappe, che può orientare e dare senso all'espe-rienza.

Per Bateson, si tratta di un'"epistemologia emotiva" comunedel gruppo, sempre affidabile e disponibile perché è sentita comenecessaria e verificata dall'azione quotidiana. L'ethos balinesecostituisce così un presupposto implicito della vita di quel popo-lo, un sapere corporeo che crea nuova conoscenza.

Nell'antropologia e nella psicologia sociale si tende troppospesso a definire la cultura solo attraverso gli aspetti narrativi equasi mai in termini di ethos o di costruzione di un senso comu-

6 Dopo l'enfasi sul cosiddetto "linguaggio del corpo", inteso in un'ottica unipersonale, non cisono stati ulteriori sviluppi; sarebbe più utile, allora, interessarsi al "senso comune" e all'atteggiamen-to mimico e posturale del soggetto nel gruppo.

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 111

ne. Questi concetti descrivono, a mio avviso, una piattaforma(muta, preverbale) su cui costruire molteplici teorie e narrazioni,che costituisce la prima "digestione" dell'esperienza comune.

Vorrei ricordare il contributo di Jerome Bruner (1996), checondivide con gli antropologi Garfinkel, Bourdieu e Goffmanl'idea che la cultura sia definibile anche come una condivisione diprassi implicite, un saper fare comune e un sentire continuamen-te reiterato dalla cultura stessa tramite i riti e i miti sociali. A que-sto proposito, va menzionato un aforisma di Ludwig Wittgen-stein7 nelle Ricerchefilosofiche: "Non c'è parola che non risieda sudi un gesto."

Queste riflessioni non possono che trasformare il nostro mododi pensare la psicoanalisi e la psicoterapia. In un'ottica di campo,il processo terapeutico non è che una costruzione inconsapevole,un insieme di modalità procedurali, metaforiche, linguistiche chela coppia, unita in un unico sistema, continuamente elabora. Letrasformazioni di tali modalità diventano il cuore del processo te-rapeutico, all'interno di un campo (almeno) bipersonale che siblocca nei momenti di impasse - creando dei "bastioni", per i Ba-ranger - e che acquista nuove configurazioni permettendo unanuova integrazione degli elementi in gioco.

Per concludere, possiamo affermare che non c'è narrazione chenon sia basata su un ethos, sottolineando la necessità di "unire lamusica alle parole" (anche nei suoi momenti dissonanti), la rela-zione alla narrazione e l'emozione alla finalità cosciente, senza difatto ridurre una all'altra. Ma questa è anche la posizione di Bionquando paragona le parole a veri e propri "grugniti", e pensa illinguaggio come una forma d'azione, proprio come propone Ba-teson che, nel metalogo Perché i francesi, dice: "Non esistono pa-role pure e semplici. Vi sono soltanto parole con gesti o con tono

7 Spesso, troppo spesso, Wittgenstein è stato preso come fautore di una teoria del linguaggioche non tiene conto degli aspetti corporei. Rimandiamo il lettore a Perissinotto per gli aspetti prelin-guistici di Wittgenstein, e ai manuali di Sbisà e di Kenny sull'articolazione gesto-parola nel complica-to percorso teorico del filosofo austriaco.

112 Capitolo quarto

di voce o con qualcosa del genere... l'idea che la lingua sia fattadi parole è tutta una balordaggine" (1951b).

Terzo confronto. Mente, coscienza/inconscio, complessità, cambia-mento

Questo confronto prosegue idealmente il precedente. Come ri-cordavo, sia Bateson che Bion hanno elaborato una teoria dellamente del tutto scevra di presupposti pulsionali.

Bateson, infatti, sottolinea che la mente "lavora" utilizzandol'energia resa disponibile dalle funzioni metaboliche dell'organi-smo ma che, in nessun modo, i processi mentali possono esserecondizionati dalla quota di energia presente nel sistema. La fun-zione principale della mente - più che la scarica delle energie ineccesso - è la codifica delle informazioni acquisite tramite gli or-gani di senso nei diversi contesti. Bateson, inoltre, critica l'idealargamente diffusa che la mente operi una decodifica dell'infor-mazione, in quanto "l'informazione non è mai riconvertita negliaspetti reali a cui si riferisce" (La matrice sociale della psichiatria, p.193). Non si tratta, quindi, di percepire delle "verità", ma di tra-sformare ed elaborare diversi schemi relazionali e percettivi.

Anche Bion appare del tutto in linea con queste idee, tanto cheintitola un suo saggio del 1965 "Trasformazioni. Il passaggio dall'ap-prendimento alla crescita.

La mente, per Bion, opera una serie di trasformazioni, che l'ar-tista è capace di tradurre in un'opera d'arte, il matematico in unteorema e l'analista in una serie di interpretazioni. Perfino il pen-siero psicotico non è altro che una trasformazione dell'esperien-za, e non una sorta di errore. Il pensiero e la conoscenza sono ela-borazioni dell'esperienza grezza, che Bion chiama "O".

La mente è considerata un trasformatore dei propri elementi dibase: Bion la definisce come una funzione - grazie a una metafo-ra matematica - e definisce il pensiero come un processo. Se lamente opera trasformazioni di esperienze, allora l'oggettività non

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 113

può che uscire di scena, in quanto non disponiamo che di tra-sformazioni di trasformazioni, o mappe di mappe.

A tal proposito, Bateson ricorda la massima del logico polaccoAlfred Korzybski: "La mappa non è il territorio", aggiungendoche "nella mente ci sono solo idee e non le cose a cui queste ideesi riferiscono".

La mente si nutre solo di differenze, di variazioni e trasforma-zioni di pattern. La mente teorizzata da Bateson è come un siste-ma di classificazione che opera sulla base di alcune premesse, dischemi relazionali "deutero-appresi" che contestualizzano leinformazioni in entrata e le trasformano in messaggi. Tale mododi pensare non è distante da quello di Joseph Weiss, del MountZion Hospital, e di molti psicoterapeuti cognitivisti di oggi.

Per Bateson, la mente non è motivata da spinte sessuali, ma daun sistema consapevole o meno di credenze, in quanto, come scri-ve lui stesso, "agiamo a seconda del modo in cui vediamo le co-se" (Mente e natura, p. 199). L'epistemologia del soggetto è la suastessa motivazione, il precipitato delle esperienze pregresse, equesto è un punto di vista opposto all'ottica pulsionale freudiana.

Sia Bateson che Bion considerano le motivazioni come legatedirettamente all'epistemologia, alla complessa rete di azioni, im-magini e credenze del soggetto.

Il periodo "epistemologico" di Bion - secondo Bléandonu(1990) - è caratterizzato proprio da una serie di modelli dellamente da lui elaborati per spiegare come sia possibile "apprende-re dall'esperienza".

L'interesse di Bateson e di Bion si fecalizza sull'apprendimen-to interpersonale, che è inconsapevole.

Bateson introduce il "deutero-apprendimento", un apprendi-mento complesso, per prove ed errori, che costituisce la modula-zione dell'apprendimento di primo grado. In questo caso, l'indi-viduo apprende non singoli aspetti, ma apprende "come appren-dere" (Verso un'ecologia della mente), come imparare dalle diversesituazioni che vive.

Quello di deutero-apprendimento è un concetto fondamentale

114 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 115

per comprendere il cambiamento psicoterapeutico, e può rende-re conto di un cambiamento tacito, inconsapevole (e relazionale) jcapace di ricontestualizzare le esperienze del soggetto (la loroclassificazione). La psicoterapia, così, mostra un andamento pa-radossale perché deve mettere in crisi i presupposti di base dellarelazione in atto. Per raggiungere questo obiettivo, non possiamoche immaginare una relazione coinvolgente e affettiva, fortemen-te interessata alla novità e all'improvvisazione. Questo non sem-bra proprio l'identikit dell'intervento freudiano, tutto centrato sul-le "difese" e sulle "resistenze" del paziente.

Anche Bion cerca di descrivere un cambiamento relazionale,quando pone in relazione il neonato (o il paziente) con la réveriematerna (o con il clinico). Col tempo, il piccolo interiorizzerà lafunzione del pensiero, cioè il modo concreto di trasformare leemozioni vissute in rappresentazioni complesse.

Nelle relazioni intime - come quella psicoterapeutica - non siapprendono veri e propri contenuti ideativi, ma modalità tacite,modi di essere con l'altro, perché il processo clinico si basa sulla"germinazione delle idee" (Bion, 2005). Se il "sistema mente",come abbiamo visto, è un sistema transpersonale, anche la sua ar-ticolazione tra porzioni consapevoli e inconsce risulta molto com-plessa.

Bateson, nello scritto del 1972 che abbiamo già citato, indivi-dua quattro diverse accezioni del termine "inconscio": la primarisale a Samuel Butler, il quale sottolineava che "quanto meglioun organismo conosce qualcosa, tanto meno esso diviene consciodi questa conoscenza; esiste cioè un processo per cui la cono-scenza (o abitudine, non importa se di azione, di percezione o dipensiero) scende nella niente a livelli sempre più profondi"(1972d, p. 168).

La seconda concezione dell'inconscio si riferisce alla percezio-ne. Le immagini visive, ricorda Bateson, sono costruzioni attivedell'osservatore e non la semplice incorporazione di un "mondoesterno", e si basano su premesse, relazioni e abitudini percettive.

La terza concezione si rifa alla psicoanalisi, a Fenichel, che

considera i sogni come metafore, in conformità con il processoprimario freudiano. Tale idea sembra una traduzione del model-lo freudiano, ripulito però dei suoi concetti energetici, in linea an-che con alcune letture processuali come quella dello psicoanalistacileno Ignacio Matte Bianco.

L'ultima accezione di inconscio ricordata da Bateson può, aprima vista, sembrare addirittura curiosa, in quanto consideral'inconscio freudiano come "una cantina o un armadio in cui ven-gono rinchiusi - grazie alla rimozione - i ricordi spiacevoli"(ibid.). Stephen Mitchell (1988) assume il medesimo atteggia-mento e considera il modello freudiano basato su una "concezio-ne moralistica della coscienza". Bateson non può abbracciare ta-le modello, basato sul mascheramento dei materiali inaccettabilialla coscienza, e ricorda, al contrario, che una serie di informa-zioni sono per definizione inconsapevoli. Bateson afferma chequesti elementi, piuttosto, sono "primariamente inconsci", e an-zi appaiono "difficilmente traducibili in termini razionali. In altreparole, io credo che buona parte delle teorie freudiane fossero ca-povolte. A quel tempo, molti pensatori consideravano normale eovvia la ragione conscia, mentre l'inconscio era considerato mi-sterioso, bisognoso di prove e di spiegazione. La spiegazione eradata dalla rimozione, e l'inconscio veniva riempito da pensieriche avrebbero potuto essere consci, ma che la rimozione e il mec-canismo onirico avevano distorto" (1972d, p. 169).

Dei quattro tipi di inconscio appena descritti, Bion consideraaccettabili solo i primi tre. A differenza di Freud, Bateson sottoli-nea l'importanza della non-coscienza di alcuni processi (e non diidee compiute) e si schiera apertamente contro l'idea del "ma-scheramento inconscio": "La nostra vita è tale che le sue compo-nenti inconsce sono continuamente presenti in tutte le loro mol-teplici forme (...) e noi ci scambiamo continuamente messaggi suquesti materiali inconsci" (ibid.). In tal senso, l'arte è il regno diquesto tipo di comunicazione.

Sinteticamente, possiamo concludere che, secondo Bateson, lacoscienza - quasi del tutto coincidente con le funzioni proprie del

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linguaggio - parla di cose o persone a cui attribuisce predicati,mentre i processi inconsapevoli parlano di relazioni, senza maidefinire i termini della questione. L'inconscio, allora, ci fornireb-be informazioni sui rapporti tra i diversi elementi, e non sulle sin-gole entità in gioco.

Questa è la chiave per comprendere il rapporto emozionale, percogliere, cioè, il rapporto soggetto-ambiente. L'inconscio, le emo-zioni, l'intraducibilità in parole e le conoscenze relazionali sono,per Bateson, forme strettamente interrelate.

Anche il concetto di inconscio di Bion è del tutto originale.Bion non considera la coscienza e l'inconscio come due diverseprovince psichiche, ma come stati transitori e reversibili dell'espe-rienza mentale. Se per Freud il sogno era la rappresentazione di-storta di un preciso significato (un desiderio infantile rimosso),Bion, all'opposto, considera il sogno un tentativo di generare unnuovo significato a partire da un'esperienza sensoriale o emotiva.

L'inconscio bioniano costituisce così il primo passo della fun-zione simbolica della mente, la prima formazione (o trasforma-zione) del pensiero. Una volta che questi elementi sono stati tra-sformati, diventano utili per essere immagazzinati in memoria,per la costituzione dei pensieri onirici, cioè per dare luogo al so-gno. Ogni uomo "sogna" l'esperienza nel momento stesso in cuila vive, legandola a immagini, sogni, miti. Così facendo, Bion di-lata l'esperienza onirica estendendola allo stato di veglia. È pro-prio l'attività onirica che genera l'inconscio e che agisce - di gior-no come di notte - costruendo gli elementi fondamentali del pen-siero: immagini, miti, metafore, allucinazioni (la fila C della"griglia").

Se la mente - in relazione alle altre menti - non può elaboraretali elementi, questi rimarranno grezzi, non integrati. La teoria diBion opera così un capovolgimento del rapporto tra il sogno el'inconscio. Non è l'inconscio a produrre il sogno, ma è l'atto disognare che crea l'inconscio e la coscienza. Bion è il primo auto-re a considerare l'inconscio un'entità relazionale, che dipende di-rettamente dal legame e dalla capacità di tollerare la frustrazione.

Coscienza e inconscio diventano stati reversibili e transitori uti-lizzabili per realizzale fantasie, percezioni, sogni o pensieri. Tut-ti questi elementi sono separati da una "barriera di contatto" chediscrimina tra le diverse forme di esperienza.

Tali idee risultano utili per due diversi motivi: da una parte cipermettono di comprendere meglio il pensiero psicotico, che ela-bora l'esperienza sensoriale come se fosse un simbolo, generan-do una confusione di livelli logici; dall'altra ci indicano le moda-lità proprie dell'intervento terapeutico, che deve tendere alla me-tabolizzazione dell'esperienza emotiva, creando un sistema bi-personale che elabora immagini e metafore e produce "sogni dicoppia" (Ferro e altri, 2007), trasformazioni narrative dell'espe-rienza.

La comunicazione iconica diviene così il linguaggio esplicitodella relazione e delle emozioni, e della psicoanalisi, in quantol'analista deve saper dialogare nel linguaggio dei sogni e delle me-tafore. Deve saper raccogliere le trasformazioni del paziente perpoi, come un artista, rimetterle in circolo nel dialogo terapeutico.Un dialogo, per forza di cose, trasformativo, creativo, capace digenerare nuovo pensiero, nuove narrazioni.

Quarto confronto. Pensiero psicotico, gioco, trasformazioni, rela-zione

Nei seminari sul gioco, Bateson descrive l'interazione con unpaziente schizofrenico che "si è costruito una elaborata mitologiaper spiegare in che modo i suoi genitori non siano veramente ta-li. Secondo le sue supposizioni, la sua storia è iniziata in Cina do-ve egli ha costruito la Grande Muraglia. Poi, ha attraversato il Pa-cifico su una barca a remi sbarcando a Seattle e da lì ha cammi-nato fino in California dove è stato preso in amicizia dai suoi ge-nitori conclamati, cioè adottato o qualcosa del genere" (1956b,pp. 60 sg.).

Il paziente parla con Bateson solo attraverso paragoni. Di col-

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pò, aggiunge: "La Muraglia cinese è terribilmente solida per far-la a pezzi." Bateson dice che il paziente sta cercando di distrug-gere la barriera che ha costruito tra se stesso e i suoi genitori, mapoi, anche lui colto da un insight, aggiunge: "Se io stesso parlotroppo letteralmente al paziente questi risolleva la barriera, comeper dirmi perché l'ha sollevata all'inizio. Il punto è che la Mura- fglia cinese non è solo tra lui e i suoi genitori, ma anche tra lui eme, e l'uso della metafora è un elemento di questa barriera tranoi" (ibid., pp. 63 sg.).

Bateson coglie una modalità interattiva che ha senso per la sto-ria del paziente (il rapporto con i genitori nell'infanzia), ma taleosservazione appare valida anche dal punto di vista "procedura-le" (il paziente costruisce e distrugge la Muraglia), e anche daquello relazionale, nel "qui e ora" del loro rapporto, quando Ba-teson parla troppo direttamente, forse suscitando in lui emozionidifficilmente contenibili. Bateson sembra così cogliere un insiemedi strati, di riferimenti multipli, tutti collegati alla metafora dellaGrande Muraglia.

Anche Bion fecalizza la sua attenzione sulla comunicazioneattuale nella relazione con gli psicotici, senza riferirsi esclusiva-mente alle implicazioni storiche o familiari. Particolarmente in-teressante può essere una lettera8 spedita a Bion da Winnicott,che sottolinea quanto sia importante "l'intento comunicativo delpaziente". In questa lettera, Winnicott descrive un paziente che sidondola sul divano, avanti e indietro, dicendo soltanto: "Avrei do-vuto telefonare a mia madre."

Il famoso pediatra e psicoanalista sottopone a Bion l'idea cheil paziente "sta parlando del comunicare e della sua difficoltà astabilire una comunicazione". Winnicott interpreta il comporta-mento del paziente in base alla loro relazione sottolineando che"nell'attuale rapporto, quindi, si ha l'esempio del fallimento ori-

Bion.8 Lettera che non rimase inascoltata e che contribuì a creare il punto di vista trasformativo di

ginario da parte dell'ambiente che ha contribuito alle sue diffi-coltà di comunicazione" 9 (1988, pp. 154 sg.).

La Grande Muraglia - costituita da distanza, linguaggio impe-netrabile ed estraneità10 - appare così un'immagine, una metafo-ra capace di condensare il sapere relazionale del paziente, chepuò definire un "fatto scelto" (un'ipotesi), che rivela come lui sinasconda erigendo muraglie tra sé e i suoi genitori; tra sé e il suopassato; tra sé e alcune emozioni non contenibili; tra sé e l'anali-sta; e, infine, tra sé e gli altri.

I diversi aspetti di questa comunicazione sono divenuti chiaria Bateson una volta che il paziente si lamentava "di essere il bor-do di un tavolo fatto di legno manzanita", un legno poco costo-so, dozzinale (Bateson, 1956b, p. 64). Inizialmente, Bateson pen-sava che fosse una metafora riferibile al fatto di essere trattato co-me un oggetto di poco valore nel reparto ospedaliere in cui era ri-coverato: "In quel periodo il paziente rifiutava il cibo e i mediciminacciavano di spingerlo all'alimentazione artificiale" (ibid.).Così Bateson, per creare un contesto tale da "potersi fermare na-turalmente per strada e mangiare in un ristorante", decise di farecon lui una visita improvvisata ai suoi parenti.

In quel nuovo contesto, il paziente mangiò di gusto e, appenaterminato di mangiare "anche il pane di Bateson", disse: "Man'san eater (l'uomo è un divoratore) would (potrebbe)." Frase che si-gnifica più o meno: "Sono una buona forchetta" e dal punto di vi-sta fonetico appare indistinguibile da manzanita wood, pezzo di le-gno manzanita; proprio la frase iniziale proferita dal paziente.

Tale espressione costituiva un altro aspetto della sua Muragliacinese: infatti, come afferma Bateson, "l'aveva usata all'inizio co-

9 A questo proposito Bateson scrive: "Le storie importanti, per lo più non riguardano cose real-mente accadute: sono vere nel presente, non nel passato" (Dovegli angeli esitano, p. 60), e ancora: "Lestorie sul passato stabiliscono il contesto in cui nuovi elementi acquistano significato. La coevoluzio-ne di un organismo e del suo ambiente si basa proprio su questo perenne processo di contestualizza-zione e significazione" (Mente e natura, p. 28).

10 Cosi come il dondolare e il non riuscire a mettersi in contatto nell'esempio di Winnicott.

120 Capitolo quarto

me una barriera tra lui e me. Da quel pranzo insieme, mi spiegò,con uno schema alla lavagna, cosa intendeva dicendo manzanita.L'uso di questo gioco di parole era diventato ora un tipo di giocodiverso da prima. Tra noi 'manzanita' è diventata un'affermazio-ne che non significava più 'io so come ingannarla signor Bateson'ma piuttosto 'questo è qualcosa che adesso capiamo tutti e due'"(ibid., p. 65).

Questa vignetta clinica mostra la trasformazione di una moda-lità relazionale che potremmo chiamare, con Bion, di "attacco allegame", fino alla creazione di una relazione - un contenitorecondiviso - capace di dare senso alla metafora espressa. Possia-mo anche immaginare che la Grande Muraglia sia stata una me-tafora usata in modo del tutto inconsapevole dal paziente, che glisia solo "balzata agli occhi", proprio per quella "funzione oniri-ca della veglia" descritta da Bion. Tale funzione indica la capacitàdi legare scenari relazionali a immagini, creando dei veri e propri"flash visivi", percepiti come allucinazioni.

L'immagine, per essere comprensibile e per divenire una me-tafora condivisa, ha dovuto subire diverse trasformazioni. In pro-posito, ci pare interessante sottolineare gli sviluppi clinici appor-tati alla teoria di Bion da Antonino Ferro (1998, 2002), uno psi-coanalista "narrativo" che intende l'intervento clinico come unoscambio di immagini, in cui i "derivati narrativi" del paziente so-no le uniche spie possibili per comprendere il campo comunicati-vo in atto.

Rileggendo le intuizioni dei diari clinici di Cogitations, doveBion descrive il passaggio da un'allucinazione visiva a una cono-scenza condivisa, risulta chiaro che solo in un secondo momentotali immagini-allucinazioni acquistano senso grazie alla com-prensione delle emozioni e delle relazioni del paziente - come nelcaso di Bateson - per divenire pensabili, comunicabili e condivi-sibili anche da altri.

Si è passati, così, da un'allucinazione, una metafora privata o undelirio alla creazione di una storia, o meglio di molte storie possi-bili: una (ri)lettura del passato familiare, personale, relazionale e

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 121

clinico del paziente, con la creazione di un nuovo vocabolario(manzanita), e di alcune "parole chiave" capaci di fungere da se-gna-contesto e di creare svolte narrative, nuove evoluzioni future.

Tutto questo ricorda molto da vicino una vignetta clinica pre-sentata da Bion a proposito di un paziente, anche lui psicotico,che a più riprese, e a distanza di tempo, parlava di un gelato (icecrearti). Bion afferma: "A. dice che non poteva comperare nessungelato. Sei mesi più tardi dice che non può comperare neppure ilgelato. Tre giorni dopo fa riferimento al fatto che è troppo tardiper comperare un gelato: non ne era rimasto più. Due anni dopodice di supporre che non v'era nessun gelato. Solo più tardi ap-parve l'interferire del tema 'io grido' (Iscream, nel suono del tuttosimile a ice crearti). Fu ancora più tardi che afferrai il significato di'nessun grido' (no ice creanì) (...) Ora so che si tratta di un violen-to attacco lanciato contro un rapporto in cui il legame tra due per-sonalità era costituito da 'io grido'. Questo legame era stato di-strutto e sostituito da 'nessun grido' (no ice creanì) " (1970b, p. 23).

La similitudine tra le esperienze "cliniche" di Bateson e quelledi Bion è evidente. Entrambi parlano di metafore, di (in)comuni-cabilità (la Muraglia, il gelato, urlare, il pezzo di legno), di aspet-ti privati che possono essere utilizzati come barriere nella comu-nicazione e che, grazie alla relazione e alla fiducia del clinico (al-la sua capacità di réverie), possono essere riempiti di diversi con-tenuti fino ad assumere un linguaggio e un senso comuni.

Tali aspetti separano i soggetti e creano ostacoli alla comuni-cazione; ma se il clinico è pronto ad ascoltare il paziente senza af-fidarsi a schemi preconfezionati ("senza memoria e senza desi-derio"), sono proprio questi elementi che danno senso al campoterapeutico e che contribuiscono alla cura.

In Perceval's Narrative, un vero e proprio diario, commentato daBateson, di un'esperienza schizofrenica raccontata in prima per-sona dal paziente, Bateson descrive la psicosi in termini molto si-mili a quelli utilizzati da Bion. La schizofrenia è una modalità co-municativa che viene appresa in un contesto originario - una "fa-miglia rigida", nel caso di Perceval - e diviene una modalità usua-

122 Capitolo quarto

le per dare senso a ciò con cui si viene a contatto. L'esordio dellacosiddetta "psicosi" rappresenterebbe il fallimento dell'ottica pa-tologica e, quindi, già l'inizio di un percorso di cura. Bion direb-be che Perceval non ha introiettato la capacità di elaborare i pen-sieri e le emozioni (una "funzione a non sufficientemente buo-na"), e quindi è incapace di "alfabetizzare" alcune emozioni vio-lente, vissute come turbolenze, per mancanza di un'adeguata ré-verie materna. Il soggetto, così, non può fare altro che "evacuare"nel campo relazionale gli elementi non digeriti (la Muraglia, il le-gno, il gelato, l'urlo), che non possono addensarsi a formare idee- o anche solo immagini di sé - capaci di far evolvere una narra-zione, una storia condivisa.

Questi stessi contenuti vengono reimmessi in gioco nei conte-sti comunicativi in cui il paziente si trova a vivere, alla ricerca diqualcuno capace di pensarli, di un'altra mente che possa farlievolvere verso un senso comune. In quest'ottica - che possiamodefinire "processuale" - si sfumano, per forza di cose, le catego-rie di normalità e di patologia; resta comprensibile solo una dire-zione di cura. Secondo Bion, si può evidenziare un andamento,un percorso terapeutico che descrive la nascita di un contesto(una relazione contenitore-contenuto) di tipo "simbiotico", cheporta cioè a un incremento della coerenza dei pensieri e delle ideedi entrambi (Ps -» D, o p -> a). Tali elementi, se riuniti insieme,costituiscono la materia con cui realizzare le narrazioni.

Si compie così un percorso affettivo che può decostruirsi inogni momento, ma che mette il soggetto, e la coppia, nelle condi-zioni di pensare, di riflettere e di narrare le emozioni che deriva-no dal loro incontro, dalla loro storia comune. La psicoanalisi, co-sì, non è molto diversa dall'antropologia, perché si confronta conuna diversa cultura senza stigmatizzare le differenze (i sintomi),con l'obiettivo di costruire una sensibilità comune con cui dare vi-ta a un linguaggio condiviso. Tale linguaggio deve trasformare inimmagini le emozioni, violente e indigerite, del campo, per co-struire nuove storie e nuovi punti di vista da cui guardare a se stes-si e al mondo.

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 123

Quinto confronto. Le metafore e l'immaginazione

Abbiamo già accennato al tema della metafora e a come essasia un processo fondamentale della conoscenza, che permette dicollegare diverse immagini, o "spazi input", in una nuova Ge-stalt. Qui seguiremo esclusivamente le idee dei nostri autori sul te-ma della metafora e dell'immaginazione, senza occuparci di al-tre teorie.

L'ultimo libro di Bateson, Dove gli angeli esitano (1987), scrittoin collaborazione con la figlia, è tutto incentrato sul sacro. Bate-son affronta il tema della metafora attraverso un'analisi linguisti-ca e a partire dalla differenza tra "pleroma" e "creatura", intro-dotta da Jung.

Questi termini illustrano due diversi dominii: il pleroma - do-minato da forze ed energie - descrive il mondo degli oggetti con-creti: il "mondo delle palle da biliardo", per Bateson, mentre lacreatura - regolata dal significato e dalle differenze - descrive ilmondo degli esseri viventi, dello scambio intersoggettivo.

Anche nel linguaggio Bateson riscontra due diverse modalità:uno stile di discorso più adatto alla descrizione del pleroma, fat-to di nomi, leggi e aggettivi; e uno più adatto alla creatura, costi-tuito da relazioni. Come sostiene Bateson, "se vogliamo descri-vere ciò che avviene nella creatura e reagirvi è essenziale lavora-re con una semantica e una sintassi adeguate" (ibid., p. 285).

Tale posizione è del tutto in linea con quella espressa da Heinzvon Foerster, epistemologo e padre della teoria sistemica, quandosostiene che "viviamo processi che il linguaggio cerca di cristal-lizzare creando nomi" (comunicazione personale).

La metafora, per Bateson, rappresenta proprio tale sintassi per-ché ci mostra "come è organizzato il mondo biologico". Questo èpossibile perché la metafora, più che messaggi di comando o diingiunzione, comunica informazioni che si riferiscono allo statodi un soggetto, al suo vissuto, alla sua percezione.

La metafora narra così un sapere prettamente relazionale e de-scrive come "due proposizioni complesse sono collocate una ac-

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canto all'altra e in qualche misura equiparate: l'affermazione èespressa dalla giustapposizione" (ibid.).

Bateson, inoltre, segnala un rischio che corrono gli scienziati,quello di "pleromizzare" il linguaggio, cioè di pensare il linguag-gio come uno strumento utile solo per descrivere singole entità,con caratteristiche oggettive.

L'interesse di Bateson è fecalizzato piuttosto su quelle zone di"comunicazione creaturale" che lo portano verso lo studio del sa-cro, della religione e delle arti. Il sacro, così, non è che il regnocreaturale delle metafore e, considerato insieme ai sogni, alle "vi-sioni", alle fantasie e alla cosiddetta "patologia mentale", ci mo-stra le diverse forme del "pensiero primario".

La metafora caratterizza un pensiero complesso, un insieme direlazioni, proprio perché ciascun termine della metafora - per Ba-teson - "deve essere al tempo stesso molteplice e unitario" (ibid.).

Bateson ci fornisce anche la chiave matematica-strutturale del-la metafora, descrivendola con una formula: X:Y = A:B. Talestruttura indica un'uguaglianza tra due diversi rapporti. Comesottolinea l'autore, "proprio perché la metafora ha diverse parti, epossiamo servircene per pensare" (ibid., p. 290).

L'ultima riflessione di Bateson sulla metafora - che ci introdu-ce a Bion - riguarda l'empatia. Bateson tratta questo termine inmodo molto generale per descrivere un aspetto "tacito" della co-municazione, "la ricerca di comprensione tramite analogie"(ibid.). La nostra conoscenza relazionale - o creaturale - si basainfatti su un processo empatico, in cui l'individuo (psiche e soma)si costituisce come "un analogo sperimentale" per conoscere glialtri e il mondo. Il nostro corpo, proprio come la metafora, èun'unità formata da parti, ed è per questo motivo che possiamoapprezzare le analogie e i paragoni.

Anche Bion da molta importanza alla metafora. Definisce laprima forma del pensiero come la trasformazione di emozionibrute ("P") - vissute in un contesto - in "elementi a", che sonoimmagini, miti, fantasie, sogni e allucinazioni. Definisce così unafunzione, "il sogno della veglia", cioè la composizione di tutte

quelle immagini, come "sogni diurni" che rappresentano aspettivissuti, vere e proprie metafore.

Il corpo, (inter)agendo nei diversi contesti, produce immaginiche poi si combinano in storie sempre più astratte e sempre piùcomplesse.

Entrambi gli autori riflettono, ognuno con le proprie caratteri-stiche, sul ruolo svolto dagli elementi iconici nella comunicazio-ne. Ma l'aspetto più interessante è che, oltre a teorizzare sulle me-tafore, utilizzano le metafore stesse, o l'immaginazione, per pro-durre conoscenza.

Bateson usa metafore biologiche per comprendere i processidella mente, mentre Bion utilizza le metafore (la fila C della gri-glia) come strumenti per produrre nuovo senso, nuove teorie.

Le idee sul rapporto tra il "mistico" (o lo scienziato) e il grup-po nascono proprio dalla capacità di "sognare" nuovi collega-menti tra aspetti non ancora considerati congiuntamente.

Sia Bateson che Bion coniano nuove metafore per creare nuo-vi nessi di pensiero. Nessi che solo in questo modo possiamocomprendere appieno.

Vorrei restare ancora su queste prime forme iconiche di cono-scenza, facendo reagire le idee di Bion con le ipotesi di Bateson.Questa connessione fa nascere una domanda: che ruolo svolgonole immagini nei processi mentali? Proviamo a dare una rispostautilizzando insieme le idee di Bateson e quelle di Bion.

Per Bion, queste immagini abitano una zona di confine - tran-sizionale, direi - in quanto rappresentano sia i primi elementi uti-li alla memorizzazione sia il deposito, la traccia per immagini,della relazione tra due menti; la réverie materna.

Bion descrive così delle immagini ("a") che mantengono an-cora una forte connotazione contestuale ed emotiva, e che costi-tuiscono anche le prime categorie di senso che il soggetto può uti-lizzare. In questo modo, anche Bion - seppure con altri termini -descrive il valore "creaturale" delle rappresentazioni, mettendo inrisalto sempre questa doppia valenza delle metafore.

La polisemia degli "elementi a" ne fa immediatamente delle

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metafore - seppure inconsapevoli - spie del legame emotivo in at-to con l'oggetto, come dell'epistemologia stessa del soggetto.

In questo modo, la metafora descrive tanto l'oggetto da cono-scere, quanto l'emozione provata dal soggetto in relazione all'og-getto. Questi diversi aspetti sono però fusi insieme in un unicoamalgama che rappresenta, così, una forma di conoscenza mol-to particolare: le variazioni del soggetto in relazione ai contestiche abita. Per usare una formula cara a Heinz von Foerster: "Glioggetti sono simboli di auto-comportamenti" (1987).

Proviamo a fare un esempio clinico: il paziente psicotico che sisente spiato dal telefono dello studio del suo terapeuta fonde in-sieme - o amalgama - un oggetto e la sensazione che lui stessoprova. In questo modo, il paziente crea un delirio, quello che Bionchiama un "oggetto bizzarro". Ma questa rappresentazione cisembra assurda solo se la osserviamo da un punto di vista "ple-romatico"; diviene invece una comunicazione utile e preziosa sela consideriamo in un'ottica sistemica, perché svela l'emozionevissuta dal soggetto, la relazione che intesse con quel particolarecontesto cognitivo e affettivo.

Con la teoria della funzione a Bion si allontana molto dallateoria freudiana della fantasia. Secondo Freud (1907), i bisognidel soggetto che non trovano soddisfacimento nel mondo realesono immediatamente collocati nell'immaginazione, alla ricercadi altre forme di appagamento. Per Bion, invece, l'immaginazio-ne rappresenta una prima forma di senso, il deposito iconico pro-prio del rapporto "primario" che, fin da neonato, il soggetto in-staura con le figure a lui più vicine.

L'immaginazione non è più contrapposta alla "realtà oggetti-va", ma diviene una fase determinante nella costruzione del pen-siero e dell'identità. Diviene così un'importante interfaccia, per-ché rappresenta il senso delle relazioni passate ma anche il cro-giolo di un senso nascente, un'icona emotiva che mostra il suo va-lore potenziale in quanto prefigurazione di senso.

Come un patchwork non narra solo la storia dei vecchi riqua-dri di stoffa ma anche qualcosa a proposito della nuova organiz-

zazione del materiale, così l'immaginazione svela anche il partentiche connette, in maniera inedita, i diversi elementi vissuti in pre-cedenza dal soggetto.

La rappresentazione - normale o psicotica - non dev'essere pa-ragonata alla conoscenza scientifica, in quanto la conoscenza"creaturale" si compone di metafore, immagini e affetti, comel'opera d'arte.

L'uomo non rappresenta oggertivamente il mondo, ma mettein scena la metafora delle sue relazioni, il con-essere da cui na-scono infiniti "filtri creativi".

Anche l'intervento clinico non serve a conoscere i contesti incui viviamo, ma "a conoscerli in un altro modo. In un modo cheriveli la parzialità del nostro sguardo, senza con ciò annullarla,ma ponendola in una prospettiva più ampia. A lasciarci sorpren-dere, piuttosto che rassicurare, da quanto, nei contesti in cui vi-viamo, ci risulta più familiare. E dunque non a conoscerli di più,questi contesti, ma a vederli - ogni volta - con altri occhi. A co-noscerli - ogni volta - per la prima volta" (Manghi, 1998).

Sesto confronto. L'identità, il Sé I i Sé, il gruppo, l'apprendimento

Per comprendere le idee di Bateson e di Bion in tema d'identitàpuò essere utile collegare al concetto, già di per sé complesso, unaserie di altri costrutti come la relazione e l'apprendimento (o i va-ri livelli di apprendimento), sempre considerati come processi re-lazionali. Questo perché possiamo comprendere l'identità solocome un processo all'interno di altri processi, di altri circoli di co-municazione che la sostengono e le danno significato.

Bateson utilizza spesso il concetto di Sé (Selfl, riferendosi aun'unità complessa. Il Sé non è sovrapponibile alla coscienza, maè un processo in larga parte inconscio, inconsapevole. Bateson,infatti, concepisce un soggetto suddiviso in vari sottosistemi, sen-za però operare mai delle drastiche separazioni, come quella tramente e corpo. L'individuo, da questo punto di vista, è indivisi-

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bile dagli oggetti con cui è in relazione nel sistema di comunica- izione più generale. In La cibernetica dell'Io: una teoria dell'alcolismo \) Bateson fa un esempio interessante: descrive le azioni di

un uomo cieco con il suo bastone. Dal punto di vista delle infor-mazioni, e della relazione con il contesto, il bastone costituisceuna parte essenziale del Sé del soggetto. Bateson si scaglia controtutti quegli autori - ancora oggi la maggioranza - che separano ivari anelli di comunicazione che costituiscono l'identità, ridu-cendo in archi semplici un circuito più complesso. E proprio daquesto circuito emerge l'identità, che può essere colta solo comeun processo e mai come una sorta di "sostanza". Tale processo,secondo Bateson, si definisce momento per momento prendendoparte ai diversi scambi sociali, ai circuiti complessi -1 pluri-per-sonali - in cui è implicata la mente.

Anche Bion utilizza il concetto di Sé (ma ne fa un uso mode-rato) considerandolo come un processo e sempre cercando defi-nizioni che non separino gli aspetti che per lui necessariamentedevono essere mantenuti insieme: "Non mi piacciono i terminiche implicano (che dividono) il corpo e la mente e quindi uso Séper includervi quello che io chiamo corpo o mente e uno spaziomentale per ulteriori idee che potranno essere sviluppate" (1980,p.241).

Bateson e Bion ci invitano così a studiare l'identità come unprocesso generale e costruttivo, fatto di corpo, mente, comunica-zioni, emozioni e pensiero (tanto "interno" che "esterno" al sin-golo), senza disgiungere la parte cosciente da quella inconscia oda altri costrutti "soggettivi" come "io" o "me stesso". Cercanodi definire il Sé tanto come un processo relazionale quanto comeun'auto-narrazione, più che come un'istanza oggettiva. L'aspettocomune sta, quindi, nell'azione concreta di circoscrivere, con iltermine Sé e tutti i suoi sinonimi, un processo relazionale in di-venire, più che un'entità astratta e "unipersonale". Descrivono,cioè, un processo figura/sfondo, in cui l'identità (le relazioni e lenarrazioni di sé) appare come la figura, l'immagine stessa del sog-getto, necessariamente collegata (e indivisibile) allo sfondo delle

relazioni passate e future, alla cultura, alla famiglia e al contestosociale.

Bateson e Bion tracciano così un processo in continuo diveni-re, che può legare, riorganizzare o anche far collassare la narra-zione del soggetto. Come scrive Claudio Neri, "i membri, inquanto compartecipi di un gruppo in assunto di base, subisconouna perdita della loro individualità, si trovano cioè in una condi-zione fenomenologicamente non distinguibile dalla depersona-lizzazione" (1995, p. 192).

Il problema epistemologico legato al tema dell'identità è quel-lo di riuscire a cogliere un processo di formazione e dissoluzionedi unità (singole e molteplici) di cui il Sé, l'autocoscienza, o lapropria biografia, rappresentano solo un momento, una fotogra-fia statica.

Tale ottica è del tutto consonante con le idee di Bateson, chedefinisce il Sé all'interno del complesso rapporto individuo-am-biente. Il Sé "contiene" il proprio contesto e si può considerare"un frammento di una cultura", "un anello di retroazione all'in-terno di altri anelli di comunicazione (...) un'entità mitologica" o"una suddivisione (errata e patologica) tra mente interna e men-te esterna" (1972d, pp. 160-88).

Bateson vede nelle relazioni - come nelle coppie - la possibilitàdi formare un'unità maggiore, un "noi", dove l'Io smette di esserenecessario come "causa" del comportamento di questa nuova for-mazione. L'Io, il me stesso, il Sé, si forma e acquista senso solo aun livello specifico di apprendimento; l'apprendimento di secon-do livello (o deutero-apprendimento). In questa forma di appren-dimento si apprende "come apprendere" nelle diverse situazioni.

La teoria di Bateson sull'apprendimento si basa su diversi tipilogici. Al livello logico immediatamente superiore, cioè dove siapprendono le modulazioni di tale possibile apprendimento, l'Iosmette di essere rilevante - Bion direbbe che si è all'unisono conO, senza una distinzione netta tra l'osservatore e l'osservato - enon apparirà più un "argomento cruciale" nella segmentazione enella narrazione dell'esperienza vissuta.

130 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 131

Questa potrebbe essere una chiave utile per comprendere ilcambiamento promosso dall'attività clinica, come anche la de-personalizzazione descritta da Neri nei gruppi. Anche per Bion,l'identità, il Sé acquistano senso solo nelle relazioni: come abbia-mo già visto, Bion colloca infatti la nascita psicologica e lo svi-luppo dell'identità nel processo di réverie materna.

Il Sé può essere colto solo all'interno di un "sistema mente" acarattere transpersonale, che evolvendosi ristruttura le narrazio-ni, i vissuti e le identità familiari, sociali e storiche per creare unavera e propria struttura narrativa.

L'identità del bambino, fin dalla nascita, si definisce all'internodella capacità della coppia (o della triade madre-padre-bambino)di accogliere i suoi vissuti, di pensare le emozioni condivise e didare senso alle azioni svolte nelle interazioni.

I concetti, tutti bioniani, di "réverie materna", "contenitore-contenuto", "identificazione proiettiva" come comunicazione,"oscillazione tra posizione schizoparanoide e posizione depres-siva" indicano, a mio avviso, che il problema dell'identità, e delSé, è quello di appartenere a diverse "unità relazionali" e contri-buire a definirle. Il singolo acquista senso solo se considerato al-l'interno della storia dei contesti a cui appartiene, in cui si defini-sce e "apprende" il proprio carattere: con Nietzsche, possiamo di-re che impara a diventare "se stesso".

Partecipando a diversi gruppi sociali, abbiamo la possibilità didefinire alcuni "Sé possibili", di cambiare pelle creando identitàcollettive, nuove metafore e nuclei narrativi capaci di indirizzaree dare senso alle azioni che poi si sedimenteranno nella nostrastoria personale.

La biografia - una straordinaria risorsa per il soggetto - costi-tuisce anche un vincolo, perché restringe il campo delle possibi-lità potenziali, ricordando al soggetto stesso alcune risposte nonadattative del passato e tutte le relazioni "non riuscite" del suoscenario relazionale.

Possiamo evidenziare una zona di contatto e di trasmissioneintergenerazionale dei contenuti mentali grazie agli scambi e alle

narrazioni comuni, che si propaga anche attraverso i segreti, ilnon detto, e attraverso diversi traumi intergenerazionali.

I Sé molteplici della nostra esperienza sono dei prodotti com-plessi; un groviglio di narrazioni (ipertesti aperti), un costruttotranspersonale di cui è impossibile tracciare precisi limiti spazio-temporali. Questo accade perché il Sé è costituito da diverse"unità molteplici", complesse e contraddirtene, fatte di gesti,emozioni, metafore e narrazioni, che acquistano senso ed emer-gono solo nei processi sociali, in diversi contesti interattivi e con-versazionali.

Bateson ricorda che il Sé prende forma anche grazie ai nostrisensi, soprattutto la vista - che costituisce anche la metafora dibase per Bion nella comprensione della conoscenza - che ci per-mette di "vedere il mondo" come composto da unità separate, dasoggetti autonomi. Ma questa percezione non deve limitarci nelcogliere aggregati e processi ultra-individuali, che si compongonoe si disfano di continuo.

Anche il linguaggio comune, fatto di nomi, verbi e aggettivi,tende a rafforzare un'ottica individuale, non permettendoci di co-gliere appieno la relazione più generale, l'ecologia che sostiene lediverse identità, anzi lo sfondo da cui emerge l'identità del singo-lo come una figura visibile e apprezzabile.

Nell'esperienza borderline, per esempio, viene meno questosfondo tacito che sorregge l'identità del soggetto, e le diverse in-terazioni (familiari o contestuali) non permettono più la compo-sizione e lo sviluppo di una narrazione coerente.

Per nostra fortuna l'arte, come anche i miti, i riti, l'amore, lanatura e l'universo nel suo complesso ci permettono di riequili-brare una visione "atomistica" dell'identità, facendoci sentireparte di una "sacra unità", un contesto capace di contenerci e dar-ci senso.

Bateson e Bion propongono così un concetto di Sé che po-tremmo definire "situazionale", processuale, in cui l'identità vie-ne sentita come un'unità (una sorta di essenza) dal soggetto soloquando non viene pensata, cioè nella normale prassi quotidiana.

132 Capitolo quarto

Ma quando tale sostanza fittizia - una vera e propria costruzionesociale - viene investigata, come nei momenti di crisi, allora ap-pare al soggetto come una molteplicità di abitudini, di partecipa-zioni, di voci dominanti e voci minori, di risposte apprese, slega-te e incoerenti, nuclei polisemici a cui è diffìcile attribuire un or-dine, una consequenzialità.

Se il Sé rappresenta la nostra epistemologia, il modo di "co-struire il mondo e noi stessi", allora è proprio nei momenti di cri-si - quando si rompe la corrispondenza individuo-contesto - chesi è costretti a utilizzare una nuova serie di strategie: comporta-menti che si sperimentano per prove ed errori creando nuovi sche-mi, bussole e metafore capaci di orientarci nei diversi contesti re-lazionali. È proprio nei momenti di crisi che il mondo appare unacostruzione estranea al soggetto, non gestibile; così anche il Sé, ol'identità, cessa di essere un'entità coerente e monolitica per mo-strare strappi, lacerazioni e discontinuità.

Il cambiamento e la "patologia", da questo punto di vista, mo-strano una crisi di significazione del Sé (e del contesto), ma altempo stesso, se si è capaci di tollerare la frustrazione, tale crisipuò costituire una straordinaria occasione di sviluppo e di cresci-ta. L'intervento clinico può configurarsi allora come un nuovocontesto in cui apprendere (deutero-apprendere), utilizzando ilproprio flusso di identità per contribuire a nuovi modi di "esserecon l'altro" e ampliando il repertorio di schemi, emozioni e azio-ni condivise che è la parte tacita e inconscia dell'identità.

In questo modo, acquistano nuovo senso alcuni vecchi model-li, come P"io" e il "me" di William James, perché mettono in ri-salto anche gli aspetti corporei, che vanno a integrarsi con le nar-razioni, le rappresentazioni consapevoli e le immagini di sé delsoggetto.

Gli aspetti consapevoli del Sé, le finalità coscienti sono per Ba-teson delle vere e proprie "scorciatoie", descrizioni a posteriori diinterazioni o riletture parziali di archi e circoli più generali.

Riassumendo: il Sé, per Bateson e per Bion, è un'emergenzache si staglia dalla relazione con l'ambiente, dal non-Sé di cui è

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 133

composto. È quella dinamica Se-altro che si mostra nella danzamuta della relazione e che acquista una forma più o meno stabi-le, più o meno narrabile.

Per Bateson, il Sé può essere concepito anche in forma iconica,come "la metafora che noi siamo" (1991c), la nostra epistemolo-gia, il nostro microcosmo che continuamente confrontiamo, inmaniera più o meno consapevole, con il macrocosmo sociale.L'obiettivo della clinica, allora, sarà quello di integrare l'identità,la storia del soggetto, le sue relazioni significative, in diverse tra-me intrecciate, parti di un sistema più generale, "la mente imma-nente al sistema".

Partecipando a nuovi gruppi, a nuove relazioni significative, sicreano nuovi legami, nuove dis-identità, ipotesi, metafore e nar-razioni capaci di guidarci e di fornirci una sorta di cerniera tra lanostra storia - depositata in molteplici biografie - e l'apprendi-mento di nuovi contesti, azioni condivise, nuove identità e nuovenarrazioni alla ricerca di un pensatore che le sappia raccontare oanche soltanto vivere nelle relazioni con gli altri.

Settimo confronto. Doppio legame, argomento circolare e invalida-zione del Sé

II concetto di "doppio legame" è stato introdotto da Batesonnegli anni cinquanta e ha avuto subito una forte popolarità. Perdiversi anni, si è scritto molto a proposito del doppio legame; poi,per un lungo periodo di tempo, il concetto sembra essere stato di-menticato; oggi è tornato di grande attualità. Cercherò di eviden-ziare un aspetto del modello di Bateson che mi appare ancora at-tuale e utile, soprattutto se confrontato con alcune intuizioni diBion. Da questo punto di vista, il doppio legame appare comeun'invalidazione del concetto di Sé. Scrive Bateson: "Nello schi-zofrenico, nel doppio legame, l'adattamento esterno è possibilesolo al prezzo di un non-adattamento interno, di uno stravolgi-mento interno (...) nell'ambiente familiare il paziente si adatta

134 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 135

mediante forme di comportamento comunicativo in cui il mondeinterno o quello esterno, o entrambi, sono negati in modo impli-|cito, o addirittura esplicito" (Una sacra unità, p. 185).

Per doppio legame dobbiamo intendere una crisi di adatta-1mento del Sé a un contesto che si manifesta in un'interazione che?non permette al soggetto di formulare una narrazione coerente odi creare connessioni efficaci tra le azioni che lui stesso compie ele emozioni che avverte, perché è preso in una forma di relazione]paradossale. La coerenza tra diverse esperienze e punti di vista è ]la base su cui costruire il Sé. Secondo Bateson, nel doppio legame ;"il Sé preesistente non può sopravvivere in alcun modo (...) il pa- '\a del doppio legame possiede una distruttività specifica

nei confronti dell'identificazione del Sé" (ibid., p. 194). E ancora:"In effetti il doppio legame è una sorta di battaglia per stabilire chiavrà il Sé distrutto" (ibid., p. 203). Appare chiaro che nella dina-mica a doppio legame il soggetto non riesce a costruirsi un "io"(o un "me stesso") capace di narrare una storia. Come sostenevail giornalista Enzo Biagi, "per raccontare una storia bisogna ave-re un punto di vista", un nucleo coerente (una "congiunzione co-stante", per Bion) capace di armonizzare diverse esperienze vis-sute.

Può essere utile, a tal proposito, tracciare un parallelo tra il mo-dello di Bateson e le idee di Bion sullo sviluppo mentale. Nellagriglia - che, come abbiamo già detto, è una tabella a doppia en-trata - possiamo osservare come la colonna di sinistra (quella "ge-netica") descriva passo passo l'evoluzione del pensiero, dalle pri-me emozioni "brute" fino a definire narrazioni più coerenti e ve-re e proprie teorie astratte.

Nell'ottica di Bion, la mente si basa su ridondanze, ripetizionidi schemi di esperienza che col tempo vengono generalizzati inschemi sempre più complessi e sempre più astratti. Tale modellodella mente mostra la nascita delle idee, intese come elaborazionidi emozioni che vengono poi tradotte in immagini, sogni e miti.

La coerenza è una caratteristica intrinseca della mente (e del-l'identità) che continuamente aggrega i suoi elementi di base fino

a costituire rappresentazioni complesse basate su categorie cau-sali: prima/dopo, causa/effetto, proprie delle narrazioni più evo-lute.

Le idee e i concetti non sono elementi semplici, ma costruttiche si trasformano, si combinano e a volte subiscono delle invali-dazioni - un "cambiamento catastrofico", per Bion - che metto-no in crisi l'intero sistema epistemico del soggetto con la nascitadi una nuova formazione, una nuova origine, un nuovo sistemacartesiano.

Questa descrizione mostra sia lo sviluppo dell'identità che losviluppo di una funzione. Non di una narrazione specifica, madella capacità stessa di pensare per storie, una funzione crucialeper l'uomo e per i gruppi sociali.

L'intervento clinico si basa proprio su tale capacità, che costi-tuisce, al tempo stesso, il mezzo della comunicazione.

Nella creazione di storie, le emozioni e le abitudini inconsape-voli svolgono un ruolo fondamentale: devono essere continua-mente tradotte in altri linguaggi, composte e armonizzate con lealtre forme di conoscenza. Il doppio legame descrive la mancan-za di tale armonia, l'invalidazione di quel costrutto narrativo-esperienziale che è il Sé. Il conflitto specifico del doppio legameavviene lungo i diversi livelli di conoscenza e porta a un circolo vi-zioso, un "circuito riflessivo bizzarro" che non permette l'evolu-zione di alcuna narrazione coerente.

Cronen, Johnson e Lannamann (1982) hanno ripreso la teoriabatesoniana del doppio legame ipotizzando che l'invalidazioneavvenga tra diverse istanze: la relazione, il singolo atto linguisti-co, la biografia interna o le norme sociali.11

L'idea è interessante, ma gli autori descrivono queste istanze di

1 ' L'interno e l'esterno, per Bateson, si auto-specificano, e per questo motivo non è possibile as-sumere come elementi indipendenti la relazione, il Sé o le norme sociali, perché ognuna di esse è co-struita a partire dalle relazioni con le altre. Il Sé non può essere assimilato a una biografia intema; sitratta piuttosto di un groviglio di testi e narrazioni che già contengono norme sociali, leggi, abitudini.Il taglio netto tra individuo e ambiente, oltre a proporre un'epistemologia ingenua, per Bateson è segnodi un'epistemologia malata.

136 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 137

base, in conflitto tra loro, come se fossero del tutto autoevidenti:come fatti, mai come modelli costruiti e introdotti da un osserva-tore. In questo modo, finiscono per appellarsi a delle istanze rei-1ficate che si definiscono solo l'un l'altra. A mio avviso, tali attritie "loop ricorsivi" vanno ricercati tra le diverse forme di cono- ;scenza del soggetto: linguistiche, procedurali e metaforiche.

Questi diversi livelli di senso vanno considerati strutture "in pa-rallelo", ognuna intraducibile nel linguaggio dell'altra. Come, in-fatti, tradurre in parole un'emozione? O tradurre una metafora invissuto? E come, con un gesto, esemplificare un concetto?

Da questo punto di vista, la mente è come un ipertesto apertoalla relazione con gli altri, che definisce rappresentazioni com-plesse attraverso infiniti links (Giuliani e Nascimbene, 2009).

Per chiarire tali aspetti, vorrei proporre un parallelo con l'ar-gomento circolare proposto da Bion nel 1963 va Addomesticare pen-sieri selvaggi, che descrive bene il risvolto soggettivo di questa crisidel Sé che è il doppio legame. Bion ricorda un caso clinico, unesempio che lui stesso definisce "estremo", un paziente schizo-frenico convinto di essere "una scoreggia". Con tale convinzione,il paziente si avvicina a un'automobile in corsa sicuro di esserneattraversato ma, inevitabilmente, viene investito e riporta feriteper fortuna non gravi.

Bion riflette a lungo sul rapporto tra gli accadimenti, la realiz-zazione e l'idea del paziente,12 che considera come una vera epropria teoria. Si concentra su quelle azioni che possono falsifi-care o reificare l'idea, la rappresentazione che il soggetto ha di sestesso. È un tema caro anche a Bateson, il quale sosteneva cheun'idea non è mai falsificabile o verificabile, ma anche che, nellaprassi sociale, i soggetti si comportano come se le loro idee po-tessero diventare sempre più "vere" (e sempre più inconsapevoli),veri e propri "mattoni inconsci" dell'esperienza.

Diviene così importante capire quali esperienze possono esse-

12 Bion è interessato al fatto che un'asserzione, o una qualunque teoria, possa trovare un "ac-coppiamento" con una realizzazione, un aspetto pratico, e formare delle idee.

re catastrofiche per il soggetto e quali, invece, possono risultareevolutive.

Ricordiamo che Valeria Ugazio (1998) ha fatto delle esperien-ze falsificanti, proprio per il loro potenziale trasformativo, unaprassi "costruzionista". Ritengo che un approccio narrativo deb-ba concentrarsi sui processi di costruzione e dissoluzione delleidee, delle storie e delle ipotesi del paziente.

Bion, a proposito della vignetta precedente, rileva un processoricorsivo tra la rappresentazione del Sé - l'idea di essere una sco-reggia - e le possibili realizzazioni corrispondenti: in pratica, unargomento circolare.

La rappresentazione di sé mostra una conoscenza nucleare cherisulta sempre convalidata dal soggetto, a parte alcuni specificimomenti - come quello dell'incidente appena descritto - che pos-siamo definire di breakdown, di rottura.

Il problema clinico è come affrontare tali smagliature, tali possi-bili circoli viziosi, e farne un'occasione per l'evoluzione del sistema.

Il Sé del paziente ha così un suo sviluppo, un'ecologia, cheBion descrive come un cerchio che collega ricorsivamente imma-gini ad azioni, rinforzando le proprie premesse.

Il paziente sente di essere una scoreggia e si comporta di con-seguenza. La "catastrofe" di tale idea avviene quando il diametrodi questo circolo di pensiero si ritira, si contrae fino a collassare inun unico punto. Un esempio potrebbe essere: "Sono una scoreg-gia perché non valgo niente, e non valgo niente perché sono unascoreggia." In questo modo, diviene evidente la circolarità delpensiero che si stabilizza su un solo punto, che rappresenta, a mioavviso, la versione soggettiva del "circuito riflessivo bizzarro" diCronen, Johnson e Lannamann. In questo caso, la dispersione delSé dipenderebbe dall'impossibilità del soggetto di narrare, perchéi suoi presupposti non possono che contrarsi e implodere in unpunto che non permette nuove svolte narrative. Si tratta di unpunto non narrabile, non descrivibile, un "attrattore" anti-narra-tivo che condensa e annichilisce ogni altro processo mentale.

Bion descrive un "cerchio di ragionamenti" che si ritira sempre

138 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 139

più fino a scomparire e che distrugge l'immagine di sé e ogni al-1]tra storia possibile.

Il doppio legame può mostrare, così, una dinamica relaziona-!le che non permette il dispiegarsi di una narrazione coerente afpartire dai pattern vissuti nella relazione.

Bion spiega tali processi con l'impossibilità di far sedimentareimmagini coerenti per costituire uno "schermo a", una piattafor-ma da cui costruire concetti e ragionamenti deduttivi. Restereb- jbe solo l'agglomerarsi di emozioni indistinte ("schermo p"), che inon permette la nascita di storie o di altre articolazioni del pen- isiero. Il piano semantico diviene così del tutto opposto a quello iemotivo e lo disconferma, provocando una catastrofe.

Bateson collega al suo modello del doppio legame diverse areedi esperienza, come l'umorismo e la creatività, perché segnanoun'invalidazione dei presupposti relazionali, una svolta nella nar-razione, che evolverebbe su basi del tutto nuove.

Prendiamo un esempio banalissimo: un uomo dalla strutturaimponente entra spavaldo in un bar, e crolla a terra sulla classicabuccia di banana. Tale esempio, proprio del cinema muto, ci rac-conta dell'invalidazione di un possibile contesto, di una storia na-scente basata sulla forza e l'affermazione di sé, che si sgonfia, dicolpo invalidando i propri presupposti narrativi come una bolla disapone che si contrae fino a esplodere.

La storiella ci diverte perché ci porta a percepire un mondo"senza fondamenti" in cui una storia può nascere, ma anche con-traddirsi ed esplodere in mille altri circoli ermeneutici ("circoli",non a caso, anch'essi) che collassati in un solo punto costituiscono,al contempo, un'invalidazione della storia precedente ma anche losviluppo di nuove ipotesi, di nuove metafore tutte da verificare.

L'umorismo, in questo caso, è garantito dal fatto che la falsifi-cazione non tocca il Sé dell'osservatore, lo lascia al sicuro. È piut-tosto una piccola porzione del "mondo" che muore e rinasce: lastoria della forza e della debolezza, della sopraffazione e dellagiustizia.

L'invalidazione di quella costruzione (emotiva, procedurale e

narrativa) che è il Sé sottende il medesimo processo, ma viene vis-suta come una perdita minacciosa, un'esperienza destruente cheporta il soggetto a un "terrore senza nome", alla pazzia. Questaesperienza, per Bion, è caratterizzata dall'impossibilità di pensa-re le emozioni e di creare presupposti capaci di raccontare e co-struire se stessi e il mondo.

Bisogna ricordare che non si tratta di una "patologia" circo-scritta: il doppio legame racconta infatti l'unico destino possibiledelle storie, quello di trasformarsi, di essere falsificate, siano esseteorie scientifiche, familiari, individuali o sociali. Questo perchél'esperienza è sempre intraducibile in parole, e quindi causa pa-sticci, false generalizzazioni e, per questo motivo, anche il mondodella natura non può che essere pervaso da doppi legami.

Le storie mutano al mutare dei contesti, e il pensiero apparesempre basato su un argomento circolare, in quanto nasce comeuna "metafora nuova", con cui ci si illude di catturare l'esperien-za (oggettivamente), e si conclude come una storia vecchia, sor-passata dall'esperienza stessa.

La trasformazione e l'invalidazione delle storie ci offrono unimportante insight a proposito della "costruzione" storica e so-ciale delle nostre credenze. La nascita di un nuovo paradigma teo-rico ci porta troppo spesso a una sorta di "realismo", alla creden-za ingenua di aver colto un pezzo di realtà, per poi scoprire che sitrattava solo di metafore, di ipotesi traballanti. La conoscenza, inquesta chiave, non è che un'alternanza tra due diversi estremi: unpunto di vista "realista" e uno "nichilista" (Casadio, 2006b). Traqueste due polarità nasce e prospera il pensiero, ma anche le ideedi Bateson e di Bion.

Ottavo confronto. Identificazione proiettiva, "end-linkage", espe-rienza emozionale trasformativa

In Morale e carattere nazionale (1942e), a proposito degli studi suirapporti fra temperamento e cultura, Bateson propone un'inte-

140 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 141

ressante ipotesi che chiama end-linkage ("gli estremi legati"), che f- come afferma lui stesso - rappresenta una svolta nel suo pen- isiero. Questo concetto, che intendo collegare a quello di identifi-1cazione proiettiva, sta a indicare una connessione inconsapevoletra le diverse modalità relazionali mostrate dai soggetti in inter-azione: "Se consideriamo una differenziazione sociale in unaqualche comunità stabile - diciamo, per esempio, la differenzia-zione tra i sessi in una tribù della Nuova Guinea - vediamo chenon è sufficiente dire che il sistema delle abitudini o la strutturadei caratteri di un sesso sono diversi da quelli dell'altro. Il puntosignificativo è che il sistema delle abitudini di ciascun sesso in-grana con il sistema delle abitudini dell'altro; che il comporta-mento dell'uno promuove le abitudini dell'altro. Così, per esem-pio, si ritrovano tra i sessi strutture complementari, come ammi-razione/esibizionismo, autorità/sottomissione, assistenza/di-pendenza, o combinazioni di questi" (ibid., p. 118).

Particolarmente interessante è la descrizione del modo in cuiingranano le modalità dei diversi soggetti, creando un asse, unapolarità complementare di caratteristiche opposte che - come ri-corda Bateson - si sostanziano a vicenda, saldandosi in un soloasse bipolare.

Studiando la popolazione latmul della Nuova Guinea, Batesonindividua alcune polarità relazionali che sono "legate insieme" eche insieme regolano le interazioni tra i sessi, contribuendo a de-finire la cultura locale.

L'aspetto più interessante di questi studi è che i singoli sogget-ti, nella loro vita, apprendono non solo la propria modalità rela-zionale, ma anche quella dell'altro che è in interazione con loro.Bateson descrive il processo di end-linkage come una tappa fonda-mentale nella formazione del carattere dei singoli individui:"Ora, tutto ciò che sappiamo sulla formazione del carattere - spe-cialmente i processi di proiezione, formazione reattiva, compen-sazione e simili - ci porta a ritenere che queste strutture bipolarisiano unitarie all'interno dell'individuo. Se sappiamo che un in-dividuo è abituato a esprimere palesemente metà di una di que-

ste strutture, per esempio un comportamento autoritario, possia-mo arguire con sicurezza (anche se non in termini precisi) chenella sua personalità sono allo stesso tempo contenuti i germi del-l'altra metà, cioè della sottomissione. Si deve infatti ritenere chequesto soggetto sia abituato al binomio autorità/sottomissione, enon all'autorità o alla sottomissione soltanto" (ibid., p. 119).

Questi aspetti evidenziano una forma di conoscenza muta, ta-cita, che indica un apprendimento molto importante: l'aspettati-va (inconsapevole) che ai propri comportamenti corrispondanoalcune risposte complementari, alcuni pattern stabili da parte de-gli altri. Vivendo in un particolare contesto relazionale, comequello balinese, si apprendono così non solo alcuni comporta-menti specifici, ma anche le risposte ricevute dal contesto.

Il concetto di "identificazione proiettiva", introdotto da Mela-nie Klein, nonostante sia stato usato in diversi modi tanto da di-ventare sfocato e ambiguo, ci appare ancora utile per spiegarequesti aspetti descritti da Bateson in ambito antropologico.

In Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946) la Klein descrisseoriginariamente l'identificazione proiettiva come una fantasia on-nipotente per cui parti non desiderate della personalità e degli og-getti interni di un soggetto possono essere scisse e controllate in-serendole in un altro oggetto, in un'altra persona. Si tratta di unmeccanismo di identificazione primitivo, attivo fin dalle primeore di vita del bambino, ed è il prototipo di ogni relazione ag-gressiva. La fantasia che vi soggiace è quella per cui gli escrementie le parti "malvagie" del Sé sono proiettati dentro la madre al fi-ne di controllarla. Di conseguenza, la madre non è più vista dalbambino come separata, ma come una parte "cattiva" di sé con-tro cui è diretto tutto l'odio. Si può facilmente concludere chel'uso massiccio e continuativo dell'identificazione proiettiva por-ta il soggetto a uno svuotamento, all'impoverimento dell'Io.

La Klein definisce identificazione proiettiva sia i processi discissione dell'Io sia le relazioni oggettuali immature, "narcisisti-che", create dalla proiezione di parti "cattive" di sé negli altri.

In un lavoro successivo, dal titolo Sull'identificazione (1955), la

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Klein riprende il concetto di identificazione proiettiva, non più at- [tribuendogli caratteristiche patologiche ma descrivendolo come}un processo normale della vita psichica, alla base dell'empatia.Così, grazie anche alle proiezioni di parti "buone" del Sé sugli og- 'getti esterni, la Klein considera l'identificazione proiettiva essen- 'ziale allo sviluppo delle ulteriori relazioni oggettuali. Infatti, at-traverso tali processi il soggetto può mettersi nei panni degli altri,coglierne i sentimenti, gli atteggiamenti e le reazioni.

In ultimo, per la Klein, il funzionamento "normale" dell'iden-tificazione proiettiva costituisce uno dei fattori principali nellaformazione dei simboli. In questo modo, la Klein lega una formadi relazione oggettuale alla capacità di rappresentazione del sog-getto.

Proseguendo il lavoro intrapreso dalla Klein, Bion ha conside-rato non soltanto il funzionamento patologico dell'identificazio-ne proiettiva, ma anche la sua accezione normale. È propriol'identificazione proiettiva realistica, infatti, che tiene conto del-la reale esistenza degli altri.

A partire dal 1967 Bion, riflettendo su un aspetto particolaredell'identificazione proiettiva, ha elaborato il suo modello di"contenitore-contenuto". Secondo questa ipotesi, il lattanteproietta parte del suo psichismo, soprattutto le emozioni menocontrollabili, nel seno materno (come contenitore), per ricever-le poi disintossicate e poterle così elaborare. Nel caso dell'iden-tificazione proiettiva, questa proiezione può avere diversi esiti:può rendere l'emozione proiettata più tollerabile e pensabile,può lasciarla inalterata o può accrescerla e creare un "terroresenza nome".

A partire dagli scritti del 1962 (Analisi degli schizofrenici e metodopsicoanalitico; Apprendere dall'esperienza) Bion ha sottolineato ilruolo dell'identificazione proiettiva nella comunicazione prever-bale precoce e ha indicato questo processo relazionale come ilprecursore della "capacità di pensare i pensieri".

Gli elementi a sono esperienze emozionali e impressioni sen-soriali trasformate in immagini e utilizzate nella formazione di

pensieri onirici, deputati al pensare, al sognare e al ricordare.Questi diversi processi, insieme alla réverie materna, danno ori-gine al primo abbozzo di funzione a, alla mente.

L'insuccesso della funzione a comporta l'assenza di immaginivisive: il paziente psicotico manca degli strumenti di base che loaiuterebbero a disegnare una mappa degli eventi che vive. Al po-sto di tale rappresentazione non restano che detriti di linguaggioe di emozione, che fluttuano in uno spazio indefinito.

L'identificazione proiettiva, come forma di comunicazionenormale, può aiutarci a comprendere ciò che intendeva Batesonquando rifletteva sul modo in cui ingranano tra di loro le diffe-renti modalità delle relazioni umane nell'end-linkage. Utilizzere-mo così le ipotesi antropologiche di Bateson per comprenderemeglio alcuni aspetti delle relazioni in genere, e in particolare del-la relazione terapeutica come l'ha concepita Bion.

Riassumendo: non possiamo accettare in maniera acritical'oscura descrizione della Klein che parla di "pezzi del Sé" del pa-ziente (o del bambino) "immessi" nell'analista (o nella madre) al-lo scopo di controllarlo. Lo sforzo di ripulire il concetto kleinianoda tutti gli aspetti alieni alla comunicazione e alla relazione saràsicuramente ricompensato. Nonostante le difficoltà epistemolo-giche e il suo ambiguo alone semantico, sono convinto che l'iden-tificazione proiettiva possa ancora aiutarci a comprendere la co-municazione in un'ottica relazionale.

Non intendo proporre una rilettura filologica del concetto diMelanie Klein, e rinvio il lettore interessato al libro di Leon Grin-berg Teorie dell'identificazione (1976), al Dizionario kleiniano di Hin-shelwood (1989), al lavoro a cura di Joseph Sandler (1987) Proie-zione, identificazione, identificazione proiettiva. In questa sede, cer-cherò solo di interpretare il concetto della Klein alla luce delleteorie relazionali, evidenziando un suo possibile uso nella clinica.

Grazie alle idee di Bateson e di Bion l'identificazione proietti-va può ora essere considerata un'esperienza non verbale, unamessa in comune di (interazioni, piuttosto che uno scambio pret-tamente linguistico.

144 Capitolo quarto

Ciò che viene messo in comune sono le emozioni e le azioni.L'aspetto emotivo è fondamentale per la comprensione del con-cetto, perché si riferisce a un sentire comune. In questo senso,l'identificazione proiettiva descrive la costituzione di un ethoscondiviso, formato dalle azioni reciproche dei soggetti. Ma nonpossiamo circoscrivere il concetto a questa accezione. L'identifi-cazione proiettiva descrive anche un processo inconsapevole piùgenerale: un "contagio emozionale", un'esperienza che riguardaogni forma di relazionalità e che solo raramente diviene oggettodi riflessione cosciente. Basti pensare, per esempio, a un'inter-azione con una persona agitata (magari in un luogo chiuso) checi "costringe" ad aver a che fare con la sua ansia.

L'atteggiamento del terapeuta, la sua permeabilità alle emo-zioni presenti nel campo, il suo essere "senza memoria e senzadesiderio" appaiono modalità necessarie per accogliere non solole descrizioni coscienti del paziente ma anche le sue modalità nonverbali che di fatto vengono agite nella relazione.

Joseph e Anne-Marie Sandler (1998), per evidenziare l'azionecongiunta del paziente e dell'analista che porta alla nevrosi ditransfert-controtransfert, introducono il concetto di "attualizza-zione", che mette in evidenza le modalità del paziente (e dellacoppia), il suo modo di utilizzare il setting, i modi concreti di da-re senso al campo psicoanalitico, inteso come uno spazio apertoalle molteplici interazioni possibili.

Il setting, così, è considerato un insieme di modalità utili peraccogliere anche i livelli taciti della relazione, combinando, im-mancabilmente, le azioni e le emozioni del clinico con quelle del-l'analizzando.

Grazie al concetto di identificazione proiettiva è possibile os-servare il modo del paziente di "indossare" il setting, di gestirlo eabitarlo nell'incontro terapeutico. Tale esperienza preverbale nonsi riferisce a singoli contenuti, ma alle modalità tacite di inter-azione, per cui i diversi soggetti attivamente danno forma al cam-po impersonando (in modo del tutto inconsapevole) diversi ruo-li. La relazione del soggetto con i ruoli assunti in seduta è molto

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 145

importante. Sandler definisce il controtransfert13 un processo re-lazionale basato su una "risonanza di ruolo". Focalizzando l'at-tenzione sul ruolo che l'analista si trova ad agire inconsapevol-mente in relazione al paziente, in Controtransfert e risonanza di ruo-lo (1976) Sandler introduce il concetto di "relazione di ruolo",che permette di cogliere le sfumature della relazione psicoanali-tica. Tale concetto risulta particolarmente prezioso perché mettein risalto gli aspetti comportamentali che anche l'analista esprimenella terapia. L'analista tenderà, a meno che non ne prenda co-scienza, ad adattarsi al ruolo interpersonale che il paziente di fat-to gli richiede: "Ciò che voglio sottolineare è il fatto che in ognimomento dell'analisi la relazione di ruolo del paziente compren-de un ruolo che egli attribuisce a se stesso e uno complementareche proietta sull'analista. Il transfert del paziente rappresentereb-be così un tentativo, da parte sua, di stabilire tra lui e l'analistauna particolare interazione (...)! desideri e i meccanismi incon-sci del paziente di cui ci occupiamo nel nostro lavoro sono rap-presentati intrapsichicamente, in modo descrittivo, da immaginie fantasie inconsce in cui il Sé e l'oggetto che interagiscono sonorappresentati in particolari ruoli. Il paziente, quindi, nel transfertcerca di attualizzare questi ruoli in modo nascosto, entro la strut-tura e i limiti della situazione analitica. Così facendo egli opponeresistenza a rendersi consapevole della relazione infantile che stacercando di determinare" (1976, pp. 191 sg.).

Riassumendo le idee di Sandler, nell'attività clinica l'analista èchiamato a svolgere diversi ruoli: quelli di giudice implacabile, diinterlocutore spaventato, di vittima o di complice delle idee e del-le azioni del paziente, se non, addirittura, di carnefice o di salva-tore del paziente. Tutto ciò accade grazie alla tacita spartizione diruoli che sono legati tra loro. Il modo stesso di utilizzare il settingda parte del paziente (in accordo con il suo carattere e le sue espe-

13 Altro termine ambiguo e confusivo se non opportunamente chiarito, come cerchiamo di fa-re qui.

146 Capitolo quarto

rienze) definisce per sé un ruolo specifico e lascia al terapeuta ilruolo simmetrico o complementare.

Ma il terapeuta - sarà bene ricordarlo - non è un osservatorepassivo di questo processo e mette in atto con il paziente la stessaidentica dinamica, perché, come ci ricorda Bion, il suo contro-transfert è comunque inconscio. In questo modo, incontra il pa-ziente impersonando alcuni ruoli per gestire le emozioni vissutenel campo. Entrambi gli attori, cioè, si spartiscono dei ruoli con-versazionali per dare una conformazione al campo psicoanaliti-co. In questo modo, la divisione dei ruoli, nella coppia psicoana-litica, è un aspetto fondamentale della terapia.

Come già aveva detto Freud, l'incontro clinico - come negliscacchi - è costituito da varie mosse, e solo quelle di apertura e dichiusura sono conosciute e prevedibili. Secondo Sandler, non èfacile comprendere la fase centrale di una terapia, in cui si alter-nano diverse configurazioni relazionali che implicano, per il pa-ziente come per l'analista, l'assunzione di diversi ruoli.

In proposito Bion (1979b) scrive: "L'analista deve tendere allasincerità. Ma rischia di recitare una parte se il paziente gli suscitapotenti sentimenti e gli impedisce di pensare."

Questa spartizione di ruoli deve diventare oggetto di riflessio-ne per il clinico, come testimoniano anche le idee di Paula Hei-mann sul controtransfert (1949). Per comprendere queste ipotesipuò venirci in aiuto il concetto di "controidentifìcazione proietti-va" introdotto da Grinberg (1976). Questo termine descrive la ri-sposta dell'analista (un agito, si direbbe) all'identificazione proiet-tiva del paziente e mette in luce l'azione compiuta dal terapeutain accordo con il ruolo assunto che, come due "estremi legati"(diremmo con Bateson), vengono a definire una relazione stabilee prevedibile. A un comportamento passivo del paziente - per fa-re un esempio - l'analista potrebbe rispondere con una maggiorfoga interpretativa, e a un comportamento ansioso potrebbe ri-spondere con interventi maggiormente rassicuranti.

Nella relazione psicoanalitica si ritualizzano così alcune mo-dalità di transfert-controtransfert assumendo due ruoli comple-

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 147

mentari, ma legati, fino a rendere la relazione ripetitiva e pro-gressivamente sempre più povera, incapace cioè di evolvere, ditrasformarsi.

Anche se sembra suddividere un processo di coppia in due di-verse azioni (un'identificazione proiettiva del paziente e una con-troidentificazione dell'analista), il concetto di controidentifica-zione proiettiva di Grinberg ci appare utile per cogliere appieno iprocessi appena descritti. Dobbiamo constatare, inoltre, che ap-pare più semplice descrivere lo scambio clinico come un susse-guirsi di azioni e di reazioni dei due protagonisti, piuttosto checogliere un unico processo realizzato insieme dalla coppia (Casa-dio, 2007).

Quando si parla di identificazione proiettiva e di controidenti-ficazione proiettiva, si osservano dei veri e propri blocchi nella co-municazione, dei "bastioni" - secondo i Baranger (1961-1990) -che portano a un'impasse, alla "narcotizzazione"14 delle capacitànarrative della coppia.

Un esempio tratto dall'attività clinica dei Baranger può farcicomprendere meglio la loro idea di "bastione". Una terapia tuttagiocata su due ruoli specifici, come quelli di analista "padre buo-no" e di analizzando "figlio ubbidiente", introduce un vincoloche non permette alla coppia di attualizzare altre modalità rela-zionali.

Un contesto rigido e immutabile costituisce, per i Baranger, unvincolo, un bastione da superare, più che una resistenza al pro-cesso psicoanalitico. Ma come si possono superare tali impassecomunicative?

È Bateson che ci indica come uscire dai circoli viziosi che bloc-cano il campo relazionale. Il cambiamento può avvenire solo mu-tando la struttura della relazione, i ruoli in campo. Solo in questomodo la comunicazione può ritrovare nuovo vigore e uscire dal-

14 Termine usato da Antonino Ferro, tratto dalle interpretazioni narrative e linguistiche di Um-berto Eco.

148 Capitolo quarto

la ripetizione di schemi preconfezionati di pensiero, per segnarequella che Bateson definisce una "coevoluzione".15

Anche Bion descrive lo stesso passaggio - sempre utilizzandometafore biologiche - e ci mostra il viraggio da una relazione"conviviale" o "parassitaria" a una relazione "simbiotica", di mu-tua evoluzione, in cui gli attori trovano una nuova modalità di es-sere in relazione, oltre il ruolo stantio che stanno agendo ritual-mente e inconsapevolmente. In questo modo, analista e pazientepossono sperimentarsi in modi del tutto nuovi e sentirsi "diversi".

Una riflessione successiva al colloquio clinico, la supervisionecon un collega, la discussione in équipe, o anche solo un eventoinatteso, possono dare al terapeuta la possibilità di comprendereda un diverso punto di vista lo scenario relazionale che sta viven-do. Tutto questo dovrebbe aiutarlo a complessificare le propriemodalità interattive per uscire dai ruoli che si sono andati a defi-nire fino a quel momento.

Solo in quest'ottica si può comprendere l'"esperienza emozio-nale correttiva" - concetto introdotto da Alexander e Prendi nel-la scia di Ferenczi - o meglio sarebbe dire "esperienza emoziona-le trasformativa", come suggerisce Antonino Ferro (2002). Que-sto fattore terapeutico non si esplica assumendo, da parte del te-rapeuta, un particolare atteggiamento, una modalità affettuosa ocomprensiva; si tratta piuttosto di instaurare una relazione capa-ce di superare i circoli viziosi creati nello scambio clinico, per-mettendo alla coppia di ritrovare dinamismo, di coevolvere versonuove modalità più adattative e più integrate.

In questo modo, il cambiamento non può essere appannaggiodel solo paziente; anche l'analista deve cambiare, deve trasfor-mare le proprie modalità di relazione con il paziente (in un'otticaperfettamente bidirezionale). È proprio nei momenti di impasse

15 Termine che Bateson trae dalla biologia, con riferimento all'evoluzione congiunta di un or-ganismo e del suo ambiente. Ciò che evolve, o si seleziona, non è il singolo individuo, ma l'insiemeindividuo-contesto. In un'ottica clinica, potrebbe essere tradotto più o meno così: ciò che evolve non èil singolo soggetto, ma la coppia psicoanalitica.

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 149

che il clinico può rileggere - grazie a un "secondo sguardo" - lastoria degli scambi interattivi avuti con il paziente, dando un nuo-vo significato alla situazione attuale e trasformando il ruolo rico-perto fino a quel momento. Come scrive Bion, "quando due ca-ratteri o personalità si incontrano, si crea una tempesta emotiva"(1977d). Si tratta, allora, di comprendere gli esiti di tale incontroemotivo e "di trame il meglio con quello che si è", soprattuttoquando i due attori affrontano la situazione spartendosi ruoli in-tersoggettivi complementari.

Nell'accezione bioniana, il concetto di identificazione proiet-tiva potrebbe così comprendere gli esiti di tale tempesta emotiva.Come scrive ancora Bion, "possiamo allora localizzare nella co-munità l'origine, la fonte, il centro della tempesta emotiva? Nellamia esperienza, il problema è sempre causato da, o associato a, ocentrato su, una persona che sente e che pensa, capace di rende-re il proprio Sé infettivo o contagioso" (ibid., p. 246); e a come ilcontesto reagisce a questo, aggiungerei io.

Appare necessario, oltre che utile, riflettere ancora sulla rela-zione individuo-gruppo, cercando sempre di cogliere la mutualitàe lo scambio dietro ogni comportamento di un singolo individuo.

Grazie al concetto di end-linkage introdotto da Bateson, i tera-peuti potrebbero comprendere meglio le modalità tacite di "co-struzione della realtà" interpersonale della coppia psicoanalitica(il "Sé infettivo" dell'analizzando e la sua influenza sull'analistae viceversa) al fine di cogliere ciò che potrebbe avere sperimenta-to il paziente nei precedenti contesti relazionali. Questo perché larelazione che si svolge tra il paziente e il clinico può costituire unaforma di "rappresentazione" (o ri-edizione) dell'eredità procedu-rale del paziente, il sedimento dei precedenti contesti relazionaliche il soggetto ha (deutero-)appreso, tacitamente, con le proprieazioni e con le reazioni degli altri. Ovviamente, si tratta della ri-trascrizione di esperienze passate in un nuovo contesto. L'atten-zione alle dinamiche presenti nel campo permette così di com-prendere queste nuove "messe in scena" per contribuire a com-plessificare le modalità proprie del paziente.

150 Capitolo quarto

La riflessione su queste modalità interattive può aiutare il cli-nico a comprendere empaticamente la natura del "contagio emo-tivo". Si tratta di un'"infezione procedurale" biunivoca, lontanadal mondo delle parole e, a volte, perfino opposta a esso, che de-termina la costruzione di una matrice di molteplici significati.

Questo modello può risultare utile soprattutto se si comprendela sua pervasività nelle relazioni di aiuto, e può anche indicare co-me districarsi da tale groviglio. In questo tipo di interazioni, l'"at-tualizzazione" può aiutare a discriminare due diversi processi: unodefinito come il tentativo di "spiegare" all'analista come ci si è sen-titi in un contesto relazionale; l'altro (di identificazione proiettiva)che invece ricrea le condizioni concrete per far sentire l'analistanello stesso modo in cui il soggetto si è sentito in passato.

Il processo tira in ballo una forma di comunicazione emotiva,una trasformazione che consiste nel passaggio dal "riferire l'espe-rienza che ha vissuto con il paziente, al vivere l'esperienza del pa-ziente stesso", come ricorda Grinberg. In questo modo, il clinicopuò comprendere empaticamente il paziente, tramite l'esperien-za concreta, comprendendo la qualità del campo che si è definito.Un campo - sarà bene ribadirlo - creato sempre "a quattro ma-ni", e che spesso si dispone in maniera del tutto opposta alle fi-nalità coscienti dei due attori, addirittura in modo opposto ai mo-tivi stessi che hanno richiesto l'intervento. Questo aspetto rendecomplessa la comunicazione clinica, e la possibilità di compren-dere la fenomenologia sottostante. Forse è proprio a questo pun-to che nascono le descrizioni kleiniane fatte di "pezzi di Sé" e diemozioni "immesse" nell'altro. Il terapeuta, in questi casi, avver-te solo un'emozione sfocata, e non riesce a capire da dove pro-venga. Utilizzando un'ottica lineare, può essere facile attribuirlaal paziente; più complicato è invece comprenderla in un'ottica cir-colare, in modo da cogliere il contributo attivo del terapeuta (an-che se inconsapevole), che diviene "corresponsabile" della costi-tuzione del campo comunicativo in atto.

Il terapeuta deve essere attrezzato a riconoscere tali comunica-zioni per contenerle e darvi senso, mantenendo una "capacità ne-

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gativa", tollerando cioè quello che, nell'immediatO; può avverti.re come fastidioso o come una semplice difficoltà a pensare allaseduta, se non addirittura come semplice pigrizia o disattenzione.Deve essere disposto a un continuo lavoro di riflessione cercando(anche tra se e se) un secondo sguardo" a partire io dalle

sensazioni che vive, dai vissuti meno verbaiizzati che avverteNell'identificazione proiettiva ciò che emerge (visto dall'anali-

sta) è una contrapposizione frontale, uno scollamento tra aspettisemantici e procedurali (come nel doppio iegarne) che il soggettostesso non riesce a comprendere ma che, inesorabilmente, conti-nua a mettere m scena nelle relazioni più significative

Un esempio clinico ci può aiutare a chiarire il concetto: Grin-berg descrive una conversazione m cui è evidente uno iato fra iltono emotivo e il contenuto verbale del pa2iente Un s Q Qs

sessivo, in analisi, si lamenta delle violenze subite dal patrignoviolento, che lo picchiava, e delle esperienze omosessuali che hasubito nel passato m modo particolarmente traumatico Mal'aspetto che porta Grinberg a pensare all'identificazione iet_tiva è proprio il tono emotivo del paziente, cne è irritante- "L'eiemento caratteristico e rilevante di tale Pa2iente sin dalla prima se_duta fu il tono con cui egli raccontava tutto ciò, che contrastavafortemente e in maniera impressionante con a contenuto delle sueparole. Il suo linguaggio era pomposo, pedante) in maniera ̂tante raccontava queste sue esperienze adoperando una termino-logia pseudo-tecnica (...) L'esperienzaco%otransferale ddrana.lista era di noia crescente, e a volte di unacerta ansia Sentiva di

non riuscire a fare progressi con le sue interazioni perché nonc'era posto per esse; infatti nelle poche occasioni in cui aveva pro-vato, la replica era stata immediata, m termini di rifiuto ostilitàridicolo. Dando una chiara dimostrazione dei controllo totale cheil paziente desiderava instaurare, come partner dominante dellarelazione transferale, egli era solito interrompere il proprio di-scorso (...) per chiedere con tono coercitivo e compiaciuto l'opi-nione dell'analista 'bè, che ne pensa di tutto ciò?'" (1976 o 2301

II paziente si lamenta di essere stato una vittima nelle'

152 Capitolo quarto

ni passate. Però, tacitamente, aggredisce l'analista, il quale ha lasensazione che "l'atteggiamento del paziente fosse quello di chiha deciso di maltrattare e distruggere una per una tutte le inter-pretazioni. Se l'analista avesse dato via libera ai propri impulsi,che erano ben controllati, si sarebbe alzato e avrebbe preso a cal-ci il paziente" (ibid.).

Se non pensata, l'azione dell'analista - la controidentificazio-ne proiettiva - avrebbe ripetuto le stesse modalità lamentate dalpaziente, in cui tutti lo hanno più o meno metaforicamente presoa calci. Ovviamente, non stiamo affermando che il soggetto vo-lesse essere preso a calci - espressione che da all'inconscio una in-tenzionalità sproporzionata - ma che le sue modalità procedura-li, dovute alla sua storia di deutero-apprendimenti, erano ben di-verse, anzi opposte, alle richieste di collaborazione e accudimen-to rivendicate consapevolmente, che lo avevano spinto a richie-dere l'analisi.

Quello che il paziente aveva "legato insieme" sul piano della re-lazione erano i ruoli di vittima e di carnefice, di chi prende a calcie di chi è preso a calci. Così, non sapeva fare altro (perché era que-sto il suo unico equipaggiamento relazionale, la sua "cultura") che"riproporlo in scena" nelle relazioni per lui significative.

A partire da tale patrimonio procedurale, il paziente costruisce- come nel transfert - alcune "scene modello", relazionalmentesimili alle esperienze che ha già vissuto. Ciò che viene rimesso inscena non è un singolo ruolo, ma un asse bipolare di cui un poloè agito ora dal terapeuta. I ruoli sulla scena psicoanalitica, infat-ti, appaiono basati sulla polarizzazione vittima/carnefice che ilpaziente stesso voleva disconfermare nella sua richiesta di tratta-mento. Si tratta, ovviamente, di un doppio legame che ipostatiz-za la comunicazione terapeutica fintante che la narrazione rima-ne imprigionata nei soliti circuiti, e che può portare a uno scarto,a un cambiamento, solo se è possibile leggere il contesto con oc-chi nuovi e ricostruirlo su diverse basi relazionali.

Anche sul fronte delle neuroscienze, Schore (2003) si occupadella riformulazione del concetto di identificazione proiettiva di

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 153

Melanie Klein, descrivendola come una condizione fisiologicainconsapevole dovuta alla sincronizzazione degli emisferi destridei soggetti in interazione. Nel dialogo e nelle relazioni faccia afaccia, i cervelli destri dei soggetti si sincronizzano tra loro crean-do una vera e propria mutua regolazione delle emozioni. Anchedal punto di vista biologico, emerge così un processo tacito, ca-pace di influenzare lo stato emotivo dei soggetti e di condizionar-ne lo stato psicofisologico.

Bateson appare consapevole di tale processo e - a proposito diuna sua richiesta di fondi per proseguire gli studi sulla schizofre-nia nel 1954 - mentre riflette proprio sull'importanza dei ruoli as-sunti nella clinica16 scrive che "forse i messaggi metacomunicati-vi più importanti in una seduta terapeutica sono quelli che stabi-liscono i ruoli. Quando il terapeuta emette messaggi che indica-no un ruolo genitoriale, sta in questo modo comunicando unacornice che qualificherà tutti gli altri messaggi inclusi in essa".

Il confronto tra le idee di Bateson e quelle di Bion ci permettedi leggere il processo clinico come dotato di diversi strati di sen-so: emotivi, relazionali, narrativi; e, ovviamente, anche quelli ba-sati su una tacita spartizione di ruoli.

L'incontro clinico può sciogliere questi "estremi legati"; essisembrano definire ruoli e identità rigidi che condurrebbero aun'impasse comunicativa con la suddivisione in modalità com-plementari che ingranano perfettamente una con l'altra, convali-dando proprio quegli schemi che il paziente, consciamente, vor-rebbe modificare.

In proposito, vorrei ricordare lo psicoanalista argentino Hein-rich Racker (1968), che ha introdotto il concetto di "controtrans-fert complementare" con riferimento a una fenomenologia deltutto simile. Per Racker, a ogni transfert del paziente corrispondeun controtransfert dell'analista. Molti altri analisti, purtroppo,considerano separatamente il comportamento del paziente e

16 Bateson ha collaborato con diversi terapeuti, e anche con psicoanalisti come per esempioFrieda Fromm-Reichmann, della scuola interazionale di Harry Stack Sullivan.

154 Capitolo quarto

quello dell'analista. Tale separazione è di fatto impossibile e ilconcetto di campo ci aiuta a evidenziare il lavoro congiunto del-la "coppia in azione", così come gli studi antropologici di Bate-son ci portano a considerare le reazioni dei soggetti in relazioneai diversi ruoli intersoggettivi agiti nel contesto.

Va sottolineato che per Bion l'identificazione proiettiva è unprocesso che struttura il campo e determina l'unità emozionaledella coppia. Il processo di cura segna così l'evoluzione della cop-pia terapeutica, superando il rischio, sempre presente, di un bloc-co - rappresentativo ed emotivo - che può esitare in un doppio le-game.

L'intervento clinico - tramite l'uso di metafore, interpretazio-ni, reframing, esperienze emozionali e narrazioni - intende pro-porre un'evoluzione del campo, promuovendo nuove modalitàprocedurali, nuove metafore e la nascita di altre storie possibili(attraversando paradossi e doppi legami). Tale configurazione re-lazionale può essere compresa meglio osservando la polarizza-zione dei soggetti lungo diversi ruoli complementari e la creazio-ne di circoli viziosi tra i contenuti semantici, procedurali e me-taforici dei pazienti in seduta. Tali caratteristiche non ci devonosorprendere, in quanto Bateson, in tutto il suo lavoro, ha sempresottolineato la natura paradossale della comunicazione umana eanimale. Un paradosso, però, che può sempre preludere a un nuo-vo cambiamento.

Concludendo: l'incontro clinico ci appare sempre in bilico traripetizione e novità, tra la riedizione di pattern disadattativi e lacreazione di nuovi modi di sentire se stessi e gli altri. Lungo taleconfine, molto labile, si giocano le sorti di ogni intervento umano,di ogni terapia.

Differenze che creano differenze

Dopo aver descritto i punti di contatto tra le idee di Bateson equelle di Bion, mi sembra doveroso segnalare anche le differenze.

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 155

La prima differenza riguarda l'atteggiamento verso il propriocampo di studio. Sia Bateson che Bion studiano le relazioni, ilcambiamento e le emozioni nei gruppi, ma Bion, come psico-analista, è sempre stato interessato all'intervento clinico, che in-vece non appassionava più di tanto l'antropologo Bateson.

Anche quando Bateson mette al centro dei suoi interessi lapsichiatria, lo fa come se stesse facendo un'indagine antropolo-gica per coglierne la struttura, senza la pretesa di praticare unadisciplina medica. Infatti, nel momento stesso in cui il suogruppo, a Palo Alto, cerca di utilizzare clinicamente le sue ideesul doppio legame, ecco che Bateson immediatamente si ritrae.Non ha mai aspirato a creare una nuova forma di terapia equando, nel suo cammino, si è trovato a contatto diretto con ildisagio mentale, non ha fatto altro che uscire dalla cornice te-rapeutica, portando i pazienti a giocare a golfo in visita premioalla famiglia, con il solo fine di creare condizioni e contesti di-versi da quelli medici.

Il cambiamento ipotizzato da Bateson prende forma trasfor-mando il nucleo dei significati in cui il soggetto si muove. Ma que-sto può avvenire solo in una relazione che coevolve, che muta,cioè, le sue regole di base, mentre il contesto terapeutico apparea Bateson poco mobile, ingessato: il clinico chiede al paziente dicambiare, senza però cambiare lui stesso.

Guardando agli stessi argomenti, ma da punti di vista opposti,ecco che Bateson e Bion non possono che apparire distanti. Perfar emergere ulteriori affinità dobbiamo andare ancora più a fon-do nelle loro teorie.

Molto interessante è la ricerca di Bion sulla figura dell'indivi-duo eccezionale (o "mistico"), e sulla sua relazione con il gruppo.Già l'etimo greco ci orienta verso qualcosa che "concerne i mi-steri", soprattutto quelli religiosi.

Il tema del rapporto tra gli individui eccezionali e il gruppo per-corre tutta l'opera di Bion: in Esperienze nei gruppi (1961) compa-re infatti la figura del leader, poi in II cambiamento catastrofico(1966) e in Attenzione e interpretazione (1970) Bion introduce la fi-

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gura del mistico, che nei Seminari italiani (1985) vira in quella del-l'artista.

Per descrivere il valore terapeutico del gruppo, negli anni ses-santa Bion affronta il tema del leader evidenziando che l'assuntodi base di accoppiamento stimola la fantasia della nascita di un"messia". In questa fase, contrappone le emozioni alla coscienza:definisce gli assunti di base come aspetti regressivi, difese che sioppongono all'apprendimento. Secondo Donald Meltzer, il grup-po appare a Bion "privo di mente (...) allo stesso livello del com-portamento animale e forse, nel comportamento sociale, al livel-lo dell'organizzazione tribale" (in Neri, Correale e Padda, 1987,p. 77).

In questi scritti il comportamento del gruppo in assunto di ba-se costituisce una comoda via di fuga per scaricare le emozioniparticolarmente violente, una via per l'evacuazione degli elemen-ti |3, come dirà Bion in seguito. In Attenzione e interpretazione Bionintroduce la figura del mistico o del pensatore geniale. Vuole stu-diare la relazione tra l'individuo eccezionale e il gruppo. Con-trappone immediatamente il mistico alle idee consolidate dal-l'istituzione, al paradigma dominante. Questo accade perché l'in-dividuo eccezionale introduce alcune idee inedite che coinvolgo-no il gruppo.

L'opposizione tra il mistico e il gruppo è totale, ma il gruppopuò anche mutare e accogliere le idee innovative proposte dal mi-stico. Questa vera e propria trasformazione del sapere istituzio-nalizzato può avvenire solo per fasi: dapprima vivendo un'attesa,una sorta di effervescenza, dovuta alla sola partecipazione al nuo-vo contesto; segue una fase indifferenziata dove i partecipanti algruppo appaiono figure assolutamente uguali. Il mistico è l'unicosoggetto che emerge da questo sfondo indistinto, e può permette-re anche agli altri di discriminare ulteriormente le diverse funzio-ni della loro personalità.

Il rapporto tra il gruppo e l'istituzione è fondamentale: non sitratta di una evoluzione individuale ma di un percorso più gene-rale che espande la "realtà" accettata dal gruppo stesso. L'istiru-

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 157

zione, da questo punto di vista, gestisce una serie di funzioni: sta-bilisce la distinzione tra le persone comuni e i grandi uomini, con-tiene le spinte alla disgregazione che si mettono in moto ogni vol-ta che si verifica una reale evoluzione, mantiene la continuità delgruppo, veglia sulla tradizione, raccoglie le nuove idee e le rendeaccessibili ai membri del gruppo sotto forma di leggi, prescrizio-ni e modelli di comportamento.

Il mistico, per Bion, si assume un compito specifico, quello di"espandere" la realtà conosciuta e considerata dall'establishment.Dal punto di vista del gruppo, il mistico può diventare un eroe, oavere un impatto distruttivo sul vecchio ordine costituito.

Sia Bateson che Bion condividono l'idea che il cambiamentosia caratterizzato da una riorganizzazione non prevedibile a prio-ri, che costringe il gruppo a trovare nuove forme di equilibrio e aricalibrare le proprie idee. Il gruppo, così, si dibatte in un para-dosso, perché accoglie il mistico solo per non lasciarsi travolgeredal nichilismo delle sue idee messianiche, e resta bloccato tra ri-voluzione e dogmatismo. Tra il mistico e il gruppo si instaura unavera e propria guerra, perché sono a rischio le identità di entram-bi. Se il mistico riesce a imporsi, il gruppo non può che istituzio-nalizzare la verità delle sue idee innovative, rendendole accetta-bili.

Introducendo la figura dell'artista Bion conclude il suo studiosul leader, fecalizzandosi sulla sua capacità di accogliere la "ve-rità" e di comunicarla agli altri grazie a un processo creativo. NeiSeminari italiani (1985), parla di analista "artista" e individua unafunzione estetica, creativa, propria dell'analista, un aspetto fon-damentale nella comunicazione terapeutica.

Possiamo riassumere l'iter di ricerca di Bion a proposito del-l'individuo eccezionale osservando che dapprima ha identificatodue forme di leader (Esperienze nei gruppi, 1961), il leader emotivodel gruppo in assunto di base e il leader razionale del gruppo dilavoro, introducendo poi (Attenzione e interpretazione, 1970) la fi-gura del mistico che vuole portare al gruppo una nuova idea esovvertire l'ordine costituito.

158 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 159

Se, nella prima formulazione, le emozioni erano considerate al jpari di difese, in Attenzione e interpretazione il quadro appare più]ampio e mostra il conflitto tra le idee accettate dal gruppo e le ipo- \i del mistico.

Con la figura dell'artista (1985) diviene centrale il problema]della comunicazione estetica. Come scrivono Corrao e Neri,"l'analista non deve essere soltanto in grado di promuovere la ri-cerca della verità (il leader), e anche di essere all'unisono con es-sa (il mistico), ma deve poterla comunicare efficacemente (l'arti-sta)" (1981, p. 361).

Con il passare degli anni, Bion supera l'idea iniziale che consi-derava le emozioni una formazione difensiva, se non addirittura re-gressiva, per cogliere sempre più la complementarità tra emozionie cognizione. In questo modo, studia l'affettività della cognizione,o la cognizione dell'emozione, superando la classica contrapposi-zione tra pensiero ed emozione. Così, "con Bion il concetto di og-getto interno assume un valore rappresentazionale. Dall'inconsciodinamico-energetico, centrale in Freud, si passa dunque a un in-conscio rappresentazionale" (Neri, Correale e Padda, 1987, pp. 64sg.). E ancora: "La concezione freudiana ci ha conferito l'abitudi-ne a parlare molto di forze affettive e poco di qualità rappresenta-zionali. Lo studio degli oggetti interni, dopo l'opera di Bion, poneil problema della rappresentazione intesa come traduzione, attra-verso il sistema mente, da imago senza referente nella realtà ester-na ad altre che progressivamente la significano" (ibid., pp. 66 sg.).

Il tema della rappresentazione e dell'affettività interessa ancheBateson, che nel volume dedicato alla psichiatria scritto con Rueschdipinge un quadro non molto incoraggiante della teoria e dell'epi-stemologia psichiatrica. I terapeuti "cercavano racconti d'infan-zia per spiegare il comportamento attuale, producendo nuovi da-ti da ciò che era conosciuto. Tentavano di creare campioni stati-stici di morbosità. Si avvoltolavano in entità intcriori e miriche, inEs e archetipi. Soprattutto adottavano concetti della fisica e dellameccanica - energia, tensione e simili - per creare uno scienti-smo" (in Bandler e Grinder, 1975, pp. ix sg.).

Bateson si è sempre rifiutato di descrivere la mente attraversouna metafora di tipo energetico - centrale nella teoria freudiana -ma non si è certamente limitato a questo, e fin dagli anni settan-ta ha segnalato l'assurdità della differenziazione tra il cosiddettomondo interno e il mondo esterno.

Tali idee, lascito del modello freudiano, sono state assorbitedalla cultura odierna senza nessuna mediazione critica. Se per"mondo interno" intendiamo un sistema di codifica o una formadi significazione, allora l'interno non sarebbe altro che il "vec-chio" mondo esterno ora "interiorizzato", la mappa dei diversicontesti intersoggettivi vissuti. E allora, perché non chiamarequesti aspetti semplicemente rappresentazioni o idee, senza por-re una cesura tra il soggetto e l'ambiente? Come sostiene Bateson,"l'esperienza del mondo esterno è sempre mediata da specifici or-gani di senso e da specifici canali neurali. In questa misura gli og-getti sono mie creazioni e l'esperienza che ho di essi è soggettiva,non oggettiva" (Mente e natura, p. 49).

Un mondo esterno privo di una qualsiasi forma di codifica èdel tutto incomprensibile, un'idea oggettiva (e oggettivata) così in-genua da non meritare altre spiegazioni. Fra la mappa e il territo-rio c'è sempre uno iato, sostiene Bateson, ma non esiste - per re-stare nella metafora - un territorio senza alcun codice che sappiadefinirlo. La realtà esterna non esiste in sé: "Nella mente ci sonosolo idee, non le cose a cui queste si riferiscono."

Bateson si è sempre scagliato contro la suddivisione tra internoed esterno: "Di solito pensiamo il mondo fisico esterno come inqualche modo separato da un mondo mentale interno; io credoche questa distinzione sia basata sul contrasto nella modificazio-ne e trasmissione all'interno e all'esterno del corpo. Il mondomentale - la mente -, il mondo dell'elaborazione dell'informa-zione, non è delimitato dall'epidermide" (ibid., p. 471).

L'interno e l'esterno non sono due province distinte, e la loroseparazione è tutt'altro che banale: "La delimitazione di unamente individuale deve sempre dipendere da quali fenomeni de-sideriamo spiegare (...) Si consideri un albero, un uomo e

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un'ascia; constatiamo che l'ascia fende dapprima l'aria e produ- ice certi tipi di tacche in un preesistente taglio nel fianco dell'albe-1ro. Se ora vogliamo spiegare quest'insieme di fenomeni, ci dob-biamo occupare delle differenze nel fianco intaccato dell'albero,differenze nella retina dell'uomo, differenze nel suo sistema ner-voso centrale, differenze nel comportamento dei suoi muscoli,differenze nel modo di avventarsi dell'ascia, fino a differenze chel'ascia poi produce sulla superficie del tronco.

"La nostra spiegazione (per certi fini) verterà sempre intorno aquesto circuito. In linea di principio, se si vuole spiegare o capirequalcosa nel comportamento umano, si ha sempre a che fare concircuiti totali completi. Questo è il pensiero cibernetico elemen-tare. Il sistema cibernetico elementare con i suoi messaggi in cir-cuito è di fatto l'unità mentale più semplice; e la trasformata diuna differenza che viaggia in un circuito è l'idea elementare"(ibid., p. 476).

In questo modo, il nostro sistema di premesse, la nostra episte-mologia - precipitato delle esperienze relazionali - è ciò che dasenso ai contesti che viviamo, in uno scambio attivo, sempre ri-giocato nel contesto.

Il "mondo interno", allora, smette di essere una configurazio-ne a sé. Per Bateson, infatti, la nostra epistemologia è il nostro ca-rattere, un modo incarnato di agire nei contesti intersoggettivi. Lamente individuale diviene immanente non solo nel corpo, ma an-che in tutti quei circuiti relazionali "di cui la mente individuale èsolo un sottosistema"; ma, continua Bateson, "è il tentativo di se-parare l'intelletto dall'emozione che è mostruoso, e secondo me èaltrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la menteesterna da quella interna o la mente dal corpo" (ibid., p. 482).

Il concetto batesoniano di deutero-apprendimento mostra chealcune interazioni - come l'intervento terapeutico - possono ap-portare cambiamenti duraturi solo se realizzano una ri-contestua-lizzazione delle relazioni precedenti, e cioè se co-costruiscononuovi presupposti relazionali. L'apprendimento relazionale - ve-ro e proprio "chiodo fisso" di Bion - avviene nella coppia psico-

analitica creando pattern che disvelano nuove immagini, nuovenarrazioni e pensieri nascenti.

La raffinata epistemologia di Bateson lo porta a evitare con-cetti come "controllo" o "presa di coscienza" del paziente, per-ché, a suo avviso, la mente si può descrivere solo come un sistema"circuitale", aperto all'altro e all'ambiente, costituito da archi dicoscienza e archi inconsapevoli, in cui nessuno dei due può in-cludere o inglobare l'altro. La coscienza e l'inconscio (non ri-mosso) sono per Bateson due aspetti complementari del Sé.

Se dovessimo, su questo punto, operare un parallelo tra Bate-son e uno psicoanalista, più che a Freud, sarebbe utile metterlo inrelazione a Jung e al suo "principio di complementarità" tra i duesistemi della mente. La situazione vissuta dal soggetto può infat-ti essere significata, per Jung, tanto dalla coscienza quanto attra-verso il linguaggio emotivo, iconico e onirico dell'inconscio.

Bateson si mostra poco fiducioso verso il cambiamento consa-pevole e non immagina nessuna presa di coscienza del soggetto ouna migliore conoscenza di sé, ma preferisce soffermarsi sui cam-biamenti inconsapevoli. Ogni nuova conoscenza segna così unampliamento delle possibilità di interazione tra il soggetto e l'am-biente. Al cambiare delle rappresentazioni di base del soggetto (odella famiglia), avviene una vera e propria "catastrofe" - in ter-mini bioniani - con l'introduzione di una nuova categoria affetti-va, una nuova forma di relazione che perturba le modalità usual-mente utilizzate.

L'apprendimento, per Bateson, non è puntiforme, ma segnauna trasformazione di pattern condivisi in un contesto. Batesonconsidera il cambiamento come un'evoluzione di parti in inter-azione, un processo in cui l'indipendenza tra i sottosistemi risul-ta fondamentale: "La sinistra non sappia cosa fa la mano destra",perché è proprio la "barriera" tra i due sistemi che permette ulte-riori articolazioni. Per questo motivo, Bateson si è sempre inte-ressato alle conoscenze emotive, sommando alla conoscenza lo-gica e scientifica una conoscenza estetica e contestuale. Solo inquesta chiave possiamo capire il suo interesse per il sacro: "II mio

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compito è quello di indagare se vi sia fra questi due incubi insen-fsati [il materialismo imperante da un lato e il soprannaturalismo!!romantico dall'altro] un posto valido e sensato per la religione. E j(...) se si possono trovare nelle conoscenze e nell'arte le fonda-menta di un'affermazione del sacro che celebri l'unità della natu-ra" (Dovegli angeli esitano, p. 103).

Bateson non sta parlando di una religione in particolare, madel sacro e del bello come conoscenze inconsapevoli. La barrieratra conscio e inconscio non è, e non può essere, una barriera di ca-rattere "morale", come la censura freudiana, ma appare a Bionuna barriera semipermeabile che tende a differenziare diversi flus-si di informazioni che possiamo chiamare percezione, fantasia,emozioni o pensieri.

Più che cercare un parallelo tra la concezione dell'inconscio diBateson e quella di Freud, come tenta di fare Marcelle Cini(2000), mi sembra utile un confronto con l'idea di Bion.

Bion supera il modello freudiano perché elabora una teoria del-la mente priva di quei presupposti pulsionali che Bateson non hamai voluto accettare. Quello di Bion è il primo modello totalmen-te "psicologico" della mente. Freud, infatti, propone una descri-zione quantitativa e biologistica (guidata dalle pulsioni), e la Kleinsi concentra sulla vita fantasmatica del bambino e dell'adulto. Co-me afferma Bion nei seminali alla Tavistock, "il prestito della bio-logia incomincia a non reggere più quando si affronta la questionedella trasmissione delle idee. Occorre anzi riconoscere che, oltreall'eredità biologica, il mito mendeliano diventa anche un mito chesi applica al mondo delle idee [il mondo della creatura, per Bate-son] nel quale le caratteristiche [acquisite] potrebbero essere tra-smesse da una generazione a quella successiva" (2005, pp. 21 sg.).

Nella conferenza intitolata Mente/Ambiente Bateson paragonala psicoanalisi freudiana a "un guazzabuglio privo di senso che ri-corre di continuo in psicologia, perché si è indotti a pensare cheil mondo delle scienze fisiche debba in qualche modo far parte diquello mentale in cui non ci sono che fenomeni mentali" (1973,in Una sacra unità, p. 263).

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 163

Bion descrive la coevoluzione delle idee nell'interazione con lealtre menti. Le idee nascono come immagini e, come in unostraordinario caleidoscopio, si complessificano di nuove ottiche,preconcezioni e concetti, fino a costituire leggi e sistemi teoricicomplessi.

L'inconscio ci appare un processo compositivo, intersoggettivo,in evoluzione, e non una scatola per pensieri rimossi; semmaipossiamo pensarlo come un processo che lascia depositare e ac-cumulare alcuni presupposti e alcuni pattern capaci di creare nuo-ve idee, nuove rappresentazioni.

In questo modo, Bateson e Bion superano un'idea statica e dua-listica della mente, riuscendo a cogliere la base emotiva sotto-stante a ogni rappresentazione, a concepire i pensieri come costi-tuiti da emozioni e idee.

Entrambi si rivolgono alle origini del pensiero, al "circolo er-meneutico", che appare costituito da nuove idee e da visioni do-minanti, dai mistici e dall'establishment in continua competizio-ne, in bilico tra la formazione e la dissoluzione delle idee.

Tutto questo mi spinge a tracciare un ultimo confronto ancheoltre le figure di Bateson e di Bion. Tale dialogo riguarda la psi-coanalisi relazionale e la terapia sistemica. Se, fino a questo pun-to, ho cercato similitudini e differenze, soprattutto riguardo aimodelli della mente, ora vorrei estendere il confronto alla praticaclinica.

Tra psicoanalisi relazionale e terapia sistemica

Se l'interpretazione è stata studiata a lungo nella psicoanalisi,a partire da Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912) eCostruzioni nell'analisi (1937) di Freud, è solo da poco tempo chesi sta osservando in maniera sistematica lo "scambio clinico"(Lichtenberg, Lachmann e Fosshage, 1996) tra analista e pazien-te, analizzando anche i trascritti di intere sedute. Fino a oggi, levignette cliniche riportavano prevalentemente lunghi monologhi

164 Capitolo quarto

del paziente (in nome di una ingessata "neutralità") e, magari, unintervento finale dell'analista.

L'attenzione centrata solo sull'interpretazione dell'analista hadato l'idea, del tutto errata, di un processo unidirezionale "del"clinico "sul" paziente. Lo studio sulla verifica delle psicoterapie(Dazzi, Lingiardi e Colli, 2006) ha svelato la complessità di unprocesso che non si può risolvere nella sola interpretazione ditransfert. La relazione psicoanalitica viene oggi pensata come ununico sistema che, secondo Beebe e Lachmann (2002), si crea gra-zie a un processo di influenzamento reciproco, una regolazionereciproca della coppia paziente-analista.

Se la psicoanalisi odierna appare "in transizione" (Gill, 1994)nelle sue caratteristiche di base, anche la terapia sistemica non èesente da cambiamenti e trasformazioni. L'intervento sistemico ènato direttamente dal comportamentismo postbellico e solo re-centemente ha prodotto nuove modalità di approccio, partendoproprio dalle idee di Bateson (Telfener e Casadio, 2003).

La terapia sistemica familiare "classica", basata su una posi-zione di potere del clinico rispetto alla famiglia, sta oggi virandoverso l'idea di uno scambio, una collaborazione alla pari, con lafamiglia o con il singolo utente.

Nella stessa ottica, Bion ci ricorda che la psicoanalisi non "ser-ve" a curare le patologie mentali ma a istituire processi di pensie-ro e di crescita "con" il paziente, che resta "il migliore dei colle-ghi" possibili.

Per confrontare le pratiche cliniche psicoanalitiche e sistemichevorrei soffermarmi su alcuni aspetti specifici. Mi baserò su unclassico della terapia familiare, Ipotizzazione-Circolarità-Neutraltià(1980) di Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata. In questoarticolo gli autori individuano tre fattori principali che prenderòin considerazione come pietre di paragone rispetto al dialogo psi-coanalitico.

Con "ipotizzazione" gli autori intendono "la capacità del tera-pista di formulare ipotesi a partire dalle informazioni in suo pos-sesso" (p. 8).

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 165

Queste ipotesi non devono essere taciute, ma devono essereproposte alla famiglia (o al paziente individuale). Non commen-terò l'idea che le ipotesi possano essere verificate in seduta, e miconcentrerò esclusivamente sulla capacità del clinico di creareipotesi. Per Selvini Palazzoli e colleghi, le ipotesi sono "una spie-gazione provvisoria dei fenomeni osservati (...) supposizioni daverificare" (p. 9).

L'ipotesi clinica - sarà bene ricordarlo - non è mai né vera néfalsa, ma più o meno utile a produrre informazioni e nuove ipo-tesi, perché la sua prerogativa è quella di evidenziare i pattern re-lazionali della famiglia. L'ipotesi, per essere "sistemica", deve ri-guardare tutti i membri della famiglia e svelare il pattern condivi-so, il "gioco" che connette l'intero sistema ai diversi protagonisti.

Anche Bion si è concentrato a più riprese sul contributo del cli-nico e sulle narrazioni in seduta. Il concetto di réverie maternasottolinea l'importanza dell'alfabetizzazione congiunta dellacoppia psicoanalitica, delle emozioni che vengono "trasformate"in immagini, pensieri e teorie astratte.

In Gli elementi della psicoanalisi (1963a) Bion afferma che l'inter-pretazione deve avere un'estensione negli ambiti del senso, del mi-to e della passione. Bion consiglia di interpretare ciò che è già emer-so in seduta e che è sotto gli occhi del clinico come del paziente. Di-ce, inoltre, che l'interpretazione non deve essere decodificatoria,ma estendersi a una narrazione mitica; come sostiene Ferro, si de-ve "costruire una scena, un racconto, un film che dia spessore e vi-sibilità a quanto viene detto" (Ferro e altri, 2007, p. 22).

L'ultimo elemento dell'interpretazione è la passione, "il lega-me caldo e attuale tra la mente dello psicoanalista e ciò che è in-terpretato" (ibid., p. 23). Bion descrive così un processo narrativoche sappia disvelare immagini e comporle in trame narrative: "Laconversazione psicoanalitìca è una specie di gioco infantile, pro-prio come un gioco infantile è una specie di realtà implicita; è ri-feribile a qualcosa di cui non sappiamo nulla, vale a dire il futu-ro" (Bion, 1977e, p. 128).

Le differenze tra l'approccio psicoanalitico e quello sistemico

166 Capitolo quarto Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 167

sono evidenti, soprattutto per quanto riguarda il timing. Se Bion,a più riprese, sottolinea che un intervento precipitoso - guidatodalla difficoltà a tollerare l'incertezza - può costituire un impedi-mento più che una reale evoluzione, gli autori sistemici propon-gono spesso interventi "d'impatto", mirati a trasformare i pre-supposti di base della relazione. L'unica indicazione valida per il |clinico sistemico è quella di abbandonare le ipotesi che non ven-gono utilizzate dalla famiglia, preferendo l'accordo a uno scontrotra idee diverse. Dunque le ipotesi non solo devono essere espres-se, ma dovrebbero favorire la trasformazione della comunicazio-ne in atto.

Anche il cambiamento descritto da Bion non è un cambia-mento individuale, ma segna l'evoluzione di un legame e delle ca-tegorie di senso utilizzate dalla coppia psicoanalitica. Si tratta diun cambiamento circolare, complesso, difficilmente prevedibile apriori, che trasforma la relazione, i soggetti coinvolti e il campopiù generale.

La circolarità è il secondo aspetto enucleato da Mara SelviniPalazzoli, che la definisce "la capacità del terapeuta di indurre lesue investigazioni basandosi sulle retroazioni da lui sollecitate intermini di rapporti, e quindi in termini di differenze e mutamen-to" (1980, p. 11).

I terapeuti sistemici invitano così i loro allievi a pensare - comesuggeriva Bateson - in termini di rapporti. Ma anche la psico-analisi sembra seguire tali indicazioni (Beebe e Lachmann, 2002)e calibrare al meglio gli interventi a partire dai feedback ricevutidal paziente. Grotstein, che è stato un paziente di Bion, ricordadue cose importanti della sua analisi: Bion era molto più interes-sato alle risposte dell'analizzando che al fatto che questi avessecapito le sue interpretazioni; e per tutta la durata dell'analisi nonha mai ripetuto la stessa interpretazione due volte di seguito. Laconduzione della seduta, così, mostra un andamento a spirale,più che un passaggio lineare di informazioni.

Anche lo stile di Antonino Ferro (1996, 2002), psicoanalistaneo-bioniano, appare centrato sull'ascolto della risposta del pa-

ziente alle sollecitazioni dell'analista. Lo sforzo di Ferro è quellodi cogliere i "derivati narrativi" del paziente, la rappresentazionedella relazione in atto, attraverso le risposte del paziente. Il fine ul-timo è quello di modulare l'intervento per renderlo adatto alle ca-pacità del paziente e fare in modo che il sistema si apra a nuovedifferenze. Ma la circolarità, nell'ottica sistemica, acquista un ul-teriore significato. Con questo termine la Selvini Palazzoli inten-de anche una tipologia di domande che vengono poste a un sog-getto a proposito della relazione di altri due membri della fami-glia. Tali "domande triadiche" possono sollecitare nuove idee epermettono di elaborare ipotesi e di focalizzarsi sul pattern fami-liare attivo in quel momento.

Lo psicoanalista relazionale, così, cerca di descrivere-interpre-tare il pattern che lo lega all'analizzando - attraverso i derivatinarrativi - con il solo scopo di espanderlo, trasformarlo, renderlopiù ricco di nuove modalità relazionali.

Anche gli analisti "classici" si stanno interrogando sulle pro-prie competenze narrative e, magari, anche sulla qualità delle do-mande da porre in seduta. L'obiettivo è quello di utilizzare lecompetenze relazionali, le metafore e gli "algoritmi del cuore",senza basarsi esclusivamente sulla finalità cosciente.

Considerare le rappresentazioni come scene, o quadri, ci per-mette di riconoscere schemi relazionali e di considerare le rappre-sentazioni come aspetti prowisori, creazioni storiche, senza assu-mere punti di vista "realisti" (Casadio, 2007). In questo modo, siail clinico che il paziente lavorano sullo stesso materiale, costruen-do e decostruendo pattern, alla ricerca di "fatti scelti" o di "scenemodello" capaci di far emergere nuove ipotesi e nuove idee.

La relazione in atto deve essere "poetica": non per disvelare si-gnificati nascosti, ma per ispirarli, per creare un quadro "a quat-tro mani" in cui non sia possibile rintracciare i contributi dei sin-goli soggetti. La relazione rappresenta il primo snodo, uno sce-nario da riempire con molteplici rappresentazioni, tutte che bal-lano sul sottile crinale della ripetizione di schemi disadattativi odella creazione di novità relazionali.

168 Capitolo quarto

La neutralità è l'ultimo punto individuato da Selvini Palazzolie colleghi. Dal punto di vista relazionale la neutralità è un non-sense, un'esperienza ideale, impossibile. Dobbiamo ricordare che 1il mito della neutralità dell'"analista-specchio" ha dominato il'ideologia freudiana, caratterizzando l'intervento come una pra- |tica oggettiva, svolta dall'analista senza le interferenze della rela-zione. Freud era convinto di assistere alle narrazioni del paziente 1da un punto di vista "esterno" alla relazione psicoanalitica, sen- ]za la possibilità di influenzarla o di lasciarsene influenzare. La re-lazione, di fatto, era considerata un fastidio, un disturbo.

Per la Selvini Palazzoli sono importanti gli effetti pragmaticidella neutralità, cioè l'assenza di giudizi morali da parte del cli-nico o di preferenze per uno o l'altro membro della famiglia. Ap-pare molto difficile realizzare tale atteggiamento, anche se il sug-gerimento può apparire utile per mantenere una relazione nonconflittuale, fecalizzandosi sulle narrazioni in seduta.

Bion ha suggerito più volte che lo stato preferibile per la mentedel clinico è quello di "attenzione sognante", indicando un ana-lista "senza memoria né desiderio" perché "il paziente che avetedi fronte, non è lo stesso dell'ultima seduta o di un mese fa" 1(1977e). Le ipotesi del passato possono non essere più utili allo Isviluppo del paziente e devono essere abbandonate a favore del- |l'attualità, di ciò che accade in quel preciso istante nella relazio-ne. Viceversa, anche il paziente può sentirsi spinto dall'analistaverso determinate scelte fino a sentirsi "prigioniero del desideriodell'analista", che sia anche solo il desiderio di guarirlo o quellodi non commettere sempre i soliti sbagli.

La neutralità ci appare allora un obiettivo ideale, una bussolaipotetica, ma anche il retaggio di un'ottica scientista e oggettivi-sta. Anche perché la collusione inconscia è, per l'appunto, del tut-to inconsapevole per il clinico, che si sente sicuro di operare nelmigliore dei modi.

Possiamo così trovare - tra le differenze - alcuni temi e finalitàcomuni anche tra la psicoanalisi e la terapia familiare, andandooltre le tradizionali opposizioni. L'intervento clinico (senza ulte-

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 169

riori aggettivi) configura un processo di co-costruzione di moda-lità relazionali, vissuti e storie capaci di ampliare le modalità in-tersoggettive del singolo, della coppia e della famiglia.

Il confronto tra le idee di Bateson e quelle di Bion è talmentericco che tantissimi altri ancora potrebbero essere i temi da ap-profondire. Le idee elaborate sin qui prendono in considerazionei diversi aspetti delle relazioni, delle rappresentazioni e delle emo-zioni, considerati come "piste" da percorrere in parallelo, evitan-do banalizzazioni o facili vie di fuga.

La maggior parte delle teorie della mente non si fanno carico ditale complessità ed evitano accuratamente ogni possibile aporia,gli inevitabili doppi legami della conoscenza, per proporre soloteorie piane (o pianificate) che non permettono confronti con al-tri punti di vista.

Bateson e Bion non credono in una verità metafisica, che perloro sarebbe un'entità mitica, una "cosa in sé" kantiana, qualco-sa, semmai, da ricercare nel dominio dell'estetica, in quanto la ve-rità di cui parlano è sempre una verità emotiva, esperienziale e si-tuazionale. Anche l'intervento clinico non può che definirsi comeun incontro "in situazione" e deve tenere conto dei diversi signi-ficati che nascono nell'incontro; non può, o "non deve svelare unsenso o un desiderio latente. L'interpretazione deve fare qualco-sa di più che accrescere la conoscenza, deve condurre il soggettodal sapere all'essere, dal conoscere i fenomeni al divenire reale"(Bion, 1965, p. 193).

Studiando Bateson e Bion capiamo che lo studio delle impas-se o dei blocchi della comunicazione (e dei suoi paradossi) è unproblema che ci troveremo sempre di fronte, dal punto di vistateorico e da quello clinico. La comunicazione tra gli uomini nonpuò essere pensata come un filo diritto e teso che lega un "emit-tente" a un "ricevente". Si tratta piuttosto di un groviglio che sidifferenzia e si annoda in contesti diversi e lungo molteplici cor-nici, con un rimando indefinito e una chiusura impossibile.

Non è possibile accettare una versione banalizzata del conte-sto, un osservatore che possa pacificamente definire il contesto in

170 Capitolo quarto

cui si trova. I contesti, al pari di figure topologiche complesse co-me l'anello di Moebius, sono al contempo aperti e chiusi, avvoltiin un processo in cui l'esterno si ripiega nell'interno senza la pos-sibilità di stabilire un confine netto, una separazione tra il signifi-cato e l'atto, tra l'agire e il descrivere.

Tra Bateson e Bion c'è lo spazio necessario per complessifica-re diversi concetti e renderli più interessanti, più caotici se si vuo-le, ma anche maggiormente vicini ai processi che vogliamo de-scrivere. Ogni contesto sarà così sempre molteplice e continua-mente si intreccerà agli altri evolvendo, mutando e trasforman-dosi.

Si possono individuare, in quest'ottica, almeno tre marcatori dicontesto, tre processi mentali costruttori di contesti:

- processi procedurali, o emotivi (di coppia o di gruppo): ognivolta che due o più persone si incontrano non può che nascere uncopione relazionale, una danza, "muta", un insieme di "azioni" edi "scene modello" (Lichtenberg, 1989) che, col tempo, tende-ranno a diventare ripetitivi o a complessificarsi ulteriormente;

- processi iconici (di coppia o di gruppo): in ogni dialogo na-scono e si condividono una o più metafore, una o più immagini.Si tratta di icone del mondo, ma anche di auto-rappresentazioni,una trasformazione di modalità relazionali utilizzabili dal sog-getto anche come possibili immagini di sé, come possibili iden-tità. Immagini ipotetiche che possono sembrare rappresentazio-ni oggettive di qualcosa "là fuori" o anche solo "costruzioni" pro-prie del soggetto;

- processi narrativi (singoli, di coppia o di gruppo): le storietendono a descrivere ciò che è già accaduto, a connettere e rileg-gere il passato, il presente e il futuro, tentando di imporre unascansione logica. Si tratta di trame sensibili ai nuovi incontri, al-le perturbazioni e alle svolte relazionali. Le narrazioni tentano disvolgere un compito impossibile: tradurre linguaggi di per sé in-traducibili, creare storie a partire da azioni, costruire storie da im-magini o fare narrazioni da altre storie. Per questo motivo, le sto-rie sono la materia da cui siamo prodotti.

Tra Bateson e Bion: miscele di psicologia relazionale 171

Questi tre strati di senso sono perennemente in lotta (unapole-mos eraclitea), in un'interazione dinamica che contribuisce a farnascere - o a distruggere - nuove culture e nuovi sistemi di idee.Possiamo così tracciare percorsi lineari o bloccarli in cortocircui-ti riflessivi, capaci di far implodere le modalità sperimentate inprecedenza.

La psicoanalisi relazionale e la terapia sistemica possono rac-cogliere tali suggestioni e promuovere "sogni di coppia" (Bezoa-ri e Ferro, 1991) o familiari, narrazioni e metafore comuni capa-ci di creare "grazia" e coerenza tra i diversi livelli della mente,dando origine a nuove identità e a storie "nascenti".

Come dice Gilles Deleuze, "non bisogna dire viva la moltepli-cità, bisogna essere molteplici". Allora, per giungere a confrontiutili, si dovranno percorrere nuove zone di confine e di dialogo, zo-ne di sovrapposizione per dare una casa a "pensieri nomadi" an-cora a venire, senza continuare a perpetuare vecchi modelli e mo-dalità stantie che ormai hanno esaurito la loro capacità evocativa.

Il dialogo tra Bateson e Bion e il dialogo parallelo tra l'ottica si-stemica e quella psicoanalitica non possono che far sorgere nuo-ve questioni. La prima potrebbe riguardare lo sviluppo di model-li teorici compatibili tra le due ottiche.

L'idea di una mente transpersonale (o immanente ai circuiti dicomunicazione) può costituire un modello utile per descrivere iprocessi relazionali? E come concepire le relazioni tra azioni,emozioni e significati? L'identificazione proiettiva come comuni-cazione o l'esperienza emozionale trasformativa, possono esseremodelli utili per descrivere il rapporto che lega rappresentazioni,emozioni e relazioni? Quali nuovi significati si possono collegareal concetto di doppio legame? Quali teorie sono utili per descri-vere il processo clinico? Come possiamo produrre teorie diversesenza cadere nei tranelli della finalità cosciente o della reificazio-ne? Si può pensare un panorama teorico "senza memoria e sen-za desiderio"? Su quali concetti comuni la psicoanalisi e la tera-pia sistemica familiare possono dialogare? E come possono co-evolvere?

172 Capitolo quarto

Come si vede, le domande sono moltissime. Oggi possiamo in- !travedere solo un "campo" in cui ospitare tale dialogo e ipotizza-jre una nuova funzione clinica. Una funzione poetica, capace di;ispirare storie, immagini e danze comuni, una continua trasfor- :mazione di narrazioni familiari, di coppia o di gruppo.

Riusciamo così a immaginare un terapeuta coreuta, mai un so-lista: un trasformatore di emozioni, un promotore di nuove inter-azioni, un "cuoco"17 capace di accettare ciò che gli viene "porta-to", di conservarlo, ma anche di farlo lievitare, trasformarlo e ren-derlo digeribile per gli altri.

Un terapeuta co-narratore, mai un rivelatore di verità: un sog-getto capace di tradurre in diverse lingue (o dialetti) la comples-sità di ogni affermazione, capace di trasformare un aspetto sensi-bile in un contenuto pensabile.

L'attività clinica acquisterebbe così il senso di un'esplorazione,un passo verso un territorio nuovo, con tutte le emozioni e le pau-re connesse. Un po' antropologo, biologo, filosofo, artista e criti-co, il clinico deve poter accogliere e trasformare ciò che nasce dal-l'incontro tra due o più "persone che parlano in una stanza", traindividui che sostano, esitano, odiano e amano, che dialogano econtinuano a raccontare, e che parlando costruiscono se stessi e ilmondo che li circonda.

7 Immagine proposta da Antonino Ferro.

Capitolo 5

Sfide per il paradigma relazionale

Credo che molti errori potrebbero essere evitatise, come prima cosa, gli analisti vedessero,

in ciò che essi sono abituati a considerareun resoconto obiettivo di un'esperienza analitica,

nulla di più che un semplice modello,perfettamente uguale ai modelli a cui si richiama

lo scienziato fisico.WUJredBion

Come afferma Thomas Kuhn, ogni teoria evolve per paradig-mi, e mai per semplice accumulo di conoscenza. I cambiamenti,lungo i diversi paradigmi, avvengono in modo drastico, come del-le vere e proprie rivoluzioni. In questo modo, tra le diverse ottichesuccessivamente utilizzate (o categorie di lettura) c'è un salto lo-gico, una rivoluzione. La psicologia, fra tutte le scienze, non rap-presenta di certo un'eccezione.

Un cambiamento di paradigma è avvenuto nel corso del seco-lo passato: da un'ottica individuale e pulsionale, alla nascente ot-tica relazionale.

A ogni cambiamento di paradigma emergono nuovi problemi,teorici e pratici. Vorrei soffermarmi su un problema linguisticoche si è manifestato nelle scienze sociali e in particolare nella psi-cologia: alcuni termini nati all'interno del paradigma individua-le e biologistico sono sopravvissuti alla rivoluzione relazionaleper poi approdare ai nuovi contesti, e in questo tragitto hannoportato con sé, assolutamente intatto, il significato che avevanonello scenario teorico precedente.

Ogni rivoluzione conia nuovi concetti e nuovi termini che pos-sono sconvolgere il panorama accettato, relegando in secondopiano quelli precedentemente in uso. A volte, però, alcuni termi-ni resistono al cambiamento e sopravvivono alla rivoluzione ac-