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11 Elettromagnetismo e relatività La nostra era è spesso chiamata “postindustriale” o “e- lettronica” per sottolineare la differenza rispetto al mondo “meccanico” nato dalla rivoluzione industriale e per indicare che molti aspetti caratteristici della nostra civiltà sono possibili grazie alla comprensione dei feno- meni elettromagnetici. La scoperta e formalizzazione dell’elettromagnetismo ha occupato praticamente tutto l’Ottocento ed è forse la più importante eredità lasciata- ci da quel secolo. Il ruolo di “Magellano” in questa grande impresa tocca a Maxwell. Le sue equazioni pos- sono essere viste come punto iniziale di un processo che porta dalla meccanica di Newton alla fisica “moderna” (relatività e teoria dei quanti). La prima parte del capitolo spiega come, partendo dalle leggi empiriche di Coulomb, Laplace, Ampère e Faraday, la teoria di Maxwell porti a descrivere in modo unificato ed elegante i fenomeni elettrici, magnetici e luminosi, che saranno materia dei prossimi tre capitoli. Abbiamo scelto di far seguire a trattazioni di tipo intuiti- vo e concettuale anche quelle di tipo formale e matema- tico, che possono essere tralasciate in una prima lettura. Questa non è tanto uno scelta di completezza quanto di rispetto per l’opera di Maxwell, dove l’innovazione for- male svolge un ruolo ancor più importante della origina- lità concettuale. Per comprendere l’articolata storia dell’elettromagnetismo una prima lettura però non basta neppure a chi ha una buona preparazione liceale. Maxwell (come Magellano del resto) muore prima che si abbia il tempo di capire la portata della sua impresa. Saranno i posteri a scoprire conseguenze delle sue equa- zioni che sono in disaccordo con i principi di Newton; i fisici di fine Ottocento dovranno riconoscere (spesso a malincuore) che le equazioni di Maxwell sembrano inat- taccabili. La seconda parte del capitolo riassume i termini con- cettuali del dibattito che, partendo dalla teoria di Ma- xwell, porta ad abbandonare la relatività galileiana e i concetti newtoniani di spazio e tempo assoluto in favore di un nuovo “principio di invarianza per scelta del si- stema di riferimento”: quello della relatività di Einstein. Nella terza parte si accenna a un altro tema lasciato, suo malgrado, da Maxwell in eredità ai posteri: il lega- me tra una entità discreta, quale la particella dotata di carica elettrica, e una continua, quale il campo elettro- magnetico descritto dalle equazioni di Maxwell. Questa volta è la visione “continua” di Maxwell che deve esse- re abbandonata e nasce la “regola dei quanti”. 11.1 Introduzione ai campi elettrici e magnetici Si chiama campo una regione dello spazio a ogni punto P della quale è associato il valore di una stessa grandezza fisica. Se tale grandezza è uno scalare, come la tempera- tura T, si parla di campo scalare: lo si potrà indicare con T(P) o semplicemente con T, se dal contesto è chiaro che si tratta della funzione che descrive la temperatura nel campo. Se la grandezza fisica è un vettore si parla di campo vettoriale; esempi sono il campo della forza gravi- tazionale di Newton e i campi di velocità introdotti nel Capitolo 8. Già gli antichi Greci sapevano che l’ambra (η λεκτρον, electron) attira pezzettini di papiro quando viene strofinata e che la magnetite (una calamita naturale che prende il nome da Magnesia, una antica regione della Grecia) attira il ferro. Anche se nel Medioevo si iniziò a usare la bussola magnetica per la navigazione, le proprie- tà dell’ambra e della magnetite rimasero solo delle curio- sità fino alla metà del XVIII secolo, quando si comincia- rono a studiare in modo sistematico i campi di forze as-

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11 Elettromagnetismo e relatività

La nostra era è spesso chiamata “postindustriale” o “e-lettronica” per sottolineare la differenza rispetto al mondo “meccanico” nato dalla rivoluzione industriale e per indicare che molti aspetti caratteristici della nostra civiltà sono possibili grazie alla comprensione dei feno-meni elettromagnetici. La scoperta e formalizzazione dell’elettromagnetismo ha occupato praticamente tutto l’Ottocento ed è forse la più importante eredità lasciata-ci da quel secolo. Il ruolo di “Magellano” in questa grande impresa tocca a Maxwell. Le sue equazioni pos-sono essere viste come punto iniziale di un processo che porta dalla meccanica di Newton alla fisica “moderna” (relatività e teoria dei quanti).

La prima parte del capitolo spiega come, partendo dalle leggi empiriche di Coulomb, Laplace, Ampère e Faraday, la teoria di Maxwell porti a descrivere in modo unificato ed elegante i fenomeni elettrici, magnetici e luminosi, che saranno materia dei prossimi tre capitoli. Abbiamo scelto di far seguire a trattazioni di tipo intuiti-vo e concettuale anche quelle di tipo formale e matema-tico, che possono essere tralasciate in una prima lettura. Questa non è tanto uno scelta di completezza quanto di rispetto per l’opera di Maxwell, dove l’innovazione for-male svolge un ruolo ancor più importante della origina-lità concettuale. Per comprendere l’articolata storia dell’elettromagnetismo una prima lettura però non basta neppure a chi ha una buona preparazione liceale.

Maxwell (come Magellano del resto) muore prima che si abbia il tempo di capire la portata della sua impresa. Saranno i posteri a scoprire conseguenze delle sue equa-zioni che sono in disaccordo con i principi di Newton; i fisici di fine Ottocento dovranno riconoscere (spesso a malincuore) che le equazioni di Maxwell sembrano inat-taccabili.

La seconda parte del capitolo riassume i termini con-cettuali del dibattito che, partendo dalla teoria di Ma-

xwell, porta ad abbandonare la relatività galileiana e i concetti newtoniani di spazio e tempo assoluto in favore di un nuovo “principio di invarianza per scelta del si-stema di riferimento”: quello della relatività di Einstein.

Nella terza parte si accenna a un altro tema lasciato, suo malgrado, da Maxwell in eredità ai posteri: il lega-me tra una entità discreta, quale la particella dotata di carica elettrica, e una continua, quale il campo elettro-magnetico descritto dalle equazioni di Maxwell. Questa volta è la visione “continua” di Maxwell che deve esse-re abbandonata e nasce la “regola dei quanti”.

11.1 Introduzione ai campi elettrici

e magnetici

Si chiama campo una regione dello spazio a ogni punto P della quale è associato il valore di una stessa grandezza fisica. Se tale grandezza è uno scalare, come la tempera-tura T, si parla di campo scalare: lo si potrà indicare con T(P) o semplicemente con T, se dal contesto è chiaro che si tratta della funzione che descrive la temperatura nel campo. Se la grandezza fisica è un vettore si parla di campo vettoriale; esempi sono il campo della forza gravi-tazionale di Newton e i campi di velocità introdotti nel Capitolo 8.

Già gli antichi Greci sapevano che l’ambra (η’′λεκτρον, electron) attira pezzettini di papiro quando viene strofinata e che la magnetite (una calamita naturale che prende il nome da Magnesia, una antica regione della Grecia) attira il ferro. Anche se nel Medioevo si iniziò a usare la bussola magnetica per la navigazione, le proprie-tà dell’ambra e della magnetite rimasero solo delle curio-sità fino alla metà del XVIII secolo, quando si comincia-rono a studiare in modo sistematico i campi di forze as-

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218 Capitolo 11

sociati ai fenomeni elettrici e magnetici. Si imparò a manipolare e misurare la carica elettrica,

scoprendo che, a differenza della massa, vi sono due tipi di cariche, chiamate positive e negative, in quanto i loro effetti tendono a sommarsi algebricamente. Si capì che cariche elettriche sono presenti nella materia, ma che in un corpo le cariche positive e quelle negative di solito si equivalgono esattamente, ovvero che, quasi sempre, la materia è elettricamente neutra. Si misero a punto me-todi per isolare in laboratorio cariche elettriche di un solo segno e si trovò che le forze tra cariche ferme sono de-scritte dalla legge di Coulomb, l’analogo elettrico della legge di gravitazione: la forza tra due cariche elettriche è inversamente proporzionale al quadrato della distanza e diretta come la loro congiungente; cariche dello stesso segno si respingono mentre cariche di segno contrario si attraggono. Con trattamento parallelo a quello del capito-lo 5, al campo della forza elettrica f su una carica “di prova” q si può associare il campo elettrico E, ossia la “forza per unità di carica”, f/q, e il potenziale elettrico V(P), pari al “lavoro su unità di carica” fatto da E quando la carica di prova va dal punto P a un punto scelto come riferimento.

Grazie alla pila di Volta, si imparò a produrre per via chimica una differenza di potenziale elettrico, detta an-che forza elettromotrice (fem), la quale consente di mantenere per lunghi tempi correnti elettriche apprezza-bili. Il concetto di corrente elettrica è simile a quello di portata di un condotto, ossia il volume di fluido che pas-sa nell’unità di tempo per una sezione di condotto (vedi Capitolo 8). Un “condotto” elettrico è costituito da mate-riali che consentono il passaggio delle cariche elettriche: la sua “portata” è la quantità di carica elettrica che passa attraverso una sua sezione nell’unità di tempo; è chiamata corrente elettrica (o semplicemente corrente), indicata con I, e ha le dimensioni di carica diviso tempo:

Iq

tI

q

t≡ =

∆[ ]

[ ]

[ ]

Per filo elettrico o filo conduttore intenderemo un con-dotto elettrico di sezione normale trascurabile. Come la portata può essere definita, indipendentemente da un condotto fisico, mediante il flusso del vettore velocità at-traverso una superficie, così la corrente può essere defini-ta mediante il flusso attraverso una superficie del vettore

densità di corrente J:

J v≡∆

q

V

che è definito come il prodotto della densità di carica e-lettrica (carica / volume) per la velocità di spostamento delle cariche.

Tra pezzetti di magnetite e, in genere, tra le calamite o magneti permanenti, si esercitano forze che si possono descrivere ricorrendo ai concetti di poli magnetici nord e sud: la regione estrema di un ago calamitato che punta, approssimativamente, verso il Nord geografico viene det-to polo Nord e l’estremo opposto polo Sud. Un magnete

permanente è l’insieme di una coppia Nord-Sud di poli magnetici. La Terra è un magnete permanente in cui il polo Sud è collocato nei pressi del Nord geografico e il polo Nord ai suoi antipodi. Anche se il polo magnetico va pensato come una regione dello spazio più che come un punto, la forza che si esercita tra poli vicini è all’incirca diretta come la congiungente queste due regioni. Come per il campo elettrico, era sembrato perciò naturale intro-durre il campo magnetico, un vettore diretto come la congiungente di poli magnetici vicini, proporzionale alla “intensità” di tali poli: il campo magnetico “esce” da un polo Nord ed “entra” in quello Sud. La difficoltà nasceva però dal fatto che in nessun magnete permanente risultò possibile separare il polo Nord dal polo Sud e misurare con precisione l’azione di forza su un polo isolato([) .

Si trovò che un ago calamitato e un anello conduttore (spira elettrica) percorso da corrente producono forze magnetiche dello stesso tipo e che, in prossimità di un po-lo magnetico, un trattino di filo conduttore percorso da corrente elettrica è sottoposto a una forza che è perpendi-colare sia al trattino di filo sia alla congiungente tra polo e filo. Ciò suggeriva che la forza di origine magnetica su una corrente elettrica si dovesse esprimere mediante un prodotto vettoriale tra campo magnetico e direzione del-la corrente.

Per descrivere le azioni di forza tra fili percorsi da correnti elettriche costanti nel tempo si introdusse, con scelta di nome poco felice (vedi Capitolo 13), il campo

di induzione magnetica B; le sue proprietà furono stu-diate sperimentalmente da Biot e Savart e poi riassunte nelle due leggi di Laplace del magnetismo (da non con-fondere con la legge di Laplace che lega pressione e ten-sione superficiale, trattata nel Capitolo 8):

1. un tratto di filo ∆s, percorso da una corrente I e cen-trato in O, produce in un punto P un’induzione ma-gnetica diretta come il prodotto vettoriale ∆s × OP

([) Solo in questo secolo Dirac ha ipotizzato l’esistenza del

monopolo magnetico, una particella elementare che a tutt’oggi non è stata ancora osservata.

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Elettromagnetismo e relatività 219

I

O P

∆B

∆S

2. se il trattino di filo è sottoposto a una induzione ma-gnetica B, la forza di origine magnetica sarà nella direzione individuata da ∆s × B.

Nord

Sud

fm∆S

B

Queste leggi di Laplace dell’induzione magnetica han-no però una difficoltà analoga a quella della descrizione in termini di “poli magnetici” in quanto ricorrono al con-cetto di “trattino di filo percorso da corrente”, che non può esistere senza il resto del sistema che produce e porta la corrente al trattino.

Una formulazione più soddisfacente della relazione tra corrente e induzione magnetica venne da Ampère, un altro eclettico scienziato francese attivo nei primi decenni dell’Ottocento. La sua legge dell’induzione magnetica potrebbe essere così espressa: indicato con B il campo d’induzione magnetica prodotto da un circuito percorso da una corrente I, il lavoro di B è lo stesso lungo una qualunque curva C chiusa (una sola volta) intorno al filo percorso dalla corrente I.

I

C

Si credeva che, per mantenere una corrente in un circuito elettrico, fosse sempre([) necessaria una differenza di po-tenziale, ossia un campo elettrico; questo poteva perciò essere pensato come una causa della corrente elettrica e, in ultima analisi, del campo di induzione magnetica asso-ciato. Nel 1831 Faraday scoprì che, viceversa, un campo magnetico può generare un campo elettrico senza ricorre-re alla mediazione di una corrente. La sua legge dell’in-

duzione magnetica stabilisce che una variazione nel tempo di B genera un campo elettrico E di intensità pro-porzionale alla velocità di cambio di B. Questa legge, che sarà illustrata più dettagliatamente nel prossimo pa-ragrafo, è alla base della maggior parte degli utilizzi in-dustriali dell’energia elettrica.

Da un punto di vista concettuale, si potrebbe dire che Maxwell non fece altro che postulare, senza dimostrazio-ne sperimentale, che valesse una relazione simmetrica a quella di Faraday, ossia che alla variazione nel tempo di un campo elettrico dovesse essere associato un campo magnetico, anche in assenza di cariche elettriche in moto. Maxwell però riformulò la legge di Ampère in modo da rendere evidente che una speciale “corrente elettrica” (detta corrente di spostamento perché non portata da ca-riche), e quindi un campo magnetico, doveva essere asso-ciata a una variazione nel tempo del campo elettrico per ragioni di consistenza matematica.

Il Trattato sulla Elettricità e Magnetismo di Maxwell (1873) ha sempre offerto al neofita difficoltà quasi in-sormontabili perché i concetti fisici sono indissolubil-mente legati al formalismo con cui vengono rappresenta-ti. Ma, per ironia o fortuna, persino grandezze che un se-colo fa sembravano essere state introdotte come puri arti-fici matematici sono risultate avere realtà fisica([[). Non è giusto interpretare in chiave puramente formale il pas-saggio dalla prima legge di Laplace a quella di Ampère perché vi è una importante differenza di prospettiva. Am-père fa la scelta di utilizzare solo grandezze misurabili anziché entità fittizie. In modo simile, la riformulazione di Maxwell della legge di Ampère vuole sottolineare il fatto che il campo magnetico (e il suo potenziale vettore)

([) La scoperta di materiali capaci di mantenere una corrente

elettrica anche in assenza di differenze di potenziale avvenne solo nel 1911 nel laboratorio di Leida di H. Kamerlingh Onnes.

([[) Un esempio è il potenziale vettore del campo magneti-

co A dal quale viene ricavato il campo B. Un esperimento ha provato che la dinamica degli elettroni che si trovano in una re-gione con B = 0 viene cambiata da una corrente che modifica il potenziale vettore nella regione senza modificare il campo ma-gnetico.

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sono entità reali quanto una carica elettrica o una corren-te. Come discuteremo più avanti, su questo tema vi fu ai tempi di Maxwell un acceso dibattito che sembrò sconfi-nare con la filosofia.

11.2 Le leggi empiriche

dell’elettromagnetismo

11.2.1 La legge di Coulomb

L’interazione tra due cariche elettriche ferme e puntifor-mi è descritta dalla legge di Coulomb: la forza f esercita-ta su una carica q posta in P da una carica Q posta in O è inversamente proporzionale al quadrato della distanza |r| = |OP| ed è diretta come OP:

f = kQq

= kQq

r re eOP

OP OP

3 2 11.1

fO

x P

qQ

z

y

dove le cariche sono misurate in coulomb (C) e la co-

stante elettrica ke è data da

ke ≈ 9(109) N⋅m2/C2

Come nel caso della gravitazione, il terzo principio della dinamica è rispettato e la carica Q è sottoposta alla forza −f. Vale anche il principio di sovrapposizione: una ter-za carica avverte la risultante delle due forze che, sepa-ratamente, sarebbero prodotte da q e Q.

Come è stato conveniente introdurre l’accelerazione g per descrivere gli effetti gravitazionali, così è opportuno introdurre qui un vettore che dipende solo dalla carica Q e che è chiamato campo elettrico E nel punto P:

Ef

≡ =q

kQ

r reOP

2 11.2

Il campo elettrico E, come quello gravitazionale, è inver-samente proporzionale al quadrato della distanza.

11.2.2 Le leggi di Laplace

In presenza di una calamita cilindrica posta come in figu-ra vicino a un tratto ∆s di filo, diretto come l’asse x (∆s = ∆si) e percorso da una corrente I, si trova che la forza f sul tratto di filo è perpendicolare a ∆s e alla con-giungente dei centri di calamita e filo. Tale forza è pro-porzionale a I e |∆s |.

B∆∆∆∆s

fI

z

x yNordSud

Introducendo il vettore induzione magnetica B, possia-mo dare a queste relazioni di proporzionalità e ortogona-lità la seguente forma matematica:

f s B= ×I∆ 11.3

La 11.3 potrebbe essere considerata una definizione ope-rativa del campo induzione magnetica ed è nota come seconda legge di Laplace; la corrente I è positiva se è costituita da cariche positive che si muovono nello stesso verso di ∆s, o da cariche negative che si muovono in ver-so opposto.

Se consideriamo i due lunghi fili paralleli della figura, percorsi da correnti dello stesso segno I1 e I2, si può os-servare che un tratto ∆s1 di uno dei due fili è attirato ver-so l’altro filo con forza inversamente proporzionale alla distanza r tra i fili:

|f12| ∝ |∆s1|I1I2/r

B1f21f12

B2

B2

I2I1

∆s1PO

r

z

x

y

Per la seconda legge di Laplace, la forza f12 sul tratto ∆s1 del filo 1 è prodotta da un’induzione magnetica, che indi-

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chiamo con B2, perpendicolare a f12 e a ∆s1. Per ragioni di simmetria, ci attendiamo che il risultato sia descrivibile negli stessi termini quando il primo filo passa per un qua-lunque punto P della circonferenza tratteggiata, con cen-tro in O e in un piano normale a quello dei due fili. Si de-ve concludere che un filo infinito percorso da corrente (I2) produce in P un campo induzione magnetica B2(P) tangente alla circonferenza passante per P e con centro nella proiezione O di P sul filo. Si trova inoltre sperimen-talmente che il modulo di tale vettore è

|B2(P)| ∝I

r2

Come mostreremo nel Capitolo 13, questo risultato spe-rimentale, universalmente noto come legge di Biot-

Savart, viene generalizzato dalla prima legge di Lapla-

ce (citata anche come legge di Biot-Savart nella letteratu-ra anglosassone): un tratto rettilineo ∆s di filo, collocato in O e percorso da una corrente I, produce in un punto P l’induzione magnetica

∆∆

Bs

kI

mOP

OP 3 11.4

dove la corrente si misura in ampere (A), definito come coulomb per secondo (A = C/s), e la costante magnetica km è data da

km = 10−7 N/A2 = 10−7 N⋅s2/C2

Il vettore induzione magnetica in un punto si calcola me-diante il principio di sovrapposizione sommando vetto-rialmente i contributi 11.4 di tutti i tratti di circuito ∆s presenti. L’induzione magnetica ha le dimensioni di (vedi Equazione 11.3)

[B] = forza

corrente distanza×

e si misura in tesla (T) con T = N/(A⋅m) = N⋅s/(C⋅m).

11.2.3 La legge di Ampère

Si mostrerà più avanti (Capitolo 13) che la prima legge di Laplace è equivalente alla seguente formulazione, dovuta ad Ampère. Se B è generato dalle correnti I1, I2, ... , In, il “lavoro” fatto da B lungo una linea chiusa e orientata C, chiamato circuitazione

∆l l

C

n nn

d⋅ ≈ ⋅∑ ∫B B

CB1

Bn

∆ln∆l1

è proporzionale alla somma algebrica Σ'C delle correnti

“concatenate” da C

d k IC

Cl ⋅ =∫ ∑B 4π m c' 11.5

Una corrente si dice concatenata se attraversa una qua-lunque superficie appoggiata su C.

C

I I IcC'∑ = −1 2

I3

I2

I1I4

I3

Nella figura, la corrente I1 viene presa con il suo segno e la corrente I2 con segno opposto. Al filo percorso da cor-rente assegniamo arbitrariamente un verso di percorren-za: la corrente avrà un valore positivo se le cariche posi-tive si spostano in questo verso ovvero le negative nel verso opposto, e valore negativo negli altri casi. Asse-gnando un verso di percorrenza anche a C si può decidere quale sia la faccia “positiva” della superficie scura ap-poggiata su C. Si adotta normalmente la convenzione se-condo cui un osservatore con i piedi sulla faccia positiva vede come antiorario il verso di percorrenza di C. La corrente concatenata è presa con il suo segno se “esce”, come la corrente I1, dalla faccia positiva (quella superio-re nella figura) e con segno opposto se “entra” nella fac-cia positiva (corrente I2). I3 non contribuisce alla somma perché attraversa due volte la superficie appoggiata su C, una volta con segno positivo e l’altra con segno negativo; anche I4 non contribuisce alla somma perché non attra-versa la superficie.

Le leggi di Coulomb e di Laplace fanno rispettiva-mente parte della elettrostatica (E non dipende dal tem-po) e della magnetostatica (B non dipende dal tempo).

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222 Capitolo 11

Esse descrivono il legame tra questi campi statici e le lo-ro sorgenti: le cariche elettriche per E e le correnti per B. Si noti come i fenomeni elettrostatici e magnetostatici sembrino avere leggi e sorgenti ben distinte.

11.2.4 La legge dell’induzione di Faraday

Per illustrare la scoperta di Faraday secondo la quale una variazione di B nel tempo produce un campo elettrico è conveniente descrivere il campo vettoriale mediante le sue linee di flusso, una rappresentazione intuitiva cara a Faraday. Si definisce linea di flusso (o linea di forza) di un campo vettoriale la curva nello spazio che ha come tangente in ciascuno dei suoi punti il vettore-campo con-siderato. Le linee di flusso vengono orientate come il campo e rappresentate in modo tale che la loro densità (ossia il numero di linee di forza rappresentate attraverso una superficie unitaria perpendicolare al campo) sia pro-porzionale al modulo del campo.

E

B

N

Nella figura abbiamo rappresentato le linee di flusso per il campo elettrico prodotto da una carica elettrica positiva e per la regione attorno al polo Nord (N) di una calamita. Le linee di flusso elettrico “escono” dalle cariche positive (sorgenti del campo elettrico) ed “entrano” nelle cariche negative (pozzi del campo). Sorgenti e pozzi si dicono punti singolari perché in essi il vettore campo non è defi-nito.

Nel capitolo sulla idrodinamica (Capitolo 8) si è e-spresso il concetto intuitivo di flusso di un fluido attra-verso una piccola superficie ∆S, mediante il prodotto sca-lare

Φ(v) = ∆S v ⋅ n

vn

Bi

C

∆S

ni

∆Si

Usiamo ora lo stesso tipo di definizione per il flusso di B attraverso una superficie S con contorno C orientato co-me in figura:

Φ ∆CS

i i ii

dS S( )B B n B n= ⋅ ≈ ⋅∫ ∑ 11.6

dove la normale n è uscente dalla faccia positiva di S. In questa equazione l’indice C vuole sottolineare che, nel caso del vettore induzione magnetica, ha senso parlare di flusso concatenato con il contorno C di S, ΦC(B).

Possiamo ora enunciare la legge di Faraday dell’in-

duzione: il lavoro del campo elettrico lungo una linea chiusa e orientata C è uguale alla derivata rispetto al tempo cambiata di segno del flusso di B concatenato con C, ΦC(B)

∆ ∆∆

∆l ⋅ = −

⋅∑ ∑E

Bn

C SS

t

o meglio

dd

dtC

Cl ⋅ = −∫ E

BΦ ( ) 11.7

N

E

∆S

∆l

B

C

n

v

Nella figura, il flusso concatenato è positivo (B ⋅ n > 0) ma poiché la calamita viene spostata verso destra (si al-lontana) il flusso diminuisce, ∆ΦC(B)/∆t < 0. Ne segue che il lavoro di E lungo C è positivo e E ⋅ ∆l > 0.

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Elettromagnetismo e relatività 223

11.3 Le equazioni di Maxwell

Dopo quasi un decennio di lavoro e numerosi articoli, a volte in polemica garbata con Faraday, nel 1873 James Clerk Maxwell pubblica un “Trattato” dove riassume e organizza i risultati dei suoi studi sull’elettromagnetismo. Maxwell parte dalle leggi che abbiamo enunciato, ag-giunge un’ipotesi che sembra oggi dettata dal comune buon senso (la conservazione della carica elettrica) e combina il tutto con una matematica vigorosa. Ne risulta-no equazioni così sintetiche e belle da essere paragonate alle più eccelse opere d’arte e da far esclamare a Boltz-mann: “È forse un Dio che ha scritto questi simboli?”.

11.3.1 I presupposti

L’ipotesi di fondo di Maxwell è che i campi E e B siano grandezze fisiche reali. Ma questo ai suoi tempi era un’eresia. Si distingueva allora tra la cosiddetta azione a distanza, per esempio la Terra che attira un corpo celeste, e l’azione a contatto, per esempio l’urto tra due oggetti. Secondo questa concezione, l’azione è sempre svolta da un’entità fisica reale e il “campo gravitazionale terrestre” è solo un’astrazione matematica; esiste solo la Terra e il corpo che viene attirato; se il corpo non ci fosse, non ci sarebbe la forza, e quindi neppure il “campo”. Lo spazio “assoluto” di Newton è sempre uno spettatore perfetta-mente passivo. Per Maxwell invece i vettori E e B esisto-no realmente in ogni punto dello spazio, anche quando non vengono misurati, e possono essere studiati anche senza fare riferimento alle loro “sorgenti”.

Maxwell fonda la prima teoria di campo nella storia della fisica. Tuttavia il suo punto di vista è ufficialmente meccanicistico; cerca infatti di risolvere il conflitto tra contatto e distanza parlando di azione di contiguità: i campi elettromagnetici si propagano dalle sorgenti a un punto dello spazio come “deformazioni” di una entità, l’etere, che è il supporto elastico che dà solidità materia-le ai campi elettromagnetici. Con il senno di poi, l’ipotesi dell’etere può essere vista come un tentativo, estraneo al nocciolo della teoria elettromagnetica, di mantenere l’idea newtoniana dello spazio assoluto.

L’altro aspetto importante della teoria di Maxwell è che questa è una teoria del continuo. Le equazioni note prima di Maxwell sono in forma integrale: parlano di in-tegrali di superficie (i flussi) e di circuitazioni, integrali lungo linee chiuse (vedi 11.5 e 11.6). Per Maxwell invece la descrizione più completa dei campi si ha in forma dif-ferenziale, enunciando le regole secondo cui i campi e le

loro derivate rispetto al tempo cambiano su distanze infi-nitesime. In un campo di Maxwell non c’è posto per un oggetto discreto, matematicamente “singolare”, quale il punto materiale di Newton, che i fisici cominciano allora a chiamare particella.

Maxwell, infine, non è del tutto d’accordo sull’utilità della visione di Faraday del campo come costituito da fa-sci di linee di flusso. Questi fasci cambiano in maniera complicata cambiando l’intensità (e non la posizione) delle sorgenti: si pensi che una carica elettrica dà un semplice campo radiale, ma che, vicino a un’altra di se-gno opposto, dà un campo che assomiglia a quello ma-gnetico di una calamita. Eppure in ogni punto il campo si scrive come somma di due vettori di Coulomb, perché vale il principio di sovrapposizione. La rappresentazione per linee di flusso non è adatta a esprimere questo princi-pio. Occorrono invece delle relazioni matematiche la cui forma soddisfi il principio di sovrapposizione.

11.3.2 Il significato fisico del formalismo

In linea di principio, un campo vettoriale è noto quando si è determinato un vettore per ogni punto del campo. Deve però essere dato un metodo per determinare il valo-re del campo a partire da un numero limitato di osserva-zioni sperimentali, non essendo possibile effettuare infi-nite misure negli infiniti punti dello spazio. La procedura è concettualmente semplice: noto il vettore in un punto, si costruisce esattamente il vettore in un punto molto vici-no; quindi si passa a un altro punto vicino e così via per tutti i punti che interessano.

Il problema viene ricondotto al seguente quesito: “no-to il vettore in un punto, quali procedure e quali informa-zioni servono per costruire il vettore in un punto infini-tamente vicino?”. Per quanto riguarda le procedure, la matematica fornisce la risposta: i valori di una funzione (nel nostro caso, vettoriale) in due punti molto vicini so-no collegati da una operazione di derivata spaziale. Se si conoscono le derivate rispetto allo spazio (ossia, rispetto alle variabili x, y e z) della funzione, si può costruire la funzione a partire da un punto. Resta il problema fisico: come si fa a conoscere la derivata del vettore del campo? Le equazioni di Maxwell rispondono a questo quesito, dicendoci quanto valgono le derivate spaziali dei vettori campo elettrico e campo magnetico.

Per descrivere come variano questi vettori dobbiamo introdurre i concetti di divergenza e vorticità. Lo faremo in modo intuitivo, facendo riferimento al caso del fluido in un condotto trattato nel Capitolo 8.

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224 Capitolo 11

La divergenza

Isoliamo una piccola regione centrata intorno a un punto e consideriamo quanto fluido entra ed esce dalla superfi-cie chiusa di contorno nell’unità di tempo. Se entra più fluido di quanto ne esce, il fluido si accumula nella re-gione (cosa impossibile per un fluido incomprimibile in un condotto senza vuoti), ovvero la regione contiene un “pozzo” in cui il fluido “scompare”. Nel caso in cui esca più fluido di quanto ne entri nella regione vi saranno “sorgenti” di fluido. Il bilancio del flusso di un vettore v attraverso una superficie chiusa infinitamente piccola è una quantità scalare chiamata divergenza di v.

Il teorema di Gauss sulla divergenza afferma che il flusso di un vettore attraverso una superficie chiusa è pari all’integrale della sua divergenza sul volume rac-chiuso dalla superficie. Per un fluido incomprimibile in un condotto a densità uniforme e costante la divergenza di v è identicamente nulla perché è sempre nullo il flusso di v uscente da una qualunque superficie chiusa.

Ci si può convincere che solo quando la divergenza è ovunque nulla si può parlare di flusso concatenato con una linea chiusa C, ovvero di portata di un condotto.

n

n

v

C

Infatti, se la divergenza di v è ovunque nulla, il flusso at-traverso la superficie scura appoggiata su C deve essere uguale a quello attraverso una qualunque altra superficie appoggiata su C, (per esempio quella chiara) in quanto la differenza tra i flussi attraverso le due metà di una super-ficie chiusa dà il flusso complessivamente uscente (o en-trante) dal volume racchiuso, che deve essere nullo per il teorema di Gauss. Ne segue che i flussi attraverso le due superfici appoggiate su C devono essere uguali se la di-vergenza di v è ovunque nulla. Questo valore, comune a tutte le superfici appoggiate su C, consente di definire il flusso concatenato con C.

La vorticità

Ci chiediamo se attorno a un punto del fluido vi sono vortici, ossia se il vettore velocità v vari in modo da far descrivere alle particelle del fluido traiettorie chiuse su se stesse. Il vortice è descritto da un campo vettoriale, detto rotore di v, la cui direzione individua l’asse intorno al quale il fluido, o una sua parte, sta ruotando. Valgono le due affermazioni reciproche: 1. un campo esprimibile come un rotore di un campo

vettoriale ha divergenza nulla; 2. un campo a divergenza nulla può essere espresso

sempre come rotore di un altro campo vettoriale. Poiché la divergenza del rotore di un campo vettoriale è identicamente nulla, è possibile definire il flusso di un ro-tore concatenato con una linea chiusa, per il quale vale un’identità nota come teorema di Stokes: il lavoro di un vettore lungo una linea chiusa (circuitazione) è uguale al flusso del suo rotore concatenato con quella linea. Segue che per un campo a rotore ovunque nullo (campo irrota-

zionale) il lavoro fatto lungo una linea chiusa è sempre nullo. Un esempio di campo irrotazionale è il campo gra-vitazionale che, grazie a questo fatto, può essere calcola-to mediante una funzione scalare detta potenziale. Si può dimostrare che condizione necessaria e sufficiente perché un campo vettoriale ammetta un potenziale (scalare) è che il suo sia rotore ovunque nullo.

11.3.3 La forma puntuale

delle equazioni di Maxwell

Divergenza e rotore sono proporzionali alle derivate spa-ziali dei vettori del campo; esprimono cioè come questi varino passando da un punto a un altro infinitamente vi-cino. Le equazioni di Maxwell in forma differenziale, o puntuale, affermano quanto segue su divergenze e rotori di E e di B. 1a equazione: il flusso di E attraverso una superficie chiusa infinitesima (cioè la sua divergenza) è proporzio-nale alla densità di carica elettrica presente all’interno del volume racchiuso dalla superficie.

2a equazione: il flusso di B attraverso una superficie in-finitesima chiusa (cioè la sua divergenza) è sempre nullo.

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Elettromagnetismo e relatività 225

3a equazione: il rotore di E in un punto è proporzionale al cambio nel tempo di B in quel punto.

4a equazione: il rotore di B in un punto è proporzionale alla somma di due contributi: il primo è la densità di corrente elettrica J in quel punto mentre il secondo è proporzionale al cambio nel tempo di E in quel punto.

Riassumendo, si può dire che le derivate nello spazio di E o B (scritte come divergenza e rotore) sono proporzio-nali alle rispettive sorgenti (cariche o correnti elettriche) e alle variazioni nel tempo dell’altro campo (B o E).

11.3.4 Il valore operativo

Le equazioni di Maxwell consentono di calcolare i campi E e B in qualunque situazione. Vale a dire, noti i valori dei campi elettrico e magnetico in determinati punti (cioè, noti i cosiddetti valori al contorno), è possibile calcolare i valori dei vettori in tutti i punti del campo. Naturalmen-te il livello di difficoltà matematica limiterà, caso per ca-so, il grado di approssimazione della soluzione trovata. Ciò non toglie che, in linea di principio, le equazioni di Maxwell consentano la soluzione completa di qualunque problema in ambito elettromagnetico, così come la se-conda legge della dinamica, all’interno della teoria ne-wtoniana, consente di ricavare la legge oraria per qualun-que problema di meccanica del punto.

Buona parte dell’elettromagnetismo è stato sviluppato senza ricorrere esplicitamente alle equazioni di Maxwell. Infatti, non è raro il caso di testi di elettromagnetismo (in particolare applicativi) in cui le equazioni di Maxwell so-no menzionate per il loro valore concettuale, ma non so-no mai utilizzate direttamente. È questo, in particolare, il caso di ampi capitoli dell’elettrotecnica, della elettrochi-mica e della elettrofisiologia, ma anche di molti approcci all’elettrostatica, alla magnetostatica e all’elettronica. Ciò in parte dipende dal fatto che molti fenomeni sono stati descritti prima di Maxwell da leggi “integrali”, ricavate da relazioni tra valori medi che traducono relazioni com-patibili con le equazioni di Maxwell, e da queste deduci-bili, e che possono essere considerate leggi fenomenolo-giche a cui le equazioni di Maxwell forniscono un inqua-dramento concettuale.

Le equazioni di Maxwell hanno però fornito gli stru-menti di analisi e interpretazione di una grande quantità di fenomeni, non ancora studiati all’epoca in cui queste equazioni venivano enunciate. Tra questi, le onde elet-

tromagnetiche discendono dall’innovazione cruciale in-trodotta dalla quarta equazione di Maxwell alle leggi note in precedenza. Grazie a questa equazione Maxwell predi-ce la possibilità teorica, ben presto verificata sperimen-talmente da Hertz, di trasmettere nello spazio vuoto se-gnali elettromagnetici senza attenuazione. Infatti, le e-quazioni di Maxwell affermano che facendo variare il campo elettrico si genera un campo magnetico e che, fa-cendo variare il campo magnetico, si genera nuovamente un campo elettrico e così via all’infinito, anche in assenza di sorgenti.

11.3.5 Il ruolo nella storia della fisica

Si può fare un parallelo tra il lavoro di Newton, che uni-ficò lo studio dei moti celesti, dei moti nel campo di gra-vità terrestre e di quelli prodotti da altre forze, e quello di Maxwell, che scoprì il legame tra campo elettrico, campo magnetico e luce. Quando Maxwell trovò che la velocità della luce coincide con la velocità di propagazione dell’onda elettromagnetica prevista dalle sue equazioni comprese che “è difficile sfuggire dalla conclusione che la luce sia una modulazione trasversale dello stesso mez-zo [l’etere] che è responsabile dei fenomeni elettrici e magnetici”.

Le equazioni di Maxwell rappresentano una sintesi di pensiero quasi incredibile. Tutta una serie di fatti speri-mentali che, se pur compresi e governati da leggi feno-menologiche già note, erano sparsi in settori diversi, ven-gono interpretati da poche equazioni. In particolare, vie-ne messo in risalto il carattere “duale” dei fenomeni elet-trici e magnetici che proviene dalla presenza dei “termini incrociati”: una variazione nel tempo del campo elettrico genera un campo magnetico e, viceversa, una variazione nel tempo del campo magnetico genera un campo elettri-co. Ma un campo elettrico di una carica ferma cambia per un osservatore in moto, il quale avvertirà un campo ma-gnetico, a differenza dell’osservatore solidale con la cari-ca. Questa interdipendenza tra i due vettori e il fatto che la loro determinazione dipenda dal sistema di riferimento sono alla base del concetto di campo elettromagnetico, entità fisica dove i due aspetti, elettrico e magnetico, non distinguibili in modo univoco da osservatori in differenti sistemi inerziali di riferimento.

Pur partendo da un punto di vista meccanicistico, Maxwell fonda una teoria che è incompatibile con la meccanica di Newton. Secondo Einstein “con Maxwell finì un’epoca scientifica e ne cominciò una nuova”.

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226 Capitolo 11

11.4 Aspetti formali

dell’elettromagnetismo

Tra gli scienziati di fine Ottocento sono documentati al-cuni casi di esaurimento nervoso imputabili al tentativo di dominare la formidabile complessità del Trattato di Maxwell. Per limitare questo tipo di “danni” abbiamo presentato le equazioni di Maxwell nella versione sempli-ficata dovuta a Hertz. Le introdurremo ora formalmente, in un modo elegante e compatto, utilizzando il “vettore” ∇ (del). Questo è un operatore che ha come componenti le operazioni di derivazione rispetto a x, y, z:

∇ ≡ + +∂

∂x y zi j k 11.8

del può essere formalmente trattato come un vettore che si applica a una funzione scalare o vettoriale di (x, y, z) rispettando le regole formali delle usuali operazioni sui vettori: moltiplicazione per uno scalare, prodotto scalare e prodotto vettoriale. In questo modo, la derivazione del-le formule più importanti diventa un esercizio relativa-mente semplice di algebra vettoriale.

L’applicazione dell’operatore del a una funzione sca-lare f(x, y, z) dà un campo vettoriale detto gradiente di f:

grad(f) ≡ ∇ ≡ + +ff

x

f

y

f

z

∂i j k 11.9

Per esempio il campo g può essere scritto in termini del potenziale gravitazionale Vg(x, y, z) nel seguente modo:

g ≡ − ≡ − + +

∇∇∇∇V

V

x

V

y

V

zgg g g∂

∂i j k

La moltiplicazione scalare tra del e un vettore A di com-ponenti Ax, Ay, Az è detta la divergenza di A, e si scrive ricordando l’espressione cartesiana 2.7 per il prodotto scalare:

div(A) ≡ ∇ ⋅ ≡ + +A∂

A

x

A

y

A

zx y z 11.10

La moltiplicazione vettoriale tra del e un vettore A di componenti Ax, Ay, Az è detto rotore di A (vedi 2.11):

rot( )A A

i j k

≡ ∇ × ≡ =∂

∂x y zA A Ax y z

= −

+

+ −

+

+ −

A

y

A

z

A

z

A

x

A

x

A

y

z y

x z

y x

i

j

k

11.11

Pensando a del come a un vettore, si possono dimostrare le proprietà formali principali degli operatori rotore e di-vergenza. Per esempio:

∇ ⋅ (∇ × A) ≡ 0 ⇔ la divergenza di un rotore è nulla

∇ × (∇V) ≡ 0 ⇔ il rotore di un gradiente è nullo

11.4.1 La divergenza di E

Indichiamo con ρ = ρ(x, y, z) la densità volumetrica del-

la carica elettrica (carica per unità di volume). La prima equazione di Maxwell si scrive

∇ ⋅ E = =4π ρρ

εke

0 11.12

dove la costante elettrica dell’Equazione 11.1, ke, è stata riscritta in termini della più comune costante dielettrica:

ε0 = 1/(4πke) La forma integrale della 11.12 si ottiene dal teorema di Gauss per la divergenza:

Φ S S V

V

dS dV

dVQ

( )E E n E≡ ⋅ = ⋅ =

= =

∫ ∫

∇∇∇∇

ρ

ε ε0 0

11.13

dove ΦS(E) è il flusso uscente dalla superficie chiusa S, Q è la carica complessiva contenuta nel volume V rac-chiuso da S.

Nel caso della carica puntiforme è semplice provare che la legge di Coulomb (Equazione 11.1) porta alla 11.13. Basta considerare una superficie sferica (S = 4πr2) attorno alla carica. Poiché E è normale a questa superfi-cie, il flusso di E vale

ΦS kQ

rr k Q

Q( )E = = =e e

o2

24 4π πε

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Elettromagnetismo e relatività 227

E

E

S = 4πr2

Questa equazione vale anche in segno: se la carica Q è positiva, le linee di flusso escono da S, e il flusso è posi-tivo; il flusso è entrante (negativo) se la carica è negativa. Nel seguito del capitolo immagineremo di aver a che fare solo con cariche positive.

11.4.2 La divergenza di B

Per la seconda equazione di Maxwell, la divergenza di B è sempre nulla; ossia il flusso di B attraverso una qualun-que superficie chiusa S è nullo

∇∇∇∇ ⋅⋅⋅⋅ B = 0 ⇔ B n⋅ =∫ dSS

0 11.14

Questo fatto si esprime anche dicendo che il campo B è solenoidale. Le linee di flusso di B sono sempre linee chiuse su se stesse; non vi sono né “sorgenti” né “pozzi” per queste linee.

B

11.4.3 Il rotore di E

La terza equazione di Maxwell si scrive

∇ × E = −∂

B

t 11.15

La sua versione integrale è la legge di Faraday (11.7); questa si ottiene calcolando i flussi attraverso una super-ficie S appoggiata sul contorno C e applicando il teorema del rotore di Stokes (vedi sopra):

( )∇ × ⋅ = ⋅ =

= − ⋅ = −

∫ ∫

E n E

Bn B

S

S S

dS d

tdS

d

dt

l

∂Φ ( )

11.16

Perché la 11.15 abbia senso è indispensabile che il vetto-re a secondo membro abbia, come quello a primo mem-bro, divergenza nulla. Questa proprietà è garantita dalla seconda equazione di Maxwell, secondo la quale la di-vergenza di B è sempre nulla.

Se i campi sono stazionari, il secondo membro della 11.15 è nullo; in questo caso, il campo E si può scrivere come gradiente di una funzione potenziale V = V(x, y, z):

E = −∇V 11.17

Questa equazione e la 11.12 costituiscono la base mate-matica della elettrostatica.

11.4.4 Il rotore di B

La quarta equazione di Maxwell si scrive

∇ × B = + = +k

k tk

c tm

em 0

∂π

∂µ

EJ

EJ4

12

11.18

dove J è la densità di corrente, uguale al prodotto di densità di carica per velocità della carica nel punto, J = ρv. Si ricorda che le linee di flusso di J svolgono un ruolo del tutto simile a quello delle linee di flusso in i-drodinamica; in particolare, il flusso di J attraverso la se-zione di un “condotto” è la corrente elettrica o portata. La costante magnetica km che appare nella 11.4 è stata e-spressa mediante la permeabilità magnetica del vuoto:

µ0 ≡ 4πkm

Si è usato il fatto che il rapporto tra le costanti elettriche e magnetiche è pari, come notato da Maxwell, al quadra-to della velocità della luce nel vuoto:

ke/km = 1/µ0ε0= c2 ≈ 9(1016) m2/s2 11.19

Qualora sia ∂E/∂t = 0 (campo stazionario), la 11.18 di-venta

∇ × B = µ0J 11.20

da cui, mediante il teorema di Stokes, si ritrova la legge

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228 Capitolo 11

di Ampère (11.5)

( )∇ × ⋅ = ⋅ = ⋅ =∫∫ ∫ ∑B n B J ndS d dS k ICS S cCl µ π0 m4 '

C

dlJ

J

n

B

n

J

La 11.14 e la 11.20 costituiscono la base matematica del-la magnetostatica.

Perché la 11.20 abbia senso è indispensabile che la densità di corrente J abbia divergenza nulla, in quanto la divergenza di un rotore è identicamente uguale a zero. Questo non è però il caso, per esempio, del condensatore (vedi Capitolo 12), ossia un contenitore di cariche elettri-che. Ma se, come per la massa di un fluido, la carica non viene né creata né distrutta, il flusso di cariche che entra nel contenitore, senza uscirne, provocherà un cambio del-la carica posseduta dallo stesso e, per il teorema di Gauss, un cambio del campo elettrico e del suo flusso:

J E∆∆

∆∆

∆S

Q

tS

Q= =

ε 0

∆QJ

S

∆S

∆E

∆E ∆E

J

La situazione è illustrata in figura dove, in un tempo ∆t un “tubo” di piccola sezione ∆S e densità di corrente J porta in un recipiente la carica elettrica (positiva) ∆Q = ∆S|J|∆t. Questa carica produce un campo ∆E il cui flusso, uscente dalla superficie chiusa S che avvolge il re-cipiente, vale, per il teorema di Gauss, ΦS(∆E) = ∆Q/ε0. Perciò la quantità ∆Q/∆t può essere scritta in due diversi modi:

1. come flusso entrante attraverso la superficie chiusa S

della densità J di corrente, che su S è nulla ovunque tranne che in ∆S:

∆∆ Φ

Q

tS S= =J J( )

2. come flusso uscente da S del vettore ε0∆E/∆t in quan-to

Φ ∆

∆Φ

Q

t t

S

t tS

S= = =

ε

ε ε0

0 0( )E E E

Poiché il flusso uscente di un vettore compensa esatta-mente quello entrante dell’altro, il flusso della somma dei due vettori attraverso la superficie chiusa S è identica-mente nullo:

Φ∆

∆S t t

ε ε0 0J JE E

+

= ⇒ ∇ ⋅ +

≡0 0

Il flusso del vettore ε0∆E/∆t attraverso una superficie viene chiamato corrente di spostamento per sottolineare che non è l’ordinaria corrente pensabile come un insieme di cariche in movimento. Tocca alla densità della corren-te di spostamento il compito di “chiudere” le linee di flusso della densità di corrente ordinaria, che altrimenti si arresterebbero nel contenitore di carica.

Secondo la 11.18 la corrente di spostamento produce un campo magnetico allo stesso modo di una corrente or-dinaria; ma rivelare sperimentalmente il campo magneti-co associato a una corrente di spostamento è estremamen-te difficile, come compresero i primi seguaci di Max-well. Nel 1887 Hertz, nell’esperimento che provò l’esi-stenza delle onde elettromagnetiche, di fatto rovesciò il problema misurando il flusso di cariche che forma un cir-cuito chiuso con la corrente di spostamento prodotta per via elettromagnetica.

11.4.5 Le onde elettromagnetiche

Vogliamo mostrare che le equazioni di Maxwell ammet-tono una soluzione non banale (ossia diversa da quella con campi costanti nello spazio e nel tempo, e perciò con derivate sempre nulle) anche in una regione dello spazio dove non ci sono cariche (ρ = 0) né correnti (J = 0). In questo caso le relazioni di Maxwell sono (vedi 11.12, 11.14, 11.15, 11.18):

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Elettromagnetismo e relatività 229

∇ ⋅ E = ∇ ⋅ B = 0

∇ × = − ∇ × =EB

BE∂

∂t c t

12

L’insieme delle soluzioni non banali è ancora così vasto che dobbiamo introdurre ipotesi o condizioni; lo faremo in modo graduale, assegnando un numero romano a o-gnuna delle condizioni imposte. I. Richiediamo che, a ogni istante, il campo elettrico ab-bia lo stesso valore sul piano y = 0 , ossia che su questo piano siano nulle tutte le derivate di E rispetto a x e z. Poiché ∇ ⋅ E = 0, questo implica per Ey

E

yE

yy= ⇒0 = costante nello spazio

in quanto non dipende da x, y, z. Non essendo interessati alle componenti costanti (nello spazio o nel tempo) pos-siamo porre Ey = 0, ossia supporre che E appartenga al piano xz. II. Supponiamo che inizialmente E = Ezk e che la dire-zione di E non cambi nel tempo. In tale caso, la direzione k è detta di polarizzazione dell’onda, la quale si dice po-larizzata lungo l’asse z. Poiché E non dipende da x e z, per l’ipotesi I, Ez sarà funzione solo di y e t:

E(y, t) = Ez(y, t)k

Per la terza equazione di Maxwell, Bx è l’unica compo-nente di B dipendente dal tempo, con

∇∇∇∇ × = = −E i i∂

E

y

B

tz x 11.21a

Questa equazione implica anche che le componenti By e Bz sono costanti nel tempo, e possono per questo essere ignorate. Poiché Ez è funzione solo di (y, t), anche per B si può scrivere

B(y, t) = Bx(y, t)i

z

yx

B

E

Si è così ottenuto che, nel vuoto, le componenti variabili di E e di B sono tra loro ortogonali. Dalla quarta equazione si ha

∇ × = − =B k k∂

B

y c

E

tx z1

2 11.21b

Derivando la 11.21a rispetto a y e la 11.21b rispetto a t si riesce a ottenere un’equazione per la sola Ez; analoga-mente, derivando la 11.21a rispetto a t e la 11.21b rispet-to a y si ricava la funzione incognita Bx. Si hanno in de-finitiva le equazioni

2

2 2

2

2

2

2 2

2

21 1E

y c

E

t

B

y c

B

tz z x x= = 11.22

che rappresentano onde che si propagano con velocità c nella direzione dell’asse y. III. Supponiamo che la soluzione per il campo elettrico sia una oscillazione armonica di periodo T che si propaga nella direzione positiva dell’asse y:

E y t ET

ty

cz ( , ) cos= −

0

2π 11.23

Sostituendo nelle 11.21 si trova per il campo magnetico

B y tE

c Tt

y

cx ( , ) cos= −

0 2π 11.24

z

c

yx

B

E

Se avessimo scelto un campo elettrico Ez che si propaga nel verso delle y decrescenti, la soluzione Bx avrebbe a-vuto segno opposto rispetto alla 11.24; questo fatto si può esprimere dicendo che l’onda si propaga nella direzione positiva del vettore E × B. Il risultato importante è che le equazioni di Maxwell nel vuoto predicono l’esi-stenza di onde, descritte da equazioni simili a quelle delle onde meccaniche in un mezzo elastico, che si propagano a una velocità costante e pari a quella della luce.

La velocità di propagazione non è legata al moto del-la sorgente, che qui abbiamo potuto ignorare tranquilla-

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230 Capitolo 11

mente nella nostra derivazione. A Maxwell sembrò però logico postulare l’esistenza di un mezzo elastico che permette alla luce di propagarsi, ma che non interagisce con gli oggetti materiali e non viene da questi trascinato. Chiamò questo mezzo etere in quanto deve permeare an-che lo spazio interstellare per permettere alla luce degli astri di raggiungerci.

11.5 La ricerca dell’etere

I fisici dell’Europa continentale, e le scuole tedesche in particolare, adottarono per molti anni un atteggiamento critico nei confronti della teoria di Maxwell. Una diffi-coltà veniva dalla natura continua dei campi elettroma-gnetici. Come si può descrivere il moto di una carica di dimensioni minuscole? L’olandese H.A. Lorentz trovò nel 1892 una soluzione: una carica elettrica q in moto con velocità v in un campo elettromagnetico è sottoposta alla forza

f E B= + ×q( )v 11.25

dove il secondo termine, qv × B, è chiamato forza di Lo-

rentz. Per una carica in moto di dimensione finite, Lo-rentz riuscì a determinare la forza su questa prodotta da un etere immobile facendo un bilancio tra lavoro della forza elettrica e variazione dell’energia potenziale elet-tromagnetica. Anziché riproporre questa complessa di-mostrazione, si preferisce oggi aggiungere la 11.25 alle equazioni di Maxwell per riconoscere a questa formula, che pur sembra legata alla teoria dell’elettromagnetismo, un ruolo concettuale distinto e complementare.

Un campo di forze che dipendono dalla velocità sem-bra violare il principio di relatività galileiano, che così Newton enunciava: “I moti di corpi compresi in un dato spazio (riferimento) rimangono simili a se stessi, sia che lo spazio sia fermo, sia che si muova di moto rettilineo uniforme”. Questo vuol dire che l’accelerazione di un punto determinata da due osservatori in moto l’uno ri-spetto all’altro con velocità costante (per esempio vxi ) è la stessa: la forza è perciò la stessa ed è impossibile con un esperimento meccanico decidere chi dei due sia “in moto” e chi sia “fermo”. Ma se esiste, come postulato da Maxwell e come richiesto dalla dimostrazione di Lorentz, un etere rispetto al quale il primo osservatore è fisso e il secondo invece è in moto, allora i due osservatori misure-ranno velocità della luce diverse, forze di Lorentz diver-se, e i due sistemi di riferimento non saranno più equiva-lenti.

Sul finire del secolo XIX cresceva sempre più la fidu-cia nella teoria di Maxwell mentre si infittiva il mistero dell’etere. Nel 1887 Michelson e Morley provarono che la velocità della luce non è influenzata né dalla rotazione terrestre né dal suo moto di rivoluzione attorno al Sole, mentre ci si aspetterebbe il contrario se l’etere si compor-tasse come un mezzo meccanico.

v

B

A'

B'

C'C

N

A

Il dispositivo di Michelson (figura precedente) consiste in una lamina parzialmente argentata (A) e due specchi, B e C, a distanza |AB| = Ly e |AC| = Lx. Se il dispositivo è immobile rispetto all’etere e Ly = Lx, la luce percorre in tempi uguali i due cammini indicati con linee piene e i due raggi che si ricombinano sotto A sono in fase.

Supponiamo che, a causa del moto attorno al Sole, a una certa ora del giorno, il dispositivo si sposti rispetto all’etere verso destra con velocità v = vxi. Il percorso in etere della luce sarà AB'A' sul ramo Nord-Sud e AC'A' sul ramo Est-Ovest (linee tratteggiate). Indichiamo con τN il tempo impiegato dalla luce per andare da A a B':

| |/

AB' vv

N N N= = + ⇒ =−

c LL

c cy x

y

x

τ τ τ2 2 22 21

che è pari al tempo impiegato per andare da B' ad A'. Il tempo per andare a Est da A a C' è τE:

( )c L

L

c cx xx

xτ τ τE E Ev

v= + ⇒ =

−1 /

mentre quello per andare a Ovest da C' ad A' è τO:

( )c L

L

c cx xx

xτ τ τO O Ov

v= − ⇒ =

+1 /

Il tempo totale per compiere il percorso AB'A' è

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Elettromagnetismo e relatività 231

22

1

21

1

2

2 2

2

2

τ Nv

v

v

=

→ ≈

≈ +

<<L

c c

L

c c

y

x

c

y x

x

/

11.26

mentre quello per il percorso ACC' è

( )τ τE O 2

v

2

v

v

+ =−

→ ≈

≈ +

<<2

1

21

2

2

L

c c

L

c c

x

x

c

y x

x

/ 11.27

Perciò, se Ly = Lx la luce proveniente da C è ritardata più di quella proveniente da B e le due onde saranno par-zialmente fuori fase. Dallo sfasamento è possibile risalire alla velocità rispetto all’etere di un punto sulla Terra, che dovrebbe essere dell’ordine di 29 km/s per un etere soli-dale con il Sole. Nonostante la possibilità dell’apparato di Michelson di rivelare anche velocità molto minori, nessuno sfasamento fu osservato.

Invece di immaginare, come qualcuno fece, che ogni raggio di luce si portasse dietro il suo etere privato, Lo-rentz offrì una interpretazione strabiliante; quando il braccio si muove nella direzione della sua lunghezza si contrae! La lunghezza del braccio, che a riposo (ovvero in un riferimento solidale con lo strumento) abbiamo mi-surato essere L'x, apparentemente si contrae diventando

L L cx x x= −' /1 2 2v 11.28

quando il braccio è in moto con velocità |vx| nel sistema di riferimento (fisso) dell’etere.

11.6 La relatività di Einstein

L’ipotesi di contrazione della distanza non era un aggiu-stamento ad hoc, ma discendeva da un postulato teorico che per Lorentz valeva almeno quanto il principio di Ga-lileo-Newton sulla equivalenza dei sistemi di riferimento inerziali. Supponiamo di avere un sistema di riferimento (x, y, z) “fisso”, cioè convenzionalmente in quiete; una barra posta lungo l’asse x abbia inizialmente (t = 0) il primo estremo coincidente con l’origine di tale sistema cartesiano fisso e si muova con velocità costante vx nella direzione indicata in figura. Consideriamo questo moto

dal riferimento fisso e da un altro riferimento mobile con velocità costante vx rispetto al primo, con l’origine O' coincidente con il primo estremo della barra.

y' vxi

x'x O'O x'LxL

(vxt)i

y

x, y

x', y'P

Il principio di relatività della meccanica classica si po-trebbe enunciare dicendo che il tempo è assoluto (ossia il suo scorrere è intrisecamente uguale nei due sistemi di ri-ferimento, t = t') e il legame tra coordinate nei due sistemi va espresso con le regole della composizione vettoriale:

O'P = OP − (vxt)i

Nel caso della figura il collegamento tra coordinate e tempi nei due sistemi è perciò

x x t y y z z t tx' ' ' '= − = = =v 11.29

Poiché la forza di Newton è proporzionale all’accelera-zione, le forze nei due sistemi sono uguali e non è possi-bile con un esperimento meccanico determinare quale dei due riferimenti sia in moto (principio di relatività

galileiano). Infatti, anche se velocità e coordinate cam-biano, la seconda legge di Newton mantiene la stessa forma al cambiare del sistema di riferimento inerziale; si dice perciò che è invariante per la trasformazione 11.29.

Era da tempo noto che le equazioni di Maxwell non si accordano con il principio della relatività galileiana, quando Lorentz nel 1904 dimostrò (*) che sono però inva-rianti per la seguente trasformazione di coordinate di spa-zio e tempo, nota come trasformazione di Lorentz:

22

2

22

/v1

/v'

''/v1

v'

c

cxtt

zzyyc

txx

x

x

x

x

−=

==−

−=

11.30

( *) Anche se scoperte indipendentemente da Lorentz, que-

ste equazioni furono enunciate da W. Voigt già nel 1887.

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232 Capitolo 11

La 11.30 svolge nell’elettromagnetismo un ruolo corri-spondente a quello che la 11.29 svolge in meccanica. Lo-rentz postulò che queste equazioni siano quelle che de-scrivono in modo corretto un cambio di sistema di riferi-mento e dimostrò così come l’ipotesi dell’etere staziona-rio fosse in accordo con il risultato dell’esperimento di Michelson. Infatti, se la lunghezza della barra “a riposo” (ossia in un riferimento solidale alla barra stessa) è x'L, al tempo t nel sistema di riferimento “fisso” il primo estre-mo della barra sarà posto in x0 = 0 + vxt e il secondo in x1 = x0 + xL dove xL si ottiene applicando la prima equa-zione 11.30:

x x xx

cx x cL

L

x

L L x' ' '/

' /≡ − =−

⇒ = −1 0 2 22 2

11

vv

Inserendo questa espressione nella 11.27 la si rende u-guale alla 11.26, ossia si rende il tempo del percorso Nord-Sud uguale a quello del percorso Est-Ovest. Ma queste due espressioni sembrano coincidere per caso, e solo perché la trasformazione tra i tempi t e t' (Equazione 11.30) predice che il tempo necessario per compiere un tragitto di andata e ritorno tra la lamina A e lo specchio B sulla verticale (pari a ∆t = 2Ly/c a riposo) nel riferimento mobile diventi uguale a (vedi 11.30 e 11.26)

∆∆

tt

c

L

c cx

y

x

'/ /

=−

=−

=1

2

12

2 2 2 2v vNτ

I fisici a questo punto erano davvero confusi: l’espe-rimento di Michelson poteva essere spiegato da una con-trazione dello spazio che, combinandosi con l’espansione del tempo, compensa esattamente il fattore a denominato-re della 11.27; si poteva però anche dire che la velocità apparente della luce nella direzione parallela al moto è uguale a quella nella direzione perpendicolare. Non man-cò chi, come H. Poincaré, suggerì trattarsi di vera e pro-pria cospirazione: la natura sta cospirando contro di noi inventando un nuovo fenomeno che annulla l’effetto di una qualunque legge fisica che ci consentirebbe di deter-minare la nostra velocità rispetto all’etere.

Un’altra difficoltà era connessa alla pur utilissima formula di Lorentz 11.25 che implicava un’asimmetria nell’interpretazione dei fenomeni elettrici e magnetici re-lativi al moto dei corpi. Se teniamo un polo magnetico fisso e sopra questo spostiamo, con velocità v, una spira contenente le cariche q, secondo Lorentz e la sua equa-zione 11.25, su queste si origina una forza “magnetica” qv × B prodotta dall’etere (parte sinistra della figura).

E

∇∇∇∇ × = −EB∂

∂ tv

qv ×××× B

q

v

N N

Se invece è il magnete che si sposta (schema di destra), allora nasce un campo elettrico, proporzionale alla varia-zione nel tempo di B (Equazione 11.15). I due casi sem-brano diversi ma, come ben sapeva Faraday, non fa pro-prio nessuna differenza che si sposti la spira oppure la ca-lamita: il campo elettrico che si crea è lo stesso.

Nell’introduzione di un articolo del 1905 (Sulla elet-trodinamica dei corpi in movimento) che enuncia la teo-

ria della relatività ristretta, Einstein così riassume il problema e propone la soluzione: “l’elettrodinamica di Maxwell porta ad asimmetrie che non sembrano inerenti ai fenomeni. Prendiamo per esempio l’azione elettrodi-namica reciproca tra un magnete e un conduttore. Il fe-nomeno che si osserva dipende solo dal moto relativo di magnete e conduttore, ma di solito distinguiamo netta-mente quando è l’uno o l’altro che si muove. Quando il magnete è in moto e il conduttore fermo, si determina vi-cino al magnete un campo elettrico con un’energia ben definita [per la legge di Faraday] che produce una cor-rente nei luoghi occupati dal conduttore. Ma se il ma-gnete è fermo e il conduttore è in moto non vi è campo elettrico in prossimità del magnete; tuttavia nel condut-tore troviamo una forza elettromotrice [prodotta dalla forza di Lorentz] [...] che origina correnti elettriche dello stesso tipo di quelle prodotte nel primo caso. [...] Ciò suggerisce che [...] le stesse leggi dell’elettrodinamica e dell’ottica saranno valide per ogni sistema di riferimento per il quale le equazioni della meccanica sono valide. Innalziamo questa congettura, d’ora innanzi chiamata ‘Principio di Relatività’, allo stato di postulato”.

Einstein sta affermando che il principio di equivalen-za dei sistemi di riferimento della meccanica deve essere salvato, ma partendo dalle equazioni dell’elettromagne-tismo, e non da quelle di Newton! Senza ricorrere al con-cetto di etere, Einstein ricava le trasformazioni di Lorentz da considerazioni cinematiche basate sull’ipotesi dell’in-varianza della velocità della luce in sistemi di riferimento

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Elettromagnetismo e relatività 233

differenti, ipotesi questa suggerita proprio dall’esperi-mento di Michelson. Einstein si trova d’accordo con Lo-rentz sul fatto che è la meccanica che si deve adeguare all’elettromagnetismo, e non viceversa, e che si deve ri-nunciare ai postulati di tempo e spazio assoluti.

Il risultato più sorprendente del processo di revisione della meccanica riguarda il concetto stesso di massa. Po-sto davanti alla scelta tra massa assoluta e validità del principio di conservazione della quantità di moto, Ein-stein non ha dubbi: la massa non è una costante ma varia con la velocità del punto materiale secondo l’equazione

mm

c( )

/v

v=

0

2 21 11.31

dove m0 è detta massa a riposo. Imponiamo infatti la va-lidità del teorema della quantità di moto per tutti i sistemi di riferimento legati da trasformazioni di Lorentz:

pf f

p v

iijj ijij

iii

i

i i

tm

c

= = ⇒

⇒ =−

=

∑ ∑

∑ ∑

0

1

0

2 2vcost

/

La prima uguaglianza è una formulazione generale della seconda legge di Newton, che potrebbe essere scritta co-me ∆p = m0∆v se la massa fosse costante; la seconda u-guaglianza esprime che la risultante delle forze applicate è nulla, come è il caso di un sistema isolato. Nella terza abbiamo usato l’espressione 11.31 per la massa. Si può facilmente mostrare, con esempi di urti visti dal baricen-tro del sistema, che la quantità di moto totale non si po-trebbe conservare se le velocità si modificassero come ri-chiesto dalle 11.30, mentre le masse rimanessero costanti; la quantità di moto in un urto invece si conserva se le ve-locità cambiano secondo la trasformazione di Lorentz e la massa secondo la 11.31.

Nel limite di rapporti v/c << 1 , la 11.31 si riscrive

m mc

m m mE

c( )v

v c≈ +

= + = +0

2

2 0 0 211

2∆ 11.32

ossia l’aumento di massa è pari all’energia cinetica (classica) divisa per il quadrato della velocità della luce. Questo suggerisce che alla massa a riposo vada assegnata l’energia

E m c0 02= 11.33

e che l’energia totale, somma di energia cinetica ed ener-gia a riposo, sia

E m c E mc E E= ≈ + = +( )v c2

02

0∆ 11.34

Nelle reazioni nucleari si assiste alla trasformazione di apprezzabili quantità di massa in energia, fenomeno che costituisce la più importante conferma dello schema in-terpretativo di Einstein.

Ci si potrebbe chiedere: la carica elettrica cambia al cambiare del sistema di riferimento? La risposta è nega-tiva: la carica elettrica non dipenderà dalla velocità, per-ché l’ipotesi di conservazione della carica è il fondamen-to delle equazioni di Maxwell, le quali costituiscono la giustificazione delle equazioni di Lorentz, ossia del-l’apparato formale della relatività “ristretta” di Einstein.

Qui abbiamo voluto mettere in evidenza più le con-nessioni che le differenze tra le posizioni di Lorentz e di Einstein; il primo aveva un punto di vista “elettro-magnetico”, il secondo “cinematico”. Ma ambedue hanno rivoluzionato la fisica semplicemente accettando le con-seguenze della teoria di Maxwell che non erano in accor-do con la meccanica di Newton. In questo Lorentz fu ad-dirittura molto più radicale, tanto da far apparire Einstein come un erede e un epigono di Newton, incaricato di di-fendere i principi della relatività meccanica e della con-servazione dell’energia. È non senza amarezza che nel 1915 Lorentz così mette a confronto il suo approccio con quello, più fortunato, di Einstein: “I risultati di Einstein riguardanti i fenomeni elettromagnetici e ottici si accor-dano in linea di massima con quelli da me ottenuti, la principale differenza essendo che Einstein semplicemente postula quello che ho dedotto, con alcune difficoltà e in modo non del tutto soddisfacente, dalle equazioni del campo elettromagnetico”. Riconosce tuttavia che Ein-stein “può certamente acquistare credito nel mostrarci i risultati negativi dell’esperimento di Michelson e Morley come frutto non di fortuita compensazione di opposti ef-fetti ma come manifestazione di un generale e fondamen-tale principio [della costanza della velocità della luce]. [Inoltre, grazie a Einstein,] la teoria dei fenomeni elet-tromagnetici nei sistemi in movimento guadagna quella semplicità che io non sono stato in grado di raggiunge-re”.

La meccanica di Newton aveva unificato le forze ari-stoteliche; l’elettromagnetismo di Maxwell aveva unifica-to elettricità, magnetismo e luce; la relatività di Einstein fornisce l’elemento cruciale che porta a integrare mecca-nica ed elettromagnetismo, completando, in un certo sen-so, il tragitto della fisica classica.

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234 Capitolo 11

11.7 Continuo e discreto

La formula di Lorentz 11.25 può essere vista come il ri-sultato della fusione tra le teorie “atomistiche” (ovvero, del discreto), care ai fisici dell’Europa continentale, e il campo elettromagnetico continuo di Maxwell. Nel 1897 Joseph Thomson scopriva l’elettrone, una particella con una carica elementare (non divisibile), e dava impulso a-gli studi atomistici. Lorentz fu tra i primi ad affrontare i problemi di dinamica elettronica; in particolare propose che il cosiddetto corpo nero, un oggetto capace di assor-bire completamente la radiazione elettromagnetica inci-dente, fosse idealizzabile mediante un insieme di oscilla-tori armonici costituiti da elettroni. Il problema del corpo nero è quello di trovare come la radiazione elettromagne-tica emessa da un tale corpo, a una data temperatura, di-penda dalla frequenza della radiazione stessa (spettro di emissione del corpo nero). Lorentz applicò il principio di equipartizione dell’energia ai suoi oscillatori elettronici trovando un accettabile accordo con i risultati sperimen-tali solo nella regione a basse frequenze.

Anche in questo caso l’approccio di Einstein sembra l’opposto di quello di Lorentz: anziché applicare la teoria molecolare del calore agli elettroni, Einstein la applica al-la radiazione pura e mostra che le discrepanze tra esperi-menti e predizioni del modello di Lorentz del corpo nero non derivano da un difetto del principio di equipartizio-ne, ma da non averlo applicato anche alla radiazione. Ma così facendo Einstein riconosce alla radiazione elet-tromagnetica lo stesso carattere discreto della materia atomica, e asserisce che l’energia elettromagnetica non esiste in forma continua ma in pacchetti indivisibili che chiama quanti di luce o fotoni. Questo punto di vista ri-balta anche la posizione di Maxwell, il quale descrive mediante una funzione spaziale continua l’energia per u-nità di volume del campo elettromagnetico.

Einstein introduce il fotone in un articolo sull’effetto fotoelettrico del 1905, lo stesso anno della teoria della re-latività ristretta. Anche grazie a questa coincidenza tem-porale, potrebbe nascere il sospetto che quantizzazione del campo elettromagnetico e relatività siano frutto del programma einsteiniano teso all’eliminazione delle con-trapposizioni tra meccanica ed elettromagnetismo. Un primo passo è compiuto affermando l’equivalenza tra massa ed energia, che consente idealmente di congiunge-re la meccanica discreta delle particelle (massa) con la teoria elettromagnetica (energia). Un secondo passo è l’affermazione della natura discreta della radiazione me-diante l’ipotesi del fotone. Alle equazioni di Maxwell si assegna la funzione di descrivere il comportamento “me-

dio”, nel tempo e nello spazio, del campo elettromagneti-co il quale è, come la materia atomica, intrisecamente “discreto”. Questo accostamento tra relatività e ipotesi dei quanti è però contro il pensiero di Einstein che, sia negli articoli del 1905 sia nel seguito, tenne sempre ben distinte queste due teorie.

Il problema del dualismo tra discreto e continuo im-pegnò i fisici per il primo quarto del XX secolo. Nel mo-dello di Einstein, un fotone con frequenza ν ha energia, massa, quantità di moto e lunghezza d’onda date da

p

hh

c

hp

c

hmhE ===== λ

λ

ννν

2 11.35

dove h è una costante fisica fondamentale chiamata co-stante di Planck (vedi Capitolo 15). Una “scoperta” che sarebbe stata perfettamente in linea con il pensiero di Einstein, e che lo stesso più volte lodò, è dovuta a Louis-

Victor de Broglie: come la radiazione elettromagnetica (ossia un’onda) si può pensare costituita da “particelle” indivisibili (i fotoni), così un punto materiale ha una ca-ratteristica “continua” descrivibile con il formalismo tipi-co delle onde. In particolare, se il punto di massa m(v) ha un’energia data dalla 11.34, per analogia con la 11.35, ha anche una lunghezza d’onda data da

v)v(m

h

p

h==λ 11.36

Questo argomento verrà ripreso più avanti. Il rifiuto di Einstein di collegare teoria dei quanti e re-

latività ha motivazioni profonde. La meccanica di Newton e le trasformazioni di Galileo (11.29) sono “cor-rette” fino a che si considerano velocità piccole rispetto a quelle della luce; quando le velocità aumentano occorre introdurre le più complicate formule di Lorentz (11.30). Einstein tuttavia riesce a ricavarle con argomentazioni apparentemente elementari basate sull’analisi dei concetti di “simultaneità” e “sincronia” per osservatori in moto re-lativo i quali non dispongano di segnali di comunicazione infinitamente veloci. La relatività di Einstein è spiegabile mediante un modello cinematico che sembra in sostanzia-le accordo con la nostra esperienza di tutti i giorni.

Quando si considerano fenomeni “microscopici”, il campo elettromagnetico non può più essere considerato “continuo”, e una particella non può più essere pensata localizzata in un punto. Le prime “regole di quantizza-zione” riuscirono, mediante ipotesi di natura empirica, a spiegare molti fatti sperimentali ma ben presto ci si rese conto che tanto i modelli a base di onde quanto quelli a

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Elettromagnetismo e relatività 235

base di punti materiali non catturavano la vera essenza dei fenomeni microscopici. Un risultato ineludibile è che tali fenomeni non possono mai essere conosciuti alla stes-sa stregua di un fenomeno della fisica classica: un espe-rimento che determina esattamente la posizione di una particella ne lascerà completamente indeterminata la ve-locità e viceversa (principio di indeterminazione).

Secondo la fisica classica è possibile determinare e-sattamente grandezze fisiche che possiamo assegnare a un “oggetto” (per esempio l’elettrone); si può immagina-re di eseguire una misura con sistemi sempre più sofisti-cati fino a che siamo ragionevolmente sicuri che la nostra osservazione non abbia influenzato il risultato della misu-ra. Questo però non possibile secondo la meccanica quantistica: le proprietà osservate (dette “osservabili”) di un elettrone, per esempio, dipendono strettamente dal metodo di misura utilizzato. Un elettrone sarà una parti-cella o un’onda a seconda di come lo si rileva: se viene emesso da una sorgente, separata dal rivelatore da uno schermo con due fessure, si “comporterà” come un’onda, dandoci un risultato che richiede che il singolo elettrone passi “contemporaneamente” attraverso le due fessure. Ma se in un qualunque modo si può stabilire che sia pas-sato da una delle due fessure, il suo comportamento sarà simile a quello di una particella. Il fatto che il cammino dell’elettrone non sia determinabile in senso classico di-pende dalla natura stessa dell’elettrone e non dalla abilità dello sperimentatore. Questa conclusione sembra para-dossale e, sino alla fine dei suoi giorni, Einstein non riu-scì ad accettare del tutto la teoria dei quanti, che pur ave-va contribuito a fondare.

Riassunto

Il tema del capitolo è l’elettromagnetismo classico e il suo ruolo nella fondazione della fisica moderna. Ci si è sforzati di distinguere, ed esporre in sezioni separate le parti concettuali da quelle formali, pur cercando di ren-derne chiara la interdipendenza. Riassumiamo ora, a pa-role, gli aspetti “operativi” della teoria di Maxwell.

• Vi sono semplici relazioni tra sorgenti del campo (cariche e correnti elettriche) e variazioni nel tempo e nello spazio dei vettori elettrici e magnetici; queste sono descrivibili mediante due operatori del campo vettoriale: la divergenza del campo (uno scalare) e il rotore del campo (un vettore).

• Il flusso di un qualunque vettore attraverso una su-perficie chiusa S è sempre uguale all’integrale della

sua divergenza sul volume racchiuso da S; quando la divergenza è ovunque nulla, il campo vettoriale è detto solenoidale, le sue linee di forza non hanno né inizio né fine e il flusso uscente da una superficie di-pende solo dal contorno della stessa.

• Il rotore di un vettore ha sempre divergenza nulla e il suo flusso attraverso una superficie S è uguale al la-voro del vettore lungo il percorso chiuso che fa da contorno a S (circuitazione del vettore). Quando il rotore è ovunque nullo, il campo vettoriale si dice ir-rotazionale, o conservativo, e può essere espresso mediante una funzione scalare del campo detta po-tenziale.

• Il flusso del campo elettrico attraverso una superficie chiusa è proporzionale alla carica elettrica in essa contenuta (teorema di Gauss). Per un campo elettro-magnetico statico, il rotore del campo elettrico è nul-lo e il campo elettrico ammette potenziale. L’in-tera elettrostatica deriva da queste due proprietà del campo elettrico.

• Il campo magnetico ha sempre divergenza nulla e, per un campo elettromagnetico statico, il suo lavoro lungo una linea chiusa è proporzionale alla somma delle correnti concatenate con la linea. L’intera ma-gnetostatica algebrica deriva da queste due proprietà del campo magnetico.

• Il rotore del campo elettrico è pari alla derivata cam-biata di segno del campo magnetico (legge dell’indu-zione di Faraday) e, nel vuoto, il rotore del campo magnetico è pari alla derivata del campo elettrico moltiplicata per ε0µ0 = 1/c2. Da queste due condi-zioni, che associano le variazioni temporali di un vettore a quelle spaziali dell’altro, discendono le proprietà fondamentali delle onde elettromagnetiche, oscillazioni di campi elettrici e magnetici tra loro perpendicolari e normali alla direzione di propaga-zione. La velocità di propagazione c è esprimibile come radice quadrata del rapporto tra costante elet-trica e costante magnetica; per questo, è indipenden-te dalla scelta dell’unità di misura di carica o corren-te.

I prossimi capitoli sono dedicati all’approfondimento del-le proprietà dei campi elettromagnetici; qui basta aver un’idea della base concettuale della sintesi di Maxwell e delle implicazioni che questa ha avuto nello sviluppo del-la fisica.

La conseguenza più immediata dell’affermarsi della teoria dell’elettromagnetismo è stata la crisi della mecca-nica classica. L’esistenza di una velocità “limite” impone

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236 Capitolo 11

una revisione dei concetti di spazio e tempo assoluti di Newton e porta a enunciare un nuovo principio di relati-vità, quello di Einstein, nell’ambito del quale la massa non è più una costante ma una delle tante forme di ener-gia.

Un’evoluzione inattesa della fisica moderna è la teo-ria dei quanti, che ebbe proprio origine dalla constata-zione, da parte di Planck durante studi sul corpo nero

(vedi Capitolo 15), che il campo elettromagnetico non è continuo. Si confermò poi che il campo elettromagnetico è sempre costituito da entità discrete, i fotoni, con carat-teristiche sia di onde sia di particelle. Si trovò poi che an-che una particella materiale “occupa” una regione finita di spazio, ha proprietà ondulatorie e che i modelli fisici basati sui concetti di punto materiale e di onda classica non sono più applicabili su scale microscopiche.

ESERCIZI RISOLTI ______________________________________________________________

Esercizio R11.1 Due cariche Q1 = 3.5(10−6) C e Q2 = 1.2(10−5) C sono tenute fisse su due punti diametral-

mente opposti di una circonferenza mentre la carica q = 1.1(10−4) C è libera di muoversi solo sulla stessa circonferenza.

α1α2

C

q

Q1

E2

Q2

E1

Nel punto in cui la carica q è in equilibrio l’angolo α1 della figura vale circa

(A) 56° (B) 34° (C) 74° (D) 16° (E) 45°

Soluzione Indichiamo con E1 ed E2 le intensità dei campi elettrici prodotti nella posizione di q da Q1 e Q2 e con d1 e d2 le distanze tra Q1 e q e tra Q2 e q. L’equilibrio si avrà quando il campo risul-tante E1 + E2 ha componente tangenziale nulla lungo la circonferenza, cioè quando la com-ponente di E1 normale alla retta qC è uguale e opposta alla componente omologa di E2. Poi-ché il triangolo Q1qC è isoscele, la componente normale di E1 vale

E E kQ

d1 1 1

1

12 1⊥ = =sin sinα αe

Dal teorema dei seni applicato al triangolo Q1qC, indicando con R il raggio della circonferen-za, e ricordando che angoli supplementari hanno lo stesso seno, si ha

d1/sin2α1 = R/sinα1

Anche E2⊥ può essere espresso in funzione di Q2 e α2 in modo analogo, ottenendo

E kQ

dk

Q

Rk

Q

R2

2

22 2

22

2

2

2

222

22

22 4⊥ = =

=e e esin

sin

sinsin

sin

cosα

α

αα

α

α

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Elettromagnetismo e relatività 237

Si impone l’equilibrio eguagliando E1⊥ e E2⊥ . Il triangolo Q1Q2q è rettangolo perché inscrit-to in una semicirconferenza, perciò sin α1 = cosα2 :

E EQ Q

Q

Q

Q

Q

1 21 1

21

2 22

2

2

1

2

1

21

2

1

1

3

11 2

13 56 26

⊥ ⊥

= ⇒ = ⇒

⇒ =

=

⇒ = ≈ °

sin

cos

sin

cos

cos

cos

sin

sin

sin

cos

tan '

α

α

α

α

α

α

α

α

α

α

α

Esercizio R11.2 Una carica elettrica Q = 10 C è distribuita uniformemente nel volume di una sfera di raggio

R = 10 cm.

E1

2R1

E2

2R

2R2

Il rapporto tra il campo elettrico a R1 = 5 cm dal centro e il campo elettrico a R2 = 15 cm dal centro, E(R1)/E(R2), vale circa

(A) 1/9 (B) 4/9 (C) 3/2 (D) 1.66 (E) 1.125

Soluzione Il problema si risolve applicando il teorema di Gauss a una superficie sferica passante per il primo punto e una per il secondo; conviene esprimere questi risultati in termini del campo e-lettrico alla superficie della sfera carica che, sempre per il teorema di Gauss, vale

EQ

R0 24

=πε0

Per R1< R la carica Q1 contenuta dalla superficie sferica di raggio R1 è proporzionale a Q e al cubo di R1:

EQ

R

R

R

Q

RE

R

RE

E1

1

12

13

312 0

10

0

4 4

5

10 2= = = = =

πε πεo o

Per R2 > R:

EQ

R

Q

R

R

RE

R

RE

E2

22 2

2

2 02

2

0

2024 4

10

15 1 52

= = =

=

=

πε πεo o .

da cui si ottiene E1/E2 = 1.125.

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238 Capitolo 11

Esercizio R11.3 Su una superficie ellissoidale di 40 cm2 il campo elettrico E ha una componente normale alla superficie che vale in media E⊥= 5 N/C ed è sempre diretta verso l’esterno dell’ellissoide. La carica elettrica contenuta nell’ellissoide, in Coulomb, vale circa

(A) 1.6(10−19) (B) 200 (C) 8 (D) 1.77(10−13) 1.77 (E) 1.67(10−15)

Soluzione Il flusso del campo elettrico attraverso l’ellissoide vale Φ(E) = E⊥S =Q/ε0, da cui

Q = ε0E⊥S ≈ 8.85(10−12) × 5 × 40(10−4) = 1.77(10−13) C

Esercizio R11.4 Sulla faccia superiore (in grigio) del cubo della figura con lato l = 2 m il vettore induzione

magnetica è costante con Bz = 0.2(10−2) T.

x

y

z

l = 2 m

BBzk

Il flusso di B uscente complessivamente dalle altre cinque facce del cubo vale (in te-sla × m2 = weber)

(A) −0.008 (B) −0.004 (C) −0.002 (D) 0.00 (E) 0.004

Soluzione Il flusso uscente dalla faccia superiore è Bzl2 = 0.8(10−2) T⋅m2 e deve essere uguale e contra-

rio al flusso uscente dalle rimanenti cinque facce, che è perciò −0.8(10−2) T⋅m2 Esercizio R11.5 Due fili rettilinei, paralleli all’asse z e distanti tra loro 40 cm, sono percorsi dalle correnti I1 e

I2 . Nel punto C(30,0,0) della figura (a 30 cm dal primo filo, sulla normale alla congiungente i due fili passante per il primo) le componenti cartesiane del campo magnetico sono uguali: Bx = By.

40 cm

30 cm

x

y

C

z

I2I1

B

Se la corrente I1 vale 1 A ed è diretta nella direzione positiva dell’asse z, la corrente I2 vale (segno negativo ⇒ corrente diretta nel verso negativo dell’asse z)

(A) 5 A (B) 5/3 A (C) 3 A (D) 25/3 A (E) 1.66 A

Soluzione Conviene iniziare dalla geometria del problema considerando il piano xy:

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Elettromagnetismo e relatività 239

α

B1+B2B2

C

α

y

x

I2I1

B1

Il campo B1 prodotto da I1 è diretto come y: B1 =B1y; il campo B2 prodotto da I2 forma un angolo α con l’asse delle x dove

sin . cos .α α= =+

= = = = =C

C

I

I

I I

CI1

2 2 2

1 2

2

30

30 40

30

500 6

40

500 8

Poiché si deve avere B2x = B1y + B2y questo implica

B B B B B B B B Bx y y2 2 1 2 2 2 1 2 10 2 5− = ⇒ − = = ⇒ =cos sin .α α

La relazione tra correnti e campi si trova dal teorema della circuitazione di Ampère applicato a circonferenze con centro nel conduttore e passanti per C:

BI

IB

I

I

B

B

I

I

I

I

I

II I1

12

2 2

1

2

1

1

2

2

12 15

30

505

5

381= = ⇒ = = = ⇒ = ≈

µ

π

µ

π0

1

0

22 C 2 C

C

CA.

Esercizio R11.6 Un cavo elettrico può essere descritto come un cilindro conduttore di raggio R = 3 cm in cui è scavato un cilindro di materiale isolante e raggio r = 1 cm con centro a 1.5 cm dal centro del cilindro conduttore.

B

2R 2r

Se il cavo porta una corrente I = 20 A, il campo induzione magnetica B al centro C del cilin-dro conduttore in modulo vale circa

(A) 1.67 µT (B) 0.13 mT (C) 66 µT (D) 3.3 µT (E) 33 µT

Soluzione La sezione del conduttore ha area S = π(R2 − r2). La densità di corrente è per definizione J = I/S. Conviene pensare alla corrente come dovuta a una corrente “entrante” nel piano del foglio dovuta a una densità uniforme sull’intera sezione di raggio R, e a una corrente, con densità in modulo uguale ma di opposto segno, passante per il cilindro di raggio r. Tale cor-

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240 Capitolo 11

rente “uscente” vale

( )I J r I

r

R rI

r

R r' = =

−=

−π

π

π

22

2 2

2

2 2

e a una distanza d = 1.5 cm produce un campo

( )( ) ( )

BI

d

r

R r

I

d= =

−=

−≈−µ

π

µ

π0 0 T

'

..

2 22 10

1

9 1

20

0 01533 3

2

2 27 µ

Per ragioni di simmetria la corrente in un conduttore cilindrico produce un campo nullo lungo l’asse del cilindro; perciò solo la corrente del cilindro eccentrico produce il campo B al cen-tro del conduttore.

Esercizio R11.7 Il rettangolo ABCD con |AB| = 3 m e |BC| = 1.5 m è immerso nel campo elettrico della figura

con E0 = 1.1(103) N/C ed E1 = 2E0.

CD

BAE0

E1

La circuitazione di E lungo il percorso orientato ABCD vale (in N⋅m/C = J/C)

(A) 1650 (B) −1100 (C) 2200 (D) −3300 (E) −9900

Soluzione Il lavoro di E è diverso da zero solo lungo AB (dove è positivo) e lungo CD (dove è negati-vo) e la circuitazione vale:

E0 |AB| − E1|CD| = E0 |AB| (1 − 2) = −1.1(103) × 3 = − 3300 J/C

Esercizio R11.8 Una spira quadrata con lato l = 20 cm giace su un piano (x, y) in una zona dove il campo

magnetico è uniforme e dato da B = Bk. Se B oscilla sinusoidalmente secondo la legge B(t) = B0cos(2πt/T) con periodo T = 20 ms e con B0 = 0.4 T il massimo valore della forza e-lettromotrice (fem) nella spira è

(A) 0.016 V (B) 0.04 V (C) 1 V (D) 4 V (E) 5 V

Soluzione Il flusso magnetico concatenato dalla spira è Bl2 e la sua variazione massima è

( )d B

dtl B

d t T

dtl B

T

Φ( ) cos /.

max max

= = ≈2 22 25 030 0 V

π π

Esercizio R11.9 L’osservatore A si sta allontanando con una velocità u = 107 m/s da un osservatore B e osser-

va una particella che si muove con velocità −vA (negativa) nella direzione (e verso opposto) secondo cui vede allontanarsi B. Utilizzando le trasformazioni approssimate di Galileo, l’osservatore A predice che B misurerà una velocità della particella pari a v B0

= −u − vA. Al di sotto di quale valore di vA/c,

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Elettromagnetismo e relatività 241

all’incirca, la velocità della particella effettivamente misurata in B differirà per meno del 2% da v B0

, predetta nell’approssimazione galileiana?

(A) 0.02 (B) 0.03 (C) 0.2 (D) 0.6 (E) 1.0

ui−vAi

xBxA

Soluzione Scegliamo le origini dei riferimenti in modo che all’istante iniziale queste coincidano con la particella. Le trasformazioni di Lorentz sono

xx ut

u ct

t ux c

u cB

A AB

A A=−

−=

−1 12 2

2

2 2/

/

/

Se xA è l’ascissa della particella secondo A, allora xA/tA = −vA e dalle formule di trasforma-zione si ricava la velocità in B:

vv

vB

B

B

A A

A A

A

A

= =−

−=

− −

x

t

x ut

t ux c

u

u c/ /2 21

Il problema richiede

v v

v v

v

v

B B

B A

A

A

0

0

−≤ ⇒ −

−=

−≤0 02 1

1

10 02

2 2.

/.

u c

u

c u

Se il prodotto uvA è positivo, come nel nostro caso, il valore limite di tale prodotto si ottiene risolvendo l’equazione

u

c uu c

c

c

u

v

vv

vA

AA

A2

20 020 02

1 0 020 0196 0 588 0 6

−= ⇒ =

+⇒ ≈ ≈ ≈.

.

.. . .

Esercizio R11.10 Un atomo di potassio sulla Terra emette fotoni con frequenza ν = 8(1014) Hz ma la frequenza della radiazione prodotta dal potassio di una distante galassia arriva sulla Terra con una fre-quenza pari a ν' = 5(1014) Hz. Rispetto alla Terra, tale galassia si muove con velocità pari a circa

(A) 0.122c (B) 0.375c (C) 0.44c (D) 0.60c (E) 0.625c

Soluzione Il problema è simile a quello dell’effetto Doppler trattato nel Capitolo 7. Indichiamo con x' e t' coordinate e tempo sulla Terra e con −u la velocità incognita della Terra nel riferimento so-lidale con l’atomo di potassio (K) galattico:

K

T = 1/ν

-ui

−ci

Terra

Per l’osservatore solidale con l’atomo emittente il periodo della radiazione è T = 1/ν mentre

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242 Capitolo 11

sulla Terra l’intervallo di tempo T risulta dilatato e pari a

T' =T

u c1 2 2− /

Nel riferimento della Terra, l’onda elettromagnetica si avvicina sempre alla velocità c della luce ma due fronti d’onda successivi raggiungono la Terra in due posizioni distinte, separate da una distanza (c + u)T' dove u ha segno positivo se la Terra si allontana (come nel disegno) e negativo se si avvicina; la frequenza della radiazione sulla Terra è perciò

( )ν ν'

( ) '

/

( )=

+=

+=

+=

+

c

c u T

c u c

c u T T

c u

c u

c u

c u

1 12 2 2 2

2

Questa è la formula dell’effetto Doppler relativistico, che vale anche per velocità in avvici-namento (u negativo). La soluzione del problema si trova risolvendo rispetto a u:

( )

( )

c u

c uu c c c c

+=

⇒ =

+=

+= ≈

ν

ν

ν ν

ν ν

' '/

'/

/

/.44

2 2

2

1

1

1 25 64

1 25 64

39

890

ESERCIZI PROPOSTI____________________________________________________________

Esercizio 11.1 Un grammo di idrogeno atomico viene separato in NA = 6.02(1023) protoni, ciascuno con carica di 1.6(10−19) C e in altrettanti elettroni (con uguale carica negativa); i protoni vengono portati al polo Nord e gli elettroni al polo Sud. Se il raggio terrestre è RT = 6340 km, il campo elettrico al centro della Terra vale (in N/C)

(A) 98 (B) 0 (C) 43 (D) 4π(107) (E) 1.6(105)

Esercizio 11.2 Nel campo terrestre, una gocciolina di 0.003 g è immobile quando viene applicato un campo

elettrico diretto come la verticale ascendente di 105 N/C. La carica elettrica posseduta dalla gocciolina è di circa (in coulomb)

(A) 3(10−10) (B) 9.8(10−10) (C) 2.8(10−8) (D) 0.6.6 (E) 1.6(10−19)

Esercizio 11.3 Nei vertici A e B di un triangolo equilatero sono state poste le cariche QA e QB.

C E

BA

Nel terzo vertice C si trova che il campo elettrico è normale a CB. Se la carica QA vale +1 C,

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Elettromagnetismo e relatività 243

la carica QB vale

(A) 1 C (B) −0.5 C (C) 0.87 C (D) −0.87 C (E) non esiste

Esercizio 11.4 Il campo di induzione magnetica a 16 cm da un filo rettilineo in cui passa una corrente

I = 2 A vale all’incirca in modulo

(A) 0.00125 T (B) 0.01 T (C)(10−5) T (D) 2(10−4) T (E) 2.5(10−6) T

Esercizio 11.5 Una grande lastra conduttrice spessa s = 1 cm è percorsa da corrente unidirezionale con den-sità uniforme di 200 A/cm2.

L

s

J

L’induzione magnetica in un punto prossimo alla lastra, situato sull’asse perpendicolare alla lastra stessa per il suo centro, in prossimità del centro della lastra vale circa

(A) 0.013 T (B) 0.25 mT (C) 0.98 T (D) 3.14 T (E) 3.14(10−6) T

Esercizio 11.6 Un tratto di filo rettilineo lungo l = 3 m e percorso da una corrente I = 0.5 A è immerso in un campo di induzione magnetica uniforme in cui la componente normale al filo vale B⊥ = 0.3 T. Il tratto di filo è sottoposto alla forza

(A) 1.5 N (B) 0.9 N (C) 0.15 N (D) 0.45 N (E) 9.8 N

Esercizio 11.7 Un cavo coassiale porta una corrente di 3 A nel conduttore interno (diametro din = 1 mm) e

una corrente dello stesso valore ma opposta nel conduttore esterno che è schematizzabile co-me una superficie cilindrica con diametro dex = 1 cm.

0.1 cm

B

1 cm

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244 Capitolo 11

A una distanza d = 0.2 cm dall’asse del cavo il campo B ha una intensità di circa

(A) 3(10−4) T (B) 1.5(10−3) T (C) 6(10−3) T (D) 0.04 T (E) 12(10−4) T

Esercizio 11.8 Una particella instabile ha una vita media (tempo medio misurato tra la sua comparsa e la sua

disintegrazione) di 7.5 ns quando è localizzata “in quiete” in laboratorio e di 20 ns quando si muove di moto uniforme con velocità v. Il rapporto tra la sua velocità e quella della luce c va-le circa

(A) 1.00 (B) 0.98 (C) 0.93 (D) 0.79 (E) 0.62

Esercizio 11.9 Uno scalatore parte dal livello del mare e sale su una vetta alta 4000 m. Se la sua massa a

livello del mare era di 70 kg e l’accelerazione di gravità media tra punto di partenza e arrivo è di 9.8 m/s2, la massa dello scalatore sulla vetta è aumentata di circa (in kg)

(A) 3.0(10−8) (B) 3.0(10−11) (C) 9.1(10−8) (D) 9.8(10−7) (E) 1(10−18)

Esercizio 11.10 La velocità di un protone quando la sua massa è esattamente due volte la sua massa a riposo

m0 = 1.67(10−27) kg è una frazione di c pari a circa

(A) 0.167 (B) 0.5 (C) 0.75 (D) 0.87 (E) 0.95