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Capitolo 14 LA CANZONE D’AUTORE 149 Capitolo 14 LA CANZONE D’AUTORE 1. UN «GENERE MINORE» Per anni la cultura ufficiale, soprattutto in Italia, ha nutrito forti pregiudizi nei confronti della canzone, considerata, a torto, un genere minore. Ciò si deve all’angustia di vedute riscontrabile negli ambienti accademici che si ostinano ancora a identificare la cultu- ra subalterna (di cui la canzone è senz’altro figlia) con un genere di cultura inferiore. Non è che la canzone sia rigorosamente di derivazione popolare. Nel XVI e nel XVII secolo hanno scritto canzoni alcuni tra i più autorevoli rappresentanti della cultu- ra ufficiale; si trattava comunque di composizioni di carattere profano, prevalente- mente riguardanti temi amorosi o comunque non «alti» secondo la cultura del tem- po. In alcuni casi la canzone aveva carattere dichiaratamente frivolo e scherzoso e tanto bastava perché fosse appunto considerata un genere di valore artistico più modesto e comunque legato ad una fruizione popolare. Ritornando alle ragioni che (fino a qualche tempo fa) ancora impedivano alla cultura ac- cademica di riconoscere alla canzone il suo valore, bisogna citarne almeno altre due: la prima, poco condivisibile come quella di cui s’è detto precedentemente, è che alla can- zone sono estranee le grandi architetture formali della musica definita colta; la secon- da invece è che per lungo tempo, la canzone in Italia è stata rappresentata dalle svene- volezze del festival di Sanremo. Per quanto non mancassero autori di «storie in musi- ca» a ben altri livelli, in Italia è sempre mancato un circuito di diffusione capillare della canzone d’autore come invece è accaduto in Francia o in alcuni paesi latino-americani, dove c’è una lunga consuetudine del grosso pubblico con la canzone non commerciale. Per quanto riguarda la presunta «povertà musicale» della canzone bisogna sgom- brare il campo da certi equivoci; la scarna essenzialità della musica in una canzone, infatti, è il risultato di una sintesi rigorosa, di una scrematura di tutti quegli elementi che, complicando eccessivamente la forma, metterebbero in ombra il vero protago- nista della canzone, vale a dire il testo. Solo a un ascoltatore superficiale può sfug- gire il fatto, ovvio, che la musica in una canzone serve ad esaltare il testo senza prevaricarlo (svolgendo una funzione analoga per certi versi a quella della musi- ca da film) esaltandone il significato e mettendone a nudo la musicalità intrinseca. Ad ogni modo, dalla felice stagione dei cantautori ad oggi, molte cose sono cambia- te e anche in Italia si rileva un’attenzione sempre più rispettosa da parte degli am- bienti accademici e della critica ufficiale nei confronti della canzone; una vera e pro- pria rivalutazione che, a volte, finisce col premiare anche personaggi la cui colloca- zione nell’ambito della canzone d’autore è quanto meno dubbia. 2. LA CANZONE FRANCESE 2.1 Gli chansonnier Per ritornare alla canzone d’autore nei paesi di cultura neolatina non si può non partire dalla canzone francese. Limitandoci, per evidenti limiti di spazio, alla pro-

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14 La canZone d’autore

1. un «genere minore»

Per anni la cultura ufficiale, soprattutto in Italia, ha nutrito forti pregiudizi nei confronti della canzone, considerata, a torto, un genere minore. Ciò si deve all’angustia di vedute riscontrabile negli ambienti accademici che si ostinano ancora a identificare la cultu-ra subalterna (di cui la canzone è senz’altro figlia) con un genere di cultura inferiore.Non è che la canzone sia rigorosamente di derivazione popolare. Nel XVI e nel XVII secolo hanno scritto canzoni alcuni tra i più autorevoli rappresentanti della cultu-ra ufficiale; si trattava comunque di composizioni di carattere profano, prevalente-mente riguardanti temi amorosi o comunque non «alti» secondo la cultura del tem-po. In alcuni casi la canzone aveva carattere dichiaratamente frivolo e scherzoso e tanto bastava perché fosse appunto considerata un genere di valore artistico più modesto e comunque legato ad una fruizione popolare.Ritornando alle ragioni che (fino a qualche tempo fa) ancora impedivano alla cultura ac-cademica di riconoscere alla canzone il suo valore, bisogna citarne almeno altre due: la prima, poco condivisibile come quella di cui s’è detto precedentemente, è che alla can-zone sono estranee le grandi architetture formali della musica definita colta; la secon-da invece è che per lungo tempo, la canzone in Italia è stata rappresentata dalle svene-volezze del festival di Sanremo. Per quanto non mancassero autori di «storie in musi-ca» a ben altri livelli, in Italia è sempre mancato un circuito di diffusione capillare della canzone d’autore come invece è accaduto in Francia o in alcuni paesi latino-americani, dove c’è una lunga consuetudine del grosso pubblico con la canzone non commerciale.Per quanto riguarda la presunta «povertà musicale» della canzone bisogna sgom-brare il campo da certi equivoci; la scarna essenzialità della musica in una canzone, infatti, è il risultato di una sintesi rigorosa, di una scrematura di tutti quegli elementi che, complicando eccessivamente la forma, metterebbero in ombra il vero protago-nista della canzone, vale a dire il testo. Solo a un ascoltatore superficiale può sfug-gire il fatto, ovvio, che la musica in una canzone serve ad esaltare il testo senza prevaricarlo (svolgendo una funzione analoga per certi versi a quella della musi-ca da film) esaltandone il significato e mettendone a nudo la musicalità intrinseca.Ad ogni modo, dalla felice stagione dei cantautori ad oggi, molte cose sono cambia-te e anche in Italia si rileva un’attenzione sempre più rispettosa da parte degli am-bienti accademici e della critica ufficiale nei confronti della canzone; una vera e pro-pria rivalutazione che, a volte, finisce col premiare anche personaggi la cui colloca-zione nell’ambito della canzone d’autore è quanto meno dubbia.

2. La canZone Francese

2.1 gli chansonnier

Per ritornare alla canzone d’autore nei paesi di cultura neolatina non si può non partire dalla canzone francese. Limitandoci, per evidenti limiti di spazio, alla pro-

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duzione del XX secolo, il primo nome che s’impone alla nostra attenzione è quello di aristide Bruant (1851-1925), personaggio che compendia in sé quegli elementi di socialismo antimilitarista del diciannovesimo secolo, ravvisabili nella splendida Gloria al 17° del 1907, dove Bruant ricorda l’ammutinamento del reparto dell’eser-cito che si rifiutò di reprimere un’agitazione contadina, e di forte adesione ideale al mondo degli emarginati (apaches, gigolettes etc.), di cui cantò la tragica esisten-za con una prosa dura e scarna. La sua attività, iniziata nel cabaret Chat Noir, die-de vita al filone realistico della canzone francese, anche se i suoi personaggi soffro-no di una certa idealizzazione che, in qualche modo ne tradisce l’autenticità, ridu-cendo a un’immagine oleografica e fruibile dalla buona società proprio quel mon-do di disperati di cui si sforzava di rappresentare la tragica vicenda. Alla tradizione del cafè-chantant, sebbene privo di quelle valenze sociali e politiche così presenti nell’opere di Bruant, si può ricondurre l’esperienza artistica di maurice Chevalier (1888-1972), chansonnier e attore di grande raffinatezza.Tra i grandi interpreti della canzone francese, soprattutto del secondo dopoguerra, è senz’altro doveroso citare edith Piaf (1915-1963), che esordì cantando per strada fin-ché non approdò nei bistrot di Montmartre, Gilbert Bécaud (1927) e Juliette Gréco (1926) vera anima della canzone esistenzialista e interprete di liriche di Sartre, Prévert e Queneau; in ultimo si dirà di Yves montand (1921-1991) attore e interprete di rango, la cui scomparsa recentissima rende più triste e desolato il panorama della canzone.

2.2 i cantautori

Negli anni del secondo dopoguerra, il centro propulsore della canzone francese d’au-tore si era spostato da Montmartre a Saint-Germain-des-Prés, le cui caves assiste-ranno alla nascita di una figura nuova d’artista: il cantautore. Se Edith Piaf e Juliet-te Gréco hanno rappresentato l’anima popolare e quella intellettuale della canzone, saranno proprio i cantautori (Brassens, Brel, Ferré, etc.) a superare questa dicoto-mia, componendo testi di notevole durezza che fondano la loro efficacia su di una scrittura il cui sapore «letterario» è innervato da un argot sferzante che riconduce la canzone sul piano, a lei estremamente congeniale, della quotidianità.La durezza delle canzoni di Leo Ferré (1916-1993) trova un ideale contrappunto nella vena dissacrante di Georges Brassens (1921-1981) nella cui opera conflui-scono elementi della tradizione satirica del cabaret ed elementi della canzone po-polare di tipo narrativo. Il motivo ricorrente di queste canzoni è il disprezzo della meschinità e della convenzionalità borghese, considerate come il trionfo della gret-tezza opulenta e soddisfatta di sé, tarpatrice di ogni slancio ideale.

2.3 canzone e impegno politico

Caratteristica della canzone d’autore è quella di restare ben ancorata alla politica e all’evoluzione sociale, quasi come una sorta di coscienza critica e vigile. Così, nel 1954, anno della caduta di Dien Bien Phu e dell’inizio della guerra d’Algeria, Leo Fer-ré inserì nelle sue canzoni delle strofe di carattere antimilitare. Ma il vero scandalo venne da una canzone di Boris Vian (1920-1959), singolare figura di poeta esisten-zialista che di notte suonava la cornetta in un’orchestrina di hot-jazz. La canzone in questione era Il disertore anche se, in quell’anno, Boris Vian incise canzoni ben più

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violente; valga per tutte l’esempio di Allegri militari, una cui strofa dice: «È il tan-go degli allegri militari / di Hiroshima, Buchenwald e altrove/ È il tango dei famo-si vado-in-guerra/ È il tango di tutti i beccamorti». Queste canzoni però, schermate da musiche di carattere farsesco, riuscirono a eludere la censura mentre Il diserto-re, col suo carattere solenne, venne vietata alla radio perché vi si ravvisava «un in-sulto agli ex-combattenti di tutte le guerre passate, presenti e future». Per chiudere questo breve excursus sulla canzone francese si citeranno ancora due artisti: Georges moustaki (1934), autore di splendide canzoni come Lo straniero e Milord, magistralmente interpretata dalla Piaf e il belga Jacques Brel (1929-1978).I testi delle sue ballate, segnati in origine da una forte ispirazione cattolica, si fecero via via più amari, disincantati e soprattutto polemici verso quella grettezza e stoli-dità tipiche della borghesia benpensante. Canzoni come Les bourgeois, Les bigotes, Les dames patronnesses, costituiscono delle vere e proprie invettive sarcastiche e dure contro un mondo ben pasciuto e soddisfatto di sé, dalla coscienza narcotizzata al punto da non saper guardare a null’altro che non sia il proprio piccolo interesse.

3. La canZone itaLiana

3.1 La scuola genovese

Il seme della canzone francese ha certamente influenzato quella scuola di autori definita scuola genovese a cui hanno aderito Gino Paoli, nato a Monfalcone in pro-vincia di Gorizia nel 1934 ma cresciuto a Genova, Bruno Lauzi, anche lui genove-se d’elezione essendo nato ad Asmara nel 1937, nelle cui canzoni aleggia lo spirito del cabaret francese, Umberto Bindi nato a Genova nel 1936 e infine Luigi Tenco, nato a Cassine in provincia di Alessandria nel 1938, e morto suicida a Sanremo nel 1967, autore di delicate e malinconiche canzoni d’amore.L’elemento che lega tutti questi autori in qualche modo alla canzone francese è di natura duplice: da un lato la scelta di essere interpreti e autori nello stesso tempo (ma questa è una caratteristica condivisa da tutti gli esponenti della canzone impe-gnata), privilegiando la diffusione delle loro opere in circuiti tendenzialmente estra-nei ai grandi media; dall’altro le tematiche prescelte volte alla descrizione del quo-tidiano in tutti i suoi aspetti, dall’impegno politico alle riflessioni sull’amore, la li-bertà, le speranze e le frustrazioni del vivere.Un discorso a parte merita Fabrizio De andré (1940-1999), molto influenzato, agli inizi della sua carriera, da Brassens o da certa tradizione popolare italiana, ma che si è dedicato poi a una canzone di contaminazione etnica dove si accostano, in una fu-sione stimolante e assai suggestiva, modelli espressivi e sonorità di tutta l’area medi-terranea. Su questa strada non è stato solo; infatti questo tipo di ricerca sul suono è pure parte notevole della produzione di Ivano Fossati, ligure anch’egli, nella cui mu-sica il rigore formale e la freschezza dell’invenzione concorrono alla nascita di com-posizioni dal sapore vagamente arcaico (e arcano) di intensa suggestione emotiva.

3.2 L’influsso americano

Le atmosfere francesi e quelle mediterranee però non sono le uniche fonti di ispi-razione della canzone d’autore italiana. I cantastorie americani come Bob Dylan

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o Joan Baez, a loro volta eredi di quella grande tradizione di musicisti girovaghi e impegnati sotto il profilo politico e sociale come Woody Guthrie (1912-67) e Pete Seeger (1919), rappresentano il punto di partenza per autori sensibili e raf-finati come Francesco Guccini, nato a Modena nel 1940, e Francesco De Grego-ri (Roma, 1951). Ancora dalla musica americana, e precisamente dal jazz, nasco-no autori come Lucio Dalla (1943-2012), autore di brani di successo come Caru-so, L’anno che verrà, Attenti al lupo e Paolo Conte (Asti, 1937), chansonnier argu-to e raffinato, nella cui musica affiorano tutte le sfumature della dolce malinconia di certa provincia italiana e la nostalgia di un mondo perduto (ma forse mai esi-stito), vissuto come dice il titolo di una sua bellissima canzone, «sotto le stelle del jazz», un mondo i cui piccoli confini sembrano dilatarsi grazie alla magia dei film americani dell’immediato dopoguerra dove la vita scorreva tra le piccole cose del-la quotidianità e i grandi slanci dell’avventura in celluloide. Un precursore su que-sta strada, anche se con intenti dichiaratamente parodistici, fu Fred Buscaglione (1922-1960), indimenticabile interprete del personaggio del «duro» vittima del-le più disparate situazioni.

3.3 il ritorno del menestrello

Un personaggio un po’ atipico nel panorama della canzone italiana d’autore è si-curamente angelo Branduardi (Cuggiono, 1950), le cui musiche sono ispirate in massima parte a composizioni e moduli espressivi del rinascimento e del primo ba-rocco. Spesso si tratta della trasposizione in musica di celebri testi poetici, come il cantico delle creature di san Francesco d’Assisi o Confessioni di un malandrino del poeta russo Sergej Esenin. I temi prescelti rivestono un carattere di atemporalità, rafforzato dalla forma poetica dei testi che si fa evocatrice di atmosfere fiabesche e rarefatte. Come si è detto, le canzoni di Branduardi non si legano all’attualità, non trattano di avvenimenti specifici, ma si richiamano nello spirito alla tradizione liri-ca dei menestrelli, narrando di amore, morte, disincanti.

3.4 La nuova musica napoletana

Un ultimo cenno va dato su quel gruppo di autori-interpreti che, in una logica di contaminazione formale, «reinventano» la canzone napoletana sposandola alla vi-sceralità della musica afro-americana come Pino Daniele (Napoli, 1955-2015) cui non è estranea una certa propensione verso gli stilemi della musica mediterranea, oppure i fratelli edoardo (Napoli, 1949) ed eugenio Bennato (Napoli, 1948) dal-le vicende artistiche piuttosto divergenti. Il primo, dopo un passato di cantautore di protesta ispirato ai folk-singer girovaghi americani, è autore, oggi, di una musi-ca dichiaratamente priva di finalità politiche o culturali, che non manca però di un certo brio. Eugenio invece, dopo gli storici inizi con la Nuova Compagnia di Canto Popolare (diretta dal compositore-musicologo Roberto De Simone), fondò un altro gruppo di folk-revival (ovvero il recupero, in un’ottica di rielaborazione, del patri-monio musicale tradizionale) dal nome Musicanova. Dopo un inizio assai promet-tente però, Eugenio Bennato diede inizio a una serie di sperimentazioni volte a una semplificazione del discorso musicale, unita a una riverniciatura superficiale di mu-sica rock. Le finalità di quest’operazione appaiono ben chiare e infatti, dopo aver

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liquidato definitivamente Musicanova, Eugenio Bennato compone oggi canzonette di consumo piuttosto orecchiabili.

4. La musica iBerica

4.1 La musica spagnola

La musica spagnola non si esaurisce nella solarità (a volte tragica) del cante jondo e del flamenco strumentale. Ed è proprio alla ricchezza del folklore spagnolo che si richiama uno dei più grandi interpreti della canzone d’autore in Spagna: Paco Ibáñez. I testi delle sue canzoni, poesie di Federico García Lorca, Miguel Hernan-dez e il cileno Pablo Neruda, sono rivestiti di melodie scarne e delicate, ispirate alla musica tradizionale spagnola. Altri autori-interpreti, legati alla canzone poli-tica e d’impegno sociale, sono Victor Manuel e Ana Belén. Tra gli autori della scuo-la catalana è doveroso segnalare Joan manuel Serrat e Lluis Llach. Il primo, che scrive prevalentemente in castigliano, è riconducibile in qualche modo alla can-zone francese; le sue composizioni infatti raccontano storie di amori, solitudini o comunque di vicissitudini quotidiane. Una sua canzone, la splendida Mediterra-neo, che esprime la comune sensibilità e la stessa filiazione culturale di tutti i po-poli che si bagnano nel Mediterraneo è stata cantata in Italia da Gino Paoli. A dif-ferenza di Serrat, Lluis Llach è un autore fortemente impegnato nelle rivendica-zioni autonomistiche della Catalogna ed esponente di spicco di quel movimento detto Nova Cançó catalana attivo più o meno dagli anni ’60. Scrive esclusivamen-te in catalano e in tutte le sue canzoni traspare un senso di orgoglio e aspirazio-ne all’indipendenza da un governo (quello di Madrid) considerato un vero e pro-prio usurpatore.

4.2 il fado portoghese

Fatta eccezione per amalia rodriguez, splendida interprete del fado, la musica portoghese in Italia non ha avuto molta fortuna, ad onta della «latinità» comune. Li-mitandoci ad alcuni rapidi cenni sugli esponenti di maggiore spicco della canzone d’autore, si citeranno l’angolano Luis Cilia, riscopritore della canzone antica, dalle liriche rinascimentali alla canzone politica ottocentesca; José Afonso, autore politi-co ma anche delicato «inventore» di canzoni ispirate alle ballate tradizionali; Janita Salomé, vulcanico percussionista e studioso della tradizione musicale nordafrica-na, che ha dato vita a un gustosissimo mélange di musica tradizionale del suo paese rivitalizzata dai ritmi e colori dell’Africa mediterranea. Al fascino del mare nostrum non sfugge pure uno dei più interessanti musicisti contemporanei che il Portogallo esprime: Fausto, il cui bellissimo disco «Por este rio acima» è una raccolta di storie di marinai, pirati e naufraghi dove il tema dell’appartenenza al mare, destino inevi-tabile per le genti mediterranee, è cantato con allegra ribalderia e con una ricchez-za di soluzioni melodiche davvero inesauribile. Da ultimo, si dirà di Julio Pereira, moderno maestro di cavaquinho, un piccolo strumento a corde il cui suono pieno e squillante anima la musica popolare portoghese.

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5. La canZone d’autore in sud america

5.1 una premessa necessaria

L’enorme ricchezza e complessità di motivi che costituiscono l’ordito storico, socia-le, politico e infine culturale dei vari paesi latino-americani (e al loro interno, i rap-porti tra i vari gruppi etnici) si riflettono nella canzone d’autore che si differenzia sensibilmente da nazione a nazione.Una caratteristica comune a tutti gli artisti impegnati a dar vita a una canzone che non esaurisca le sue ragioni nel profitto o nello stare in classifica, è il legame (molto più intenso che in Europa) tra la riscoperta della tradizione folklorica e la crea-zione di nuove musiche e testi. Nel caso della canzone d’autore in America Latina, la musica folklorica rappresenta molto di più che una semplice fonte di ispirazione; si tratta invece di un vero e proprio antecedente storico, la cui specificità territoria-le diventa un elemento di alterità culturale e di denuncia nei confronti dell’egemonia economica soprattutto di marca statunitense, sofferta da questi paesi. Questo spie-ga la «quasi identità» in America Latina tra canzone popolare e canzone d’autore e il fatto che gli artisti «impegnati» interpretino, nel loro repertorio, indifferentemente brani della tradizione e canzoni di autori contemporanei. Questa significazione poli-tica della musica popolare è del resto assai bene illustrata dalle parole di Jorge Cou-lon, musicista cileno e componente del gruppo Inti-Illimani: «Il governo Alessandri segna l’ingresso massiccio in Cile della musica commerciale nord-americana che usa-va come veicolo le radio (circa 150 nel paese), tutte in mano di proprietari privati, esponenti tra i più reazionari del latifondo e dell’industria monopolistica cilena (...).Malgrado questo misero panorama, la lotta per spezzare il cerchio (...) si svolgeva in tutti i campi. Violeta Parra, Margot Loyola, il gruppo Concumén, il gruppo Millaray, Victor Jara, ognuno in misura diversa, cercavano nel cuore del Cile l’anima popolare, la vera mu-sica dei contadini, dei minatori, dei pastori (...)» (1).La situazione sopra descritta si riferisce al Cile e al vigoroso movimento artisti-co sviluppatosi alla fine degli anni Sessanta conosciuto come Nueva Canción Chile-na, ma si riscontra senza troppe varianti in tutti i paesi latino-americani e in quel-li dell’area caraibica.

5.2 musica popolare in argentina

Prima di dare alcuni brevi cenni sui più illustri rappresentanti della musica argenti-na di derivazione folklorica o d’autore, sarà bene procedere a un rapido esame delle forme musicali più diffuse nel grande paese australe e delle loro origini. Se si esclu-de, per il momento, la musica di Buenos Aires, ovvero il tango, la regione più ricca di musica (e conseguentemente quella che «presta» il maggior numero di forme ai compositori, anche di formazione classica) è quella nord-occidentale, dove la pre-senza della cultura quechwa (il più consistente gruppo etnico andino insieme con gli aymara) è molto netta. Le forme musicali creole (cioè nate dall’incontro della musica india e meticcia con la musica europea) più rappresentative sono la vidala, composizione di carattere

(1) Jeorge Coulon, introduzione a La Nueva Canción Chilena, ieri, oggi, domani, O.N.A.E. Roma (s. d.), pp. 5, 6.

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cupo e solenne dove la matrice andina è molto marcata, la chaya (detta anche vida-la chayera), poco usata per la canzone d’autore, dal carattere piuttosto vivace e più adatto alla danza; la zamba in 6/8 (come la maggior parte dei ritmi argentini esclu-se la huella, in 3/4 e il carnavalito, in 4/4), dal carattere estremamente delicato na-sce dalla zamacueca spagnola che si è sdoppiata appunto nella zamba e nella sua «gemella» molto più irruenta che è la cueca.Proprio sulla cueca bisognerà soffermarsi un istante, infatti l’area di diffusione di questo ritmo è molto ampia e comprende paesi come il Cile, dove la cueca assume un carattere meno sobrio di quella argentina grazie a un rafforzamento degli ulti-mi due accenti suddivisionali, il Perù, dove è conosciuta con il nome di marinera, l’Ecuador, dove è presente sotto il nome di albazo e infine la Bolivia dove segue gli stessi stilemi espressivi che in Argentina. Un altro ritmo che la canzone d’autore ha mutuato dal folklore è la chacarera, tipi-ca della zona di Santa Fé; per finire si dirà del bailecito, elegante e raffinata espres-sione del sentire dell’uomo andino.

5.3 La scuola brasiliana

Tutta la musica del Sud America è il prodotto felicissimo di una sintesi di elementi culturali di varia provenienza che costituiscono la testimonianza più immeditata ed efficace delle vicissitudini storiche che hanno determinato lo sviluppo di quei pae-si. Così come la musica meticcia delle Ande racconta della conquista spagnola, così quella brasiliana si porta dentro l’eco della dominazione portoghese e delle grandi deportazioni di schiavi dall’Africa.Un impasto affascinante di reminiscenze mediterranee e ritmi africani costituisce la fonte di ispirazione di autori-interpreti come Chico Buarque de Holanda, i cui testi rivelano una freschezza che ben asseconda la sua vena compositiva, in cui la presenza delle architetture classiche non diventa mai un accademismo stucchevo-le, ma un elemento di esaltazione dei contenuti specifici delle sue composizioni.Su questa stessa linea si collocano Milton Nascimento, la cui musica possiede una forza evocatrice di grande suggestione, e il binomio (ormai storico) costituito dal po-eta Vinicius de moraes e Toquinho, anche se quest’ultimo si dedica ormai da anni a una produzione più commerciale. Tra gli esponenti della bossa nova, una corrente musicale nata dall’incontro della musica brasiliana con il jazz, oltre al già citato To-quinho si ricorderanno pure i nomi di Baden Powell, Irio de Paula e Caetano Veloso.

5.4 La canzone cilena

Nel 1953 Violeta Parra, uno dei personaggi più significativi della cultura latino-ame-ricana (le cui prime canzoni sono frutto del suo lavoro di investigazione nel folklo-re), presentò alla radio i suoi primi lavori.Per tutti gli anni Sessanta il suo insegnamento e rigore artistico costituirono il mag-giore impulso allo sviluppo di una canzone autenticamente popolare e d’autore; nel 1964 il figlio Angel e la figlia Isabel (entrambi interpreti e autori) diedero vita a una peña, cioè un locale dove si esibivano gli artisti-studenti e dove era possibile far co-noscere le opere che la radio ignorava. Le canzoni dell’argentino Atahualpa Yupan-qui e di Violeta produssero un enorme interesse (soprattutto negli ambienti uni-

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versitari) rispetto alla canzone popolare. Cominciarono a costituirsi i primi grup-pi e a nascere i primi solisti. Molti si sono poi disciolti anche in seguito al trauma del lungo esilio sofferto e altri hanno conosciuto la prigione o la morte come Víc-tor Jara. Alla peña dei Parra, si esibirono nel 1966 per la prima volta i Quilapayún, uno dei gruppi storici della Nueva canción e, assieme agli Inti-Illimani e agli Illapu, il gruppo di maggior durata.Nel 1967 nacque il gruppo, famosissimo in Italia per avervi trascorso l’esilio, degli Inti-Illimani. Il nome di questa formazione, che in lingua quechwa significa «il sole dell’Illimani» (un ghiacciaio a ridosso del lago Titicaca) è indicativo dei primi inte-ressi musicali del gruppo, volti alla rielaborazione e diffusione dei temi del folklore andino in quegli anni praticamente sconosciuto a Santiago. Dietro questa scelta si muovevano motivi di ordine estetico (la ricchezza di timbri e ritmi delle Ande è im-mensa) e politico; i sei membri del gruppo (oggi sette) ravvisavano infatti nella cul-tura andina il fulcro per la rifondazione di una cultura autenticamente latinoameri-cana (al centro del loro discorso musicale si è sempre collocato un certo «paname-ricanismo» insofferente di ogni chiusura nazionalistica) da contrapporre alla colo-nizzazione culturale di stampo yankee che in quegli anni, complice la radio, dilagava in Cile. Tutti questi artisti insieme a molti altri riuscirono a creare assieme alla Ju-ventud Comunista Chilena un’etichetta indipendente, la DICAP (Discoteca del can-to popolare), per il cui tramite assicurarono alla nuova produzione di canzoni poli-ticamente e artisticamente impegnate una diffusione fino ad allora soltanto sperata.

6. La cHitarra in america Latina

Prima della conquista del continente ad opera di spagnoli e portoghesi, gli unici strumenti diffusi tra le popolazioni sud-americane erano flauti d’osso, d’argilla o canna, di diverse fogge e dimensioni e percussioni varie. Non esisteva quindi musi-ca armonizzata, eccezion fatta per alcune musiche dell’Ecuador eseguite con il ron-dador, un flauto di Pan con le canne armonizzate per terze minori.Gli europei quindi portarono in America liuti, mandole, violini e la vihuela de mano, l’antenata diretta della chitarra.Per molto tempo l’uso di questi strumenti rimase confinato tra i conquistadores e i loro discendenti, a causa del divieto della Chiesa di far circolare la musica tra gli in-dios giacché avrebbe potuto corromperne gli animi.Solo agli inizi del XVIII secolo (ma al riguardo è possibile solo avanzare delle ipotesi) gli strumenti a corda cominciarono a diffondersi tra le popolazioni autoctone, che presero ad adattarli alla loro sensibilità creando così strumenti come il charango, una piccola chitarrina la cui cassa armonica a fondo concavo è ricavata da una co-razza di armadillo oppure il cuatro (così chiamato dal numero di corde che monta) diffuso in Venezuela e molti altri. La chitarra, così come la conosciamo, fece la sua comparsa in America Latina più o meno agli inizi dell’Ottocento e si è diffusa senza eccezioni in tutto il continente sebbene con diversa fortuna.

6.1 i paesi andini

Nei paesi andini la chitarra svolge un ruolo essenzialmente d’accompagnamento, anche se la varietà e la complessità dei ritmi in uso presso quelle regioni fanno della sua fun-

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zione qualcosa di tutt’altro che secondario; a questa consuetudine fanno però da con-traltare due eccezioni luminose: la prima riguarda il Perù, dove la chitarra diventa lo strumento principe sia nella tradizione creola della canzone di Lima (la cui più grande interprete è stata Chabuca Granda), che nella tradizione meticcia della regione di Aya-cucho nel sud del paese, dove la chitarra, anche grazie all’uso di accordature aperte in maggior sintonia con la scala pentafonica andina, diventa interprete magistrale delle composizioni di questa zona. Al riguardo è doveroso citare i nomi del Raul García Zára-te e Daniel Kirwayo, due dei più validi artisti e sapienti interpreti di questa tradizione.Scendendo più a sud troviamo il Cile, dove la chitarra è stata completamente assi-milata dal folklore contadino, mentre è ancora poco usata dagli indiani Mapuche che abitano il sud del paese. In Cile però la chitarra non svolge un ruolo solista, ben-sì funge da strumento armonico-ritmico in funzione di accompagnamento al can-to. Qui i nomi da fare sarebbero veramente troppi, soprattutto in relazione al vasto movimento di recupero e rielaborazione della canzone popolare conosciuto come Nueva Canción Chilena; basti ricordare per tutti i nomi di Violeta Parra morta sui-cida nel 1967, di Víctor Jara, ucciso dai fascisti durante il colpo di stato del 1973, e il complesso vocale e strumentale degli Inti-Illimani.

6.2 argentina e Brasile

È in Argentina, invece, che ritroviamo una grande tradizione chitarristica, sia nello scarno accompagnamento del tango canción degli anni venti, di cui è stato indimen-ticabile interprete Carlos Gardel, sia in tutta la tradizione meticcia delle zambas, chacareras e cuecas di cui meravigliosi cantori sono Atahualpa Yupanqui, un musi-cista di estrazione popolare e Eduardo Falù, compositore di scuola classica che ha dato vita ad alcune tra le più belle pagine della letteratura chitarristica mondiale.Sorte più ingrata invece soffre la chitarra in Uruguay, dove il suo uso è limitato all’ac-compagnamento e in Paraguay, dove è costretta a far da gregario alla ben più pre-ponderante arpa diatonica.In Brasile la chitarra si sposa perfettamente alle malie del choro (una forma di com-posizione popolare creola che ha raggiunto vette artistiche supreme con la musica di Heitor Villa-Lobos) e alla freschezza appena velata di saudade, uno stato d’ani-mo nostalgico e malinconico, della bossa-nova.

6.3 Venezuela

In Venezuela la chitarra ritrova la sua funzione ritmico-armonica assieme al già ci-tato cuatro, dato che gli sviluppi melodici dei brani sono essenzialmente affidati all’arpa diatonica. Non si commetta però l’errore di sottovalutare la sua importan-za, giacché la musica venezuelana poggia su delle strutture ritmiche particolarmen-te complesse che richiedono al chitarrista un notevole impegno; del resto anche qui musicisti classici come Alirio Díaz e Antonio Lauro hanno conferito allo strumento uno spessore non comune.

6.4 messico

In tutta la musica folklorica messicana (con la sola esclusione della musica urbana e delle bande mariachis dove i ruoli dei solisti sono prevalentemente affidati alle

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trombe e ai violini) la chitarra è presente in maniera considerevole. È inimmagina-bile pensare di poter ascoltare un corrido o una ranchera senza la delicatezza del-le chitarre; anche se occasionalmente il solista è rappresentato da un violino o una fisarmonica, la parte del leone nella musica messicana è svolta dalla chitarra, la cui versatilità le permette di ricoprire tutte le parti di una composizione facendo in modo che sia la linea melodica che i contrappunti e la parte ritmica si fondano in un insieme armonioso che non risulta mai monocromo.

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test 1 teoria e armonia

1) Da che cosa è determinato un suono?

❑❑ A) Dalle vibrazioni ritmiche emesse da un solido❑❑ B) Dalle vibrazioni regolari emesse da un corpo elastico❑❑ C) Dalle oscillazioni emesse da un oggetto in movimento❑❑ D) Da un rumore

2) I parametri principali che caratterizzano le vibrazioni sono:

❑❑ A) periodo, intensità e durata❑❑ B) eco, frequenza e risonanza❑❑ C) altezza, intensità e timbro❑❑ D) periodo, frequenza e ampiezza

3) Quali sono i corpi elastici adoperati per produrre un suono?

❑❑ A) Corde, aria, piastre e membrane❑❑ B) Corde, energia, elettricità e acqua❑❑ C) Corde e pelli di tamburo❑❑ D) Aria, piastre, membrane e onde sonore

4) Di che cosa necessita un suono per essere trasmesso e recepito dall’orec-chio umano?

❑❑ A) Di un altro suono di pari intensità❑❑ B) Di un amplificatore❑❑ C) Di un mezzo elastico❑❑ D) Di energia

5) a quale velocità un suono percorre lo spazio da un corpo vibrante al no-stro orecchio?

❑❑ A) Circa 340 metri al secondo❑❑ B) Circa 20 metri al secondo❑❑ C) Circa 2 chilometri al secondo❑❑ D) Circa 1 chilometro e 500 metri al secondo

6) L’altezza è la caratteristica che ci fa distinguere un suono basso da uno acuto, ed è direttamente proporzionale:

❑❑ A) all’intensità del suono❑❑ B) al numero di oscillazioni prodotte❑❑ C) alla sua velocità❑❑ D) alla frequenza delle vibrazioni

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7) Da che cosa dipende l’intensità di un suono?

❑❑ A) Dall’ampiezza delle vibrazioni❑❑ B) Dal numero di oscillazioni prodotte❑❑ C) Dal numero di vibrazioni prodotte❑❑ D) Dalla frequenza delle vibrazioni

8) Che cosa ci permette di distinguere fra il timbro di uno strumento e quel-lo di un altro?

❑❑ A) La diversa intensità dei vari armonici presenti sulle note reali che essi producono

❑❑ B) La diversa altezza delle frequenze prodotte con le note suonate❑❑ C) La diversa intensità delle vibrazioni prodotte❑❑ D) Tutti gli strumenti hanno lo stesso timbro

9) Prima che un concerto inizi, i musicisti di un’orchestra si accordano su una nota suonata da uno strumento. Quale?

❑❑ A) Il secondo violino❑❑ B) Il primo oboe o il primo violino❑❑ C) Il fagotto❑❑ D) Il secondo oboe

10) Di che materiale sono i piatti?

❑❑ A) Di ferro❑❑ B) Di alluminio❑❑ C) Di bronzo❑❑ D) Di ottone

11) Quale strumento a percussione può essere udito anche al di sopra di un fortissimo orchestrale?

❑❑ A) Il timpano❑❑ B) Il tamburo militare❑❑ C) La grancassa❑❑ D) Il triangolo

12) Qual è il significato del termine neuma?

❑❑ A) Nota❑❑ B) Segno❑❑ C) Sol❑❑ D) Linea

13) Gli strumenti a percussione si dividono in due categorie. Quali?

❑❑ A) Tamburi e piatti❑❑ B) Pelli e piatti❑❑ C) Quelli da mani e quelli da bacchette❑❑ D) Quelli a suono determinato e quelli a suono indeterminato

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risposte aL test n. 1

1) Risposta esatta: BIl suono è dato dalle vibrazioni regolari emesse da un corpo elastico. La caratteristica dei corpi elastici ad emettere vibrazioni risiede nelle prerogative strutturali del corpo stesso. In pratica definiremo corpo elastico tutto ciò che in natura, sottoposto ad una forza esterna, possa dar luo-go a vibrazioni.

2) Risposta esatta: DI parametri principali che caratterizzano le vibrazioni sono tre:— periodo: durata di ogni movimento vibratorio di andata e ritorno;— frequenza: numero delle vibrazioni prodotte dal corpo elastico nell’unità di tempo;— ampiezza: spostamento del corpo elastico durante la vibrazione. Il movimento vibratorio è composto da due punti: i ventri, cioè i punti di massima ampiezza del-la vibrazione, e i nodi, cioè i punti in cui il movimento vibratorio è nullo.

3) Risposta esatta: aI corpi elastici adoperati per produrre suoni sono: corde, aria, piastre e membrane. Le corde, che possono essere di minugia, di metallo, di nylon, di seta o di leghe speciali, acquistano elasticità se messe in tensione tra due punti estremi (nodi). In tali condizioni, se sfregata, percossa o piz-zicata, la corda entrerà in vibrazione assumendo la forma di un fuso, facendo avvertire la mag-giore perturbazione in prossimità del centro (ventre). L’aria diviene corpo sonoro quando, intro-dotta in un tubo, con almeno una delle due estremità in comunicazione con l’esterno, determina fasi alterne di compressione e rarefazione della colonna di aria in esso contenuta. Si avrà un ven-tre all’estremità dove avviene la compressione e un nodo all’estremità opposta, se quest’ultima risulta chiusa. Le piastre sono costituite da lamine o sbarre di metallo o di legno, che vengono messe in vibrazione mediante percussione. Le membrane sono corpi sonori ricavati da pelli di animali o da materiali sintetici opportunamente tesi.

4) Risposta esatta: CCome per la produzione, un suono ha bisogno di un mezzo elastico per trasmettersi ed essere re-cepito dall’orecchio umano. Come, ad esempio, lanciando un sasso in uno stagno si otterranno onde uguali e concentriche che andranno a smorzarsi nelle regioni più lontane dal punto dell’impatto, così le vibrazioni emesse da un corpo elastico si diffonderanno nell’aria, con la sola differenza che nell’aria, come in altri gas, le onde saranno di forma sferica. In sostanza, le vibrazioni emesse da un corpo elastico vanno ad interessare le molecole più prossime al corpo stesso, in modo da trasmet-tere a queste ultime la loro stessa vibrazione. Questo fenomeno si ripete, a sua volta, con tutte le molecole vicine fino alla saturazione dell’ambiente circostante il corpo elastico. Durante la trasmis-sione di vibrazioni, parte dell’energia trasmessa tra le molecole si perde (sarebbe più opportuno dire si trasforma); è questa la ragione per cui, man mano che ci allontaniamo da una fonte sonora, le onde che propagano le vibrazioni si affievoliscono fino a non essere più percepite.

5) Risposta esatta: aLa velocità del suono è strettamente collegata al fenomeno della trasmissione. Come abbiamo vi-sto, il mezzo di propagazione delle vibrazioni emesse da un corpo elastico sono le molecole; è in-tuibile, quindi, che quanto più risultano vicine tra di loro queste ultime, più veloce sarà la tra-

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smissione delle vibrazioni. Nell’aria la velocità del suono risulta di 340 m al secondo, ad una tem-peratura di 15 gradi; aumentando la temperatura aumenta la pressione, le molecole si avvicina-no, nell’aria come negli altri gas, e di conseguenza risulterà aumentata anche la velocità. Di con-tro, nelle zone di alta montagna, dove l’aria risulta più rarefatta, per la scarsa presenza di mole-cole, la velocità del suono diminuirà.

6) Risposta esatta: DL’altezza è direttamente proporzionale alla frequenza delle vibrazioni. L’unità di misura della fre-quenza è l’Hertz (Hz). L’orecchio umano non percepisce tutti i suoni, o meglio tutte le frequenze presenti in natura; infatti la gamma delle frequenze udibili dall’orecchio umano va da un mini-mo di 32 vibrazioni al secondo fino a un massimo di 40.000 vibrazioni. Al di sotto delle 32 vibra-zioni abbiamo gli infrasuoni. Al di sopra delle 40.000 vibrazioni abbiamo gli ultrasuoni. Tuttavia tale limite vale solo per l’orecchio umano, dal momento che è stato dimostrato che gli ultrasuo-ni fino a 50.000 vibrazioni vengono percepiti dai cani e che i pipistrelli percepiscono ultrasuoni fino a 140.000 vibrazioni. Nella pratica musicale non ci si serve di tutta la gamma dei suoni per-cepibili, ma di una gamma di suoni ben più ristretta, che va da un minimo di 64 vibrazioni per i suoni bassi, a un massimo di 8.000 vibrazioni per i suoni acuti.

7) Risposta esatta: aL’intensità è quella qualità del suono che ci permette di determinare se il suono percepito è più o meno forte. Questa caratteristica è legata a più fattori, spesso concomitanti: innanzitutto l’am-piezza delle vibrazioni, ma anche il grado di forza con cui si rimuove il corpo elastico dal suo sta-to di quiete oppure la distanza di chi ascolta dalla fonte sonora. Quindi, una più o meno ampia vibrazione produce suoni più forti o più deboli.

8) Risposta esatta: aIl timbro è quella qualità del suono che ci fa distinguere uno strumento da un altro, una voce da un’altra anche a parità di altezza e di intensità. Per tutti è facile distinguere fra il suono emesso da un violino e quello emesso da un flauto. Perché? La risposta introduce uno dei concetti di acu-stica più interessanti e cioè gli armonici. La frequenza che identifica una nota è soltanto quella della fondamentale di una serie di altre note che sono simultaneamente presenti sulla nota base. Queste note sono chiamate armonici (o ipertoni). La ragione per cui gli armonici non sono udi-bili distintamente è che hanno un’intensità minore rispetto a quella della nota fondamentale. Ma sono proprio gli armonici a determinare il timbro di una nota. In pratica, ciò che permette di di-stinguere il timbro di uno strumento da quello di un altro è la diversa intensità dei vari armoni-ci presenti sulle note reali che essi producono. I suoni armonici furono studiati per la prima vol-ta nel XVI secolo dal musicista e matematico veneziano Gioseffo Zarlino, che elaborò in base a un modello matematico le sue tesi. Egli osservò che la serie dei suoni secondari è sempre uguale per ogni suono principale e riuscì a classificarli. Gli armonici più importanti di un suono principale si possono così riassumere: il primo suono armonico risiede all’ottava superiore rispetto al prin-cipale, il secondo costituisce una quinta giusta rispetto al secondo e così via. Avremo, dunque, una quarta giusta, una terza maggiore, una terza minore, una seconda maggiore. Analizzando la serie dei primi sei armonici prodotta da un solo suono, viene fuori che questi ultimi determina-no l’accordo perfetto maggiore. Questa scoperta di Zarlino contribuì non poco alla trasformazio-ne della musica da polifonica e contrappuntistica a verticale ed armonica.

9) Risposta esatta: BIn una sala da concerto, prima che il concerto abbia inizio, è possibile notare un preciso momen-to in cui i musicisti dell’orchestra accordano i loro strumenti su una nota suonata dall’oboe prin-cipale o dal primo violino. Essi hanno intonato i loro strumenti su una nota che ha (o dovrebbe avere) 440 vibrazioni al secondo. Questa altezza convenzionale fu accettata dalla maggioranza delle nazioni occidentali in una conferenza internazionale tenutasi nel 1939.

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st10) Risposta esatta: D

I piatti sono costituiti da un paio di piatti in ottone, concavi, con una maniglia di pelle al centro. Si percuotono di solito uno contro l’altro, ma a volte si fa anche uso di un piatto singolo, e in tal caso lo si percuote con una o due bacchette. Con il termine tecnico «lasciar vibrare» si intende che i piatti devono essere lasciati in vibrazione fino a quando il suono si estingue; «secco», inve-ce, vuol dire che il suono deve essere interrotto bruscamente.

11) Risposta esatta: DIl triangolo, strumento di altezza indeterminata, è costituito da una sbarretta cilindrica di accia-io, piegata appunto a forma di triangolo. Il suono viene prodotto colpendo il triangolo con un pic-colo batacchio di acciaio.

12) Risposta esatta: BFra il VI e il VII secolo, quando il canto liturgico venne riordinato da San Gregorio Magno, la no-tazione alfabetica fu sostituita da quella neumatica, che utilizzava speciali segni, detti neumi (dal greco neuo = accenno). Nell’indicazione neumatica, piccole linee, derivate dagli accenti e rivolte verso l’alto o il basso, venivano disposte sopra e sotto il rigo e collocate sopra le sillabe delle pa-role del testo da cantare. Questi segni erano tutt’altro che precisi e indicavano in modo soltanto approssimativo il movimento ascendente o discendente della voce, senza definire gli intervalli esatti. Erano più che altro un espediente mnemonico per richiamare all’orecchio melodie già co-nosciute, tant’è vero che gli allievi della schola cantorum dovevano conoscere a memoria tutto il repertorio dei canti sacri. I principali neumi usati erano: il punctum, la virga, il pes o posatus, la clivis, lo scandicus, il climacus, il torculus, il porrectus. La notazione neumatica veniva usata per la musica vocale, mentre per la musica strumentale continuavano ad essere utilizzate di prefe-renza lettere maiuscole dell’alfabeto latino. Le note iniziavano dal la, perché questo era conside-rato il suono più grave del sistema perfetto greco.

13) Risposta esatta: DGli strumenti a percussione si dividono in due categorie: quelli che danno un suono di altezza definita (a suono determinato) e quelli che danno un suono di altezza indefinita (a suono inde-terminato).

14) Risposta esatta: DUn intervallo è semplicemente la distanza, o la differenza in ordine d’altezza, che passa fra due note: vuol dire che un intervallo di cinque note è una quinta, di quattro note una quarta e così via. Si contano entrambe le note di partenza e di arrivo. In un intervallo di otto note da do a do (un’ottava) il rapporto fra le frequenze dei due do è 1: 2. Per cui se la frequenza del do prescelto è 256 (come di fatto è il do centrale del pianoforte), la frequenza del do immediatamente supe-riore sarà 512, e quella del do immediatamente inferiore 128. Suonando contemporaneamente due do a distanza di un’ottava sul pianoforte, si avrà l’immediata conferma che vi è una speciale e peculiare relazione fra questi: essi cioè producono gli stessi suoni, ma ad altezze differenti, e la relazione matematica delle loro frequenze ne spiega la ragione. Non tutti gli intervalli sono ugua-li, dal momento che può variare la distanza fra le due note che li costituiscono. La sola indicazio-ne «ascendente» o «discendente» non è quindi in grado di definire un intervallo con precisione. Il metodo in voga oggi per classificare gli intervalli utilizza una doppia indicazione: la prima (nu-merica: ad esempio, seconda, quinta etc.) ci dice quante sono le note comprese nell’intervallo, contando, come abbiamo detto, anche la nota di partenza e di arrivo. La seconda indicazione (un aggettivo, come maggiore, minore, aumentata) ci rivela invece l’esatto numero di toni e semito-ni che compongono l’intervallo. Troveremo quindi frasi come: «intervallo di quarta minore» o «intervallo di quinta maggiore» e così via.