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1 Capitolo 1 Disoccupazione, Inflazione, Domanda e Offerta aggregata

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Capitolo 1

Disoccupazione, Inflazione, Domanda e Offerta aggregata

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I. L’INFLAZIONE

In economia il termine inflazione indica un generale e continuo aumento dei prezzi di

beni e servizi in un dato periodo di tempo che genera una diminuzione del potere

d’acquisto della moneta. Con l’innalzamento dei prezzi, ogni unità monetaria potrà

comprare meno beni e servizi, conseguentemente l’inflazione è anche un’erosione del

potere d’acquisto.

L’inflazione può avere diverse cause, e non c’è completo accordo su quale sia quella che

influisce di più. L’aumento dell’offerta di moneta superiore all’aumento della produzione

di beni e servizi, stimolando la domanda di beni e servizi e gli investimenti in assenza di

un corrispondente aumento dell’offerta è considerata una causa dell’aumento dei prezzi.

Secondo John Maynard Keynes l’inflazione dipende dalla domanda, che però può

crescere a prescindere dalla quantità di moneta immessa se ci si trova in una situazione di

piena occupazione, in cui quindi la domanda cresce per la crescita dei salari.

Altre cause sono l’aumento dei prezzi dei beni importati, l’aumento del costo dei fattori

produttivi e dei beni intermedi, in seguito all’aumento della domanda o per altre ragioni.

L’aumento del livello generale dei prezzi determina una perdita di potere d’acquisto della

moneta: con la stessa quantità di denaro si può cioè acquistare una minore quantità di beni

e servizi. A titolo esemplificativo, 1 lira italiana del 1861 (la lira coniata al momento della

proclamazione del Regno d’Italia) equivale ad oltre 6 000 lire del 1999, ad oltre

3 euro del 2006 e 5,17 del 2012.

L’inflazione ha effetti positivi e negativi. L’attuale Economia Mainstream considera una

quantità moderata di inflazione positiva. Ad esempio, la banca centrale Europea si pone

come obiettivo un’inflazione che non superi il 2%. Olivier Blanchard, capo economista

del Fondo Monetario Internazionale, ritiene che questo limite possa essere innalzato al

4% per garantire alla banca centrale più margine d’azione in caso di crisi.

Non mancano scuole di pensiero economico che ritengano opportuna anche un’inflazione

più alta almeno in talune situazioni, o altre che la ritengono in assoluto negativa.

L’iperinflazione invece è unanimemente considerata in modo negativo.

L’inflazione comporta la perdita di valore del denaro accumulato, e un’inflazione

imprevista comporta un trasferimento di ricchezza vantaggioso per i soggetti in posizione

debitoria e svantaggioso per i soggetti in posizione creditoria. Ad esempio, un’impresa od

un singolo cittadino che abbia contratto un debito a tasso d’interesse nominale fisso è

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avvantaggiato da un aumento imprevisto dell’inflazione, se ad essa corrisponde anche un

aumento nominale delle sue entrate.

Avviene il contrario per la banca che ha concesso il mutuo, che ottiene indietro del

denaro con un valore inferiore a quanto preventivato, oppure per un’impresa o un

cittadino che abbia acquistato dei titoli di debito (ad esempio dei titoli di stato) che

offrono un interesse reale minore di quello preventivato. Qualora invece l’inflazione sia

stabile il creditore ne tiene conto nel momento in cui concede il prestito, includendo il

recupero dell’inflazione nel tasso d’interesse nominale, in modo da avere un tasso

d’interesse reale (al netto dell’inflazione) positivo.

L’incremento del livello generale dei prezzi espresso in termini percentuali è il tasso

d’inflazione.

L’opposto dell’inflazione, cioè la diminuzione continuativa del livello generale dei

prezzi, prende il nome di deflazione.

Grandezze reali e grandezze nominali

La maggior parte degli economisti ritiene il PIL una misura appropriata del benessere

materiale prodotto in un dato territorio economico durante un determinato lasso di tempo.

Tuttavia, se il PIL viene definito come il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali

prodotti in un dato periodo di tempo in un dato territorio economico, è evidente che le

sue variazioni nel tempo possono corrispondere a:

• una variazione nelle quantità di beni e servizi finali prodotti e venduti

• una variazione dei prezzi (o valori unitari) di questi beni e servizi finali.

Le variazioni del primo tipo, definite variazioni in termini reali del PIL, sono quelle che

ci informano a proposito della capacità di una data economia di fornire benessere

materiale. Invece, le variazioni dei prezzi di beni e servizi, soprattutto se hanno carattere

generalizzato, rappresentano il fenomeno dell’inflazione, che nulla ha a che fare con

variazioni del benessere materiale.

In altre parole, noi definiamo il PIL come il valore di mercato di tutti i beni e servizi

finali, o come la somma di tutte le spese in beni e servizi finali, poiché vogliamo

utilizzare il prezzo (valore unitario di mercato) dei vari beni e servizi come unità di

misura comune di beni e servizi altrimenti eterogenei tra di loro (per esempio, grano e

latte). Tuttavia, questo concetto di PIL, definito PIL nominale, risente dell’evoluzione

sia dei prezzi che delle quantità. Il problema che si pone a statistici ed economisti è di

scindere le variazioni del PIL nominale in quelle del cosiddetto PIL reale, che riflette

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unicamente l’evoluzione nel tempo delle quantità, e in quelle del cosiddetto livello

generale dei prezzi, le cui variazioni individuano l’inflazione.

Per poter misurare il PIL reale, bisogna utilizzare dei prezzi (valori unitari di mercato)

costanti nel tempo. Immaginiamo di essere nel paese di Agrolandia, la cui economia

produce solo grano e latte. Conosciamo quantità e prezzi di questi beni negli anni 2007,

2008 e 2009, e vogliamo misurare il PIL nominale e reale di Agrolandia in questi anni.

Esempio 1

Nell’esempio 1 abbiamo scelto di calcolare il PIL reale, anche detto PIL a prezzi costanti,

utilizzando i prezzi del primo anno, il 2007. Di qui la definizione a prezzi costanti del

2007. Convenzionalmente, definiamo l’anno del quale teniamo i prezzi costanti come

periodo base. Si noti che non è per nulla necessario che il periodo base sia il primo degli

anni considerati. L’importante è che vi sia un periodo i cui prezzi costituiscano un’unità

di misura costante nel tempo delle quantità.

I livelli generali dei prezzi: il deflattore del PIL e l’indice del costo della vita

Nell’esempio 1, si sono calcolate per il paese di Agrolandia misure del PIL nominale e

reale per vari anni. Intuitivamente, è chiaro che il rapporto tra PIL nominale e PIL reale

fornirà una misura del livello generale dei prezzi, e viene convenzionalmente definito

come il deflattore del PIL.

Informazioni di base: quantità (Q) e prezzi (P) dei beni

ANNO Q di grano

(quintali)

P del grano in euro (valore

unitario per quintale)

Q di latte

(litri)

P del latte in euro (valore

unitario per litro)

2007 150 40 2 000 3

2008 120 50 2 200 4

2009 160 40 2 500 5

Calcolo del PIL nominale (a prezzi correnti)

ANNO

2007 150 q per 40 euro + 2 000 l per 3 euro = 12 000 euro

2008 120 q per 50 euro + 2 200 l per 4 euro = 14 800 euro

2009 160 q per 40 euro + 2 500 l per 5 euro = 18 900 euro

Calcolo del PIL reale (a prezzi costanti del 2007)

ANNO

2007 150 q per 40 euro + 2 000 l per 3 euro = 12 000 euro

2008 120 q per 40 euro + 2 200 l per 3 euro = 11 400 euro

2009 160 q per 40 euro + 2 500 l per 3 euro = 13 900 euro

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Esempio 2:

Calcolo del deflattore del PIL

ANNO

2007 12 000 euro / 12 000 euro = 1,000

2008 14 800 euro / 11 400 euro = 1,298

2009 18 900 euro / 13 900 euro = 1,360

Vi sono tuttavia maniere alternative a quella qui sopra esemplificata per tenere conto

dell’evoluzione del livello dei prezzi. In effetti, la misura del livello dei prezzi più

comunemente utilizzata nei nostri paesi, l’indice del costo della vita (o indice dei prezzi

al consumo) si basa su un procedimento diverso, di cui si darà conto nell’esempio

sottostante.

Si ipotizzi di essere sempre nel paese di Agrolandia; vogliamo ora calcolare, per ognuno

dei tre anni considerati in precedenza, il costo del paniere di beni e servizi consumati dal

consumatore rappresentativo. Si ipotizza cioè che, in media, il consumo annuo degli

abitanti di Agrolandia (il loro paniere dei consumi) includa quantità date di grano e latte.

Per esempio, possiamo assumere che questo paniere includa, tutti gli anni, 150 quintali di

grano e 1 800 litri di latte. Ne conseguirà che l’evoluzione nel tempo del costo del paniere

dipenderà unicamente dall’evoluzione dei prezzi di grano e latte.

Quindi, il rapporto:

costo del paniere in un anno qualsiasi costo del paniere in un anno preso come periodo base

fornirà una misura dell’evoluzione del livello generale dei prezzi (relativamente al

periodo base).

Esempio 3:

Informazioni di base:

quantità (Q) e prezzi (P) dei beni inclusi nel paniere del consumatore rappresentativo

ANNO Q di grano

(quintali)

P del grano in euro (valore

unitario per quintale)

Q di latte

(litri)

P del latte in euro (valore

unitario per litro)

2007 150 40 1 800 3

2008 150 50 1 800 4

2009 150 40 1 800 5

Calcolo del costo del paniere

ANNO

2007 150 q per 40 euro + 1 800 l per 3 euro = 11 400 euro

2008 150 q per 50 euro + 1 800 l per 4 euro = 14 700 euro

2009 150 q per 40 euro + 1 800 l per 5 euro = 15 000 euro

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Calcolo dell’indice del costo della vita (il periodo base è l’anno 2007)

ANNO

2007 (11 400 euro / 11 400 euro) × 100 = 100

2008 (14 700 euro / 11 400 euro) × 100 = 129

2009 (15 000 euro / 11 400 euro) × 100 = 132

Si noti che, seguendo la convenzione in uso, moltiplichiamo per 100 il valore dell’indice

in ogni anno. In ogni caso, il numero indice del costo della vita (o dei prezzi al consumo)

dà valori leggermente diversi di quelli ottenuti dal deflattore del PIL. Di conseguenza, a

questi numeri indici corrispondono tassi di inflazione (leggermente) diversi.

Come si calcola il tasso di inflazione?

La definizione di tasso di inflazione corrisponde alla variazione percentuale del livello

generale dei prezzi (o di un suo numero indice). In altre parole, il tasso di inflazione del

periodo t, Πt, equivale al tasso di crescita percentuale dei prezzi:

Π t =

Pt-Pt-1 / Pt-1 = (Pt / Pt-1 ) -1

dove P è un qualsiasi numero indice dei prezzi preso nei periodi t e t-1.

Vediamo quindi quali tassi di inflazione possano essere calcolati dal deflattore del PIL e

dall’indice del costo della vita.

Esempio:

Calcolo del tasso di inflazione

ANNO Dal deflattore del PIL Dall’indice del costo della vita

2007 -- --

2008 (1,298-1,000)/1,000 = 0,298 (129-100)/100 = 0,290

2009 (1,360-1,298)/1,298 = 0,048 (132-129)/129 = 0,023

Nel 2007, il tasso di inflazione non può essere calcolato in quanto non abbiamo a

disposizione dei valori per l’indice dei prezzi nel periodo precedente (il periodo t-1 è il

1996, per il quale non abbiamo dati). Una seconda importante annotazione relativa a

queste misure è che il calcolo dell’indice del costo della vita non permette di tenere conto

di cambiamenti nel paniere di consumi del consumatore rappresentativo (che possono

corrispondere all’introduzione di nuovi beni nel paniere, alla modificazione delle quote

assunte nel paniere dai beni già esistenti, o alla modificazione della qualità dei beni già

esistenti). Se avvenimenti di questo tipo hanno effettivamente luogo, l’indice del costo

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della vita calcolato come nel testo darà un’immagine distorta dell’evoluzione del livello

generale dei prezzi, e quindi del tasso di inflazione.

Comunque, in pratica i due numeri indici non differiscono tanto in ragione della

differente procedura di calcolo, quanto perché essi si riferiscono a due diversi livelli

generali dei prezzi. L’indice del costo della vita si riferisce ai prezzi al consumo, e cioè

ai prezzi dei beni e servizi consumati in un dato periodo di tempo in un dato territorio

economico. Il deflattore del PIL si riferisce invece ai prezzi dei beni e servizi finali

prodotti in un’economia, e cioè ai prezzi relativi non solo a consumi, ma anche a

investimenti ed esportazioni nette. Non è dunque per nulla strano che i due indici diano

risultati diversi.

In ogni caso, nel grafico qui sotto diamo conto dell’evoluzione del tasso di inflazione (per

un indice del costo della vita) calcolato dall’Istat per il nostro Paese dal 1956 al 2006.

Come è evidente, nel periodo considerato abbiamo perlomeno tre diverse fasi per ciò che

concerne l’andamento del tasso di inflazione. Dai tassi sostanzialmente contenuti degli

anni 50 e 60 (attorno al 3% in media), si passa all’inizio degli anni ‘70 a tassi molto

elevati: il tasso medio del periodo 1970-83 è del 12%, uno dei più alti dei paesi sviluppati

nel periodo considerato. A partire dal 1984 vi è un deciso abbassamento del tasso di

inflazione. In particolare, dal 1997 in poi il tasso medio si aggira intorno al 2%.

Figura 1.1 - Tasso di inflazione 1956-2006 (Indice del costo della vita)

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II. LA DISOCUPAZIONE

La disoccupazione è la condizione di mancanza di un lavoro per una persona in età da

lavoro (da 16 a 60 anni) che lo cerchi attivamente, sia perché ha perso il lavoro che

svolgeva (disoccupato in senso stretto), sia perché è in cerca della prima occupazione

(inoccupato). È la condizione opposta all'occupazione.

In macroeconomia, il concetto di disoccupazione si può estendere all’intero Stato e sulla

base dei dati raccolti si possono calcolare stime statistiche come il tasso di

disoccupazione.

Alcuni tipi di disoccupazione

Disoccupazione frizionale: indica la condizione di quelli che non hanno un’occupazione,

cioè non lavorano. Interessa il breve periodo, per coloro che cercano lavoro per la prima

volta o che stanno cambiando impiego. Ci vuole infatti del tempo per far coincidere le

richieste dei lavoratori con il mercato del lavoro. Il modello di del mercato aggregato

parte dall’ipotesi che tutti i lavoratori e tutte le occupazioni siano uguali e che ogni

lavoratore sia adatto ad ogni tipo di occupazione; nella realtà i lavoratori hanno e

preferenze differenti l’uno dall’altro. Impiegano del tempo per trovare una nuova

occupazione. Una certa quantità di disoccupazione è pertanto inevitabile: con il variare

della domanda di e varia anche la domanda di lavoro per produrre quei beni e quei

servizi. Gli economisti chiamano la variazione nella composizione della domanda di

lavoro tra settori e aree diverse. La disoccupazione frizionale è inevitabile nella stessa

misura in cui domanda e offerta sono in evoluzione. Pur ritenendo che il “tasso di

frizionale” si attesti attorno al 3-4, esistono aree in cui vengono misurati tassi anche

inferiori al 2.

Disoccupazione strutturale: è la mancanza di un impiego legata all’assenza di

corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro. In altre parole, è la mancata

corrispondenza tra abilità del lavoratore e richiesta del datore.

Disoccupazione ciclica: è la disoccupazione determinata dalle variazioni del ciclo

economico. Il tasso di disoccupazione aumenta quando l’economia è in fase di recessione.

Il processo di ricerca di lavoro e la rigidità salariale sono due delle cause per cui il

processo di reperimento del lavoro non è istantaneo.

Se la maggior parte della disoccupazione è di breve durata, si può ipotizzare che si tratti

dell’inevitabile disoccupazione frizionale. Se la disoccupazione è di lunga durata è da

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classificarsi come disoccupazione strutturale. Se ci si pone l’obiettivo di abbassare il

tasso naturale di disoccupazione, la politica economica deve tendere a focalizzarsi sulla

disoccupazione a lungo termine, ossia quella a cui si riferisce la maggior parte della

quantità di disoccupazione.

Il tasso di disoccupazione varia sensibilmente tra diversi gruppi di popolazione. I

lavoratori più giovani hanno un tasso di disoccupazione molto più elevato dei lavoratori

più anziani. Si possono individuare due diverse possibili cause di un elevato tasso di

disoccupazione: un basso tasso di ottenimento di lavoro e un alto tasso di separazione dal

lavoro. I gruppi demografici caratterizzati da un elevato tasso di disoccupazione tendono

ad avere un elevato tasso di separazione dal lavoro; le variazioni del tasso di ottenimento

del lavoro tra i diversi gruppi tendono ad essere meno marcate. I giovani, appena entrati

nel mercato del lavoro, sono incerti sulla carriera da intraprendere; risulta utile per loro

provare diversi tipi di lavoro. È giusto attendersi per questo gruppo un elevato tasso di

separazione dal lavoro e un più alto tasso di disoccupazione frizionale.

Costi della disoccupazione

Quando la disoccupazione ciclica è elevata, la società deve sopportare un costo

opportunità causato dalla mancata produzione di una certa quantità di prodotto

potenziale (equivalente a ciò che si sarebbe potuto produrre in condizioni di piena

occupazione).

Altri costi della disoccupazione sono i costi sociali e i costi umani, che si manifestano in

svariate problematiche psicologiche o psicofisiche che affliggono il disoccupato. In alcuni

casi, la disoccupazione a lungo termine può portare a ipertensione, depressione e

alcolismo. Nei casi più disperati si sono registrati suicidi.

Misurazione della disoccupazione

Popolazione attiva, occupazione, disoccupazione

Come in molti fenomeni oggetto di studio dell'economia, è possibile misurare la

disoccupazione calcolando dei tassi opportuni.

Il più semplice di questi è il tasso naturale di disoccupazione, che corrisponde al tasso

medio di disoccupazione attorno a cui oscilla l’economia di uno stato. Può essere

considerato come il tasso di disoccupazione stazionario perché è quello a cui l’economia

tende nel lungo periodo. Se definiamo per comodità:

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Pop il totale della forza lavoro;

L il numero degli occupati;

U il numero dei disoccupati

La forza lavoro è uguale alla somma di occupati e disoccupati: Pop=U+L. Il tasso di

disoccupazione, u, corrisponde al numero dei disoccupati fratto il totale della forza

lavoro: U/Pop.

Nella terminologia statistica ed economica, si dovrebbero denotare col termine di

disoccupati solo le persone che hanno perso un precedente lavoro, mentre le persone in

cerca di occupazione comprendono anche le persone in cerca di prima occupazione. Qui

utilizzeremo in ogni caso come sinonimi i termini di disoccupati e persone in cerca di

occupazione. Ricordiamo inoltre che per popolazione attiva o forza lavoro si intendono

tutti gli individui che, in una data società, lavorano o desiderano lavorare. Quindi,

avremo che Pop = L + U. Di conseguenza U = Pop – L.

È immediatamente necessario rilevare che disoccupati e popolazione attiva sono misurati

secondo criteri che possono variare da paese a paese o nel tempo. Esistono peraltro delle

convenzioni comuni, ispirate alle definizioni dell’International Labour Office, che

consentono di giungere a una definizione del tasso omogenea e confrontabile tra paesi.

Nel riquadro sottostante è riportato un riassunto dell’Indagine Istat sulle forze di lavoro

e delle sue definizioni più importanti.

L’Indagine Istat sulle forze di lavoro

Dall’indagine sulle forze di lavoro derivano le stime ufficiali degli occupati e delle

persone in cerca di lavoro, nonché informazioni sui principali aggregati dell'offerta di

lavoro-professione, ramo di attività economica, ore lavorate, tipologia e durata dei

contratti, formazione. Sin dalla sua introduzione all’inizio degli anni 50, l’indagine svolge

un ruolo di primo piano nella documentazione statistica e nell’analisi della situazione

occupazionale in Italia e si rivela uno strumento conoscitivo indispensabile per decisori

pubblici, media, cittadini.

Le informazioni vengono raccolte dall’Istat intervistando ogni trimestre un campione di

quasi 77 mila famiglie, pari a 175 mila individui residenti in Italia, anche se

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temporaneamente all’estero. Sono escluse le famiglie che vivono abitualmente all’estero e

i membri permanenti delle convivenze (istituti religiosi, caserme ecc.).

Negli anni l’indagine è stata più volte rinnovata per tenere conto, da un lato, delle

continue trasformazioni del mercato del lavoro, dall’altro, delle crescenti esigenze

conoscitive degli utenti sulla realtà sociale ed economica del nostro paese. L’ultima

modifica è stata avviata all’inizio del 2004 in linea con le disposizioni dell’Unione

Europea.

La nuova rilevazione campionaria è denominata continua in quanto le informazioni sono

raccolte in tutte le settimane dell’anno e non più in una singola settimana per trimestre. I

risultati continuano comunque a essere diffusi con cadenza trimestrale, fatta eccezione

per il dettaglio provinciale che ha cadenza annuale.

La rilevazione si caratterizza per la definizione di nuovi criteri di individuazione degli

occupati e delle persone in cerca di lavoro (disoccupati), nonché per la profonda

riorganizzazione del processo di produzione dei dati: realizzazione di una rete di

rilevazione controllata direttamente dall’Istat, utilizzo delle tecniche assistite da computer

per la rilevazione dei dati in grado di ridurre l’onere a carico dell’intervistato, adozione di

nuovi strumenti per la gestione dell’indagine e il monitoraggio della qualità del lavoro sul

campo. Per accrescere il patrimonio informativo, il questionario è stato articolato in modo

da cogliere nuovi e importanti aspetti dell’attività lavorativa, della disoccupazione,

dell’istruzione e formazione e delle relazioni familiari degli intervistati. Per rendere

confrontabili le nuove stime rispetto ai dati riferiti agli anni passati l’Istat ha provveduto a

ricostruire le serie storiche a partire dal quarto trimestre del 1992.

Il principale obiettivo della nuova indagine rimane la produzione delle stime ufficiali

degli occupati e delle persone in cerca di occupazione. In base alle definizioni ispirate

dall’International Labour Office e recepite dai Regolamenti comunitari, la popolazione in

età lavorativa (15 anni e oltre) è ripartita in tre gruppi distinti: occupati, in cerca di

occupazione, inattivi. Nell’applicazione di questi criteri viene seguito un principio

gerarchico: prima si identificano gli occupati, successivamente – tra tutti i non occupati –

le persone in cerca di occupazione e, infine, le persone inattive, quelle non incluse tra gli

occupati o i disoccupati.

Nella condizione di occupato si classificano le persone (con almeno 15 anni) che, nella

settimana che precede la settimana in cui viene condotta l’intervista, hanno svolto almeno

un’ora di lavoro retribuito in una qualsiasi attività. Nel caso l’attività sia svolta nella ditta

di un familiare nella quale si collabora abitualmente, il lavoro può anche non essere

retribuito.

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L’individuazione delle persone in cerca di occupazione (di età compresa tra 15 e 74

anni) si fonda invece sui seguenti requisiti:

• risultare non occupato;

• essere disponibile a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due

settimane successive il momento dell’intervista;

• avere fatto almeno un’azione di ricerca di lavoro (tra quelle previste nel

questionario) nelle quattro settimane precedenti l’intervista. Questo criterio non

viene applicato agli individui non occupati che dichiarano di avere trovato un

lavoro che inizierà entro tre mesi dalla data dell’intervista. Rimane comunque

anche per questo gruppo l’osservanza del requisito sulla disponibilità entro le due

settimane in caso fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro.

Sulla base dei dati raccolti dagli uffici statistici nazionali è possibile costruire delle

statistiche utili alla comprensione delle caratteristiche dei mercati del lavoro.

Il lavoro dipende poi da agenti esterni, che sono le caratteristiche che non dipendono da

quello stesso individuo ma da una diversa fonte.

Molti provvedimenti di politica economica sono finalizzati a far diminuire il tasso

naturale di disoccupazione: gli uffici di collocamento per supportare la ricerca di lavoro,

politiche pubbliche di riqualificazione professionale, incentivi alle aziende per

l’assunzione di persone in cerca di lavoro.

Altri provvedimenti pubblici contribuiscono ad aumentare la disoccupazione frizionale;

uno di questi è il sussidio di disoccupazione. Riducendo il disagio economico prodotto

dalla disoccupazione, il sussidio aumenta la quantità di disoccupazione frizionale e fa

aumentare il tasso naturale di disoccupazione. La consapevolezza che una parte del

proprio reddito è protetta dal sussidio di disoccupazione fa diminuire l’interesse a cercare

posti con prospettive di occupazione duratura e a contrattare garanzie di sicurezza di

occupazione col datore di lavoro. Questo provvedimento presenta l’indubbio vantaggio di

ridurre l’incertezza dei lavoratori rispetto al proprio reddito; inducendo i lavoratori a

rifiutare le offerte ritenute non adeguate, favorisce una migliore corrispondenza tra le

caratteristiche dei lavoratori e quelle dei posti di lavoro che sono chiamati a ricoprire. Da

notare che l’impresa che licenzia un lavoratore corrisponde solo una parte del sussidio,

mentre la parte rimanente proviene dai ricavi generali del sistema di welfare.

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III. DOMANDA E OFFERTA AGGREGATA

In macroeconomia la domanda aggregata rappresenta la domanda di beni e servizi

formulata da un sistema economico nel suo complesso, in un certo periodo temporale;

come tale essa rappresenta la potenzialità di sfruttamento della capacità produttiva

globale di un certo sistema economico. Essa è anche nota come domanda effettiva, ed è

spesso designata con la sigla AD (acronimo dell'inglese aggregate demand).

Sebbene il concetto di domanda effettiva fosse parte dell'analisi di alcuni economisti

precedenti, è con John Maynard Keynes che vengono chiaramente definite le componenti

fondamentali della domanda aggregata (e le relazioni tra le componenti stesse); sviluppi

successivi hanno poi contribuito a determinare in forma più analitica le componenti della

domanda aggregata (ad esempio con l'inserimento delle aspettative degli operatori

economici come variabili determinanti).

Graficamente la domanda aggregata è rappresentata in un sistema di assi cartesiani (dove

sull'asse delle ascisse c'è il reddito o prodotto Y e sull'asse delle ordinate c'è il livello

generale dei prezzi P) attraverso una curva decrescente detta curva di Marshall (che

evidenzia come, all'aumentare del livello dei prezzi, la domanda di beni e servizi si

riduce).

L’offerta aggregata rappresenta, invece, la capacità produttiva di un sistema economico

nel suo complesso. Essa viene spesso designata con la sigla AS (acronimo

dell'inglese aggregate supply).

La domanda aggregata e l’offerta aggregata del sistema economico determinano

l’equilibrio economico del sistema stesso.

La curva di domanda aggregata descrive la quantità di beni e servizi che famiglie,

imprese e amministrazioni pubbliche sono disposte ad acquistare per ogni livello dei

prezzi. La curva di offerta aggregata mostra, invece, la quantità di beni e servizi che le

imprese producono per ogni possibile livello dei prezzi.

Come i prezzi (e le quantità) di equilibrio sono determinati dall’incontro di domanda e

offerta, così è possibile ipotizzare che il tasso di inflazione, il PIL (e la disoccupazione) di

un’economia siano determinati dall’incontro di due curve di domanda e offerta

aggregata. Si noti un’importante differenza: nel singolo mercato determiniamo i prezzi,

mentre in questa sede vogliamo determinare l’inflazione (il tasso di variazione dei

prezzi).

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Effettivamente, è possibile derivare curve di domanda e offerta aggregata che mettano in

relazione il livello generale dei prezzi e il PIL. Tuttavia, dal punto di vista della politica

economica, l’argomento principale è il tasso di inflazione, non il livello dei prezzi. Per

quanto esista una profonda e intima connessione tra queste due variabili, pare opportuno

elaborare uno schema di analisi che consenta di tenere conto direttamente del tasso di

inflazione. Inoltre, nelle nostre economie, sia gli agenti economici che gli studiosi

ritengono che un importante indicatore dello stato di salute di un'economia sia il tasso di

disoccupazione. Nei prossimi paragrafi, esamineremo quindi come le curve di domanda e

offerta aggregata possano essere modificate per dare conto delle relazioni tra tasso di

inflazione e disoccupazione. In questo paragrafo deriveremo invece delle curve di

domanda e offerta aggregata che mettano in relazione il PIL domandato e offerto con il

tasso di inflazione. La nuova derivazione della curva di domanda aggregata si basa sulle

seguenti equazioni che descrivono in modo assai semplificato la determinazione delle

componenti della domanda aggregata, consumi (privati, C e collettivi, G), investimenti (I)

ed esportazioni nette (NX):

C = 200 + 0,7 Yd

Yd = Y - T

T = 700

G = 700

I = 600 - 100 i

NX = 400 - 0,5 Y - 500 i

Si ipotizza cioè che i consumi privati dipendano da una componente esogena e

(positivamente) dal livello di Yd, il reddito disponibile, che quest’ultimo sia la differenza

tra PIL e tasse, che tasse e consumi collettivi siano esogeni (e uguali tra di loro), che gli

investimenti dipendano da una componente esogena e – negativamente – dal livello del

tasso di interesse reale, i, che le esportazioni nette dipendano da una componente esogena

(legata al commercio mondiale) e (negativamente) da Y (un aumento del PIL porta

solitamente a un aumento delle importazioni) e da i (un aumento del tasso di interesse

reale, in regime di flessibilità dei cambi, solitamente innalza il tasso di cambio reale

deprimendo le esportazioni). Poiché la domanda aggregata AD è data dalla somma di C,

G, I e (NX), potremo sommare le relazioni precedenti, ottenendo:

AD = 1800 + 0,2 Y - 600 i

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15

In equilibrio il PIL dovrà essere uguale alla domanda aggregata: dobbiamo quindi avere

Y = AD. Ne consegue che il livello del PIL di equilibrio sarà dato da:

Y = 1800 + 0,2 Y - 600 i

Y - 0,2 Y = 1800 - 600 i

Y (1 – 0,2) = 1800 - 600 i

Y = (1800 - 600 i)/0,8

La funzione sopra indicata non è null’altro che una rappresentazione numerica della curva

IS, poiché rappresenta le combinazioni di tasso di interesse reale e PIL che portano in

equilibrio il mercato dei beni. È evidente che il PIL di equilibrio sarà una funzione

decrescente del tasso di interesse reale. Valori più elevati di quest’ultimo scoraggiano gli

investimenti e – innalzando il tasso di cambio reale – deprimono le esportazioni. Per

esempio, se il tasso di interesse reale è uguale al 4% (i = 0,04), il PIL di equilibrio sarà

uguale a 2220, mentre se è uguale all’8% (r = 0,08) il PIL di equilibrio scende a 2190.

Ma che cosa determina i? Attualmente, gli economisti sono convinti che, almeno nei

paesi sviluppati, le politiche monetarie delle banche centrali:

a) perseguano il controllo del tasso di interesse reale; per un dato i, a una variazione della

domanda di moneta corrisponderà una variazione equivalente dell’offerta di moneta. La

curva LM, che rappresenta le combinazioni di tasso di interesse e PIL che portano in

equilibrio domanda e offerta di moneta, sarà in questo caso una retta orizzontale;

b) reagiscano a valori più elevati del tasso di inflazione elevando il tasso di interesse reale

al fine di abbassare la domanda aggregata. Le ragioni per cui le banche centrali desiderino

abbassare la domanda aggregata quando il tasso di inflazione aumenta saranno chiarite

nel prosieguo del capitolo. In ogni caso, una politica monetaria di questo tipo rende il

tasso di interesse reale una funzione positiva del tasso di inflazione. Un semplice esempio

di una simile regola di condotta monetaria è data dalla formula:

i = + 0,02

Si suppone cioè che la banca centrale voglia (e possa) ottenere un tasso di interesse reale

che superi sempre il tasso di inflazione in ragione del 2%. Se quindi il tasso di inflazione

è del 2%, il tasso di interesse reale sarà uguale al 4%. Se il tasso di inflazione passerà al

6%, il tasso di interesse reale passerà all’8%. Combinando la curva LM implicata da

Page 16: CAPITOLO 1.pdf

16

questa regola di condotta monetaria con una curva IS come quella considerata qui sopra, è

semplice ottenere una relazione decrescente tra PIL domandato da imprese e consumatori

e tasso di inflazione: la curva di domanda aggregata. Si consideri il grafico sottostante:

come detto qui sopra, a un tasso di inflazione del 2% corrisponderà un tasso di interesse

reale del 4%. Per mantenere questo tasso la banca centrale sarà disposta a variare l’offerta

di moneta in modo da controbilanciare esattamente i cambiamenti della domanda di

moneta. Questo comportamento trova la sua 19 rappresentazione grafica nella curva

LM1, una retta orizzontale disegnata in corrispondenza di un tasso di interesse del 4%.

Se, per una qualsiasi ragione, il tasso di inflazione diviene uguale al 6%, il tasso di

interesse reale mantenuto dalla banca centrale diventa uguale all’8%, ci si sposta dalla

curva LM1 alla curva LM1, e il PIL di equilibrio passa da 2220 a 2190. Reiterando

questo meccanismo per altri valori di II e i, si può vedere come dagli spostamenti della

curva LM sulla IS consegua, nella parte inferiore del grafico, una retta con pendenza

negativa, la curva di domanda aggregata:

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17

Ricapitolando, spostandosi lungo la funzione di domanda aggregata, a un tasso di

inflazione inferiore corrisponde un livello più alto del PIL, e viceversa. Effettivamente,

data la regola di politica monetaria seguita dalla banca centrale, a un tasso di inflazione

inferiore corrisponde un livello più basso del tasso di interesse reale. A sua volta, un tasso

di interesse reale più basso avrà l’effetto di incoraggiare gli investimenti e di deprimere il

tasso di cambio reale favorendo le esportazioni nette. Naturalmente, ci sposteremo lungo

la funzione di domanda aggregata solo se permangono costanti i valori delle componenti

esogene di consumi, investimenti o esportazioni nette. Assisteremo altrimenti a uno

spostamento verso l’alto o verso il basso della curva stessa di domanda aggregata.

In pratica ogni spostamento verso l’alto o verso il basso della curva IS produrrà uno

spostamento analogo della curva di domanda aggregata. Per esempio un aumento della

spesa pubblica (e quindi dei consumi collettivi) o del commercio mondiale sposteranno

verso l’alto la curva di domanda aggregata, e il contrario avverrà per diminuzioni in

queste variabili. D’altra parte, se la regola di politica monetaria diventa più espansiva, e

cioè se per ogni dato tasso di inflazione la banca centrale persegue la determinazione di

un tasso di interesse meno elevato, a un dato tasso di inflazione corrisponderà una

maggiore spesa aggregata, e la curva di domanda aggregata si sposterà verso l’alto.

Di natura più innovativa è invece la determinazione dell’offerta aggregata.

Tradizionalmente, questa si basa su concetti quali la funzione di produzione, e la

domanda e offerta di lavoro. Al giorno d’oggi, però, gli economisti preferiscono basare la

determinazione della curva di offerta aggregata su dei modelli non competitivi di

determinazione di prezzi e salari. Nella realtà, infatti, sia le imprese che i lavoratori (o i

loro rappresentanti, i sindacati) godono di un certo potere di mercato, e pare giusto tenere

conto di ciò nel vedere come prezzi e salari si determinano nelle nostre economie.

Ancora, un problema della maniera tradizionale di costruire la curva di offerta aggregata

è che essa implica che le variazioni del salario reale siano quasi

sempre di segno opposto alle variazioni del livello di attività (come si mostra nel, ciò

consegue direttamente dall’ipotesi di una domanda di lavoro con pendenza negativa, che

a sua volta deriva dalle ipotesi di funzione di produzione con rendimenti marginali

decrescenti e di concorrenza perfetta sul mercato dei beni). Questa implicazione del

modello non concorda molto con l’evidenza empirica. Supponiamo quindi di avere:

A) Una funzione di produzione con rendimenti marginali costanti per il lavoro (un modo

per giustificare questo tipo di relazione è di ipotizzare che vi sia capacità produttiva

inutilizzata):

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18

Y = a L

Questa funzione di produzione è chiaramente una relazione lineare tra il livello

dell’occupazione, L, e del PIL, Y; essa è cioè una retta (e a, il coefficiente angolare di

questa retta, è pure una misura della produttività del lavoro).

B) Un meccanismo non competitivo estremamente semplice di

determinazione dei prezzi:

P = W/a (1 + θ)

Qui, i prezzi, P, sono determinati mediante un margine (detto mark-up), θ, applicato al

costo unitario del lavoro (vale a dire il rapporto tra salario, W, produttività del lavoro, a).

Il mark-up dipenderà da fattori come i prezzi delle materie prime, dell’energia, dei

prodotti e servizi intermedi utilizzati nella produzione, dai costi fissi delle imprese.

Generalmente, si suppone che non dipenda dal livello di attività. Poiché abbiamo già

visto che neppure a dipende dal livello di attività, la relazione qui sopra definisce un

livello di salari reali indipendente da L e Y:

W/P = a/(1 + θ)

In altri termini, questa relazione può essere disegnata come una retta orizzontale in un

diagramma cartesiano con N sull’asse delle ascisse e W/P sull’asse delle ordinate.

C) Un meccanismo non competitivo di determinazione dei salari, qui sotto rappresentato

in modo estremamente generico e semplificato:

W = P [ h (L/Pop) × Z ]

Per un livello di prezzi dato, il salario richiesto dai lavoratori dipende dal cosiddetto tasso

di occupazione, il rapporto tra occupazione e popolazione attiva, Pop, e da un insieme di

altri fattori, Z, che saranno analizzati in dettaglio nei paragrafi seguenti. In effetti, quanto

più è alto il tasso di disoccupazione, tanto più sarà basso il potere contrattuale dei

lavoratori. Se ora ci ricordiamo la formula del tasso di disoccupazione:

u = (Pop -L)/Pop = 1 -L/Pop

possiamo senza troppa difficoltà derivare una relazione positiva tra il salario reale

richiesto dai lavoratori, W/P e il tasso di occupazione. Poiché, almeno per lassi di tempo

relativamente brevi, si può ipotizzare che Pop sia costante, riscriviamo la funzione di

determinazione dei salari come:

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W/P = (h/Pop) L × Z = h L × Z

chiarendo che questa funzione definisce una relazione crescente in un diagramma

cartesiano con L sull’asse delle ascisse e W/P sull’asse delle ordinate. Ricordandoci che

la funzione di determinazione dei prezzi definisce una retta orizzontale sullo stesso

grafico, e considerando assieme le due funzioni, possiamo vedere che la funzione dei

prezzi determina il livello del salario reale, mentre il livello di equilibrio di L è quello per

il quale si uguagliano il salario reale richiesto dai lavoratori con quello imposto dalla

politica di prezzo delle imprese:

Ora, se si potessero aggiustare continuamente prezzi e salari, l’occupazione sarebbe

continuamente uguale al livello di equilibrio fissato qui sopra, poiché nessun altro livello

potrebbe, per così dire, mettere d’accordo le pretese di imprese e lavoratori. Poi,

attraverso la funzione di produzione, questo livello di equilibrio di N individuerebbe un

unico livello di Y.

Come verrà chiarito di seguito, gli economisti si aspettano che una situazione di questo

tipo valga nel lungo periodo, una condizione alla quale l’economia può tendere solo

qualora ai processi di aggiustamento di imprese e lavoratori venga dato il tempo

sufficiente per dispiegarsi. Per capire meglio questo concetto, esaminiamo il sottostante

grafico a quattro quadranti, in cui rappresentiamo le reazioni di PIL e inflazione

conseguenti a uno spostamento verso l’esterno della curva di domanda aggregata.

Partendo dal grafico in basso a sinistra e procedendo in senso orario, troviamo le curve

dei prezzi e dei salari (il cui punto di incontro determina il livello di equilibrio

dell’occupazione), la funzione di produzione, la retta a 45 gradi e, infine, l’offerta

aggregata di lungo periodo e la domanda aggregata. Vediamo di capire perché l’offerta

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20

aggregata di lungo periodo sia disegnata come una retta verticale e, di conseguenza, uno

spostamento della domanda aggregata porti unicamente a un aumento del tasso di

inflazione, lasciando PIL e occupazione immutati.

Supponiamo che, ogni volta che cambiano i salari, le imprese possano reagire

immediatamente, variando i prezzi in modo da mantenere invariato il loro margine di

profitto. Supponiamo altresì che i salariati possano rinegoziare il loro contratto in

qualsiasi momento, sulla base di prezzi e occupazione correnti. In queste condizioni, un

aumento del tasso di inflazione non avrà alcun effetto su salari reali, occupazione e PIL.

In effetti, ammettiamo che il tasso di inflazione sia uguale al 10% (= (1,10-1)/1), per

ipotesi nel periodo base il livello dei prezzi è uguale a 1, e che al livello di occupazione

L1 i salariati richiedano un salario reale mensile w1 (= W1/P1) di 1 000 E (=1100/1,10).

Se ora, per una qualsiasi ragione, il tasso di inflazione divenisse uguale al 20% (= (1,20-

1)/1) – per semplicità, calcoliamo il tasso di inflazione relativamente a un periodo base

fisso – e se i salariati potessero immediatamente reagire al nuovo tasso di inflazione (e ai

nuovi prezzi), dalla curva dei salari sappiamo che essi richiederebbero un salario reale =

W2/P2 = 1200/1,20 che sarebbe sempre uguale al valore precedente e coerente col livello

(costante) di occupazione L1. Attraverso la funzione di produzione, a N1

corrisponderebbe come livello del PIL un immutato Y1.

Dunque, se, per esempio, il governo decide di aumentare i propri consumi, e la curva di

domanda aggregata si sposta da D1 a D2, ciò non avrà altra conseguenza che l’aumento

del tasso di inflazione da Π1 a Π2, di fronte a livelli costanti di PIL e occupazione.

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L’equilibrio di breve periodo

Come visto qui sopra, se si potessero aggiustare continuamente prezzi e salari, PIL e

occupazione sarebbero continuamente uguale ai loro livelli di lungo periodo, poiché

nessun altro livello potrebbe conciliare i salari reali richiesti da imprese e lavoratori.

Peraltro, né imprese né lavoratori possono rinegoziare continuamente prezzi e salari, e

questo sgancia, almeno temporaneamente, PIL e occupazione dai loro livelli di lungo

periodo. Nel breve periodo, di fronte a spostamenti della domanda aggregata, si verrà

quindi a creare, almeno temporaneamente, una relazione diretta tra tasso di inflazione e

livelli di PIL e occupazione.

Per semplicità, supponiamo che le imprese possano aggiustare i prezzi di continuo, ma

che i lavoratori possano rinegoziare i salari solo a intervalli di tempo prefissati (mettiamo

un anno4), e utilizzare informazione relativa solo ai periodi passati. Quindi, ogni volta

che cambiano i salari le imprese possono reagire immediatamente, mentre i salariati, al

momento di rinegoziare il contratto, conoscono solo i prezzi (e le altre variabili) dell’anno

precedente. Tutto al più, per difendere il proprio potere di acquisto, i salariati potranno

avanzare le proprie richieste salariali condizionatamente ai prezzi attesi per l’anno

corrente.

Pt = Wt/at (1 + t)

Wt = Pet (h Lt-1 Zt-1)

da queste due formule è possibile derivare la seguente offerta aggregata di breve

periodo:

Πt = Πet + x (Yt-1 - Y*)/Y*

nella quale il tasso di inflazione corrente dipende dal tasso di inflazione atteso, e dal gap

percentuale tra Yt-1, il livello del PIL nel periodo precedente e Y*, il livello del PIL di

equilibrio di lungo periodo.

Proviamo ora a verificare il processo di aggiustamento di PIL, occupazione e inflazione.

Il processo di aggiustamento dell’inflazione conseguente a uno spostamento verso

l’esterno della curva di domanda aggregata.

Facciamo l’ipotesi che Πet sia uguale a Πt-1. In tal caso, nel periodo 1, avremo:

Πt = Πet = Π1.

Uno spostamento verso l’esterno della domanda aggregata porterà (su una data curva di

offerta aggregata di breve periodo) a un aumento proporzionale nel livello del PIL.

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Attraverso la funzione di produzione, ciò porta a un aumento, sempre proporzionale, del

tasso di occupazione. I salariati aumenteranno allora le loro richieste salariali, poiché il

loro potere contrattuale è aumentato. Di conseguenza si avrà un aumento dei prezzi; il

tasso di inflazione diventerà uguale a Π2, e, poiché nel periodo seguente Πet sarà uguale

Π2, l’offerta aggregata di breve periodo si sposterà verso l’alto.

In seguito allo spostamento verso l’alto della curva di offerta aggregata di breve periodo,

PIL e occupazione diminuiscono. Tuttavia, essi saranno sempre superiori al loro livello

iniziale (uguale a Y*). In ragione di ciò, i salariati aumentano ancora le loro richieste

salariali. Ciò porta di nuovo a un aumento del tasso di inflazione, e quindi, nel periodo

seguente, a un nuovo spostamento verso l’alto dell’offerta aggregata di breve periodo.

Questo processo continua sino a che arriviamo a un nuovo punto di equilibrio di lungo

periodo, caratterizzato da livelli di PIL e occupazione uguali a quelli iniziali, ma da salari,

prezzi, e tasso di inflazione più alti (e uguali a quelli che abbiamo trovato sui grafici di

lungo periodo in seguito allo spostamento della domanda aggregata).

Quindi, nel breve periodo, sino a che i salari reagiscono solo parzialmente allo

spostamento verso l’esterno della domanda aggregata, quest’ultimo causa un aumento

dell’inflazione, ma anche una variazione positiva di PIL e occupazione. Mano a mano che

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l’aggiustamento dei salari diventa sempre più completo (e cioè, mano a mano che ci

avviciniamo all’equilibrio di lungo periodo), tuttavia, gli effetti dello spostamento della

domanda aggregata su PIL e occupazione diventano sempre più deboli, fino ad attenuarsi

completamente. Diventa invece sempre più forte l’effetto sull’inflazione, che sarà infine

uguale allo spostamento della domanda aggregata.

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24

Mercato del lavoro e disoccupazione

Possiamo innanzi tutto pensare che, così come in altri mercati, in quello del lavoro sia

possibile definire la domanda e l’offerta di una merce, la prestazione lavorativa, e che il

salario rappresenti il prezzo al quale tale merce è scambiata.

Supponiamo quindi che i mercati dei beni e del lavoro operino in regime di concorrenza

perfetta. La domanda di lavoro da parte delle imprese è in questo caso il risultato di un

processo di massimizzazione dei profitti che conduce ad assumere lavoratori fino a

quando la produttività marginale del lavoro uguaglia il salario reale.

La teoria competitiva dell’offerta di lavoro prevede invece che la scelta del numero di ore

di lavoro da offrire sul mercato sia determinata dal confronto tra salario e tasso marginale

di sostituzione tra lavoro e ozio. Pertanto gli individui offriranno le proprie prestazioni

lavorative laddove il loro sforzo sia esattamente compensato dal salario reale.

L’equilibrio nel mercato del lavoro sarà quindi raggiunto quando l’offerta di lavoro è

uguale alla domanda da parte delle imprese.

La domanda di lavoro

Supponiamo di avere:

A) Una funzione di produzione con rendimenti marginali decrescenti per il lavoro:

Y = f ( L ) ; f’ (L) >0 ; f’’ (L) < 0

dove f’ (L) è la produttività marginale del lavoro, ovvero l’unità addizionale di Y ottenuta

impiegando un’unità addizionale di L, e f’’(L) è la variazione della produttività marginale

del lavoro ottenuta impiegando un’unità addizionale di L (cioè la derivata seconda di Y

rispetto a L).

L’ipotesi fondamentale alla base di questa funzione è che il lavoro sia l’unico fattore di

produzione che varia. Gli altri fattori di produzione, tra cui è abituale includere il capitale

fisico, saranno fissi. In ragione di ciò si avranno rendimenti marginali decrescenti per L:

questa funzione di produzione non è una relazione lineare tra L e Y.

B) Un meccanismo competitivo di massimizzazione del profitto, che implica l’esistenza

di una funzione di domanda di lavoro.

La massimizzazione del profitto Φ = P Y - W L = P f (L) - WL implica d Φ = 0 ; e quindi

(nell’ipotesi di concorrenza perfetta, per la quale prezzi e salari sono dati), avremo la

formula W = P f’ (L).

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Possiamo fare le seguenti osservazioni:

a) se W sale (per P dato), L* si riduce;

b) se P sale, per mantenere L* allo stesso livello, W deve salire proporzionalmente a P.

Possiamo così derivare la seguente funzione di domanda di lavoro:

W/P = f’ (L)

Se tutte le imprese si comportano allo stesso modo è possibile definire, come somma

delle domande di ciascuna impresa, la curva di domanda di lavoro aggregata, che esprime

la relazione inversa tra occupazione e livello salariale.

L’offerta di lavoro

Supponiamo pure di avere:

C) Una funzione di offerta di lavoro, basata sul meccanismo di sostituzione tra reddito e

tempo libero. Questo meccanismo comporta che ogni individuo massimizzi la funzione di

utilità u (C, T - O)

dove C è il consumo, e T – O (Tempo – Ore di lavoro) è il tempo libero,

sotto il vincolo di bilancio Y = W/P x O

secondo cui il reddito Y dipende dal salario reale e dalla quantità di lavoro offerta.

Si ipotizza che le preferenze degli agenti economici (rappresentate da una determinata

forma delle curve di indifferenza) siano tali che l’effetto sostituzione dell’aumento del

salario reale (che fa diminuire la domanda di tempo libero) sarà superiore all’effetto

reddito (che fa aumentare la domanda di tempo libero). Quindi all’aumentare del salario

reale aumenteranno le ore lavorate offerte dagli agenti economici, e diminuirà T- O.

Possiamo quindi fare le seguenti osservazioni:

a) se W sale (per P dato), e se prevale l’effetto sostituzione, l’offerta di ore lavorate

ottimale, O*, aumenta;

b) se P sale, per mantenere l’offerta di ore lavorate ottimale, O*, allo stesso livello, W

deve salire proporzionalmente a P.

Deriviamo così la seguente funzione di offerta di ore lavorate:

W/P = j (O)

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Che ci permette di determinare una funzione di offerta di lavoro che metta in relazione il

salario reale con l’occupazione (e non con le ore lavorate).

In effetti, la maggior parte dei contratti di lavoro stabilisce un numero fisso di ore di

lavoro, e gli individui possono di conseguenza scegliere solo se offrire il loro lavoro o

non offrirne del tutto. Vi sarà comunque una relazione crescente tra salario reale e

occupazione, purché un aumento del salario comporti l’ingresso sul mercato del lavoro di

nuovi individui. Dovremo quindi supporre che gli individui siano identici e che vi sia

unico salario di equilibrio, ottenendo la funzione di offerta di lavoro:

W/P = g (L)

L’equilibrio competitivo nel mercato del lavoro

Possiamo ora considerare sullo stesso grafico le funzioni di domanda e di offerta di

lavoro. Congiuntamente, esse determinano i valori di equilibrio di salario reale e

occupazione. A destra del punto di equilibrio osserveremmo un eccesso di offerta di

lavoro, a sinistra un eccesso di domanda. La differenza tra la popolazione attiva e il

livello di equilibrio dell’occupazione è solitamente definito come uguale alla

disoccupazione frizionale.

Se prezzi e salari potessero aggiustarsi in continuazione, quando sopravvengono

cambiamenti nel mercato dei prodotti e del lavoro l’occupazione sarebbe continuamente

uguale al livello di equilibrio fissato qui sopra, poiché a nessun altro livello il salario reale

richiesto dai lavoratori potrebbe essere uguale a quello che le imprese sono disposte a

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offrire. Poi, attraverso la funzione di produzione, questo livello di equilibrio di L

individuerebbe un unico livello di Y.

Supponiamo che, ogni volta che cambiano i salari, le imprese possano reagire

immediatamente, variando in modo proporzionale la loro funzione di domanda di lavoro.

Supponiamo altresì che i salariati possano rimodulare la loro funzione di offerta di lavoro

in qualsiasi momento, e perciò sulla base dei prezzi correnti. In queste condizioni, un

aumento del tasso di inflazione non avrà alcun effetto su salari reali, occupazione e PIL.

In effetti, ammettiamo che il tasso di inflazione sia uguale al 10% (= (1,10-1)/1), e che al

livello di salario reale mensile w1 (= W1/P1) di 1 000 euro (=1100/1,10), le imprese

domandino e i salariati offrano il livello di occupazione L*. Se ora, per una qualsiasi

ragione, il tasso di inflazione divenisse uguale al 20% (= (1,20-1)/1; per semplicità,

calcoliamo il tasso di inflazione relativamente a un periodo base fisso), e se salariati e

imprese potessero immediatamente reagire al nuovo tasso di inflazione (e ai nuovi

prezzi), il conseguente spostamento della funzione di offerta di lavoro implicherebbe che

al livello di occupazione L* venga richiesto e offerto un salario nominale uguale a 1200

euro. Il salario reale = W2/P2 = 1200/1,20 sarebbe dunque uguale al valore precedente e

coerente con l’occupazione L*. Naturalmente, a quest’ultima corrisponderebbe, mediante

la funzione di produzione, un livello del PIL sempre uguale a Y*.

Se il governo decide per esempio di aumentare le proprie spese, e la curva di domanda

aggregata si sposta da D1 a D2, ciò non avrà altra conseguenza che l’aumento del tasso di

inflazione da Π1 a Π2, di fronte a livelli costanti di PIL e occupazione. Considerando

svariati spostamenti della curva di domanda aggregata, possiamo determinare in

corrispondenza di Y* una curva verticale di offerta aggregata. Questa curva viene definita

offerta aggregata di lungo periodo in quanto gli economisti pensano che i

comportamenti di imprese e lavoratori non possano obbedire a processi di aggiustamento

istantanei, e che la curva verticale di offerta aggregata possa esistere solo se ai processi di

aggiustamento di imprese e lavoratori viene dato il tempo sufficiente per dispiegarsi.

Il breve periodo nel modello competitivo

Peraltro, non sembra appropriato supporre che imprese e lavoratori possano rinegoziare

continuamente prezzi e salari; in altre parole anche nel modello competitivo dell’offerta

aggregata non pare appropriato supporre che i comportamenti di imprese e lavoratori

obbediscano a processi di aggiustamento istantanei. Questo avrà l’effetto di sganciare,

almeno temporaneamente, PIL e occupazione dai loro livelli di lungo periodo. In altri

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termini, ci si aspetta che nel cosiddetto breve periodo, PIL e occupazione possano

assumere valori diversi da quelli implicati dall’equilibrio qui sopra descritto.

Per breve periodo si intende una situazione nella quale i lavoratori offrono lavoro sulla

base di aspettative erronee a proposito dei prezzi: Pet ≠ Pt. Di conseguenza, la curva di

offerta di lavoro si scriverà come:

Wt/Pt = Pet/Pt g (Lt)

oppure (in termini di salario nominale)

Wt = Pet g (Lt)

La curva di domanda di lavoro continuerà invece a essere la stessa di prima.

Facciamo l’ipotesi che Pet = Pt-1. Questa ipotesi implica che, in seguito a uno spostamento

verso l’alto della domanda aggregata, nel grafico considerato qui sotto la curva di

domanda di lavoro si sposta (verso l’alto) mentre la curva di offerta di lavoro non si

sposta. Ne conseguirà un aumento del PIL e dell’occupazione.

Dalle seguenti relazioni:

Wt = Pet g (Lt) ; Wt = Pt f’ (Lt)

si può derivare la seguente offerta aggregata di breve periodo:

Πt = Πet + k (Yt - Y*)/Y*

nella quale il tasso di inflazione corrente dipende dal tasso di inflazione atteso, e

dal gap percentuale tra Yt, il livello del PIL nel periodo corrente e Y*, il livello

del PIL di equilibrio di lungo periodo.

Approfondiamo ora il ragionamento alla base della derivazione di questa funzione.

Si ipotizza che le imprese siano sempre su di un punto della curva di domanda di lavoro;

pure i lavoratori stanno sempre su di un punto dell’offerta di lavoro, ma quest’ultima è

basata su Wt e Pet, e non già su Wt e Pt. Dunque, nella misura in cui Pt > P

et (e Πt > Π

et), il

livello del PIL potrà essere più alto di Y*. Ora, se la curva di domanda aggregata si

sposta verso l’alto, le imprese aumenteranno la loro domanda di lavoro in misura

corrispondente. Questo si traduce in un aumento del salario monetario, W, che esse

saranno disposte a pagare ai lavoratori. Poiché per questi ultimi il livello dei prezzi

rilevante è Pet = P1, dal punto di vista dei lavoratori vi sarà un aumento del salario reale,

da W1/P1 a W2/P1, e aumenterà pure la quantità di lavoro che essi saranno disposti a

offrire. Di conseguenza il livello di equilibrio dell’occupazione aumenterà da L1 a L2.

Mediante la funzione di produzione, a questa maggiore occupazione corrisponde un

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29

maggiore livello del PIL. Unendo il punto caratterizzato da Π1 e L1 con il punto

caratterizzato da Π2 e L2, otteniamo un segmento appartenente alla funzione di offerta

aggregata di breve periodo.

Se ora i prezzi si attestano al livello P2 (e il tasso di inflazione al livello Π2), nel periodo

seguente avremo Pet = P2, e sia la curva di offerta di lavoro che l’offerta aggregata di

breve periodo si spostano verso l’alto. Come è mostrato nel grafico sottostante, in seguito

a questi spostamenti verso l’alto, PIL e occupazione diminuiscono. Tuttavia, essi saranno

sempre superiori al loro livello iniziale (uguale a Y*), almeno sino a che l’aumento del

tasso di inflazione non sarà proporzionale allo spostamento verso l’alto della curva di

domanda aggregata. In effetti, se Pet = Pt-1, sino a che Pt > Pt-1 avremo sempre Pt > P

et. Ma

sino a che la quantità di lavoro domandata dalle imprese sarà maggiore al livello di

equilibrio di lungo periodo dell’occupazione, vi sarà una tendenza all’aumento dei salari

rispetto al loro valore nel periodo precedente. Come è illustrato nel grafico sottostante,

ciò porta a ulteriori aumenti del tasso di inflazione, e quindi a nuovi spostamenti verso

l’alto dell’offerta aggregata di breve periodo. Il processo continua sino a che non viene

raggiunto un nuovo punto di equilibrio di lungo periodo, caratterizzato da livelli di PIL e

occupazione uguali a quelli iniziali, ma da salari, prezzi, e tasso di inflazione più alti.

Dunque, nel breve periodo, poiché per i salariati Pt ≠ Pet, prezzi e salari reagiscono solo

parzialmente allo spostamento verso l’esterno della domanda aggregata, e ciò causa un

aumento dell’inflazione, ma anche una variazione positiva di PIL e occupazione. A mano

a mano che l’aggiustamento di prezzi e salari diventa sempre più completo (e cioè, mano

a mano che ci avviciniamo all’equilibrio di lungo periodo), gli effetti dello spostamento

della domanda aggregata su PIL e occupazione diventano sempre più deboli, fino ad

attenuarsi completamente. Diventa sempre più forte l’effetto sull’inflazione, che sarà

infine uguale allo spostamento della domanda aggregata.

L’ipotesi di concorrenza perfetta nel mercato dei beni e del lavoro comporta una

significativa conseguenza sull’andamento nel breve periodo di prezzi e salari. In

corrispondenza allo spostamento verso l’alto della domanda aggregata, e sino a che

l’aggiustamento di prezzi e salari non diventa completo, l’aumento dei prezzi in ogni

periodo sarà maggiore all’aumento dei salari. Quindi, sino a che PIL e occupazione

saranno al di sopra dei loro livelli di lungo periodo, il salario reale sarà inferiore al suo

livello di lungo periodo. Gli economisti chiamano questo tipo di andamento del salario

reale anti-ciclico (cioè contrario all’andamento del ciclo economico; sarebbe pro-ciclico

se il salario reale fosse superiore al suo livello di lungo periodo sino a che PIL e

occupazione sono al di sopra dei loro livelli di lungo periodo). Poiché si ritiene che non vi

siano prove empiriche convincenti di un andamento anti-ciclico del salario reale (il

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30

salario reale sembra non variare nel corso del ciclo), i modelli non-competitivi hanno

avuto sempre maggiore successo nella letteratura economica odierna.

La disoccupazione nei modelli non competitivi

Tradizionalmente, la curva di offerta aggregata si basa su concetti quali la funzione di

produzione, e la domanda e offerta di lavoro. Di recente, però, gli economisti

preferiscono basare la determinazione della curva di offerta aggregata su dei modelli non

competitivi di determinazione di prezzi e salari. Nella realtà, infatti, sia le imprese che i

lavoratori (o i loro rappresentanti, i sindacati) godono di un certo potere di mercato, e

pare giusto tenere conto di ciò nel vedere come prezzi e salari si determinano nelle nostre

economie. Ancora, come visto qui sopra, un problema della maniera tradizionale di

costruire la curva di offerta aggregata è che essa implica che le variazioni del salario reale

siano quasi sempre di segno opposto alle variazioni del livello di attività. Questa

implicazione del modello non concorda molto con l’evidenza empirica.

Supponiamo quindi di avere:

A) Una funzione di produzione con rendimenti marginali costanti per il lavoro (un modo

per giustificare questo tipo di relazione è di ipotizzare che vi sia capacità produttiva

inutilizzata).

B) Un meccanismo non competitivo estremamente semplice di determinazione dei prezzi.

Qui, i prezzi, P, sono determinati mediante un margine (detto mark-up), θ, applicato al

costo unitario del lavoro (vale a dire il rapporto tra salario, W, e produttività del lavoro,

a).

Possiamo descrivere queste relazioni con le seguenti equazioni:

Y = a L

P = W/a (1 + θ)

W/P = X/(1 + θ)

Quest’ultima relazione può essere disegnata come una retta orizzontale in un diagramma

cartesiano con L sull’asse delle ascisse e W/P sull’asse delle ordinate.

C) Un meccanismo non competitivo di determinazione dei salari, qui sotto rappresentato

in modo estremamente generico e semplificato:

W = P [ h (L/Pop) × Z ]

Per un livello di prezzi dato, il salario richiesto dai lavoratori dipende dal cosiddetto tasso

di occupazione, il rapporto tra occupazione e popolazione attiva (in effetti, quanto più è

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31

alto il tasso di disoccupazione, tanto più sarà basso il potere contrattuale dei lavoratori) e

da un insieme di altri fattori, Z, che saranno analizzati qui sotto in maggiore dettaglio.

Sappiamo già che da questa funzione si può derivare la:

W/P = h L x Z

che definisce una relazione crescente in un diagramma cartesiano con L sull’asse delle

ascisse e W/P sull’asse delle ordinate. E può rappresentare le richieste dei lavoratori

organizzati in un sindacato.

La teoria economica del sindacato prevede che la contrattazione abbia come scopo la

massimizzazione delle funzioni obiettivo delle parti coinvolte nel negoziato definite in

termini di salario e livelli occupazionali. La considerazione importante ai nostri fini, è che

se il sindacato rappresenta soltanto l’interesse dei propri iscritti e non considera anche

quello dei lavoratori disoccupati, effettuerà delle richieste salariali più alte rispetto a

quelle che condurrebbero all’equilibrio il mercato di lavoro. Anche se i lavoratori non

fossero legalmente organizzati in un sindacato, possiamo pensare che all’interno di

ciascuna impresa esistano dei gruppi di potere che ne condizionano le decisioni mediante

un processo di contrattazione locale che può avere luogo a livello individuale o collettiva.

Questi lavoratori vengono definiti lavoratori insider e basano il loro potere sul fatto che

l’impresa per sostituirli con lavoratori neoassunti, outsider, dovrebbe sostenere dei costi

quali i costi di licenziamento, di selezione, assunzione e addestramento del nuovo

personale. L’insieme di questi costi rappresenta il costo del turnover o aggiustamento e

costituisce il fondamento del potere esercitato dai lavoratori insider all’interno delle

aziende. Sulla base di queste considerazioni si ipotizza che i lavoratori insider utilizzino

questo potere per effettuare delle richieste salariali elevate impedendo l’accesso al

mercato del lavoro agli outsider. Questo modello è alla base delle spiegazioni dell’isteresi

e della persistenza della disoccupazione.

Un ulteriore motivo di giustificazione per la (4.4’) è che le imprese possono trovare

conveniente remunerare i propri addetti con un salario più elevato rispetto all’effettiva

produttività del lavoro (salario di efficienza), proprio allo scopo di aumentare l’impegno

dei lavoratori (modello dello shirking), di ridurre i costi di turnover (modello del

turnover) o di evitare la costituzione stessa di un sindacato all’interno dell’azienda

(modello della minaccia). Secondo questa classe di modelli se il tasso di disoccupazione è

elevato si riduce la necessità di pagare dei “salari di efficienza” in quanto è la stessa

situazione di scarsità dei posti di lavoro che “disciplina” i lavoratori inducendoli a

lavorare con più impegno.

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32

Ricordandoci che la funzione di determinazione dei prezzi definisce una retta orizzontale

sullo stesso grafico, e considerando assieme le due funzioni, possiamo vedere che la

funzione dei prezzi determina il livello del salario reale, mentre il livello di equilibrio di L

è quello per il quale si uguagliano il salario reale richiesto dai lavoratori con quello

imposto dalla politica di prezzo delle imprese. In questo ambito la disoccupazione di

lungo periodo non è più interpretabile come disoccupazione frizionale, ma dipende dai

comportamenti non competitivi di imprese e lavoratori.

Il tasso di disoccupazione che si registra in corrispondenza dell’equilibrio non può quindi

essere considerato un tasso “ottimo” che coincide con la piena efficienza del mercato ma

semplicemente come il risultato delle decisioni di gruppi di potere, che rappresentano i

lavoratori e le imprese. Esso è a volte definito NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate

of Unemployment) ossia il tasso di disoccupazione che non dà luogo a pressioni

inflazionistiche.

Per capire meglio questo concetto, esaminiamo il sottostante grafico a quattro quadranti,

in cui rappresentiamo le reazioni di PIL e inflazione conseguenti a uno spostamento verso

l’esterno della curva di domanda aggregata. Partendo dal grafico in basso a sinistra e

procedendo in senso orario, troviamo le curve dei prezzi e dei salari (il cui punto di

incontro determina il livello di equilibrio dell’occupazione), la funzione di produzione, la

retta a 45 gradi e, infine, l’offerta aggregata di lungo periodo e la domanda aggregata.

Verifichiamo perché l’offerta aggregata di lungo periodo sia disegnata come una retta

verticale e, di conseguenza, uno spostamento della domanda aggregata porti unicamente a

un aumento del tasso di inflazione, lasciando PIL e occupazione immutati.

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Supponiamo che, ogni volta che cambiano i salari, le imprese possano reagire

immediatamente, variando i prezzi in modo da mantenere invariato il loro margine di

profitto. Supponiamo altresì che i salariati possano rinegoziare il loro contratto in

qualsiasi momento, sulla base di prezzi e occupazione correnti. In queste condizioni, un

aumento del tasso di inflazione non avrà alcun effetto su salari reali, occupazione e PIL.

In effetti, ammettiamo che il tasso di inflazione sia uguale al 3% (= (103-100)/100), e che

al livello di occupazione L1, i salariati richiedano un salario reale mensile w1 (= W1/P1)

di 1 000 E (=103 000/103). Se ora, per una qualsiasi ragione, il tasso di inflazione

divenisse uguale al 6% (= (106-100)/100; per semplicità, calcoliamo il tasso di inflazione

relativamente a un periodo base fisso), e se i salariati potessero immediatamente reagire

al nuovo tasso di inflazione (e ai nuovi prezzi), dalla curva dei salari sappiamo che essi

richiederebbero un salario reale (W2/P2) che sarebbe sempre uguale al valore precedente

e coerente col livello (costante) di occupazione L1. Attraverso la funzione di produzione,

a L1 corrisponderebbe un immutato PIL (= Y1).

Dunque, se la curva di domanda aggregata si sposta da D1 a D2, ciò non avrà altra

conseguenza che l’aumento del tasso di inflazione.

Peraltro, non sembra appropriato supporre che, ogni volta che cambiano i salari, le

imprese possano reagire immediatamente; ancora meno sembra lecito ipotizzare che i

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salariati possano rinegoziare il loro contratto in qualsiasi momento, sulla base di prezzi e

occupazione correnti. Effettivamente, in realtà né imprese né lavoratori possono

rinegoziare continuamente prezzi e salari, e questo avrà l’effetto di sganciare, almeno

temporaneamente, PIL e occupazione dai loro livelli di lungo periodo. Pertanto, nel

cosiddetto breve periodo, PIL e occupazione possono assumere valori diversi da quelli

implicati dall’equilibrio qui sopra descritto.

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35

La curva di Phillips

La Curva di Phillips è una relazione inversa tra il tasso di inflazione e il tasso di

disoccupazione. Essa afferma che un aumento della disoccupazione risulta correlato a un

relativo decremento del saggio dei prezzi.

L’economista neozelandese, nel 1958, osservò una relazione inversa tra le variazioni dei

salari monetari nell’economia britannica nel periodo preso in esame. Analoghe relazioni

vennero presto osservate anche in altri paesi e, nel 1960, Paul Samuelson e Robert Solow,

a partire dal lavoro di Phillips, proposero un’esplicita relazione tra inflazione e

disoccupazione: allorché l’inflazione era elevata, la disoccupazione era modesta, e

viceversa. Secondo Solow, la società può permettersi un saggio di inflazione meno

elevato, o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di

disoccupazione.

Gli shock di domanda

Come spesso ipotizzato, se si potessero aggiustare continuamente prezzi e salari, PIL e

occupazione sarebbero continuamente uguali ai loro livelli di lungo periodo, poiché

nessun altro livello potrebbe conciliare i salari reali richiesti da imprese e lavoratori.

Effettivamente, però, né imprese né lavoratori possono rinegoziare continuamente prezzi

e salari, e questo avrà l’effetto di sganciare, almeno temporaneamente, PIL e occupazione

dai loro livelli di lungo periodo. Nel breve periodo, ci si attende quindi che PIL e

occupazione possano assumere valori diversi da quelli di lungo periodo. In questo caso,

di fronte a spostamenti della domanda aggregata, si verrà quindi a creare, almeno

temporaneamente, una relazione diretta tra tasso di inflazione e livelli di PIL e

occupazione.

Se si verificano spostamenti della curva di domanda aggregata non attesi dagli agenti

economici, e segnatamente dai salariati, essi produrranno uno scarto tra inflazione

corrente e inflazione attesa, e porteranno PIL e occupazione sopra i loro livelli di lungo

periodo. Definiamo questi spostamenti come degli shock di domanda. Si tratta di

fenomeni che colpiscono l’economia all’improvviso, portandola per l'appunto al di fuori

della situazione di equilibrio di lungo periodo. Gradualmente, il processo di

aggiustamento di prezzi e salari porterà inflazione corrente e inflazione attesa

nuovamente allo stesso livello, e, come si dice, l’economia avrà assorbito lo shock di

domanda, tornando alla situazione di lungo periodo. Nella nostra analisi, gli shock di

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36

domanda hanno effetti temporanei su PIL, occupazione e disoccupazione, mentre avranno

effetti permanenti sul tasso di inflazione.

Nel breve periodo, sino a che i salari reagiscono solo parzialmente allo spostamento verso

l’esterno della domanda aggregata, quest’ultimo causa un aumento dell’inflazione, ma

anche una variazione positiva di PIL e occupazione. A mano a mano che l’aggiustamento

dei salari diventa sempre più completo (e cioè, mano a mano che ci avviciniamo

all’equilibrio di lungo periodo), tuttavia, gli effetti dello spostamento della domanda

aggregata su PIL e occupazione diventano sempre più deboli, fino ad attenuarsi

completamente. Diventa sempre più forte l’effetto sull’inflazione, che sarà infine uguale

allo spostamento della domanda aggregata.

Ma un intervento di politica economica si configura sempre come uno shock? Non

necessariamente! Vi sono alcuni economisti che ritengono che le aspettative di inflazione

non siano legate in modo supino alla storia passata dell’inflazione, ma possano

incorporare molto rapidamente informazione considerata sufficientemente credibile.

Supponiamo ora che le autorità di politica monetaria annuncino nel periodo 0 (zero) che,

allo scopo di ridurre il tasso di inflazione, intendano ridurre la domanda aggregata nel

periodo 1. Se questo annuncio viene ritenuto credibile, e se i contratti salariali sono

sufficientemente sincronizzati, l’economia si adatta immediatamente a un nuovo

equilibrio di lungo periodo, con un tasso di inflazione più basso e PIL e occupazione

immutati.

Gli shock di offerta

Abbastanza diverso è il caso dei cosiddetti shock di offerta, spostamenti non attesi della

curva di offerta aggregata di lungo periodo. Si tratta di fenomeni che fanno variare il

valore di X, la produttività del lavoro, di (1 + θ), il termine di mark-up, o Z, l’insieme di

fattori che, per livello di prezzi e tasso di occupazione dati, influenza il salario richiesto

dai lavoratori.

Verifichiamo ora la produttività del lavoro e il termine di mark-up.

Consideriamo la possibilità che, a causa di una variazione nei prezzi delle materie prime,

dell’energia, dei prodotti e servizi intermedi utilizzati nella produzione, o nei costi fissi

delle imprese, cambi il termine di mark-up. Vediamo qui sotto che succede se cresce il

prezzo del petrolio, il termine di mark-up pure aumenta, e quindi diminuisce il salario

reale di equilibrio.

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37

In pratica si vengono a determinare nuovi livelli di equilibrio di lungo periodo per PIL e

occupazione, che descriviamo graficamente mediante una nuova curva di offerta

aggregata di lungo periodo, S2. Nel breve periodo, uno shock di offerta farà sì che

l’occupazione sia superiore al (nuovo) livello di lungo periodo. Prezzi e salari saliranno,

sino a che l’economia si attesterà di nuovo su livelli più bassi di PIL e occupazione, e più

alti per salari, prezzi e tasso di inflazione. Nel caso dello shock di offerta, il breve periodo

è caratterizzato da variazioni di senso inverso per le variabili di quantità e di prezzo.

A parte il fatto che il breve periodo è caratterizzato da variazioni di senso inverso per le

variabili di quantità e di prezzo, non sarà sfuggita un’altra importante caratteristica degli

shock di offerta. Mentre gli shock di domanda inducono cambiamenti temporanei in PIL

e occupazione, gli shock di offerta hanno effetti permanenti (di lungo periodo). È questa

effettivamente una caratteristica reale degli shock di offerta? La risposta dipenderà in

gran parte da quello che accade all’insieme di fattori raccolti sotto il termine Z, che, per

livello di prezzi e tasso di occupazione dati, influenzano il salario richiesto dai lavoratori.

La curva di Phillips nel breve e nel lungo periodo

Abbiamo visto come nel breve periodo, sino a che i salari reagiscono solo parzialmente

allo spostamento verso l’esterno della domanda aggregata, quest’ultimo causa un

aumento dell’inflazione, ma anche una variazione positiva di PIL e occupazione. Quanto

più grande è lo scarto tra inflazione effettiva e inflazione attesa, tanto più PIL e

occupazione si troveranno al disopra dei loro livelli di lungo periodo, che comunque

raggiungeranno quando inflazione attesa ed effettiva coincideranno di nuovo alla fine del

processo di aggiustamento. Dunque, la relazione di breve periodo tra spostamento della

domanda aggregata e variazione dell’occupazione implica per le autorità di politica

economica una scelta assai delicata. Esse possono decidere di far diminuire il tasso di

disoccupazione sotto al livello di lungo periodo solo se riescono a mantenere il tasso di

inflazione al di sopra del livello atteso dai salariati (e anche così, come vedremo, non è

detto che riescano nel loro intento). Oppure, possono fare scendere il tasso di inflazione

solo facendo salire, almeno temporaneamente, la disoccupazione al disopra del livello di

lungo periodo. Insomma, per un dato tasso di inflazione atteso, le autorità di politica

economica devono barattare una diminuzione del tasso di disoccupazione con un aumento

del tasso di inflazione. Parimenti, se vogliono un tasso di inflazione minore, le autorità

dovranno accettare un aumento, almeno temporaneo, del tasso di disoccupazione. Questo

scambio, o, come dicono gli economisti, questo trade-off, è forse la relazione funzionale

più famosa della macroeconomia, ed è chiamato la curva di Phillips.

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Vi è una strettissima relazione tra la curva di Phillips e le curve di offerta aggregata, sia di

breve che di lungo periodo: se l’inflazione corrente è maggiore dell’inflazione attesa, il

tasso di disoccupazione (del periodo precedente) sarà minore del tasso di disoccupazione

di lungo periodo, e viceversa. Parallelamente, a livelli di PIL e occupazione sopra ai loro

livelli di lungo periodo corrisponderanno tassi di disoccupazione inferiori ai loro livelli di

lungo periodo. Questa è una conclusione da tenere bene a mente, poiché nel prosieguo del

capitolo ragioneremo indifferentemente nei termini dell’uno o l’altro aspetto della

situazione.

Come è evidente dalla sua formula, la curva di Phillips, nel breve periodo, dipende dal

tasso di inflazione atteso. Avremo tante curve di Phillips di breve periodo quanti sono i

valori assunti dal tasso di inflazione atteso. Quando poi tasso di inflazione corrente e

atteso si equivarranno, allora, come la curva di offerta aggregata, la curva di Phillips di

lungo periodo sarà una retta verticale; il tasso di disoccupazione sarà fissato dal suo

valore di lungo periodo.

Le curve di Phillips di breve periodo si spostano verso l’alto mano a mano che aumenta il

tasso di inflazione atteso. Se Πt = Πet, staremo su una curva di Phillips di lungo periodo:

una retta verticale in corrispondenza di u*.

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39

IV. RIDUZIONE DELLA DISOCUPAZIONE

Per analizzare l’influenza sulla disoccupazione di istituzioni e politiche dal lato

dell’offerta è opportuno esaminare in dettaglio la determinazione dell’offerta aggregata di

lungo periodo. I fattori che determinano gli spostamenti di quest’ultima saranno infatti

alla base non solo della rilevanza di particolari configurazioni dell’offerta aggregata per il

lungo periodo, ma anche per gli shock di offerta.

Nel lungo periodo (caratterizzato dall’uguaglianza dei tassi di inflazione corrente e attesa)

la curva di offerta aggregata è una retta verticale, e le variazioni del PIL e

dell’occupazione (e, per una dato livello della popolazione attiva, della disoccupazione)

dipenderanno solamente dagli spostamenti delle curve di prezzo e di salario. Studieremo

quindi in dettaglio la determinazione di queste curve, utilizzando una semplicissima

formulazione log-lineare. Ciò allo scopo di meglio comprendere la natura degli shock di

offerta, e la rilevanza dei fenomeni come la politica dei redditi o il potere contrattuale dei

sindacati. Ancora, in questa maniera potremo comprendere meglio l’importanza della

pendenza della curva dei salari per la determinazione dell’equilibrio di lungo periodo.

Cominciamo riformulando la curva dei salari che abbiamo già scritto come:

W/P = f (L/F, Z)

Se scegliamo ora un’espressione log-lineare per questa funzione, possiamo scrivere:

wt - ct = - (1 – β1) (ct - pt) + β2 (lt - ft) -β2 ZLt + β3 Dt + Zwt

Tutte le variabili in caratteri minuscoli sono logaritmi naturali: wt è il salario nominale, ct

sono i prezzi al consumo, pt il deflattore del PIL, nt l’occupazione, lt la popolazione attiva,

Dt il tasso di imposizione diretta, ZLt un insieme di variabili che, per un dato livello di ft,

possono influenzare l’offerta di lavoro (le più importanti sono la relazione tra sussidi di

disoccupazione e reddito dei lavoratori), la durata dei sussidi di disoccupazione, il

disequilibrio tra domande e offerte settoriali del lavoro), e Zwt un insieme di variabili che

rappresentano il salario reale desiderato dai lavoratori (si tratta di fattori connessi con la

produttività del lavoro, il tasso di sindacalizzazione, i costi di licenziamento).

Un’ipotesi nuova e importante dell’espressione scritta qui sopra è che i prezzi al consumo

siano solitamente più alti del deflattore del PIL, e che i lavoratori sono interessati a

condizionare il loro salario ai prezzi al consumo (ai quali effettuano i loro acquisti). Per le

imprese vige naturalmente un incentivo contrario. Quindi β1 misura la cosiddetta

resistenza del salario reale da parte dei lavoratori. Lo stesso può dirsi di β3, che misura la

resistenza dei lavoratori a variazioni nel tasso di imposizione diretta. Il parametro β2

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rappresenta la relazione tra il tasso di occupazione (lt - ft) e il potere contrattuale dei

lavoratori. Lo stesso parametro rappresenta la relazione tra il salario reale e i fattori ZLt

che, per un dato livello di ft, influenzano l’offerta di lavoro.

Volendo rappresentare la curva dei salari nel quadrante W/P – L, tutto ciò che cambia

nella funzione precedente è la struttura del termine di resistenza del salario reale:

wt - pt = + β1 (ct - pt) + β2 (lt - ft) -β2 ZLt + β3 Dt + Zwt

Una discrepanza tra prezzi al consumo e deflattore del PIL, se vi è resistenza del salario

reale, implica in questa formulazione uno spostamento verso l’alto della curva dei salari

(nel quadrante W/P – L).

Consideriamo adesso una rappresentazione log-lineare per la curva dei prezzi:

W/P = ( 1+ θ )

In questo caso i salari reali sono influenzati, mediante il margine (1 + θ), dai prezzi

relativi delle materie prime e dell’energia, (rpt - pt), mentre γ0 raccoglie gli effetti di

produttività del lavoro, potere di monopolio, e altri fattori non competitivi

wt - pt = γ0 -γ1 (rpt - pt)

Per determinare il livello di occupazione di lungo periodo ci serve ancora una funzione

per spiegare la differenza tra prezzi al consumo e deflattore del PIL. Molto

semplicemente, supponiamo che:

ct - pt = It + Kt

dove It è il tasso di imposizione indiretta, e Kt un insieme di fattori residui (prezzi delle

importazioni, etc.).

Sostituendo questa funzione nelle curve di prezzo e di salario e uguagliando le due

funzioni risultanti, otteniamo:

β2 (lt - ft) = – β1 (It + Kt) + β2 ZLt -β3 Dt -γ0 -γ1 (rpt - pt) - Zwt

In tal modo si determina il livello di occupazione di lungo periodo. Mediante la funzione

di produzione, a questo livello di occupazione di lungo periodo corrisponde un livello del

PIL di lungo periodo.

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Questo quadro analitico ci permette di rappresentare vari fenomeni mediante spostamenti

della curva dei prezzi (CP) e dei salari (CW) nel quadrante W/P - L:

• un aumento dei prezzi delle materie prime: CP scende;

• un aumento del gap tra prezzi al consumo e deflattore del PIL: CW sale;

• un aumento del disequilibrio tra domande e offerte settoriali di lavoro: ZLt si

riduce e CW sale.

In tutti questi esempi, PIL e occupazione di lungo periodo si riducono sempre. Se i

fenomeni considerati avranno segno contrario, avremo invece nel lungo periodo un

aumento di occupazione e PIL. Si noti poi che quando (per esempio) aumenta la

produttività del lavoro, γ0 cresce, ma Zwt pure aumenta (poiché aumenta il salario reale

desiderato dai lavoratori): perciò sia CP che CW si spostano verso l’alto. L’effetto finale

su PIL e occupazione di lungo periodo è incerto, ma probabilmente abbastanza debole in

ogni caso.

Possiamo ora fare un’osservazione molto importante: i fattori raccolti sotto Zwt

rappresentano il potere contrattuale dei lavoratori per un dato livello di (lt - ft). In termini

geometrici, valori diversi assunti da Zwt fanno variare il termine costante della curva dei

salari. Al contrario, la relazione tra valori diversi di (lt - ft) e il potere contrattuale dei

lavoratori determina la pendenza della curva dei salari, β2.

Consideriamo adesso una versione semplificata della formula che determina il tasso di

occupazione di lungo periodo, dove Φ raccoglie tutti i termini che fanno variare il termine

costante di CW e CP:

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β2 (lt - ft) = Φ.

Avremo quindi: (lt - ft) = Φ /β2

La relazione tra variazioni di Φ e variazioni di (lt - ft) è determinata dal parametro β2.

Quanto più grande è questo parametro, tanto meno le variazioni dei termini raccolti sotto

Φ si ripercuoteranno su (lt - ft) (c’è un’eccezione per le variazioni di ZLt, che si

ripercuoteranno su PIL e occupazione di lungo periodo sempre in modo uguale per

qualsiasi livello di β2). Vediamo due esempi.

Quanto più grande è β2, tanto più una variazione di (lt - ft) influisce sul potere contrattuale

dei lavoratori, e tanto più inclinata sarà CW, e tanto meno uno spostamento uguale di CP

o CW influisce su (lt - ft). Effettivamente, è pure possibile mostrare che quanto più grande

è β2, tanto più rapido è l’aggiustamento di salari e prezzi a shock di domanda.

Possiamo ora capire meglio la natura delle politiche dal lato dell’offerta. Esempi di

politiche dal lato dell’offerta comprendono:

• una politica di difesa della concorrenza: il termine γ0 si riduce e CP scende;

• una diminuzione del carico fiscale sui lavoratori: il termine Dt si riduce e CW

scende;

• l’introduzione di politiche attive del lavoro (facilitando soprattutto i processi di

riallocazione settoriale del lavoro): il termine ZLt si riduce e CW scende;

• una politica di razionalizzazione del settore del commercio: il gap tra prezzi al

consumo e deflattore del PIL diminuisce e CW scende;

• una politica di riforma dei contratti di lavoro tesa a ridurre i costi di

licenziamento: il termine Zwt si riduce e CW scende.

In tutti questi esempi, PIL e occupazione di lungo periodo aumentano. Si noti invece che

una politica di sostegno all’innovazione tecnica (che porti a un aumento della produttività

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del lavoro), per quanto desiderabile sotto vari aspetti, non dovrebbe avere grandi risultati

sul tasso di inflazione nel lungo periodo. Come già visto sopra, sia γ0 che Zwt crescono,

rendendo molto incerto ogni esito di lungo periodo per PIL e inflazione. Certamente,

diverso sarebbe il caso in cui la produttività del lavoro aumentasse e una politica dei

redditi o di concertazione della negoziazione salariale portasse a un aumento meno che

proporzionale del termine Zwt. In questo caso CW scenderebbe relativamente a CP, PIL e

occupazione di lungo periodo aumentano. Una politica dei redditi o di concertazione della

negoziazione salariale potrebbe avere valenza positiva pure per ciò che riguarda il breve

periodo. Se per esempio un’economia che sta sperimentando uno stabile tasso di

inflazione del 10% lo volesse ridurre al 3% (magari per entrare a far parte dell’UE),

normalmente essa dovrà passare attraverso una fase di ridotto livello di attività, per alzare

la disoccupazione e ridurre tassi corrente e atteso di inflazione nella misura desiderata.

Abbiamo già visto parlando della Curva di Phillips che non vi sarebbe bisogno di questo

aumento della disoccupazione, se le autorità di politica economica annunciassero

anticipatamente e in modo credibile la riduzione della domanda aggregata. Ma esse

potrebbero raggiungere lo stesso scopo se, mediante una politica dei redditi, imponessero

un tetto del 3% per tutti gli aumenti salariali. Ciò avrebbe l’effetto di ridurre in modo

rapido e generalizzato il tasso di aumento di prezzi e salari, rendendo superfluo il ruolo di

una riduzione del livello di attività. È evidente che in questo caso la politica dei redditi

otterrebbe una stabile riduzione del tasso di inflazione, solo se accompagnata da

un’appropriata politica dal lato della domanda. Essa sortirebbe comunque l’effetto di

rendere questa politica più rapida ed efficace. In assenza di una riduzione della domanda,

l’applicazione di una politica dei redditi verrebbe a creare le condizioni per un boom

dell’attività economica, che rafforzerebbe di molto il potere contrattuale dei sindacati e

renderebbe insostenibile a medio-lungo termine ogni politica di controllo salariale.

Secondo alcuni economisti sarebbero state proprio politiche contraddittorie di questo tipo

a decretare nel passato l’insuccesso di politiche dei redditi. Peraltro, vi è da dire che

sarebbe problematico continuare indefinitamente a pretendere che tutti i salari salgano

allo stesso modo, poiché la produttività del lavoro cresce in modo assai diversificato da

settore a settore, e di questo gli aumenti salariali devono tenere conto. Di qui la necessità

di trasformare la politica dei redditi in una più flessibile politica di concertazione della

negoziazione salariale.

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44

V. POLITICHE DEL LAVORO

La situazione di fondo

Il problema europeo della disoccupazione, secondo Blanchard (Economic Policy, 2006),

in una sua interessante e rappresentativa analisi, è dovuto a:

1. Shock negativi dal lato dell’offerta negli anni 70

• Shock petroliferi: il costo dei fattori produttivi importato aumenta, il salario reale

adeguato aumenta, l’occupazione diminuisce.

• Rallentamento della produttività totale dei fattori produttivi: se profitti e salari

non scendono, il salario reale cresce troppo, diminuiscono occupazione, profitti,

investimenti, l’economia rallenta

• Aumento del tasso di interesse reale: negli anni ottanta da negativo diventa

positivo, rallentano gli investimenti

• Mutamenti tecnologici: da tecnologia ad alta intensità di lavoro ad alta intensità

di capitale (skill-biased).

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45

Mutamenti istituzionali

Per ciò che riguarda questi ultimi, l’analisi di Blanchard riprende abbastanza da vicino il

cosiddetto OECD Consensus (proveniente dall’OECD Job Study 1994).

La tesi di fondo sostiene che uno shock esogeno dell’offerta crea un gap tra il livello di

occupazione di equilibrio e quello effettivo. Tale gap non può essere colmato nel breve

periodo quando siamo in presenza di un lento di aggiustamento di prezzi e salari a causa

dell'esistenza di varie forme di rigidità. In Europa queste sono dovute alle rigidità

istituzionali del mercato del lavoro.

Le implicazioni di policy previste sono: (a) identificare le istituzioni, le regole formali o

informali, oltre che le politiche, che contribuiscono a determinare questa sclerosi; (b)

introdurre delle modifiche istituzionali, orientate ad una maggiore flessibilità. In

conclusione: la strategia di intervento proposta è una generalizzata deregolamentazione

del mercato del lavoro.

I fattori istituzionali che rendono rigidi i salari e i prezzi secondo l’OECD Consensus

sono: l’assetto della contrattazione; la regolamentazione del mercato del lavoro; il livello

dei sussidi alla disoccupazione; il cuneo fiscale.

1 - L’assetto della contrattazione

Due modelli di contrattazione: decentrato vs centralizzato, entrambi con performance

positive sul mercato del lavoro. Nel primo caso è il vincolo della concorrenza che

costringe i sindacati a moderare le richieste salariali: le imprese che subiscono di più il

potere sindacale, infatti, sarebbero costrette a scaricare sull’occupazione gli alti costi

relativi del lavoro. Nel secondo caso sono i vincoli macroeconomici: le banche centrali, in

assenza di moderazione salariale, sarebbero costrette a adottare politiche monetarie

restrittive, per contrastare le spinte inflazionistiche che nascessero da salari troppo elevati,

e ad aumentare la pressione fiscale, per finanziare i maggiori sussidi di disoccupazione

che si dovrebbero pagare per effetto di tali politiche.

Le peggiori performance in termini di occupazione avvengono allorquando la

contrattazione viene condotta a un livello intermedio, per esempio per settore o industria.

In questo caso, infatti, vengono esaltati il potere insider dei lavoratori e gli effetti

imitativi al rialzo tra i sindacati nei diversi settori. Pertanto, vengono meno sia le spinte

alla moderazione salariale che la concorrenza impone alle singole imprese sia la capacità

di internalizzare i vincoli macroeconomici della contrattazione centralizzata.

Un ulteriore elemento, introdotto nel dibattito sulla contrattazione è rappresentato dal

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grado di coordinamento tra sindacati e tra imprese che permette a molti paesi di avere

buone performance positive pur avendo un grado di contrattazione intermedia.

Peraltro, la posizione dell’OECD Consensus è nettamente a favore della contrattazione

decentrata.

2- La regolamentazione del mercato del lavoro

Sistema di protezione sociale introdotto negli anni sessanta e settanta con lo scopo di

rendere il lavoro più “sicuro” dal punto di vista della salute fisica e della sicurezza

economica, per rendere più stabili i rapporti di lavoro con le aziende e per internalizzare i

costi di assunzione, di licenziamento e di qualificazione.

• La regolamentazione dell’orario di lavoro, ovvero la legislazione o gli accordi

sindacali che pongono vincoli sull’orario massimo di ore lavorate per settimana, sul

numero minimo di giorni di ferie, sul lavoro notturno o nei giorni feriali e festivi.

• La legislazione a protezione dell’occupazione, la quale pone limiti ai

licenziamenti.

• La limitazione dei contratti di lavoro a part-time o a tempo limitato.

Tutti e tre questi elementi farebbero aumentare la disoccupazione in quanto

disincentiverebbero in sostanza le assunzioni.

La determinazione di salari minimi, la quale può essere estesa anche a coloro che non

sono sindacalizzati o che non rientrano in altro modo (leggi erga omnes) negli accordi

sindacali, facendone aumentare il costo salariale.

Secondo la visione dell’OECD Consensus, la regolamentazione contrattuale limita

L’adattabilità e l’aggiustamento del mercato del lavoro alle variazioni delle condizioni

economiche delle imprese e dell’economia in generale. In sostanza per rendere più

“sicuro” il lavoro si punta ad un obiettivo immediato, la protezione di chi è già occupato,

mentre, al contrario, non si colgono le implicazioni di lungo periodo che conducono ad

una riduzione della domanda di lavoro a sfavore dei lavoratori più svantaggiati -giovani-

o, quanto meno, a sviluppare forme contrattuali atipiche – contratti temporanei, part-time,

ecc. – al fine di rendere più flessibile l’occupazione.

3- I sussidi al reddito

Un’altra caratteristica del sistema di welfare introdotto negli anni sessanta e settanta è

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rappresentata dall’espansione dei sussidi al reddito – inizialmente previsti solo per gli

anziani o gli inabili e progressivamente estesi anche alle persone in condizione di

lavorare.

(a) Un sussidio a copertura di un reddito minimo garantito che può essere fornito per un

periodo più o meno lungo e indipendentemente dal reddito precedentemente percepito;

(b) Un sussidio per chi ha perso improvvisamente il lavoro, i disoccupati, che in genere è

a tempo determinato e legato al reddito da lavoro svolto in precedenza.

Il sussidio alla disoccupazione in teoria dovrebbe facilitare la ricerca del lavoro,

incentivare la mobilità e ridurre il rischio; così come i sussidi in genere riducono le

disparità tra redditi, migliorando quelli di coloro che per vari motivi vengono esclusi dal

mercato del lavoro. Tuttavia queste misure insieme ad altre, come per esempio i salari

minimi garantiti per legge, contribuiscono in sostanza ad aumentare il salario di riserva e

ciò ha vari effetti negativi sulla performance economica. Infatti, nella misura in cui esse

abbassano il costo della disoccupazione per chi è senza lavoro, viene meno l'incentivo

della ricerca del lavoro, aumenta la sua durata, determinando in ultima analisi un aumento

medio della disoccupazione. Inoltre, dal lato dell'offerta vi è una minore tendenza ad

accettare lavori a bassi salari e con basse qualifiche, così come dal lato delle imprese vi è

una tendenza a ridurre la domanda di questo tipo di lavori e si incoraggia la sostituzione

di lavoratori permanenti con lavoratori temporanei. Infine per finanziare questo sistema di

welfare basato sui trasferimenti si rende necessaria un’elevata pressione fiscale a carico

sia delle imprese che di coloro che sono occupati, con ulteriori effetti discorsivi.

4 - Il cuneo fiscale

Nella maggior parte dei paesi europei negli anni settanta e ottanta si è avuta una crescita

del carico fiscale con conseguenze negative sull’occupazione.

Il cuneo fiscale è costituito da tre elementi: le tasse sul reddito, i contributi sociali – sia

a carico dei lavoratori che delle imprese – e le tasse indirette sui beni di consumo.

Mentre la composizione relativa del cuneo fiscale non sembra avere effetti significativi

sull’occupazione aggregata e sulla produzione, il suo livello, invece, nel caso di

concorrenza imperfetta, contribuendo ad innalzare il costo del lavoro e a determinare

l’incentivo al lavoro, influenza non solo la domanda di lavoro ma aumenta anche la

conflittualità salariale e la resistenza alle riduzioni salariali.

L’alto costo del lavoro è anche responsabile, secondo l’OECD Consensus, della riduzione

dell’area dell’occupazione formale e la crescita dell’economia sommersa e può spiegare

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anche il basso tasso di partecipazione in Europa e l’alto tasso di occupazione nelle piccole

aziende.

La necessità di finanziare un sistema di sicurezza sociale sempre più ampio e generoso

ha, infatti, accresciuto il cuneo fiscale tra il salario effettivamente disponibile per il

consumo -il potere d’acquisto salariale al netto delle tasse-, che rappresenta l’indicatore

dell’incentivo al lavoro da parte dei lavoratori, e il costo del lavoro pagato

dall’imprenditore.

Le politiche europee

La strategia europea per l’occupazione (SEO)

1. Trattato di Amsterdam - Consiglio di Lussemburgo (1997)

La strategia di policy si focalizza sostanzialmente su alcune frammentate linee di

intervento “di minima resistenza”. Le linee guida, infatti, ruotavano intorno a quattro

pilastri: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità e pari opportunità.

Sembra in sostanza prevalere la preoccupazione, in un’ottica tipicamente liberista, di far

sì che nel mercato del lavoro si determino situazioni di pari opportunità, ovvero che i

gruppi più svantaggiati (giovani, disoccupati di lungo periodo, donne, disabili) abbiano la

possibilità di aumentare le loro chance di essere occupati e di permettere l’espansione

delle piccole imprese e dell’imprenditorialità diffusa.

Non si affronta pienamente il problema delle riforme strutturali.

Inizio: dalla seconda metà 90. Strategia con punti in comune con l’Oecd consensus,

anche se più timida perché in Europa vi erano ancora forti resistenze verso politiche

strutturali di flessibilità per gli effetti avversi sulla distribuzione del reddito e per il timore

di diminuire la coesione sociale e intaccarre il “core” del welfare state.

Caratteristiche istituzionali della strategia: la Commissione europea non si occupa

direttamente delle politiche del lavoro ma, una volta individuate alcune linee generali che

determinano anche l’ammissibilità ai finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, demanda

ai singoli paesi l’onere di procedere alla riforma strutturale delle istituzioni che regolano

il funzionamento del mercato del lavoro. La Commissione ha, quindi, il compito di

verificare annualmente ex-post lo stato d’attuazione dei programmi individuati nei Piani

d’Azione Nazionali. L’impostazione di policy adottata costituisce in sostanza il primo

esempio del cosiddetto “Metodo di coordinamento aperto”.

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Commento finale: non fornisce adeguate indicazioni sui settori produttivi che potessero

avere potenzialità di fare ripartire l’economia europea e, per questa via, accrescere

l’occupazione. In sintesi, la strategia al suo nascere non sembra riuscire a dare risposte

adeguate a risolvere l’elevata disoccupazione europea, né nel suo complesso né rispetto

alle specifiche realtà dei singoli Paesi.

2. Lisbona 2000

Il processo di Lisbona attua un profondo cambiamento della strategia per l’occupazione.

L’Europa deve diventare “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e

dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi

e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.

Nel documento della Commissione Europea “Linee di orientamento per le politiche per

l’occupazione per il triennio 2005-2008” il Consiglio Europeo ha ravvisato la necessità di

rilanciare la strategia di Lisbona e di ridefinire le priorità di intervento.

Il primo set di politiche è costituito da quelle che fanno sì che sia possibile attrarre più

persone nel mercato del lavoro e che vi possano rimanere.

Il secondo set di politiche riguarda quelle che puntano ad un alto livello di protezione

sociale.

Il terzo set di politiche si pone il raggiungimento delle pari opportunità

Da ultimo, in continuità con il processo fin qui ricostruito, la nuova Agenda sociale

introduce tre nuove “condizioni di successo” quali indicazioni per il futuro del modello

sociale europeo: l’attivazione di un partenariato intergenerazionale e di un partenariato

per il cambiamento nonché l’impatto del commercio estero sulla competitività.

La piena occupazione non può essere solamente raggiunta attraverso obiettivi quantitativi,

ma anche e soprattutto attraverso la promozione della “qualità” del lavoro. E’solo

combinando la flessibilità con la sicurezza che diventa pensabile e perseguibile, quindi,

che un nuovo modello sociale possa svilupparsi e adattarsi ai rapidi cambiamenti indotti

dal nuovo modello di sviluppo economico.

Pari opportunità: e cioè, accanto all’ottica consueta di genere, definisce misure per

combattere le varie forme di discriminazione e per integrare soggetti portatori di

disabilità.

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Conclusioni

La strategia sembra differenziarsi molto da quella proposta dall’OECD - anche rispetto al

nuovo reassessment.

Perché a più di un quinquennio stenta a prendere forma?

a) Perché è basata su un livello istituzionale che applica una regolamentazione soft.

b) I singoli paesi, tra cui l’Italia e gli altri paesi “intermedi”, sono stati molto più attratti

(da Ocse, FMI, ecc.) dalle prescrizioni dell’OECD Consensus circa le riforme strutturali.

Il caso italiano

Le nuove politiche del lavoro hanno modificato il loro target spostandosi dai soggetti

disoccupati agli occupati. In particolare, le politiche del making work pay anziché fornire

sussidi a chi non lavora, mirano a concedere trasferimenti solo a chi accetta un lavoro

anche in impieghi a bassa produttività. Lo spirito di queste politiche consiste pertanto

nell’evitare che si crei disoccupazione di attesa e nel favorire l’entrata nel mercato del

lavoro allo scopo di limitare l’obsolescenza del capitale umano e la perdita delle

caratteristiche di “impiegabilità” dei disoccupati a causa del protrarsi della durata della

disoccupazione. L’evidenza empirica sembra indicare che tali politiche contribuiscono ad

aumentare l’occupazione senza alimentare le disuguaglianze sociali e la costituzione di

una classe lavorativa con retribuzioni al di sotto della soglia di povertà favorendo, inoltre,

la mobilità sociale.

Con riferimento al caso italiano è stato proposto da qualche anno un indirizzo di politica

del lavoro denominato “welfare-to-work”. Questa strategia ha origine nella necessità di

introdurre dei meccanismi che facilitino la partecipazione individuale al mercato del

lavoro, favoriscano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e rendano possibile

un’ampia convergenza dei livelli produttivi e occupazionali territoriali senza ricorrere a

un sistema di sussidi di lungo termine. E’ noto come il modello adottato negli USA per

raggiungere elevati obiettivi occupazionali, basato sull’assenza di una rete di protezione

sociale, lascia spazio all’emergere di disuguaglianze e criminalità. Al contrario, la

strategia perseguita dal modello in esame, attraverso la combinazione di politiche attive e

passive, dovrebbe condurre alla riduzione del tasso di disoccupazione aggregato e al

livellamento dei differenziali regionali e delle disuguaglianze.

All’interno di tale approccio emerge la possibilità di decentralizzare la contrattazione

salariale. La riforma dei modelli di contrattazione rappresenta uno dei principali temi del

dibattito sulle riforme istituzionali adeguate a migliorare l’efficienza del mercato del

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lavoro. In Europa, tale dibattito riveste un ruolo particolarmente di rilievo anche alla luce

del processo di integrazione sui mercati nazionali. La domanda decisiva in tale ambito è

se un sistema contrattuale decentrato, agendo sulla relazione tra salari e condizioni del

mercato del lavoro locale, potrebbe migliorare i livelli occupazionali e ridurre i

differenziali regionali. Un altro tema rilevante è quello della mobilità regionale del

lavoro. Nell’intento di consentire il maggior numero possibile di accessi all’occupazione

e di limitare la durata dell’occupazione è evidente che le politiche di incoraggiamento alla

mobilità regionale rappresentano uno strumento rilevante. Sappiamo che nell’ultimo

decennio i flussi migratori interregionali in Europa si sono sensibilmente ridotti pur in

presenza di un aumento dei divari regionali e della disoccupazione di lunga durata. Alla

luce dei costi economici e sociali causati da questi fenomeni e dell’introduzione della

moneta unica è auspicabile l’incentivazione della mobilità del lavoro.