Capire i disagi dei bambini -...

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Indice Introduzione 9 Capitolo primo La relazione emotiva 23 Capitolo secondo Una storia come tante: la piccola Martina 35 Capitolo terzo Michele, un terribile bugiardo 55 Capitolo quarto La violenza emotiva: la storia di Luca 69 Capitolo quinto Il mio bambino vomita tutte le mattine e non vuole andare a scuola: la storia di Paolo 83 Capitolo sesto Andrea balbetta ed è geloso della sorella 97 Capitolo settimo «Lo faccio per il tuo bene»: la storia di Cinzia 109 Capitolo ottavo Anche la trascuratezza è maltrattamento: la storia di Silvia 127 Capitolo nono La violenza nella scuola: la storia di Michela 139 Capitolo decimo Marta, la piccola guerriera 151 Capitolo undicesimo Alberto: un adolescente difficile? 161 Capitolo dodicesimo La dolorosa ricerca delle proprie origini per un bambino adottato: la storia di Giorgio 171 Conclusioni 187 Bibliografia 193

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Indice

Introduzione 9

Capitolo primo La relazione emotiva 23

Capitolo secondo Una storia come tante: la piccola Martina 35

Capitolo terzo Michele, un terribile bugiardo 55

Capitolo quarto La violenza emotiva: la storia di Luca 69

Capitolo quinto Il mio bambino vomita tutte le mattine e non vuole andare a scuola: la storia di Paolo 83

Capitolo sesto Andrea balbetta ed è geloso della sorella 97

Capitolo settimo «Lo faccio per il tuo bene»: la storia di Cinzia 109

Capitolo ottavo Anche la trascuratezza è maltrattamento: la storia di Silvia 127

Capitolo nono La violenza nella scuola: la storia di Michela 139

Capitolo decimo Marta, la piccola guerriera 151

Capitolo undicesimo Alberto: un adolescente difficile? 161

Capitolo dodicesimo La dolorosa ricerca delle proprie origini per un bambinoadottato: la storia di Giorgio 171

Conclusioni 187

Bibliografia 193

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Il rapporto educativo, come tutte le relazioni interpersonali, è delicato e complesso.

Il genitore, o più in generale l’educatore, è confrontato costantemente con diverse variabili e deve decidere di volta in volta cosa è opportuno fare, quale intervento privilegiare. In alcune situazioni è importante trasformare la richiesta educativa in gioco, evitando imposizioni, in altre sarà più opportuno essere assertivi e comunicare al bambino con fermezza.

L’intervento educativo non può essere prescritto, previsto o standardizzato, né nel suo significato né nella sua forma; è richiesta perciò una forte dimensione creativa ed è indispensabile che il genitore capisca quali siano le dinamiche sottese in quel determinato momento.

Nella relazione educativa non è prioritaria la dimensione cognitiva — ciò che i genitori pensano, elaborano, le infor-mazioni che possiedono — ma la problematica emotiva del genitore che, causando disturbi caratteriali, dà luogo a conflitti o problemi nel rapporto.

Ne è un esempio il genitore che teme un’immagine di sé negativa e non riesce, di conseguenza, a prendere una posizione ferma, soprattutto se questa risulta frustrante per il bambino. Non tollera ad esempio che, dopo aver detto mille volte a suo figlio che deve spegnere la televisione e che a una certa ora si deve andare a letto, questo brontoli e gli rimandi un’immagine di sé negativa-

Introduzione

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cattiva. Così continua a spiegare e motivare il divieto chiedendo implicitamente al figlio che lo capisca e non lo critichi.

All’opposto si colloca il genitore che non sopporta che il figlio abbia un’opinione dissimile dalla sua, o che gli si opponga; per questo ricorre alle punizioni fisiche, alla forza, sentendosi minacciato nel suo potere. Egli è convinto che il bambino ben educato debba obbedire, «portargli rispetto» e proietta su di lui immagini persecutorie, ad esempio dicendo che inventa storie, esagera, frigna per nulla, lo sfida, fa il furbo, vuole averle tutte vinte e che, siccome non ascolta mai, bisogna minacciarlo per ottenere qualcosa.

Non di rado, i genitori disturbati da condizionamenti e problematiche originatesi nell’infanzia, dopo essersi reciproca-mente scelti perché si completano a vicenda, non si accorgono neppure dei disturbi che un loro comportamento può creare.

Ne è un esempio la donna che ha una scarsa autostima e che sposa, per mantenere la sua sicurezza, un uomo che a sua volta è rigido e nasconde le sue insicurezze in un carattere duro e intransigente.

L’adulto che non ha impedimenti emotivi ed è capace di empatia ascolta il bambino, crea un clima favorevole alla comu-nicazione e gli consente di esprimersi, di sentirsi a proprio agio. È naturale che questo richieda tempo, disponibilità emotiva, uno sforzo costante di mettersi nei panni dei bambini, di assumere il loro punto di vista; operazione a volte difficile dato che l’ascolto mobilita emozioni non sempre facili da gestire.

Le qualità che sono state classificate come necessarie per chi accudisce sono: sensibilità, responsività, accettazione, coo-perazione e disponibilità psicologica.

Altro aspetto importante nel comportamento relazionale e quindi anche nell’azione educativa è la priorità delle emo-zioni. Molti genitori pensano che dopo aver capito sia facile mettere in pratica la teoria, ma in realtà scoprono che non è

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facile e si addolorano, notando la discrepanza tra ciò che sen-tono e pensano di fare e il loro reale comportamento. Molti, ad esempio, dicono: «Mi riprometto sempre di non irritarmi e alzare la voce, ma poi perdo la pazienza e non mi controllo». Questo accade certamente perché il genitore si lascia andare, accetta comportamenti che razionalmente, nel formulare il buon proposito, aveva rifiutato, ma è necessario anche ricordare che l’irritazione e la rabbia attengono alla dimensione emotiva che presiede al comportamento ed è prioritaria rispetto a quella cognitivo-razionale. La dimensione emotiva è legata all’elabo-razione delle esperienze precoci che formano dentro ciascuno di noi dei quadri di riferimento per l’azione. Questo spiega anche perché l’adulto, quando si trova davanti a interrogativi, dubbi o difficoltà nelle scelte educative, ricorra a idee e metodi speri-mentati nella propria storia personale, anche se razionalmente può essersene discostato.

Ne è un esempio la situazione in cui il bambino non mangia volentieri, è molto selettivo negli alimenti e tende a contempla-re il piatto; è un problema per la mamma che vorrebbe che si alimentasse adeguatamente e, se ha fretta, si irrita. Può capitare che la mamma trovi una via d’uscita in una sorta di ricatto, dicendo: «Non ti alzi finché non hai finito», oppure: «Quando avrai fame, vedrai che mangerai quello che hai lasciato!».

La reazione del bambino può essere il pianto oppure l’ir-rigidimento. In tutti i casi, la mamma si muove sul principio: «Siccome ho deciso che si mangia questo, adesso lo mangi», oppure: «Si devono rispettare le regole dell’alimentazione»; im-perativi che, nella loro essenza, sono comprensibili, ma risultano fuori luogo se pensiamo a cosa in realtà servirebbe a questo bambino e a ciò che invece recepisce con questi metodi.

Il bambino ha bisogno di capire se stesso e il suo corpo, sapere come funziona e ascoltarlo. Sarebbe quindi più impor-tante chiedersi se il bambino ha fame o no e che cosa gli suscita

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un determinato alimento. Agli adulti d’altro canto è consentito seguire i propri gusti alimentari e capirli.

Se alimentarsi perde il suo significato e viene deviato nel far piacere alla mamma o aver paura delle botte o dei rimproveri, o ancora se si è importanti solo perché si hanno dei problemi, il bambino deformerà la sua attenzione e il centro si sposterà da sé agli altri.

La psicologia ci dice che il bambino viene al mondo con una competenza di riconoscimento emotivo: sa riconoscere gli stati emotivi del genitore e delle persone che lo circondano. Questa capacità può essere quasi completamente perduta se il rapporto educativo non è rispettoso dei sentimenti del bambino, se il genitore lo prevarica psicologicamente o fisicamente.

Non si tratta di mostrare al bambino chi ha più potere, o chi è il più forte: la sproporzione di potere e di forza è così evidente! Basti pensare al rapporto fisico tra la corporatura dell’adulto e quella del bambino, oppure alla differenza di esperienza, risorse e di ruolo.

Si tratta, invece, di essere attenti e sufficientemente elastici per poter scegliere, di volta in volta, la modalità d’intervento più adeguata. Ovviamente, non mi riferisco ai genitori che utilizzano esclusivamente le punizioni o che sono fortemente autoritari: questi hanno bisogno d’essere aiutati perché usano la relazione con il bambino come fonte di auto-risarcimento, gratificazione e sfogo.

Ogni educatore, se non analizza il proprio comportamento e mette in discussione la logica dominante che lo sostiene, ten-derà a usare modalità punitive, anche se in maniera residua.

Bisogna anche aggiungere che l’atteggiamento impositi-vo, le punizioni e la derisione delle fragilità del piccolo, sono avvallate e sostenute dalla cultura educativa diffusa in cui permangono incontrastate idee provenienti da «antiche visio-ni» del bambino e del ruolo dell’educatore: i piccoli devono

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ubbidire e l’adulto deve essere capace di imporsi. Si generano in tal modo ragionamenti del tipo: «Non farti mettere i piedi in testa»; «Il bambino deve capire chi è il più forte»; «Lui (il bambino) approfitta di te»; «Lui (il bambino) cerca di misu-rarti». Molti pensano che la funzione dell’adulto sia proprio quella di correggere gli errori del piccolo, di evidenziarne le difficoltà. Per questo a volte è utile alzare la voce, sgridare, appellare, punire, intervenire duramente; ciò serve anche a spronarlo, a non farlo adagiare in un’ovatta affettiva che lo renderebbe pigro e poco combattivo.

Altre volte si sentono autorizzati a intervenire pesantemente ritenendo che il comportamento scorretto del bambino lo ri-chieda. In questi casi dicono: «Mi ha fatto uscire dalla grazia», oppure: «Se le è proprio cercate».

Qualcuno ricorrere a razionalizzazioni e precisazioni: «No, io non picchio mai il mio bambino, certo che se fa il cattivo uno sculaccione a volte ci vuole»; «Una sola sberla non è picchiare»; «È la globalità della relazione educativa che conta»; «L’atto fisico è importante per segnalare in maniera chiara al bambino che esiste un limite».

Quindi permane l’idea che uno sculaccione sia educativo e spesso non si ritiene che questa azione equivalga a picchiare «veramente». Ciascun adulto ha sedimentato nella propria mente il ricordo delle modalità che i propri genitori e insegnanti usava-no in maniera privilegiata per punirlo. Molti sono stati percossi con strumenti diversi (la spazzola, la ciabatta, il battipanni, la verga, la cinghia) o sono stati appellati con aggettivi svalutativi, offensivi, oppure rinchiusi in camera o in bagno.

Periodicamente i mass media riportano l’attenzione su questo tema orientando il giudizio delle persone.

Ne è un esempio lo scalpore suscitato dalla notizia che i bambini londinesi, protestando contro le punizioni «Stop the smacking» («Fermate le botte»), hanno chiesto una legge che

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le vietasse totalmente. Il governo di Tony Blair, sostenendo ufficialmente la legittimità del ceffone educativo, si è limitato a fornire una serie di raccomandazioni come ad esempio: è bene picchiare a mani nude senza ricorrere a cinghie o bastoni; non bisogna essere eccessivi nell’uso della forza; attenzione a non procurare conseguenze fisiche come ematomi, occhi neri; è bene colpire il fondoschiena piuttosto che la testa; alzare le mani in nome della disciplina, non perché si è arrabbiati.

Di fatto, a dispetto delle conoscenze scientifiche che ci allertano sui danni conseguenti alle punizioni corporali, in 23 Stati dell’America, nelle scuole pubbliche ne è ammesso l’uso, anche ricorrendo a oggetti,1 e ciò concorda con i risultati di una ricerca della Columbia University, da cui emerge che il 66% dei genitori dichiara di usare oggetti per picchiare sul sedere i propri bambini (Thompson, 2002) e, nelle poche ricerche che abbiamo in Italia, questa percentuale tende ad alzarsi fino a raggiungere l’80%.

Se queste opinioni non fossero tanto radicate, il buon senso ci direbbe che non può esserci nulla di educativo nell’uso della forza: qualsiasi tipo di violenza l’adulto scelga di usare nella relazione è fortemente nociva ed è solo una dichiarazione di potere che ha l’intento di sottomettere il bambino.

La punizione fisica ed emotiva è antitetica al diritto del bambino d’essere protetto, nutrito, curato e non vessato da azioni crudeli; sviluppa ansietà, paura e dolore e ne offende la dignità.

Se si oltraggia il piccolo con qualsiasi grado di violenza fisica o emotiva, non vi è più rispetto per la sua persona, non gli viene riconosciuto il diritto all’integrità fisica, al rispetto dei sentimenti e dei bisogni e, dato che questo si compie nel-l’obiettivo di correggerlo, aggiustarlo e modificarlo, egli non

1 National Coalition to Abolish Corporal Punisgment in the Schools, 2001.

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è più considerato un essere umano dotato di un patrimonio irripetibile.

Se non fossimo impregnati di questo modello ci appari-rebbe del tutto incongruente che persone che hanno a cuore il benessere dei propri figli ritengano opportuno far vivere loro esperienze di dolore, paura e umiliazione come sono quelle che esperisce il bambino quando la sua mamma o il suo papà urlano contro di lui, si arrabbiano e lo aggrediscono.

Non c’è nulla di sano in queste modalità, sono solo la riattualizzazione della cultura autoritaria di cui siamo eredi. Il pater familias aveva pieni poteri sulla moglie, sui figli e sui servi. Questi gli dovevano obbedienza e, se non rispettavano il loro dovere, lui era giustificato a intervenire per insegnare la buona educazione e l’ubbidienza; si poteva pure ricorrere a strumenti forti come l’uso della verga, la minaccia affettiva («vai via che non ti voglio più») e fisica, la segregazione, fino a decidere della loro vita.

Retaggio di questa cultura è la svalutazione o sottovalu-tazione del bambino: i bambini sono «minus», minori, sotto-dotati; oppure «tabula rasa» o «arbusto in crescita», «pianticella da raddrizzare» (tutore è anche il nome del bastone che si usa per supportare le piante o le gambe delle persone) e, secondo tale concezione, il bambino non ha alcun contenimento, ha una natura selvaggia, cattiva e se serve è bene strattonarlo, farlo vergognare, punirlo o picchiarlo.

La punizione, presente in tutti i contesti ove i bambini crescono, attraversa il modello educativo dominante. La storia dell’infanzia è una storia d’insensibilità e crudeltà incessanti nei confronti dei bambini e le punizioni usate senza parsimonia in tutti i tempi sono sorrette da una moltitudine di spiegazioni, accadimenti, tecniche e metodi.

Più si va addietro nella storia, più basso appare il grado d’attenzione per il bambino, e più frequentemente

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Martina ha sette anni, è una bambina intelligente e molto vivace. Per la sua irrequietezza è sempre stata in difficoltà nel rispettare le regole della vita scolastica: fatica a star seduta al suo posto, tende ad alzarsi e a girovagare per la classe; si nasconde sotto il banco e non vuole uscire; si rifiuta di eseguire il lavoro assegnato dall’insegnante; litiga con i compagni e capita sovente che li picchi e li prevarichi nei giochi. Privilegia le relazioni con agli adulti a quelle con i coetanei e richiede alle maestre un’attenzione particolare.

A casa la situazione non è molto diversa: a ogni richiesta della madre la bambina risponde: «Un momento… fra poco… fra 10 minuti…» e quando i genitori cercano di imporsi a volte si rotola per terra, piange e urla.

La madre è impiegata in un ente pubblico e il suo orario di lavoro le consente di trascorrere molto tempo con la figlia. Quindi, con pazienza, cerca di correggerla, provando con dol-cezza a convincerla, a farla ragionare, ma lei non vuole sentire ragioni e si rifiuta di fare qualunque cosa le venga chiesta (i compiti, lavarsi i denti, prepararsi, andare a letto, ecc.). A volte la mamma non ce la fa più, perde la pazienza, alza la voce o le assesta uno sculaccione.

Il papà lavora tutto il giorno e quando torna a casa gioca con Martina o la aiuta a fare i compiti. Lui ha stabilito con la figlia una «complicità speciale», ad esempio le permette di

CAPITOLO SECONDO

Una storia come tante: la piccola Martina

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infrangere le regole imposte dalla mamma sull’orario fissato per andare a letto, sul cibo e i dolci assunti lontano dai pasti, ma quando la bambina non gli obbedisce, si arrabbia molto, urla e a volte la picchia.

Martina ha una sorella di 15 anni, una ragazza responsabile e tranquilla, molto brava a scuola; spesso si occupa di sua sorella quando i genitori non ci sono. Il contrasto dei loro caratteri è vistoso e induce facilmente gli adulti a effettuare confronti che sottolineano le differenze. Martina si sente protetta dalla sorella maggiore con cui, a volte, si confida.

Mamma e papà non vanno d’accordo e la tensione è alta. Quando il papà si arrabbia, urla, rompe oggetti e dà pugni ai mobili; inveisce con parolacce o minacce contro la moglie, ma rifiuta di prendere in considerazione la possibilità di separarsi, assunto condiviso dalla moglie che cerca di mantenere sempre sotto controllo la situazione, anche a scapito del suo equilibrio psico-fisico. Dal primo colloquio con la madre e dal racconto fatto nel ricostruire la storia della vita della bambina e della sua relazione con i componenti della famiglia non si evidenziano aspetti di problematicità o elementi che possono generare qualche forma di disagio.

La mamma è addolorata per queste difficoltà di e con Martina, non sa come prenderla ed è molto preoccupata. Chie-de un aiuto per capire sua figlia: sente che qualcosa non va, è preoccupata. Non vorrebbe assolutamente che la sua bambina soffrisse; desidera per lei benessere, felicità e serenità.

La signora, inoltre, sente di non essere in grado di ascoltare Martina: le preoccupazioni e i conflitti con il marito e con i problemi quotidiani ingombrano la sua mente e così non ha spazio per accogliere la comunicazione di disagio della piccola. La signora ha anche sollecitato il marito a prendere in mano la situazione, ma secondo lui la figlia è una bambina sana e felice e sarebbe meglio che la moglie non ingigantisse i problemi.

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Decido di vedere Martina e concordo con la mamma un appuntamento.

La bambina non vuole venire perché si vergogna e la mam-ma teme d’essere autoritaria, imponendole la decisione; ha paura anche che la figlia possa interpretare male questa attenzione e sentirsi «sbagliata». È necessario aiutarla a cercare le parole per dire a Martina che abbiamo bisogno di capire cosa le succede, perché sta così male.

Questo timore è frequente in alcuni genitori e si esprime con frasi come: «Che cosa gli dico?», «E se se la prende?», «E se pensa che voglio delegare ad altri la responsabilità di occuparmi di mio figlio?».

Altri ancora, e sono in genere i padri, dicono: «Mi sembra troppo piccolo», «Mi sembra brutto proporgli un dottore».

Queste affermazioni sono espressione del timore che il proprio potere possa nuocere. La preoccupazione di un uso inadeguato dell’autorità è un aspetto centrale nella relazione con il/la figlio/a. Questo timore, spesso non riconosciuto, viene agito nel suo contrario, rischiando di dare al bambino l’idea che i genitori non decidano, che non ci sia possibilità di cura o che la proposta di rivolgersi a uno psicoterapeuta sia strana.

Al primo incontro, Martina appare timida, con dei bel-lissimi occhi che scrutano e ancora desiderano. È attenta a ciò che le succede e regola il suo procedere sulla mia risposta implicita.

Martina è abbastanza grande e decido di non iniziare dalla stanza dei «piccoli», dove avrebbe a disposizione diverso materiale (bambole, animali, casette, costruzioni, ecc.) da usare a suo piacimento, cosa che farò nei successivi incontri, ma la faccio accomodare nello studio e le chiedo se vuole dirmi o fare qualcosa. Lei sceglie di disegnare la sua famiglia. Inizia il lavoro rappresentando prima di ogni cosa il suo gatto, la sorella, poi il papà e infine la mamma. Lei si omette. Quando le chiedo

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come mai non si è rappresentata, mi risponde con una razio-nalizzazione: non può esserci perché sta disegnando.

Lavoriamo poi con un test proiettivo e, mentre costruisce le storie del Blacky,1 Martina si lascia scappare una valutazione negativa sui genitori: «Quelli sono matti!», dice commentan-done i litigi.

Solo negli incontri successivi, quando la relazione tra noi due si è consolidata e Martina ha acquisito maggior fiducia, mi confida: «Quando il papà è molto arrabbiato con me mi dà uno sculaccione. Non succede mai che mi picchi, però; siccome sono cattivella, spesso mi sgrida o le insegnanti mi danno la nota».

Nel gioco spontaneo, Martina fa lottare gli animali tra loro, in particolare identifica un dinosauro come il cattivo che combatte e aggredisce tutti gli altri e dice: «È bella questa violenza! Che ci posso fare? Per me è così».

Alla domanda: «Chi rappresenta questo dinosauro?», Martina risponde: «Questo è il papà e l’altro sono io». Dopo una lunga ed estenuante lotta, arriva lo squalo che «è il capo di tutti» e uccide il dinosauro cattivo. Lo squalo, secondo Martina, «è la mamma».

Durante questi giochi, la bambina mi comunica che i ge-nitori litigano spesso e il papà si rivolge alla mamma con tante brutte parole, mentre la mamma non le dice mai. Martina mi dice che quando se la prende con lei, escono parole ancora più

1 Il test del Blacky è un test proiettivo che indaga sulla personalità del bambino. Consiste in dieci immagini che rappresentano diverse situazioni in cui si trovano un cane (Blacky) e la sua famiglia (mamma, papà e Tippy). Sia Blacky che Tippy, volutamente, non vengono connotati con un genere specifico, ma il bambino può proiettare ciò che ritiene più confa-cente e attribuire a Tippy la relazione parentale che desidera. La proiezione è un meccanismo inconscio che consente di esprimere, senza controllo, il proprio mondo interno. La consegna, che è quella di costruire una storia a partire dell’immagine presentata, consente di analizzare le risposte del bambino come rappresentazione di ciò che lui sente e prova, senza dover fare i conti con ciò che si può dire e che gli adulti possono accettare. I test proiettivi sono usati moltissimo e sono molto utili perché consentono di capire quali siano gli stati d’animo, le sensazioni e i problemi interiori che il bambino sta attraversando nella sua crescita. Sono quindi un ottimo mezzo per poterli capire meglio (Blum, 1978).

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brutte: «Non ti posso più dire… perché poi lui viene qua, lo sa ed è peggio». Rassicurata sul fatto che quello è uno spazio solo suo, dove papà non può entrare, mi confida: «Mi picchia. Mi dà i pugni sulla pancia… quando la mamma non c’è, è fuori… No. Me li dà sul sedere».

A volte arriva agli incontri particolarmente euforica, ecci-tata. Comincia a saltare sui cubi di gomma presenti nella stanza, con il rischio di farsi male e allora devo trattenerla, contenerla. È necessario imporle dei limiti che però fatica ad accettare. Spesso chiede di giocare lanciandosi oggetti ed è necessario ricordarle ogni volta che non è consentito far male o farsi male.

Utilizzando la casetta delle bambole, Martina si identifica in una bimba molto piccola, che chiede il latte alla mamma, piange, in una successione sempre più veloce, durante la quale lei è sempre più arrabbiata e insoddisfatta.

Ora possiamo cercare di capire Martina: il materiale emerso a nostra disposizione è più che sufficiente.

Avere un posto sicuro

La storia di Martina è una storia comunissima: vi troviamo elementi presenti nella vita di molti bambini. Tutto sembra normale: la famiglia, la mamma, la casa, eppure Martina soffre, sta male. Il suo malessere non riesce a esprimersi pienamente, né a essere riconosciuto. La bimba manifesta un disagio che non trova legittimazione. È un dolore che non ha neppure un nome, di volta in volta viene definito dalle diverse persone che entrano in relazione con lei in maniera diversa: capricci, reattività, contro-dipendenza.

L’incontro di consultazione tra la psicologa e Martina proprio per questo motivo, ha l’obiettivo di sviluppare un ascolto specifico e una comprensione profonda del disagio

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della piccola. È indispensabile mettersi dal suo punto di vista, ascoltare, valorizzare e legittimare i segnali emotivi e i suoi stati d’animo per comprenderne le qualità e le potenzialità, la sua visuale, il suo sguardo sul mondo.

Ovviamente Martina, come ogni bambino, per esprimere ciò che sente usa diverse forme di comunicazione; non sono solo le parole a veicolare informazioni preziose, ma anche la sua postura, il suo corpo, il tipo di gioco che sceglie, le storie che costruisce mentre gioca, il disegno. È importante cogliere tali messaggi ponendosi in una posizione ricettiva fatta di di-sponibilità e di vicinanza emotiva.

La prima cosa che Martina è disposta a offrirmi è un dise-gno. L’uso del disegno ha una lunga tradizione nella psicologia clinica e in quella dello sviluppo della personalità. Essendo un mezzo naturale di comunicazione è uno strumento che risulta molto gradito al bambino. I disegni del bambino sono l’espressione della sua costruzione mentale: egli rappresenta le immagini interne che rispecchiano il personale e irripetibile modo di percepire e vivere la realtà emotiva che lo riguarda.

Il disegno risulta essere un strumento efficace per com-prendere meglio sia la dimensione cognitiva che quella emotiva del bambino.

In particolare, il disegno della famiglia è in grado di met-tere in evidenza l’immagine che il bambino ha di sé e la sua collocazione all’interno del nucleo familiare, le relazioni che ha interiorizzato e strutturato e che sono alla base dei rapporti attuali con i vari componenti della famiglia.

Martina disegna la sua famiglia caratterizzando le diverse figure: la mamma ha i capelli lunghi ed è collocata all’estrema destra del foglio; il papà ha un po’ di pancia e si trova tra la mamma e la sorella; rappresenta anche il suo gatto perché fa parte integrante della famiglia. Nel disegno ci sono tutti i com-ponenti del suo gruppo d’appartenenza, compreso l’animale

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La mamma di Paolo telefona alla psicologa per fissare un appuntamento. È stata inviata dalla dottoressa di base perché suo figlio, di 12 anni, non va bene a scuola e ogni giorno diventa sempre più problematico mandarlo: accusa forti mal di pancia, può succedere che abbia una strana febbre che permane solo alcune ore e sovente vomita.

A volte dalla scuola telefonano perché il bambino sta male e la mamma deve andarlo a prendere.

Concordo un colloquio con i genitori prima di decidere se vedere Paolo.

Entrambi arrivano all’appuntamento ed è la mamma che espone la situazione così come mi aveva già accennato al telefono.

Descrive Paolo come un bambino con ottime capacità pra-tiche e relazionali: «Parla con chiunque, fa amicizia facilmente, saluta tutti», ma con grosse difficoltà scolastiche fin dalla scuola primaria. La madre racconta che già quando frequentava la quinta le insegnanti avevano prospettato l’ipotesi della boccia-tura, anche se poi l’avevano promosso. Arrivato alle secondarie di primo grado, Paolo presenta le stesse difficoltà, al punto che, secondo la madre, è solo grazie al supporto dell’insegnante di lettere che il ragazzo viene promosso. Purtroppo quest’anno ha una nuova insegnante di lettere che, pur avvertita dalla madre dei disagi di Paolo, pare non tenerne conto. Così prende bassi

CAPITOLO QUINTO

Il mio bambino vomita tutte le mattine e non vuole andare a scuola: la storia di Paolo

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punteggi nelle verifiche di italiano e tantissime note, perché si distrae. La mamma ci tiene a precisare che anche lei, da piccola, non aveva voglia di studiare, così come suo marito e che «non tutti sono portati allo studio».

Entrambi i genitori sono concordi nel ritenere che a Paolo non piaccia studiare; egli vorrebbe andare a lavorare, ma la legge non lo consente, quindi, «con le buone o con le cattive», bisogna convincerlo e questo è un compito che si assume in genere la mamma, che sta a casa tutti i giorni con lui.

Il papà, inoltre, è convinto che Paolo tende «a fare il furbo», «ne approfitta» e quindi lui quando non ne può più, oppure quando ritiene che non può certo farsi prendere in giro da un ragazzino, lo picchia di santa ragione.

Hanno anche cercato qualcuno che lo aiutasse a fare i compiti, ma il bambino non vuole essere aiutato da nessuno e loro hanno desistito.

Dall’anamnesi, che raccolgo con fatica perché i genitori tendono a non fornire elementi, appiattendo tutta la compren-sione del disagio di Paolo alla teoria che «non tutti sono portati per lo studio», emergono alcuni aspetti significativi: Paolo è stato desiderato, ma la madre ricorda la sua gravidanza come difficile perché è stata molto male fisicamente. Nato da parto autocico, Paolo è stato allattato al seno per poco tempo; il latte era insufficiente e tutti, compreso il pediatra, consigliarono alla signora di passare al biberon.

La mamma riferisce che Paolo è il suo prediletto ed è per questo che lei fatica a imporsi.

La sua prima figlia ha 16 anni è bravissima a scuola e studia tutto il giorno. Litiga continuamente con Paolo perché non lo sopporta. La ragazza è anche assennata e aiuta in casa, mentre Paolo si sottrae o cerca di contrattare una ricompensa.

In casa c’è anche un fratellino di due anni e mezzo che Paolo picchia spesso, anche se, a detta della madre, non è in-

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tenzionale perché succede mentre giocano. Ella nota una certa rivalità tra Paolo e il fratellino: ad esempio quando sono sul divano Paolo vuole stare disteso e a calci spinge il piccolo in un angolino. Lei, per redimere il conflitto, suggerisce a Paolo di rannicchiarsi così che ci sia spazio per entrambi.

La famiglia proviene dal Sud e si è trasferita quando Paolo aveva 6 anni. Per ben due volte hanno dovuto cambiare casa con la conseguenza, per Paolo, di dover cambiare scuola, perdere amici e riferimenti. Ma questi trasferimenti non sono stati sentiti come faticosi. La vera separazione dolorosa è stata invece quella dal paese di origine, al quale sono ancora legati da vincoli di parentela e amicali. Tutte le vacanze estive, pasquali o natalizie, infatti, vengono trascorse lì.

Paolo ha sempre dormito nel lettone con la mamma perché il papà di notte lavora; il bambino aveva paura di dormire da solo e alla mamma faceva piacere averlo vicino.

Verso la fine della gravidanza dell’ultimo figlio, la mam-ma ha proposto a Paolo di andare a dormire nella sua stanza, acquistando una nuova cameretta scelta da Paolo stesso, e da allora, senza drammi, il bambino ha iniziato a dormire da solo in camera sua. Ancora adesso però qualche sera si sveglia, piange e torna nel letto con la mamma.

Ciò che colpisce in questo colloquio è la difficoltà ad avviare nei genitori processi di riflessione che connettano gli aspetti di difficoltà di Paolo con le sue richieste affettive.

I genitori paiono convinti che non esistano cause o ragioni che giustifichino il comportamento del figlio: semplicemente «si nasce così, si assomiglia a qualcuno, ecc.».

Allo stesso modo, viene sottovalutata la portata emotiva del trasferimento di residenza della famiglia: la vita va così, bisogna lavorare, ecc. Sembra non ci sia spazio, nella coppia, per sintonizzarsi sulle proprie e altrui emozioni. Inutile dire che anche la richiesta-accettazione che Paolo dorma con la mamma

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perché ha paura e il papà lavora, non ha alcuno spessore emotivo: nessuno dei due adulti ha una reazione emotiva, o un minimo movimento di identificazione, tutto è piatto.

Anche al sintomo del vomito, che ha mobilitato la richiesta di consultazione, non viene dato valore.

Per definizione, il sintomo psicosomatico è una comunicazio-ne non verbalizzabile dal soggetto, per cui Paolo manifesta con il vomito emozioni non mentalizzabili e quindi non esprimibili.La somatizzazione, inoltre, è il canale della comunicazione primaria su cui chi accudisce si sintonizza: la mamma normalmente «in-terpreta» i segnali del neonato, come il pianto, il rigurgito, ecc.

Al vomito di Paolo la famiglia attribuisce un’intenzionalità: «Si fa venire il vomito»; «Fa finta di vomitare»; «Si sforza ma non vomita proprio», declassando in tal modo il sintomo e annullan-done il valore comunicativo. Il bambino non ha molta speranza di essere capito. Quando faccio notare alla mamma che lei non ha più accettato Paolo nel lettone perché era incinta e aggiungo: «Chissà cosa avrà pensato Paolo!», lei mi risponde: «Nulla, per-ché al mio invito a tornarsene in camera sua, lui non ha reagito. Inoltre gli abbiamo comprato una nuova cameretta!».

Concordo con i signori la modalità di lavoro e cosa dire a Paolo per motivargli l’incontro con me: vedrò il figlio per 2-3 colloqui e poi li incontrerò nuovamente per restituire loro le mie osservazioni e riflessioni.

La sensazione è che i genitori non sappiano bene cosa farà Paolo dalla psicologa. Scopro poi che quando Paolo aveva 9 anni, erano già stati dalla psicologa dell’ASL, la quale li aveva rassicurati dicendo loro che le difficoltà del figlio sarebbero scomparse con la crescita. Evidentemente non è andata così.

Nel giorno fissato, Paolo arriva accompagnato dalla mam-ma. Lei riferisce che il ragazzo è stato male durante il giorno, ha vomitato più volte, ma siccome stava meglio aveva alla fine deciso di essere accompagnato all’appuntamento.

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Anche in questo caso, la situazione mi viene presentata dalla mamma che spera di ricevere un aiuto per sua figlia pri-mogenita, Cinzia, che ha dodici anni.

La ragazza va male a scuola ed è molto gelosa del fratellino di sei anni; è scappata più volte di casa e ultimamente ha delle profonde e prolungate crisi di pianto.

Secondo la mamma tutto in casa è abbastanza normale: il marito lavora tutto il giorno, torna la sera stanco e non vor-rebbe sentir problemi e, men che meno, le urla e i litigi tra i due figli. Ritiene di avere diritto a riposarsi dopo molte ore di duro lavoro e non tollera né le disobbedienze, né tantomeno il doversene occupare. Si arrabbia molto, alza la voce e le mani sulla figlia, se scopre che durante la giornata ha fatto qualcosa di sbagliato come picchiare il fratello, scappare di casa, prendere delle note, ecc. Lui ritiene che quando i ragazzi le prendono se le ricordano per un pezzo e ciò li aiuta a correggersi e a imparare a comportarsi in modo più educato.

La mamma non condivide il ricorso alla forza e alla du-rezza con i ragazzi, in particolare con Cinzia, ma per il quieto vivere non lo contrasta e, anzi, chiede alla figlia di non far arrabbiare il papà invitandola ripetutamente a stare calma e adeguarsi.

La ragazza si arrabbia sia con la madre, perché ritiene in-giusta questa richiesta, sia con il padre, perché la picchia.

CAPITOLO SETTIMO

«Lo faccio per il tuo bene»:la storia di Cinzia

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La mamma cerca di tenere la situazione familiare sotto con-trollo, per evitare che il marito si arrabbi e picchi Cinzia. Tenta cioè di evitare le situazioni che potrebbero generare conflitto e tensione, manda per esempio a letto presto i ragazzi, prima che arrivi il marito, così egli non assiste a eventuali discussioni che si creano tra i figli.

La signora, anche se non ne è pienamente consapevole, descrive la sua relazione coniugale come fortemente dissimetrica: il marito ha tutto il potere e lei fa di tutto per non irritarlo. In particolar modo, temendo molto la collera del marito, chiede ai figli di non creare nessun motivo di tensione.

La richiesta che la mamma sostanzialmente mi rivolge è di aiutare Cinzia a adeguarsi, ad accettare questo stato di cose a cui, secondo la signora, non vi sono alternative.

Discuto con la mamma questo mandato, esplicitando la sua richiesta e chiarendo che ciò che posso fare è ascoltare Cinzia e aiutarla a trovare la «sua» soluzione a questo grande e complesso conflitto.

Cinzia arriva accompagnata dalla mamma. È una bellissima ragazza alta e sviluppata.

Da subito non nasconde il suo malessere e con toni con-citati racconta che la mamma fa differenze tra i due fratelli: nei litigi prende sempre le parti del più piccolo. Persino quando a tavola discutono perché entrambi vogliono la stessa porzione di cibo, la mamma favorisce lui. Sostiene che nessuno le vuole bene. L’unica figura importante e vicina emotivamente era la nonna, che l’ha cresciuta e dalla quale si rifugiava quando era più piccola, ma ora non c’è più, è morta all’inizio dell’anno e lei ne soffre molto.

Non può farsi consolare perché, secondo lei, queste cose alla sua età non si fanno più, «non è mica piccola!».

In casa, Cinzia continua in maniera estenuante a stuzzicare, discutere e picchiare suo fratello o, quando non ne può più, si

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chiude in camera sua e piange, oppure scappa di casa e va a na-scondersi dietro l’auto della sua mamma dove, attenta, controlla se qualcuno la va a cercare. All’inizio si assentava qualche ora, ma adesso, per provocazione, rimane fuori casa anche tutta la notte. Il papà vieta alla mamma di uscire e di andarla a prendere e, quando Cinzia rincasa, normalmente le prende.

L’idea che dà è di una ragazzina senza agganci, che non ha approdi, senza amiche, senza parenti, non perché non ve ne siano, ma perché lei, per le ragioni più diverse, dice che non ci si può fidare.

Di contro la mamma sembra si barcameni in questo intrigo di tensioni e di sofferenza (la nonna morta era la sua mamma) e che non abbia disponibilità per sintonizzarsi e consolare, sostenere e aiutare la figlia.

Cinzia a scuola non va bene: non ha energie per studiare e ha una così bassa autostima che pensa di non essere in grado e di non riuscire a capire. Usa invece le relazioni con le insegnanti per ricevere attenzioni e considerazioni. Queste relazioni, che Cinzia usa in maniera riparativa, non durano molto perché es-sendo permalosa capita spesso che fraintenda i comportamenti delle insegnanti, si offenda e quindi si allontani.

In virtù dell’obbedienza

Il papà di Cinzia ritiene che sia un compito educativo insegnare alla ragazza a ubbidire e quindi le si rivolge con co-mandi, divieti e limiti.

Lei deve ubbidire, imparare e capire come ci si deve comportare nella vita. Per ottenere questo risultato, usa aggressioni, ingiurie, critiche, sgridate, punizioni, minacce, derisioni, umiliazioni e, infine, botte. Le punizioni corpo-rali sono l’ultima spiaggia, secondo lui, e le usa nell’intento

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esplicito di educare la ragazza ad assumere comportamenti adeguati alle sue attese.

Cinzia «deve capire chi comanda, non può fare di testa sua», e quindi il padre si sente costretto a usare la forza per colpire la figlia e sottometterla, tentando in questo modo di definire chi ha potere, definizione che Cinzia non accetta. L’unica cosa che ottiene è così un’escalation di tensione e di dolore: Cinzia sta sempre più male ed è sempre più arrabbiata.

Nel nome dell’obbedienza, il padre ricorre a molte forme di violenza e sopraffazione che decanta come necessarie e edu-cative. È in quest’ottica che Cinzia viene convinta che le prende perché si comporta male. È interessante sottolineare che il papà è convinto di fare tutto ciò per il bene della ragazza.

Queste modalità aggressive, invece di creare il rispetto per gli adulti, generano una paura specifica che incide sullo sviluppo della ragazza.

Cinzia è arrabbiata con il padre che la picchia e non la capisce e pensa che lui faccia delle terribili ingiustizie. Lei non vuole subire e quindi sfoga la sua impotenza e rabbia picchiando a sua volta il fratello oppure si sfoga su un cagnolino di pezza a cui vuole molto bene e che le tiene compagnia da molto tempo. Ormai è liso, ha un occhio fuori e la pancia con un buco, che la mamma le rammenda spesso, ma lei non lo abbandona. Dice, anzi, che non è un cane, bensì una cagnolina che le assomiglia molto.

Cinzia non rinuncia all’idea che deve essere risarcita di tutto il dolore che le è stato provocato e, nel contempo, cerca di creare delle situazioni estreme per verificare l’affetto che i genitori nutro-no per lei. Ne è un esempio quando scappa di casa, ma in realtà non si allontana mai molto, aspettando che la madre la vada a cercare, oppure fa «la difficile» per verificare quanto la mamma è disposta a tollerarla o a privilegiarla rispetto a suo fratello. Sono tentativi estremi per richiamarne l’attenzione, per verificarne l’affetto, ma tutto quello che riceve sono tanti ceffoni.

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Cinzia, inoltre, non è in grado di esprimere i suoi sentimenti perché non è mai stata autorizzata a viverli e a esprimerli, so-prattutto la tristezza e l’ira. Quando le percezioni o i sentimenti dei bambini vengono attivamente negati o minimizzati, la loro capacità di sviluppare un linguaggio delle emozioni è stentata e rimane loro solo la percezione dell’impossibilità di comunicare in modo adeguato, per soddisfare i bisogni fondamentali. Le emozioni sono talmente compresse che la tristezza annichilisce e la rabbia è micidiale.

Cinzia reagisce ai comportamenti terrorizzanti del papà sia dicendo: «Me le sono meritate», sia arrabbiandosi e deside-rando di vendicarsi. Ovviamente, siccome non può affrontare direttamente suo padre perché è più grosso ed è il papà che lei ama e dal quale dipende anche affettivamente, sposta l’ag-gressività verso suo fratello. Picchiandolo, si sente potente e le sembra di vendicare quella parte di sé che subisce e non ha la possibilità di reagire.

L’escalation di violenza

L’abuso intrafamiliare, la negligenza e le aggressioni rappre-sentano la maggioranza della violenza emotiva e fisica sostenuta dai bambini in ogni parte del mondo. La punizione è presente in tutti i contesti ove i bambini crescono perché attraversa il modello educativo dominante ed è stata usata senza parsimo-nia in tutti i tempi. Nella storia dell’infanzia, ritroviamo una moltitudine di spiegazioni, accadimenti, tecniche e metodi per punire i bambini: è una storia d’insensibilità e crudeltà incessanti nei loro confronti.

Siamo cresciuti nella convinzione che le botte aiutino i bambini a crescere, che non sia possibile educare senza punire, che a volte i bambini non sentono ragioni e allora è necessario

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usare le maniere forti. Potremmo continuare il lungo elenco di «buoni motivi» a favore delle botte, ma ciò che risulta evi-dente è che la storia della violenza nei confronti dei bambini poggia le sue radici su un sistema di credenze profondamente interiorizzate, che ruotano attorno alla convinzione che la fun-zione educativa sia quella di correggere (raddrizzare) la natura selvaggia, cattiva, incivile del bambino.

Nonostante le cronache, le anamnesi soggettive e la storia ci insegnino che ciò non sia assolutamente vero, questa idea come abbiamo già affermato continua a essere tenacemente difesa. Sgridare, minacciare, svilire, sottomettere, punire il bambino, restano a oggi prassi accettate e spesse volte ritenute necessarie.

I genitori affermano di ricorrere alle punizioni per necessità: reagiscono semplicemente al comportamento del bambino nel cercare di correggerlo, tentano di creare un deterrente.

È dimostrato, invece, che tali metodi disciplinari sono del tutto inefficaci: non risolvono il comportamento indesiderato del figlio, ma lo interrompono solo momentaneamente.

In molte situazioni, il genitore si ritrova invischiato in un circolo vizioso: risponde a quelle che ritiene delle scorrettezze da parte del bambino, aumentando il suo comportamento punitivo che, a sua volta, renderà il ragazzo ancora più ostile. La situazione subisce una graduale escalation e diventa via via sempre più stressante. Si sviluppano situazioni nelle quali l’atto punitivo può divenire così violento da produrre ferite al bambino, o trasformarsi in abuso vero e proprio.

Sono cattivi i genitori che picchiano?

Molte persone cercano di evidenziare delle distinzioni tra le sculacciate educative (reputate non aggressive) e le aggres-

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sioni vere e proprie, ritenendo che i genitori che picchiano, quando lo fanno a fin di bene, non siano paragonabili ai genitori maltrattanti, ritenuti malati, con problemi anche psichiatrici e appartenenti a categorie socio-culturali basse. Questa immagine è rinforzata da alcune ricerche e dal modo con cui la stampa tratta le informazioni relative al maltratta-mento sui bambini. L’idea trasmessa è che, se i bambini ven-gono maltrattati, dipende esclusivamente dall’irresponsabilità di alcuni genitori. Questo processo di pensiero pacifica gli animi: l’identificazione del colpevole diventa chiara e non si è costretti a mettere in discussione le proprie buone azioni e gli intendimenti.

Purtroppo non è così, poiché è statisticamente provato che la maggior parte dei genitori ricorre alle punizioni fisiche dai primi mesi di vita fino all’adolescenza del figlio. La differenza non sta nel ricorso alla punizione, ma nella frequenza, durata e intensità. Alcuni bambini vengono picchiati pesantemente tutti i giorni e finiscono in ospedale, per altri vi sono i ceffoni, le minacce e le giornate terribili.

Questa pratica è così diffusa che la ritroviamo applicata in tutti i contesti dove vivono i bambini, sia nelle strutture assistenziali che in quelle educative. Gli adulti che si occupa-no dei bambini facilmente adottano pratiche correttive basate sulle punizioni fisiche, sulle privazioni e sui maltrattamenti. Ne consegue che nessun adulto appartenente al nostro contesto culturale riesce ad astenersi dal ricorrere a modalità violente.

Esistono poi variabili aggravanti e precipitanti l’aggressione fisica o emotiva da parte del genitore, come ad esempio la giovane età, l’uso di sostanze psicotrope, la tensione emotiva, il disac-cordo nella coppia genitoriale, la povertà sociale e le difficoltà nel gestire le situazioni stressanti che la vita può presentare.

Dato che le condizioni socio-familiari sfavorevoli possono aumentare la probabilità che un genitore maltratti il proprio

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figlio, gli americani invitano a porre attenzione al sovraccarico emotivo che la coppia parentale può non gestire: il rischio è quello di scaricare la tensione in un atto aggressivo come dare un pugno sul tavolo, un calcio alla porta, urlare, ecc. Gli americani quindi suggeriscono operazioni elementari che certo non vanno alla radice dei problemi, ma hanno il pregio di interrompere la progressiva escalation di tensione. Quando si è confrontati con una crisi d’insufficienza (ovvero ci si rende conto di non farcela, che le cose stanno peggiorando e che precipitano, anche contro il nostro intendimento) è necessario interrompere la situazione stressante e chiedere aiuto, tirare il fiato, parlare con qualcuno che ci aiuti e ci capisca, o fare due passi e ritrovare il proprio equilibrio.

Molti studiosi si sono interrogati su quali siano le variabili soggettive, educative, interrelazionali caratteristiche delle fami-glie in cui si sviluppa la violenza, e in cui più spesso si ricorre a interventi di correzione fisica dei bambini. Tali ricerche hanno messo in evidenza che l’uso di metodi disciplinari severi si accompagna alla difficoltà dei genitori di riconoscere adegua-tamente i bisogni del bambino e di stabilire, con lo stesso, un buon contatto, sia fisico che emotivo.

I genitori che hanno subìto maltrattamenti nella loro infanzia, sebbene il loro adattamento sociale sia adeguato, sul piano affettivo hanno molti problemi.

Le esperienze di deprivazione si caratterizzerebbero so-prattutto per il fatto che creano un’insofferenza costante verso le esperienze psichiche di frustrazione e di pena, che vengono rifiutate e la cui responsabilità è attribuita ad altri. Questi vissuti sedimentano profondamente nella personalità creando sia una sensazione continua che ciò che si riceve è sempre negativo sia un atteggiamento sospettoso verso il mondo esterno, da cui ci si sente continuamente minacciati. Il bambino viene vestito di ogni possibile cattiva intenzione («Lo fa apposta, mi provoca,

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cerca di forzare il limite») e la capacità di identificarsi e risuonare empaticamente viene meno.

L’Io immaturo, debole e disarmonico non consente una adeguata elaborazione delle esperienze e non permette di soppor-tare le situazioni che normalmente generano colpa e angoscia. Ciò favorisce il trasferimento delle tensioni psichiche sul piano comportamentale, cioè si agisce. Questo è il meccanismo che rende una sculacciata o un’urlata liberatoria per l’adulto.

Si spiega così perché adulti che hanno problemi di au-tostima e insicurezza affettiva, possano nascondere, nell’idea di educare, il loro bisogno di potere e di conferma. Questi genitori si aspettano molto da se stessi e dai loro bambini, da cui cercano prove d’amore e di ossequiosa obbedienza. Sovente trasformano la relazione in una lotta per ottenere dai figli quello di cui hanno bisogno: essere amati e obbediti. Non tollerano le situazioni che li fanno sentire inadeguati, o l’idea di non essere una famiglia ordinata, di non avere allevato un bravo bambino, di non essere un bravo genitore. Non sopportano che esistano altri punti di vista, un altro sistema di convinzioni e la violenza appare come un tentativo di normalizzazione.

E così, a fianco di variabili socio-familiari, devono essere evidenziati anche aspetti di carattere dei genitori: quelli che risultano più inclini ad aggredire il bambino hanno anche difficoltà nel riconoscerne i bisogni in maniera adeguata, mostrano livelli molto bassi di predisposizione a un positivo contatto fisico (abbracciare, accarezzare) e molto alti, invece, di tendenza a interazioni di tipo avverso e coercitivo. Sono spesso intolleranti o ansiosi.

Le motivazioni razionali che i genitori presentano per giustificare la loro violenza sul bambino non hanno nulla a che fare con i motivi reali che spingono un genitore a picchiare.

Il genitore, davanti al comportamento del bambino, si può sentire minacciato, spaventato, impotente, non ha risposte

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La zia di Giorgio è molto preoccupata perché suo nipote dodicenne sta tanto male e, secondo lei, mamma e papà sba-gliano entrando in aspro conflitto con il ragazzo e ricorrendo sempre alle maniere forti, modalità che lei ritiene del tutto controproducenti.

Siccome abita vicino e ci tiene molto ai bambini, non può fare a meno di seguire la situazione e cerca di far pressione su suo fratello (papà di Giorgio) affinché si lasci aiutare.

Dopo qualche tempo i genitori di Giorgio accolgono la sollecitazione e si rivolgono alla psicologa.

Al primo appuntamento, visibilmente tesi e sofferenti, raccontano le terribili difficoltà nella relazione con il figlio. Giorgio è stato adottato e portato in Italia dall’Etiopia, con suo fratello Alessandro, due anni più grande di lui, quando aveva circa due anni. Alessandro però è più bravo, più calmo.

Arrivati in Italia, i bambini hanno cambiato nome e dopo le normali difficoltà dei primi momenti non hanno manifestato altri problemi.

Circa quattro anni fa, i genitori hanno adottato un altro bambino, Flavio di sei anni. La mamma è disperata: non sa più cosa fare con Giorgio. La sua preparazione professionale e la sua esperienza lavorativa di educatrice non l’aiutano a capire il figlio. Il papà pensa che Giorgio esageri sempre e che vada contenuto. La coppia condivide l’idea che le botte funzionano

CAPITOLO DODICESIMO

La dolorosa ricerca delle proprie origini per un bambino adottato:la storia di Giorgio

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da panacea: vanno sempre bene e tutto si risolve con le botte e le sgridate.

Giorgio sta diventando un piccolo delinquente e loro sono addolorati e disperati. Raccontano di episodi allarmanti (ha bruciato una macchina, rotto dei vetri, ecc.) che Giorgio compie solo quando è in compagnia di altri coetanei.

L’unica attività che lo calma è il calcio: ci tiene molto, riesce molto bene e trova soddisfazione perché gioca anche il suo papà.

Nella descrizione che fanno del figlio è evidente la totale difficoltà di percepire qualcosa di buono in lui, che si accompa-gna a idee persecutorie. Compaiono qui le idee di molti genitori che, non riuscendo a identificarsi nel figlio, lo apostrofano con epiteti e lo giudicano: lo fa apposta, ci sfida…

Nella difficoltà di cogliere cosa nasconde l’aggressività di Giorgio e in che modo occulta la sua sofferenza, i genitori, preoccupati della loro immagine e degli altri fratelli, contro-reagiscono.

La mia proposta di vedere Giorgio viene accolta senza problemi, ma con un atteggiamento di leggero scetticismo.

Al primo incontro Giorgio viene accompagnato dalla zia che, ancora sulla porta, mi riferisce che Giorgio non voleva venire. Gli chiedo se ora che è arrivato da me possiamo salutare la zia per un’oretta e stare noi due soli. Mi fa cenno di sì con la testa e si lascia guidare nello studio.

Non vuole parlare, tiene la testa bassa e la fa ciondola-re. È un bambino molto bello, alto, con i capelli crespi e la pelle scura. Decido che sarò io a parlare e, strategicamente, gli racconto che sono nata in un altro luogo rispetto a quello in cui vivo, che all’inizio ho fatto molta fatica per adattarmi, perché le persone parlavano un’altra lingua. Non pare nep-pure mi ascolti e sembra che io mi esibisca in un monologo, ma all’improvviso mi dice che lui non ricorda niente del suo

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trasferimento, però sa che quando è arrivato in Italia i genitori gli hanno cambiato il nome. Gli dico che da qualche parte della sua mente, probabilmente, c’è un posto in cui lui ha conservato i suoi ricordi di quando era molto piccolo e questi aspettano solo l’occasione buona per potersi rivelare. Lui è contento di questa mia dichiarazione.

Gli chiedo se adesso che ci siamo conosciuti vuole usare la stanza dei giochi e lui accetta. Con i cubi di spugna e dei teli costruisce una capanna in cui si nasconde e dal suo buco mi parla. Mi racconta cosa fa e stabilisce la «graduatoria affet-tiva», ovvero chi gli vuole più bene. Al primo posto c’è la zia e all’ultimo la mamma: «Lei non mi crede mai!», «C’è sempre Flavio che è il più piccolo e che bisogna capire».

Mi colpisce che egli metta la sua mamma all’ultimo posto, ma capisco il suo dolore.

La seduta finisce e lui concorda con me e la zia i prossimi appuntamenti: evita i giorni che sono dedicati al calcio, ma insiste per venire due volte alla settimana. Questo fatto è del tutto insolito, però accondiscendo riservandomi di capirne successivamente la logica.

Nel secondo incontro, entra direttamente nella stanza dei giochi, costruisce una culla enorme dove si fa ninnare, accarez-zare e cullare. Accetta le interpretazioni che riguardano la sua rabbia e il suo bisogno di sentirsi amato e considerato. Si sente dispiaciuto per avere il posto del «birichino», ma non sa come fare se gli altri non gli credono.

Prima del terzo incontro la zia riesce a dirmi che Giorgio ha appiccato per due volte il fuoco in cortile e in casa, con gravi rischi. Lei è anche preoccupata perché non vorrebbe che i genitori ne venissero a conoscenza, ma nel contempo si rende conto che non è un’informazione omissibile. Lui entra e non mi dice nulla di questi episodi, ma mi chiede di disegnare. Gli offro lavagna a fogli mobili, insieme a dei pennarelli colorati.

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Rappresenta un ragazzino vestito da calciatore che ha vicino un pallone. Gli chiedo di dar vita a questo disegno e lui racconta: «Si chiama Marco, ha dieci anni ed è arrabbiato perché i suoi genitori sono cattivi e lo picchiano. Non lo curano e si dimenticano di lui». Accorgendosi di essersi troppo aperto mi dice che vuole cambiare disegno e rappresenta un’alba sul mare. Mi rivela che è molto bravo nel disegno e a scuola il disegno dell’alba ha meritato un premio.

Alla mia richiesta di disegnare la sua famiglia, o in seconda battuta una famiglia di animali, per non dirmi che non ne ha voglia, disegna una famiglia di formiche tanto piccole da ri-chiedere una lente di ingrandimento per poterle vedere. Come sempre quando il soggetto non vuole comunicare, le cose che produce non raccontano nulla.

Al quarto incontro mi esprime il problema di questo perio-do: «Le mie insegnanti mi hanno messo in fondo alla classe. Io vorrei che mi spostassero perché non ci sto bene. Puoi dirglielo tu che mi spostino? L’ho chiesto alla mia mamma di farlo, ma lei dice «che sono capricci oppure che sono grande abbastanza per chiederlo da solo».

Gli dico che per lui (come per tutti) è importante che prestino ascolto alle cose che dice. Non essere ascoltati, o mal interpretati, fa sentire tristi e poco significativi e lui vi reagisce con la rabbia e l’aggressività contro le cose, o i più piccoli e questo lo fa sentire un po’ più forte. In maniera del tutto ina-spettata, ma molto pregnante, a un certo punto Giorgio mi interrompe e mi dice: «Quando i miei avranno capito, io potrò non venire più da te!».

Restituisco ai genitori le cose che via via io e Giorgio siamo riusciti a capire. La chiave che modifica completamente l’atteg-giamento dei genitori nei confronti del figlio è la scoperta che egli li ama di un amore intenso e soffre all’idea di non essere amato, considerato e capito.

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Tranquillizzati, entrambi si pongono in una dimensione di ascolto e, nel giro di poco, la zia mi dice che le cose sono migliorate e che ora Giorgio è felice perché si sente valorizzato e sostenuto.

Ascoltare e legittimare la rabbia

Giorgio viene presentato come un piccolo delinquente e un po’ lo è, dato che fa delle cose proibite, consapevole del fatto che non si dovrebbero fare e che le conseguenze dei suoi atti potrebbero essere molto pericolose (incendia la casa, rompe oggetti, ecc.).

La domanda importante e immediata per noi è: perché Giorgio, invece di optare per modalità più accattivanti ed even-tualmente compiacenti, si oppone, provoca o aggredisce?

La risposta ce la offre lo stesso ragazzo quando dice: «C’è sempre Flavio che bisogna capire. Il più piccolo e il più cocco-lato». È evidente in questa affermazione la rabbia verso i grandi che cercano di proteggere Flavio. Non importa se i grandi a questo punto diranno che non è vero o che è necessario, dato che lui lo aggredisce, o ancora che Flavio è piccolo e non sa difendersi. Questo è ciò che Giorgio percepisce e a cui noi dobbiamo credere, per poterlo capire senza opporvi altri punti di vista o razionalizzazioni.

Anche Giorgio sa che non dovrebbe aggredire suo fratello, ma evidentemente è più forte di lui. Molte volte le persone si stupiscono nel vedere come le emozioni siano dominanti rispetto ai processi razionali eppure è proprio così. Nonostante Giorgio si dica che non deve comportarsi in questo modo, quando sale la collera adotta comportamenti di cui poi si pente.

Quindi Giorgio non può essere «buono» perché invidioso di Flavio che riceve attenzioni e protezioni; si sente scoraggia-