CAPITOLO 4 - IL CONVIVIO
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CAPITOLO 4 - IL CONVIVIO
Composta nei primi anni dell'esilio, dal 1304 al 1307, concepita in quindici
trattati, di cui il primo fosse d'introduzione e gli altri di commento ad altrettante canzoni
"sì d'amore come di vertù materiate", l’opera rimase in tronco al chiudersi del quarto
trattato. Ma anche così, con la sua introduzione e con l'illustrazione di tre sole canzoni,
l'opera s'individua nella sua singolare fisionomia. "Temperata e virile" nel tono e
nell'accento, essa si contrappone alla Vita Nuova, giovanilmente "fervida e passionata",
senza nulla detrarre al valore di quell'esperienza intima e profonda che Dante aveva allora
vissuto, e perciò conosciuto ed espresso.
Il Convivio nacque dal bisogno che Dante sentì di ripristinare la sua fama agli
occhi di coloro con i quali veniva in contatto e di rivelarsi quale egli era realmente: un
amatore della saggezza, un uomo di integra vita morale, che soffriva "ingiustamente pena
d'esilio e di povertà", mentre "peregrino, quasi mendicando per le parti quasi tutte"
d'Italia, veniva "mostrando la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato
molte volte essere imputata". A sostegno della sua fama e per "desiderio di dottrina dare",
egli documenterà questo suo amore della saggezza: intesa la saggezza come perfezione di
sapere che si conquista per "scienza" in rapporto alla verità di tutto ciò che è, regolando
poi la condotta dell'uomo secondo princìpi supremi che la comandano, sia per il suo bene
individuale, sia per ciò che concerne il bene altrui (virtù di giustizia, di cui si doveva
parlare nel quattordicesimo trattato).
Di questa saggezza, perfezione ultima di ogni uomo, che vi tende per impulso
della sua stessa natura, Dante imbandirà un convito; non perché s'annoveri tra quei "beati
pochi che seggono a quella mensa dove lo pane degli angeli (sapienza) si manuca", ma
perché, "fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggono" raccoglie "di
quello che a loro cade", e ne assapora la dolcezza, conoscendo la misera vita di coloro
che ne sono rimasti digiuni a cagione delle loro occupazioni "familiari e civili". Da tale
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sentimento egli è spinto a scrivere per costoro: "prìncipi, baroni, cavalieri e molt'altra
nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa
lingua, volgari e non litterati"; tutte persone dalle quali dipende specialmente il benessere
sociale, e perciò bisognose di essere ammaestrate nella lingua loro, quella di ogni giorno,
disertata per "malvagia disusanza" dai letterati di professione, che sono volti solo al
guadagno.
La dottrina che sarà offerta a quanti siano rimasti nella loro naturale sete di
saggezza, Dante la trarrà, ed egli solo potrà trarla, dalle sue canzoni dell'età matura, il cui
"bello stile" gli aveva fatto onore. Queste canzoni saranno le "vivande" del convito; e
"pane" ne sarà il commento in prosa volgare, che metterà in luce la "bontà" d'ogni
canzone, ossia la "sentenza vera" che la informa, come ragione poetica spiritualmente
vera in sé e praticamente buona nell'ordine dell'esperienza e della vita. In queste sue
dichiarazioni in prosa Dante non si servirà della lingua latina ("pane di frumento"),
perché non siano rotti i rapporti di convenienza che devono necessariamente intercorrere
fra commento e canzoni in volgare. Egli si servirà della lingua volgare ("pane orzato"),
perché, intesa universalmente, essa farà più largamente benefica la sua opera, che è di
scienza e di virtù (saggezza); a ciò indotto soprattutto dal naturale amore che lo lega alla
parlata che fu sua fin dalla nascita, e nella quale palpitò primamente la vita del suo
pensiero e s'effuse l'onda commossa dei primi affetti.
Con l'entusiasmo di un artista che si esalta esaltando la propria lingua, perché la
sente docile strumento di espressione viva, originale e calzante, Dante afferma la "bontà"
del volgare italiano, perché atto a manifestare "altissimi e novissimi concetti
convenevolmente, sufficientemente e acconciamente" quasi come il latino; e si scaglia
con generoso sdegno contro "li malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare
altrui e lo loro proprio dispregiano". Questo suo volgare Dante lo sente veramente
"prezioso", perché renderà gustose le "vivande" del suo "convivio"; e sarà "pane orzato",
sì, ma tale che non gli verrà mai meno, pur satollando migliaia di persone. Destinato
ormai all'avvenire, esso sarà "luce nuova, sole nuovo, lo quale sorgerà dove l'usato (il
latino) tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato
sole che a loro non luce".
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Con questa fede nel futuro trionfo del volgare italiano e nel valore intrinseco della
sua opera, Dante ne chiude l'introduzione. I trattati che seguono e che costituiscono
propriamente il Convivio si succedono l'un l'altro secondo le prospettive teoriche del
tomismo. Il secondo trattato è volto a definire la filosofia come attività di conoscenza
essenzialmente relativa all'oggetto che la specifica e ne determina la natura. S'apre con la
canzone "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete": contrasto di due amori, che si operò
nell'animo di Dante, quando alla memoria di Beatrice beata si contrappose e subentrò
l'amore della Filosofia: una donna di sovrana bellezza e di virtù, identificata qui con la
"donna gentile" di cui si parla nella Vita Nuova.
Dopo un accenno ai vari significati che si possono cogliere nelle scritture, Dante
passa a dichiarare la sua canzone, prima secondo la lettera, poi secondo lo spirito; ma ne
trae pretesto per trattare dell'ordinamento dei dieci Cieli, da quello della Luna
all'Empireo, e delle Intelligenze che li muovono, istituendo da ultimo un'analogia tra i
cieli e le scienze. Ogni scienza, come ogni cielo, si muove intorno al suo proprio
"soggetto", che è la materia verso la quale essa si porta di per sé. Ogni scienza illumina le
cose intelligibili, così come ogni cielo le visibili. Ogni scienza, come ogni cielo con le
sue influenze, trae alla perfezione loro le cose che vi sono in potenza. Analogia di
proporzionalità, che ci permette di cogliere la legge di organizzazione gerarchica e
dinamica del sapere, l'autonomia di ogni singola scienza nel campo che le è proprio, e di
penetrare nell'universo della spiritualità umana, il cui bene ultimo è l'unità intellettuale. In
tal modo si illuminano le corrispondenze che Dante istituisce tra i cieli planetari e le
scienze del Trivio e del Quadrivio, tra il cielo delle stelle fisse e la Fisica e la Metafisica,
tra il cielo cristallino e la Filosofia morale. Quest'ultima ordina l'uomo nella sua concreta
attività, con un'ascesi continua dell'intelligenza e del cuore, a tutte le scienze; ed è
speculativa nel suo modo di conoscere, secondo princìpi che procedono dalle prime cause
(Metafisica) e che concernono l'ordine naturale (Fisica), e pratica nel suo fine, che è
quello di procurare il bene dell'uomo: un bene naturalmente conoscibile. Al di sopra del
cielo della Filosofia morale, che a similitudine del cielo cristallino congloba un universo
di sapere, naturale o razionale di per sé, e quindi accessibile per la sua essenza
all'intelligenza umana, spazia il cielo della Teologia, l'Empireo, la pacifica luce della
scienza rivelata il cui primato di verità fa di tutte le scienze altrettante "regine e drude e
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ancille". Ma nell'ordine della scienza finita o creata cioè dentro al suo cielo, la Filosofia,
come perfetta opera della ragione, è "la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore
de lo universo"; è la sua prima creatura, ossia la forma per così dire materna nella quale
tutte le cose sono da Dio volute e create. Il terzo trattato s'apre con la canzone "Amor che
nella mente mi ragiona": esaltazione della Filosofia considerata in se stessa come realtà
pensabile: un complesso di note spirituali relative al soggetto umano in cui si trova di
fatto.
La Filosofia così intesa è la "donna de lo intelletto", che si fa in Dante l'oggetto di
un amore appassionato: un amore che ragiona in lui, in quella "nobilissima parte
dell'anima" dove si radica la potenza intellettiva ("mente"). Questa donna di bellezza
sovrumana e ineffabile rispecchia in sé quello che è "l'esempio intenzionale che de la
umana essenzia è ne la mente divina"; ed è perciò vagheggiata da Dio, conosciuta dalle
Intelligenze celesti, e presente, nei loro pensieri, a coloro che se ne innamorano e ne
esperimentano la bontà: una bontà che si fa palese nei suoi atti e nelle sue parole, in
quanto creata da Dio per dar conforto alla nostra fede. Nella figura di questa donna, e
singolarmente negli occhi e nel riso, si colgono cose che soverchiano l'intelletto umano,
ma che suscitano sentimenti d'umiltà profonda. Tutti perciò la riconoscono un miracolo di
natura: un effetto di Dio creatore per la salute di quanti vivono nel tempo.
Passando dalla lettera allo spirito della sua canzone, Dante dichiara che la donna
di cui lì si parla è la Filosofia come "amoroso uso di sapienza": formazione e
organizzazione dinamica dello spirito che si sviluppa in noi, quando l'anima nostra in atto
di speculazione si stringe alla sapienza per diritto amore e per diritta ragione, scoprendo
nell'intimità della sua propria vita le sovrane verità razionali e la sete consustanziale che
la muove. Nel suo movimento vitale verso il vero, che di sé l'asseta, l'anima è illuminata
dalla luce oggettiva che s'irradia in lei a ogni grado del sapere scientifico: dalle singole
scienze, ma soprattutto dalle tre ultime, Fisica, Morale e Metafisica. E questa luce
oggettiva, che perfeziona l'intelligenza progressivamente, innalzandola in regioni
d'immaterialità sempre più pura, si fa abbagliante col mistero dell'essere preso in se
stesso, nella sua propria intelligibilità (Metafisica); ma lì ancora, per la via della causalità,
l'intelligenza sale al mistero della prima Causa con un desiderio inefficace di poterla
conoscere nella sua essenza. In ciò appunto la Filosofia, relativamente al soggetto umano
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che ne è come il portatore, si fa causa in lui di una ragione che conferma la nostra fede, e
che lo porta a riconoscere con umiltà una superiore saggezza che lo trascende: un
amoroso uso di sapienza che s'identifica in Dio, somma sapienza, sommo amore e sommo
atto.
Considerata quindi in se stessa e nelle sue cause, e fuori del soggetto che la
esercita, la Filosofia, come "donna de lo intelletto", come istinto dell'intelligenza verso il
vero e come conoscenza naturale delle prime conclusioni della ragione, preesisteva nella
mente di Dio come forma intenzionale dell'essenza umana; ed è perciò un dono
assolutamente gratuito della sua bontà, concesso all'uomo per la sua stessa salute. Il terzo
trattato s'apre con la canzone "Le dolci rime d'amor ch'i'solia", che viene dichiarata
secondo la lettera, nel suo contenuto di filosofia pratica o morale. Vi sta a fondamento il
concetto di "gentilezza" o "nobiltà" come perfezione metafisica e sostanziale del soggetto
umano, preso nella sua propria singolarità e con tutto ciò che esiste in lui virtualmente
("umana bontade in quanto in noi è de la natura seminata").
Partendo da questo concetto Dante combatte l'opinione attribuita a Federigo II che
la nobiltà sia antica ricchezza con bei costumi; opinione accolta dai più, che la riducono
alla prima parte: "antica ricchezza". Opponendosi a un Imperatore Dante non crede di
venir meno al rispetto dovuto all'autorità imperiale, poiché la riconosce necessaria
regolatrice e direttrice della vita sociale ordinata a vivere felicemente. E d'altra parte la
missione provvidenziale che Dio si compiacque di affidare a Roma e al suo Impero la
giustifica tanto agli occhi della ragione quanto agli occhi della fede. Né ancora Dante
crede di venir meno all'autorità filosofica combattendo l'opinione dei più, perché il
Filosofo, che affermava non del tutto erronea un'opinione accolta generalmente, la
restringeva ai giudizi dati secondo ragione e non secondo le apparenze sensibili. La
nobiltà non si eredita; né può esser data dalle ricchezze, che si devono alla fortuna e che
sono tali che mai non saziano col loro pericoloso accrescimento; e neppure può essere
data dal tempo, che fa dimenticare l'oscurità e la bassezza degli antenati. "Nobiltà è
perfezione di propria natura in ciascuna cosa"; e poiché la perfezione dell'uomo va colta
non nelle sue note essenziali di natura comune, ma negli effetti personali che ne
procedono - quali per esempio le virtù morali e intellettuali, che ci portano alla felicità
della vita attiva e della vita contemplativa -, la nobiltà che in una data persona riluce, e
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che comprende in sé, oltre le virtù morali e intellettuali, le buone disposizioni dell'animo
e le passioni degne di lode e le doti del corpo, va riportata al suo principio radicale, e cioè
alla perfezione metafisica e sostanziale che sta a suggello della sua singolare natura.
Questa perfezione, che già possiede in sé virtualmente ciò che verrà posto in luce,
è la sussistenza di un'anima dotata di ragione: sussistenza indipendente dal corpo e
comunicata al corpo; "seme di felicità", in quanto felicità è la dolcezza che ci procura
l'esercizio delle virtù, e "dono divino" infuso da Dio "nell'anima ben posta" in ragione
della materia che la individua. E poiché la nobiltà viene dall'anima, essa non può essere il
privilegio di una stirpe, sì della persona singolare che in sé la fa rifulgere; ed è bontà di
natura, che nell'ordine delle sue operazioni spirituali viene sopraelevata dalla grazia
santificante, che la proporziona a Dio come oggetto di conoscenza e d'amore. Dichiarata
così la nobiltà come "seme" di vita felice, Dante ne segue lo sviluppo dapprima
nell'ordine dell'essenza dell'essere umano e poi nel soggetto umano, in relazione alle sue
condizioni di esistenza e di esercizio nel concreto. Da questo "seme" germoglia
"l'appetito d'animo naturale", per cui il soggetto d'azione, tendendo a ciò che gli è fatto
presente dalla conoscenza, comincia a operare e a distinguere ciò che gli è male da ciò
che gli è bene.
Guidato poi dal lume della ragione naturale e dall'esperienza, lo stesso soggetto si
libera dalle suggestioni della sensibilità, scopre dei motivi superiori e, per "appetito
d'animo razionale", tende a ciò che gli conviene secondo la dignità della propria natura,
cioè aderisce sempre più strettamente mediante l'intelligenza e la volontà a ciò che fa la
vita dello spirito. Nell'ordine pratico, con l'esercizio delle virtù morali, il soggetto
d'azione giunge alla beatitudine della vita attiva o sociale; e di lì, nell'ordine speculativo,
considerando l'opera di Dio e della natura, giunge alla beatitudine della vita
contemplativa: è questa ottima, benché imperfetta quaggiù, rispetto alla prima che
tuttavia è buona.
Passando poi allo stato di esercizio, nel soggetto umano concreto, Dante segue il
germogliare di questo stesso "seme", che si dirama nelle varie potenze dell'anima,
portandole tutte verso le perfezioni particolari che s'addicono a ciascuna delle quattro età
della vita umana (adolescenza, gioventù, senettute e senio). In queste perfezioni il seme si
sostiene "infino al punto che con quella parte della nostra anima che mai non muore a
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l'altissimo e gloriosissimo seminatore al cielo ritorna". Nobiltà ristretta qui alla vita di
un'anima, che, creata liberamente da Dio, ritorna a lui per amore, benedicendo dopo
lunga esperienza la sua vita passata. Sono pagine mirabili per osservazione attenta e
amorosa della natura umana nelle sue inclinazioni essenziali e fondamentali; e perciò
ricche di note morali e psicologiche che ci riportano tutte al centro segreto dal quale esse
emanano: alla sussistenza di un'anima che si fa creatrice della sua vera libertà.
Illustrate per analogia, con esempi ricavati dall'Eneide, dalle Metamorfosi e dalla
Farsalia, queste pagine traducono il tono dell'anima di Dante e l'alto sentimento della
vita che lo ispira, mentre si tien fermo alle regolazioni positive della ragione; in ciò
guidato e sorretto da una saggezza pratica che non prescinde mai dalle condizioni di
esistenza, fondamentali e universali, imposte all'uomo sulla terra. Dante moralista, che si
farà giudice degli uomini nella sua Divina Commedia, è già tutto nel Convivio.
Le linee maestre del suo pensiero, che si piega fedelmente a tutte le esigenze del
reale, si disegnano nettamente in quest'opera, nonostante il folto intrico delle note
complementari e delle digressioni marginali; e armonizzano tra loro, entro un sistema di
princìpi razionali rigorosamente dedotti con procedimento sillogistico da ciò che è. Ne
nasce una prosa robusta e severa, ben lontana dalla fragile levità della Vita Nuova; una
prosa che si rinsalda non senza asprezze nella sua complessa struttura sintattica, in virtù
di un pensiero che la domina e l'adegua, senza lenocinii estrinseci, alla vita di un'anima
assetata di saggezza.
Questa saggezza, che nella Divina Commedia sarà impersonata in Virgilio, è una
saggezza filosofica in grazia della sua specificazione oggettiva, ma tale che trova nella
fede una luce che la fortifica e che dà un sapore nuovo alle verità della ragione. E perciò
una saggezza che disseta ma non sazia, perché anela a salire per conoscere quella
superiore saggezza che le è negata nel tempo. Ma questa stessa saggezza, prima di
effondersi nella prosa nobilmente appassionata e austera del Convivio, era stata un
momento essenziale dell'anima di Dante: un'esperienza viva e vissuta e poeticamente
espressa nelle canzoni filosofiche, il cui "bello stile" egli lo riconosceva tolto a Virgilio
"suo maestro e suo autore".
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