Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

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PresentazioneQuando suo padre Murtaza venne ucciso, Fatima Bhuttoaveva solo quattordici anni. Si trovava a pochi passi dalluogo dell’attentato. Quell’episodio, che ha segnato la suavita, è anche una delle pagine più torbide della storia delsuo paese, il Pakistan, il crocevia strategico della politicamondiale, stretto tra Iran, Afghanistan, Cina e India.Canzoni di sangue è in primo luogo un gesto d’amore,quello di una figlia per un padre che non ha potuto vederlacrescere. Al tempo stesso, racconta il destino tragico diuna grande e potente famiglia, che sembra uscire daun’epoca remota, e forse per questo ancora piùaffascinante. Perché ci ricorda le tragedie degli Atridi, gliintrighi dei Borgia o i drammi storici di Shakespeare.Come racconta Fatima, suo nonno Zulfikar Ali, dopo averguidato il paese, è stato torturato e giustiziato dal generalegolpista Zia ul Haq. Suo zio Shahnawaz, suo padreMurtaza, sua zia Benazir assassinati.Discendenti di una casata di guerrieri, i Bhutto possiedonoenormi estensioni di terra nella regione del Sind.Dopo l’indipendenza, la famiglia è stata al centro della vitapolitica del Pakistan: un paese violento e corrotto, segnatoda complotti e faide sanguinose, omicidi e attentati.Fatima Bhutto ha vissuto tutto questo: un potere assoluto,

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arcaico, quasi feudale nella regione d’origine; le torbidelotte politiche in uno stato instabile; i sanguinosi conflittiinterni e le minacce dall’estero. Il jet set internazionale delleélite politiche e finanziarie. Fatima Bhutto ce lo raccontacon lo sguardo curioso e appassionato di una donna digrande sensibilità e forti slanci ideali. Per trasformare ungesto d’amore in un atto di giustizia e di verità.

Fatima Bhutto è poetessa e scrittrice. Pakistana di origineafghana, ha studiato alla Columbia University e alla Scuoladi Studi Orientali e Africani all’Università di Londra. Suoiscritti sono apparsi tra l’altro su «Daily Beast», «NewStatesman» e «The Guardian». Ammirata per la suaintegrità e per il coraggio, Fatima Bhutto è apprezzata perla sua attività di giornalista e scrittrice. Suo malgrado, haavuto anche enorme visibilità sui giornali di gossip di tutto ilmondo a causa della sua presunta relazione con l’attoreGeorge Clooney.

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SAGGI

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In copertina: Fatima Bhutto© Warrick Page / Getty Images

Traduzione dall’inglese di Stefania Cherchi

Titolo originale dell’opera: Songs of Blood and Sword

© Fatima Bhutto 2010Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia

Letteraria

ISBN 978-88-11-13236-3

© 2011, Garzanti Libri s.p.a., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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\ Printed in Italy

www.garzantilibri.it

Prima edizione digitale 2011Realizzato da Jouve

Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non

autorizzata.

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Alla mia Joonam, Nusrat,che è sempre con me.

E a mia madre Ghinwa, che mi dà la vita.

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I BHUTTO DI LARKANA

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Poema dello Sconosciuto

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Sul tuo petto posa La profonda cicatrice del tuo nemico Ma tu cipresso eretto non sei caduto È il tuo modo di morire.

In te nidificano canzoni di sangue e di spada In te gli uccelli migratori In te un inno di vittoria I tuoi occhi non sono mai stati così luminosi.

Khosrow Golsurkhi (giustiziato nel 1972)

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PREFAZIONE12 novembre 2008.Sono quasi le undici di sera, a Karachi. Dalla mia

camera da letto, al 70 di Clifton Road, sento il costanteronzio del traffico. Ormai ci sono abituata; è diventato lacolonna sonora del mio scrivere e del mio pensare. Ma cisono anche le sirene. Ambulanze, o forse uomini politiciche attraversano la città annunciandosi con fragore. Liaccompagnano guardaspalle dei corpi speciali armati ditutto punto, quasi sempre ranger dotati di kalashnikov. Avolte ci sono delle sparatorie. Più di frequenteun’esplosione in lontananza. Non è la stagione deimatrimoni, quando i veri maschi s’impadroniscono dellastrada e innaffiano il cielo di pallottole. E non è nemmenoCapodanno, festività tradizionalmente chiassosa, in cuispesso sono gli spari a sottolineare l’inizio dell’anno nuovo.È solo la nuova Karachi. Cose già viste.

Quattordici anni fa persi varie settimane di scuola acausa della violenza che si era impadronita della città.Ricordo che andavo a letto ascoltando il ronzio dellepallottole. E che il mattino dopo sfogliavo il giornalecercando il totale delle vittime della nottata. Era una cittàpericolosa, allora, la mia Karachi. Il governo del PPP(Partito del popolo del Pakistan) aveva lanciato un attacco

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genocida, la cosiddetta «Operazione pulizia» contro l’etniamuhajir, base del partito MQM (Muhajir Quami Movement).L’MQM aveva contrattaccato formando degli squadronidella morte, e allora anche il rumore della loro vendetta ciera diventato aggressivamente familiare.

C’erano momenti, quando ero più giovane, in cui mispaventava essere a Karachi, in questa casa. Nel cuoredelle notti d’estate rabbrividivo, mi supplicavo di dormire epregavo di riuscire a scacciare la paura della violenza e glispettri dei morti che aleggiavano su di me e sulla mia città.Ma una volta, alle cinque del mattino, sentii gli stornicantare fuori dalla mia finestra. Da allora li ho sempreaspettati, quei neri, rozzi uccelli, addormentandomi soloquando essi, con la loro canzone corvina, mi assicuravanoche ancora una volta la notte era stata sconfitta. Mi sonorappacificata con il 70 di Clifton Road e con questa cittàsolo quando ho capito che il canto degli storni non miavrebbe seguita se fossi andata via, e che se avessi fatto ibagagli per qualche destinazione lontana ne avrei sentito lamancanza.

Ma tutto ciò accadde molto tempo fa. Ormai da undecennio non viviamo più così. Non abbiamo più cosìpaura.

Dopo il 1996, anno della caduta del governo del PPP inseguito a un’ulteriore ondata di violenza, a Karachiabbiamo avuto alcuni anni di calma mentre Nawaz Sharif,leader della Lega musulmana del Pakistan, a volte algoverno e a volte all’opposizione, portava avantimaldestramente il suo secondo mandato. Allora sì che la

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situazione era tranquilla. Andavamo a scuola, facevamo inostri esami, consumavamo gli acquosi pasti dellacaffetteria scolastica e tornavamo a casa sani e salvi.

Poi però, con il colpo di stato di Musharraf e l’avventodella guerra al terrore, abbiamo visto la violenza rialzareancora una volta la testa nella nostra città. In quelsonnacchioso intermezzo, tempi e metodi del terrore eranocambiati; la violenza aveva mutato il suo corso e si eramodificata, era diventata sempre più atroce fino atrasformarsi in una deformazione irriconoscibile di ciò checi sembrava di conoscere così bene. Stavolta non sitrattava semplicemente di uomini armati, bensì diattentatori suicidi che prendevano di mira i fast food, icentri commerciali progettati come bazar tradizionali oanche le ambasciate, quando si sentivano particolarmenteoffesi. Ma noi abitanti di Karachi, esperti in sopravvivenza,sapevamo chi e cosa evitare. Non passavamo mai davantial consolato americano o all’alto commissariato inglese. Equando avevamo fame ordinavamo qualcosa a un takeaway.

Spesso mancava la corrente elettrica, sparivaall’improvviso, magari mentre stavo digitando le parole diquesto libro. Adesso la luce va via ancora più spesso; oggiè la quinta volta che la tolgono. E fuori città è anchepeggio. Proprio poco fa un amico appena tornatodall’interno mi diceva che gli abitanti dei villaggi del Sindcentrale possono dirsi fortunati se hanno due ore dielettricità al giorno, altrimenti niente. E nel Sind l’autunno,stranamente, è una delle stagioni più calde dell’anno. Solo

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di rado, nei giorni fortunati, mi ha detto il mio amico,l’elettricità raggiunge le case più povere della provincia perquattro ore. Fortunatamente a casa mia c’è un generatore:così resto seduta al buio ad ascoltare l’incessantefrastuono del traffico vagabondo di Karachi, caoticamentecomposto di auto, camion, motociclette truccate cariche diquattro o più persone e risciò a motore, aspettando allavaga luminescenza del mio laptop di sentire il generatoreschiarirsi la gola e risvegliarsi a nuova vita. Il suo rumorefrenetico cancella tutti gli altri. È come una zanzara che mironza dritto nell’orecchio mentre scrivo.

Sotto il nuovo governo del PPP le bollette dell’elettricitàsono schizzate alle stelle. La Karachi Electrical SupplyCompany, uno dei servizi più corrotti del paese, è semprestata una cosa orribile - che tu sia a casa o meno, labolletta è sempre la stessa. Paghi per ammodernamentifenomenali e poi resti al buio per la maggior partedell’anno. I poveri, che non possiedono un generatore, losono sempre. Recentemente il Pakistan ha mancatol’obiettivo del millennio di sradicare la poliomielite, ancoradiffusissima in tutto il paese, perché lo stato non ha saputogarantire la corretta refrigerazione dei vaccini. Lacorruzione è questo, semplicemente. L’inverno scorso icommercianti di Karachi hanno deciso di non pagare labolletta della luce come forma di protesta contro i blackout.La settimana scorsa sono scesi in piazza ogni giorno:hanno bruciato le bollette a Saddar, il centro commercialedella città, hanno bruciato copertoni a Malir, unpoverissimo quartiere abitato da beluci, vicino

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all’aeroporto, e hanno protestato davanti ai circoli dellastampa e ai centri commerciali. L’India ha appena varatoun programma missilistico per andare sulla luna, e noi nonriusciamo nemmeno a illuminare le strade. Abbiamo labomba atomica ma non il frigorifero.

Comunque torniamo alla questione della violenza.L’anno scorso abbiamo avuto un numero record di attacchisuicidi, più che in Iraq e in Afghanistan. Ultimamente gliattentatori suicidi sono diventati più audaci, non si limitanopiù a colpire spacci di generi alimentari occidentali emiscredenti o ambasciate estere: adesso si concentranosu vie centrali, palazzi di uffici, stazioni di polizia ecaserme; la loro vendetta prende di mira il governo e queipolitici che, appena tornati al potere, ci hanno venduto auna potenza straniera.

Per mesi droni americani Predator senza pilota hannosorvolato il Pakistan settentrionale in regolari missioniquotidiane. I giornali locali commentano questi attacchi,che fanno centinaia di vittime, con deprimente disinvoltura.Dicono che le «operazioni» hanno «avuto successo». Inostri giornali, ormai talmente censurati che una miarubrica, dopo essere uscita per due anni, è stata sospesaperché il governo democratico del Pakistan non tolleraalcuna critica - e men che meno quelle dei suoi cittadini -sono solo il guscio vuoto di ciò che un giornale dovrebbeessere. Non dicono mai esattamente quel che vorrebberodire - per esempio che affinché una missione di droniabbia «successo» bisogna che un certo numero di civilirestino uccisi, spesso nel sonno. Altre volte le vittime

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vengono definite miliziani. Altre volte, terroristi di Al Qaeda.O membri delle crescenti file dei talebani del Pakistan. Nonsi parla mai di civili. O di errori: i droni cancellano lapossibilità stessa dell’errore umano. È la guerra al terrorein salsa americana. Donne e bambini uccisi nelle scuole enei campi sono «scudi umani», i ragazzini armati dilavagna in una sperduta madrassa di villaggio, dove vannoperché lo stato non dà loro scuole da frequentare, sono tuttifuturi jihadisti; qualsiasi possibilità che si allontani daquesto livello di isteria di massa sembra inconcepibile.

Noi, come nazione, abbiamo entusiasticamentecombattuto la guerra al terrorismo contro il nostro stessopopolo per sette anni. Ma mai prima d’ora avevamopermesso a un paese straniero, gli USA o chiunque altro,di attaccare militarmente il nostro territorio. Era una cosainimmaginabile. Mai prima d’ora avevamo permesso adelle macchine di volare nei nostri cieli e di uccidere inostri cittadini senza alcuna ragione, come se qui la vitaumana non valesse niente e potesse essere cancellata inun attimo quando la volontà politica di farlo èsufficientemente forte.

Adesso, come se la transizione fosse avvenuta insilenzio, quasi in segreto, si parla del Pakistan come delterzo fronte di guerra: l’Afghanistan, l’Iraq e adesso ilPakistan. Robert Fisk è andato ad Al Jazeera - un canaletelevisivo tuttora ufficialmente proibito in Pakistan, anchese il bando è raggirato da astuti operatori della tv via cavo -per dire che il putiferio originato dalla recente crisifinanziaria globale è stato usato per nascondere il fatto che

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è il Pakistan il nuovo campo di battaglia del mondo. I duecandidati alla vicepresidenza USA, nei loro comizi, hannodetto entrambi che il Pakistan è più pericoloso dell’Iran.Barack Obama, come se ce ne fosse bisogno, ha dettoche l’America ci bombarderà. Ma in realtà lo stava giàfacendo.

Mentre scrivo queste righe la BBC annuncia che unattacco missilistico USA nel Waziristan settentrionale haucciso otto bambini di una scuola. Altri due missili, sparatida un altro drone, hanno colpito la stessa scuolastamattina. L’edificio scolastico sorgeva vicino alla casa diun presunto capo talebano. L’esercito pakistano hadichiarato che «condurrà delle indagini». Gli Stati Uniti nonsi sono pronunciati. È così che si combattono le guerre, algiorno d’oggi. Il nuovo presidente del Pakistan hafamelicamente chiesto di poter avere anche lui latecnologia dei droni: ne ha bisogno, ha detto, percombattere il Pakistan. Il nuovo parlamento, entusiasta, havotato per continuare ad aiutare l’America e il suo alleato,l’esercito del Pakistan, contro i terroristi. O contro imiliziani. O contro Al Qaeda. O contro i bambini dellescuole, se dovessero capitargli tra i piedi.

Alcuni corpi, cadaveri mutilati con evidenti segni ditortura, hanno cominciato a spuntare come funghi neisobborghi di Karachi, avvolti in sacchi di juta. I giornali,sedati, lo registrano appena. Uomo ritrovato lungol’autostrada; causa del decesso: corpo crivellato dipallottole; assassino: sconosciuto - la vittima è stata feritaa morte. Fine della storia. Niente di nuovo. Qualche tempo

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fa il console generale tedesco è venuto a salutarmi -andava in pensione, lasciava definitivamente il Pakistan.Gli ho accennato alla comparsa di corpi torturati e allefrettolose sepolture ai margini delle strade, gli ho ricordatoche cose analoghe erano già successe, tempo fa. Mi haconfermato che, al suo ufficio, risultano ben sessanta mortiammazzati con le stesse caratteristiche. Sessanta sacchidi juta solo da quando il nuovo governo si è insediato, infebbraio, meno di un anno fa. Gli ho chiesto che significatopotesse avere, secondo lui, questa coincidenza di tempi.Si è stretto nelle spalle e ha ripreso a mordicchiare unafetta della sua torta d’addio. «Io vado in pensione», ha riso.

Gli avversari politici del PPP, non necessariamentemolto attivi né molto interessanti, hanno lasciato il paese.Sono andati ad aspettare la loro grande occasione aLondra o a Dubai. Quelli che sono rimasti, perdendol’occasione di oziare in esilio, sono stati condannati a unesilio diverso. L’ex rappresentante provinciale di Larkana,un tipo tondo con vari carichi pendenti, membro di unpartito contrario al PPP e favorevole a Musharraf, è inprigione da febbraio, quando ha perso le elezioni.L’accusa che gli viene mossa è di aver complottato peruccidere la sorella del presidente, una casalinga passataalla politica. I suoi avvocati l’hanno abbandonato. Non cisarà nessuno, in aula, a difenderlo. Un altro esponentedell’opposizione, attualmente membro del parlamento edex primo ministro del Sind, appartenente allo stessodecaduto partito pro-Musharraf, è stato fisicamentepestato in aula. Il ministro degli Interni, un ricco socio

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d’affari del nuovo presidente passato alla politica, dopo ilpubblico pestaggio messo in atto dai suoi compagni dipartito è andato in televisione e ha detto, con macabrosenso dell’umorismo parlando del Pakistan: «Io sono unmedico, ci siamo limitati a somministrare una terapia a unuomo malato. E se non sta attento, si beccherà un’altradose della stessa medicina». (Il ministro degli Interni,medico, uomo d’affari e politico, si è candidato alle falseelezioni per la presidenza del Comitato nazionale per ilcricket ed è amico intimo del presidente. In più diun’occasione è stato incriminato per frode e omicidio. Suamoglie, anche lei medico, donna d’affari, politica e amicaintima del presidente, è portavoce del parlamento.) Inagosto, subito prima del debutto del nuovo presidente, ilministro dell’Informazione del PPP - anche lei esponentedell’elegante alta società di Karachi e giornalista, nonchéministro della Salute e consigliera del presidente - hadichiarato che il suo partito «non si lascerà andare allaviolenza». È significativo che abbia sentito il bisogno difare una dichiarazione del genere; fanno un po’ troppedichiarazioni, hanno pensato quelli di noi che hannomaggiormente sofferto a opera di questi demagoghi. Ma ècosì che funziona oggi il business della politica.

Come siamo arrivati a questo punto? Il viaggio cominciamolto tempo fa, prima dell’assassinio di mio padre.

Quattro anni fa ho cominciato a ricostruire la vita di miopadre. Ho aperto polverosi scatoloni pieni di ritagli di

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giornale, lettere, diari e documenti ufficiali conservati ecollezionati da vari membri della mia famiglia in più diquarant’anni. Ho ritrovato la sua vecchia cartella di scuola,conservata nella sua scatola originale, ho frugato nellamemoria alla ricerca di nomi di amici e compagni discuola, telefonando senza preavviso a persone il cui nomemi suonava familiare e scrivendo lunghe lettere a indirizziche speravo fossero ancora validi. Le ricerche sul passatodi mio padre mi hanno portato in giro per tutto il Pakistan,dalla nostra casa di Karachi alle vette della Provincia dellaFrontiera e alle ricche pianure del Punjab. Sono stata inEuropa e in America rincorrendo amori perduti e vecchieconoscenze, tutti connessi fra loro nella rete degli annigiovanili di mio padre. Ho realizzato interviste a voce, pere-mail, al telefono. Ho scannerizzato fotografie e le hoinviate tramite il computer, o anche per posta ogniqualvolta avevamo la sensazione che internet fosse unospazio troppo aperto in cui scambiarsi informazioni suargomenti delicati. Ho parlato non solo con parenti e amicid’infanzia che ricordavano i ragazzi Bhutto nei loro anni piùteneri e meno complicati, persone oggi disperse neiquattro continenti, ma anche con poliziotti, membri delgabinetto di mio nonno Zulfikar Ali Bhutto, fondatori eattivisti del primo Partito del popolo, giudici, avvocati,esperti e docenti di storia dell’Asia meridionale. In molti mihanno chiesto di proteggere la loro identità: non è maifacile alzare la voce contro lo status quo, criticare ilretaggio che ci vuole servi di parlamentari e presidenti.Ciononostante, anche loro hanno accettato di parlare con

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me: ci siamo visti in luoghi pubblici affollati, per evitare chele nostre voci fossero captate dagli strumenti diregistrazione con cui si ruba e si conserva tutto ciò cheviene detto fra le pareti domestiche. Altre volte invece, seper qualcuno era troppo pericoloso farsi vedere con me,facevamo l’intervista in spazi chiusi e privati, senza blocnotes e senza penna, con la memoria come unica forma ditrascrizione, finché non ero di nuovo al sicuro a casa mia epotevo prendere carta e penna e registrare ciò che avevoappreso. Il 70 di Clifton Road, la nostra casa di famiglia, ègià di per sé un archivio. È il testamento vivente dei Bhutto.Ci sono ancora armadi pieni degli abiti e dei libri del miobisnonno, e ripiani con sopra le bottigliette dell’acqua dicolonia di mio nonno, la Shalimar, i suoi occhiali e i suoigemelli. Librerie si alzano fino al soffitto, cariche di albumdi stato ricoperti di velluto e di memorandum ufficiali digoverno in muffite cartelline di pelle verde con l’emblemadell’ufficio del primo ministro. Documenti, scritti a mano ocon la macchina per scrivere, che mi sono serviti aricostruire sia una linea politica sia una cronologiapersonale.

È stato difficile circondarmi delle vite e degli scandali deimorti, immergermi fra i loro effetti personali e parlare conloro attraverso interlocutori che funzionavano un po’ damedium. Ho faticato a immaginare in questo modopersone che avevo conosciuto e amato come esseri umaniindipendenti dalle mie reminiscenze. A volte questo lavoroda detective è stato doloroso e sconvolgente. Per me si ètrattato di una ricerca scomoda ma necessaria. Una volta

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Milan Kundera ha detto che la lotta dei popoli contro ilpotere è la lotta della memoria contro la dimenticanza;questo è il mio viaggio nei ricordi.

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CAPITOLO 119 settembre 1996. Erano quasi le tre del mattino e noi

eravamo seduti nel salotto del piano terra, una stanzaarredata nel tipico stile art déco astratto del resto dellacasa, chiusa, senza finestre, con le pareti ricoperte divellutino color porpora e decorate da quadri pachistanimoderni. Eravamo appena stati a una cena all’Hotel Avari.Papà aveva compiuto gli anni la sera prima, e alcuni amicici avevano invitato per un festeggiamento posticipato. Neaveva quarantadue.

L’Avari è uno dei più grandi alberghi di Karachi, fondatodal patriarca di un’antica famiglia parsi, Dinshaw Avari,che poi, com’è costume in Pakistan, l’ha passato a suofiglio Byram. È un edificio piuttosto semplice, con l’esternodipinto di bianco e azzurro, non troppo vistoso,diversamente dai tanti alberghi delle grandi cateneinternazionali che lo circondano. Quando ancora igrattacieli non monopolizzavano l’immaginazione degliarchitetti urbani, l’Avari era pubblicizzato come l’edificio piùalto del paese. Oggi sono le banche a competere fra lorosu chi abbia più piani, e a lottare per elevarsi sempre di piùsottraendosi allo smog e alla miseria della città. Alla metàdegli anni Novanta, poi, l’Hotel Avari era noto anche perospitare l’unico ristorante giapponese di Karachi, ilFujiyama. Dove avevamo cenato quella sera.

Quel venerdì sera papà indossava un abito blue marine,uno dei pochi che gli andassero ancora bene. Come suo

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padre, mio nonno Zulfikar Ali, anche lui era un vero dandyquanto all’abbigliamento e alla cura della persona. Avevaun portamento elegante, era alto quasi un metro e novanta,con i capelli sale e pepe e un bel paio di baffiaccuratamente pareggiati. Ma negli ultimi due anni, neimesi frenetici e nervosi che avevano segnato il nostroritorno in Pakistan e l’inizio della sua nuova vita pubblica,era ingrassato; spesso lo prendevamo in giro per questo.Lui non se la prendeva, e mentre mio fratello Zulfi e io glidavamo delle pacche sulla pancia ripeteva che presto sisarebbe messo a dieta.

Quella sera papà aveva firmato l’album degli ospitidell’Hotel Avari. Il personale gliel’aveva porto con ampigesti fioriti, aprendolo, ironia della sorte, alla stessa paginain cui il generale Zia ul Haq vi aveva vergato un espansivomessaggio. In assoluto la pagina peggiore che potesserooffrirgli, dato che proprio il generale Zia aveva guidato ilcolpo di stato militare contro il governo presieduto da miononno. Due anni più tardi, dopo averlo fatto arrestare etorturare, Zia l’aveva fatto condannare a morte egiustiziare. Per impiccagione, dicono, ma la mia famiglianon vide mai il corpo. L’esercito l’ha fatto seppellire dinascosto, senza avvisare nessuno, prima ancora direndere pubblica la notizia della sua morte. Papà avevafissato la grafia del generale. Poi aveva letto con calma isuoi pensieri sulla magnifica cucina del Fujiyama e infine siera voltato dalla mia parte e mi aveva fatto una boccaccia,tirando fuori la lingua e aggrottando comicamente lesopracciglia: uno dei pochi momenti leggeri di quella cena.

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Infine aveva voltato un certo numero di pagine e avevacominciato a scrivere.

Per tutta la cena era stato stranamente silenzioso.Sedeva tranquillo proprio davanti a me, con i gomiti sultavolo e il mento appoggiato al ponte formato dalle ditaintrecciate. Mi innervosiva vederlo tanto mogio, luisolitamente così animato e chiassoso.

Due giorni prima era tornato a Karachi dopo un viaggioa Peshawar, e l’avevo visto molto calmo e riposato. Eraarrivato tardi, e stava cenando e raccontando a mamma ea me del suo viaggio quando, poco dopo la mezzanotte, iltelefono interno collocato in salotto si era messo asquillare. Poteva essere solo qualcuno dalla cucina odall’ufficio del 71 di Clifton Road: tutti gli altri, a quell’ora,stavano dormendo. Ma la cucina era vicinissima e Asghar,il nostro domestico, se aveva bisogno di dirci qualcosapoteva raggiungerci in un attimo. Quindi doveva trattarsidell’ufficio. Papà aveva sollevato il ricevitore al primosquillo. «Gi?» aveva chiesto: Sì? Poi aveva ascoltato insilenzio per qualche minuto. «Gari tayar karo, jaldi», avevadetto: Prepara la macchina, subito. Il suo stato d’animosereno e rilassato era sparito. Aveva posato il ricevitore, siera alzato ed era andato verso la porta della camera daletto sua e di mamma. «Cos’è successo?» gli avevochiesto. «Hanno preso Ali Sonara», aveva risposto.«Hanno fatto irruzione a casa sua e l’hanno portato via.»«E tu dove vai?» gli avevo chiesto lentamente, mentre lemani di mamma, morbide, accorrevano a sorreggermi laschiena per ricordarmi che lei era lì, che tutto sarebbe

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andato bene. «Lo troverò», aveva detto papà, ed erauscito.

Ali Sonara era originario di Lyari, uno dei quartieri piùdensamente popolati, più politicamente radicali e piùpoveri di Karachi. Veniva da una famiglia di KatchiMemon, una piccola comunità sunnita con profonde radicinelle regioni del Ran of Kutch e del deserto del Sind. Eragià un fedele sostenitore della famiglia Bhutto ai tempidella scuola, e nel 1977, quando Zulfikar Ali Bhutto erastato deposto e arrestato dal generale Zia, aveva lasciatogli studi per diventare uno degli attivisti più noti di Lyari.

Era entrato nel Save Bhutto Committee della suacomunità, opponendosi instancabilmente all’abrogazionedella costituzione del 1973 da parte del generale Zia. Nel1979, quando la giunta aveva fatto mettere a morte ZulfikarAli Bhutto, si era iscritto al Movimento per la restaurazionedella democrazia (MRD), lavorando per i dieci anniseguenti gomito a gomito con mia zia Benazir Bhutto.Diventato membro dell’MRD di Karachi, si era dedicato atempo pieno a distribuire volantini contro la legge marziale,a proclamare che l’esecuzione di Bhutto era stata illegale ea organizzare riunioni clandestine di sensibilizzazione,proteste e manifestazioni.

Nel 1984, nei giorni più caldi della repressione deldittatore Zia, una bomba esplose in un popolarissimobazar del centro di Karachi, il Bori Bazaar, che prendenome dalla setta religiosa dei musulmani bohri, cheindossano tipiche palandrane lunghe e bluse con cappuccisimili a hijab. L’esplosione fece moltissimi feriti fra le

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simili a hijab. L’esplosione fece moltissimi feriti fra ledonne e i bambini che erano al bazar per acquistaretessuti, perline e oggetti per la casa. Non appena lo seppe,Ali Sonara accorse sul posto: la sua casa si trova pocolontano, sempre nel quartiere di Lyari.

Era sicuro che quel massacro fosse opera dei militari,ma se gli attivisti di Bhutto avessero osato protestarel’intero quartiere sarebbe stato perquisito e in moltisarebbero finiti in prigione, o peggio ancora in uno stadioper essere pubblicamente frustrati. Ogni forma diresistenza veniva punita severamente dal generale Zia, eSonara, che era già stato più volte in prigione per il suoruolo di leader nella comunità sindhi, sapeva bene che piùduramente si lottava, più crudelmente si veniva puniti.

Arrivato al Bori Bazaar, Sonara cominciò a correreavanti e indietro dalle ambulanze aiutando a mettere i feritisulle barelle. Coordinò le donazioni di sangue e cercò dicalmare come meglio poteva le famiglie dei morti e deiferiti, finché il primo ministro di Zia, Ghous Ali Shah, nonarrivò sul posto circondato dalle telecamere persovrintendere al disastro.

Ali Shah dichiarò che l’esplosione era opera di attivistinemici delle forze armate, terroristi li chiamavano allora, eche presto lo stato avrebbe scovato quei trafficanti diterrore per punirli senza pietà. Non appena lo vide, Sonaracorse verso Ali Shah e gli diede un pugno in piena faccia.Era l’atto disperato di un uomo disperato. Subito il primoministro lo fece arrestare con l’accusa di essere ilresponsabile dell’attentato.

Più tardi però fu rilasciato senza alcuna accusa.

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Nel maggio del 1986, quando Benazir tornò a Karachidal suo autoimposto esilio a Londra, fu Sonara, insieme adaltri leader dell’opposizione, primo fra tutti Ali Hingoro, aorganizzare la sua accoglienza nella capitale. In quelmomento i sostenitori del generale Zia nel Sind, il MuhajirQuami Movement (MQM), si erano installati a Karachi perrappresentare un’alternativa al Partito del Popolo, cheaveva la sua base di potere proprio in quella provincia.L’MQM era stato creato per rappresentare un’alternativa e,se questo piano fosse fallito, più semplicemente perterrorizzare la gente fino a costringerla a cambiare partito.Lyari era stato uno dei primi quartieri attaccati dall’MQM, ein quel momento era piuttosto pericoloso farsi vedere ingiro con i colori del PPP; ma Sonara decise di correre ilrischio e, in onore di Benazir, organizzò una jalsa, unraduno di popolo, al Kakri Ground, un gigantesco stadiosituato proprio nel quartiere. Durante il comizio Benazirringraziò lui e tutti gli altri, e lo fece avanzare dal punto incui si trovava, dietro di lei, a coprirle le spalle. «Yeh merabhai hai», questo è mio fratello, disse.

Benazir, nuova alla politica di partito e tutta intenta acostruirsi una carriera che l’avrebbe portata alle vette delpotere, arrivò a dipendere completamente da lui. Sonaraera un naujawan, un leader della gioventù, le organizzavaassemblee pubbliche ai quattro angoli della città eviaggiava con lei come membro della sua squadra disicurezza quando visitava le città del Sind. In quantomembro del comitato di Karachi era un elemento chiave

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della politica di base del Partito del popolo, la spinadorsale delle forze che avrebbero portato Benazir allavittoria elettorale.

Ben presto però Sonara cadde in disgrazia. La sualealtà nei confronti di Murtaza, mio padre, nonché fratellominore in esilio di Benazir, si rivelò difficile da digerire perquest’ultima. Nel 1988, quando Benazir scelse i membridel suo primo gabinetto, regalando ministeri agli uominiportati nel partito dal suo nuovo marito, Asif Zardari,l’amore di Sonara per il parlar chiaro era ormai diventatoun inconveniente. Durante una riunione di partito al 71 diClifton Road, le divergenze fra Sonara e Benazir arrivaronoal punto di non ritorno. Lui stava avanzando delle obiezionicontro i palesi favoritismi che piovevano su rappresentantidel mondo degli affari e dei proprietari terrieri quandoBenazir, famosa per la sua scarsa tolleranza del dissensoe delle critiche, sbottò: «Siediti, Ali! Cerca di comportarticome si deve. Sono io la presidente di questo partito, nonhai alcun alcun diritto di esprimerti in questo modo davantia me». «Mohtarma », cominciò Sonara, rivolgendosi a leicon il titolo che lei stessa pretendeva, «invece ne ho pienodiritto. Sono un attivista del partito, ed è mio dovere parlaredelle ingiustizie che vedo.»

Nel 1990, dopo la caduta del governo di Benazir, Sonaraentrò in clandestinità. Ormai si era fatto troppi nemici,uomini potenti che avevano finito col buttarlo fuori da unpartito che aveva contribuito a costruire perché fosse unbaluardo contro la dittatura militare. Ne riemerse nel 1993,quando furono convocate le elezioni nazionali. E quando

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mio padre firmò i documenti per la propria candidatura,Sonara si unì alla sua campagna. Era ciò che Benaziraveva temuto.

Quella sera Ali Sonara era andato a trovare Seema eInayat Hussain, due vecchie glorie del PPP. SeemaHussain è una ex leader sindacale entrata nel partitoquando c’era Zulfikar Ali Bhutto; anche lei, per un certotempo, ha lavorato con Benazir, per poi cadere in disgraziaquando il partito ha cominciato a inseguire ciecamentesoldi e potere. È sempre stata una sostenitrice di miopadre, nonché dirigente della Commissione femminile delPPP (SB), Partito del popolo del Pakistan (shahid Bhutto,ossia «Bhutto martire»: è il partito fondato da mio padrenel 1995 come movimento di riforma).

A Lyari la situazione si era fatta tesa, soprattutto per chiosava criticare apertamente il governo. Preoccupato che lapolizia potesse andare a cercarlo a casa sua, Sonara eraandato dagli Hussain portando con sé la moglie Sakina e idue bambini. La polizia però l’aveva rintracciato lo stesso,e poco dopo la mezzanotte aveva fatto irruzione dagliHussain. Gli agenti non avevano esibito alcun mandatod’arresto: erano entrati, avevano preso il loro obiettivo e sen’erano andati. Qualche minuto dopo Sakina avevachiamato il nostro ufficio, al 71 di Clifton Road. Mentre eradagli Hussain, Sonara aveva fatto qualche telefonata e aquanto pare la polizia, che non aspettava altro, avevarintracciato le chiamate e l’aveva beccato. «E adesso dove

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lo porteranno?» singhiozzava Sakina al telefono. «Cosa hafatto di male?»

Ricordo che mamma era molto calma, quella notte,mentre papà si precipitava fuori. Era quasi l’una, e io eroterrorizzata. Cercai di fermarlo. Lo seguii fuori dal salotto efino alla porta di casa, supplicandolo di non uscire. Eracosì tardi, non poteva aspettare il mattino dopo?, cercavodi argomentare, tirandolo per il braccio e cercando difermarlo. Perché precipitarsi fuori a quel modo? Quandogli afferrai nuovamente il braccio, papà si liberò della miamano. «Fati», mi disse, «adesso basta, io devo andare,devo stare con la mia gente.» Mi bruciavano gli occhi.«Adesso lasciami andare», disse ancora, con voce piùdolce, «ti prego.» Feci un passo indietro e corsi arifugiarmi tra le braccia di mamma. Restammo così, insilenzio, mentre papà saliva in macchina e si allontanavanella notte di Karachi.

Karachi è spesso descritta come una delle città piùpericolose al mondo. Con i suoi 16-18 milioni di persone, èuna capitale sovrappopolata, sottosviluppata e povera. Lesue forze di polizia, eternamente violente e corrotte,adottano di frequente comportamenti criminali e godono diuna sinistra reputazione fra cittadini che, peraltro, non sicurano certo dei rapporti di buon vicinato. Negli anniNovanta, sotto il secondo governo di Benazir, le uccisioniextragiudiziali erano la norma. Squadroni della morteinterni alla polizia erano conosciuti con nomignoli coniati

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secondo codici particolarmente istrionici, e i cosiddetti«scontri a fuoco», o assassinii mirati camuffati da scontri afuoco, avvenivano ogni giorno. È in questa città che miopadre stava per tuffarsi, quella notte, per ritrovare il suoamico Sonara.

Il primo posto in cui papà si recò fu l’Agenziainvestigativa centrale,1 nella zona Garden di Karachi,vicino all’affollato Lee Market, sul confine fra Lyari e ilvecchio snodo commerciale di Saddar, risalente all’epocacoloniale. Entrò nella thana, la stazione di polizia, e sirivolse al poliziotto di guardia.

Dalle informazioni che riuscì a ottenere sembrava che lacattura di Sonara fosse stata ordinata proprio dalla CIA diGarden. Ma se l’arresto era legale dovevano esserci dellecarte attestanti l’ora, il luogo e le accuse sollevate contro dilui, mentre, nonostante la richiesta ufficiale di mio padre,quella notte nessuno produsse i documenti relativiall’imprigionamento di Sonara. Papà e le sue guardie delcorpo, senza le quali a Karachi non faceva un passo,lasciarono allora la CIA di Garden e andarono alla SSPSud, un’altra stazione di polizia, ubicata a pochi passi dallaresidenza del governatore del Sind - piuttosto lontana daLee Market, e un gradino o due più in su nella scalagerarchica delle potenti thana di polizia. La SSP Sud eracomandata da un famigerato sovrintendente anziano dinome Wajid Durrani.

Man mano che i minuti passavano e l’orologio si avviavaa segnare le due del mattino, le possibilità di avere

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informazioni sull’arresto di Ali Sonara e sul luogo della suadetenzione diminuivano. I poliziotti di Karachi sononotoriamente mercenari, e famosi per non giocare maisecondo le regole. Niente mandato d’arresto significa chequando un cadavere viene ritrovato lungo l’autostrada odentro un sacco di juta gettato in una delle molte discarichecittadine, la polizia se ne lava le mani. Mio padre entrònella stazione della SSP Sud e, come già la CIA diGarden, la trovò assolutamente deserta, presidiata solo dalvice sovrintendente Pathan, seduto dietro una grandescrivania di legno. Papà gli si avvicinò. In quanto membrodel parlamento aveva il diritto di entrare in qualsiasi ufficiogovernativo, fosse esso un ospedale, una scuola o unministero. «Dove sono i documenti relativi all’arresto di AliSonara?» domandò per l’ennesima volta. Il vicesovrintendente si strinse nelle spalle: «Non lo so». Miopadre ripeté la domanda.

A questo punto, come mi raccontò più tardi, il vicesovrintendente posò lentamente la mano sul pomello di uncassetto della scrivania e si irrigidì, allungando il braccio etirando il cassetto verso di sé. Mentre lo apriva, poco apoco, non si udì né un fruscio di carte né un tintinnio dipenne rotolanti l’una contro l’altra. Il cassetto contenevasoltanto una pistola. Papà reagì esattamente come le sueguardie del corpo temevano. «Utt Jaho!» gridò. In piedi;tirando verso di sé il poliziotto per la collottola. «Dillo purea tutti - al vice ispettore generale, all’ispettore generale,alle SSP - a tutti: se tirate fuori i documenti relativiall’arresto di Sonara, io me ne torno a casa. Ma se non lo

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fate, se Sonara è in pericolo, nessuno di voi potràconsiderarsi al sicuro!» Mio padre e i suoi uominivisitarono ancora un’altra stazione di polizia, la CIA diNapier Road, dopo di che tornarono a casa senza ulterioriincidenti. Erano passate due ore.

La trappola era scattata. Mio padre, impetuoso e fiero,aveva reagito esattamente come tutti si aspettavano da lui.Il pomeriggio seguente notammo il primo carro armatofermo davanti a casa nostra.

Il 18 settembre, giovedì, papà compiva dunquequarantadue anni. Quel mattino, quando mi alzai, corsisubito giù a cercarlo. Non avevo quasi dormito, tormentatacom’ero dalla preoccupazione per l’arresto di Sonara e perciò che le ricerche notturne di papà potevano comportare.Com’era prevedibile, le prime pagine di tutti i giornalistrombazzavano la notizia che mio padre aveva fatto ildiavolo a quattro in tutta una serie di stazioni di polizia.Sull’arresto illegale di Sonara o sulla complicità delle forzedi polizia nel suo rapimento, nemmeno una parola.

Passammo l’intera giornata in attesa: papà di notizie suldestino di Ali Sonara, noi dei festeggiamenti con cui sisarebbe concluso il suo quarantaduesimo anno di vita.Verso sera, mentre papà, in camera sua, si preparava peruscire, andai a parlargli. Si stava lucidando le scarpe - erameticolosissimo in molte cose apparentemente irrilevanti,ma che per lui dovevano essere fatte in un certo modospecifico: l’ordine dei libri sullo scaffale, quello delle penne

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sul tavolo, la disposizione esatta delle tazze nella credenza,la lucidatura serale delle scarpe. «Papà, posso farti unadomanda?» dissi, appoggiandomi alla porta della suacamera da letto. Lui alzò gli occhi e mi sorrise. «Tuttoquello che vuoi, Fatushki», disse, usando il mio nomignolorusso.

«È mamma la mia tutrice legale?» domandai, nervosa.Papà mi sorrise ancora, andando avanti e indietro fra illetto e lo sgabello per lucidare le scarpe, vicino all’armadio.«Ma certo. Perché me lo domandi?» Non lo sapevonemmeno io: non mi era mai venuto in mente di controllarechi fosse il mio tutore legale prima di allora. Sapevo soloche se a mio padre fosse successo qualcosa volevoessere al sicuro. «Ne sei proprio certo, papà? Sicuro alcento per cento che mamma, dopo di te, sia la mia tutricelegale?» insistetti. Papà posò gli oggetti che stava usandoe mi si avvicinò. Mi prese il mento con due dita per farmialzare gli occhi. «Certo che sono sicuro, non devipreoccuparti», disse, e mi diede un bacio in fronte.

Lo sapevamo entrambi, il perché di quella domanda. Daqualche parte in America io avevo una madre biologica,che aveva divorziato da mio padre quando avevo tre anni.Fowzia. Non la vedevo da anni. Fin da piccola era statomio padre a occuparsi di me, a cucinare i miei pasti, atagliarmi i capelli e a portarmi a scuola. Non avevo maiavuto la sensazione di avere una madre finché, poco dopoil mio quarto compleanno, lui non aveva incontrato Ghinwa.

«Papà, sei proprio sicuro di avere ragione?» domandaiancora. Lui annuì: «Sì». «Bene. Allora posso avere i

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documenti che lo provano?» Papà mi lasciò andare latesta e scoppiò a ridere forte. Dove diavolo avevoimparato a essere tanto paranoica?, mi domandò. Sì, sì,c’erano i documenti - li volevo proprio subito? «No», dissiio, «volevo solo essere sicura che tu li avessi.»

La sera della festa arrivò e se ne andò. Gli amici ciraggiunsero portando dolci e mazzi di fiori e bigliettinidivertenti, e per tutta la sera io sedetti accanto a papà nelnostro salotto foderato di velluto. Cenammo in sala dapranzo: mamma aveva apparecchiato con l’argenteria delmio bisnonno, sir Shahnawaz. Mangiammo pietanzemediorientali, mezze e taboule e carni alla griglia.Sembrava di essere ancora a Damasco, lontani daipericoli e dalla violenza di Karachi. Ma non era così.Eravamo proprio al centro del pericolo, anche se in quelmomento ancora non ce ne rendevamo conto. Ogni tantopapà si allontanava per fare una telefonata e controllare seAli Sonara era stato ritrovato, ma con grande discrezione,per non spaventarci né turbarci. Non avevamo avuto suenotizie per tutto il giorno. Ma la cosa più grave era chesembrava proprio che lo stato stesse montando unprocesso contro papà. C’erano state varie piccoleesplosioni in giro per la città, pathakas o petardi lasciatinei cestini delle cartacce davanti ai centri commerciali eagli uffici governativi di Saddar. Nessuno si era fatto male,ma la tensione era palpabile. Secondo i giornali della sera,le autorità ne davano la colpa agli attivisti del PPP (SB) e amio padre.

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Verso sera vedemmo un altro carro armato,parcheggiato dietro il primo. Il mattino dopo ce n’era unterzo, a destra della casa, sull’angolo del nostro ufficio al71 di Clifton Road. Il 20 settembre, due giorni dopo, i carriarmati erano quattro, tutt’attorno al 70 di Clifton Road.Eravamo circondati.

«Ti sei mai pentito della tua vita?» domandai a papà unavolta tornati a casa dopo la triste cena di compleannoall’Avari Hotel. Lui era sprofondato nella sua poltronaverde, con le gambe accavallate e i gomiti appoggiati aibraccioli. Lasciò passare un momento, massaggiandosi ilcocuzzolo della testa come faceva sempre quandopensava. «No», rispose poi chinandosi verso di me. «Holottato contro il governo che ha fatto uccidere mio padre emio fratello, e ne sono orgoglioso. Laddove abbiamofallito, abbiamo fallito, ma nessuno di noi ha accettatosupinamente il colpo di stato. Abbiamo resistito. Rifareitutto daccapo», disse, appoggiandosi più comodamenteallo schienale della poltrona. Fino a quel momento i mieigenitori e io avevamo avuto una conversazione leggera espensierata - per un po’ eravamo riusciti a sfuggire allafollia di quella giornata per rifugiarci in un mondo tuttonostro, fatto di giochi e di ricordi. Papà aveva preso in giromamma, e lei aveva riso dei suoi scherzi; loro due avevanoflirtato spensieratamente, finché la mia domanda non ciaveva riportati al nostro pericoloso presente.

«Dovresti scrivere un libro», dissi. Papà scoppiò a

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ridere, gettando le braccia in alto: «Non posso scrivere unlibro finché vivo. Non mi permetterebbero mai di direapertamente tutto quello che so». «Cosa intendi dire?Invece devi proprio farlo - scrivere un libro sulla tua vita,sarebbe così interessante.» Ma lui si limitò a ridereancora, stavolta più piano. «No, non posso. Lo farai tu perme. Tu sì che potrai scrivere un libro sulla mia vita.»

E mi sorrise. Papà aveva più senso dell’umorismo diqualsiasi adulto io abbia mai incontrato. Anche se la suavita era spesso gravida di incertezze e di pericoli, nonpermetteva mai a nulla di rannuvolare il suo sorriso. Subitoafferrai carta e penna e mi accinsi a prendere appunti.«No, non ora», disse papà. «Lo scriverai quando saròmorto.» «Perché?» Il mio stato d’animo precipitò, tuttal’ansia degli ultimi giorni tornò a stringermi la bocca dellostomaco. «Perché prima è troppo pericoloso», risposeguardandomi fisso. I suoi occhi erano tristi. Non so seanche lui avvertisse l’incertezza dei giorni a venire; sesentisse lo stesso, crescente nervosismo che da giornirumoreggiava dentro di me. Ma credo di sì.

Il 20 settembre era un sabato.E prima di sera mio padre sarebbe morto.Quella mattina, la casa era tutta in fermento - domestici

che correvano qua e là per preparare il pranzo, e mammache organizzava per il giorno dopo una festa per miofratello Zulfikar, che compiva sei anni. Pensavamo di farlain una struttura per bambini, il Sinbad, a meno di dieci

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minuti da casa nostra, costruita negli anni Settanta comecasinò e poi trasformata in un più islamicamenteaccettabile parco giochi. Con la sua architettura kitsch epriva di finestre, il Sinbad troneggiava sul Sea View e sullegrigie sabbie di Clifton Beach, con l’oceano Indiano sullosfondo.

In camera mia c’erano gli operai che la stavanoristrutturando: finalmente sarebbe stata proprio mia, dopoche per due anni me l’ero tenuta esattamente com’eraquando le mie zie, due adolescenti angosciate e ribelli,l’avevano condivisa negli anni Settanta. Così, persvegliarmi, papà dovette salire nella stanza dellatelevisione, già usata come rifugio antiproiettile durante laguerra del 1965 e in quel momento mia temporaneacamera da letto. Mi vestii e tutti insieme andammo nellamia nuova camera per guardare come stava venendo. Imiei genitori avevano combattuto una specie di guerra perquella risistemazione. Il problema era che papà non avevail benché minimo gusto per tutto ciò che riguardaval’arredamento. A un certo punto aveva cercato dicorrompermi con la promessa di sistemare al centro delsoffitto una palla tipo discoteca ricoperta di specchietti, edevo dire che avevo quasi ceduto. Ma il resto dei suoiprogetti era assolutamente imbarazzante. Mamma sapevache mi sarebbero piaciute delle pareti verde chiaro e unarredamento floreale, molto femminile; papà invece non neaveva la più pallida idea. Per lui ero ancora il maschiaccioche ero stata a otto anni. «Potremmo metterci un paio diporte basculanti da saloon, come quelle dei vecchi film

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western.» «No, papà, non credo proprio.» «Okay, allorache ne dici di farci delle finestre rotonde da sottomarino?»No. La palla ricoperta di specchietti era stata la sua ideamigliore.

Entrammo nella camera, appena ridipinta. Eracompletamente bianca - vi era stata applicata solo unamano di fondo - e vuota, tranne che per il letto di ferrobattuto spinto contro una delle pareti laterali e i duecomodini abbracciati in un angolo. Aveva un aspettofreddo ed essenziale, come una stanza d’ospedale.«Carina», sogghignò papà. «Sarai contenta di averseguito i consigli d’arredamento della mamma.» Scoppiòa ridere. Khe khe khe: sembrava uno scolaretto discoloquando rideva in quel modo, con gli occhi orlati da unventaglio di rughe e le guance che si allargavano a ognikhe. Qualche tempo prima, dalle regioni interne del Sindaveva portato dei pannelli di vetro piombato. Arancio,azzurri e verdi. Francamente orribili, ma mamma avevaposto il veto a che fossero collocati in qualsiasi altra stanzadella casa, così io mi ero schierata dalla parte di papàdicendo che io invece li trovavo stupendi. La miaricompensa erano state due tipiche finestre del Sind tutteper me. I vetri erano già stati installati, e con il sole che quelgiorno brillava intensamente e le pareti così bianche, icolori rimbalzavano per tutta la stanza. «Però le finestresono belle», mormorò papà mentre uscivamo e ciavviavamo giù per le scale.

Alle due del pomeriggio mio padre tenne una conferenzastampa. Giornalisti di vari quotidiani locali e troupe

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televisive affollavano la sala stampa del 71 di Clifton Road,una grande stanza con le finestre affacciate sul giardino.Papà entrò e prese posto al lungo tavolo di legno, davantiai giornalisti. Accanto a lui sedettero Ashiq Jatoi,presidente della sezione del Sind, e Malik Sarwar Bagh,l’anziano presidente della sezione di Karachi. Quel giornopapà indossava uno shalwar kameez blu notte, tanto scuroda sembrare quasi nero, e al collo portava la spada a duepunte di Hazrat Ali, il coraggioso discepolo del Profeta chefu il primo imam dell’islam sciita. Papà non era moltoreligioso, ma ammirava quel guerriero che aveva scelto dicombattere con i musulmani quando erano in minoranzanumerica e sempre minacciati. La spada, piccola e d’oro,aveva un’incisione lungo la lama ricurva: la illah ill allah,non c’è altro dio all’infuori di Allah, ed era appesa a uncordino nero. Lui non portava quasi mai gioielli, a partel’orologio che gli aveva regalato suo padre al polsosinistro.

Prima di entrare in sala per parlare con la stampa, papàaveva chiamato Yar Mohammad e Sajjad per un colloquioprivato. I due giovani erano le sue guardie del corpo; eranoanche attivisti politici, ma da quando mio padre era uscitodi prigione non si allontanavano mai dal suo fianco. Loproteggevano come se fosse stato il loro stesso padre,non lo lasciavano mai solo. Mio padre disse di averricevuto delle informazioni dalla polizia, e chiese ai due dilasciare Karachi. «Andate dove volete, non importa, ma voie le vostre famiglie non potete restare qui. Non sappiamo

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cosa ne sia stato di Sonara e voglio che vi mettiate in salvofintanto che è possibile.» Dopo la conferenza stampa,dunque, Yar Mohammad e Sajjad non lo avrebberoaccompagnato all’incontro pubblico in programma aSurjiani Town: papà disse chiaramente che non intendevamettere in pericolo la loro vita. I due protestarono, mainvano. La situazione era troppo pericolosa. I due nonchiesero da dove provenisse l’informazione relativa allaloro vita o che cosa significasse. Papà fu irremovibile.Dovevano allontanarsi da lui quel giorno stesso e lasciarela città. Fine della discussione.

Quando la conferenza stampa ebbe inizio, nella salaregnava un pesante silenzio. I giornali avevano pubblicatoun’infinità di storie, alcune falsamente solleticanti, altre piùesatte, sulla visita che papà aveva fatto due notti prima adalcune stazioni di polizia. E il 18 settembre il generaleNaserullah Babar, il potente ministro degli Interni diBenazir, quello che parlava orgogliosamente dei talebanidel vicino Afghanistan come dei «miei ragazzi», si erapresentato all’Assemblea nazionale di Islamabad perannunciare che, secondo fonti certe, a Karachi sarebberoesplose due bombe in segno di protesta contro l’arrestodel terrorista Ali Sonara. Il generale Babar aveva informatol’Assemblea e la stampa che i responsabili dell’attentatosarebbero stati membri del MQM o del partito dello shahidBhutto. Puntualmente si erano verificate delle «esplosioni»,e il governo aveva puntato il dito contro il partito di miopadre. Per questo il 20 settembre, alla conferenza stampa,i giornalisti erano ansiosi di ascoltare cosa avesse da dire

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Murtaza Bhutto. La chiaroveggenza del generale Babaraveva suscitato grande interesse.

Papà cominciò la sua dichiarazione. «È in atto uncomplotto contro di me, concepito dagli elementi piùcriminali delle forze di polizia come Wajid Durrani eShahbaig Suddle.» Costoro erano due ufficiali di poliziatristemente famosi per aver fatto carriera grazie alla lorostretta amicizia personale con il marito di Benazir, Zardari,e alla loro ben documentata propensione per la violenza.Suddle era ispettore generale presso il distretto di Karachi,e Wajid Durrani sovrintendente capo di una delle stazionidi polizia in cui mio padre aveva fatto irruzione la notte del17. Papà sbagliò a pronunciare uno dei nomi: non eraShahbaig Suddle, bensì Shoaib Suddle. Non l’avremmodimenticato una seconda volta.

«Questi due», proseguì mio padre, «istigati da AbdullahShah, primo ministro del Sind, vogliono uccidermi. La miavita oggi è in pericolo. Questa conferenza stampa è perdire al governo che ho già fatto la valigia. Procuratevi unmandato d’arresto per qualsiasi accusa abbiate formulatocontro di me e contro gli attivisti del mio partito e io verròcon voi, e siederò spontaneamente nella vostra auto.»Effettivamente, papà aveva una valigia pronta accanto alletto fin dalla notte del 17.

«Ora vorrei rispondere alle affermazioni del governosulla mia visita ad alcune stazioni di polizia. A questoriguardo vi ricordo che sono un funzionario eletto, unmembro del parlamento, e in quanto tale ho il diritto dientrare in tutti gli uffici pubblici.» A questo punto papà

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mostrò una fotografia di Ali Sonara. Era stata scattatadurante una jalsa di Benazir; lei era in piedi, con la testa ele spalle che spuntavano dal tettuccio apribile di un’auto, lemani levate a salutare la folla che le si accalcava attorno.Dietro c’erano alcuni uomini dallo sguardo fiero, pronti afarle da scudo in ogni direzione: i suoi guardaspalle. Uncerchietto indicava quale fosse Sonara. «Ecco l’uomo cheil governo ha fatto sparire», disse papà, indicandolo.«Naseerullah Babar, il ministro degli Interni, ha dettoall’Assemblea nazionale che in seguito al suo “arresto” cisarebbero state delle esplosioni, e che dietro questeesplosioni ci sarebbero stati l’MQM o il PPP (SB). Ma seaveva questa informazione, cosa ha fatto per scongiurare ilrischio delle bombe? Niente. Perché non c’era niente dafare. È solo un giro di vite contro il Partito del popolo delPakistan (shahid Bhutto). Il ministro degli Interni sapeva diqueste presunte bombe perché sarebbe stato proprio ilsuo ufficio a metterle. Ora voglio dire al governo che noisiamo un partito politico, e che resisteremo a questi arrestiillegali e senza mandato e a queste uccisioni extragiudizialicon le sole armi della politica… Non ci nasconderemo.Siamo pronti. Non è nel mio stile - in tempi difficili -nascondermi dietro i miei attivisti in cerca di protezione. Iosarò in prima fila, e loro dietro di me.»

Mentre papà teneva la conferenza stampa noipranzavamo, come sempre, al 70 di Clifton Road, e subitodopo uscivamo per andare al Sea View e continuare con ipreparativi per la festa di Zulfi. Tornando a casa, mamma eio incrociammo papà che attraversava l’atrio a grandi

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io incrociammo papà che attraversava l’atrio a grandipassi. Stava uscendo. La conferenza stampa era finita.Ashiq Jatoi lo aspettava in macchina nel vialetto di casa.Gli corsi incontro per parlargli, ma lui aveva fretta esembrava teso. «Sono in ritardo. Devo proprio andare»,disse accarezzandomi la schiena, e si avviò verso lapesante porta di legno. «Aspettami, papà», dissi io. «Micambio e vengo con te.» Avevo fatto solo un paio di scaliniverso la mia stanza-rifugio antiproiettile quando papà miprese delicatamente per il gomito, fermandomi a metà diun passo. «No, Fati, stavolta non puoi venire», disse. «Inquesto momento la situazione non è sicura. Resta qui,tornerò presto.» Rimasi ferma sulle scale e lo guardaiuscire tirandosi dietro la porta.

Mentre andava verso l’auto, papà vide Yar Mohammad eSajjad. Si avvicinò, palesemente arrabbiato. «Vi ho dettoche oggi non sareste venuti con noi.» Le minacce contro idue erano molto serie. Erano sempre vicinissimi a miopadre, che dipendeva da loro per la sua sicurezza. «Macome facciamo a lasciarla solo proprio adesso?» disseYar Mohammad. «Se la situazione è pericolosa comedice», proseguì Sajjad, «allora il nostro posto non è a casa,ma al suo fianco.» Era chiaro che non si sarebbero lasciatidissuadere. Papà disse alle altre guardie del corpo diavvicinarsi, quel giorno ce n’erano sette. «Se la poliziacercherà di arrestarci mentre andiamo alla jalsa,arrendetevi senza opporre resistenza. Non cercate diproteggermi, io starò bene. Aspetteremo di vedere imandati d’arresto, poi andremo con loro.» Gli uomini

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annuirono. Avevano capito.Quel venerdì furono quattro le auto che si allontanarono

dal 70 di Clifton Road. Papà occupava il sedile delpasseggero di una Land Cruiser blu di proprietà di AshiqJatoi, che era al volante. Yar Mohammad sedeva dietro dilui insieme ad Asif Jatoi, l’autista di famiglia di Ashiq, e adAsghar, un domestico di casa nostra che spessoaccompagnava papà nei suoi viaggi politici. Davanti a lorocorreva un pick-up a doppia cabina rosso con a bordo seiuomini: Mahmood, Qaisar, Sattar Rajpar e Rahim Brohi -tutti guardie del corpo di mio padre - più altri due. Unapiccola Alto bianca che sembrava una scatola difiammiferi, compatta, viaggiava accanto all’auto di papàcon tre persone a bordo: due uomini che volevanopartecipare alla jalsa insieme a lui e Sajjad. Era statoproprio quest’ultimo a suggerire che la Alto avanzasseaffiancata alla vettura di papà, in modo da potergli fare dascudo se qualcosa fosse andato storto. L’ultimaautomobile era un Pajero bianco appartenente a unsignore che aveva deciso di andare al raduno con gli altri:non tanto un attivista politico, quanto un simpatizzante.Wajahat Jokio, l’ultimo dei sette guardaspalle di miopadre, vi aveva preso posto insieme al proprietario e a unaltro passeggero.

Il viaggio per Surjani Town, un sobborgo alla periferia diKarachi, è piuttosto lungo, più di un’ora nel traffico dellacapitale. Ma è anche l’occasione per attraversare buonaparte della nostra febbrile città, cogliendola in unpomeriggio di fine settimana. La piccola carovana di papà

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avanzava verso Surjani Town sulla strada che porta a LasBela, nel Belucistan. Dopo aver lasciato Clifton Road leauto si diressero verso nord e oltrepassarono ilmonumento delle tre spade, Teen talwar, adorno del motto«Unità, Fede, Disciplina» su ciascuna delle lunghe,bianche lame di marmo puntate verso il cielo. Poiattraversarono Saddar con i suoi molti mercati - il mercatoZainab, con gli abiti da donna e i pagliaccetti da bambinoappesi alle corde davanti ai negozi, e poi le sartorie dauomo di Gentila, il mercato cooperativo, la posta centraledi Karachi e infine il mercato dell’elettronica, pieno ditelefonini ronzanti e gadget a metà prezzo. L’ultimo viaggiodi mio padre deve essere stato piuttosto bello. Le autopassarono accanto a Quaid-e-Azam, la tomba di Jinnah, edavanti ai giovani venditori ambulanti che ogni giornosvuotano le tasche di bambini e turisti con le loro gabbiecontenenti uccellini dal becco arancione. Più a nord ilconvoglio, ingrossatosi fino a contare trentacinque auto,oltrepassò Guru Mandar, una zona che prende nome da unvecchio tempio indù ma che ora è conosciuta soprattuttoper gli affollati terminal degli autobus che portano la gentedentro e fuori dalla città.

Dovevano essere circa le sei del pomeriggio quandol’auto di mio padre passò davanti alle sgargianti sale damatrimonio all’ingresso di Surjani Town, il cui confine èsegnato anche da un piccolo chowki, un chiosco dellapolizia in una rotonda polverosa. Svoltando verso l’internodel piccolo sobborgo ci si lascia alle spalle i grandicavalcavia e i massicci ponti di cemento della metropoli.

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cavalcavia e i massicci ponti di cemento della metropoli.Niente più fast food né grandi automobili parcheggiateaccanto a bancarelle di frutta e supermercati. No, non c’èniente del genere a Surjani Town.

La città è contraddistinta solo da sparuti arbusti cresciutiai margini della strada e decorati da festoni di sacchetti diplastica che restano infilzati sui loro rami mentresvolazzano qua e là. La meta di papà era Youseff Goth, unpiccolo katchi abadi, o slum, sorto entro i confini di SurjaniTown. Avrebbe parlato agli abitanti più poveri della zona.Molti attivisti del partito avevano cercato di dissuaderlodall’andare fin laggiù. «In agosto aveva tenuto un comizioaffollatissimo a Lyari»,2 ricorda Malik Sarwar Bagh, e nellasua voce c’è una rassegnazione tale da impedirgli quasi dipronunciare le parole. «Gliel’avevano detto tutti: Mir sahib,non la faccia, questa jalsa di Surjani Town - l’hanno accoltacosì bene, a Lyari! Proprio come suo padre! Perchéprendersi la briga di andare in un posto piccolo comeSurjani?» Lui però non aveva voluto saperne di annullare ilcomizio. Perché aveva dato la sua parola a MaqboolChanna, un appassionato attivista di Youseff Goth. BashirDaood, un altro attivista proveniente dalla limitrofa GoliMar, ricorda di avergli sentito dire e ripetere che il progettodi andare a Surjani Town e di aprirvi una sede del partitoper le minoranze religiose della comunità era inciso nellapietra. Lui non l’avrebbe annullato.

Una folla di circa duemila persone si era radunata su unavasta striscia di terreno delimitata su due lati da arbitrarietrincee scavate dall’uomo, piene di spazzatura e rigagnoli

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d’acqua sporca. Appena sceso dall’auto, papà vide subitoche anche la polizia era convenuta in massa: le sue autoscassate erano allineate ai margini del quartiere. Lapolizia, ricordano Qaisar e Mahmood, era lì con unatrentina di unità mobili e vari camion di quelli che di solitovenivano usati per portare via gli arrestati. In quella sera disettembre, a Surjani Town, c’era un migliaio di poliziotti,ben visibili dappertutto. Erano appostati soprattutto dietro ilrudimentale palco eretto per la jalsa, lungo il bordo dellafolla, con le braccia incrociate sul petto e i walkie-talkiecrepitanti di elettricità statica. Ma non fecero nulla. Tuttiquei poliziotti si limitarono a guardare, cercando diintimidire le migliaia di persone venute ad ascoltare miopadre.

Innanzi tutto papà, accompagnato da un attivistacristiano, Yousef Gill, si recò alla nuova sede del PPP (SB)per le minoranze religiose che Gill stesso aveva apertonello slum. Camminando, papà e Gill parlavano fitto fra loroseguiti dai sostenitori entusiasti che gridavano slogan:«Aiya, Aiya, Bhutto Aiya», Arrivato, è arrivato, Bhutto èarrivato; «Mazdoor ka leader, Murtaza! Il leader deilavoratori, Murtaza!»; e «Hari ka leader, Murtaza! Gharibka leader, Murtaza!», Il leader dei contadini, dei poveri,Murtaza!. Dopo aver inaugurato la sede tagliando un nastroe facendo brevemente il giro dell’unica stanza, papà issò labandiera del partito su un palo di metallo grigio collocatosul davanti dell’edificio e se ne andò. Mentre tornava versoil palco di legno e rivolto verso est, a un tratto si fermò.

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Nell’aria risuonava l’azan, la preghiera della sera, e il solestava per tramontare. Ciononostante non era stato ilrichiamo del muezzin a bloccarlo, bensì la luce delcrepuscolo. Papà chiamò Siddiqe, un tipo allegro con ilruolo di fotografo ufficiale del partito, e gli chiese discattare una foto dell’orizzonte. Era bello e voleva poterloricordare, disse, e riprese a camminare verso la folla chelo aspettava.

Si arrampicò lentamente sul palco, salutando con lamano la gente accalcata là davanti. Mentre si avvicinava alsofà collocato al centro del palco, un gruppo di donne loraggiunse con ghirlande di rose e gelsomini. Papà chinò latesta e le salutò, a due a due, lasciandosi mettere leghirlande al collo. Dietro di lui Ashiq Jatoi, che qualchetempo prima era stato eletto presidente del partito per ilSind, stringeva la mano ad alcuni attivisti venuti a fargli lecongratulazioni.

Per un po’ papà rimase in piedi per accogliere un nuovogruppo di donne che volevano presentargli i figli. Unaaveva con sé una bambina con uno scintillante abitino distoffa azzurra e argentata e due treccine fissatestrettamente in cima alla testa; la bimba fu sollevata daterra per mettere una ghirlanda di fiori al collo di papà,quindi gli offrì un mazzo di rose avvolto in un foglio dicellophane sagomato a forma di diamante, rifinito connastrini rossi e tenuto insieme con delle graffette. Quandomio padre e Ashiq Jatoi sedettero all’ombra protettrice diYar Mohammad che, tutto vestito di nero, stava in piedidietro il sofà, il mazzo di rose fu posato fra loro.

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Per primo prese la parola Malik Sarwar Bagh,presidente della sezione di Karachi, il quale invitò la gentea una dimostrazione di protesta che si sarebbe tenuta ilgiorno dopo, sabato 21 settembre, davanti al Circolo dellastampa di Karachi. Dopo di lui si alzò Ashiq Jatoi che,come mio padre, indossava un shalwar kameez scuro eaveva delle ghirlande di fiori attorno al collo e alle spalle. Sipresentò e recitò una breve preghiera di ringraziamento:«Bismillah arahman uraheem», ringraziamo Dio, buono emisericordioso. Era la terza volta che andava a YouseffGoth per parlare con la sua gente, e ringraziò tutti per lacalorosa accoglienza. Anche lui parlò dell’arresto illegale diAli Sonara: «L’hanno portato via, e ancora non sappiamonelle mani di chi sia la sua vita», disse, parlando conenergia. E continuò, con voce forte e ferma: «Né Nawaz néBenazir potranno mai domare il popolo pakistano»,indicando la folla sotto il palco. Anche Ashiq aveva lavoratocon Benazir negli anni Ottanta, nella fase dell’MRD, ed erafinito in carcere sotto il generale Zia ul Haq. All’epoca delsuo primo governo, Ashiq non credeva ormai più nellapromessa di Benazir che il potere sarebbe stato davveronelle mani del popolo e aveva lasciato il partito. «Sarà ilpopolo a governare, il popolo governerà sé stesso ora eper sempre!» Era un uomo gentile. Il suo nome, Ashiq,significa colui che ama, l’amante. Di solito si comportavacon moderazione e dolcezza. Il suo eloquio era chiaro epotente, e non aveva bisogno di ricorrere al volume e allateatralità. Ma quando parlava in pubblico, Ashiq si

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trasformava in qualcosa di più grande. Stringeva la mano apugno e la levava alta sopra la testa: «Il nostro simbolo è ilmokka, il pugno, e sapremo mostrare a quei due che laforza di questo mokka viene dal popolo - dal Belucistan,dal Punjab, dalla Provincia della Frontiera e dal Sind. Voisiete la nostra forza, e insieme restituiremo il Pakistan aisuoi leader di diritto, al popolo!»

L’ultimo oratore della serata doveva essere mio padre.Mentre percorreva la breve distanza tra il sofà e il podio, lafolla sembrò gonfiarsi e ricominciò a urlare i suoi nara , glislogan. «Zinha hai Bhutto!» gridavano: Bhutto vive!, e«Jab tak suraj chand rahaiga, Bhutto tera waris rahaiga»,il più poetico di tutti: Fintanto che esisterà l’ombra dellaluna, Bhutto, il tuo erede resisterà! Tutti gettavano sul palcopetali di rosa e battevano forte le mani in segno dibenvenuto. Papà avanzò verso il podio, che eradrappeggiato in un tradizionale ajrak sindhi stampato acolori naturali, rosso scuro, bianco e nero. E mentrecamminava si passò le dita fra i capelli, liberando i petali dirosa che vi erano rimasti impigliati. Poi si tolse dal collo laghirlanda di fiori e l’appese a un lato del podio, ma soloper ritrovarsi immediatamente inghirlandato da quattronuove collane di gelsomino. Cercò di adattare i due vecchimicrofoni di metallo alla sua altezza, ma non era possibile.Così dovette parlare per tutto il tempo stando un po’ chino.

Cominciò con un ringraziamento: «A dispetto dellepressioni esercitate dal governo, la vostra presenza,stasera, qui a Youseff Goth è un referendum sul nostro

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dissenso. Un referendum a sostegno di Ali Sonara e deglialtri militanti arrestati, e contro la violenza del regime. Lagente di Youseff Goth non si lascia spaventare. Oggi voisiete qui con noi, e nemmeno noi abbiamo paura,nonostante i crimini del governo». A queste parole la follaruggì, soffocando per un minuto la voce di mio padre. Chelevò entrambe le mani: «Baat sonao», ascoltate.

«Nella storia, chiunque si sia battuto contro la corruzionedello stato, chiunque abbia levato la voce contro ladisoccupazione forzata e gli abusi di potere, chiunqueabbia combattuto awam ki huqooq ki jang, in difesa deidiritti del popolo, è stato chiamato terrorista. Oggi inPakistan è lo stato a bere il sangue dei cittadini. Il Partitodel popolo che sta al governo non è il vostro partito. Èkamzor , debole, begharat, senza decenza o dignità.Questo è il vostro partito: noi siamo il partito del quaid-e-awam, del leader del popolo, il partito dello shahid ZulfikarAli Bhutto; per questo non devono nemmeno provarci, ametterci paura!» E agitò con forza la mano.

Poi, con voce più roca, si rivolse direttamente a WajidDurrani e a Shoaib Suddle. «Noi non abbiamo paura dellavostra CIA, non abbiamo paura della vostra polizia. E nonabbiamo paura del vostro primo ministro, Abdullah Shah.»Qui papà si lasciò un po’ prendere dalla collera. «AbdullahShah, sonao, ascoltami. I cani non possono battersi controi leoni. La settimana scorsa la tua polizia corrotta ecriminale ha pubblicato sui giornali decine di dichiarazionipolitiche, dichiarazioni che, in quanto difensori del popolo

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tenuti alla neutralità, non avrebbe alcun diritto di fare. Negliultimi giorni, poi, ha messo dei veicoli blindati attorno allamia casa, minacciando di arrestarmi. “Aspettiamo solol’autorizzazione per arrestarla, Mr Murtaza Bhutto”, midicevano in tono arrogante. “E se aspettiamo è soloperché lei è un membro del parlamento, e l’autorizzazionedeve arrivare da molto in alto.” Auw!, suvvia! Begharatoon,indecenti che non siete altro, io non ho paura della vostrapolizia corrotta.»

Poi parlò ancora dell’arresto di Sonara. Fu forse ilproblema più pressante di tutto il comizio, tanto più per viadell’atmosfera di pericolo imminente che incombeva sumio padre. «Ricordatevi», proseguì papà, tremando per laforza delle sue stesse parole, «che noi siamo un partitopolitico. Tutte queste ingiustizie, tutta la violenza politicascatenata contro i nostri attivisti, non dureranno persempre. Noi faremo appello al popolo, porteremo avanti lenostre battaglie politiche, non ci lasceremo zittire - Dhamdamadam Must Qalandar», ripeté, citando una poesiasufi.

I nara ripresero più forti di prima mentre papà, che pertutto il suo intervento aveva tenuto la fronte aggrottata,sorrideva scendendo dal traballante palco del comizio.Maqbool Channa, l’organizzatore della jalsa di SurjaniTown, lo aveva invitato a bere una tazza di tè a casa sua.Malik Sarwar Bagh chiese però di poter tornare a casaperché doveva prepararsi per la manifestazione del giornodopo al Circolo della stampa. «Se solo l’avessi saputo»,

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mi confessa dodici anni dopo. «Se solo avessi saputocosa stava per accadere, non l’avrei mai abbandonato.»

Al 70 di Clifton Road, intanto, la giornata era trascorsatristemente.

Era sera. Mamma era in cucina a preparare la cena, e ioandai in camera loro e mi sedetti sul letto insieme a Zulfi aguardare la tv. Mio fratello era ancora piccolo, ed era facileoccuparsi di lui con il carattere affettuoso e bonario cheaveva. Per un po’ restammo distesi pigramente a guardareLost in Space, un programma degli anni Sessanta su ungruppo di astronauti sperduti; non c’era nient’altro, allatelevisione. Zulfi era sdraiato sulla pancia, la testa sullemani, mentre io ero seduta dalla parte di papà,semidistesa e con il capo appoggiato alla testiera. Versole otto squillò il telefono interno: era Nurya, una ragazza checome me frequentava la nona classe presso la scuolaamericana di Karachi. Chiamava perché nel fine settimanavoleva che ci vedessimo per discutere un progetto distoria. Mi lasciai scivolare giù dal letto, mi sedetti sulpavimento e tirai le ginocchia contro il petto, semprechiacchierando con Nurya. Stavamo ancora parlandoquando udii uno sparo. Uno solo, ma vicinissimo.Allontanai il ricevitore dall’orecchio e mi voltai verso Zulfiper vedere se l’aveva sentito anche lui.

Quel rumore mi risuonava ancora all’orecchio quando,qualche secondo dopo, la sua eco fu interrotta da unagragnuola di spari. Sembravano esplosi proprio davanti

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alla nostra finestra; li sentivo come se le armi fossero statesopra la mia testa. «Nurya, ti richiamo più tardi!» gridai nelricevitore. Poi saltai sul letto e mi tirai Zulfi sul petto. Eratroppo vicino alla finestra; e anche se non avevo la piùpallida idea di cosa stesse succedendo, sapevo chedurante una sparatoria bisogna allontanarsi dalle finestre.Presi in braccio il piccolo Zulfi di sei anni, tutto pelle eossa, e lo portai nello spogliatoio, un piccolo locale privo difinestre. Poi chiusi con forza la porta e andai verso quelladel bagno che aveva delle finestre e comunicavadirettamente con lo spogliatoio. Chiusi bene anche daquella parte, poi andai a sedermi con la schiena contro ilmuro. Zulfi era piccolo e dolce. Portava i lucidi capelli neripettinati con la riga. I suoi minuti lineamenti da uccellinotradivano paura e confusione. Fintanto che la sparatoriaandò avanti, cinque minuti abbondanti, senza pause nelcrepitare delle pallottole, mio fratello rimase rannicchiatocontro di me. Io lo tenni abbracciato, premendomi il suofaccino contro le braccia e il petto come per proteggerlo daquel rumore. «Dov’è la mamma?» Non lo sapevo, masperavo fosse ancora in cucina, perché quella stanza siaffacciava sull’altro lato della casa e lì la sparatoria non lesarebbe stata vicina come a noi.

Aspettammo ancora qualche secondo. Era finita. Dissi aZulfi di aspettarmi, che andavo a cercare mamma. Mamentre mi alzavo lei si precipitò in camera da letto urlandocome una pazza. «Siamo qui!» gridai, e subito spalancò laporta dello spogliatoio tirandomi contro di sé e prendendoin braccio Zulfi. «Andiamo in salotto», disse, respirando

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affannosamente. Anche il salotto non aveva finestre, e incompenso non era angusto come lo spogliatoio giallo incui ci eravamo rifugiati.

Restammo in salotto per quasi mezz’ora, in attesa. Lasparatoria sembrava finita; così mandammo il nostrochowkidar, il portiere, a vedere cosa fosse successo, conl’indicazione di tornare poi subito a riferire. Tutta la zonaera piena di poliziotti, disse l’uomo. Sicuramente nonl’avrebbero lasciato uscire. «C’è stata una rapina, ci sonode i dacoits, banditi», gli dissero gli agenti. «Restate incasa finché non è tutto finito.» Mamma sedeva sul divanodel salotto, con la faccia nascosta fra le mani. Iocamminavo freneticamente avanti e indietro. Allora, inPakistan, non c’erano i cellulari, il governo democratico liaveva banditi (non senza concederne qualcuno ai suoiesponenti di spicco prima di chiuderne definitivamente ilmercato per la gente normale). Quindi non avevamo mododi raggiungere papà e potevamo solo aspettarlo con santapazienza.

Erano ormai passate le otto di sera, avrebbe dovutoessere già a casa, ma cercavamo di non preoccuparci. Iomi agitavo sempre di più a ogni minuto che passava, manemmeno per un istante immaginai che papà potesseessere stato ferito. Forse l’avevano arrestato, e lasparatoria non era che un’espressione di trionfo da partedella polizia. Espressi la mia preoccupazione a voce alta -gli spari erano stati molti più della solita raffica che in queigiorni era facile sentire a Karachi. «Non preoccuparti,Fati», disse Zulfi, buttandosi per gioco dietro la poltrona

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Fati», disse Zulfi, buttandosi per gioco dietro la poltronaverde di papà, «sono solo fuochi d’artificio.» Verso lenove, circa tre quarti d’ora dopo, ne ebbi abbastanza. Nonce la facevo più ad aspettare. Dissi a mamma che avreitelefonato a mia zia, primo ministro. Ormai ero arrivata allaconclusione che Benazir aveva fatto arrestare papà, e nonintendevo certo starmene lì con le mani in mano mentremio padre veniva trascinato in prigione. Così sollevai ilricevitore del telefono interno e dissi a chiunque fosse inlinea dall’ufficio di mettermi in contatto con la residenza delprimo ministro, a Islamabad. «E non si accontenti di un nocome risposta», dissi in tono aggressivo. «Devoassolutamente parlare con Wadi.»

Il telefono squillò qualche minuto dopo, molto prima diquanto mi aspettassi. Di solito era piuttosto difficilemettersi in contatto con il primo ministro, anche se - osoprattutto se - era la tua Wadi bua, in sindhi, la sorellamaggiore di tuo padre. Andai a rispondere, e mipassarono il suo assistente personale. Per parlare misedetti sulla poltrona di papà. «Ciao, bibi, come va?»L’assistente sembrava agitato, addirittura spaventato. Ionon sapevo chi fosse al telefono - sicuramente non ciconoscevamo - così dissi: «Bene, grazie. Posso parlarecon mia zia, per favore? ». Fui brusca, ma lui andò avanti aparlare: «La tua famiglia sta bene? Stanno tutti bene?»«Sì, sì», risposi io. Finalmente, soddisfatto dei miei grugnitie delle assicurazioni che a casa andava tutto bene,l’assistente mi mise in attesa.

Presto però la musica all’altro capo della linea fu

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interrotta da un clic e poi dal silenzio. «Pronto? Wadi?»gridai, chiamando mia zia con un nome che usavo solo io.«No, in questo momento non può venire al telefono», fu larisposta. Era Zardari. Non era certo un segreto che anessuno della mia famiglia piaceva Asif Zardari, il viscidomarito della zia. Nelle poche occasioni sociali in cui l’avevoincontrato, non ci eravamo scambiati che un superficialeciao. «Ho bisogno di parlare con mia zia», dissi, concisa.Non avevo voglia di parlare con lui. «Non puoi», rispose,altrettanto asciutto. «È molto importante, ho bisogno diparlare subito con lei.» «In questo momento non può venireal telefono», ripeté Zardari. «È una cosa molto importantee non voglio dirla a te, voglio dirla a lei», insistetti, parlandosempre più velocemente. Avevo già sprecato fin troppotempo in quell’inutile telefonata. «Non può venire, staavendo una crisi isterica», ribatté Zardari. E come a un suosegnale, in sottofondo, qualcuno gridò. Fino a quelmomento tutto era stato tranquillo, niente lasciava supporreche nella stanza con Zardari ci fosse qualcun altro, e ora,all’improvviso, un grido disperato rompeva il silenzio.«Cosa? No, devo assolutamente parlarle, passamela perfavore!» ripresi, sempre più confusa da quella chesembrava tanto una sceneggiata tesa a impedirmi diparlare con l’unica persona al comando. «Ah, a proposito,non lo sai?» disse a questo punto Zardari. «Hanno sparatoa tuo padre.»

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CAPITOLO 2La famiglia Bhutto, a quanto dicono, nacque nei deserti

del Rajastan e poi, col tempo, dilagò sulle rive del fiumeIndo fino nel Sind. Mitho Jo Mikam, un piccolo villaggio fraMirpur e Garhi Khuda Bux, è il luogo in cui presero dimora iprimi Bhutto. Il villaggio prende nome dal suo fondatore, unfiero guerriero caput; i rajput, dal sanscrito rajputra, figlio dire, venivano dall’India del Nord e appartenevano agliKshatriya, cioè alla casta guerriera. La loro stirpe risale alVI secolo e nel corso della storia si alleò con i Moghul econ gli inglesi attraverso l’esercito indiano. Mitho Jo Mikamsi separò dal Rajastan, a quanto pare, a causa di una faidafamiliare. È una bella ironia che i Bhutto del Pakistan sianonati proprio da una faida familiare. Ma tutto corrisponde.

A mano a mano che i Bhutto si diffondevano in tutta laprovincia del Sind, chi spingendosi a sud fino a Thatta, chiinoltrandosi sempre più a nord nel Punjab, Mitho Jo Mikame la sua tribù divennero famosi come solutori di conflittiagrari. Invariabilmente, ogni volta che fra due proprietariterrieri sorgeva una disputa, si faceva appello a Mikam,che non aveva difficoltà a mettere in riga il più prepotentedei due contendenti e a risolvere il problema, il più dellevolte in cambio di un pezzo di terra o di un dono in natura.

Pur essendo solo una piccola tribù, i Bhuttoconquistarono la primazia locale grazie all’acqua. In uncerto momento dopo l’era Moghul, mentre gli inglesidirigevano l’India esattamente come avevano diretto l’East

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India Company, il raj pensò che indubbiamente ci voleva unbel po’ di braccia per coltivare i suoi vasti appezzamenti diterra non irrigua. A Begari, nello Jacobabad, al confine frail Belucistan e il Sind superiore, scorreva un grande corsod’acqua, vah in sindhi, ancora non canalizzato. L’acqua eranavigabile e abbondante. A quell’epoca, però, nel Sind nonc’erano ancora grandi zamindar in grado di sfruttarequell’acqua e di coltivare la terra circostante. Al governonon importava chi dovesse possedere quei terreni, masicuramente non intendeva prendersi la briga di coltivaretutta la terra vergine lungo il vah. Avanzò dunque unaproposta: chiunque avesse avuto abbastanza braccia eabbastanza fegato da provarci sarebbe stato il benvenuto.

Si fece avanti Doda Khan, convinto di essere un rajputse mai ve ne furono. Aveva quattro figli sani e robusti, neiquali il sangue guerriero degli antenati non si era ancoradiluito con l’esilio. Li chiamò dunque a raccolta, insieme atutti gli altri Bhutto della provincia; se sei in grado dicoltivarla, prendila, è tua: questa era la promessa. E iBhutto arrivarono. Molti uomini restarono feriti nellebattaglie per il controllo del vah e della terra, macontinuarono a combattere. I vicini beluci, anch’essianimati da un’orgogliosa tradizione guerriera, nonintendevano rinunciare tanto facilmente alla terra. Perquesto ci fu da lottare.

I Bhutto non si risparmiarono e subirono molte perdite,ma i feriti che tornavano ai loro villaggi venivano sostituitisui campi di battaglia da nuovi Bhutto provenienti da altre

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aree. Combatterono sotto la guida di Doda Khan, ilcervello che stava dietro le operazioni militari, un uomo concui non era facile trattare, finché non ebbero conquistato lecinquanta-ottanta miglia di terreni agricoli fra Naudero,vicino a Larkana, e il confine fra sindhi e beluci a GarhiKhairo, nello Jacobabad. All’epoca i Bhutto ritenevano chefosse tabù vendere la terra conquistata al prezzo di tantebattaglie, così i loro possedimenti continuarono a crescere.È stato Ashiq Bhutto - un uomo bonario, dai lineamentistraordinariamente belli, che ha fatto il modello finché unincidente d’auto non gli ha rovinato la carriera, nonchécugino di Zulfikar Ali Bhutto - a raccontarmi la leggenda diDoda Khan. «Oggi voi siete conosciuti come i Bhutto diLarkana, ma non devi sbagliarti - a quei tempi di Bhutto cen’erano dappertutto, e la maggior parte delle loro terreerano nello Jacobabad; be’, almeno finché la riformaagraria di Zulfi non ha cambiato tutto.»1 Alla fine la tribù sistabilì in tre zone, governate da tre rami distinti dello stessoceppo: i Bhutto di Larkana a Garhi Khuda Bux; la famigliache da Ilahi Bux discende direttamente ad Ashiq e a suofratello Mumtaz, attuale sardar o capotribù dei Bhutto, aGarhi Bhutto; e nella terza città, Naudero, Amed Khan,unico figlio del ricchissimo Rasool Bux. Le tre città sorgonoalla distanza di una corsa a piedi l’una dall’altra: una cosapiuttosto preoccupante, dato che i Bhutto non sono certofamosi per una particolare disponibilità a condividere ciòche è loro (anzi, non ne hanno affatto).

In un corridoio in casa di Ashiq, in Clifton Road, sono

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appese le foto degli antenati dei Bhutto. Entrambe le paretisono coperte di immagini dei Bhutto di Garhi: Ilahi Bux, suofiglio Pir Bux, suo nipote Wahid Bux, che diventò sardar, epoi suo figlio, il padre di Ashiq, Nabi Bux. Ci sono ancheuna fotografia di Zulfikar Ali Bhutto da ragazzo, insieme aisuoi cugini, una di mio padre Murtaza con una giacca dipelle e una delle tre belle figlie di Ashiq.

Proprio in fondo al corridoio, al riparo da sguardiindiscreti, c’è un piccolo documento riguardante DodaKhan. Ashiq me l’ha mostrato in una soffocante mattinad’estate. È un certificato cartaceo, così vecchio da esseretutto ingrigito. In un inchiostro reso marroncino dalla lucedel sole, ma che un tempo doveva essere rosso, si legge:«Per ordine di sua Eccellenza il Viceré e Governatoregenerale questo attestato viene consegnato in nome diSua Graziosissima Maestà la Regina Vittoria, Imperatricedell’India, a Doda Khan Bhoota come riconoscimento dellasua lealtà e dei buoni servigi da lui resi alla corona inquanto proprietario terriero». Il documento è firmato dalviceré e datato 1° gennaio 1877. Mostrandomelo, lo zioAshiq si è voltato verso di me e mi ha detto: «In realtà ilpunto in cui si accenna alla sua “lealtà” agli inglesi non mipiace molto. È per questo che l’ho messo qui in fondo».Peraltro dietro una pianta piuttosto grande e frondosa.

E così i Bhutto continuarono a moltiplicarsi, con l’aiuto eil sostegno del più potente impero dell’epoca. La miriadedi Bhutto, suddivisi nei tre rami della famiglia, continuò aricevere onori e riconoscimenti in nome della regina e titolie terre dal raj. Rasool Bux, dei Bhutto di Naudero, era

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famoso per la sua ferocia. Era un uomo robusto, con corticapelli bianchi e un’ispida barba. In una delle fotografiesulla parete di zio Ashiq lo si vede seduto su una semplicesedia, in pantaloni, stivali e quella che sembra una magliaintima a maniche lunghe. In mano ha un fucile da cacciaincredibilmente lungo, e davanti ai suoi piedi un cervo,morto, sanguina dalla gola squarciata. C’è un aneddoto suquesto Rasool Bux, che ebbe un solo figlio maschio, ilricchissimo Amed Khan. Dunque, lui aveva la cattivaabitudine di bestemmiare: bestemmiava contro chiunque econtro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Un giorno il suomunshi, l’amministratore delle sue terre, un pover’uomoche era riuscito a intrufolarsi nelle sue grazie con lunghianni di servaggio, gli si avvicinò e disse: «Sain, sir, tiprego, non arrabbiarti con me, ma potrei chiederti unfavore?». Rasool Bux grugnì. Il munshi andò avanti: «Nonpotresti, per caso, passare un intero pomeriggio senzabestemmiare? Io offrirei ad Allah e a tutti i santi dellepreghiere in tuo onore se lo facessi». Rasool Bux si morsela lingua: «E se poi bestemmio?». «Se bestemmierai, miregalerai cinque mesi di paga; ma se non lo farai, sain, mene tratterrai tu altrettanti.» Secondo questa leggenda,Rasool Bux si lasciò convincere per l’affetto che provavaper il fedele munshi, e accettò. Finì di bere il suo tèmattutino e uscì dalla stanza per andare a fare il bagno. Macinque minuti dopo, mentre si insaponava la faccia ecominciava a radersi, esplose in un fuoco di fila dibestemmie: «Haram zada!, brutto bastardo! Come osi

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cercare di derubarmi del mio denaro? Ecco, prendi i tuoisoldi, sporco maiale, ma se provi ancora a prenderti giocodi me giuro che ti ammazzo!».

C’era poi Ghulam Mir Murtaza Bhutto, bisnonno di miopadre, da cui papà prese il nome, il progenitore dei Bhuttodi Garhi Khuda Bux. Dicono che fosse un bell’uomo, arditoe carismatico. Dicono anche che avesse una relazione conla moglie bianca di un funzionario inglese. Ancor oggi sidiscute se la donna fosse davvero inglese al cento percento o non piuttosto angloindiana («quelle sicomportavano come se fossero più bianche dellebianche», sottolinea lo zio Ashiq), ma fu comunque unaffare scottante. Nella mia famiglia dicono che unpomeriggio il marito della donna, scoprendo quel legameillecito, invitò Ghulam Murtaza a casa sua e gli offrìqualcosa da bere. Ghulam Murtaza non era uomo darifiutare l’ospitalità di chicchessia, nemmeno quella delfunzionario cui voleva rubare la moglie, e accettògraziosamente. Morì poco dopo l’incontro: avvelenato amorte, secondo la leggenda.

Già allora, evidentemente, era molto raro che un Bhuttomorisse di morte naturale. Molti furono ammazzati, e primadi raggiungere la mezz’età. Mio padre mi raccontavasempre la storia di un Bhutto, potente proprietario terriero,che a un certo punto comprese di aver perso la simpatiadelle persone a lui sottomesse; ma non riusciva a capiresulla lealtà di chi potesse ancora contare. Così si finsemorto: costrinse la propria famiglia ad annunciare il suofunerale e a stringersi attorno al suo corpo, tutt’altro che

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morto, gemendo e piangendo. Quanto a lui, rimasesdraiato su un charpai, un lettino, avvolto in teli bianchi,assolutamente immobile. Quando poteva dava unasbirciatina fuori dal sudario, ma comunque avevaincaricato un servo di prendere nota di chi andava arendergli omaggio e chi no. Tutti coloro che non si fecerovedere al funerale furono castigati con procedurasommaria. Un esempio della tipica strategia del «colpiscie intimidisci» dei Bhutto. Alla fine, quando questo Bhuttomorì per davvero, al suo funerale non c’era un posto libero.L’intero villaggio si radunò per rendergli omaggio. Non sisa mai.

Nel 1935, con l’India Act, furono creati dei consigliamministrativi in tutte le province del raj, e nell’ottobre 1937si svolsero le elezioni. A quell’epoca nel Sind non c’eranopartiti politici, quindi furono in pochi a partecipare: solo iricchi e potenti. Sir Shahnawaz Bhutto, il figliodell’avvelenato Ghulam Murtaza e discutibilmente nominatobaronetto dagli occupanti inglesi, si presentò candidatoper Larkana, sua città natale. Era un grande proprietarioterriero, un uomo rispettato e molto influente a livello locale.Ma perse. A sfidarlo fu un perfetto sconosciuto, SheikhAbdul Majeed Sindhi. Un sindhi che non risiedevanemmeno nel distretto; un outsider, un uomo senza alcunareputazione alle spalle. All’epoca si disse che era statotirato in ballo e sostenuto da una parte della stessa

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famiglia Bhutto, desiderosa di scalzare sir Shahnawaz dalsuo potere locale.

«Fare politica è come costruire un tempio, o una casa»,Zulfikar ricordava di aver sentito dire a suo padre, «o comefar della musica, della poesia», e a questo puntomenzionava Brahms, Michelangelo.2 Sir Shahnawaz eraun uomo all’antica. Perdendo quella che avrebbe dovutoessere una vittoria scontata, si sentì tradito, ma noninsistette. Si limitò a fare i bagagli e ad andarsene persempre dal Sind con la sua famiglia.

Nel 1938 i Bhutto erano a Bombay, compreso Zulfikar,che si stava preparando per l’esame d’ammissione alcollege. Sir Shahnawaz aveva tre figli maschi: Imdad,Sikandar e il più piccolo, Zulfikar Ali; e tre figlie femmine:Benazir, che sarebbe morta giovane, Manna e Mumtaz. Ifratelli di Zulfikar avevano molti più anni di lui, ed eranofamosi donnaioli. Imdad era il più bello: portava elegantiabiti col panciotto e andava sempre in giro con un’ariadeterminata e piena di grazia. Il secondogenito, Sikandar,lo adorava e copiava pedissequamente il suo modo divestire e i suoi vezzi; una volta fu sgridato dal padre perchénon aveva uno scopo nella vita: «Perché almeno non tipettini come si deve e non ti comporti di conseguenza? ».Sikandar portava gli stessi abiti col panciotto di suofratello, ma si lasciava crescere i capelli lunghi edisordinati e non li lisciava all’indietro come Imdad. Nonsenza coraggio, rispose a suo padre che lui era un artista.La maggior parte dei figli maschi degli zamindar dell’India

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di prima della Spartizione non erano certo artisti, facevanoi proprietari terrieri, oppure entravano nell’esercito, o sidavano alla politica. Perfino il mondo degli affari e delcommercio era fuori discussione per loro: era un lavororiservato alle caste più basse, roba per usurai ecommercianti indù. Entrambi i figli maggiori facevanodunque, semplicemente, quel che gli pareva. Eleganti egran bevitori, erano estremamente popolari presso legiovani donne della bella società. Erano donnaioli evivevano la loro vita con grande libertà, sempre inseguiti dauna folla di ammiratrici. Entrambi, Imdad e Sikandar,morirono giovani. La loro salute non resse a quello stile divita. Morirono a poco più di trent’anni, lasciandosi dietrodue giovani famiglie. Uscirono dal mondo con la stessafacilità con cui ci avevano vissuto.

A Bombay, sir Shahnawaz assunse la carica dipresidente della Commissione servizi pubblici del Sind.L’incarico gli era stato offerto dal primo ministro di quellaregione, Allahbux Soomro, e ben presto scoprì che quellavita di semplice burocrazia gli si confaceva, soprattuttodopo che l’instabilità della politica locale gli era costata lasua terra natale. Qualche anno dopo un suo amico, ilnawab di Gunaghar, uno dei principati che componevanol’India, si ammalò e decise di andare in Europa per farsicurare. Con tutto il discutere che si faceva di indipendenzae sovranità, in India la situazione era diventata piuttostoinstabile per i principi; il nawab preferiva dunque lasciare ilgoverno del suo stato nelle mani di un amico fidato.Propose quindi a Shahnawaz di diventare suo primo

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Propose quindi a Shahnawaz di diventare suo primoministro, e di reggere il Gunaghar in sua assenza. Con laSpartizione ormai alle porte, sir Shahnawaz traslocò nelGunaghar con tutta la famiglia e vi rimase finché l’India nonsi spaccò e, insieme al nawab e alla sua famiglia e ai suoiventi cagnolini (ma persone poco amanti dei cani dicevanoche erano dalmati o danesi), anche i Bhutto tornarono inquello che oggi è il Pakistan.

Zulfikar trascorse dunque l’adolescenza fra due Sind:Larkana, in quello che stava per diventare il Pakistan, eBombay, capitale del Sind indiano. Era un ragazzo dallacorporatura atletica, che non faceva altro che giocare acricket e andare a shikar, a caccia, con i suoi fratellimaggiori. Fu attorno ai tredici anni che la questione dellaterra e della propria posizione feudale lo colpì per la primavolta. Ahmed Khan, dei Bhutto di Naudero, era di granlunga il principale proprietario terriero della tribù dei Bhutto.Unico figlio maschio di Rasool Bux Bhutto,disgraziatamente però aveva avuto tre figlie femmine enessun erede.

Un pomeriggio sir Shahnawaz e Ahmed Khan siincontrarono per siglare un accordo che sarebbe statopositivo per entrambe le famiglie. Ahmed Khan aveva trefiglie da maritare, ma voleva che la sua quota di terreniirrigui restasse in famiglia. La primogenita, già rapita dauna tribù confinante nel corso di una disputa sulla terra,aveva sposato un Bhutto che faceva il maestro. Laseconda aveva sposato Imdad, il vivace fratello maggioredi Zulfikar, decisamente somigliante a Errol Flynn.

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La terza figlia di Ahmed Khan, Ameer, o Shireencom’era chiamata dai giovani cugini, era una giovaneminuta di ventitré anni quando finalmente fu data in moglie.Quando il loro matrimonio fu combinato, Zulfikar avevadieci anni meno della sposa. Era solo un ragazzinotredicenne - secondo un’altra versione, invece, avrebbeavuto sedici anni quando fu corrotto per accondiscenderea quel matrimonio feudale: se avesse accettato i suoigenitori gli avrebbero comprato una mazza da cricketnuova. Per Zulfikar, ancora preadolescente, era un’offertadi quelle che non si possono rifiutare. Così sposò Ameer.Ma era troppo giovane per capire cosa gli altri siaspettassero da lui, e sarebbero passati anni prima checominciasse a visitare Ameer begum come un maritovisita la moglie. Suo cugino Ashiq ricorda che, a distanzadi molti anni, la storia della mazza da cricket lo facevaancora ridere della sua stessa ingenuità. Alcuni dicono cheil matrimonio non fu mai consumato; quel che è certo è chenon generò un erede. L’unica cosa positiva uscita daquell’unione fu una notevole distesa di terreni nella zona diNaudero, campi che la famiglia possiede ancora oggi. Fuquella terra a fare la fortuna dei Bhutto, una fortuna che permolti anni fu grande e un po’ inquietante. Al culmine delleloro vicende feudali i Bhutto erano fra i più grandiproprietari terrieri del Sind, nonché una delle famiglie piùricche in una provincia in pieno sviluppo.

Quando i Bhutto si trasferirono a Bombay, Zulfikarraccontò agli amici di essersi innamorato di una ragazza dinome Soraya Karimbhoy, e di essere andato dalla sua

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famiglia per chiederla in sposa. Soraya e i suoi,ovviamente, l’avevano respinto non appena avevanoscoperto che la loro figlia sarebbe stata solo una secondamoglie. Sir Shahnawaz non prestò molta attenzione aidispiaceri sentimentali del suo ultimo nato. Zulfikar avrebbestudiato all’estero, un privilegio che ben pochi all’epocapotevano permettersi, e così suo padre gli disse diconcentrarsi solo sul futuro e di non perdere tempo atenere il broncio per la fidanzatina perduta.

L’India era ancora un unico paese quando Zulfikar partìper studiare alla University of California, Berkeley. Ancoranessuno parlava di Pakistan o di Spartizione. Il paese chelasciò sarebbe stato spezzato in due all’epoca del suoritorno, e più tardi alcuni detrattori avrebbero potuto direche lui, dal punto di vista legale, era ancora cittadinoindiano. Ma la sua identità fu continuamente rimodellatadai mutevoli confini che lo circondavano. Fu a Bombay, allavigilia della sua partenza per la California, che lesse per laprima volta Marx. E che la sua esistenza privilegiata fumessa completamente in discussione. Zulfikar era unproprietario terriero feudale, un grande zamindar , eppurenon aveva mai pensato a sé stesso come a un aggressorecapitalista. Più tardi avrebbe detto che era stata proprioquesta precoce lettura di Marx a innescare uncambiamento radicale nel suo modo di pensare e nel suoatteggiamento verso il feudalesimo, un modo diorganizzare la società che gli uomini della sua generazione- come molti di quelli di oggi - davano per scontato. Adistanza di decenni, parlando della riforma agraria attuata

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distanza di decenni, parlando della riforma agraria attuatadal suo governo, e per la quale lui stesso avrebberinunciato alle sue terre (soprattutto quelle nelloJacobabad, conquistate in battaglia da Doda Khan),avrebbe detto: «Io perderò molto, e anche i miei figliperderanno molto… Ma non ho più avuto paura dirinunciare a ciò che possiedo dal giorno in cui ho lettoMarx».3

A Berkeley, Zulfikar conobbe l’opera di Bertrand Russelle di Carl Jung e fu ossessionato dal ricordo delle parole disua madre, Khurshid: nata in grande povertà (le sue misereorigini avevano portato alcuni a dire che fosse indù,appartenente quindi a una casta inferiore a quella delmarito, un aristocratico proprietario terriero che l’avevasposata per amore), Khurshid ricordava sempre al suofigliolo preferito che «il paradiso dei politici sta sotto i piedidel popolo».4 Anche lui non sarebbe diventato niente senon si fosse inciso questa frase in testa, gli diceva. Le suepotenzialità erano grandi - già da bambino venivagiudicato brillante - ma non doveva mai dimenticare diessere nato in un paese poverissimo.

Quel che gli accadde negli Stati Uniti non fece cheradicalizzarlo ulteriormente. A San Diego, mentre ancoraviveva a Berkeley, si vide rifiutare una stanza d’albergo pervia del colore olivastro della sua pelle: l’addetto allareception gli disse che «sembrava messicano».5 In quelmomento non era più uno zamindar, né il figlio del primoministro del Sind, uno dei funzionari di grado più elevato ditutta l’India. Lì in California non era nessuno: l’isolamento e

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tutta l’India. Lì in California non era nessuno: l’isolamento el’alienazione che sperimentò in America l’avrebberoseguito in tutta la sua carriera politica. Fu comeconseguenza dell’umiliazione di San Diego che Zulfikar sidecise a lasciare gli amichevoli confini di Berkeley pertrasferirsi in Maxwell Street, dove passò ore e ore incompagnia degli afroamericani che abitavano quelquartiere fatiscente perché gli sembravano «più veri».6

In molti sensi era una contraddizione vivente e spesso,dopo il soggiorno in California, e poi a Oxford e a Lincoln’sInn, in Inghilterra, diceva di sé stesso che la sua mente eraoccidentale ma la sua anima orientale. Anni dopo,scherzando ma solo a metà, avrebbe detto ai suoi figli dinon andare nelle università californiane perché quel climameraviglioso li avrebbe distratti dagli studi; ma forse laragione vera era che temeva non avrebbero saputoreggere il brutale attacco alla loro identità e alla loroautostima con lo stesso successo con cui c’era riuscito lui.No: i figli di Zulfikar sarebbero andati ad Harvard, dove sisarebbero realizzati in fretta e senza inconvenienti inmezzo a studenti di tutte le élite del mondo.

In una lettera indirizzata al figlio Murtaza alla vigilia dellasua laurea ad Harvard, Zulfikar, allora primo ministro,scrive:

Adesso sei a metà della tua carrieraaccademica. Sono sicuro che la seconda

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metà sarà per te altrettanto eccitante estimolante. E che ricorderai sempre i tuoiobblighi verso la gente del tuo paese.L’America è un grande paese, che haconquistato un potere formidabile in forzadelle sue scuole e della sua tecnologia.L’americano è pieno di vitalità. La suacuriosità lo accompagna fino alla fine deisuoi giorni. È sempre in movimento - intentoa imparare, a osservare, a costruire. È ungrande costruttore. Guarda cosa è riuscito arealizzare nel suo paese. Ma l’americanomedio non possiede una mente penetrante,non è sofisticato come il vero intellettualed’Oriente, le cui cellule cerebrali si sonoformate nel corso dei secoli e i cui contornisono stati modellati da un’antica civiltà.7

La lettera prosegue con qualche consiglio personale, dacui traspare l’ossessivo ricordo delle gentilezze che glierano state rifiutate in Occidente quando anche lui erastudente:

Sono sicuro che a Oxford ti farai degli ottimi

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amici. Per quanto mi riguarda hodeliberatamente rotto la maggior parte deilegami con gli amici incontrati in America ein Inghilterra, ovviamente con qualcheeccezione, ma parlando in generale hopensato che la mia reintegrazione nel quadrodel nostro paese sarebbe stata più veloce seavessi rotto quei legami perché non volevoprovare nostalgia per l’America o perl’Inghilterra una volta tornato nel nostrovillaggio di Naudero.8

Il suo vecchio amico d’infanzia, Ilahi Bux Soomro, quelloil cui padre aveva offerto a sir Shahnawaz il suo altoincarico nella burocrazia di Bombay, ricorda che una voltaZulfikar andò a fargli visita a New York, dove stavastudiando presso la Columbia University. Oggi Soomro èun allegro ottantenne, con radici politiche antiche quantoquelle dei Bhutto. Ha sempre chiamato Zulfikar «Zulfi»,come la maggior parte dei suoi amici, mentre Zulfi lochiamava «Iloo». «Spesso andavamo all’InternationalHouse di Riverside Bridge, vicino ad Harlem, dovepotevamo discutere appassionatamente di questioniinternazionali con studenti provenienti da tutto il mondo;Zulfi però risultava sempre il migliore. Era davverobrillante.»9 È con Iloo che Zulfikar si trattenne a New York

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prima di partire per l’Inghilterra, dove avrebbe studiato peril suo master.

Zulfikar tornò in Pakistan, una nazione neonata, comeavvocato abilitato. Nel paese aveva pochi amici e qualchecugino - come Mumtaz e Ashiq: quest’ultimo ricorda cheZulfikar telefonava a casa sua facendo una stridula vocettada ragazza e chiedendo se c’era «Ash-tec», cosa cheinfastidiva terribilmente sua madre - nonché Iloo. Cominciòa lavorare nello studio legale Dingomal Ramchandani, cheaveva sede in Bandar Road, nella città vecchia, vicinoall’attuale Corte delle udienze e non lontano dal PalaceHotel, dove i Bhutto andarono ad abitare mentre sicostruiva la casa di Clifton Road.

Quando la sua reputazione di avvocato si fu consolidata,Zulfikar passò alla A.K. Brohi, lo studio legale di un altrorispettato avvocato sindhi. Un giorno, ricorda Iloo, Zulfi gliraccontò che Brohi gli aveva dato un documento legale dasistemare. Mentre attraversavano la città con l’automobiledi Iloo, Zulfikar disse che era un passo importante nella suacarriera e che avrebbe dovuto dedicare parecchio tempoall’analisi di quel testo. Il giorno dopo, come facevaspesso, Iloo andò a prendere l’amico davanti all’ufficio, cheera vicino a Quaid-e-Azam, la tomba di Mohammad AliJinnah. «Com’è andata con quel documento? » glidomandò, vedendo che Zulfikar non ne parlava. Zulfisorrise. «L’ho riscritto da cima a fondo. Pensavo che Brohisi sarebbe arrabbiato, e invece ha detto che andavabene.» Ma Iloo lo conosceva troppo bene. «Zulfi», loammonì, «credo proprio che non dovresti fare queste cose

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deliberatamente.» Zulfi continuava a sorridere. «Volevosapesse che ne so più di lui», disse, e scoppiò a ridere;ma stavolta non stava scherzando.

Mentre la sua carriera lasciava un segno nei circoli legalie il suo adattamento alla vita nel nuovo paese procedevabene, a livello sociale le cose non andavano altrettantobene. Dopo gli anni passati all’estero, in California e aLondra, Zulfikar non conosceva più molte persone aKarachi. Gli piaceva uscire la sera, andare al ristorante o alnight, ma ancora non aveva una compagna adatta a lui concui farlo. Le famiglie sindhi sono tradizionalmenteconservatrici, e gli uomini non portano agli intrattenimentisociali le loro mogli (e men che meno le figlie). Dunque fuuna mera casualità se una sera, a un matrimonio, Zulfikarconobbe una bella iraniana che, dopo la Spartizione, si eratrasferita con la famiglia da Bombay a Karachi. Nusrat eraalta e snella, con zigomi cesellati e scuri capelli ramati.Anche lei era nuova in città, e aveva imparato l’inglese soloda poco. Aveva una schiera di sorelle, ma quando nellastanza c’era lei tutte le altre sparivano.

Nusrat e Zulfi erano una bella coppia. Erano entrambieleganti e vivaci, ribelli e affascinanti. Ben presto Zulfikarcapì di essere innamorato. Così un giorno andò dai suoigenitori e chiese loro il permesso di far pervenire unaproposta di matrimonio alla famiglia di Nusrat; quelli perònon furono affatto entusiasti dell’idea. Khurshid begum , inparticolare, si oppose strenuamente all’idea che Zulfikarsposasse una donna che non conoscevano. Nusrat non erasindhi, era in tutto e per tutto una straniera. Veniva da una

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famiglia sciita molto religiosa, mentre i Bhutto eranosunniti. Non era nemmeno figlia di uno zamindar : suopadre possedeva una fabbrica di sapone a Bombay -perfino il loro cognome portava il marchio di quellaprofessione, Saboonchi, colui che fa il sapone. Era unuomo d’affari, la più spregevole delle professioni agli occhifeudali dei Bhutto. Khurshid begum fu irremovibile: suofiglio non avrebbe sposato quella Nusrat. E poi, ragionava,era già sposato.

Zulfikar però aveva la testa non meno dura di quella disua madre. Un pomeriggio del 1951 prese la macchina,andò sotto casa del suo amico Iloo, vicino al mazaar dimarmo a forma di cupola di Quaid-e-Azam, e suonò ilclacson per chiamarlo. Zulfikar sedeva tranquillo inmacchina quando Iloo uscì di casa. «Hai con te deldenaro?» Iloo annuì. «Sali, dobbiamo andare, presto.»«Andare dove?» domandò Iloo, ancora confuso per quellavisita a sorpresa. «Mi sposo. Con Nusrat. Oggi.» Iloo gliricordò che secondo la legge islamica il matrimoniorichiedeva due testimoni, mentre lui era una persona sola.E suggerì di passare a prendere un suo amico, KarimdadJunejo, un giovane appartenente a un’altra facoltosafamiglia del Sind. Detto fatto. «Sbrigati», gli disse Iloo,«Zulfi si sposa.» «Con chi?» domandò Karimdad,sbalordito all’idea di essere coinvolto nella fuga d’amoredel suo amico. «Con Nusrat», rispose Iloo. «Nusrat? Quellalambhi? Quella ragazza alta?» Karimdad rise, facendoschioccare la lingua. «Ma è troppo alta!»

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I tre raggiunsero Clifton Road per prelevare Nusrat dacasa sua, a un tiro di sasso dal luogo in cui la famigliaBhutto stava costruendo il 70 di Clifton Road. Unicomaschio presente era il suo vecchio padre, quasi cieco etutt’altro che disposto a collaborare con una fuga d’amore.Le sorelle uscirono incontro alla processione dello sposoe, dicendo che il loro padre avrebbe chiamato i soccorsise solo fosse stato più in gamba, si opposero alle sueintenzioni. «Avete portato il maulvi?» domandò poi unadelle sorelle, riferendosi al mullah che avrebbe dovutocelebrare le nozze. I tre amici però non avevano idea chespettasse a loro portarlo.

«La moschea più vicina, a quei tempi, era dietro il SindClub, a meno di dieci minuti di strada da Clifton Road»,ricorda Iloo, chinandosi in avanti con espressione dacospiratore per raccontarmi di quella famosa fuga d’amoredi cinquant’anni prima - io, che la sento raccontare per laprima volta da uno dei protagonisti, inconsapevolmente loimito chinandomi come lui, presa dalla trama e dai pianimatrimoniali segreti dei miei nonni. «Allora vado aprendere un maulvi e torno di corsa in Clifton Road, inmodo che si possano celebrare le nozze. Ma quando entroin casa le sorelle di Nusrat mi bloccano subito: “Questomullah è sunnita! Noi ne vogliamo uno sciita: riportaloindietro”. Io riaccompagno indietro il tipo per tutta la stradafino alla sua moschea, e prima di lasciarlo gli domando sepuò indicarmi dove posso trovare un mullah sciita. Lui aprela portiera, scende dall’auto e mi manda a quel paese».Iloo è sempre stato molto religioso, e così mentre guidava

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qua e là in cerca di un’altra moschea, si fermò per recitarel’asr, la preghiera di metà pomeriggio, in una moscheavicino al Bori Bazaar, in centro.

Uscendo dalla moschea, dopo aver completato le sueprostrazioni, fermò un maulvi e gli chiese se fosse sunnitao sciita. E per la seconda volta in quella giornata unmembro del clero lo prese a male parole. «Mentre miallontanavo, tutto abbacchiato, dopo essermi beccato lasfuriata, mi si avvicina un signore che aveva sentito lanostra conversazione e mi dice: «“Beta, figliolo, nontroverai mai un maulvi sciita in una moschea”». Allora io glichiesi dove potevo trovarne uno, e lui mi disse che dovevoandare all’ imam bargha, che sarebbe la moschea sciita.Io naturalmente non avevo la più pallida idea di dove fossequesto imam bargha. A quei tempi non ci consideravamotanto separati, fra sunniti e sciiti - cosa ne sapevamo, noi,di quelle cose? Quel signore mi disse che era vicino, almercato Bolton.» Dopo aver attraversato tutto il mercato,Iloo vide un suo amico e lo fermò per chiedergli aiuto.L’amico rise di lui. «Non si può avere un maulvi sciita così,semplicemente. Bisogna prenotarlo con giorni d’anticipo. »Iloo gli spiegò la difficile situazione in cui si trovava, e allafine il suo amico disse una cosa che gli salvò la giornata.«Va’ alla madrassa del Sind: ci sono due scuole, una chepredica la versione sunnita degli insegnamenti islamici el’altra per gli sciiti. Là forse potrai trovare qualcunodisposto a celebrare la nikkah.»

Ma ormai il sole stava tramontando, si avvicinava il

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momento della magre, la preghiera della sera; Iloo fermòl’auto vicino alla madrassa proprio mentre ne usciva unmaulvi. «Lo fermai e gli chiesi per favore di venire con mein Clifton Road a leggere la nikkah per tuo nonno. Il maulviperò era riluttante. “Quanto ci costerà la sua partecipazionealla cerimonia?”, gli domandai, e lui, stringendosi nellespalle, grugnì che ci sarebbe costato cinquanta rupie. Iotirai fuori dalla tasca una banconota da cento rupie e glieladiedi: “Ecco”, gli dissi, “e questo è solo un anticipo”. Cosìdicendo lo spinsi in macchina.»

Quando la cerimonia fu celebrata e il contrattomatrimoniale firmato, Iloo infilò in macchina i novelli sposi eli portò al Palace Hotel. Erano sposati, finalmente.

Due giorni dopo sir Shahnawaz diede un ricevimento persuo figlio e la sua nuova moglie, ma non era affattocontento. Khurshid begum poi era ancora più fredda consua nuora. Una settimana dopo Zulfikar e Nusrat partironoin luna di miele per la Turchia. Sarebbero andati a staredalla sorella di lui, Mumtaz, che aveva sposato un militaredi stanza sul Bosforo. Nelle fotografie in bianco e neroscattate durante la luna di miele, le uniche fatte atestimonianza della loro unione come marito e moglie,Zulfikar ha il colletto del cappotto tirato fin sotto il mento eNusrat porta il sari sotto il giaccone. Sono bellissimi, i mieinonni, sembrano due star del cinema.

Negli anni Cinquanta anche il Pakistan, come la maggior

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parte delle altre nazioni, fu preso nel ginepraio della guerrafredda. Nei circoli militari che già allora tenevano le redinidella politica pachistana la neutralità e il non allineamentonon erano considerati un’opzione percorribile.L’imparzialità era considerata impraticabile in base allateoria che nell’immediato futuro il sorgere di una terza forzapotente quanto le altre due era inconcepibile. Così ilPakistan respinse la possibilità di seguire una politicabipartisan e unì le sue forze a quelle degli Stati Unitinell’urgenza che questi ultimi avevano di liberare il mondodal comunismo.

Fin da allora, pur essendo solo un giovane studente,Zulfikar ne fu molto irritato in quanto riteneva che «laragione fondamentale che sta alla base della politicastatunitense è quella di legare tutti i paesi al di qua dellacortina di ferro in un’intricata rete di alleanzeinterdipendenti destinata a trascinarli tutti in guerra nelcaso gli stati comunisti tentassero di scatenare unaconflagrazione mondiale».10 Fu nell’ambito di questa farsache, nel 1954, il Pakistan entrò a far parte della SEATO, lapresunta controparte della NATO nell’Asia sud-orientale.Zulfikar pensava fosse ridicolo, per il Pakistan, allearsi conquesta mostruosa potenza inventandosi degli interessi incomune con essa; tanto è vero che, «mentre se il sanguescorre nel Kashmir l’America jeffersoniana mantiene il suodistacco con incredibile nonchalance, se un comunista dalgrilletto facile, in qualunque teatro del mondo, osassesparare un colpo, ci sarebbe un’immediata reazione in

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tutto il blocco non comunista».11Il mondo era lacerato dalle divergenze d’opinione e dai

tentativi di scardinare gli equilibri di potere esistenti. Ildisordine che regnava nella politica mondiale comportavache «in un batter d’occhi i leader mondiali possonopassare dalla predicazione della pace alla minaccia dicancellare ogni civiltà con la bomba atomica […] La nostraposizione», scrive Zulfikar parlando del Pakistan, «èprecaria in modo patetico».12 A cinquant’anni di distanza,questo giudizio resta angosciosamente vero: il Pakistanversa ancora in uno stato di disperante insicurezza.

La frustrazione che il giovane Zulfikar provava per lostato del mondo andava di pari passo con la suasolidarietà verso i paesi del Terzo Mondo. Già quandostudiava a Berkeley insisteva sempre sulla necessità di«abbandonare l’agonizzante schema della nostra politicaestera e riorganizzare il nostro mondo in modorivoluzionario».13 Si sentiva legato soprattutto al destinodelle altre nazioni musulmane. Quando pensava allecondizioni in cui versava il mondo, Zulfikar rifletteva: «Ionon sono un musulmano osservante, non dico le preghiereregolarmente, non osservo i digiuni […] ma i miei interessisono impregnati dell’eredità politica, economica e culturaledell’Islam». 14 I sindhi, in particolare, nati e cresciuti in unacultura ricca di santi sufi, dottrine indù e antenati tribali, nonsono certo famosi per la loro ortodossia islamica. I Bhuttopoi non hanno mai espresso una particolare religiosità,

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d’altronde poco diffusa fra l’élite politica pakistana. Zulfikarperò doveva avere solo ventun anni quando decise didedicarsi anima e corpo al rinnovamento del greggemusulmano: «Io considero sinceramente ogni successo delpopolo islamico come un successo mio personale, e ognifallimento del mondo musulmano come un fallimento miopersonale».15 Era un’idea romantica, quella secondo cui,per spezzare le catene dello status quo e migliorare lacondizione delle future generazioni asiatiche e musulmane,genti di sangue diverso e appartenenti a una miriade diciviltà diverse dovessero unirsi in un tutto organico,mettendo da parte le loro differenze culturali, politiche elinguistiche. Ma lui era sinceramente convinto che un’unitàdi questo tipo avrebbe potuto «rappresentare per il mondoun modello per l’affratellamento di tutto il genereumano».16 Per chi osservi la situazione del mondomoderno, il desiderio politico di Zulfikar di vedere tutti idiseredati del mondo stringersi insieme per cancellaresecoli di spietato sfruttamento può sembrare bizzarro; malui l’avrebbe portato nel cuore per tutti gli anni a venire. Piùtardi, una volta diventato primo ministro del Pakistan,Zulfikar avrebbe scritto lunghe lettere al suo primogenito,Murtaza (a quell’epoca lontano da casa, ad Harvard), perraccontargli fin nei minimi dettagli, quasi si trattasse di unalezione universitaria, ciò che accadeva in Pakistan e nelresto del mondo. In una di queste lettere, dopo averdiscusso della guerra del Vietnam e della tragedia di quelpopolo, Zulfikar ricorda a suo figlio: «Ti dico ciò perché

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anche tu sei asiatico. Appartieni a questa parte del mondo.È qui che dovrai vivere, lavorando per la gente del tuopaese. Non pensarci nemmeno, a lasciare la tua terranatale».17

Il Pakistan cui Zulfikar faceva ritorno dopo gli annipassati all’estero per lui era una realtà completamentenuova. Era un paese neonato. Zulfikar aveva finitoBerkeley, aveva proseguito con Oxford ed era statoammesso al foro a Lincoln’s Inn, dove Jinnah in personaera stato istruito nelle discipline giuridiche. L’istruzione,ripeterà Zulfikar ai suoi figli, è l’unica cosa che nessuno vipotrà mai rubare. «Non esiste una fase ultimanell’istruzione, lo studio va avanti dalla nascita alla morte,dal momento in cui uno comincia a vedere e a osservare ea capire fino al momento in cui smette di vedere, diosservare e di capire.»18

Nel 1953 la casa dei Bhutto, al 70 di Clifton Road, eraquasi finita. Sul cancello c’erano due targhe: una, color oroopaco, con il nome di sir Shahnawaz Bhutto e la seconda,appena sotto la prima, di un delicato color bronzo, con ilnome e il titolo del primo Bhutto professionista: Zulfikar AliBhutto, avvocato. Fu a quell’epoca che Zulfikar, sposatocon Nusrat, divenne padre. Alla loro primogenita, unabambina, nata nel giugno del 1953, fu dato il nome dellasorella di suo padre morta in tenera età. Sua madre ladiede alla luce in uno degli ospedali cristiani della città.

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Begum Mazari, sorella del famoso guerriero beluci AkbarBugti e moglie del sardar della tribù beluci Mazari, ricordaquando andò a farle visita dopo il suo primo parto.

«Era molto dura per lei, aveva gli occhi pieni di lacrime»,19 dice begum Mazari dell’amica, che ricorda come unavivace giovane donna. Tutta la famiglia si aspettava unfiglio maschio, e la nascita di una femmina era un’ulterioreragione per mettere al bando quella donna che i Bhuttoavevano sempre ostracizzato. «Nusrat mi disse che non leaveva telefonato quasi nessuno per le congratulazioni»,ricorda begum Mazari. Zulfikar però era pazzo della suabambina, la colmava di tenerezze e la viziavatremendamente. «Come sai», prosegue begum Mazari,«lui era molto progressista. Infrangeva moltissimi tabù. NelSind contano solamente i maschi, solo gli uomini possonomostrarsi in pubblico; lui invece portava sempre Nusrat consé, anche nei viaggi di stato.»

Begum Mazari andò a trovare Nusrat nello stessoospedale cristiano anche un anno dopo, nel 1954, quandonacque Mir Murtaza; e allora notò che l’atmosfera alreparto maternità era completamente diversa. «Quandonacque Mir, sua suocera cucinò per lei e le portò i pasti inospedale. Le regalò dei gioielli, l’accudì come non avevamai fatto prima.» Non che sia una cosa insolita, inPakistan. Ancora oggi la nascita di una femmina significatutt’al più dote, contratto matrimoniale e, tristemente, pocod’altro. «Ricordo che le domandai: Nusrat, ma che diavolostai combinando? Non faccio altro che venire a trovarti in

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ospedale! Lei rise, era molto più felice quella volta, edisse, cosa posso farci? A Zulfi piacciono i bambini. » Poi,in rapida successione, nacquero altri due figli: Sanam,un’altra femmina, e Shahnawaz, che prese il nome delnonno. E la piccola famiglia di Zulfikar e Nusrat fu alcompleto.

In Pakistan, separare i fatti dai pettegolezzi non èsempre facile, soprattutto quando si tratta di politica. Fuallora, poco dopo la nascita dei suoi figli, che Zulfikarlasciò la pratica legale per dedicarsi interamente allapolitica. Secondo alcuni fu debitore della sua carrierapolitica proprio a Nusrat, la moglie straniera: un’amicairaniana di Nusrat, infatti, aveva sposato Iskandar Mirza, ilpresidente del Pakistan, e siccome il governo stavaaffrontando una paurosa ondata di rivolte, Nusrat avevaaccennato alla sua amica Naheed Mirza che, forse, suomarito avrebbe potuto chiedere di scendere nell’arenapolitica a Zulfikar, che veniva da una buona famiglia eaveva una brillante giovane mente molto apprezzata nelsuo ambiente professionale. Come in certi circoli sisapeva bene, Mirza stava cercando un personaggio nuovoche potesse rappresentare il Sind.

Il 7 ottobre 1958 il generale Ayub Khan, un azzimatomilitare dagli occhi azzurri, tolse il potere al presidenteIskandar Mirza con un colpo di stato silenzioso esostanzialmente privo di eventi. Questa illegale presa delpotere si verificò in un momento in cui il paese era travoltoda un gigantesco caos e da una terribile incertezzapolitica, e la maggior parte della gente sembrò del tutto

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indifferente al passaggio di testimone; anzi, alcuni nefurono addirittura sollevati. Per capire fino a che punto lapolitica interna nazionale stesse sprofondando nel ridicolobasterà dire che negli anni Cinquanta il Pakistan avevaavuto ben sette primi ministri, ciascuno determinato aportare a termine il suo mandato costituzionale di cinqueanni. Purtroppo, quella che alla fine degli anni Cinquantapoteva sembrare un’aberrazione passeggera è diventataoggi il triste marchio di fabbrica dell’inefficiente paesaggiopolitico del paese.

In conseguenza del colpo di stato, il presidente Mirza fucostretto ad abrogare l’indubbiamente fragile costituzionee a sciogliere tutte le assemblee elettive e i ministeri.Mirza, il quale assicurò al paese che la legge marzialesarebbe stata abrogata entro il termine massimo di tremesi (lo fanno tutti: dev’essere la forza dell’abitudine) e chepresto sarebbe stato indetto un referendum, giustificò leproprie scelte gettando sui partiti politici tutta la colpa dellamisera condizione in cui versavano gli affari nazionali. «Lecapacità mentali dei partiti politici sono scese così inbasso», ragionava, «che non sono convinto che nuoveelezioni possano migliorare una situazione interna tantocaotica.»20 I dittatori militari e coloro che li sostengonoappassionatamente sono sempre banali. Alla fine deglianni Cinquanta questa argomentazione poteva ancheavere una sua razionalità, ma nel sessantesimoanniversario dell’indipendenza, e tre dittatori dopo, ilragionamento «le elezioni non servono a niente» è

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diventato un ritornello che non se ne può più di sentire.Mirza, certamente non il più intelligente fra i nostriautoproclamatisi capi, fu destituito di ogni poteredall’esercito venti giorni dopo l’instaurazione della leggemarziale.

E fu proprio allora che Zulfikar si sentì proporre di entrarenel nuovo governo. Come molti pachistani alle prese con illoro primo colpo di stato, anche lui abbandonò le sueriserve nei confronti del governo militare davanti allapromessa che la legge marziale sarebbe stata abrogata alpiù presto. Come nazione, il Pakistan, era ancora nella suainfanzia politica; forse i militari avrebbero davverorestaurato l’ordine, aprendo la strada a una più credibileera di democrazia. Fu così che, all’età di trent’anni, Zulfikarentrò nel governo come ministro del Petrolio, dell’energia edelle risorse naturali.

E siccome entrava in politica con la fedina penale pulita,la sua presenza all’interno del nuovo governo fu interpretatacome un fattore positivo; era giovane, energico eintellettualmente determinato. È stato detto più volte che inun governo «dominato dalla forte, centrale personalità diAyub, Bhutto era l’unico che sapesse difendere con forza ecoerenza il proprio punto di vista, l’unico a essere ascoltatocon rispetto e l’unico a vedersi assegnare compiti delicatinonostante la sua giovane età».21 Nel 1960 fu incaricatodi negoziare un accordo petrolifero con l’Unione Sovietica.Nel breve periodo in cui era stato in carica aveva avutooccasione di sentirsi frustrato per la posizione subalterna

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in cui il suo paese veniva costretto ogni volta che dovevatrattare con le maggiori potenze, e aveva coerentementechiesto una svolta radicale nella politica estera nazionale.In quel momento i rapporti fra Pakistan e Unione Sovieticaerano tesi, soprattutto perché il Pakistan insistevacocciutamente a schierarsi al fianco degli Stati Uniti, cioèsulla trincea opposta della guerra fredda. L’UnioneSovietica, per contro, aveva ottimi rapporti con l’Indiasocialista di Nehru, che sosteneva con ingenti quantitatividi armi e con tutta l’assistenza economica di cui il paesepoteva aver bisogno. Ciononostante il viaggio di Zulfikar fuun grande successo. Il ministro per il Petrolio tornò a casacon la promessa, da parte dell’Unione Sovietica, difinanziare nuove ricerche di giacimenti petroliferi inPakistan, con la concessione di un prestito di 120 milionidi rubli e con un accordo per la collaborazione di esperti eper la vendita di macchinari utili a completare il programmaenergetico. A conquistargli l’affetto e la fiducia dei sovieticiera stata l’insistenza con cui aveva voluto visitare l’URSS:nella giornata trascorsa a Samarcanda aveva parlato aisuoi accompagnatori della «grandezza dell’architettura edella cultura islamica, così ricca e visibile dappertutto che tifa sentire orgoglioso di appartenere a quella storia, aquella razza e a quella religione».22

Anche se i suoi compiti di governo lo tenevano occupatosoprattutto con il commercio, l’industria e la finanza, eranol’immagine e la posizione del Pakistan nel consesso deglialtri paesi a preoccuparlo di più. «La nostra salvezza

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dipende da un mondo […] in cui non solo sapremoeliminare la guerra, ma anche impegnarci a costruire unnuovo ordine sociale ed economico»,23 scrive, infuocatodalle mille ingiustizie che ha visto, ma che per il momentonon ha ancora sperimentato in prima persona. «La nostramente non deve conoscere la paura, il nostro spirito nondeve mai scoraggiarsi […] Con l’avanzare dell’umanità,anche noi possiamo solo avanzare, perché ne facciamoinestricabilmente parte. I nostri risultati saranno pertutti.»24

Ma i risultati del paese, sotto la guida del generale Ayub,non erano certo destinati a tutti. I dittatori militari delPakistan tendono ad allearsi con qualunque potenza siimpegni a proteggerli, e non c’è di che stupirsi se lapotenza che di solito protegge il militarismo pachistanosono gli Stati Uniti. Nel maggio del 1954, con il pretesto dimodernizzare un settore militare già impressionantementemoderno, il Pakistan firmò con gli USA un accordo direciproca assistenza militare. All’interno di questo accordoil Pakistan veniva «incoraggiato» a aderire alla SEATO,l’Organizzazione del trattato militare del Sud-est asiastico,cosa che avvenne nel settembre del 1954, e alla CENTO,l’Organizzazione del trattato centrale, in cui il paese feceingresso nel 1955. Il catalizzatore che aveva portato allacreazione della SEATO era stato il crescente potere dellaCina comunista. Paesi come la Thailandia e le Filippinedesideravano davvero coalizzarsi sotto l’egida dellaSEATO per il timore che la guerra di Corea potesse

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generare disordini anche all’interno dei loro confini; ma ilPakistan, distante migliaia di chilometri dalla Coreacomunista, non poteva certo considerarsi in pericolo. India,Burma e Indonesia si rifiutarono categoricamente diaderire, e anche Ceylon, a un certo punto, abbandonò inegoziati. La grande alleanza, alla fine, risultò composta datre paesi: Pakistan, Thailandia e Filippine. Più tardisarebbe diventato chiaro che la CENTO faceva parte delprogetto di difesa degli interessi statunitensi in MedioOriente; ancora una volta il Pakistan aveva sfruttato lapropria importante posizione strategica per sottomettersied entrare in un’organizzazione internazionale voluta edisegnata dagli USA. La firma del trattato provocò unagrave spaccatura all’interno del mondo arabo, e fu vistacome un piano per distruggerne l’unità. Il Pakistan, inquanto firmatario, divenne sospetto agli occhi di tutti ipaesi arabi - né sarebbe stata l’ultima volta. Il suo indice digradimento non migliorò nemmeno quando scelse digiocare un ruolo sovversivo nella crisi di Suez,schierandosi dalla parte degli aggressori su tutti gli aspettifondamentali del conflitto: la nazionalizzazione del canalestesso, la collusione fra anglofrancesi e Israele el’aggressione all’Egitto. Il risultato fu che l’immagine delPakistan in Medio Oriente era penosa. Un giornale siriano,«Al Badra», scrisse che il Pakistan, come Israele, altro nonera se non una creazione dell’imperialismo inglese.25Nessun altro paragone avrebbe potuto essere più dolorosoper Zulfikar, che anelava a entrare in una grande alleanza

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di tutto il Terzo Mondo e che nel 1963 si preparava aentrare in scena come ministro degli Esteri. Furiosoall’idea che il Pakistan potesse essere percepito come unburattino degli Stati Uniti del tutto privo di pensiero proprio,affermò che «la CENTO non è e non è mai stataun’espressione della comunità iraniana-turca-pachistanabritannica-irachena […] La sua inefficacia èormai manifesta ».26 È indubbio che la CENTO arrecògravi danni ai rapporti fra il Pakistan e i paesi arabi e delMedio Oriente; ma fu la SEATO a cementaredefinitivamente l’idea di un Pakistan che agiva ormai intutto e per tutto come uno strumento degli Stati Uniti.

Da ministro degli Esteri, Zulfikar non nascose certo ildisgusto che provava per molte decisioni del governo eprese le distanze dalle sue macchinazioni; ancheall’Assemblea nazionale, dove disse:

Ho sentito dire che la politica estera delPakistan è fallimentare, che dobbiamo usciredalla CENTO e dalla SEATO; ma il giornodopo, tornando in ufficio, con unimpressionante salto mortale le stessepersone affermavano solennemente chesenza la CENTO e la SEATO il Pakistan nonpotrebbe sopravvivere. A parlare così sonogli stessi politici che non solo hanno gettato

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nel caos la nostra vita interna, ma che cihanno fatto vergognare davanti al mondointero.27

Un dissenso così aspro non era certo ben visto dalgoverno, e in particolare dal generale Ayub, che se pureaveva ammirato Zulfikar quando era ministro del Petrolio,adesso che era ministro degli Esteri lo incontrava di rado.

Zulfikar sentiva che, sotto la guida di Ayub, il Pakistan«rischiava di diventare un semplice satellite, senza unalinea politica propria».28 La persistente immaturità politicae diplomatica del paese l’avrebbe addolorato ancora di piùse fosse vissuto abbastanza da vedere il posto che il suopaese avrebbe occupato nel mondo in un futuro nonlontano. La politica estera era un punto estremamentedebole del governo di Ayub, al quale non avrebbe potutoimportare meno della diplomazia fintanto che i dollariamericani affluivano nelle sue casse sotto forma di aiutimilitari; per Zulfikar invece era una cosa della massimaimportanza. A un anno dalla sua nomina a ministro degliEsteri scrive che «la politica estera di un paese è unamanifestazione della sua sovranità. Se anche un popologodesse di ogni potere, tranne quello di condurreliberamente i suoi rapporti esteri, non lo si potrebbeconsiderare un popolo indipendente».29

Il Pakistan investiva sempre più energie nei rapporti con

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grandi potenze come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica,trascurando caparbiamente quelli con l’Asia e i paesi nonallineati. Zulfikar vedeva chiaramente che il paese sisarebbe cacciato nei guai mettendo tutte le sue uova nelpaniere della guerra fredda; e in quanto ministro degliEsteri, con grande dispiacere del generale Ayub, dichiarò:

Siamo presi nel vortice di gravi eventi storici,nei quali la differenza fra una mossa giusta euna sbagliata potrebbe coincidere con quellafra la sopravvivenza e il disastro […] Mainvece di dare speranza e di lavorare per unallentamento delle tensioni internazionali, iTitani, con la loro animosità, stanno portandoil mondo sull’orlo dell’annichilimento totale.30

Come scrive lo storico Hugh Trevor-Roper, Zulfikar sirifiutava di prendere posizione per l’una o per l’altra grandepotenza, e proprio per questo le sue scelte innervosivanotanto il generale Ayub.

Nonostante la linea dei rapporti bilaterali fosse la chiavedi volta dell’impostazione di Zulfikar, era impossibileignorare il fatto che sotto il governo di Ayub le relazioni fraPakistan e Cina si erano gravemente deteriorate. Il

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generale infatti non faceva che cercare di emarginarequest’ultima per fare più spazio agli Stati Uniti, senzaaccorgersi che ormai da tempo il suo paese non era più illoro cliente preferito. I rapporti con la Cina però, e diconseguenza quelli con gli Stati Uniti, cambiaronodrasticamente nel 1963, quando Zulfikar, consideratol’architetto della politica estera bilaterale del Pakistan,assunse la carica di ministro degli Esteri. Poco prima, neldicembre 1962, in vista di un possibile riavvicinamento fraPakistan e Cina e viste le inclinazioni socialiste delgiovane ministro degli Esteri, gli Stati Uniti trasferirono 300milioni di rupie in fondi di scambio destinati ad avviareun’espansione del credito dalla Banca statale del Pakistanad alcune banche commerciali statunitensi operanti nelpaese31. L’avvertimento era chiaro.

Zulfikar però non era sensibile alle minacce. Una volta unemissario degli Stati Uniti - qualcuno sostiene si trattassedi Henry Kissinger - gli disse che se lui fosse stato uno deiloro senatori gliel’avrebbe fatta pagare, intanto che l’avevasotto mano. «Ma io non sarei un senatore», ribatté lui conimpertinenza «sarei il presidente.»

Tre mesi dopo Pakistan e Cina firmavano uno storicoaccordo sulle frontiere. Disegnato dal ministro degli Esterie dalla sua controparte cinese, Chen Yi, il trattatoprecisava i confini fra la regione cinese del Sinkiang e learee contigue, sotto controllo pachistano. L’accordo fupubblicizzato come una grande impresa, tale non solo dadare piena espressione al desiderio dei due popoli di

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sviluppare rapporti d’amicizia e di buon vicinato, ma dacontribuire anche a difendere la pace in Asia e nel mondo32. Gli Stati Uniti reagirono con irritazione, dichiararonoche quel trattato rappresentava «una disgraziata rotturadella solidarietà in seno al mondo libero» e prontamenteritirarono un’offerta di fondi finalizzata alla costruzione di unaeroporto a Dhaka.33

Imperterrito, Zulfikar continuò a lavorare sui rapporti fraPakistan e Cina. I due paesi riallacciarono canalicommerciali ufficiali: il Pakistan riprese a esportare in Cinajuta, cotone, fibre tessili e altre merci, e ne importò tinturechimiche, macchinari e paraffina34. Nel 1964 la Cinaconcesse al Pakistan un prestito di 60 milioni di dollari ainteressi zero per sostituire i finanziamenti americani,interrottisi da quando Zulfikar aveva assunto la carica diministro degli Esteri. Il legame fra i due paesi continuava arafforzarsi, e Zulfikar aveva in mente quel fiorire dellerelazioni diplomatiche, e prediceva in modo inquietantel’imminente guerra con l’India, quando disse che «unattacco al Pakistan da parte dell’India coinvolgerebbe oggianche la sicurezza e l’integrità territoriale del più grandestato dell’Asia».35 Anche se, comprensibilmente, Ayubnon si sentiva troppo a suo agio nella nuova alleanza con laCina, il popolo del Pakistan reagì calorosamente a questocambio di amichetto del cuore. Pak-Chini bhai bhai,pachistani e cinesi sono fratelli, era lo slogan del giorno;finalmente non ci sentivamo più dei paria. Il Pakistan aveva

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aperto nuove frontiere, e la scomparsa del senso diinsicurezza derivante dal fatto di avere un solo, prepotentealleato internazionale fu accolta con entusiasmo; nel 1965,quando visitò il Pakistan, Chen Yi fu accolto da migliaia emigliaia di pachistani, al punto che perfino un giornale dirigida osservanza governativa come il «Dawn» fu costrettoad ammettere che aveva avuto un’accoglienza «maitributata prima a nessun ministro degli Esteri».36

Agli USA però non bastava rifiutare al Pakistan qualsiasiforma di aiuto economico: e così, sotto il presidenteKennedy, gli Stati Uniti aumentarono massicciamente ifinanziamenti all’India. Nel 1964 il senatore HubertHumphrey sollecitò la creazione di una coalizione guidatadall’India e tesa a controbilanciare la minaccia comunistarappresentata dalla Cina. Ancora una volta i paesi fratellivenivano aizzati l’uno contro l’altro dalle potenze imperiali,che giocavano a ping-pong con la sicurezza del mondo econ rapporti internazionali già di per sé tesi e difficili.

Nel 1965 il generale Ayub si vide cancellare un invito aWashington perché Zulfikar si era rifiutato di sostenere lapolitica statunitense in Vietnam. Gli anni in cui ricoprì lacarica di ministro degli Esteri furono elettrizzanti, perBhutto, forse i migliori della sua attività di governo. Era ungigante fra gli uomini, e il suo fermo dissenso sulla guerradel Vietnam mi fa battere il cuore d’orgoglio ogni volta cherifletto sull’atteggiamento da Zio Tom di tutti i politicipachistani dopo di lui.

Ho scritto la mia tesi di laurea di primo livello proprio sul

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bilateralismo in politica estera di Zulfikar. Sono cresciutasentendone parlare da mio padre, e credo sia stataproprio quella la più straordinaria impresa della carrierapolitica di mio nonno. Uno dei miei relatori, ed ècomprensibile dal punto di vista accademico, mi ha dettoche quando scrivevo di Zulfikar come ministro degli Esteritendevo un po’ troppo all’agiografico. È stato difficilespiegargli come mi sentivo a starmene lì, a New York,mentre gli USA invadevano e occupavano Iraq eAfghanistan, due paesi cui ero legata da vincoli familiari -Nusrat aveva sangue curdo nelle vene - vedendo il miopaese collaborare senza vergogna a quelle guerreingiuste. Ho cercato di fare un passo indietro, di liberaredentro di me abbastanza spazio per cancellare l’emotività,ma invano. Zulfikar merita pienamente l’agiografia. Inquanto giovane pachistana cresciuta nell’era delle dittaturecivili e militari non mi sono mai sentita orgogliosa del miopaese. Quel sentimento mi era del tutto estraneo, sapevoche esisteva ma non l’avevo mai provato, almeno finchénon ho studiato la politica estera di mio nonno.

La rottura fra Zulfikar e il generale Ayub avvenne comeconseguenza della guerra del 1965 contro l’India. A farprecipitare lo scontro era stata l’approvazione da parte delparlamento indiano della cosiddetta «Leggesull’integrazione», che trasformava gli stati del Jammu edel Kashmir in province dell’Unione Indiana. Alcunikashmiri musulmani che si identificavano con il Pakistan enon con l’India varcarono allora la linea del cessate il fuoco,entrando nella parte del Kashmir governata dall’India e

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dando così inizio a una serie di azioni di sabotaggio. Nonesistono guerre giuste, guerre in cui una delle due partitrovi vendetta per i suoi torti grazie alle violenze perpetrate;e fra Pakistan e India, con le cicatrici della Spartizioneancora fresche, nessuna guerra poteva essere attribuitaalla colpa dell’una o dell’altra. Ma questa è la storia dellaguerra del 1965 come la visse il Pakistan: una nazionebambina, ancora in lutto per la perdita del Kashmir, la vallepromessa dagli antenati, e che al tempo stesso stavacercando di costruirsi come stato.

Dunque: l’esercito indiano cominciò a inviare truppe nelKargil e a occupare posizioni strategiche nel Kashmirpachistano, dichiarando che all’orizzonte si andavaprofilando una guerra senza quartiere. Entrambi i paesicredevano che la guerra fosse inevitabile, e ciascunopensava che fosse colpa dell’altro. Nehru riteneva che ilPakistan stesse rovinando il Kashmir con le sue continueaggressioni, e che l’India fosse spinta solo da pensieri dipace; la principale differenza fra i due paesi, secondo lui,stava nella «deliberata propaganda di odio e disunione»del Pakistan.37 Zulfikar invece era convinto chel’occupazione del Kashmir da parte dell’India fosse unatipica mossa da paese coloniale: «Non c’è alcunadifferenza fra il controllo esercitato dall’India sul Kashmir equello esercitato dal Portogallo su Mozambico e Angola»,scrive.38

E così, nell’autunno del 1965, per due mesi circa, India ePakistan combatterono una sorta di guerra non dichiarata.

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La posizione pachistana era paurosamente fragile: mentrel’India produceva l’80 per cento circa delle armi di cuiaveva bisogno,39 il Pakistan, con suo grande imbarazzo,aveva autosufficienza zero, poiché i suoi governantil’avevano spinto ad affidarsi ciecamente alla generositàdegli Stati Uniti che spesso nelle loro alleanze eranoinaffidabili e umorali. Gli USA erano gli unici donatori diaiuti militari che avesse il paese. L’India, invece, avendogiocato la carta del non-allineamento, riceveva assistenzamilitare non solo dagli Stati Uniti ma anche dall’UnioneSovietica e da altri paesi socialisti.

Le ventidue divisioni militari indiane, dotate di armiamericane, schiacciavano numericamente le sei e mezzadel Pakistan. Era evidente che, senza l’aiuto dei suoialleati, quest’ultimo sarebbe stato annientato dallasuperiorità militare degli avversari. E per rendere ancor piùcupo uno scenario già nerissimo, gli Stati Uniti sirifiutarono di inviare aiuti. Fu un tradimento orribile che gliUSA perpetrarono nei confronti del loro principale alleatonella regione, controbilanciato solo dalla lealtà dimostratanel momento del bisogno dalla Cina.

Allo scoppio della guerra, dunque, il primo atto degliStati Uniti fu di tagliare ogni aiuto militare a entrambe leparti, e la cosa demoralizzò non poco il Pakistan, cullatosinella sensazione che la «speciale amicizia» fra i due paesie il fatto di essere entrato nella SEATO e nella CENTOcontro i propri interessi regionali significassero che gliUSA l’avrebbero protetto da ogni male. Il generale Ayub,

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già persona non grata presso i suoi patroni, si rivolse alpresidente Johnson per chiedergli di intervenire in suadifesa. L’amministrazione americana rispose che avrebbetolto ogni appoggio ai paesi considerati amici della Cina, eil presidente in persona chiarì in modo incontrovertibile chegli aiuti economici non sarebbero ripresi.

E così, mentre per tutta la guerra del 1965 l’India godettedel sostegno dell’Unione Sovietica, il Pakistan fu scaricatodal gigante della guerra fredda che si era scelto. Alla finedel 1965 la rottura fra USA e Pakistan era giàfinanziariamente esplicita: gli Stati Uniti avevano datoall’India 246,6 milioni di dollari in prestiti e donazioni, piùaltri 38,2 milioni in anticipi bancari sull’import/export,mentre il Pakistan aveva ricevuto molto meno - 182,3milioni di dollari in prestiti e donazioni e niente in anticipibancari.40 Il «Daily Telegraph» arrivò a dire che gli StatiUniti avevano spinto l’India ad attaccare il Pakistan proprioper indebolire la già instabile posizione del generale Ayub,che «il coup d’état destinato a farlo cadere era ormaiimminente» e che «la decisione da parte dell’India dirioccupare nel Kashmir alcune posizioni oltre la linea delcessate il fuoco è stata “messa a punto” con l’ambasciatastatunitense a New Delhi».41

La reazione della Cina in difesa del Pakistan,comunque, fu rapida e decisa. Non appena le forze armateindiane varcarono la frontiera internazionale per attaccareLahore, essa si espresse chiaramente bollando gli indianicome aggressori e respingendo le dichiarazioni con cui

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questi ultimi cercavano di convincere il mondo che la loroera stata solo un’azione difensiva. La Cina inoltre accusògli Stati Uniti di parzialità nei confronti dell’India: il primoministro Chou En-lai disse che l’India «non si sarebbe mailanciata in un’avventura militare tanto grave senza ilconsenso e il sostegno degli USA».42 Chou En-lai infinenon si accontentò di condannare gli Stati Uniti, ma criticòanche l’Unione Sovietica per il suo «ruolo vergognoso».43

Mentre il pericolo di un attacco indiano al Pakistanorientale si faceva sempre più grave, poi, la Cina fece unulteriore passo tattico a sostegno del nostro paese. Il 16settembre 1965 mandò un ultimatum all’India: tutte le sueinstallazioni militari lungo il confine Cina-Sikkim o al di là diesso dovevano essere smantellate entro tre giorni o nesarebbero derivate «gravi conseguenze».44 Di fronteall’umiliante prospettiva di una guerra su due fronti con ilcoinvolgimento della Cina, l’India si tirò indietro e allentò lapressione sul fronte occidentale.

Zulfikar, ministro degli Esteri pachistano, lodò per questola Cina all’Assemblea nazionale, riprendendoargomentazioni già avanzate in precedenti interventi: «solotre cose impediscono all’India di attaccare il Pakistanorientale: Dio, il monsone e l’ultimatum della Cina».45 Erastato anche troppo generoso: in realtà era solo per viadella Cina che l’India non attaccava il Pakistan orientale.

Quella disgraziata guerra cessò solo quando entrambi ipaesi accettarono la risoluzione del Consiglio di sicurezza

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dell’ONU che imponeva loro di cessare ogni ostilità; maormai il danno era fatto. Ancora una volta c’era della terrada redistribuire, e dei prigionieri di guerra da rimpatriare: ecosì, su richiesta dell’Unione Sovietica, il generale Ayub fuinvitato a Tashkent per incontrare i leader indiani. Nel suoruolo di ministro degli Esteri, Zulfikar fu categorico: Ayubnon doveva assolutamente chinare il capo davanti aisovietici, che a suo avviso durante la guerra si eranocomportati in modo tutt’altro che trasparente. Era stata laCina, non loro, a difendere il Pakistan; e invece, perl’ennesima volta, la Cina veniva tagliata fuori. Ma ilgenerale Ayub ignorò il consiglio del suo ministro degliEsteri di non andare a Tashkent, e ignorò pure le protestedel popolo pachistano, convinto che i sovietici l’avesserotradito. I dittatori tendono a fare a modo loro - è uno deiloro tratti meno simpatici - e nel gennaio del 1966 ilgenerale Ayub volò a Tashkent.

Firmata dal generale Ayub e dal suo omologo indianoLal Bahadur Shashtri, la Dichiarazione di Tashkentstabilisce minuziosamente il ritiro delle truppe dal Kashmir,la restaurazione della linea del cessate il fuoco, larestituzione dei prigionieri di guerra e l’intento dimantenersi in buoni rapporti basati sul principio della noninterferenza ciascuno negli affari interni dell’altro. Ilgenerale Ayub non stava certo facendo dell’umorismoquando, arrivato a Tashkent, ringraziò i padroni di casadicendo che sia l’India sia il Pakistan avevano «soffertolunghi e oscuri periodi di dominazione straniera» e soloallora riconquistavano la libertà: dimenticando che in quel

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momento, per l’ennesima volta, lui stesso stava mettendo ildestino del Pakistan nelle mani di due grandi potenzemondiali.46

La linea ufficiale è che la guerra finì in stallo: il Pakistannon aveva liberato il Kashmir, ma non era nemmeno statoschiacciato dal preponderante esercito indiano. Dopo unpo’, fra quanti pensavano che il Pakistan avesse vinto laguerra, mancando però il cruciale obiettivo di liberare ilKashmir, si sviluppò un movimento d’opposizione. Zulfikarsi sentiva tradito dalla prontezza con cui, a Tashkent, ilgenerale Ayub aveva accettato di mettere il paese in manistraniere. A suo parere, ritirare le truppe senza nemmenouna bozza di soluzione al problema del Kashmir era statoun chiaro segno di debolezza. Lui aveva messo in guardiail generale contro un simile, madornale errore, ma invano.

Il Kashmir ha un’importanza quasi mitologica per ipachistani, e Zulfikar pensava che il generale Ayub avessegestito la situazione senza né forza né giudizio. Diceva: «IlKashmir dev’essere liberato, se il Pakistan vuole avere ilsuo pieno significato»,47 e i tentennamenti del dittatoreerano quindi insopportabili. Nel frattempo gli Stati Uniti,soddisfattissimi al vedere che il Pakistan, a Tashkent, nonsi era portato dietro la Cina, avevano annunciato la lorodecisione di riprendere l’invio di aiuti economici e militari aentrambi i contendenti. Due giorni dopo questo annuncioZulfikar Bhutto si dimetteva da ministro degli Esteri eusciva dal governo del generale Ayub Khan.

«Era una fase storica molto particolare», commenta

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Miraj Mohammad Khan, oggi ottantenne e malato di cuore.«In Egitto Nasser nazionalizzava il Canale di Suez, inIndonesia c’era Sukarno, in Congo Patrice Lumumba, e laguerra del Vietnam galvanizzava la gioventù di tutto ilmondo. La politica era molto radicalizzata, moltoromanticizzata. Ai tempi di Ayub cercai di contattare MrBhutto, ma i servizi segreti non permettevano a nessuno, emen che meno a noi studenti, di avvicinarsi al 70 di CliftonRoad. Usavano il terrore e l’intimidazione per tenercilontani da Mr Bhutto: ma molti di noi non avevano paura».Allora Miraj era presidente della Federazione studentescanazionale, uno dei gruppi politici più radicali del tempo.Era, ed è tutt’ora, a ottant’anni suonati, quel che si dice unagitatore politico.

«In quel momento la libertà di movimento di Mr Bhuttoera fortemente limitata, i servizi segreti sapevano chestava per uscire dal governo e volevano isolarlo il piùpossibile. I giornali non pubblicavano nemmeno uncentimetro quadrato di notizie su di lui. Ma anche noi dellaFederazione eravamo ai ferri corti con il regime. Bhutto eio venivamo da ambienti completamente diversi, ma èproprio per questo che lui mi rispettava, ci rispettava.»Miraj parla in urdu, fermandosi solo per tossire in un rotolodi carta igienica che tiene a portata di mano. O percontrollare se sono rimasta indietro a scrivere, dato cheprendo appunti in inglese. «Nel 1946, durante una rivolta dimarinai contro gli inglesi, scagliai un grosso vaso diterracotta su un camion inglese dal quarto piano di unpalazzo, durante il coprifuoco. Dopo mi picchiarono

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duramente: è per questo che non mi piace parlare inglese.Ancora oggi sono come allergico a quella lingua», mispiega.

Miraj è un vecchio marxista, un ex leader studentescoche ha speso buona parte della sua vita a combatterel’imperialismo e la dominazione delle élite sui poveri delpaese. «Quando venimmo a sapere che Mr Bhutto si eradimesso dal governo di Ayub chiamammo a raccolta tuttigli studenti della Federazione e andammo ad accoglierloalla Cantt Station, sapendo che stava tornando daRawalpindi a Karachi. Eravamo in migliaia ad attenderlo, elo accompagnammo al 70 di Clifton Road con una grandejalsa. Poi, prima di separarci da lui, gli consegnammo undocumento che conteneva le nostre idee in materia dipolitica estera: mi disse di tornare quella sera stessa, chene avremmo parlato. Quando lo rividi l’aveva già letto,molto velocemente, e gli era piaciuto.

«In quei giorni parlavamo abbastanza spesso, io e lui:degli haris, i contadini, della classe media, dei sindacati.Mi diceva sempre: «Io sto con i poveri, con coloro checamminano a piedi scalzi, con le persone senza radici». Èper questo che la gente lo amava tanto. Zulfikar non eracerto uscito dal governo del generale Ayub per mettersi inun angolo a tenere il broncio; se n’era andato per protesta,e la gente aspettava ansiosamente la sua prossimamossa. Il giovane attivista Miraj era forse il più improbabiledegli alleati per la feudale famiglia Bhutto, ma si unì aZulfikar perché in lui vedeva qualcosa di diverso, unqualcosa che la maggior parte degli zamindar non aveva.

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qualcosa che la maggior parte degli zamindar non aveva.«Lascia che te lo dica, lo amavo molto», racconta Miraj adistanza di decenni, tacendo generosamente sullasuccessiva, amara rottura avvenuta fra loro due a causadelle scelte governative che Zulfikar avrebbe fatto una voltatornato al potere. «Certo, era il mio capo, ma con luipotevo discutere di tutto e in qualsiasi momento, lui lopermetteva. Lo difendevo perché credevo fermamente cheavrebbe abolito il feudalesimo. Glielo dicevo sempre: laprego, Mr Bhutto, abolisca il feudalesimo. Noi non siamoun popolo libero, mi diceva lui. È per la libertà chedobbiamo batterci, dopo tanti anni di sfruttamentoeconomico e di dittatura. La libertà è il nostro obiettivoultimo: questo dev’essere ben chiaro.»

In Pakistan, il Punjab è il cuore del potere. La maggiorparte dei militari e dei burocrati d’alto livello viene da lì. Sevinci nel Punjab, dicono, ti prendi tutto il Pakistan. «Noi cibattevamo contro lo status quo», ricorda Ghulam Hussain,vecchio compagno di militanza di Zulfikar. «Volevamo cifosse coscienza di classe, volevamo un verocambiamento.»

Ma tutto ciò non sarebbe stato facile: non con i militariancora al potere. Erano loro a muovere le fila della politicapachistana - lo stesso vale ancora oggi - e se una cosapotevano schiacciarla, di sicuro non perdevanol’occasione. Non era mai successo prima. E non sarebbesuccesso nemmeno dopo.

Nel frattempo il regime del generale Ayub non vedevacerto di buon occhio che la popolarità di Zulfikar crescesseanche dopo le sue dimissioni. Quelle che stavano

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anche dopo le sue dimissioni. Quelle che stavanomanifestando apertamente il loro sostegno all’ex ministroerano persone qualunque, attivisti, studenti e lavoratori -non burocrati o lacchè militari, tutta gente che il dittatorepoteva facilmente controllare. Lo stato si consolava con laconvinzione che la forza congiunta dell’esercito edell’amministrazione fosse di gran lunga superiore aqualsiasi appoggio potesse dare il popolo; in Pakistan,l’establishment non ha mai dato molto retta agli elettori(che comunque hanno occasione di votare ben raramente,e ancor più raramente di farlo in piena libertà). A vent’annidalla sua nascita, il paese non aveva ancora visto delleelezioni generali libere e giuste. Ma quel che dava piùfastidio era il sostegno che Zulfikar stava ottenendo alivello internazionale.

Lo stato, in Pakistan, deriva sempre il suo potere daforze esterne, dall’egemonia delle grandi potenze e delleagenzie internazionali: i fattori esterni rappresentano unafonte di potere che l’establishment non può non coltivare.Ora i cinesi erano stati molto disturbati dall’uscita di scenadi Zulfikar Bhutto, che sospettavano essere opera «degliimperialisti statunitensi e dei revisionisti sovietici».4849Per questo il primo ministro cinese, Chou En-lai, mentretornava da una visita di stato in Albania e Romania, feceuna sosta lampo a Karachi per parlare con il generaleAyub e cercar di capire se l’allontanamento dal governo delfilocinese Bhutto avrebbe influito negativamente suirapporti fra Pakistan e Cina. Sì, l’avrebbe fatto. ViaZulfikar, nessuno si sarebbe più opposto alla strategia dei

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piedi di piombo scelta da Ayub nei confronti della Cina.Abdul Waheed Katpar, avvocato, originario di Larkana,

la città natale di Zulfikar, ricorda ancora una storia che gliraccontò quest’ultimo: «Dopo le sue dimissioni, Ayub fecechiamare Mr Bhutto chiedendogli di passare da lui. Questici andò, e il presidente, quando lo ebbe davanti, lominacciò. Gli parlò infilandosi i calzini e giocherellando conl’abito, come se quel colloquio fosse una cosa del tuttosecondaria. E gli disse: «Ascoltami bene, noi siamopathan, non lasciamo mai in pace i nostri nemici.Nemmeno quando sono nella fossa».50 Il messaggio erachiaro.

I pachistani presero la Dichiarazione di Tashkent comeuna conferma del fatto che il Kashmir era perduto, cheancora una volta qualcosa veniva loro sottrattoingiustamente. Ma solo Bhutto parlò apertamente contro;tutti gli altri uomini politici e i vari esperti alleati del governorestarono, come al solito, in silenzio. E più Zulfikar parlavacontro il suo ex capo, più aumentavano le vessazioni controdi lui.

Qualche mese prima il governo del Sind aveva stabilitoche il riso poteva essere venduto solo allo stato. Diecicarichi di riso erano così passati automaticamente nellemani dello stato, che ovviamente li aveva pagati un prezzodel tutto inadeguato. Ai produttori ne era rimasto solo unoda vendere liberamente. A questo punto, approfittando delfatto che Zulfikar apparteneva a una famiglia feudale, ilgoverno aveva incriminato alcuni operai della risiera dei

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Bhutto accusandoli di aver venduto illegalmente tre carichidi riso a Peshawar.

Abdul Waheed Katpar, il giovane avvocato di Larkana,era in vacanza a Quetta con la famiglia quando gli giunsenotizia dell’accusa di contrabbando mossa contro Zulfikar. Isuoi gli consigliarono di tornare subito a Larkana perentrare nel collegio di difesa. Lui non aveva mai incontratoZulfikar Ali Bhutto, ma lo conosceva di nome. «Perché maidovrei andare?» domandò alla sua famiglia. «Non haforse, Bhutto, molti giovani avvocati nel suo entourage, tuttiamici suoi, che possono seguire il caso?» A suo parere, ilcaso era ovviamente politico, e la corte l’avrebbearchiviato senza difficoltà. No, gli fu detto, nessuno degliuomini che aveva in mente stava più con Bhutto: uscendodal governo, Zulfikar aveva perso anche la possibilità diconcedere favori.

«Così saltai sulla mia piccola automobile russa e guidainella notte fino a Larkana», ricorda Katpar. «Depositai ladomanda di libertà provvisoria per gli operai arrestati, fra iquali c’erano anche delle donne, e ottenni che la cortelocale li scarcerasse. Poi venne fuori che gli operaiavevano l’autorizzazione per vendere il riso che avevanocon sé al momento dell’arresto. Un’autorizzazioneperfettamente legale. Il caso era stato costruito su malintesie nell’intento di ingannare il pubblico. Affrontai la polizia diPeshawar che li aveva arrestati, convocai due testimoniche potevano confermare i fatti, e fine della storia. Leaccuse furono lasciate cadere.»

Durante la crisi del riso Zulfikar era a Parigi, e solo una

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volta tornato a Larkana scoprì che uno sconosciutoproveniente dalla sua stessa città aveva patrocinato la suacausa e gli aveva fatto vincere il processo, liberando glioperai della fabbrica di famiglia. Così telefonò a Katpar elo invitò ad Al Murtaza, la sua casa di Larkana. «Fu cosìche cominciò, fra noi», racconta Katpar. «Lui mi ringraziòper l’aiuto e mi domandò quanto mi dovesse per i mieiservigi. Io gli dissi di non pensare alle parcelle, che avevosolo fatto il mio lavoro. Allora il signor Bhutto tirò fuori dallatasca una notifica, una comunicazione ufficiale da parte delcommissario distrettuale di Larkana, nella quale gli siordinava di consegnare tutte le armi che aveva in casa.» (Aquesto punto una mia risata interrompe il racconto diKatpar, che sorride e mi chiede cosa trovi di divertente inuna storia così poco allegra. Allora gli dico che è proprioper quello che la polizia tormentava anche mio padre,Murtaza: le armi. La mia famiglia possiede una collezionedi armi antiche, e gli uomini sono sempre stati cacciatori,shikar. Tutti con regolare licenza; ma per le autorità questoè sempre stato il modo più semplice di darci noia. Katparsi china verso di me e dice che è sempre stato il lorotrucco preferito contro i nemici politici. Gli occhi gli brillanoper questa nostra vicenda comune.) «Io presi la notifica»,prosegue, «e andai in tribunale a depositare una memoria.È così che siamo diventati amici.»

Mentre il governo insisteva con queste meschinepersecuzioni, Zulfikar lavorava a una bozza di manifestopolitico. Aveva dedicato molto tempo a viaggiare qua e làper il paese e a parlare con i giovani attivisti e con i leader

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locali delle quattro province e del Pakistan orientale: allafine era giunto alla conclusione che bisognava propriofondare un nuovo partito. Ormai Katpar passava parecchiotempo ad Al Murtaza insieme a lui. I due mangiavanospesso insieme e facevano le ore piccole ascoltandomusica popolare sindhi. «Non ascoltava mai canzoni urdu,solo sindhi. Era musica sufi», ricorda Katpar con orgoglio.A quel tempo anche un giovane ingegnere di Lahore,Mubashir Hasan, e J.A. Rahim, anche lui di Lahore, eranoa Larkana insieme a Zulfikar. E tutti insieme partorirono ladichiarazione d’intenti destinata a far nascere il Partito delpopolo del Pakistan. I due erano di classe media, nonavevano cioè un background feudale, erano laureati eintellettuali. Quando l’autunno lasciò il posto all’inverno, e ladata di lancio del nuovo partito si avvicinò, Zulfikar parlòcon il suo amico e avvocato Katpar: «Perché non vienianche tu a Lahore con noi?» gli disse. Per timidezza,Katpar si ritrasse. «Non sono un politico», disse. In realtàera presidente dell’Associazione del foro di Larkana, unaposizione, allora come oggi, decisamente politica. «Einvece verrai», insistette Zulfikar. E andarono a Lahoreinsieme.

Lahore è diversa da ogni altra città del Pakistan. Ègrande, e serpeggiante di canali che guidano il visitatoreattraverso l’area urbana cresciuta attorno all’antico centrofortificato. D’estate le strade sono piene di gente che va allavoro in bicicletta e in tonga lungo ampi viali fiancheggiatida alberi ombrosi. L’acqua dei canali è punteggiata diuomini e bambini che si tuffano per cercare sollievo dal

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caldo soffocante. In autunno, invece, il clima è fresco -diversamente che nel resto del paese - e lentamente, manmano che i mesi invernali si avvicinano, una fredda nebbiacala sulla città.

In contrasto con la frenesia che caratterizza le altre areemetropolitane del Pakistan, a Lahore regna un senso dicalma. I quartieri sono spaziosi, i ristoranti brulicano dipigri commensali intenti a gustare la prelibata cucina delPunjab e scuole e università istruiscono i loro studenti: aLahore si trovano alcuni dei migliori istituti che il paeseabbia da offrire. La città manca completamente di quelsenso d’urgenza, del bisogno di mettersi continuamentealla prova: è come se fosse già arrivata. Come se fossequietamente consapevole del posto invidiabile che occupanella storia pachistana.

Lahore infatti è la città che i Moghul edificarono comeloro capitale da questa parte della frontiera, e vi si trovanonon solo la tomba di Jahangir, il Shish Mahal o palazzodegli specchi, ma anche i Giardini Shalimar, disegnatidall’architetto del Taj Mahal per l’imperatore Shahjahan. Visorgono inoltre la moschea Badshai, tutta in pietracalcarea, e il Kim’s Rifle, reso famoso da Rudyard Kipling;Lahore è considerata il luogo di nascita del Pakistan: fu quiche la prima Lega musulmana, guidata da Jinnah, il 23marzo 1940 votò alla sua assemblea annuale laRisoluzione del Pakistan. È a Lahore che nacque il sognodel Pakistan. E Lahore aggiunse una nuova tacca al suorecord di eventi storici dando i natali al Partito del popolodel Pakistan, quando, nel 1967, il più famoso figlio del Sind

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arrivò nel Punjab per rifare la storia a modo suo.Non appena si diffuse la notizia che Zulfikar, finalmente

libero dal peso morto del generale Ayub, stava per varareuna sua piattaforma politica, il governo fece subito i passinecessari per cercare di impedirglielo. Nel centro storicodi Lahore e nei suoi quartieri periferici, in base allaSezione 144 del codice penale, fu proibita ogni assembleapubblica, per impedire a Zulfikar di tenere eventuali radunidi massa che potessero mettere in difficoltà il governo. LaSezione 144 è amatissima dall’establishment, che vi hafatto ricorso in numerose occasioni: fu usata durante laguerra civile del 1971 per impedire le manifestazionisindacali e, più recentemente, fu riesumata dal generalePervez Musharraf per vietare alla gente di stringersi attornoai partiti islamici radicali alla vigilia dell’invasioneamericana dell’Afghanistan.

Nonostante la Sezione 144 fosse da applicarsi solo asituazioni di grave emergenza nazionale, la legge entròurgentemente in vigore costringendo i futuri membri delPPP a incontrarsi solo in luoghi privati. In origine il partitoaveva pensato di annunciare la sua nascita e di presentareal popolo il suo manifesto programmatico in uno dei grandiparchi della città; ma a causa dell’incombente minaccia diviolenze da parte dello stato l’annuncio della costituzionedel partito sarebbe avvenuto a casa di uno dei membrifondatori, Mubashir Hasan, al 4-K di Gulberg Road.Mubashir fu costretto a mettere a disposizione la sua casaperché nessuna sala conferenze voleva rischiare diinimicarsi il generale Ayub accogliendo Zulfikar Bhutto. La

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Sezione 144 aveva effettivamente spaventato i proprietaridi tutti gli spazi pubblici, dissuadendoli dall’aprirgli le porte.

Il 30 novembre 1967 delegati provenienti da ogni angolodel paese, ricchi e poveri, laici e religiosi, uomini e donne,si radunarono sotto una grande shamiana, una tenda, nelpiccolo giardino del dottor Mubashir per festeggiare lanascita del Partito del popolo del Pakistan. Anche se aidelegati provenienti dal Pakistan orientale era statoimpedito l’ingresso a Lahore, anche se quelli partiti dalSind e dal Belucistan erano stati tormentati in mille modidalle autorità locali per via del loro legame con Zulfikar AliBhutto, arrivarono a centinaia. Abdul Waheed Katpar sipiazzò davanti alla casa di Mubashir per consegnare ipermessi d’ingresso ai circa cinquecento delegati chepremevano per entrare. Permessi stampati dal partito, agaranzia di un minimo di ordine e di sicurezza.

Nelle due giornate che seguirono il Partito del popolo delPakistan fu fondato per decisione unanime di tutti ipresenti. La mattina del 30 novembre, quando i delegati sifurono registrati con nome e cognome, cominciò la primasessione, che si aprì con una lettura dal Corano. Poi duepoeti, Aslam Gurdaspuri e Halim Raza, recitarono in urdualcune poesie che avevano composto per l’occasione.Infine i delegati più influenti furono presentatiall’assemblea: fra loro c’erano Mubashir, Katpar, MirajMohammad Khan e begum Abad Ahmad Khan.

Dopo l’introduzione di Malik Aslam Hayat si alzò ZulfikarAli Bhutto, accolto da una standing ovation che finì soloquando fece cenno di voler cominciare a parlare. Parlò con

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eloquenza e passione, dicendo che l’occasione era «la piùdifficile in assoluto e la più grande sfida che io abbiadovuto affrontare, mentre la nostra patria, l’Asia, anzimeglio, il mondo intero, attraversano una pericolosa fase ditransizione».51 Poi condannò il «mostruoso sistemaeconomico vigente in Pakistan, basato sulla depredazionee sulla razzia»,52 responsabile del fatto che i pochi ricchi(ventuno famiglie al tempo della Spartizione, ventisette allasvolta del millennio) diventassero sempre più ricchi mentrei poveri sprofondavano nella più disperata miseria.

Spiegò che, per contro, il programma economico delnuovo partito avrebbe avuto come fine la giustizia sociale ecome guida il principio per cui i mezzi di produzione nondevono mai diventare mezzi di sfruttamento. Sottolineò lanecessità di nazionalizzare alcuni settori economici, comele banche, i trasporti e le risorse combustibili, cheavrebbero dovuto far parte del settore pubblico. Affermòche la causa principale dei problemi economici e politicidel Pakistan stava nel fatto che «i più rilevanti probleminazionali non sono stati mai, in nessun momento, affidati alpopolo per la loro soluzione. Perché solo il popolo, allafine, potrà risolvere ogni problema e definire la naturaultima del suo stato e del suo governo».53

Oltre che dei temi economici Zulfikar parlò poidell’importanza del Kashmir, senza il quale, disse, ilPakistan era «incompleto come un corpo senza testa».54E chiese la fine dei bombardamenti contro il Vietnam del

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Nord invitando tutti i pachistani «a rendere onoreall’indomabile popolo del Vietnam,55 quindi aggiunse chel’atmosfera regnante nel paese, fatta di violenza poliziesca,degradazione culturale e illegalità diffusa, rischiava diportare l’intera nazione alla rovina.

Zulfikar concluse le sue osservazioni preliminariribadendo il concetto che erano state proprio le condizionieconomiche e politiche del paese a rendere necessaria lanascita del nuovo partito. E terminò il suo discorso con unapromessa: «Noi rispettiamo la tradizione, ma ci opporremoa tutto ciò che di negativo essa contiene. Rispetteremosolo le tradizioni che recano giovamento al popolo delPakistan, non quelle che lo trascinano indietro […] Noidaremo al nostro paese una nuova prospettiva, daremo alPakistan una nuova forma rivoluzionaria».56

A distanza di tanti anni Mubashir ne parla ancora comedel «giorno più importante della nostra vita», e cita unesempio dell’eccitazione e dell’energia che erano nell’aria:«Prendi il caso di Khursheed Hasan Meer, un avvocato diRawalpindi politicamente molto attivo, ex presidentedell’Associazione forense distrettuale di quella città. Erastato Z.A.B. in persona a invitarlo. Lui era venuto, ma poi,prendendomi da parte, mi aveva detto di non avere affattointenzione di iscriversi al nuovo partito, e di volersemplicemente osservare come andavano le cose da fuori.Ma poi, man mano che i lavori dell’assembleaprocedevano, chiese la parola, tenne un discorso infuocatoe annunciò - dal podio! - la sua decisione di iscriversi».

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Anche Katpar, un altro avvocato che aveva sempreguardato con sospetto al mondo della politica, tenne undiscorso: era la prima volta in tutta la sua giovane vita cheparlava in pubblico.

La seconda sessione cominciò alle tre e mezzo delpomeriggio e durò tre ore, durante le quali furono costituitiquattro comitati: il comitato direttivo, quello per lo statuto,quello per le risoluzioni finali e il comitato per la bozza didichiarazione. Zulfikar fu eletto presidente di tutti e quattro.Le elezioni interne furono una delle grandi innovazioniintrodotte nel partito, anche se in realtà dopo la morte diZulfikar furono rapidamente abbandonate. Dopo unadiscussione generale sulle responsabilità dei vari comitati,le attività della giornata si conclusero.

La terza sessione cominciò il giorno seguente, 1°dicembre: dopo la lettura di una poesia e la preghiera, ilpartito votò venticinque risoluzioni e il comitato per la bozzadi dichiarazione propose all’assemblea un testo in cui sideliberava il programma del partito.

La terza risoluzione votata dall’assemblea riguarda ilKashmir, e proclama che «nessuna soluzione alle questionidel Jammu e del Kashmir è possibile se non in base alprincipio dell’autodeterminazione, accettato sia dalPakistan sia dall’India nonché dalle Nazioni Unite».57 Sultema non si potevano più accettare compromessi comequello di Tashkent. Zulfikar pensava che per il Pakistan nonci fosse compito più urgente di quello di «mantenere lapromessa fatta al popolo del Kashmir»,58 e più tardi

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commentò il caos politico creato dal generale Ayubquando aveva detto che, se non erano in grado di risolverele loro vertenze, le nazioni dovevano semplicementeaccantonarle e andare avanti con la loro vita. Laconseguenza di queste affermazioni vuote e insensate erache il segretario agli Esteri del Regno Unito in visita inPakistan aveva rinnegato senza mezzi termini l’impegnodelle Nazioni Unite a tenere un plebiscito nel Kashmir.

Anche la questione delle alleanze militari, trattata nellaquinta risoluzione, aveva un posto importante nel quadrodella linea politica del partito, nonché per Zulfikar a livellopersonale. Erano state la SEATO e la CENTO aintrappolare il paese in una rete di servilismo e dischiavistica sudditanza alle superpotenze mondiali.L’assemblea chiedeva dunque al governo di abbandonarequelle due alleanze che «in nessun modo hanno contribuitoalla sicurezza del Pakistan quando il paese ha avutobisogno d’aiuto».59 La risoluzione chiedeva inoltre che gliAccordi di mutua difesa fra Pakistan e Stati Uniti fosserodichiarati nulli e invalidi perché gli Stati Uniti non avevanovoluto difendere né aiutare il Pakistan in occasione dellaguerra contro l’India del 1965. Quell’accordo eraplatealmente unilaterale, spiegò Zulfikar: non c’era statoniente di «mutuo» quando, a guerra in corso, il Pakistan,«paese delle tre alleanze, aveva dovuto correre qua e là incerca di armi e parti di ricambio invece di riceverledirettamente dagli Stati Uniti».60 La risoluzione finivasollecitando il Pakistan a chiedere agli americani la

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restituzione di tutte le basi militari che avevano nel paese.Altre due risoluzioni riguardavano rispettivamente il

Vietnam e il Medio Oriente. Zulfikar vi precisava: «Inquanto musulmani, noi non coviamo ostilità verso alcunacomunità umana; e nel dirlo non escludiamo il popoloebraico».61 Ma l’occupazione della Palestina era vistacome illegale e sistematica vittimizzazione di un interopopolo, un’ingiustizia che, come il bombardamento delVietnam, il partito non poteva non riconoscere. Facendoappello all’unità degli oppressi, infine, Zulfikar si esprimevain modo chiarissimo sulla fonte dell’impulso necessario arealizzarla: «La nostra unità non è rivolta contro alcuncredo, religioso o secolare che sia. Non si nutre d’odio nédi rancore. La sua motivazione e la sua forza nascono dallapassione per la giustizia».62

È questo sentimento a informare una delle risoluzioni piùimportanti, la diciottesima, dove si parla della solidarietàdel Terzo Mondo. Si tratta di un punto fondamentale per lafilosofia politica di Zulfikar, secondo il quale il mondo èdiviso fra «coloro che spaccano la legna e attingonol’acqua da una parte, e quelli che monopolizzano le risorsedel pianeta dall’altra».63 Non c’è giustizia economica nelTerzo Mondo, laddove i grandi paesi industrializzatiimpongono il loro dominio per mezzo di forme di economiaancora colonialiste. E tutto ciò, secondo Zulfikar, èpossibile perché «i termini dei nostri commerci, i nostrimercati e i nostri flussi di risorse dipendonomassicciamente dalle scelte politiche ed economiche dei

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paesi più ricchi».64 Siccome i popoli del Terzo Mondosono sempre stati uniti nelle comuni sofferenze e nella lottacontro lo sfruttamento, sta a loro il compito di liberarsi tuttiinsieme da tali sfavorevoli condizioni.

La soluzione proposta da Zulfikar non è la guerra diclasse o una qualche battaglia globale per la conquista delpotere, bensì più semplicemente la redistribuzione dellaricchezza economica e la creazione di un summit del TerzoMondo finalizzato ad aprire uno spazio in cui anche lenazioni deliberatamente tenute nel sottosviluppo possanoprendere la parola. Abbiamo qui lo Zulfikar progressista alsuo meglio. I critici che si sperticano tanto a denigrare lasua linea politica (per antipatia personale o per una falsadevozione al PPP e all’eredità stessa di Zulfikar)trascurano volutamente la qualità utopica della sua filosofiapolitica. Il Terzo Mondo, dichiara, non sa che farsene dellacarità, vuole solo una fetta equa delle ricchezze del mondo.«Quello che stiamo cercando di creare è un ambiente riccodi opportunità, un ethos di speranza e di dignità per lamaggioranza diseredata del nostro popolo. Accettiamolietamente il duro lavoro e le fatiche che un giorno potrannodare alle masse una vita migliore, e accettiamo dirinunciare a ogni comfort immediato. »65 Se il TerzoMondo non agirà immediatamente e con decisione, ci saràil rischio che «le nostre capacità collettive restinoimmobilizzate, e che non riusciamo più a trasformarel’astratto in concreto, la poesia in politica, il romanticismoin realtà».66

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La quarta e ultima sessione del congresso fondativo delpartito cominciò alle tre del pomeriggio del 1° dicembre eaffrontò le questioni più basilari e concrete della vita dipartito. L’assemblea adottò un documento sulla necessitàdel nuovo attore politico, poi passò alla scelta del nome.Nomi come Partito socialista del Pakistan e Partitoprogressista del popolo furono discussi e saggiati e infinerespinti, finché il congresso non votò all’unanimità perPartito del popolo del Pakistan.

L’assemblea votò poi uno statuto interno provvisorio epassò a eleggere il presidente. Allora tutti i delegatigridarono in coro il nome di Zulfikar, rifiutandosi di proporreun altro candidato. Zulfikar Ali Bhutto fu eletto all’unanimità;dopo di che prese la parola in urdu e giurò di servire ilpartito, i contadini, la classe operaia e la nazione con tuttosé stesso.

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CAPITOLO 3Mir Murtaza Ghulam Bhutto nacque il 18 settembre 1954.

Primo figlio maschio, accolto con grande gioia da Zulfikare Nusrat, venne alla luce un anno dopo sua sorella Benazire proprio mentre il 70 di Clifton Road, la casa di famiglia,veniva ultimato. Fino a quel momento la famigliola,composta a questo punto da quattro persone, avevavissuto nelle stanze al primo piano di sir Shahnawaz e suamoglie, begum Khurshid. Murtaza, così chiamato in onoredel bisnonno, era un bambino solare e di carattere affabile.In alcune foto lo si vede, ancora piccolo, mentre gioca ingiardino, o trascina una bicicletta tenendola per ilmanubrio, o puccia i piedi nel laghetto del giardino.

Da bambino Murtaza, presto raggiunto da una nuovasorellina, Sanam, e da un altro fratellino, Shahnawaz, diquattro anni più piccolo di lui, godeva pienamente di tuttociò che il suo mondo aveva da offrirgli. La cosa che amavadi più era andare a caccia con il padre e gli zii, a Larkana,per sparare a cervi e cinghiali. Ma questo tentativo dientrare nel mondo della shikar non durò molto perchéZulfikar, allora giovane ministro del gabinetto di Ayub, a uncerto punto dovette trasferirsi a Rawalpindi, dove i bambinifurono allevati in tutt’altro modo rispetto ai parametri diun’élite terriera molle e oziosa. Non appena la famigliacominciò a viaggiare, sia all’interno del Pakistan sia piùspesso all’estero, i vivaci rampolli di Zulfikar e Nusratfurono affidati alle cure di una bambinaia svizzera. Una

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cerimoniosa ragazza che i piccoli si divertivano un mondoa tormentare: ancora molti anni dopo papà avrebbe riso,con quei suoi khe khe khe che si allargavano su tutta lafaccia, della povera Noreen e dei suoi vani tentativi diimporre loro un briciolo di disciplina. Una volta la poverettasi intestardì che i piccoli Bhutto dovevano finire gli spinaci,l’odiata porzione quotidiana di verdure, prima di alzarsi datavola. I bambini però trovarono un modo ingegnoso perliberarsi di quattro belle porzioni di quella roba verde - aturno la rifilarono al cane sotto il tavolo, che aspettavafiducioso di poter leccare i loro piatti (alla fine la poverabestia si sentì male). Murtaza, Sanam e Shah -soprannominato Gugail, o Gogi per maggior brevità -facevano i dispetti a Noreen ogni volta che si trovavano tuttiinsieme. Benazir era un po’ meno discola, e spessoprendeva le parti della tata e si sottomettevavolontariamente alle sue regole, diventandone ben prestola favorita. Gli altri fratelli invece erano molto menointeressati a «ingraziarsela», come dicevano, e ogni voltane inventavano di nuove per raggirarla - sputare le vitaminenon appena lei voltava loro le spalle era solo uno deipiccoli atti di resistenza adottati - nella speranza di indurlaa rassegnare spontaneamente le dimissioni.

«Vivevamo a Pindi, per cause di forza maggiore, perchémio padre era ministro», racconta Murtaza in un’intervistarilasciata a un periodico di Karachi pochi mesi prima diessere ucciso, «quindi la nostra esposizione al modo divivere feudale era limitata. Ma anche quando andavamo invisita al villaggio ci sorvegliavano attentamente per evitare

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che ci comportassimo male. E siccome tutti si aspettavanoche ci concentrassimo sullo studio non avevamo tempo perandare a caccia o cose del genere - che è ciò che fannoabitualmente i rampolli delle famiglie feudali».1

«Non ci hanno mai allevato come eredi di una tipicafamiglia feudale», ha dichiarato più volte Murtaza.

Mio padre ripeteva sempre che possonoportarti via tutto, ma non la tua mente e i tuoipensieri […] Dava molta importanzaall’istruzione, come già suo padre prima dilui. Ricordo che fin da piccoli, quandoandavamo al villaggio, sapevamo che se unapersona si inchina davanti a te cosìprofondamente da sfiorarti i piedi, tu devifermarla prima che lo faccia. Dunque no,nessuno di noi è stato allevato come irampolli delle famiglie feudali.2

Murtaza cominciò a prendere lezioni di equitazione. Suamadre Nusrat fece incorniciare una foto in cui lo si vedebello dritto in pantaloni da cavallerizzo e giacca di pellegrigia. I suoi capelli sono impeccabilmente imbrillantinati epettinati con la scriminatura a destra, e lui con un sorriso

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da un orecchio all’altro, regge il frustino con le maniguantate. Più tardi avrebbe dichiarato che, nonostanteandare a cavallo e a caccia gli piacesse molto, «non eranocose che facessi notte e giorno. Non era uno stile di vita».3

Quando arrivò il momento di mandarlo a scuola,dapprima lo iscrissero all’Aitchison College di Lahore, unistituto di stampo coloniale pensato per istruire i ragazzi inun ambiente conservatore e arcaico. Murtaza ci resistettesolo qualche mese - in seguito quel collegio è diventatotristemente famoso anche a livello internazionale perché dalì è uscito Omar Sheikh, il presunto assassino delgiornalista americano Daniel Pearl - poi supplicò i genitoridi liberarlo e di riportarlo a casa, a Karachi. L’Aitchison,che ammetteva solo studenti maschi, «incoraggiava quelliche, per mancanza di termini più adeguati, definireielementi feudali», scrive Murtaza. «I pagri (turbanti),l’andare a cavallo, la servitù personale - tutti i trattisuperficiali dello stile di vita feudale.»4 Gli alunnidell’Aitchison inoltre dovevano presentarsi regolarmentealla preghiera del venerdì presso la moschea della scuola.Il cricket era al centro dei loro interessi: cricket, cricket, eancora cricket. «Promuovevano un’immagine di dura erigorosa scuola pubblica», continua Murtaza nella stessaintervista, «voglio dire, docce fredde e roba del genere; maera un paradosso perché per il resto ti facevano sentire unvero chota sahib (padroncino)».5

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Lasciato l’Aitchison, Murtaza andò alla KarachiGrammar School, la scuola dei gesuiti frequentata dall’élitecittadina, fondata da sacerdoti e massoni all’epoca dellacolonia e del raj. «Era molto più liberale», ricorda Murtaza.«La popolazione scolastica era mista. È vero che tutti glistudenti venivano comunque da famiglie agiate, ma conbackground diversi: c’erano figli di proprietari terrieri, maanche figli di scrittori e di professionisti.»6 Murtaza feceamicizia con molti dei suoi compagni, ma il suo miglioreamico fu Gudu, proveniente da una famiglia intellettuale diLahore impegnata nei media e di qualche anno più grandedi lui. A scuola era bravo, ma chissà come riusciva semprea fallire clamorosamente in matematica; forse un tratto difamiglia. Quando fosse toccato a me prendere dei bruttivoti in matematica, indipendentemente dalla classe e dallabravura dei miei insegnanti, papà mi avrebbe rassicurata -«Non preoccuparti, è genetico» (è vero) - e sostenuta -«Tanto non ti capiterà mai di usarla in tutta la tua vita»(invece sì). I quaderni di matematica di Murtaza risalenti aquando frequentava la Grammar School sono tutti copertidi scarabocchi e di esercitazioni in firme e sigle. «Lamatematica è noiosa», scrive confidenzialmente sulquaderno di geometria.

Le pagelle di Murtaza alla Grammar School sonorilegate tutte insieme in pelle nera, a segno dello status diquell’istituto. Quella dell’ottava classe, come le altre, ècompilata negli spazi accuratamente predisposti con unastilografica blu. Sotto la materia Conoscenze religiose

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l’insegnante ha scritto: «Dovrebbe dimostrare maggioreinteresse». La stessa nota ritorna sempre uguale su tutte lepagelle del libro nero, o almeno fino a un certo punto,attorno alla decima classe, dove si trasforma in unostringato «Migliora». Le valutazioni generali, oltre asottolineare che in quel trimestre Murtaza era stato assenteun solo giorno, suonano particolarmente vittoriane: «Ilgiovane Bhutto ha preso i suoi studi molto seriamente, espero vorrà perseverare su questa via anche nei prossimianni scolastici […] Mir si comporta bene, è obbediente edesemplare». La pagella è controfirmata da Nusrat, anchese su quelle dei trimestri precedenti, nello spazio riservatoalla firma di un genitore o tutore, c’è il nome P. Bhutto:Pinkie, ovvero sua sorella Benazir.

Mentre Benazir tendeva a trattare Murtaza con lacondiscendenza distante che i bambini più grandiriservano ai loro subordinati, Murtaza l’adorava. Laprendeva in giro per la sua affettata nonchalance, ma altempo stesso la colmava di attenzioni protettive e faceva inmodo che fosse trattata con tutta la serietà che desiderava- perlomeno fu così finché furono bambini. Un vecchioamico di Zulfikar che spesso trascorreva il suo tempolibero al 70 di Clifton Road con i Bhutto, e più avanti con iloro figli ha condiviso con me le sue osservazioni sullafraterna rivalità fra i due bambini. «A Benazir non sfuggivaniente di ciò che riguardava Mir. Se lui riceveva un triciclonuovo, ne voleva uno anche lei. Era del tutto inutile che isuoi genitori le ripetessero che i maschi avevano deigiocattoli diversi da quelli delle femmine, e che la sua

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stanza era già piena di bambole e cose del genere.Doveva essere molto difficile per lei, perché i suoi fratellirisultavano subito amabili ed erano molto affascinantimentre lei era timida e introversa, cosicché quando dovevacompetere con loro si sentiva sempre tagliata fuori.» Dopoessersi fatto promettere più e più volte che non avreirivelato la sua identità, questo amico di famiglia mi haraccontato di aver conosciuto le prigioni di Benazir duranteil suo secondo mandato, e di non nutrire troppa fiducianella possibilità di restare un uomo libero ancora a lungo.«Quando tornavano a casa da un viaggio di stato o da unavisita ufficiale, Zulfi e Nusrat avevano sempre con sé unavaligia piena di doni per i bambini, di libri che Zulfi - avidolettore - aveva comprato durante il viaggio e di ricordinioffertigli dai suoi ospiti. Una volta ero andato ad accoglierliall’aeroporto, e così mi capitò di essere al 70 di CliftonRoad all’arrivo dei bagagli. I bambini erano fuori di sédall’eccitazione, e non vedevano l’ora di scoprire qualimeraviglie avessero portato mamma e papà; maall’improvviso Benazir si sedette sulla valigia e dichiaròche avrebbe aperto i suoi regali per prima, dato che era lapiù grande e ai suoi stessi occhi la più importante. »Questa storia mi ha fatto ridere. La gente mi ha raccontatole cose più strane dopo aver scoperto che stavo scrivendoun libro, aneddoti bizzarri che non conoscevo. Di solitopenso che sia una buona idea rompere il ghiaccio con unabattuta; quanti anni aveva Wadi, gli ho domandato, quindiciforse? L’amico di famiglia ci ha pensato un po’ su,ignorando il mio tentativo di fare dell’umorismo, quindi ha

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voltato la testa un po’ da parte, forse confuso dalla rispostache doveva dare. «Sì», ha detto poi, senza scherzareaffatto.

La dinamica fra i quattro bambini si era cristallizzataassai presto. Sanam, viziatissima dai fratelli e ammessaalle loro zuffe e scorribande fuori casa con gli amici perchégiudicata abbastanza sfrontata da poter essere unragazzo, divideva il suo tempo tra i fratelli e la sorella, laquale non partecipava alle risse dei maschi e si sarebbevergognata di farsi vedere in giro con loro e i loro amici.Invece su Sanam si poteva sempre contare per una battutavolgare o uno scherzo impertinente: lei non si tirava maiindietro. Benazir era più formale, più distaccata, per tuttotranne che per quanto riguardava sua sorella, che trattavasempre come se fosse in dolce attesa. Le bambinedormivano nella stessa stanza; erano riuscite a ottenereche le pareti fossero dipinte di nero e le tende rifinite conun tessuto a righe bianche e nere che ricordava le sbarredi una prigione, e fumavano di nascosto nello spogliatoioindossando guanti di pelle e sistemandosi degliasciugamani umidi sulla testa affinché il fumo nonmacchiasse loro le unghie e i capelli non puzzassero difumo. Quando, da bambina, ne sentivo parlare, quelleragazze mi sembravano terribilmente ribelli e sfrontate; edero sempre ansiosa di ascoltare nuovi aneddoti sulla loroirrequieta adolescenza, immaginando che un giorno ol’altro anch’io avrei imparato a fumare in un piccolospogliatoio con quell’incredibile noncuranza (anche se,siccome durante la mia adolescenza andavano di moda i

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punk, rinunciavo volentieri all’asciugamano bagnato peruna cresta di capelli rosa). Papà mi guardava accigliatoquando manifestavo troppo entusiasmo per le stravaganzedelle mie discole ziette; allora io mi buttavo a terra dalridere e lo rassicuravo che no, no, stavo scherzando, non cipensavo nemmeno a fumare con addosso i guanti di pelle!Dovevano essere sembrate delle sciocche…

Murtaza e Shahnawaz dormivano insieme nella stanza difronte a quella delle sorelle, o almeno finché non sitrasferirono nella dépendance per i loro zii, Imdad eSikandar. I due ragazzi avevano fatto dipingere la lorostanza di «rosso comunista» e ne avevano coperto lepareti con poster dei Kiss e dei Beatles, bandiere conl’immagine di Lenin che il padre aveva portato dall’UnioneSovietica e un grande ritratto rosso e blu di Che Guevara.Diventati più grandi, e più pigri rispetto alle rigidità dellascuola e alla quotidiana sveglia alle sette, preserol’abitudine di fare le ore piccole parlando e camminando sue giù per la stanza per poi andare a letto alle due delmattino già vestiti, pronti per la scuola, cercando di dormirecompletamente immobili per non spiegazzare troppol’uniforme. Murtaza, da sempre ossessivo-compulsivo pertutto ciò che riguardava il suo aspetto, si alzava comunqueabbastanza presto per spazzolarsi i capelli e radere i pochipeli dispersi attorno a quelli che lui sperava potesserodiventare due bei baffi. Shah, invece, schizzava fuori dallecoperte all’ultimissimo minuto, si lavava i denti, riempiva illavandino d’acqua fredda e ci ficcava dentro la testa, poi siprecipitava giù per le scale e si tuffava in macchina. Più

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tardi, i due ragazzi avrebbero sviluppato un esigenteregime sartoriale detto «vestito e calzato».

Sulla pagella dell’undicesima classe, sotto i voti dichimica, un insegnante ha scritto con l’inchiostro rosa:«Sarebbe una mossa giudiziosa lasciar perdere lachimica». Con il primo anno delle superiori, la posizioneaccademica di Murtaza migliorò significativamente: inconoscenze religiose recuperò l’insufficienza, la chimicascomparve dal suo programma di studi e in algebraottenne un quasi miracoloso «sforzo eccellente». Un altro«maestro», come alla Grammar School insistevano achiamare gli insegnanti, scrive: «Il miglioramento diMurtaza nella maggior parte delle materie e l’abbandonodelle scienze hanno fatto una grande differenza - una cosasplendida!». All’esame di diploma fu il secondo della suaclasse.

Murtaza ottenne buoni voti anche agli A-levels,l’equivalente della dodicesima classe inglese, pur senzasforzarsi molto - aveva fatto domanda d’ammissione alcollege sulla base dei risultati agli O-levels, l’equivalentedella decima e undicesima classe - e negli ultimi mesi discuola dedicò buona parte del tempo a inseguire un altrogenere di conoscenza. Si era iscritto a una palestra di taekwon do, e si stava allenando per diventare cintura nera.Per due anni, inoltre, ottenne il brevetto di pronto soccorsodella St John’s Ambulance Association, e ricevette varipremi dalla Duke of Edinburgh.

Insieme a suo fratello Shah, dunque, Murtaza ebbeun’infanzia idilliaca, pur fra le incertezze della nuova, fragile

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indipendenza nazionale. Mentre infuriava la guerra del1965, che portò fin dentro Karachi il rumore delle sireneantiaeree e degli allarmi, come tutti i bambini sognò didiventare pilota di caccia. Confessa: «Ero affascinato daijet da combattimento […] Immagino fosse perché la guerraera appena scoppiata, e vedevo sempre gli aerei atterraree decollare - l’infanzia è molto impressionabile». 7

Fu in questi primi anni che Murtaza e Shah svilupparonoun legame destinato ad accompagnarli fino all’età adulta.Spontaneamente vicini e protettivi l’uno nei confrontidell’altro, tutti e due, ma soprattutto Murtaza, il primomaschio, erano trattati con una certa severità dal padre,che teneva loro le redini corte. Murtaza e Shahnawazricevevano una paghetta di cinquanta rupie al mese, vale adire che dovevano unire i fondi ogni volta che volevanodivertirsi o sperperare un po’ di quattrini per qualcosa dispeciale. «Due governi prima», spiega educatamente ilmiglior amico di Murtaza da adulto, Suhail Sethi, un po’ adisagio per l’apparente avarizia di Zulfikar, «i figli di AyubKhan erano cresciuti come selvaggi per colpadell’agiatezza che il loro padre poteva permettersi inseguito alle ruberie che aveva commesso nella sua attivitàdi governo. Z.A.B. non voleva che questo accadesse anchenella sua famiglia, voleva assolutamente tenere i figli sullaretta via».8 Fra Suhail e me cala un istante di silenzio.Mhm, penso: tutti i suoi figli? «Be’, stiamo parlandosoprattutto dei figli maschi, che allora erano considerati unpo’ i rappresentanti della famiglia», precisa infine Suhail.

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«Nel suo primo discorso televisivo, subito dopo averassunto la presidenza, Z.A.B. disse molto chiaramente:questo governo sarà diverso, non ci sarà spazio per ilnepotismo.» Ho visto il filmato di questo discorso. ÈZulfikar al suo meglio, si esprime con la sua tipicaschiettezza. Porta i soliti occhiali dalla montatura in spessaplastica nera e parla seguendo gli appunti, che a un certopunto mostra alla telecamera come a indicare che sonosolo appunti, che sta parlando col cuore. Usa l’inglese, e aun certo punto si scusa con il pubblico dicendo che glidispiace dover fare così - lui che spesso parlava in urdu,anche se perfino i bambini piccoli ridevano dei suoi errori -ma dopo la disgregazione del Pakistan Orientale gli occhidel mondo intero erano puntati su di noi, e bisognavaparlare in modo che tutti potessero capirci. Poi assicurache non ci sarà né nepotismo né corruzione ad opera dellasua famiglia: lo giura. «Ho un cugino di grande talento»,dice Zulfikar come tra parentesi riferendosi a MumtazBhutto, membro fondatore del PPP ed ex ministro capo delSind, e aggiunge che gli piacerebbe averlo accanto neicompiti di governo. Lui e nessun altro, promette. Non siconcederà altro. Per questo Zulfikar pensava fosse suodovere bacchettare i figli fin dalla più tenera età, temprarli efarne dei veri uomini, anche se erano ancora soltanto deibambini. Con i maschi non era affatto indulgente orilassato come con le femmine; da loro esigeva sempre laperfezione, non era disposto a perdere tempo pervezzeggiarli o per giocare. Una volta i ragazzi andarono ingita a Larkana insieme a un loro cugino, Bhao; questo,

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avendo vissuto sempre e soltanto quell’esistenza feudaleche raramente Zulfikar concedeva ai suoi figli, tendeva acomportarsi molto da chota sahib. Mentre erano seduti atavola, in sala da pranzo, in attesa di mangiare, Bhaoprese dunque il suo fucile da caccia e saltò in piedi sullasedia puntandolo contro i cugini come se fossero i bersaglidi un tiro a segno. Pestò il piede sulla sedia per imitare ilrumore degli spari come li aveva sentiti nei film diBollywood e per tutto il tempo, senza riflettere, tenne il ditosul grilletto. A un certo punto di questo stupido gioco glipartì un colpo, che ferì Murtaza alla schiena, sopra lascapola. Il poveretto si accasciò sul tavolo, mentre Bhao ele ragazze scoppiarono a ridere, convinti che stessescherzando. Ma Shah, che vegliava sempre su di lui conuna premura più unica che rara tra fratelli, vide subito ilsangue filtrare attraverso il salwar kameez. Diede unospintone a Bhao facendolo cadere dalla sedia e non siallontanò più dal fratello finché non fu portato in ospedale ela pallottola non fu rimossa senza ulteriori complicazioni.

Anche Murtaza, però, adorava Shah. Lo viziava, non lomandava mai via quando riceveva i suoi amici e loproteggeva con sguardo vigile e attento. Ogni volta cheShah si azzuffava nel cortile della scuola - era moltoorgoglioso e battagliero nei confronti di chiunque osasseinfastidirlo o dire qualcosa di vagamente offensivo sullasua famiglia - Murtaza interveniva in sua difesa. Lodifendeva anche dal padre, che supplicava di nonmandarlo in collegio - o a una scuola militare nel cuore delSind, se l’aveva fatta davvero grossa - quando aveva

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infranto una regola importante del codice di Zulfikar. A uncerto punto della loro carriera scolastica sia Sanam siaShah furono effettivamente mandati in collegio, maentrambi riuscirono a evaderne: Shah perché suo fratelloottenne di fargli avere la libertà condizionata per buonacondotta, Sanam perché scavalcò il muro perimetrale dellascuola, fece l’autostop e convinse un camionista a portarlafino alla residenza ufficiale occupata in quel momento daZulfikar.

Fu solo attorno ai dodici anni che Murtaza acquisì unacerta consapevolezza delle dinamiche politiche in cui eraimmersa la sua famiglia.

All’inizio non capivamo bene cosasignificasse tutta quella storia del ministero.Ovviamente c’erano dei poliziotti sempre tra ipiedi e godevamo dei normali privilegi dellaterritorialità, ma niente di tutto ciò cisembrava avesse un significato particolare.Voglio dire, sapevamo che mio padre era unuomo importante perché alla radio sentivamocontinuamente il suo nome, ma fu solo nel1966, quando uscì di prigione, che cirendemmo conto del fatto che era una cosa

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davvero seria.9

Zulfikar aveva appena fondato il Partito del popolo delPakistan e, dalla sera alla mattina, smise di esseresemplicemente un ministro per diventare un’icona politica.

Vedevamo tutta quella gente, l’isteria e lepassioni suscitate sotto i nostri occhi,soprattutto alla stazione ferroviaria di Lahore[dove Zulfikar aveva tenuto un comizio dilancio del PPP], e tutto ciò ci colpiva molto.Io avevo circa dodici anni, e da quelmomento in poi non persi occasione diaccompagnare papà. In quegli anni però erocoinvolto dalla politica soprattutto comespettatore, non pensavo certo a me stessocome a un attore.1011

Fu allora che Murtaza cominciò a collezionare ritagli digiornale, per registrare gli avvenimenti politici del paesenonché l’ascesa e la caduta del partito di suo padre. Siimpadroniva dei quotidiani non appena arrivavano a casa,

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li sfogliava famelicamente e segnava con un tratto di pennagli articoli che gli sembravano degni di essere primaasportati e poi passati con grande cura - era un meticolosoVergine, le linee precise erano tutto per lui - dalla grandepagina del quotidiano all’archivio. Comprava dei sempliciquaderni, alcuni con dei fiori psichedelici sulla copertina,molto anni Settanta, altri più semplici, da contabile, austerie simili a notes da lavoro. Uno dei tanti, prodotto dallaHamdam Book Binding Works di Karachi, ha in copertinaun acquerello dei Giardini Shalimar. Sospesa a mezz’ariasul laghetto di Shalimar un’etichetta bianca con le parole«nome/materia/classe/sezione» scritte in blu scuro, e sottodelle righe vuote. Non è stata compilata. Tutte le rispostesono all’interno.

I ritagli vengono da giornali sia in urdu sia in inglese, esono fissati con lo scotch. Ci sono fotografie di Zulfikar chearringa la folla un po’ in tutto il paese, a Murree, a Korangi,a Kahuta. Ci sono foto di disordini, principalmentefuribondi raduni religiosi del Jamaat-e-Islami contro Zulfikare il suo partito. E poi dichiarazioni, forti, baldanzose: «IeriMr Zulfikar Ali Bhutto ha detto che il suo partito non credenelle coalizioni politiche». «Noi ci coalizziamo solo con ilpopolo», recita un ritaglio del «Daily News» di domenica27 luglio 1970. Un altro articolo, tratto da un quotidiano diLahore e datato 2 ottobre, strilla a caratteri cubitali: «Bhuttodice: NESSUNO OSERÀ MAI…», seguito da: «Ilpresidente del Partito del popolo, Z.A. Bhutto, ha dichiaratoieri che nemmeno unendosi tutti insieme gli altri partitipolitici del paese potrebbero battere il Partito del popolo.

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[…] E ha aggiunto che spazzerà via le tangenti, lacorruzione e il nepotismo».

Murtaza conservava tutto. Nessuna storia era troppopiccola o troppo grande per lui; un’abitudine che si èportato dietro per tutta la vita. Più tardi, quando erobambina e vivevamo in esilio a Damasco, mio padre e ioavevamo l’abitudine di sederci al tavolo insieme, dopocena, per ritagliare i quotidiani. Ciascuno aveva il suoquaderno. Io ritagliavo i fumetti, soprattutto Garfield, mentrepapà ritagliava nuove storie dal Pakistan.

Fu allora, negli anni della sua adolescenza, che Murtazascoprì l’universo della politica, e che questo universo glifece qualcosa - qualcosa di strano. Lo consumò, lo bruciòelettrificando ciò che pensava sia di sé stesso sia delmondo. Cominciò a leggere, a studiare per conto suo. Idiari di Che Guevara e la dialettica di Mao divennero lepietre miliari della sua ideologia. Gudu, che collaborò conun Murtaza quattordicenne, ricorda come il suo amicofosse «silenzioso, sempre immerso nei suoi pensieri», ma«molto ideologico sul tema dell’amicizia sino-pakistana.Leggeva molto Mao, e spesso andavamo all’ambasciatacinese a vedere i film cinesi».

Gudu e Murtaza organizzavano anche delle marce percelebrare i momenti più famosi della vita e del martirio diChe Guevara. In queste occasioni mettevano un basconero e portavano dei manifesti con il ritratto del loro eroe;una volta riuscirono perfino a convincere un drappello disoldati russi in licenza, che si aggiravano per il mercatoSaddar, a unirsi a loro. Di solito però seguivano una

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routine piuttosto spartana. Quasi tutti i giorni andavano anuotare a Clifton Beach, studiando di far coincidere i loroorari con quelli in cui la polizia a cavallo di Karachi portavale bestie su quella spiaggia sabbiosa per il bagnettopomeridiano. A volte invece si recavano al tempio sufi diMango Pir, alla periferia di Karachi, dove i discepoli dellosheedi locale nutrivano e accudivano un gruppo dicoccodrilli in cui credevano di riconoscere lareincarnazione del loro santo. Gudu ricorda che Murtazaavrebbe tanto voluto toccarli, ma non osò mai farlo.Quando avevano poco tempo, Gudu e Murtaza prendevanola bicicletta e andavano al tempio di Abdullah Shah Gazi, ilsanto patrono di Karachi, o a un tempio indù poco lontanodal 70 di Clifton Road. Sedevano insieme ai fedelimusulmani o indù, mangiavano dei cibi deliziosamenteunti, poi chiedevano permesso e se ne andavano. Quandoerano in vena di sentimentalismi e si sentivano insicuri suquale fosse il loro posto nel mondo si mettevano nellavasca da bagno di ceramica nera di Murtaza, vuota, erimanevano a parlare, con le ginocchia piegate e i crampialle gambe, fino a notte fonda.

Un giorno presero tenda e torcia elettrica e siaccamparono nel giardino del 70 di Clifton Road. «Credofosse una ribellione contro non so cosa», ricorda Gudu.«Per mangiare andavamo a casa, ma per il resto cisforzavamo di vivere nella natura.» Man mano che la nottesi faceva più fonda e la conversazione su Che Guevara esul socialismo mondiale più infiammata, «capimmo chedovevamo fare qualcosa», racconta Gudu. «Era una fase

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particolarmente politicizzata - Zulfikar Ali Bhutto avevaappena lasciato il governo del generale Ayub - e anche noivolevamo fare qualcosa. ‘Facciamo una rivista’, dissi io.»E la fecero.

Durante la campagna elettorale di Zulfikar avevanoconosciuto alcuni stampatori, così ottennero un accordoper cui le pagine interne della rivista sarebbero statestampate praticamente a costo zero purché pagassero icolori della copertina. Raccolsero un po’ di amici e dicompagni di scuola, abbastanza esperti del mondo daapprezzare la loro ossessione per il socialismoprogressista, e li convinsero a scrivere per loro. Insieme, idue amici selezionavano gli articoli che sarebbero usciti suogni numero. Avevano una propria impostazione, e siimpegnarono molto per far sì che la rivista riflettesse il loroidealismo giovanile. «Per tutta la campagna elettorale cioccupammo degli slum di Lyari», ricorda Gudu. «Cisentivamo dalla parte dei poveri, quella gente ciinfluenzava moltissimo. Era la fine degli anni Sessanta - unperiodo di grande radicalismo politico.»

Shah, che all’epoca era troppo piccolo per scrivere sullarivista, partecipò all’impresa come pubblicitario e venditoreambulante. Pur essendo molto giovane, non perdevaoccasione per seguire Murtaza a fare campagna elettoraleo in viaggio con il padre. Zulfikar incoraggiava sempre ilfiglio più giovane a seguire il fratello maggiore, felice diconstatare che entrambi dimostravano di avere laresistenza e l’interesse necessari per seguire le faticosecomplicazioni quotidiane di una campagna elettorale.

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Durante quella del 1970, alla quale parteciparonoviaggiando per tutto il paese per sostenere i candidati delPPP, uno dei loro incarichi principali fu quello dicollaborare alla stampa di volantini e manifesti. Murtazariusciva sempre a trovare degli stampatori chesimpatizzassero con il partito e che ce l’avesseroabbastanza con la dittatura di Ayub da stampare gratis illoro materiale politico. All’epoca il PPP aveva pochissimifinanziamenti, non era ancora il mega conglomeratopolitico che è oggi, bensì un partito giovane con deicandidati poveri - erano insegnanti e sindacalisti a reggereil timone, non proprietari terrieri e uomini d’affari. Nonancora.

Murtaza, che non aveva ancora diciotto anni, andò aLarkana, il distretto elettorale di suo padre, per incontraren e i panchayat gli abitanti dei villaggi. «I giovani loseguivano dappertutto», ricorda Gudu, che l’accompagnòa molti comizi. «Volevano toccarlo, stargli accanto. Luiascoltava tutti. Parlava con tutti e discuteva dei loroproblemi. Anche suo padre parlava molto con lui: eranoconversazioni private, quelle fra loro due, ma si stabilivauna sorta di connessione speciale quando l’argomento eral’impegno politico, e Mir ascoltava sempre con grandeattenzione. » A un certo punto Murtaza cominciò adaccogliere le petizioni legali di quegli attivisti che altrimentinon avrebbero avuto accesso alla giustizia. L’intestazionedi una di queste petizioni recita: «Illegalità commesse dallapolizia di Garhi Yasin nel portar via illegalmente mia figlia».Il querelante è un cittadino di Naudero, la regione in cui si

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trovano i terreni agricoli dei Bhutto, il quale dichiara: «Nonvedendo altra soluzione possibile, chiedo a vostraeccellenza di aiutarmi gentilmente a riavere mia figliaRoshan Khatoon, il cui caso non è stato risolto dalla cortecivile di Larkana. Per questo vi sarò eternamente grato, egrazie in inticipo [sic]. Ali Sher». Murtaza rispondeva a tuttequeste ingenue richieste, e sempre cercando di fare delsuo meglio. «Era diventato il suo scopo nella vita», spiegaGudu; e non si lasciava turbare dal fatto che questioni delgenere fossero sottoposte a un ragazzo come lui. «Cimetteva il cuore. Mir andava incontro alla gente con grandedignità, e la gente si fidava di lui, nonostante la suagiovane età.» Anni dopo ho ritrovato queste petizioni,legate insieme a un’altra ventina di richieste, che in alcunicasi gli erano state inoltrate al college, negli Stati Uniti, eche lui aveva conservato in una piccola scatola di cartone.Non le aveva mai buttate via.

Fu proprio perché le imminenti elezioni erano sempre alprimo posto nei loro pensieri che Murtaza e Gudu deciserodi chiamare la loro rivista «Venceremos», il grido dibattaglia da tempo associato a Castro, a Che Guevara ealla rivoluzione cubana. Sulla copertina del primo numerodi «Venceremos» c’è l’iconico ritratto del Che di AlbertoKorda, stampato in rosso mattone. La rivista si apre con unmessaggio firmato dai due redattori:

È con armoniose emozioni, destinate forse a

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essere infrante, che mandiamo in stampaquesto numero di «Venceremos». È nostrasperanza, nostro obiettivo e nostradeterminazione che «Venceremos» arda inuna grande fiammata […] che un fuocopossa avvampare nella mente degli uomini.Speriamo che «Venceremos» aiuti laconsapevolezza del popolo, e soprattuttoquella del proletariato, perché il nostromessaggio è destinato a loro; tutti i mali dellanostra società, l’assurdità della loro vita, illoro vano senso dei valori […] Che essiriescano a liberarsi, ad abbattere questastruttura sociale e, così rinnovati, costruireuna nuova società, una nuova nazionebasata sulle leggi fondamentali della naturaumana: per amore dell’umanità stessa. Noivogliamo che finisca lo sfruttamentodell’uomo sull’uomo.

Questa raffica di parole d’ordine alla «Internazionale» sichiude con una poesia: «VENCEREMOS, / Sollevatevi voiprigionieri della fame, / Sollevatevi voi disgraziati dellaterra, / perché la giustizia fa risuonare la sua condanna, / unmondo migliore sta per nascere». Nonostante la suaeccitazione e la grammatica un po’ incerta, e purinfluenzando il tono di tutta la rivista, questa introduzione

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non la contagia del suo colore; la maggior parte degliarticoli è incredibilmente seria. Indonesia: la caduta di unanazione, I disastri della politica americana in Vietnam,Sullo stato dell’economia pachistana. Murtaza firma per larivista articoli come La terra dimenticata da Dio, checomincia: «Le valli del Kashmir, le più belle del mondo, perdecenni sono state lordate dal sangue del loro stessopopolo […] La gente del Jammu e del Kashmir deve capireche “la rivoluzione non è un pranzo di gala” né una marciadi protesta: la rivoluzione è sostanzialmente una guerra trasfruttatori e sfruttati».

Quando finalmente riesco a rintracciarlo, dopo mesi diricerche in cui ho messo a dura prova la pazienza e lagentilezza di persone che non conosco, ma nella cuisegreteria telefonica ho lasciato commoventi messaggiper lui, scopro che il vecchio amico di mio padre vive aWashington DC, dove lavora contemporaneamente comecuoco e come naturopata per finanziare i lunghi eambiziosi viaggi in giro per il mondo che gli permettono distudiare con sciamani e guaritori. Mi racconta con vocelieve, quasi fragile, del varo della rivista: «In quel periodoc’erano sempre delle rivolte studentesche contro il regimedi Ayub, così noi andavamo all’università di Karachi e nedistribuivamo qualche copia. Altre le spedivamo a Lahoreperché qualcun altro le distribuisse all’università delPunjab. Mir voleva che la rivista restasse ideologicamentevincolata ai giovani». Gudu e io trascorriamo una bellagiornata primaverile seduti nel portico della sua casa in

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condivisione - dove conserva ancora alcune copie di«Venceremos», ormai vecchie di un decennio - e alMeridian Hill Park, noto anche come parco Malcolm X, nelmultietnico quartiere di Columbia Heights. Il parco, che i sitiweb su Washington descrivono come un rumorososantuario hippy e come un noto luogo di perdizionefrequentato dai peggiori elementi della città, appare bellonella soleggiata giornata di aprile. Io mi trascino dietrol’ingombrante borsone con la macchina fotografica, econtro ogni logica indosso un maglione; così sono sfinitaquando ci sediamo accanto alla fontana a tredici vasche.Mostro a Gudu qualche fotografia di mio fratello Zulfi. Luifuma, io piango un po’. Alternativamente, ogni ventina diminuti, apro il mio quadernetto per buttar giù qualcosa, etocca a Gudu mettersi a piangere. Quando ci lasciamo gliprometto di mandargli una copia del libro. «Non so dovesarò», mi dice in un sussurro. Insisto che, quando il librosarà pronto, saprò ritrovarlo di nuovo; in fondo, ci sono giàriuscita.

Altri numeri di «Venceremos», con Ho Chi Minh incopertina e rabbiosi articoli contro lo shah dell’Iran, alleatodi Zulfikar (che lo giudicava sgradevole e insopportabile,ma pur sempre un alleato) furono portati a Saddar edistribuiti per strada a lavoratori e passanti. L’idea delfiglio di un potente uomo politico fermo a un incrocio eintento a sbolognare Lenin al primo che passa fa ridereGudu. «Era bello essere giovani», commenta.

Nell’autunno del 1972 Murtaza vinse una borsa di studioper Harvard. «Caro Mr Bhutto», dice la lettera, datata 9

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giugno 1972, «la decisione presa dal comitato ammissionie borse di studio di ammetterla al nostro ateneo dimostrache la riteniamo qualificato intellettualmente e umanamenteper frequentare Harvard.» Chase N. Peterson, presidentedel comitato, firma la lettera con una C rotonda e una lungaP. Era la prima volta che Murtaza lasciava il Pakistan dagiovane uomo.

Verso la fine degli anni Sessanta il governo di AyubKhan cominciò a perdere la presa sul paese. Nel 1967 gliStati Uniti gli tagliarono gli aiuti militari.12 La politicaestera unilaterale di Ayub faceva acqua da tutte le parti: ilPakistan si ritrovava senza soldi e isolato sul pianodiplomatico, per non parlare del fatto che aveva perso lafaccia quando gli Stati Uniti si erano avvicinati all’India, suotradizionale avversario. Il paese ormai contava così pocoper gli americani che, nel 1968, questi ultimi non si preseronemmeno la briga di rinnovare la concessione per la basedi Badebar, vicino a Peshawar.13

A livello interno, Ayub era diventato «il simbolo delladiseguaglianza, di tutto ciò che non stava andando per ilverso giusto»,14 e non faceva che perdere terreno. Ma ilPPP di Zulfikar Ali Bhutto non era l’unica formazione aminacciarne la stabilità: nel Pakistan Orientale c’era laAwami League, fondata nel 1949, che ormai era diventatauna forza politica con cui non si poteva non fare i conti.

Fin dalla Spartizione l’etnia bengalese, che popolava la

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maggior parte del nuovo paese, si era sentita alienata nelvedersi affibbiare la definizione di pachistani orientali; efinalmente anche per loro era venuto il momento di agire, dichiedere qualcosa di più. Il Pakistan Orientalecomprendeva più del cinquanta per cento dellapopolazione nazionale, eppure era fisicamente separatodal Pakistan Occidentale da più di mille miglia di territorioindiano. Ma non era solo la distanza fisica dal governocentrale a far sentire tanto estraniati i suoi abitanti; anche alivello economico tra i fondi allocati alle varie province c’erauna disparità tremenda, ed erano sempre il Bengala oPakistan Orientale a estrarre la paglia più corta. Sul pianoculturale, infine, i pachistani orientali erano offesi perché ilbengalese non era stato adottato come lingua ufficialedello stato insieme all’urdu - parlato dall’etnia muhajir, cheaveva varcato la frontiera indiana in seguito allaSpartizione - e all’inglese.

Fu sotto la leadership di Sheikh Mujibur Rehman - exdirigente studentesco attivo nella costruzione del nuovoPakistan, capo della Awami League e talmente dedito alsuo paese che di lui si narra che abbia attraversato inbicicletta il nuovo confine per raggiungere la patriapromessa - che il Pakistan Orientale esposepubblicamente le sue rimostranze con il Programma in seipunti del 1966. Questi sei punti riassumono lerivendicazioni del suo partito: forma di governoparlamentare con un parlamento centrale eletto dal popolo;limitazione dei poteri del governo federale alla difesa e allapolitica estera, lasciando tutte le altre questioni a delle

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unità elette; introduzione di politiche fiscali idonee o anchedi valute diverse al fine di bloccare la fuga di capitali dalPakistan Orientale; limitazione al governo federale delpotere di imporre tasse; diritto, per le province, di stringereaccordi commerciali indipendenti con paesi esteri e diesercitare il pieno controllo sulla valuta estera cosìguadagnata; e infine il diritto, sempre per le province, diavere, qualora lo ritenessero necessario, proprie forzemilitari e paramilitari.15 In sostanza, e con buonaeducazione, la Awami League chiedeva ben piùdell’autonomia provinciale: chiedeva una nazione propria.

Il governo di Ayub non cedette su nemmeno uno dei puntirichiesti. Il dittatore si sentiva minacciato da quelle che,secondo lui, erano le ambizioni separatiste della AwamiLeague. Nel 1968 Mujib fu arrestato con l’accusa ditradimento e secessione. Anche Zulfikar fu arrestato: infondo, il nuovo partito non chiedeva niente di meno che uncompleto rivolgimento del sistema politico e la fine delregime. Per questo il suo fondatore finì in prigione, verso lafine del 1968 - dopo di che passò da un carcere all’altroper i successivi tre mesi, finché nel gennaio del 1969 furilasciato. Per quanto riguarda i sei punti della AwamiLeague, il PPP, come precisa Mr Mubashir Hasan, «neaccettava cinque e mezzo» in quanto respingeva l’idea deiparlamenti distinti e della moneta bengalese.

La debolezza e l’insicurezza politica di Ayub di fronte aqueste due crescenti minacce politiche aprì la strada allalegge marziale. Il 26 marzo 1969 il generale Agha

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Mohammad Yahya Khan, comandante in capo delle forzearmate, la proclamò infatti autonominandosi suoamministratore. Quattro giorni dopo la costituzione del1962 - un documento che non valeva nemmeno la carta sucui era scritto - fu abrogata, e Yahya Khan divennepresidente del Pakistan. Ayub, gravemente malato, sidimise senza opporre resistenza, e nuove elezioni furonoconvocate per l’anno seguente. Zulfikar, il cui sensodell’umorismo tendeva un po’ al malizioso, conservòcomunque un ricordino del suo datore di lavoro: un granderitratto del generale in alta uniforme. Lo fece dipingere sucommissione propria e lo appese in salotto a Larkana.Qualche tempo fa i discendenti del generale hanno chiestodi poterlo comprare, ma le regole della famiglia - stilate etrasmesse da Zulfikar stesso - non lo permettono. Ayub èancora appeso alla parete del salotto.

Il ritorno al governo costituzionale era dunque previstoper l’ottobre del 1970, ma poi fu rimandato a dicembre,quando il Pakistan si sarebbe presentato al mondo conuna costituzione nuova di zecca. La campagna elettorale fuaccanita. L’Awami League si attenne fermamente alla suapiattaforma in sei punti, senza cedere di un millimetrorispetto alle sue rivendicazioni. Zulfikar partì per un intensotour che toccò tutto il Pakistan occidentale presentandoovunque la piattaforma nazionale del PPP, un documentodecisamente di sinistra. «Era un uomo di grandeenergia»,16 ricorda Miraj Mohammad Khan, membrofondatore del partito. «Se ne stava sotto la pioggia a

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parlare anche solo a dieci persone esattamente come sefossero state diecimila.»

Il manifesto del PPP per le elezioni del 1970 prendevafermamente posizione contro la politica estera unilateraledi Ayub, affermando che il Pakistan «era stato usato comeuna pedina sulla scacchiera internazionale dai suoi alleatineocolonialisti»17 e che l’unico modo per farne unanazione davvero indipendente era metter fine a tutte leprecedenti alleanze. Le linee di politica estera e ilproblema della sovranità del Pakistan facevano daintroduzione al manifesto programmatico vero e proprio; eanche se ci sono degli elementi comuni fra questo testo e ilprecedente pamphlet del partito, Fondazione e politiche,nel quale si definivano gli obiettivi di fondo della nuovaorganizzazione, per esempio la solidarietà con tutti i paesimusulmani e con le nazioni sorelle del Terzo Mondo, nonmancano neppure importanti novità.

Lavorando al testo insieme ai suoi compagni, Zulfikar viha tradotto la sua visione del bilateralismo in politica esteraancora più chiaramente di quanto non avesse fatto inprecedenza. La sua era l’unica voce in tutto il Pakistan achiedere l’uscita dal Commonwealth britannico, che, a suoavviso, aveva «perso qualsiasi significato che poteva averavuto in passato» abbassandosi a servire interessicoloniali e schierandosi dalla parte degli Stati Uniti nellaguerra del Vietnam.18 Zulfikar non credeva che i rapportifra Pakistan e Commonwealth potessero essere diqualche utilità per il suo paese e lo disse chiaramente nel

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documento programmatico, nel quale si precisava ancheche, in futuro, il Pakistan avrebbe stretto solo rapportiinternazionali basati sulla reciprocità e sull’interesse dientrambi i contraenti. (Nel 1972, durante la presidenza diZulfikar Ali Bhutto, il Pakistan sarebbe uscitospontaneamente dal Commonwealth per farvi ritorno nel1989, sotto il premierato della figlia di Zulfikar, Benazir.)

Le prime elezioni generali basate sul principio «unatesta, un voto» che il Pakistan avesse mai conosciuto sisvolsero il 3 dicembre 1970. Ventitré partiti politici sicontesero i 291 seggi dell’Assemblea nazionale, per untotale di 1237 candidati; 391 si presentarono comeindipendenti.19 I risultati, com’era prevedibile, furonodisomogenei: l’Awami League vinse nel PakistanOrientale, mentre il PPP ebbe la maggioranza in quellooccidentale, stravincendo addirittura nel Punjab e nel Sind.Siccome però il Pakistan Orientale rappresentava da soloil 56 per cento della popolazione del paese, la bilanciapendette dalla parte dell’Awami League. Qualsiasi assettocostituzionale dipendeva dal fatto che i due principali partitiraggiungessero un accordo per la condivisione del potere:tendenzialmente, Mujib si sarebbe tenuto il PakistanOrientale e Zulfikar quello occidentale, mentre il generaleYahya Khan sarebbe rimasto a capo dell’esercito.

Mujib però voleva che la costituzione fosse stilata dalsuo partito, e voleva essere lui a formare il nuovo governo;Zulfikar invece era diffidente, e non credeva troppo allerassicurazioni dell’esercito che il PPP avrebbe avuto sulle

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procedure relative altrettanto controllo dell’Awami League.In realtà, promettendo potere e posizioni a entrambi i partitil’esercito li metteva l’uno contro l’altro, rendendoimpossibile raggiungere un assetto stabile e armonioso.Dopo decenni di egemonia della parte occidentale delpaese l’esercito - le cui basi si trovavano nel Punjaboccidentale - non aveva alcun interesse a cederne una fettaai compatrioti d’oriente. Al tempo stesso però eraaltrettanto restio a permettere a quel socialista di Zulfikar ditradurre la vittoria elettorale del suo partito in una stabilecompagine governativa. Il 1° marzo 1971 i lavoridell’Assemblea nazionale furono sospesi e il generaleYahya Khan sciolse il suo stesso gabinetto civile: l’esercitomise il veto alla proposta di un governo di coalizione el’Awami League perse definitivamente l’occasione dientrare a far parte di un governo nazionale. Tumultiesplosero in tutto il Pakistan orientale. E il bagno di sangueebbe inizio.

Nel Pakistan Orientale fu lanciata una campagna didisobbedienza civile: molti bengalesi si rifiutarono dipagare le tasse e ignorarono volutamente la censuramilitare sulla stampa e sulle trasmissioni radiofoniche.20Intanto, all’altro capo del mondo, ad Harvard, Murtazascopriva di essere tenuto d’occhio dal dipartimento di statoamericano. Suo padre, non ancora presidente, non eraabbastanza importante da dargli una scorta mentrefrequentava il college; ma contro di lui erano stateformulate minacce di morte provenienti da ambienti

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bengalesi, e il dipartimento le aveva prese sul serio. Poi,quando Zulfikar fu informato del fatto che la vita di suo figlioera in pericolo, il ragazzo ebbe una scorta, grazie anchealla collaborazione degli iraniani che mandarono alcuniagenti dall’aspetto giovanile a vegliare su di lui. Duecompagni di stanza di Murtaza ad Harvard, Peter Santin eBill White, ricordano di aver scoperto solo molto tempodopo che Mir viveva nel pericolo. Lui aveva sempreminimizzato, per non preoccuparli. Parecchi anni dopo,quando li ho intervistati, entrambi si sono cuciti le labbra:l’argomento, per loro, era ancora delicato. Un agenteiraniano cominciò dunque a seguire Murtaza in giro per ilcollege, mangiando cibo cinese insieme agli studenti egiocando a carte nel dormitorio. Gli altri ragazzi forse nonse ne accorsero: quando ho chiesto agli amici di Mir,hanno finto di non avere niente da dire.

I militari, com’era prevedibile, reagirono ai disordini nelPakistan Orientale con la forza bruta, e più precisamentemandando il generale Tikka Khan, un militare noto per lasua ferocia, ad assumere l’autorità militare nella provincia.Il generale Tikka Khan, laureato a Dehra Dun e ufficialedella seconda guerra mondiale che aveva combattuto suifronti burmese e italiano sotto i vessilli del raj, godeva diuna pessima reputazione. Era soprannominato «macellaiodel Belucistan» per il ruolo che, all’inizio degli anniSessanta, aveva avuto nella repressione dei disordinisecessionisti; e presto avrebbe aggiunto al suo curriculum«macellaio del Bengala».

Il 25 marzo 1971 i colloqui fra Bhutto, Yahya e Mujib si

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erano ormai bloccati, così i militari misero in atto un pianod’emergenza: nel giro di ventiquattr’ore Mujib fu arrestato,l’Awami League fu sciolta e in tutto il Pakistan fu proibitaqualsiasi forma di attività politica.21 A mezzanotte ilgenerale Tikka Khan guidò l’assalto alla Dhaka Universitye ad altri luoghi sensibili nei quartieri vecchi della città.Migliaia di persone furono uccise. Il Pakistan sprofondò inuna sanguinosa guerra civile, mentre i Rifles pachistano-orientali, un gruppo paramilitare, si ribellavano e si univanoagli insorti. L’esercito affrontò la ribellione lanciando unaferoce offensiva contro i bengalesi: nel giro di sei mesi cifurono migliaia di morti e di feriti nonché dieci milioni diprofughi, migliaia dei quali scapparono oltre il confine conl’India.

La violenza dello scontro fu terribile. Secondo le notizieprovenienti dal Pakistan Orientale il numero delle vittimecivili fu nell’ordine dei milioni, si parlava di circa tre milionidi morti. L’esercito pachistano, attraverso la commissione-farsa Hamood-ur-Rehman - il cui rapporto fu dettatodall’esercito stesso, e mai letto per intero da nessuno -disse che il numero dei morti era piuttosto vicino ai trentamila, un semplice danno collaterale della guerra. I datiinternazionali, per quanto prudenti, si aggirano suiduecentomila morti. Ma anche se le cifre non concordano,tutti i testimoni parlano della brutalità usata dall’esercitopachistano contro i civili, soprattutto donne e bambini.

Nel suo commovente e inquietante Contro la nostravolontà , Susan Brownmiller afferma che circa

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quattrocentomila donne furono violentate da soldati eufficiali dell’esercito pachistano come azioni cherientravano nelle loro tattiche di guerra. Le donne eranoindividuate come un obiettivo militare al fine di minare lacompattezza del popolo bengalese coprendolo divergogna. Brownmiller racconta la terribile storia di unaragazzina di tredici anni, Khadiga, di Dhaka:

Khadiga […] stava andando a scuolainsieme ad altre quattro ragazze quando unabanda di soldati pachistani le rapì. Tutte ecinque furono messe in un bordello militare diMohammedpur e tenute prigioniere per seimesi, fino alla fine della guerra. Khadiga furegolarmente violentata da due uomini algiorno; altre, come raccontò lei stessa,dovevano subirne anche dieci al giorno […]All’inizio, disse Khadiga, i soldati le legavanoun bavaglio sulla bocca per impedirle digridare. Ma col passare dei mesi, man manoche lo spirito delle prigioniere si spezzava, isoldati cominciarono a usare un semplicescambio per costringerle all’obbedienza: lelasciavano senza cibo finché non sisottomettevano alla loro quota di lavoro.

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Oltre alle denunce sulle violenze semiufficiali contro ledonne, l’esercito pachistano fu incriminato per atti violenticontro intellettuali, accademici e minoranze, soprattuttoindù. A Karachi si era sparsa la notizia che i militari, dopoaver ucciso duecento intellettuali a Dhaka, avrebbero fattoaltrettanto nel Sind, in modo da reprimere sul nascere ogniscomoda domanda sulle brutalità commesse nella guerracivile. Abdul Waheed Katpar, l’avvocato sindhi che lavoròcon Zulfikar all’inizio della sua carriera, era presentequando la notizia arrivò alle orecchie del presidente delPartito del popolo. Gli domando se Zulfikar aveva credutodavvero alle voci secondo cui l’esercito voleva massacraregli intellettuali sindhi. «Sì!» risponde lui con ardore. «Nonrispettavano niente, quei khakis».22 Zulfikar prese iltelefono e chiamò il generale Gul Hasan, comandante dipiazza del Sind. «Era furioso», ricorda Katpar. «Urlò: “Midicono che state uccidendo gli intellettuali, laggiù a est. Mase porterete questa tattica perversa anche qui nel Sind, laavverto che mi trasformerò in un secondo Mujib e insorgeròcontro di voi!”.»

La commissione Hamood-ur-Rehman, capeggiata dalguardasigilli, negò che le forze armate pachistane sifossero macchiate di qualche ingiustizia e proclamò che laguerra non era stata affatto colpa dell’esercito.Analogamente Sarmila Bose, docente universitaria indianaad Harvard nonché nipote del leader nazionalista SaratChandra Bose, nel 2005 suscitò grande scandalo

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dichiarando che le accuse di stupri di massa e massacri dicarattere religioso formulate contro l’esercito pachistanoerano state gonfiate perché ciò era funzionale agli obiettivipolitici del nuovo stato.

Anche se l’esercito pachistano ha sempre negato che glistupri etnici siano stati usati come arma contro i pachistanidell’Est, durante la guerra le violenze sessuali eranotalmente diffuse che a un certo punto Mujib coniò un nuovotermine per le vittime, birangona, eroine, e a guerra finitaprovò a rendere onore alle sopravvissute agli stupri:un’iniziativa mal concepita, che in realtà ebbe solo l’effettodi coprire ulteriormente di vergogna le donne isolandoleancora di più dalle loro famiglie e comunità.

Quando la guerra civile dilagò anche oltre i confini delPakistan, l’India cominciò a intrecciare un pericoloso flirtcon il Pakistan Orientale. Entro la fine di marzo ilparlamento indiano votò varie risoluzioni di solidarietà conil «popolo del Bengala», un nome che fino a quel momentonon era mai stato usato a livello internazionale, dato che ipachistani dell’Est erano ancora a tutti gli effetti cittadini delPakistan. Quando poi nazionalisti e secessionistibengalesi cominciarono a contrattaccare, il Pakistanchiuse la sua alta rappresentanza a Calcutta e l’India fecealtrettanto con il suo consolato a Dhaka.

Nell’estate del 1971 il Mukti Bahini, un esercito diliberazione bengalese, cominciò a ricevere addestramentoed equipaggiamento militari dall’India.23 E più l’Indiafinanziava e istruiva i secessionisti del Pakistan Orientale,

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più si diffondevano le notizie di ripetuti cannoneggiamentifra i due paesi. Il 29 novembre 1971 nacque il governoprovvisorio del Bangladesh; esattamente una settimanaprima il generale Yahya aveva dichiarato lo statod’emergenza, dicendo ai suoi compatrioti che dovevanoprepararsi a una guerra all’ultimo sangue. Sul finiredell’anno non solo apparve inevitabile la spaccatura delPakistan in due stati indipendenti, ma risultò evidente chela guerra con l’India era ancora una volta imminente.

Il 3 dicembre l’aviazione pachistana colpì alcuni obiettivimilitari nell’India settentrionale. L’escalation neicannoneggiamenti di confine aveva toccato il culmine, estavolta l’India reagì con tutto il suo peso militare: il 4dicembre lanciò un’offensiva aerea, terrestre e navalecontro il Pakistan Orientale, e fece marciare le truppe suDhaka. Due giorni dopo questa spettacolare invasione gliindiani avevano assunto il comando di tutto il PakistanOrientale, stretto d’assedio la città destinata a diventare lacapitale del nuovo stato, Dhaka, e riconosciuto il governoprovvisorio. Violando un fragile armistizio, il governoindiano avrebbe poi continuato a ledere la sovranità delPakistan mantenendo la presa su Dhaka.

Nelle prime settimane di dicembre il generale YahyaKhan mandò Zulfikar a perorare la causa del Pakistandavanti al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E il 15dello stesso mese, dopo che le Nazioni Unite si furonoschierate dalla parte del Bangladesh sostenendo la suarichiesta di indipendenza, Zulfikar dichiarò rabbiosamente:«E se Dhaka cadesse? E se tutto il Pakistan Orientale

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cadesse? E se anche il Pakistan occidentale cadesse?Noi costruiremo un nuovo Pakistan. Costruiremo unPakistan migliore […] Combatteremo per cent’anni, sesarà necessario». Lui aveva capito fin dall’inizio,indipendentemente dal rispetto che provava per Mujibcome compatriota, che il programma in sei puntidell’Awami League avrebbe finito con lo spaccare il suogiovane e fragile paese. In quel momento, irritato dal mododi procedere del consiglio di sicurezza, strappò idocumenti che aveva in mano e lasciò l’aula, arrabbiato efrustrato. «Il mio paese mi ascolta attentamente, quandoparlo: perché mai dovrei sprecare il mio tempo qui alconsiglio di sicurezza?»

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CAPITOLO 4Il 16 dicembre l’esercito pachistano si arrendeva, e il

giorno seguente veniva proclamato il cessate il fuoco.Quattro giorni dopo Yahya Khan rassegnava le dimissionie Zulfikar, partito da New York, volava direttamente aIslamabad per assumere la presidenza.

Nel 1972 Zulfikar e il Partito del popolo, assunto ilcontrollo diretto del governo, cominciarono dunque alavorare alacremente per concretizzare a livello nazionalele loro idee sul socialismo e la solidarietà con il TerzoMondo. Avendo svolto un ruolo di mediazione nelle tensionifra Nixon e la Cina, Zulfikar andò in visita ufficiale aPechino nel febbraio del 1972, subito dopo quel viaggiofamoso. La Cina lo accolse con benevolenza; e perfacilitare il ritorno alla vita del suo paese dopo una guerracivile tanto sanguinosa cancellò alcuni dei più antichi debiticontratti dal Pakistan, per un totale di 110 milioni didollari.1 Qualche mese dopo, nella primavera dello stessoanno, la Cina mandò al Pakistan sessanta jet dacombattimento Mi-G e cento carri armati T-54 e T-59 comeparte del pacchetto di assistenza economica e militare da300 milioni di dollari negoziato dal presidente durante lasua visita.2

Spalleggiata sul piano diplomatico dalla nuovaleadership socialista di Zulfikar, la Cina sostenne e aiutò ilPakistan in mille modi. Per esempio utilizzò il suo diritto diveto alle Nazioni Unite per tenere il Bangladesh fuori dalla

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compagine internazionale, rifiutandosi di riconoscerlocome paese legittimo e sovrano. Di fatto la Cina nonriconobbe il Bangladesh se non nell’ottobre del 1975, dopoil Pakistan stesso, che lo fece nel febbraio 1974. Inoltre sirifiutò di scambiare ambasciatori con l’India finchéquest’ultima non ebbe ripreso pienamente le relazionidiplomatiche con il Pakistan, cosa che avvenne nell’estatedel 1976.

Qualcuno afferma addirittura che la Cina, in possessodella bomba atomica fin dal 1964, abbia esportatomateriali nucleari in Pakistan per permettere a Zulfikar, nel1972, di avviare il suo programma atomico. Secondo unrapporto dell’agenzia per il disarmo e il controllo degliarmamenti, pubblicato nel 1977, la Cina «assistette ilPakistan nello sviluppo di esplosivi nucleari», rifornendolodi uranio arricchito.3

Zulfikar, per parte sua, impegnò il suo Foreign Office acollaborare con la Cina in tutta l’Asia e in ogni modopossibile, soprattutto nel riallacciare i rapporti con i paesimediorientali e con l’Iran, con cui il Pakistan aveva ottimerelazioni. Il paese inoltre voltò definitivamente le spalleall’Unione Sovietica respingendo il suo Piano per lasicurezza in Asia, ritenuto aggressivamente anticinese.4

Sotto la leadership di Zulfikar l’amicizia fra Pakistan eCina visse un periodo d’oro, ma il giovane presidente aprìla politica estera del suo paese anche ad altre nazioniasiatiche e musulmane. Per la prima volta nella sua storia ilPakistan non si comportava da semplice lacchè degli

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americani o dei sovietici: era uno stato indipendente cheesercitava la propria sovranità attraverso relazioni esteredecisamente bilaterali. Era parte integrante dell’Asia, enon un satellite delle grandi potenze. «Il Pakistan stacercando di prendere posizioni corrette, basate sullagiustizia», scrive Zulfikar a suo figlio Murtaza, all’epocastudente ad Harvard. «E fintanto che gli affari esteri delpaese dipenderanno da me le cose andranno così, che sitratti del Medio Oriente o di qualsiasi altro teatro almondo.»5

Nel frattempo però la questione del Bangladesh e lericadute della guerra minacciavano ancora sul futuro delPakistan. Alla fine di giugno, nella stessa estate in cuiassunse la presidenza, Zulfikar si recò nella localitàcollinare indiana di Simla per incontrarvi Indira Gandhi, lasua omologa indiana, e discutere con lei dei nuovi confiniinterni al subcontinente e del rilascio dei prigionieri diguerra ancora chiusi nelle prigioni indiane e delBangladesh. Zulfikar partì da Lahore per l’India insieme auna folta delegazione, preoccupato all’idea di poter esserecostretto a riconoscere il nuovo stato strappato ai confinidel suo paese e a sottoscrivere un patto di nonbelligeranza con l’India.

La prima sessione dei colloqui di Simla fu aperta dalleparole di benvenuto della signora Gandhi, che ammisesubito quanto fosse difficile per le due parti incontrarsi pernegoziare. Zulfikar ricambiò: «Desidero dire, e spero diessere creduto, che noi siamo interessati solo alla pace. È

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questo il nostro obiettivo, e faremo del nostro meglio perraggiungerlo. Noi vogliamo voltare pagina. Vogliamo unnuovo inizio».6

Ma il calore di questo primo incontro non durò a lungo. Ilsecondo giorno dei colloqui non portò a risultati concreti.Le due delegazioni si incontrarono e discussero dei postidi blocco stradali, del fatto che l’India avrebbe voluto unariconfigurazione della Linea di controllo in Kashmir -questione centrale per la guerra del 1971, e che sarebberimasta per sempre un problema spinoso fra i due paesi -e del desiderio pachistano che la posizione del Kashmir sirisolvesse con un referendum popolare. Il 1° luglio, allavigilia della fine dei colloqui, i giornali scrivevano che laconferenza era in stallo. Non si era raggiunto un accordo suniente di concreto, ed entrambe le parti erano riluttanti afirmare un trattato che potesse sembrare una sconfitta peril proprio paese. Il giorno dopo perfino Zulfikar ammise conla stampa che forse si era «a un punto morto».7 Eentrambe le parti trattennero il fiato, aspettando di vederecome sarebbe andata a finire.

Quella sera, mentre Indira Gandhi passeggiava solitarianei giardini della località collinare dove si stavanosvolgendo i colloqui, Zulfikar, anche lui frustrato perché inegoziati fino a quel momento si erano rivelati unfallimento, uscì per raggiungerla. Per un po’ i due capi distato passeggiarono soli, senza delegati né consiglieri. Epoterono parlare liberamente, senza la tensione chesembrava inibire i loro rapporti nelle occasioni ufficiali.

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Entrambi erano andati a Simla per conquistare la pace,una pace che non mettesse i loro paesi in una scomodaposizione di gratitudine o di debito economico nei confrontil’uno dell’altro, ma che garantisse a tutt’e due ilriconoscimento della parità politica. E mentrepasseggiavano nella fresca serata estiva di Simla, Zulfikare Indira trovarono un accordo.

La firma, all’undicesima ora, del trattato di Simla fu unasorta di miracolo della diplomazia. Né il Pakistan né l’Indiacedevano terreno, nessuno dei due sconfiggeva l’altro,nessuno era stato costretto a fare concessioni vitali: unavera impresa, per due paesi tanto aggressivi e tantoorgogliosi della loro integrità territoriale. La pace neirapporti fra India e Pakistan era ancora una volta possibile.Si concordò una nuova linea del cessate il fuoco inKashmir; i commerci, le comunicazioni e i voli fra India ePakistan poterono riprendere; gli scambi culturali furonosbloccati. I prigionieri di guerra non sarebbero ancora statirilasciati, ma il passo in avanti rappresentato dal trattato diSimla stava nell’assicurazione che ciò sarebbe avvenuto -presto novantamila soldati pachistani sarebbero tornati acasa. Qualcuno ha detto che l’accordo fra i due leader futalmente improvviso e inatteso che Zulfikar, quando glipassarono il testo per la firma, non aveva nemmeno unapenna.

Tornato in patria, alla folla che andò ad accoglierloall’aeroporto di Rawalpindi disse che il successo di Simlaera dei popoli indiano e pachistano insieme, che avevanocombattuto tre lunghe guerre per conquistare quella

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importantissima pace. Dodici giorni dopo l’Assembleanazionale approvava il trattato. Un grande quadro a olioraffigurante la firma della pace di Simla è appeso in quelloche era l’ufficio di Zulfikar al 71 di Clifton Road; credo cel’abbia messo lui stesso. A mia memoria, è sempre statoal centro dell’ufficio foderato di libri del nonno.

Con lo svolgersi del suo mandato i trionfi di Zulfikar inpolitica estera continuarono a moltiplicarsi. Nel febbraiodel 1974 il Pakistan ospitò il secondo summitdell’Organizzazione della conferenza islamica (OCI). Perl’occasione la città di Lahore fu tirata a lucido e le suestrade spazzate con cura - ai suoi abitanti fu detto cheavrebbero dovuto accogliere gli ospiti, capi di stato ditrentotto paesi islamici, addirittura nelle loro case, se fossestato necessario. Alberghi e alloggi governativi nonpotevano bastare per dare alloggio a tanti dignitari efunzionari, così Zulfikar fece appello alle famiglie di Lahoreperché mettessero a disposizione le loro case; e tutti lofecero, con la consapevolezza di essere, per una volta,parte del movimento di solidarietà fra tutti i popoli da uncapo all’altro della umma islamica. Sadat dall’Egitto,Boumédienne dall’Algeria, Gheddafi - che nella città deiMoghul aveva uno stadio a lui intitolato - dalla Libia, Hafezal Assad dalla Siria, re Faysal dall’Arabia Saudita, paeseche aveva contribuito alla preparazione dell’evento, eYasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la liberazionedella Palestina (OLP): nessuno volle mancareall’appuntamento. Solo lo shah di Persia non si degnò dicomparire; diversamente da Idi Amin, che arrivò senza

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invito e con un corposo entourage familiare.Zulfikar scaldò gli ospiti e proclamò il pieno successo

del summit dell’OCI dicendo: «Noi, popolo del Pakistan,siamo pronti a dare il nostro sangue per la causa dell’islam[…] In qualunque momento dovesse nascerne l’occasione,il mondo islamico non ci troverà mai più assenti in alcunfuturo conflitto».8 All’architetto del movimento di solidarietàfra Pakistan e mondo musulmano sarebbe venuto uninfarto se avesse vissuto abbastanza da vedere il suopaese entrare in guerra contro due dei suoi vicinimusulmani, l’Afghanistan e l’Iraq, e per giunta sotto ilcomando USA e aprire umilmente i suoi cieli e le suefrontiere agli aerei di un esercito straniero affinchépotessero bombardarli indisturbati. E sarebbe rimastodisgustato all’apprendere che proprio il partito da luifondato avrebbe scelto una collaborazione così fedifraga.

Zulfikar aveva mantenuto la sua promessa elettorale dicreare legami più stretti con i paesi del Terzo Mondo e dibattersi per la sovranità del Pakistan; e da quando erapresidente aveva fatto uscire il paese dal Commonwealthbritannico e rimosso il Pakistan dalla SEATO,l’organizzazione del trattato dell’Asia sud orientale volutadagli Stati Uniti. Aveva inoltre promosso un riavvicinamentocon i paesi del Medio Oriente e dell’Africa, processoculminato nel summit dell’OCI, durante il quale il colonnelloGheddafi aveva definito il Pakistan «cittadella dell’islam inAsia» promettendo di offrirgli le risorse del suo paese ognivolta che avesse avuto bisogno dell’amicizia e dell’aiuto

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della Libia.9Trentacinque anni dopo mi sono trovata a vivere una

scena piuttosto bizzarra. Ero in giro per l’Europa a farericerche per questo libro, quando una sera mi è capitato dicenare insieme a uno dei figli del colonnello Gheddafi. Iosapevo chi era lui, ma lui credo proprio non avesse capitochi ero io. A un certo punto mi sono sporta sopra il tavolo,mi sono presentata, ho ricevuto in cambio un educatocenno del capo e ho scambiato con lui i soliti convenevoliin arabo; dopo di che ho attaccato a parlare del summitdell’OCI (avevo appena finito una prima stesura di questocapitolo), concludendo con lo stadio, un luogo che ha unposto speciale nell’immaginario di molti pachistani. Ilpovero Mr Gheddafi mi ha ascoltato educatamente e,quando finalmente ho esaurito il fiato, ha portato avanti laconversazione: accennando all’attuale presidente delPakistan, Zardari, e a un nuovo progetto di legge da luifirmato per cui sarà punito con il carcere chiunque oserà«diffamare» la sua persona o il suo passato, Mr Gheddafimi ha chiesto dell’incerto futuro del mio paese. Ho cercatodi rassicurarlo dicendo che un giorno o l’altro le cosecambieranno; succede sempre. Allora lui mi ha sorriso emi ha parlato delle visite che suo padre e suo fratellomaggiore avevano fatto nel mio paese, in un tempoglorioso.

Il summit dell’OCI fu dunque un completo successo, e siconcluse con la costituzione di un Fondo di solidarietàislamico e con un primo abbozzo di commissione islamica

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per gli affari economici, culturali e sociali. Il Pakistanapprofittò inoltre di quella platea internazionale perannunciare formalmente il suo riconoscimento delBangladesh, che in cambio ritirò le accuse mosse controduecento soldati pachistani ancora detenuti nelle suecarceri.

Il vertice avvicinò Zulfikar a quei leader asiatici che eranoi suoi alleati naturali: presidenti di paesi musulmani nati damovimenti di liberazione nazionale dopo il crollo delcolonialismo nel mondo postbellico. Da quel momento inpoi parlò spesso con loro, per esempio con re Faysaldell’Arabia Saudita e con lo sceicco Zayed degli EmiratiArabi Uniti, della possibilità di organizzare nuovi summit edella proposta di un trattato di non aggressione fra paesimusulmani.10 Oltre a creare una nuova fase di distensionecon l’India, Zulfikar aveva avvicinato il Pakistan alla Cina,non aveva rotto i rapporti con l’America, pur mettendoli suun nuovo piano di parità, e aveva promosso legami piùsaldi con paesi confinanti come l’Iran e l’Afghanistan.

Ma oltre a questa svolta radicale in politica estera, dellaquale il Pakistan gli darà per sempre credito, Zulfikar fecedei passi coraggiosi verso il cambiamento anche in altridue settori importanti - la stesura di una nuova costituzione,per la prima volta democratica, e la riforma agraria.

La costituzione del 1973 divenne legge dello stato inagosto, e fu costruita sulle fondamenta delle precedentiCarte del paese, ma con molte aggiunte e modificheimportanti e di vasta portata. Innanzitutto vi sono delineate

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le strutture di un ordinamento bicamerale, con un senatoche rappresenta alla pari tutte le province tramite membrieletti indirettamente da assemblee provinciali, eun’Assemblea nazionale per la quale è previsto il votodiretto. 11 Il problema delle autonomie provinciali è risolto,almeno in parte, da questo ordinamento, che decentralizzaquello che è sempre stato un paese incredibilmentecentralizzato. Si prevede inoltre un consiglio degli interessicomuni finalizzato a regolamentare questioni come gas epetrolio, acqua, industrie ed energia elettrica; e anchequesto ha contribuito a un governo più equilibrato dellepreziose risorse del paese.

Nell’ambito della nuova costituzione, Zulfikar assunse lacarica di primo ministro anche perché il tipo di governo delPakistan era passato al premierato in contrapposizione almodello presidenziale.12 Quanto all’esercito, da semprebestia nera del Pakistan, precedentemente la costituzioneconteneva - e avrebbe contenuto ancora, in futuro - leclausole necessarie a mobilitarlo per interventid’emergenza in forza di un’alquanto dubbia «dottrina dellanecessità». Ogni volta che l’esercito ha voluto prendere ilpotere, la costituzione del Pakistan gliene ha fornito lascusa. Con la nuova Carta, invece, «il controllo e ilcomando» sulle forze armate viene attribuito al governofederale.13 Ai militari in servizio si impone di «difendere lacostituzione» e di evitare «ogni attività politica».14 Questenorme irritarono moltissimo l’esercito, che non prese

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affatto bene una così drastica riduzione di potere. Alla fineperò anche il primo ministro si sarebbe sentito allo stessomodo, e avrebbe cercato di emendare la costituzione dellerestrizioni al proprio potere. Pur essendo considerata,all’epoca della sua stesura, un documento di grandelungimiranza politica - in virtù di una clausola cheimpedisce l’approvazione di qualsiasi legge contrariaall’islam, per esempio, si respinge l’idea stessa che laSharia possa avere valore di legge, ora e per sempre - lacostituzione era però gravemente mancante neltrattamento riservato alla setta musulmana degli Ahmedi,che restarono a tutti gli effetti cittadini di seconda classe enon furono riconosciuti come musulmani alla pari di tutti glialtri.

Fin dall’inizio, comunque, i militari non furono gli unici asoffrire per mano del nuovo governo del popolo. Durante lacampagna elettorale Zulfikar aveva promesso che il suogoverno avrebbe cercato di raddrizzare le ingiustizie delregime feudale. Vale qui la pena ricordare che proprio lasua era una delle principali famiglie feudali del paese.Secondo un aneddoto popolare un giorno, nell’ambito di uncensimento voluto dal raj, un ufficiale britannico ordinò a unsuo sottoposto di registrare tutti i possedimenti in manoalle grandi famiglie del Sind. «Quando avrai finito diregistrare le terre dei Bhutto, chiamami», pare gli abbiadetto. Vari giorni dopo, non ricevendo notizie dal collega,l’ufficiale tornò e gli domandò come mai non avesse fattorapporto. «Sto ancora lavorando sulle terre dei Bhutto», fula sua risposta.

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All’inizio il PPP era composto soprattutto da scrittori,intellettuali, leader sindacali e altri elementi progressistidella società pachistana. Al suo interno il feudalesimo eraunanimemente considerato un male, e tutti giuravano divoler emendare un giorno le ingiustizie commesse dall’éliteterriera. Zulfikar mantenne anche la promessa di varare alpiù presto una riforma agraria. Il suo governo stabilì un tettomassimo di centocinquanta acri per la proprietà dei terreniirrigui e di trecento acri per quelli non irrigui: una delleriforme agrarie più radicali della sua epoca. Con questiprovvedimenti legali Zulfikar perse buona parte delle terredella sua famiglia, riducendo drasticamente l’eredità deisuoi figli.

L’applicazione della riforma, però, fu boicottata in varimodi, e principalmente con la pratica di trasferire latitolarità delle terre solo nominalmente: molti latifondistiriuscivano a tenersi il grosso dei loro beni cambiandosemplicemente il nome sulle carte ufficiali e intestandoli acontadini poveri e mezzadri, mentre continuavano aincamerarne i profitti. Molti proprietari inoltre cercarono diaggirare la riforma donando generosamente tempo eservigi al PPP, nella speranza che l’amicizia con il suopresidente li esonerasse dal dovere di cedere la terra.Rendendosi conto che il cammino della riforma sarebbestato ancora lungo e irto di ostacoli, Zulfikar reagìprescrivendo tetti massimi ancora più restrittivi - cento acriper i terreni irrigui e duecento per quelli non irrigui - chesarebbero dovuti entrare in vigore durante la seconda fasedella riforma; ma era già troppo tardi. Non ci sarebbe stato

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il tempo di farli applicare.Né fu solo la nobiltà terriera a veder messe a repentaglio

le sue fortune; anche gli industriali subirono l’impatto dellepolitiche socialiste di Zulfikar fin dall’inizio del suomandato, quando il nuovo governo varò le primenazionalizzazioni. In un primo momento furononazionalizzate solo trenta aziende fra le più importanti - maaltre ne sarebbero seguite: il governo pensava che questoprogramma fosse fondamentale per risolvere almeno inparte il problema della disuguaglianza economica edell’endemica povertà del paese. Le nazionalizzazioni, sisa, tendono a inimicare governo e capitalisti in qualsiasipaese del mondo; in Pakistan però le personedanneggiate dalle nuove leggi hanno incolpato solo eunicamente Zulfikar della loro castrazione economica.Quando mio fratello Zulfi, omonimo del nonno, era in terzaelementare - aveva appena cominciato l’anno scolastico inuna nuova scuola di Karachi - gli capitò di fare a botte conun bambino nel cortile della ricreazione. L’altro gli avevadetto: «Io e te non potremo mai essere amici, perché tuononno ha portato via la banca a mio nonno». Né si trattavasolo delle famiglie dei banchieri. Col tempo ci sono giuntelamentele analoghe da nipoti di armatori, fondatori dicompagnie assicurative, padroni di acciaierie e altricapitani d’industria che si sentivano vittime diun’ingiustizia. Le nazionalizzazioni, ovviamente, non eranoun fatto personale - erano un problema di politicanazionale. Purtroppo però in Pakistan la politica non puòessere altro che questo: un fatto personale - sembra una

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delle poche costanti del paese. Invece di discutere dei proe dei contro delle nazionalizzazioni, però, basterà dire chein un paese in cui ventuno uomini controllavano tuttal’economia nazionale esse erano l’unico mezzo possibileper garantire una certa redistribuzione della ricchezza.L’operazione poteva anche non essere permanente, ediventare solo un rimedio temporaneo verso una qualcheforma di economia mista. Ma ancora una volta Zulfikar nonavrebbe avuto il tempo di mettere alla prova le sue teorieeconomiche.

Pur essendo semplicemente giusto riconoscere che ilmandato di Zulfikar resta memorabile per gli innegabilipassi avanti fatti in politica sociale ed estera, è importanteammettere anche che ci furono delle battute d’arresto eche il primo ministro stesso fece qualche errore. Zulfikarera una figura polarizzante: si poteva solo amarlo o odiarlo.Se non si prende atto dei problemi interni al suo regime,non si può capire in che modo l’intreccio di potere eviolenza entrò nella storia della famiglia Bhutto. E uno deiproblemi maggiori è proprio il ruolo giocato da Zulfikar nelBelucistan.

La provincia del Belucistan ha sofferto molto per colpadel Pakistan. Le origini del popolo beluci, tribali nella suaformazione e nei suoi raggruppamenti, pare sianosemitiche o iraniane, a seconda della versione cui si dàascolto: tutti quelli che linguisticamente si identificano congli ariani d’oltre frontiera rivendicano un lignaggio persiano,mentre quelli che parlano il beluci o uno degli altri dialettiregionali affermano di aver lasciato la pastorizia in Siria

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durante il primo millennio e di aver viaggiato da nomadiper tutta l’Asia centrale prima di stabilirsi nella provinciadel Belucistan.

All’epoca del raj, il Belucistan fece parte dei regnimoghul, persiani e afghani, grazie ai quali la suapopolazione si arricchì culturalmente, linguisticamente edetnicamente. Poi, nel XIX secolo, fu diviso in quattroprincipati, la maggior parte dei quali cadde sotto lasovranità del raj britannico. Guerre e lotte imperialiunificarono infine tutta la vasta area che oggi chiamiamoBelucistan, una provincia ricca di risorse minerarie esoprattutto di gas, ma con una popolazione poverissima.

Quando il subcontinente si spaccò, furono due gli stati aiquali fu chiesto con chi volessero andare: il Belucistan e ilNepal. Come tutti i beluci ricordano, la loro provincia votòper l’indipendenza - esattamente come quello nepalese,quel popolo non voleva saperne di dipendere né dalPakistan né dall’India. I centri d’autorità beluci respinseroall’unanimità l’idea di unirsi al Pakistan e proclamaronol’indipendenza. Purtroppo però quei territori eranogovernati da principi, e questi ultimi erano facili dacorrompere. Il Pakistan mandò in Belucistan l’esercito, checostrinse il principe Mir Ahmed Yar, khan di Kalat, acambiare idea; e il khan di Kalat firmò un accordo cheabrogava l’indipendenza e conduceva il suo popolo sotto lasovranità del Pakistan. Suo fratello, invece, si rifiutò dicedere alle pressioni pachistane e più tardi fu uccisomentre lottava per la sovranità nazionale.

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Era stato stabilito un modus operandi destinato a durarenel tempo. Un secondo conflitto fra la provincia e lo statopachistano scoppiò solo dieci anni dopo, come reazionealla politica centralista del generale Ayub, detta «OneUnit». Il Belucistan non intendeva abbandonarsi nelle spiredel Pakistan senza lottare. Il terzo scontro - si stavastabilizzando una media di un conflitto ogni dieci anni - siverificò all’inizio degli anni Sessanta, quando l’esercitopachistano cominciò a erigere guarnigioni per le truppestanziate in Belucistan. Alcuni miliziani appartenenti a varietribù presero allora le armi e attaccarono gli oppressori,finché il generale Yahya non mise fine alle violenzerinunciando alla politica della «One Unit» e firmando ilcessate il fuoco con le varie fazioni armate. Ma i beluci,formalmente e forzatamente costretti a far parte delPakistan, non sarebbero stati tranquilli a lungo.

«Il Pakistan è una colonia»,15 afferma Khair Bux Marri,capo della tribù Marri, quando ho occasione di parlarglinella sua casa di Karachi. Al cancello mi hanno accolta variuomini robusti con ampi shalwar e i kalashnikov appesi allaspalla. I Bhutto non godono certo delle simpatie del sardarMarri; eppure il vecchio capotribù ha accolto gentilmente lamia richiesta di un incontro, mi ha ricevuta con ognicortesia e mi ha anche offerto una spremuta d’arancia.

«I paesi davvero indipendenti sono pochissimi»,prosegue, «ma il Pakistan è sempre stato una colonia,prima dell’imperialismo inglese e oggi di quello americano.E come può, una colonia, desiderare l’indipendenza altrui?

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Il Pakistan accetta senza remore la posizione dominantedell’imperialismo. I pachistani hanno scelto di chiamare illoro paese Pakistan, “terra dei puri”, perché credono che ilCorano sia qui, come se tutti gli altri paesi fossero pagani.Ma è stato un grave errore. Perché è piuttosto un na-pakistan, una terra di impuri.» Gli domando perché i belucisiano sempre tanto negativi nei confronti dello stato. «Noibeluci abbiamo un detto», risponde Marri, talmentesottovoce che per sentire le parole devo avvicinarmiancora di più a lui, a quel capotribù che notoriamente odiala mia famiglia. «Un uomo entra nello scompartimento di untreno e si siede in un angolo, come se potesse starci solograzie alla generosità degli altri. Si può dirgli di spostarsipiù in là, di andare a sedersi più indietro nel vagone, finchénon potrà più arretrare. Ma quando sarà arrivato con lespalle al muro, tirerà fuori la spada. E a quel punto, oucciderà o si farà uccidere.»

Nel 1972 i beluci si trovarono con le spalle al muro perl’ennesima volta. Avevano votato per l’Awami League, ecosì, quando il Pakistan Orientale si staccò dall’unione, siritrovarono ancora più isolati. Gli esponenti di un ampioventaglio di forze politiche della provincia si unirono alloraper formare il Partito del popolo (National Awami Party,NAP), organizzandosi come blocco d’opposizione algoverno di Bhutto. I leader beluci chiedevano unamaggiore rappresentanza in seno al governo federale, enel frattempo cominciarono a formulare piani secessionisti.L’anno seguente un ingente quantitativo d’armi fu ritrovatonei locali dell’ambasciata irachena a Islamabad: armi che,

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stando alle dichiarazioni della polizia, erano destinate aiMarri del Belucistan. Zulfikar reagì con prontezza; definì leazioni dei Marri ribellione e tradimento e sciolse il governoprovinciale.

A porte chiuse, però, tutti dovettero riconoscere che laquestione era seria: il governo aveva ricevuto pressioni daparte dello shah di Persia, convinto che i beluci residentidalla sua parte della frontiera si stessero armando perinsorgere contro il dominio dei Pahlavi. Preoccupato dallaprospettiva di una rivolta armata, lo shah aveva chiesto alPakistan di intervenire. E così, ancora una volta, l’esercitofu mandato nel Belucistan. Zulfikar non era certo il primocapo di governo a prendere misure drastiche contro ibeluci: ma proprio per questo avrebbe fatto meglio a nonimitare i suoi predecessori, tutti pericolosamente inclini ausare la violenza contro quel popolo. Khair Bux Marri,quello stesso che decenni dopo mi avrebbe offerto unaspremuta d’arancia, formò allora il Fronte di liberazionepopolare dei beluci (Baloch People’s Liberation Front,BPLF), scatenando una guerra di guerriglia contro ilgoverno di Zulfikar e le sue truppe. Le stime, pur tenutesegrete, parlano di tremila soldati pachistani e di circadiecimila separatisti beluci uccisi.

Chiedo al sardar Marri di parlarmi di quell’operazionedegli anni Settanta. Lui esita un po’ a rispondermi. «Tu seisua nipote, non sarebbe giusto», dice educatamente. Mistupisce il fatto che sia così formale con me. Gli assicuroche sono andata da lui proprio per ascoltarlo, per sentire

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qualunque cosa abbia da dirmi. «Dentro di me arde ungrande fuoco contro il PPP», comincia. Io non sono lacustode di mio nonno, gli assicuro ridendo; la prego, parlipure liberamente. Si stringe nelle spalle. Insisto ancora.«Bhutto non era poi molto diverso da Hitler», comincia ilsardar Marri. «Prima che l’operazione iniziasse, la morteaveva toccato solo alcune zone della provincia. Ma poi siabbatté su tutto il Belucistan. La violenza era dappertutto.Prima la nostra resistenza era stata tradizionale, dicarattere tribale. Poi diventò più nazionalistica.»

Su ordine di Zulfikar, Marri fu imprigionato, e insieme alui molti altri capitribù. Il loro dissenso fu zittito con la forza,e nessuno l’avrebbe mai perdonato. Anche Yousef MastiKhan, un altro uomo politico beluci dell’epoca di mio padre,acconsente a parlarmi del ruolo giocato da Zulfikar nel suopaese, ma con me si comporta in modo meno antiquato emi espone il suo punto di vista con più schiettezza. Anchelui fu arrestato nel 1974: l’esercito lo tenne in una baraccadavanti all’ufficio passaporti di Saddar, a Karachi, perquindici giorni prima di trasferirlo in una prigione vera epropria, a Quetta. Masti Khan era un giovane attivista,poco più di una comparsa sulla scena politica provinciale,ma suo padre, Akbar Masti Khan, era un vecchio amico diZulfikar. I due erano soliti litigare animatamente sui temidella politica. Quando il giovane Khan fu rilasciato, suopadre fu convocato dal vecchio amico, il primo ministro,che gli propose un contratto per costruire un’autostradaattraverso tutta la provincia.

«Allora dissi a mio padre: ascolta, se tu accetti io me ne

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vado immediatamente, e prenderò le armi sulle montagne»,16 mi racconta Yousef Masti Khan parlandoanimatamente. «E lui rispose: non posso dire di no aZulfikar, è un tipo molto vendicativo.» Alla fine, ricordaYousef, suo padre andò a parlare con Zulfikar. Sapeva dinon poter accettare la sua offerta, e voleva assolutamentetrovare una via d’uscita che non lo offendesse. Khanraggiunse la residenza ufficiale del primo ministro, aRawalpindi, e lo trovò seduto sulle scale, in pigiama,intento a fumare un sigaro. Per un po’ chiacchierarono deivecchi tempi, divagando come se la situazione non fossequella che era, finché Zulfikar non gli chiese comeandavano le cose nella provincia. «Quale risposta vuoisentire: quella per il primo ministro o quella per l’amico?»gli domandò Akbar Masti Khan. Zulfikar disse al suovecchio amico di parlare pure apertamente. «Perchécontinuate ad ammazzare la gente, nel Belucistan?» glidomandò Khan. Zulfikar gli parlò delle violenze di strada,degli attacchi dei ribelli contro lo stato, dei sabotaggi. «Ionon vorrei proprio dover usare la forza», disse, «macos’altro posso fare?» «Richiama le truppe», insistette ilsuo amico. A quelle parole, Zulfikar chinò la testa. «Nonposso», rispose.

È un ritornello che ho sentito ripetere molte volte nellamia famiglia. Zulfikar, come tanti altri prima di lui, una voltascatenata una guerra contro il suo stesso popolo nonpoteva più contrapporsi all’esercito. Nel momento in cuiaveva cominciato a far uccidere dei pachistani, che

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fossero traditori o meno, aveva perso il contatto con la suabase di potere, con la fonte ultima della sua forza; e a quelpunto l’esercito, finalmente tornato in attività, gli erasfuggito di mano. Anche Akbar Masti Khan fu arrestato. El’esercito rimase nel Belucistan fino alla fine del decennio.

«L’operazione in Belucistan diede all’esercito una forzaimmensa»,17 concorda Miraj Mohammad Khan. «I militarisapevano che ormai il governo aveva bisogno di loro.Zulfikar stava combattendo contro i suoi alleati naturali -quelli del NAP erano socialisti, progressisti come lui. Persiquesti alleati cruciali, non poteva non andare incontro allasua rovina.» Miraj uscì dal PPP nel 1974, in segno diprotesta contro il violento attacco sferrato dal governocontro il Belucistan, ma anche per la svolta decisa daZulfikar contro i sindacati.

«Furono i sostenitori del feudalesimo a tradirlo. Siinfiltrarono nel partito, quindi ne usarono l’apparato contro ilpopolo; e siccome a quel punto era diventato insicuro,proprio perché i sostenitori del feudalesimo l’avevanoallontanato dal popolo, Zulfikar glielo permise», mi spiegaMiraj in urdu. «Io me ne andai nel 1972, nel bel mezzo diuna riunione, mentre si discuteva delle proteste sindacali diLandhi, a Karachi. I lavoratori erano scesi in sciopero estavano causando disordini; a un certo punto Zulfikar disse:“Io vi assicuro che la forza della strada sarà schiacciatadalla forza dello stato”. Allora mi alzai e me ne andai. Piùtardi mi telefonò per dirmi che avevo violato il protocollo.Gli spiegai perché me n’ero andato, contro tutte le regole

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del partito. “È la situazione, Miraj!” replicò lui, nel tentativodi giustificare ciò che aveva detto. Ma la polizia, per ordinedel primo ministro, aprì il fuoco contro i lavoratori. Glioperai, il popolo, prima di questa carneficina avevanocreduto che con Zulfikar Ali Bhutto tutto sarebbe cambiato,avevano creduto di essersi impadroniti del potere e checiò terrorizzasse gli industriali. Era così che Zulfikar AliBhutto se li era tenuti buoni».

Per Miraj, marxista da sempre e talmente fedele all’ideadi un nuovo Pakistan da rifiutarsi di parlare inglese, questasvolta fu inaccettabile. Pur essendo uno dei compagni piùvicini a Zulfikar, uscì dal partito. «Gli dissi che si stavalasciando manipolare dai servizi segreti. Che questi ultimigli avevano alienato la base. J.A. Rahim se n’era andato, lostesso aveva fatto Mubashir Hasan, e ora toccava a me -tutti i membri fondatori, tutti gli elementi più radicali delpartito avevano lasciato. Presto i servizi segreti gliavrebbero inviato dei rapporti in cui si diceva che quegliuomini stavano complottando per ucciderlo; e lui, essendopiù debole, sarebbe diventato anche paranoico. » L’annosuccessivo a quello in cui uscì dal partito, Miraj fu arrestato.J.A. Rahim, uno dei compagni che avevano partecipatoalla stesura del manifesto programmatico del partito, fupunito duramente per il suo dissenso. Mubashir Hasan, ilministro delle Finanze nella cui casa era stato fondato ilPPP, rassegnò le dimissioni ma restò - uno dei pochi -accanto a Zulfikar.

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CAPITOLO 5Tutti gli uomini che, quel pomeriggio a Lahore, avevano

donato la loro gioventù e il loro impegno al partito insiemea Zulfikar, finirono in prigione uno dopo l’altro. «Lui non eraun profeta», mi dice Miraj, ormai fragile e malato. «Era ungrand’uomo e un grande leader, ma nella nostra culturatendiamo un po’ troppo a vedere negli uomini dei profeti.»La fine del suo potere si avvicinava, ma lui era cosìindebolito da non vederla nemmeno arrivare.

E man mano che si indeboliva, Zulfikar commettevasempre più errori politici. Nonostante l’ostilità che gli USAavevano già dimostrato verso il rampante programmanucleare del Pakistan, la «bomba musulmana» procedevaspedita; ma cammin facendo non conquistava certo nuoviamici al primo ministro e alla sua linea politica. HenryKissinger, che pure lo aveva definito un politico abile eintelligente, pare l’abbia avvertito che gli americaniavrebbero fatto di lui «un esempio orribile» se si fosseintestardito a portare avanti le ambizioni nucleari delpaese.

Avendo perso il suo più solido punto d’appoggio, ilpopolo, Zulfikar diventò nervoso e cominciò a blandirel’opposizione interna, nella speranza di placare con questainversione di tendenza i suoi tradizionali nemici. Emendòpiù volte la costituzione del 1973, aumentando i propripoteri e concedendo al governo federale il diritto diproibire i partiti politici e di limitare le prerogative della

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magistratura affinché, come recita il terzo emendamento,«nessun tribunale possa proibire la detenzione oconcedere la libertà provvisoria a un detenuto».1Pensando, erroneamente, che la sua posizione fossesalda come prima, Zulfikar cercò poi di ingraziarsi i partitireligiosi, piccoli come numero di aderenti ma potenti per lapaura che sapevano incutere, introducendo nellacostituzione un altro emendamento che definiva i parametriin base ai quali giudicare chi era un buon musulmano e chino. Gli Ahmedi, una piccola setta musulmana convinta che,dopo Mohammed, arriverà un altro profeta di nomeAhmed, furono ufficialmente definiti non musulmani. Zulfikarsi spinse ancora più in là: proibì gli alcolici, costrinse allaclandestinità l’industria del gioco d’azzardo edell’intrattenimento pubblico e proclamò il venerdì, giornodella preghiera solenne, festa nazionale.

Tuttavia il declino ormai imminente non poteva essererimandato in eterno. I signori feudali, che nel tentativo diconsolidare le proprie posizioni si erano infiltrati nel PPP,cominciarono a scontrarsi fra loro. Abdul Waheed Katpar,membro fondatore del PPP, ricorda che in quel periodoZulfikar era diventato più paranoico che mai: «Era convintoche i militari volessero assassinarlo. Li chiamava khakhis.Quando i grandi zamindar iscritti al partito, con le lororisse, cominciarono a ledere l’immagine del partito stesso,disse: “Non saranno le vostre faide a distruggermi, perchél’esercito non mi risparmierà - ma non pensate cherisparmierà voi”».2

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Nel 1976, quando «il macellaio del Bengala», il generaleTikka Khan, andò in pensione, Zulfikar lo sostituì con ilgenerale Zia ul Haq «facendolo passare avanti a bencinque generali più anziani»3 e conferendogli il grado dicapo di stato maggiore per la sola ragione che lo credevaun uomo mite e sottomesso. Zia gli giurò fedeltà eterna conla mano sul Corano, e si inchinava febbrilmente ogni voltache lui entrava in una stanza. Era un «personaggio astuto»,ricorda Katpar, «che con Bhutto si comportava sempre inmodo ipereducato. Ma era anche molto ambizioso, e fuquesto a renderlo crudele».4 Solido e massiccio, con icapelli impomatati austeramente spartiti nel mezzo, baffitinti di nero e acconciati con cura, Zia veniva da unafamiglia modesta e si era messo in luce non tanto per lesue aspirazioni politiche, quanto per la sua passivaobbedienza agli ordini e per una sorta di bigotta ingenuità.

C’è un aneddoto che ho sentito raccontare spesso nellamia famiglia per difendere, se non per spiegare, ladecisione di Zulfikar di promuovere proprio il generale chepiù avanti l’avrebbe fatto ammazzare. Un giorno Zulfikarconvocò il suo capo di stato maggiore nel suo ufficioperché desiderava parlargli. Zia arrivò puntualissimo,addirittura in anticipo, e fu introdotto nella stanza vuotadove sedette nervosamente agitando i piedi eaccavallando le gambe. Aveva appena cominciato afumare, un’abitudine presa proprio per calmare i nervi,quando entrò il primo ministro. Zia, stando a quanto diconoi miei familiari, balzò subito in piedi con grande deferenza

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e, velocissimo, s’infilò in tasca la sigaretta accesa. Checominciò a bruciare il tessuto della giacca. Un filo di fumosi levò dall’uniforme, ma in presenza di Zulfikar il generaleera sempre così ansioso da non poter nemmenoammettere di aver fumato - cosa che ben difficilmente puòessere considerata un crimine - e comunque troppobeneducato per affannarsi a spegnere l’incendio.

Quel generale silenzioso e modesto, però, non avrebbeaspettato a lungo. Nel momento in cui lasciava andare afuoco la tasca dell’uniforme, le sue mire sulla presidenzaerano già in atto. «So che i bracchi sentono l’odore del miosangue»,5 gridò Zulfikar durante una delle sue ultimesedute parlamentari. Ormai li sentiva avvicinarsi.

Nonostante le difficoltà politiche di quegli anni, Zulfikartrovava sempre il tempo per tenersi in contatto conMurtaza. Il quale, non appena arrivò ad Harvard, ricevetteuna lettera del padre, la prima indirizzatagli al college,scritta su carta intestata della presidenza:

Nei primi tempi avrai nostalgia di casa easpetterai con ansia notizie dei tuoi genitori,di tuo fratello e delle tue sorelle […] ma poi,man mano che ti sistemerai, non sarai piùtanto eccitato come lo sei adesso all’idea di

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avere notizie da casa. Ciò non significa cheperderai interesse per quanto accade nel tuopaese, ma che l’ansia più viva perderà unpo’ del suo gusto. Probabilmente ti stoscrivendo le stesse identiche cose che hoscritto nella mia prima lettera a Pinkie. Ora,questo è naturale dato che io sono la stessapersona, e scrivo con gli stessi sentimenti evalori a mio figlio piuttosto che a mia figlia,nelle stesse identiche circostanze. I pensierie i sentimenti sono grossomodo gli stessi.Avrei potuto scriverti: «Ciao, Mir, come stai?Ti prego di leggere la prima lettera chescrissi a Pinkie quando andò a Radcliffe. Setua sorella non si è presa la briga diconservarla, posso farti avere una copiafotostatica. A presto figliolo, adesso ho moltoda fare, c’è del lavoro importante che miaspetta. Cerca di impegnarti al massimo eabbi cura di te». Ma non sono fatto di questapasta. Sono molto affezionato a te e ti vogliomolto bene, anche se ben poche volte te lodimostro. Ci sono molte ragioni per questamia reticenza. Ho cercato di spiegartelequando ancora vivevi qui, fin da quando eripiccolo. Innanzitutto tu sei il mio primogenitomaschio, e per me è sempre statoessenziale che non fossi viziato. Ho volutoassicurarmi che crescessi in questo mondo

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crudele come un uomo duro e coraggioso. Econ «duro» non intendo crudele, perchédentro ciascuno di noi c’è sempremoltissima arte. Con «duro» intendoabbastanza tosto per affrontare da uomo illato cattivo della vita. In quanto mioprimogenito maschio, più degli altri miei figli,tu incarni me e la nostra famiglia. È perquesto che è stato necessario trattarti inmodo diverso. Vorrei che tu crescessi perdiventare una persona cristallina,dall’intelligenza acuta e dall’aspetto elegante.Tu solo hai la chiave per diventare un uomodel genere. Col duro lavoro e la diligenzasono sicuro che farai bene, molto bene,spero. Una persona può ritrovarsi a essereinvidiosa degli altri, ma non sarà maiinvidiosa dei propri figli. È una cosa che miopadre mi ha ripetuto molte volte. E adesso iola dico a te. Io sarò l’uomo più felice dellaterra se tornerai a casa con una formazionedi prima classe e con tutte le idee giuste perfare meglio di quanto non abbia fatto io.Sotto molti aspetti io ho avuto successo, maho anche fallito. Tu, vorrei che non fallissimai. Niente può sostituire il duro lavoro. Unindividuo mediocre ma capace di lavorareduro non sarà mai una maledizione quantoun genio pigro. Il duro lavoro non ha mai

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ucciso nessuno. Il tempo passa, e letentazioni della vita passano ancora più infretta. Spariscono insieme al lampo delmomento. Dio ha creato il mondo e l’hadotato di una bellezza senza paragoni.Nell’insieme di questa bellezza non c’èniente di più bello del corpo umano, e nientedi più creativo della mente umana. Cosa faredi questo corpo e di questa mente, sta a noideciderlo. Sta a te, in ultima analisi, deciderecosa fare della tua vita. Sarai tu a prenderequesta decisione. A scegliere se lasciartidietro un buon nome o un cattivo nome.

Zulfikar scrisse ai suoi figli delle lettere che non potevanon sapere sarebbero entrate nella storia. Dedicò ore amodellarle, ritagliandosi il tempo per scriverle in aereo, inun campo base, in vari uffici di stato in giro per il paese,finché non le riteneva pronte per essere battute a macchinadai suoi assistenti. A tratti sono buffe, a tratti disinvolte, conuna battuta qua e là, ma il più delle volte il tono è quello diun precettore: sono lettere istruttive e coscienziose. Papàle ha conservate tutte nella loro busta originale, con tanto difrancobolli e sigilli intatti. È evidente che le aveva rimossecon delicatezza dall’involucro come chi realizzaun’operazione a cuore aperto, attento a non danneggiare labusta in nessuna sua parte. Dopo averle lette, papà le

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riponeva in una cartellina di plastica azzurra. Le avevalasciate a Karachi, tutte quelle buste integre, ma ce neparlava spesso. E quando tornammo in Pakistan, e papàprese nuovamente possesso del 70 di Clifton Road, unadelle prime cose che facemmo tutti insieme fu cercare lacartellina con le lettere. Era l’unica cosa che non fossestata né toccata né danneggiata dal tempo, l’unico oggetto,il più prezioso, che nessuno avesse portato viarivendicandolo come proprio; la ritrovammo dove papàl’aveva lasciata, su un ripiano della libreria di suo padre.

Quasi avvertendo che il tempo che avrebbe ancorapotuto condividere con i suoi figli non sarebbe bastato pertrasmettere loro tutto quel che c’era da sapere sul mondo,Zulfikar scriveva:

Tu non ti ecciti facilmente, e questo è unbene. Hai ricevuto tutta la formazione politicanecessaria a fare una buona riuscita nellematerie che hai deciso di studiare: haiviaggiato molto, sei stato nell’UnioneSovietica e nella Repubblica PopolareCinese, hai potuto osservare politici ediplomatici da vicino e dal vero. Quello chesai sulla politica l’hai imparato non dai libri,ma stando vicino a me. Se ti ho portato conme in Unione Sovietica e in Cina è stato peruno scopo ben preciso. Poi ti ho mandato

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un’altra volta in Cina, e sempre con lo stessoobiettivo. [Murtaza aveva dedicato un’estatea viaggiare per tutta la Cina, suo padre ve loaveva mandato per conoscere meglio ilpaese e studiare la storia del socialismo perle strade di città e villaggi.] Nel tuo campod’interesse hai dei vantaggi che molti tiinvidieranno. Sforzati di sfruttare al meglio leesperienze che hai fatto.

Questa lettera è la più tenera che Zulfikar abbia maiscritto. L’argomentare è stringato. Qui egli adotta un tonoscorrevole, desideroso di chiarire questioni che suo figlioforse non conosce ancora, ma che gli sarebbe utile poterapprofondire:

Gli americani tendono a essere polemici.Citano continuamente dai libri. Si immergonocosì a fondo nei dettagli che molte volte nonriescono più a vedere i punti principali.Fanno talmente a pugni con la loro ombrache non sanno più afferrare le questionicentrali. Hanno talmente tanti pregiudizi, sirifanno a così tante nozioni e teorie daperdere di vista i fattori essenziali. Fattori

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essenziali che, ironia della sorte, in generesono piuttosto semplici e lineari. Agliamericani piace rendere complicati anche iproblemi più elementari. Soddisfa il loro ego.Fanno assolutamente troppo affidamentosulle macchine, sugli oggetti che hannoinventato. Sono diventati creature delle lorocreature. In parte è per questo che finisconocon l’impantanarsi nei dettagli. Non riesconoa visualizzare l’orizzonte aperto delle cose.Non sanno arrampicarsi sull’arcobaleno. Permostrarti quanto sono sapienti ti imporrannodi leggere un gran numero di libri. Tichiederanno di scrivere molti saggi.Useranno espressioni roboanti senza capirenemmeno loro cosa ci stia dietro. Trovanodifficile andare dritti al cuore del problema;ed è il cuore, figliolo, che bisogna sapertoccare e tenere stretto.

Poi Zulfikar ricorda ancora una volta a suo figlio distudiare tanto. Lo mette in guardia contro la futilità dellamemoria come strumento di formazione, sostenendo cheuna mente raffinata è infinitamente più preziosa di unamemoria fotografica. Sottolinea il fatto che Murtazapossiede entrambe le doti, e gli ricorda quanto somigli intutto e per tutto a suo padre. Per questo gli sembra tanto

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importante scrivergli quanto segue:

Mir, figlio mio, cerca di prendere le cosecome vengono, così come sono. Nonlasciarti deprimere da una battuta d’arrestoné esaltare da un successo. Tieni i piedisaldamente ancorati a terra. Non perdertid’animo. Cerca sempre di impararequalcosa dalle sconfitte, sii umile nelsuccesso. Parla con decisione, difendi il tuopunto di vista con coraggio, ma senzaostinazione. Fa’ che la tua mente sia sempreaperta e obiettiva, sii felice di imparare daglialtri per acquisire nuove conoscenze. Nonperdere mai l’equilibrio. Ma soprattutto nonvergognarti delle tue origini o della tuacultura. Nell’esaltare la tua ricca eredità, nonessere offensivo. Sii naturale, normale. Nonperdere la forza delle tue convinzioni né perpregiudizio né per complessi. Non reagirealle provocazioni. Buone o cattive che siano,le tue radici sono qui, in una storia millenaria.Io penso che siano delle buone radici. Unadimostrazione di orgoglio nazionale non è lastessa cosa di una dimostrazione disciovinismo o di arroganza. Non ènecessario, per dimostrare che il Pakistan è

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buono, dimostrare che l’America è cattiva[…] Non vergognarti della tua cultura, nonvergognarti delle tue origini, non scusarti perle condizioni in cui versa l’Asia. Non averpaura di difendere i buoni principi. È statal’Europa a causare la miseria in cui vivel’Asia, e noi stiamo cercando di porvirimedio. Ricorda sempre che, al di là di tutti iprogressi della scienza e della tecnologia,l’islam è l’ultimo messaggio di Dio al mondo.Cerca di restare il più possibile in contattocon la tua religione […]

Poi, come ogni padre affettuoso, Zulfikar elenca unaserie di «di’ di no». Parla a suo figlio della miriade difallimenti in cui può incorrere l’essere umano, del vizio edelle altre «abitudini che distruggono l’anima». Gliconsiglia di non fumare, ma gli ricorda che è pur sempremeglio fumare che bere alcolici. Poi sottolineaansiosamente che il fumo provoca il cancro, e cheprobabilmente dovrebbe astenersi da entrambe le cose.Gli racconta che in America molti studenti assumonodroghe. Evidentemente non sa che anche in Pakistan sonoin molti a farlo, ma con evidente apprensione anticipa alfiglio che quegli studenti gli diranno semplicemente:«Perché non fai un tiro?». Una frase in apparenzainnocente, ma poi, bam!, la tua vita è finita, hai venduto

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l’anima alle droghe. E distruggendo la tua vitadistruggeresti anche la mia, supplica il padre. Non farlo,figlio mio, non farlo.

Prima di concludere voglio ripeterti ancorauna volta che i miei pensieri sono semprecon te. Spero mi perdonerai per lo schiaffoche ti ho dato nel 1962, a Clifton House, percolpa di una falsa accusa di Sunny [Sanam,la sorella minore]. Non vediamo l’ora chetorni a casa, l’estate prossima. I ventiinvernali passeranno, e penso che anche tusarai felice di essere di nuovo con noi invacanza. Fino ad allora abbi cura di te, sta’attento al freddo, studia sodo e ricordati dinoi. Che Dio ti benedica!

La lettera è firmata in inchiostro blu: «Il tuo papà che tivuole tanto bene, Zulfikar».

Nell’autunno del 1972 Murtaza prese possesso della suacamera a Winthrop House. Il suo compagno di stanza eraun ragazzo con una bella voce baritonale che veniva dallafrontiera del Texas: si chiamava Bill White, e aveva chiestoespressamente di condividere la stanza con qualcuno chevenisse dall’Asia e preferibilmente che si interessasse di

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politica. Poi aveva riconosciuto il nome Bhutto sulla portadella stanza: sapeva che quel nome veniva dal Pakistan,ma proprio perché era un appassionato studioso di tuttociò che aveva a che fare con la politica non aveva pensatoche potesse trattarsi proprio del figlio di quel primoministro che gli rendeva il nome familiare. Sia Bill siaMurtaza venivano da un paese caldo e non avevano quasimai visto la neve. Entrambi subivano appassionatamente ilfascino della politica. Ciononostante a Bill non piacevanomolto il busto di Lenin che Murtaza teneva in camera o gliirrinunciabili poster di Che Guevara e Chou En-lai; Murtazaper contro non amava affatto la musica country di Bill. I duefecero presto amicizia.

Mi ero già diplomata presso il mio college a New Yorked ero a metà strada del master che avrei ottenuto aLondra quando, per la prima volta, mi sono sentitaabbastanza coraggiosa da cominciare a frugare nelpassato di mio padre. Il primo passo, ragionavo, dovevanoessere gli anni del college. Io stessa stavo vivendo ledoglie dell’indipendenza, e ricordavo bene di quando papàmi raccontava dei suoi anni di università descrivendolicome belli e privi di complicazioni: per questo, in unattacco di nostalgia per i miei, una sera mi era venuto inmente di visitare il sito web dell’Associazione ex alunni diHarvard. Con mille cautele ho scritto ai rappresentanti dellaclasse 1976, cercando di spiegar loro la situazione in cuimi trovavo senza spaventarli con i particolari di quel cheera successo a mio padre dopo la laurea o dichiarando lamia intenzione di viaggiare a ritroso nel tempo per potermi

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ricongiungere a lui. La mia richiesta, insulsa com’era, èstata ignorata da tre dei quattro rappresentanti della classe’76: poi, finalmente, ho ricevuto una risposta. DapprimaNancy mi ha scritto una e-mail, poi si è buttata anima ecorpo nella mia ricerca, e infine è diventata la mia piùformidabile alleata per viaggiare nel tempo. Nancy hamandato e-mail contenenti SOS per avere nuoveinformazioni su mio padre, ha inoltrato regolarmente le mierichieste d’aiuto e ha lavorato insieme a me come seprovasse le mie stesse frenesie, comprendendoperfettamente quanto fosse importante per me e per il mioviaggio la possibilità di cominciare proprio dal punto in cuisembrava esserci meno spazio di manovra.

Una dopo l’altra, le e-mail hanno cominciato ad arrivare.Era come se l’universo intero e gli alunni della classe 1976di Harvard si fossero coalizzati, come se aspettassero solome per alleggerirsi di informazioni cui erano rimastiaggrappati per tanto tempo, tenendole da parte appostaper me. Ne ho raccolto frammenti da perfetti sconosciuti,da persone che nemmeno avevano conosciuto papà alcollege, ma che si ricordavano che era stato amico diquesto o di quell’altro. Ho ricevuto e-mail e lettere scrittecol cuore da persone che avevano frequentato certe lezioniinsieme a mio padre, da altre che abitavano al suo stessopiano, e ben presto ho potuto ricostruire i nomi dei suoiamici e compagni di stanza, collezionando numeri ditelefono e indirizzi di persone che gli hanno voluto benequando era solo un allampanato adolescente catapultatoda poco nella vita di un college americano.

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Con una sola eccezione, a dire il vero. Un’unica personaha accolto la notizia delle mie ricerche e le mie richiested’aiuto senza trepidazione né timore. Abbastanzastranamente si tratta di un professore del mio college, chesi è rifiutato nel modo più drastico anche solo diincontrarmi e di parlarmi. Era il 2005, io avevo ventitré annie peccavo forse d’ingenuità. Ho cercato di convincerlo intutti i modi, mi sono offerta di saltare su un aereo perraggiungerlo dove voleva quando voleva, se avesse avutoun po’ di tempo da dedicarmi. Mancava solo un anno aldecimo anniversario della morte di mio padre, ed erodisperata. Avevo assolutamente bisogno di colmare certelacune, volevo avere qualcosa da dare a mio fratello inquell’occasione: Zulfi stava per compiere sedici anni, eaveva più che mai bisogno di conoscere il padre cheaveva perduto quando ne aveva solo sei. Ma il professoreè stato inamovibile. Era un amico di Benazir. «Sono statocompagno di classe e conoscente di Benazir ad Harvard»,mi ha scritto, «poi abbiamo rinnovato la nostra conoscenzaa Oxford (in parte tramite Mir). Negli anni sono rimasto suoamico, e di tanto in tanto l’ho incontrata a Boston, NewYork e Oxford.» Quando l’ho ricevuta, questa lettera mi hafatto venire il mal di stomaco. Sapevo dove voleva arrivare,ma mi sembrava una crudeltà inimmaginabile.«Sicuramente avrà parlato con Benazir al fine di avere unsuo contributo al progetto?» mi domandava il professore.Anche se mi rendevo conto che quell’uomo rappresentavaun vicolo cieco, mi ferì più di quanto fossi preparata adammettere scoprire che anche le amicizie dipendono dalla

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politica, e che anche in un luogo assolutamente separatoda tutto il resto e all’apparenza sicuro è possibile trovareun blocco stradale. Tutto ciò mi ha fatto pensare, conpreoccupazione, che il potere riesce ad arrivare davveromolto lontano. Ma ho scritto comunque un’ultima e-mail:

Mi addolora molto che, in questo momento,le mie zie non possano essere per me utilifonti d’informazione, ma voglio sia chiaro checon questa mia ricerca non intendo lanciareattacchi al vetriolo contro chicchessia, bensì,più semplicemente, rendere onore alla vita dimio padre attraverso un ricordo che sia il piùpossibile ricco di significato. Se preferiscenon partecipare, ovviamente rispetterò il suodesiderio. Ma se in qualsiasi momentodovesse sentirsi a suo agio a parlare di Mir edei tempi in cui lo conosceva, le sareiinfinitamente grata per il suo aiuto.

Non mi ha mai risposto.Il professore però non è stato altro che un granello di

polvere nell’ingranaggio. Tutte le altre persone che sonoriuscita a scovare mi hanno messa in contatto con reticomposte da altre persone che, non appena ho cominciato

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a progettare di tornare negli USA per realizzare le mieinterviste, sono state contente di accogliermi in casa loro enella loro vita. Gli amici di mio padre erano come unagrande famiglia, e proprio questa è stata la mia più grandesorpresa. Papà non ha mai perso il loro amore e la lorodedizione, e quando li ho incontrati essi hanno trasferitoprontamente e con calore tutto quell’affetto anche su di me.

«Tuo padre e io siamo stati amici intimi negli anni piùcritici della nostra vita», mi ha scritto Bill dopo aver ricevutola mia lettera. «Fatima, se mai ti servisse una casa lontanodal tuo paese o volessi visitare una parte degli Stati Unitiche ancora non conosci, ti prego, sentiti libera di venire aHouston. Posso raccontarti altre cose su tuo padre che tifaranno sentire orgogliosa di lui.» E così sono andata inTexas per stare un po’ con Bill e la sua famiglia. Quandofinalmente ci siamo conosciuti di persona, io ero seduta albancone della sua cucina e stavo mangiando un biscottofatto in casa. Insieme abbiamo dedicato molte giornate aviaggiare a ritroso nel tempo.

Nel loro primo anno di università Bill comprò untelevisore e Murtaza uno stereo. La loro giornata tipo era laseguente: si svegliavano verso le nove - a entrambipiaceva alzarsi presto, ma ancora di più far tardi la sera - esubito si separavano per andare ciascuno alle proprielezioni. Poi studiavano insieme, in biblioteca o in camera,fin verso le otto di sera. Infine invitavano da loro qualcheamico, giocavano a dadi, socializzavano e ascoltavanomusica reggae - The Harder They Come era il loro albumpreferito - fino a notte fonda.

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Alla fine del semestre, vedendo avvicinarsi il momento ditornare a casa, Murtaza e Bill siglarono un accordo.Ciascuno avrebbe portato all’altro i giornali della propriacittà, e quando si fossero ritrovati, in autunno o inprimavera, avrebbero dedicato qualche ora a leggere concuriosità le notizie del Texas o del Pakistan.

I due condivisero la stanza per tutto il tempo cherestarono al college. Di tanto in tanto accoglievano altricompagni, sostanzialmente per motivi organizzativi, marestarono sempre particolarmente legati l’uno all’altro.«Politicamente Murtaza era molto raffinato per avere solodiciotto anni», racconta Bill, oggi sindaco di Houston - laquarta città degli Stati Uniti - ed esponente di spicco delPartito democratico: dal giorno in cui lui e mio padre silaurearono, ad Harvard, sono passati esattamentetrent’anni. «Aveva una sorta di dignità naturale, una certagravità. Entrambi eravamo molto idealisti e populisti in ciòche pensavamo del mondo […] e non vedevamo l’ora dientrare in politica. Lui non desiderava affatto diventarericco - ne parlavamo spesso, soprattutto perché, per unservitore dello stato, si tratta di una debolezza. Suo padreaveva già subito degli attentati, non ignorava che fossepericoloso, ma sapeva esattamente quel che voleva fare.Aveva un sincero interesse per la storia, l’ideologia e lapolitica.»6

Mio padre però era anche un ragazzo molto giovane chesi trovava lontano dalla famiglia per la prima volta in vitasua. Un’amica del primo anno lo ricorda socievole ed

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estroverso. Milbry capì subito che Murtaza sarebbediventato qualcuno nella vita, una figura importante, mavide che non se ne vantava mai con gli altri. In lui c’eracome una luce, che durò per tutti gli anni della loroamicizia. Mir era tranquillo e rilassato, non come tanti altriche cercavano freneticamente il successo. Era giovane,spensierato. Due o tre settimane dopo il loro primoincontro - avvenuto alla proiezione di un film di WoodyAllen, a metà del quale entrambi si erano alzati lasciandola sala - Murtaza telefonò a Milbry lamentandosi di nonavere più niente di pulito da mettere. «Gli dissi di fare ilbucato», ricorda Milbry sorridendo, «ma lui non si era mailavato i vestiti prima di allora; così gli mostrai doveprocurarsi i quarti di dollaro e come mettere il detersivonella lavatrice. Due ore dopo chiamò di nuovo, urlando:“Cosa mi hai fatto fare? Tutte le mie giacche si sonoristrette! Anche le scarpe!” Aveva buttato tutto quanto inlavatrice, aspettandosi di vedere i suoi eleganti completivenirne fuori puliti e stirati!»7

Insieme a Milbry, Murtaza si candidò per una Harvardletter. Provarono a entrare nella squadra di tiro. Milbryaveva imparato a sparare in Texas e Murtaza a Larkana,andando a caccia con suo padre. Ma quando sipresentarono agli allenamenti si ritrovarono in uno spaziopiccolissimo, dove il fatto di centrare o meno il bersagliodipendeva da una frazione di centimetro. Tutto moltoprofessionale, nessuno spazio al caso. Milbry ricorda checi andarono un paio di volte, dopo di che Mir le sussurrò

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all’orecchio: «Ma questo non è un vero sport, non ti pare? »e decisero di lasciar perdere. Le attività extracurriculari diMir ad Harvard non erano molte. Murtaza e i suoi amici,che lo chiamavano tutti Mir, andavano al cinema al centrostudentesco del campus (soprattutto per vedere i film diJames Bond) oppure da Elsie a farsi un panino, o daTommy, un ristorantino aperto ventiquattr’ore suventiquattro, per uno spuntino di mezzanotte, oppure in unristorante cinese, l’Hong Kong, famoso soprattutto per lapessima qualità del cibo.

Benazir e Murtaza frequentarono Harvard negli stessianni: Benazir era alla Radcliffe e un anno avanti rispetto alfratello, ma una distanza che nella realtà delle cose nonesisteva affatto fu costruita proprio in quegli anni. I duefratelli avevano ciascuno un gruppo di amici e interessipropri, e anche se conoscevano ciascuno gli amicidell’altro e passavano parte del loro tempo insieme,Murtaza preferiva lasciare Benazir nel suo mondo. Lui sisentiva più vicino all’altra sorella, Sanam, che li raggiunsead Harvard due anni dopo. Come quando erano bambini,Sanam svolazzava tra il fratello e la sorella, adattandosi aentrambi ma senza votare a nessuno una lealtà esclusiva.Sanam, accomodante di carattere e del tutto indifferentealla politica, era divertente e malleabile quanto Benazir eraorgogliosa e distante anche con i ragazzi e le ragazze dellasua stessa età. E poi, come tutti sapevano, la sorellamaggiore disprezzava le fidanzate del fratello. Una volta,per lettera, ho chiesto a mio padre di raccontarmi qualcosadelle sue vecchie fiamme, nella speranza di trovare

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qualche difettuccio nel mio anche troppo perfetto papà.«Chiedi a Wadi», mi ha risposto lui. «Lei le odiava tutte.»

«A quei tempi, se non avessi saputo che suo padre eraprimo ministro non l’avrei mai immaginato», raccontaPeter, uno dei tre compagni di stanza di Murtaza nelsecondo anno, ancora stupito di quel fatto dopo tanti anni.«Era molto alla mano, molto equilibrato, non si arrabbiavamai, ma sono convinto che si tenesse tutto dentro come unpeso. Penso che si sentisse sulle spalle una certaresponsabilità, era consapevole di far parte di un qualcosapiù grande di lui.»8 Peter ricorda anche di averlo vistodigiunare durante il mese del Ramadan. Lui, figlio dellaclasse operaia di Buffalo, New York, non aveva maiconosciuto un musulmano. «Ma come fate a non bere pertutto il giorno?» domandò una volta al suo compagno distanza. Ancora oggi ricorda come Mir, col suo miglioraccento pachistano - che Peter imita per me quando vadoa trovarlo nel suo ufficio di Phoenix - gli rispose: «Bisognafarlo e basta, amico». Peter ricorda anche la frustrazionecon cui Bill dovette arrendersi all’idea che Mir non avrebbemai apprezzato le gioie della musica country.

«Era sempre perfettamente a suo agio in ogni luogo»,ricorda Magda, una specializzanda in letteraturecomparate che faceva parte della cerchia di Murtaza,creata interamente nel primo anno di college. Somiglia unpo’ a una Kathleen Turner in bruno, ha la voce roca e portaun filo di perle che le saltella sul petto a ogni scoppio dirisa. È mezza cubana e mezza basca, e all’epoca usciva

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con uno degli ultimi compagni di stanza di Mir. Andavano aballare. «Il ballo l’ho nel sangue, io sono cubana, somuovermi», racconta. «Tuo padre invece…» A questopunto Magda si alza in piedi e lo imita, lui che è semprestato famoso come ballerino appassionato ma pessimo:perfettamente diritta, fa ondeggiare le mani all’altezza delpetto un po’ di qua e un po’ di là, con un ritmo meccanico,da robot, dondolando la testa al suono di una musicaimmaginaria. «Questo lo chiamavamo “Ballo di Mir”»,spiega. Mentre parlavamo ha pianto più volte. «Tuo padreera una delle persone più gentili che abbia maiconosciuto», conclude. «Aveva un cuore grande così.»9

Tutti gli ex compagni di college di papà sono rimastisconvolti alla notizia del suo assassinio, e tutti,incontrandomi, mi hanno esaminato minuziosamente allaricerca di somiglianze con lui - siete uguali, ma tu sei piùbassa (come è potuto accadere?), le tue mani sonoidentiche alle sue: poi però, una volta a loro agio, hannocominciato a tempestarmi di domande per cercare dicapire com’era possibile che il Mir che conoscevano fossestato ucciso. Prima di ogni intervista, di ogni incontro, midicevo che non dovevo cedere alle emozioni, che dovevosforzarmi di non andare in pezzi davanti a quelle personeche stavo per conoscere con tanto nervosismo. Poi perònon piangevo, o piangevo poco: ero troppo stupita emeravigliata di quel mondo appena scoperto perpermettere alla tristezza di sopraffarmi. Nel giro di pochesettimane il mio universo si è allargato in modo

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esponenziale, e con lui la conoscenza che ho di mio padre:mi esaltava scoprire una parte così importante del suopassato, ma al tempo stesso ero anche arrabbiata, furiosaall’idea che quelle persone, che erano state la sua famigliaamericana, mi fossero state nascoste. Era evidente chequasi tutte conoscevano le mie zie, Benazir e Sanam, opiuttosto erano le mie zie a conoscere loro, perché nelcorso degli anni si erano tenute in contatto con gli amici diMurtaza, soprattutto se nel frattempo erano diventatiimportanti, e avevano i loro numeri di telefono e i loroindirizzi di posta elettronica, e si erano scambiate con lorocondoglianze e auguri di Natale e ragguagli su mogli e figli.Ed ecco che arrivo io, la piccola investigatrice privata, e mimetto a correre qua e là rincorrendo ombre e vagheimpronte illuminate solo dalle parole di qualche gentilesconosciuto. Mi sono sforzata di non dare troppaimportanza all’ingiustizia rappresentata dal fatto di esseretenuta all’oscuro; in fondo alla fine ho trovato tutte lepersone che mi servivano, e non importa come ci siariuscita. Milbry, che con la sua calda risata e i suoiaffettuosi abbracci mi ha tenuto compagnia nel primogiorno del mio viaggio a ritroso nel tempo, oggi mi inviagenerosamente informazioni di ritorno sui miei articoli econsigli per la mia carriera; sono sulla mailing list deisostenitori di Bill, in corsa per il senato; e Magda - ilpersonaggio con cui si conclude il mio viaggio - mi scrivedelle e-mail di conforto ogni volta che le notizie provenientidal mio paese le sembrano troppo tristi. Presto ciincontreremo ancora, e lei potrà mostrare anche a mamma

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il «Ballo di Mir».

Ad Harvard Murtaza studiò principalmente scienze delgoverno - la sua specializzazione - ma da qui prese variediramazioni e seguì lezioni di sociologia, scienzeambientali - il suo preferito era un corso intitolato «Il futurodella terra» - e storia, soprattutto per quanto riguardava lelinee di politica estera di Russia e Unione Sovietica.Robert Paarlberg era un professore associato tornato adHarvard per lavorare al suo dottorato dopo il serviziomilitare in marina; e nella primavera del 1975 tenne unseminario intitolato «Relazioni internazionali e politichedella sicurezza». «Non sapevo cosa aspettarmi quandolessi il nome di Murtaza sull’elenco degli studenti che mierano stati assegnati», mi racconta nel suo ufficio adHarvard, dove ancora insegna. «Era il figlio di un primoministro. Io non ero ancora tornato ad Harvard quandoc’era sua sorella, ma mi avevano detto che era schietta,che le piaceva farsi notare e che non rifuggiva certodall’appoggiarsi alle sue conoscenze altolocate. Ma laprima volta che lo vidi capii subito che Murtaza era lì perapprofittare al massimo di ciò che un corso di prelaurea adHarvard può offrire. Prendeva i suoi studi molto sul serio[…] Era modesto e affabile. Ricordo che pensai: Accidenti,questa sì che è una cosa interessante, non è che un bravostudente come ce ne sono tanti.»10

A Murtaza interessava soprattutto la politica estera. Al di

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là dell’oceano, in quel preciso momento, qualcuno stavacostituendo il Bangladesh strappandolo via dalla carne vivadel Pakistan. Negli Stati Uniti la guerra del Vietnamlacerava un’intera generazione di giovani americani,mentre la guerra fredda allungava la lista dei suoi adepti esi spostava lungo linee tracciate alla fine del secondoconflitto mondiale. Paarlberg era stato ufficiale dei servizisegreti della marina statunitense: Murtaza trovò la suatestimonianza interessantissima e i due trascorsero moltotempo insieme, in classe e fuori. «Era evidente che quelragazzo poteva diventare un ottimo politico», ricorda il suoinsegnante. «Mir aveva facilità a entrare in contatto con lepersone, e le ascoltava per davvero. Aveva tocco leggeroe senso dell’umorismo, e non esagerava maiatteggiandosi a grande uomo politico mentre era ancorasoltanto uno studente di Harvard. Sembrava che sapessevivere l’attimo.»

Il professor William Graham, ora decano della DivinitySchool di Harvard, teneva un corso sulla civiltà islamica.«Penso mi guardasse con curiosità perché ero un biancoanglosassone che insegnava l’islam», ricorda con unarisata. «Delle mie lezioni gli interessava soprattuttoallargare le conoscenze che aveva sull’islam fuori dalPakistan - parlavamo dell’Africa, per esempio; era unacosa che lo interessava moltissimo.»11

In uno dei suoi testi d’esame di Harvard con la copertinablu, contrassegnato da una B un po’ deforme, Murtaza situffa anima e corpo nel materiale del professor Graham: «Il

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sistema islamico è una società, uno stato, un pensiero eun’arte», recita una delle sue risposte citando BernardLewis (non ancora noto come il consigliere academiccum-state-department che spinse l’America in guerra dopo l’11settembre, o addirittura, temo, come il primo orientalistadel mondo accademico). Ma Murtaza va oltre, collegando ilsuo interesse per le tecniche di governo al temadell’ordinamento islamico: «Il profeta fu un leader religiosoma anche un legislatore, un capo dell’esecutivo e delsettore giudiziario. Fu un uomo dal potere assoluto». Sottoqueste risposte è disegnata la mappa di alcune zoneagricole non irrigue a nord del Sahara e a sud dellemontagne turche che spiegano la natura nomade delleprime comunità islamiche. Il commento, scritto a matita,dice: «Saggio eccellente, che tocca sia i punti generali siale illustrazioni pratiche».

«In classe, o negli altri nostri scambi, non avevo mai lasensazione che volesse far sapere a tutti chi era», affermail professor Graham, che negli anni da loro trascorsi adHarvard conobbe anche le due sorelle Bhutto. «Per tutti luiera solo e semplicemente Mir. E questo lo rendeva moltosimpatico. Non aveva un’ idée fixe sulle posizioni sociali osul potere. Non era mai prepotente, non si presentavacome uno che stesse scaldando i muscoli per diventarechissà chi. Non si imponeva, ma quando si apriva e tucominciavi a parlargli era molto affettuoso e socievole, unapersona con cui era facile comunicare.»

Con i compagni, le sue amicizie nel mondo politico ol’eredità genetica della sua famiglia non diventavano quasi

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mai oggetto di conversazione. In Pakistan era cresciutocome il figlio di un politico di primissimo piano; là, quelladefinizione determinava il modo in cui gli altri loguardavano, e lui non voleva assolutamente portarseladietro anche al college. Quando gli scappava una parola inmerito, il tono era soprattutto ironico. Il professor Paarlbergricorda che una volta, nella primavera del 1975, Murtaza, ilsuo studente più appassionato, non si presentò allalezione. Quando la classe si riunì di nuovo per ascoltare lesue parole e discutere con lui, Mir andò a scusarsi dicendoche era stato fuori città. «Dove?» gli domandò il professorPaarlberg. «A Washington» rispose Murtaza. «A far che?»insistette il docente. «Be’, a un pranzo di stato», risposeMurtaza. «Ho pensato che poteva essere interessante.»Suo padre era stato in visita ufficiale nella capitale USAper incontrare il presidente Gerald Ford, il cuipredecessore, Richard Nixon, era sempre stato moltoamichevole nei confronti suoi e del Pakistan. Ormai ilprofessor Paarlberg aveva scoperchiato il vaso diPandora: un altro studente saltò su e gli chiese se la figliadi Ford, famosa per la sua bellezza, ballasse anche bene.«Murtaza rispose di sì, ma aggiunse che lui ballavameglio», ricorda Paarlberg con una risata. «Ma dovetteropunzecchiarlo non poco per farglielo dire.»

Durante un’altra visita alla Casa Bianca di Nixon,qualcuno aveva informato il presidente che proprio quelgiorno il figlio del primo ministro pachistano compiva glianni. Allora Nixon andò al piano e gli cantò Happy Birthday. Doveva essere il suo ventesimo compleanno, e credo

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proprio che Murtaza l’abbia trascorso come mai nessunaltro ventenne - ascoltando una serenata offerta dal rigidoDick Nixon. Ma questa storia Murtaza la tenne per sé.

Alla fine del suo junior year all’università Murtazacominciò a lavorare alla tesi che avrebbe riassunto tutto ilsuo lavoro ad Harvard. Ne parlò con il professor Paarlberg:voleva scrivere qualcosa sul Pakistan e la questionenucleare. «Fu l’unica volta in cui, parlando, venne fuori ilnome di suo padre», racconta il professor Paarlberg. «Iotemevo che non sarebbe riuscito a procurarsi tutte leinformazioni di cui aveva bisogno per scrivere quella tesi,con tutti i segreti di stato e le chiusure governative che glisarebbero stati opposti, ma Murtaza liquidò le mieobiezioni con una risata e disse che quell’estate sarebbetornato a casa e sicuramente avrebbe avuto modo diraccogliere i dati necessari.»

All’inizio del senior year Murtaza fu preso comeassociato non laureato al Centro per gli affari internazionalidi Harvard. La lettera d’accettazione, datata 19 novembre1975, specifica le linee guida del lavoro che il giovanedeve svolgere al centro ed esplicita che si tratta di unprestigioso onore per «studenti dell’ultimo anno impegnatinella ricerca e nella stesura della loro tesi», ricordando aipochi fortunati ammessi che, pur avendo accesso a tutte leattività del centro e ai seminari speciali, «di regola nonpossono attingere alle scorte di materiali né usare lefotocopiatrici del Centro stesso».

C o m e tutor gli fu assegnato un consulente del

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dipartimento di governo - l’unico problema, scrive Murtazain una lettera a casa, era che questo consulente, un nomeimportante del dipartimento, era anche tristemente notocome «il macellaio del Vietnam»: il suo nome era SamuelHuntington. Proprio lui: Samuel «scontro di civiltà»Huntington, a quel tempo noto soprattutto per il suo ruolo diconsigliere sulla guerra del Vietnam. Era stato lui asostenere la necessità di radunare gli abitanti dei villaggi inagglomerati lontani dalla zona d’influenza dei Vietcong,apparentemente senza rendersi conto che così era moltopiù facile per l’esercito statunitense bombardarli. Nellaprimavera del 2006, a Cambridge, ritrovo un Huntingtonfragile e invecchiato. In pieno aprile indossa un maglione dilana blue marine, e beve Coca-Cola da un bicchierone dicarta di Starbucks. Parlando si stringe sempre di più nellasua poltrona di pelle marrone, e sembra molto più piccolodi quanto la sua terribile leggenda possa suggerire.Afferma di ricordarsi di Murtaza studente, ma «non troppobene».

Quando gli ricordo che aveva lavorato con Murtaza allasua tesi di laurea, per la quale aveva preso il massimo deivoti, scuote la testa e borbotta: «Bene, molto bene», quasistupito del suo coinvolgimento nella cosa. Poi mi raccontache lui e Murtaza si vedevano più volte al mese perdiscutere dei progressi del lavoro, Murtaza desideravascrivere della proliferazione nucleare; così ne discutemmoe io lo incoraggiai». Ovvio che tu l’abbia incoraggiato,penso: sei Samuel Huntington. L’argomento«proliferazione nucleare» doveva produrre una sorta di

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reazione pavloviana in uno come Huntington; immaginoche la cosa lo eccitasse terribilmente. Poi mi raccontaancora che lui e Murtaza avevano delle «vivacidiscussioni» (improbabile), che parlavano spesso delVietnam, anche se «ora non ricordo cosa dicesse lui ocosa dicessi io» (per fortuna), e che pur sapendo che quelgiovane aveva «un background straordinario, ciò noninfluiva affatto su di lui come studente». Era rimastopositivamente impressionato dal fatto che Murtaza nontirasse in ballo la famiglia mentre lavorava per portare atermine le sue ricerche e scrivere la tesi. Gli domando sericorda qualcosa del lavoro di mio padre. «Per quantoposso rammentare era una tesi davvero ottima», mirisponde, ma poi si impunta e non vuole concedermi altro.È stato una persona difficile da intervistare: la maggiorparte degli undici minuti che mi ha dedicato li ha impiegatia leggere scrupolosamente degli appunti che qualcuno gliaveva preparato - quasi tutti su di me, come notai constupore -, a stringersi nelle spalle e ad ammettere in tuttasincerità che non si ricordava. «Devo proprio dirglielo», miha detto a un certo punto, «io ho una pessimamemoria.»12

Murtaza si buttò nella sua tesi anima e corpo, e lavoròsenza tregua alle ricerche e alla composizione del testo.«Era una cosa piuttosto strana, per Harvard, perché quellatesi riguardava il fatto che il Pakistan aveva la bombaatomica», mi racconta Bobby Kennedy Jr, un altro amico ecompagno di stanza di Murtaza, quando ci incontriamo

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nella sua casa di New York, fra due imminenti scadenze di«Rolling Stone». Ci siamo concessi una brevissima pausapranzo - ho mangiato molto, durante le mie ricercheamericane - e stiamo parlando dei vecchi tempi. «Tutti,compresi i suoi amici, erano stupiti che volesse farlo - malui non aveva paura di trattare l’argomento. Eraperfettamente in grado di difendere le sueconvinzioni.»1314

Il prodotto finale, Un pizzico d’armonia, è unadissertazione di laurea finemente rilegata sul diritto delPakistan ad avere la bomba atomica per difendere la suaposizione regionale. La proliferazione nucleare pachistana,sostiene Murtaza, garantirà la moderazione militare fra ilPakistan e la sua nemesi storica, l’India, e non potrà cherendere più stabili i rapporti internazionali a livelloregionale. Secondo Murtaza, sarebbe stata la primaesplosione nucleare indiana a imporre al Pakistan di farealtrettanto; ma anche se il Pakistan avesse seguito questastrada, la proliferazione di armi nucleari nel subcontinentenon avrebbe avuto un effetto di eccessiva destabilizzazionesul sistema internazionale, anzi, lo avrebbe tenuto inequilibrio.

In una lettera al figlio risalente al periodo in cuiquest’ultimo lavorava alla sua tesi e ne mandava i capitolial padre perché li leggesse, Nusrat scrive:

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Papà mi ha fatto notare come scrivi bene,adesso, e come sei maturato, eall’improvviso mi sono resa conto del fattoche ormai sei un giovane adulto e non il miobambino piccolo. Suppongo,inconsciamente, di aver continuato apensare a te come al mio piccolino, e invecesei il mio figlio adulto, un uomo; oops, non sopiù cosa scrivo, sono diventata sentimentale- non posso farne a meno, ti voglio troppobene. Possa tu vivere una vita felice e riccadi successi, prego sempre affinché tu possavivere fino a cent’anni.

Tanto Zulfikar era severo e composto con i suoi figlimaschi, quanto Nusrat era espansiva e amorosa sia con imaschi sia con le femmine. Era una madre moltoaffezionata, che ogni volta che aveva attorno i figlidiventava spumeggiante, dimenticando tutte le norme didisciplina e di protocollo cui Zulfikar teneva tanto. MentreMurtaza era al college, fu lei ad assumersi il compito diritagliare gli articoli di giornale e a mandarglielidiligentemente, un pacchetto ogni due mesi circa.

Un pizzico d’armonia fu letto e commentato da tredocenti del college. Il primo lo definì «perversamentefresco» e trovò le intuizioni del suo autore «piuttostoeleganti». Questo esaminatore plaude all’integrazione

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realizzata tra varie scuole di filosofia politica, soprattuttoHobbes, Rousseau e Machiavelli, «in un collegamento fraanalisi politica in senso tecnico e problemi politici più ampiche sfortunatamente è estremamente raro in chi scrive diarmamenti nucleari». La tesi viene giudicata «provocatoriae ben argomentata». Il secondo docente si dimostra menocolpito. Per Michael Ng Quinn l’autore non ha saputo«rispondere a una domanda cruciale: nonostante la suaraccomandazione di dotarsi di armi nucleari, perché ilPakistan non l’ha fatto?». Il terzo docente si colloca inqualche modo su una posizione intermedia: pur trovando latesi «argomentata in modo convincente» e il suo autore«molto abile nel sostenere, contro ciò che verrebbe dapensare in un primo momento, che la proliferazionenucleare può avere effetti positivi sull’ordine mondiale e, inparticolare, può introdurre nel conflitto indo-pachistano unmaggiore livello di responsabilità», solleva qualcheobiezione in merito all’analisi proposta dall’autore delconflitto regionale in termini «astratti» e teorici.

Nonostante le critiche dei relatori, comunque, la tesi fuapprezzata e Murtaza Bhutto ottenne il massimo dei voti.Informato del successo di suo figlio, Zulfikar gli mandò untelegramma attraverso la Western Union a nome di tutta lafamiglia. Il testo, datato 16 giugno, fu evidentementecomposto in fretta e nel massimo dell’eccitazione: in quasitutte le parole c’è un errore d’ortografia. «Mumma, Gugail eio e tutti gli altri ci uniamo nel congratularci con te peresserti laureato ad Harvard con il massimo dei voti. È ilrisultato che hai ottenuto lavorando duro e con dedizione.

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Possa tu ottenere altri splendidi successi in futuro. Il tuopapà che ti vuole tanto bene.»

Murtaza si laureò nel 1976, classificandosi nel migliordieci per cento della sua classe, magna cum laude.

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CAPITOLO 6Nell’autunno del 1976 Murtaza era in viaggio per

l’Inghilterra.Aveva fatto domanda d’ammissione all’ alma mater di

suo padre, Oxford, ottenendo un posto alla Christ Churchper studiarvi dottrine politiche, filosofia ed economia. Lalettera che gli offre quel posto, datata 28 novembre 1975,lo avverte che probabilmente, prima di cominciare il corsodi laurea vero e proprio, dovrà sostenere alcuni esamipreparatori d’economia - a ulteriore riprova del fatto che lamatematica serve sempre - ma afferma anche: «Siamomolto contenti del fatto che lei porti avanti la tradizione difamiglia».

A Oxford, ancora una volta, Murtaza si trovò a distanzaravvicinata da sua sorella Benazir. I due si erano giàincrociati ad Harvard insieme all’altra sorella, Sanam; mapur vivendo relativamente vicini le loro cerchie di amicierano state come poli separati, e avevano condottoesistenze molto diverse. In quegli anni, a quanto sembra,comunicavano soprattutto per lettera. Ogni volta che facevaun viaggio Benazir mandava al fratello una cartolina. Suuna, risalente al 1974, si legge: «Una cartomante mi hadetto che mi sposerò a ventisette anni e che vivròall’estero, in una fattoria, occupandomi di pecore emucche»; la firma è BB. Un’altra, dell’epoca in cui approdòa Oxford, un anno prima del fratello, Benazir comincia con:«Mio caro mascalzone»; e prosegue lamentandosi del

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fatto che ha «dovuto far salire Michael Foot, ministro dellaDisoccupazione, sulla mia piccola MG sportiva». Questacartolina è firmata Pinkie, il soprannome di quando erabambina. Dalla Nuova Zelanda, dove è andata in visitaufficiale insieme ai genitori, Benazir scrive: «La NuovaZelanda è straordinaria, ho incontrato moltissime personeaffascinanti - e con “affascinanti” bisogna intendere quelleche si sono innamorate di me». Dallo Sri Lanka, doveancora una volta è in visita di stato insieme al padre, suuna cartolina illustrata raffigurante alcuni danzatori kandyanscrive: «Ieri notte tre ministri cingalesi mi hanno aiutato anascondermi affinché potessi fumarmi in santa pace unasigaretta dopo il banchetto senza che papà mi vedesse».Ma la migliore viene da Parigi: «Ho dovuto camminare perun’ora intera in giro per tutto il Louvre per far piacere amamma. Versailles mi è piaciuta moltissimo: potrestiregalarmela per il mio compleanno? Con amore. Pinkie».

All’avvicinarsi di ottobre, e della data prevista per l’arrivodi Murtaza, il decano della Christ Church scrisse al censoreanziano in merito alla sistemazione del giovanotto. Murtazaera stato sistemato al n. 2 di Brewer Street, ma fu decisoche il suo indirizzo sarebbe stato omesso dall’elenco deglialloggi e delle sistemazioni. Il decano ordinò inoltre aiportinai di non comunicarlo a nessuno, nemmeno per direche il ragazzo studiava da loro. La circolare, moltolungimirante, conclude: «Se in qualsiasi momento della suapermanenza presso di noi la politica estera del Pakistandovesse creare tensioni, potrebbe essere necessarioadottare misure straordinarie come quella di suggerirgli di

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non percorrere mai la stessa strada alla stessa ora delgiorno, se appena può evitarlo».

Era ormai estate quando, finalmente, l’esercito si arrese.Le elezioni erano imminenti, e un tormentato Zulfikarfaceva del suo meglio per rappacificarsi con i suoiavversari. Ma proprio mentre l’accordo informale fra il PPPe una neonata alleanza di partiti di opposizione stava perandare in porto, il generale Zia mise fine alla democrazia.La notte del 4 luglio 1977 le frontiere furono sigillate e ilgenerale si autoproclamò amministratore della leggemarziale. Le elezioni si sarebbero tenute entro novantagiorni, promise Zia alla televisione, e nel frattempo il primoministro, Zulfikar Ali Bhutto, sarebbe rimasto sotto«custodia protettiva».

Rilasciato qualche settimana dopo, subito Zulfikar si tuffòin una campagna elettorale destinata a toccare i quattroangoli del paese e tesa a galvanizzare le masse e abloccare il tentativo dell’esercito di screditare la suapersona prendendo il potere. A giudicare dai milioni dipersone che scesero in piazza per ascoltarlo, se pureaveva perso parte del suo credito politico mentre era alpotere è evidente che a quel punto Zulfikar l’avevapienamente riconquistato. Il generale Zia capì che Bhuttonon avrebbe mai perso le elezioni, indipendentemente daquando lui le avesse organizzate. «Si tratta di lui o me»,pare abbia profetizzato un giorno. «Due uomini, una solabara.»1

Era estate a Karachi, faceva un caldo soffocante e

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Murtaza era a casa per le vacanze dopo il suo primo annoad Oxford. Non appena suo padre fu arrestato, gli furecapitato un messaggio: «Va’ subito a Larkana, fa’ partirela campagna elettorale». Murtaza raggiunseimmediatamente il collegio elettorale della sua famiglia,portando con sé anche Shahnawaz, il fratello minore.Aveva ventitré anni, e senza alcun aiuto, mentre Zulfikar e isuoi avvocati si occupavano del processo, si mise alavorare per suo padre. Incontrò contadini, notabili locali,tutte le persone con cui aveva già collaborato da ragazzo,durante la prima campagna elettorale di Zulfikar.

Dopo vari arresti e rilasci, il governo militare formalizzòcontro Zulfikar l’accusa di «cospirazione finalizzataall’assassinio» sostenendo che aveva cercato di uccidereuno dei suoi oppositori politici, Ahmed Raza Kasuri. Ineffetti tre anni prima, alcuni uomini armati avevano aperto ilfuoco contro l’auto di Kasuri, uccidendone il padre. Maall’epoca l’esponente politico - ex membro del PPP - neaveva dato la colpa al governo, il tribunale incaricato delleindagini ne aveva respinto le accuse, dopo di che Kasuriera rientrato tranquillamente nel Partito del popolo - quellostesso che ora accusava di averlo aggredito e di avergliucciso il padre. Le accuse, sensazionalistiche eprovocatorie, erano estremamente deboli quanto a provedi fatto: ma la pena per omicidio era la morte perimpiccagione, e non erano previste eccezioni per i primiministri. Evidentemente Kasuri aveva deciso di cooperarecon i militari, e le accuse contro Zulfikar furonoregolarmente depositate. L’avevano in pugno.

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Fu a Larkana che Murtaza vide suo padre libero perl’ultima volta. Zulfikar era arrivato in città da Lahore. Nondormiva da due giorni. Gudu, che stava lavorando allerovine di Moenjodaro, a mezz’ora dalla casa dei Bhutto (unincarico che gli aveva fatto avere Nusrat), abitava daMurtaza. Era notte fonda, dopo la mezzanotte, quandoGudu aprì la finestra del bagno, perché un rumore esternoaveva attirato la sua attenzione. C’era un certo baccano,ma non il familiare brusio della folla radunata fuori da AlMurtaza cui ormai si era abituato, il solito frastuono dislogan e canti politici. C’era qualcosa di più ordinato einquietante in quel chiasso. Aprendo la finestra, Gudu videche alcuni uomini in uniforme si stavano arrampicando suimuri esterni della casa. «Andai nel panico», ricorda.«Corsi subito da Mir e gli dissi cosa avevo visto. Lui restòcalmo come sempre. Disse che dovevo calmarmi anch’io,e insieme andammo a parlare con suo padre.»

Quando i due raggiunsero Zulfikar, davanti a lui c’era unufficiale dell’esercito. Gudu ricorda che il militare si scusòcon il primo ministro: «Mi dispiace, sahib», disse, e loscortò all’automobile che l’aspettava in strada.

Mir, Shah e io eravamo soli in casa.Restammo in piedi tutta la notte, poi io feci lavaligia, deciso a lasciare il mio sitoarcheologico di Moenjodaro in mattinata. Mirera preoccupato, ovviamente, ma si

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controllava. Zulfikar gli aveva detto qualcosa,prima di essere portato via. Qualcosa diprivato. Il mattino dopo saltò su un aereo perRawalpindi, dove c’era sua madre Nusrat.

A Rawalpindi, i figli si ricongiunsero alla loro madre.Nusrat si era chiusa nel quartier generale fin da quandosuo marito era stato arrestato, ed era fuori di sé dallapreoccupazione. Dal primo arresto di Zulfikar, in luglio, nonaveva praticamente più dormito. Il rumore degli stivalimilitari che salivano le scale ed entravano in camera perarrestare suo marito, terrorizzando i suoi figli, continuava atormentarla. Da allora ha sempre portato i tappi nelleorecchie. Io stessa ricordo di averglieli visti mettere ognivolta che si ritirava in camera sua per la notte, nel tentativodi chiudere quel rumore fuori dal suo sonno. Non era piùsicuro, per Murtaza e Shahnawaz, restare in Pakistan. Ilregime stava costruendo attorno a Zulfikar un casopersonale oltre che politico, e per quelli che gli erano viciniil pericolo cresceva di giorno in giorno. Zulfikar fecearrivare un messaggio ai suoi figli: dovevano lasciare ilpaese. E chiese a un suo amico di occuparsene, dimandare i ragazzi fuori dal Pakistan. Fallo in manieralegale, se puoi, gli chiese, ma se dovesse rivelarsiimpossibile trova altri canali. Se gli alti papaveridell’esercito che si erano impadroniti dello stato avesserovoluto colpirlo, l’avrebbero fatto attraverso i suoi figli.

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Murtaza cercò di discutere, ma Zulfikar fu perentorio.Mir tornò dunque a Oxford, e Shahnawaz al college che

stava frequentando in Svizzera: ma non ci rimasero alungo. I fratelli infatti lanciarono immediatamente unacampagna internazionale per salvare la vita di loro padretramite il Save Bhutto Committee, con base operativa aLondra. A volte con la madre, rimasta in Pakistan con lefiglie, ma più spesso con altri attivisti del PPP o anche dasoli, i due si misero in viaggio per una lunga serie dimissioni diplomatiche. Innanzitutto andarono a Tripoli perincontrarvi il colonnello Gheddafi, buon amico di Zulfikar,che offrì loro pieno appoggio e asilo politico nel suo paesese mai ne avessero avuto bisogno. Quando in Pakistan lagiunta militare si fu insediata in modo stabile, il governochiese più volte a Gheddafi di invitare Zia in visita di stato;ma il colonnello rispose sempre di no, proprio per l’affettoche aveva nutrito per Zulfikar e per onorare la suamemoria. E questo nonostante un contingente delle forzearmate pachistane fosse di stanza in Libia per unaddestramento di lungo termine.

Poi Murtaza e Shahnawaz andarono a Beirut doveincontrarono il presidente dell’Organizzazione per laliberazione della Palestina, Yasser Arafat. Il colloquio fuorganizzato da un amico del college, e Arafat, consicurezza esagerata, disse ai due che sicuramente la vitadel loro papà sarebbe stata risparmiata. Poi raccontò diaver incontrato il generale Zia alla Mecca, mentre entrambifacevano l’Hajj; davanti alla Kaaba, Arafat gli aveva chiestodi risparmiare la vita di Bhutto e il generale gli aveva

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promesso clemenza. Incontrarono anche il presidentefrancese Giscard D’Estaing, che mandò al generale Ziaun’energica lettera di sostegno a Bhutto; parlarono altelefono con Kurt Waldheim, segretario generale delleNazioni Unite; e ricevettero il pieno appoggio del papa eamicizia e promesse di assistenza da parte di Hafez alAssad di Siria, per fare solo qualche nome.

Murtaza e Shahnawaz, rispettivamente di ventitré ediciannove anni, seguivano un ruolino di marciaestremamente faticoso. Incontravano dignitari di altri paesi,tenevano conferenze stampa, manifestavano sottoambasciate pachistane ed esercitavano pressione sugiornalisti e comunità di connazionali all’estero affinchéfacessero sentire la loro voce contro l’abrogazione dellacostituzione del 1973; e tutto continuando a studiare,mandando per posta tesi e relazioni ai propri tutor oparlando con loro al telefono. Ma erano pur sempre ragazziche si scambiavano sguardi ironici notando le posedecadenti di Arafat e i bei giovani segretari di cui sicircondava. Spesso si ritagliavano brevi momenti dileggerezza durante i quali scherzare un po’ fra loro adispetto della difficile congiuntura.

Quando invece dovette attraversare gli Stati Uniti senzasuo fratello, ma in compagnia dell’ex ministro capo delPunjab, Mustafa Khar, Murtaza fu esasperato dalle manierepedanti del vecchio. Khar, l’uomo che con la suacomplessa vicenda familiare indusse la moglie, TehminaDurrani, a scrivere Schiava di mio marito, il libro che rivelòverità scottanti sul suo matrimonio e che ebbe uno

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straordinario successo in tutto il mondo, non potevacominciare la giornata senza una mezz’ora di eserciziyoga, che insisteva a praticare completamente nudo.Murtaza doveva aspettare fuori dalla porta finché lui nonaveva trovato il suo zen mattutino. Ben presto il ragazzo neebbe abbastanza di quella monotona routine e un giorno,tanto per alleggerire un po’ le cose, decise di nonappendere alla maniglia il cartello «Non disturbare» comeKhar gli aveva chiesto. Al suo posto mise un altro cartello,che diceva: «Si prega di riordinare la stanza». Murtazaattese in corridoio l’arrivo della cameriera e crollò per terradalle risate quando la poveretta, sbalordita, si precipitòurlando fuori dalla stanza dopo essere inciampata in Kharnella posizione del cane inginocchiato.

Nella primavera del 1978 Shahnawaz tornò in Svizzeraper concentrarsi sugli studi. Avrebbe voluto lasciare anchelui l’università per dedicarsi a tempo pieno alla campagnainternazionale in difesa del padre, come suo fratello, maZulfikar, che era un genitore molto severo, non aveva volutonemmeno sentirne parlare e gli aveva ordinato, in terminiche non lasciavano spazio alla trattativa, di tornare inSvizzera. Quello dell’istruzione, per lui, era un punto nonnegoziabile. Murtaza invece restò a Londra, doveorganizzò manifestazioni a Trafalgar Square e assembleedi pachistani residenti in Inghilterra, ma sempre lavorandoalla sua tesi di master. Era l’estate del 1978: e propriomentre le attività del Save Bhutto Committee fervevano almassimo, mio padre si innamorò.

Il Save Bhutto Committee aveva il suo quartier generale

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a Londra, ma c’erano delle sezioni in tutto il Regno Unito.Murtaza andava regolarmente a Manchester e aBirmingham, per parlare con i membri delle sezioni e con isimpatizzanti nonché per reclutare nuovi alleati disposti amobilitarsi per salvare la vita al presidente Bhutto. Il SaveBhutto Committee organizzava raduni in parchi e salepubbliche, durante i quali Murtaza si esprimevaapertamente e con passione contro la dittatura che si eraimpadronita del suo paese.

Qualche tempo prima il giornale del Partito del popolo,«Musawat», era stato messo fuorilegge dal regime di Zia;e Murtaza s’incaricò di resuscitarlo pubblicandolo aLondra. Raccolse dunque alcuni giornalisti ed ex militantiper curarne la pubblicazione e scrivere gli articoli, matenne per sé la direzione editoriale, la decisione ultimasulle linee guida e la gestione di tutti i problemi logisticiconnessi alla stampa e alla distribuzione di «MusawatInternational», come si chiamò da quel momento in poi latestata.

Suhail Sethi, il suo amico d’infanzia che ben prestol’avrebbe raggiunto nell’esilio, spesso si recava a Londraper consegnare a Murtaza una lettera della madre Nusrat,rimasta in Pakistan. Nato in una famiglia benestante diPeshawar, Suhail si era sposato da poco. Conoscendo lasua lealtà nei confronti di Murtaza e della famiglia Bhutto,l’esercito lo tormentava con continue perquisizioni sia acasa sua sia a casa dei genitori della moglie, e più volte gliaveva consigliato di tenersi alla larga dalla politica. Luiperò non l’aveva fatto. Suhail era, ed è tuttora, il più fedele

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amico di mio padre. «Tutto era molto difficile, poiché per lamaggior parte del tempo lavoravamo in segreto. A un certopunto si seppe che begum sahiba - Nusrat - che viveva aLahore, sarebbe andata a Peshawar per l’anniversariodella morte di uno dei fondatori del PPP, ma soprattuttoper dimostrare la solidarietà e l’unità del partito contro Zia.Era una donna molto forte; era indubbio che ci sarebberiuscita, anche se le autorità avessero fatto di tutto perimpedirglielo. Ma non sapevo come. Così una sera,informato dell’arrivo di un Fokker da Lahore, andaiall’aeroporto e restai nel salone degli arrivi in attesa diveder comparire begum sahiba; ma lei non c’era. Poi mi siavvicinò una donna piuttosto alta che indossava il burqa, uncapo d’abbigliamento che allora non portava nessuno, emen che meno la signora Bhutto: era lei - si era travestita!

«Altre volte i problemi nascevano dentro la famiglia. Unavolta Pinkie…» Suhail si blocca: spontaneamente si èriferito a Benazir con il soprannome che portava dabambina invece che con uno dei vari titoli ufficiali che haassunto nel corso della sua vita, «intercettò un messaggioindirizzato a me. Mir voleva che lo raggiungessi a Londraper aiutarlo con il lancio di “Musawat” e chiedeva a lei didirmelo; Benazir però non lo ritenne necessario. In realtànon capiva affatto l’importanza di ciò che Murtaza stavacercando di fare ripubblicando “Musawat”. Fu lui a dirigereil giornale dalla fine del 1977 a tutto il 1982; si occupava ditutto. E non solo questo. Adesso si parla di Murtaza e diShahnawaz collegandoli solo a fucili e guardie armate; laverità è che la gente non ha la più pallida idea di cosa

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facessero allora.» Suhail tira un respiro profondo e sorride.«Una volta Benazir mandò a Mir una lettera confidenzialetramite una di quelle ochette delle sue amiche. La ragazzaaveva un fidanzato che proprio in quel momento stava perpartire per Londra, e Pinkie lasciò che desse la lettera alui. Mir sapeva solo che stava arrivando una missiva: nonsapeva chi gliel’avrebbe portata, ma dava per scontato chefosse una persona affidabile perché sua sorella gli avevadetto che era una cosa importante.» Suhail comincia atamburellare sul pacchetto di sigarette, e il ritmo si fasempre più incalzante col procedere della storia. «Dunque:il ragazzo arriva a Londra, e senza por tempo in mezzo vadritto all’ambasciata pachistana e lascia lì la lettera. Né Mirné io riuscivamo a capire cosa fosse successo, econtinuammo ad aspettare quella comunicazione finchénon ne leggemmo ampi stralci su “Nawa-iwaqt”, un giornalepachistano.»2

Di fatto fu proprio il fallimento di tutti questi sforzi politicie diplomatici a cambiare completamente la vita di Murtazae di suo fratello; ma i due non sapevano che cosa il destinoavesse in serbo per loro, o se anche lo sapevano nonvacillarono un istante. Lavoravano giorno e notte perinformare il mondo sulle ingiustizie perpetrate in Pakistandalla giunta militare. Nel frattempo i vertici dell’esercito,attraverso i loro tribunali di Lahore, formalizzavanonumerosissime accuse contro Zulfikar Ali Bhutto nellaforma di un Libro bianco. Zulfikar, che nella sua cellapresso la prigione di Rawalpindi dedicava le ore a scrivere

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memorie difensive per la corte suprema, redasse ancheuna risposta a quelle accuse: ovviamente però la giuntaimpedì che le sue parole fossero diffuse dai media: igiornali non poterono pubblicare nemmeno brevi estrattidella sua autodifesa.

Una copia di quel testo, tuttavia, fu contrabbandata fuoridal paese e arrivò fino a Londra, dove Murtaza lo preparòper essere pubblicato sotto forma di libro con il titolo If I amAssassinated (Se verrò assassinato). «Murtaza neavrebbe scritto l’introduzione», ricorda Suhail. «In queigiorni era talmente disperato che a un certo puntoscoprimmo che non aveva nemmeno chiesto i dirittid’autore. » Il libro uscì per la prima volta per «Biswin Sadi»,una rivista di Delhi. «Mir non volle nemmeno uncentesimo», commenta Suhail con tono esasperato. «Lasua missione era unicamente di far arrivare alla gente leparole di suo padre; in un anno ne furono stampate nove odieci edizioni. » Più tardi il libro fu stampato e distribuitoanche dagli uffici internazionali di «Musawat» con sede inBrushfield Street, a Londra.

L’edizione indiana di If I am Assassinated ha in quartadi copertina una foto di Zulfikar insieme ad alcune citazionidal testo.

Se verrò assassinato sulla forca […] cisaranno disordini e turbolenze, scontri econflagrazioni […] La posta in gioco non è

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semplicemente la mia vita. Non lasciateviingannare. La posta in gioco è il futuro delPakistan.

Sotto le citazioni c’è la firma obliqua di Zulfikar AliBhutto. Il libro è molto più di un riassunto dei vizi legalicontenuti nel Libro bianco della giunta: nel capitolointitolato «Il pregiudizio», Zulfikar affronta i molti attacchipropagandistici lanciati contro il suo governo e offre unquadro delle condizioni in cui lo tenevano i suoi aguzzini.

«Dal 18 marzo 1978 in poi ho trascorso ventidue-ventitréore su ventiquattro in una cella della morte congestionata esoffocante», scrive.

Sono rimasto immerso nella sua sordidezzae nel suo fetore per tutta una lunga estatecalda, fatta di afa e di pioggia. La luce època. La mia vista è peggiorata. La salute èmalferma. Sono stato in isolamento perquasi un anno, ma il morale è alto perchésono fatto di un legno che non bruciafacilmente. Grazie alla mera forza di volontà,in condizioni estremamente avverse, hoscritto questa autodifesa. Che scrivano pure iloro Libri bianchi. Io non ho bisogno di difesa

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presso il tribunale dell’opinione pubblica. Iservigi che ho reso alla causa del popolosono il mio specchio. Il mio nome è sinonimodi ritorno dei prigionieri di guerra, diKashmir, di summit dei paesi islamici, diconsiglio di sicurezza dell’ONU, di causa delproletariato. In condizioni normali non miprenderei nemmeno la briga di risponderealla trama di menzogne ordita da questodisgustoso documento [che conteneva anchel’accusa di essere un «cattivo musulmano»,oltre a quella di aver assassinato Kasuri], male circostanze in cui lo faccio non sononormali. È una questione di principio: ilprincipio del diritto di replica, il principio deldiritto di contrastare la menzogna con laverità […] Come ho già detto al processo diLahore, dimenticate che sono statopresidente e primo ministro del Pakistan.Dimenticate che sono il leader del principalepartito del paese. Dimenticate tutto ciò. Masono pur sempre un cittadino, e accusato diomicidio. E nemmeno ai comuni cittadini -perché tale io mi considero - si può negare lagiustizia.3

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If I am Assassinated non è semplicemente un trattatosull’innocenza e sulla giustizia; è come le sue lettere:dettagliato, esauriente e commovente per la sua forza edeloquenza. Nelle sue pagine Zulfikar mescola un’acutaanalisi della coalizione politica che aveva finito col levarsicontro di lui, del movimento dei paesi non allineati e delleconnessioni afghane del generale Zia ul Haq.

Papà tenne una delle prime copie del libro nella sualibreria per tutti gli anni della mia crescita. Un inverno,avevo all’incirca nove anni, lo presi dal suo studio e me loportai in camera. Non ero assolutamente in grado di capireil gergo della politica pachistana - Libro bianco, tappetorosso, acronimi e definizioni ufficiali di ogni genere - madesideravo impararlo, e così cominciai a sottolineare lepagine ingiallite di If I am Assassinated con una pennarosa. Se si arrabbiò vedendo così graffitata l’unica copiadel libro che avesse a Damasco, papà non lo diede avedere: «Pensavo di scrivere un libro sul nonno», miscusai, imbarazzata. Papà lo conosceva a memoria, quellibro, poteva citarlo con tanto di numeri di pagina. Non glidomandai perché, e in quegli anni lui non mi parlò mai delruolo che aveva avuto nella sua pubblicazione.

Nel maggio del 1978 era una normalissima seralondinese quando Murtaza e Shahnawaz si presero un po’di tempo libero per cenare con alcuni amici all’Hilton diPark Lane. Ma quella sera, al ristorante Trader Vicdell’Hilton, l’attenzione di mio padre fu calamitata da un

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tipo di attivista politico del tutto nuovo.Della Roufogalis era nata a Veria, in Grecia, città natale

di Alessandro Magno. Suo padre, Anastasios Pasvantidis,era un piccolo commerciante che durante la secondaguerra mondiale aveva combattuto in Albania nellaresistenza clandestina contro i tedeschi. Della, che avevaotto anni più di Murtaza, era a Londra per assistere a unaconferenza dell’ONU e per fare pressione per il rilascio diun suo congiunto incarcerato in Grecia. Stava cenando conl’ambasciatore somalo a Londra quando si accorse che,da un tavolo poco lontano, un bell’uomo la stava fissando.Lui e i suoi amici parlavano inglese, ma con un qualcheaccento; l’uomo che la fissava, inoltre, anche seduto era dimezza testa più alto di tutti gli altri. Lei sorrise, lui sorrise.Della ricorda che, quando sorrise, una luce gli si diffuse sulviso. Vedendola distratta, l’ambasciatore somalo indicòl’uomo e le chiese se sapesse chi era. «È il figlio dell’exprimo ministro socialista del Pakistan», le disse poi. «Il suogoverno è stato rovesciato da una giunta militare e lui èfinito in carcere.» E aggiunse, mordace: «Una situazioneche è l’esatto opposto della sua». E riprese a mangiare.

Come quella dei fratelli Bhutto, anche la giovane vita diDella era stata decisamente burrascosa. Da ragazza, inGrecia, aveva scritto poesie e testi di canzoni cercando ilmodo giusto per esprimere i suoi pensieri e le suefantasie. Testimonianze storiche dimostrano che Veria eragià una città nel 1000 a.C., fiorita nel suo massimosplendore molto tempo prima che Alessandro la lasciasseper costruire il suo impero. Lo sappiamo soprattutto dai

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testi di Tucidide e dalla predicazione di san Paolo. Daadolescente, Della era stata molto irrequieta; alta e bella,non vedeva l’ora di fuggire dal piccolo mondo cui si sentivacome incatenata. Sposatasi giovanissima, a sedici anni,con uno studente di ingegneria meccanica, si era poitrasferita in Sudafrica insieme a lui. Ma lo spiritovagabondo che avevano in comune li portò aJohannesburg nella fase più dura dell’apartheid.Intrappolata in un matrimonio violento e pieno di abusi,Della cominciò a fare l’indossatrice. A livello locale fecesensazione: alta e delicata, bionda, con la pelle olivastra,ben presto firmò un contratto internazionale conWilhelmina, New York. Alla fine lasciò il marito e tornò inGrecia dove, a una cena, conobbe Michael Roufogalis e sene innamorò: il generale Roufogalis, per i molti che hannoavuto ragione di temerlo.

Di venticinque anni più anziano di lei, il generale - capodel dipartimento informazioni dello Stato, il più temuto nellaGrecia dei colonnelli - la chiese in moglie e la sposò solotre mesi prima della caduta della giunta: fu proprio ildittatore, Papadopoulos, a far loro da testimone di nozzedurante la cerimonia celebrata nella chiesa greco-ortodossa. Nella foto ufficiale Papadopoulos minacciascherzosamente con il dito la sposa, bellissima con icapelli temporaneamente tinti di rosso, come per metterlain guardia contro qualcosa (i pericoli di sposare unmembro della giunta militare? Non credo). Della reagiscecon un sorriso pieno di grazia.

La polizia andò ad arrestare Roufogalis una mattina

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presto. Era il 1974. Il tribunale instaurato dal nuovo governolo dichiarò colpevole di tradimento e lo condannòall’ergastolo. Della, la giovane sposa, cominciò subito adarsi da fare per il suo rilascio, sia in Grecia sia all’estero.

Parlò anche con Aristotile Onassis qualche mese primadella sua morte, e andò negli Stati Uniti per incontrarealcuni ufficiali della CIA solidali con i colonnelli greci incarcere. Non c’erano molte speranze di ottenere unacommutazione della pena per suo marito, al quale era giàstata risparmiata la condanna a morte inflitta a molti suoicolleghi, compreso l’ex primo ministro Papadopoulos; maDella non era il tipo da starsene buona e calma a vedersipiovere addosso i colpi della sorte senza offrire resistenza.Dopo il processo, il generale Roufogalis le avevaconsigliato di vivere la sua vita invece di impegnarsi tantoper lui: «Tutto ciò durerà molto a lungo», le aveva detto.«Quanto, non saprei dire… Tu sei giovane, sei bella, haibisogno di un compagno. Cercati qualcuno che sia alla tuaaltezza».4 Lei lo fece, ma non come suo marito le avevaconsigliato, bensì continuando a onorare l’impegno cheaveva preso con lui attraverso il lavoro, portandogli delicatimessaggi e organizzando il sostegno di leader e governi didestra in tutto il mondo. Sentiva di avere una missione:voleva essere la voce dei colonnelli greci in prigione, efaceva del suo meglio affinché la loro condanna fossesospesa con la motivazione che erano stati giudicati sullabase di leggi retroattive.

Fu questo impegno a portarla a Londra e a farla sedere

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a un tavolo del Trader Vic insieme all’ambasciatoresomalo. Il Trader Vic era frequentato da molte personalitàinternazionali; era il posto più intrigante della città.L’atmosfera da isola del Pacifico che vi regnava, con tantodi mobili in rattan e decorazioni in stile, non impediva chevi si servissero le migliori costolette di tutta Londra ecocktail esotici in calici e boccali adorni di fiori.L’ambasciatore le chiese se voleva essere presentata aMurtaza Bhutto, il giovanotto con cui si era scambiatalanguide occhiate per tutta la sera; ma lei rispose che nonera necessario, che non dovevano interrompere la loroconversazione per delle sciocche presentazioni. Un po’ piùtardi chiese permesso e andò in bagno; quando ne uscì,Murtaza era lì ad aspettarla. Si scambiarono i numeri ditelefono e tornarono ciascuno al proprio tavolo. Almomento di andare via, l’ambasciatore si avvicinò aMurtaza, gli domandò cortesemente come stesse suopadre e gli presentò formalmente Della Roufogalis.

Lui la chiamò il giorno dopo alle undici del mattino e siaccordarono per pranzare di nuovo insieme al Trader Vic.Trascorsero il pomeriggio raccontandosi la storia delle lorovite: Murtaza le disse di come si stava battendo control’incarcerazione di suo padre, Della parlò della suamissione di liberare il marito. Lei si rendeva perfettamenteconto che stavano camminando su un terreno delicato,dato che tutte le loro esperienze non potevano che renderlinemici, impegnati ciascuno a combattere gli alleatidell’altro: ma le cose non andarono così. Si accorse cheMurtaza l’ascoltava davvero, quando parlava con ardore

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del marito imprigionato, senza criticarla o giudicarla.Quanto a lei, la inteneriva sentirlo parlare del padre e dellagiunta militare del suo paese. Il giorno dopo andarono aballare da Annabel’s e il terzo giorno, dopo un veloce,frenetico corteggiamento, Della partì per Atene.

Murtaza e Shahnawaz l’accompagnarono all’aeroporto,ma era evidente che non erano ancora pronti a separarsi.Mentre attraversava il salone delle partenze, Della fuassalita da una profonda tristezza all’idea di lasciare Mir.Un sentimento che le era poco familiare, questo affettoimprovviso, dopo quattro anni di frustrazioni e di solitudine.Salita sull’aereo arrivò al suo posto e rimase piuttostosconcertata e irritata nel trovarlo già occupato da un uomoche leggeva il giornale. Si schiarì la gola, e stava per dirgliche quello era il suo posto quando l’uomo abbassò ilgiornale: era Murtaza. «Come ci sei riuscito? » gli chiese,incredula. Ma lui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di starecon lei.

Della fu un sollievo inatteso per Murtaza, che avevasmesso completamente di vivere la propria vita il giornodel colpo di stato del generale Zia. Lei capivaperfettamente il suo lavoro e quanto potesse esserefaticoso: insieme si crearono un piccolo rifugio privatocontro la paura con cui dovevano giocoforza convivere.Murtaza l’avrebbe stupita ancora molte altre volte.L’avrebbe chiamata ad Atene per dirle che Shah, andandochissà dove, sarebbe passato dalla sua città e l’avrebbechiamata per darle una lettera o un libro da parte sua; e lei,dopo essere rimasta pazientemente in casa aspettando la

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telefonata, a un certo punto avrebbe sentito suonare ilcampanello e, andando ad aprire, si sarebbe trovatadavanti Mir con una valigetta in mano.

Durante la sua prima visita ad Atene Mir scese alCaravel Hotel e trascorse il pomeriggio con Della alKolonaki Tops, in Kolonaki Square, a leggere l’«HeraldTribune» e a chiacchierare con gli altri turisti e con gli amicigreci di Della che si trovavano a passare di lì. Due giornidopo Murtaza la portò a conoscere il padre di una suaamica - Milbry Polk, che allora lavorava all’ambasciatastatunitense. Il fratello di William Polk, George, è statoucciso in Grecia in circostanze misteriose, e ancor oggi lafamiglia Polk finanzia una borsa di studio in giornalismodedicata alla sua memoria. Mentre andavanoall’ambasciata, come regalo di compleanno Murtaza diedea Della un anello con degli smalti verdi e blu. Siconoscevano da meno di una settimana.

Il 5 giugno Murtaza tornava a Londra. Lui e Shahnawazstavano cercando di produrre un documentario sulprocesso del padre - un’opera che avrebbero impiegatovari anni a completare - e nella capitale inglese dovevanoincontrare produttori e registi. Murtaza scrisse a Della ilgiorno dopo il suo arrivo: «Carissima Della, da quandosono tornato ho avuto parecchio da fare, ma ciò non mi haimpedito di pensare a te. Mi manchi tanto. Potrei essere dinuovo in Grecia attorno al 15 del mese. Quelli della tuaambasciata faranno meglio a concedermi il visto».5 (Lofecero.)

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Anche quando era in viaggio, Murtaza le scrivevaspesso. Le mandava cartoline e lettere d’amore, e sul retrodelle buste per posta aerea scarabocchiava «con tutto ilmio amore, con tutto il mio sonno, con tutti i miei drink, contutti i miei capelli bianchi, con tutti i miei pensieri…». Nonsapevo che mio padre avesse mai scritto lettere d’amore.Dopo la sua morte mi sono tuffata nello scatolone dellacorrispondenza che conservava in camera da letto, fra librie riviste, e ho letto famelicamente ogni lettera e ogni busta.Ho frugato tra le sue pagine nella speranza di trovarciqualcosa di romantico e appassionato, ma invano. Credoche all’inizio non fosse proprio capace. Penso l’abbiaimparato solo dopo aver incontrato Della. Dall’Hilton diNew York, su carta intestata dell’albergo, le scrive: «Forsela nostra è una relazione tragica. È, in un certo senso, unacosa molto triste. Noi due ci amiamo e siamo feliciinsieme, ma quanti ostacoli! Alla fine, quando tutto saràconcluso, che triste love story si potrà scrivere su di noi!».6

Durante il suo secondo viaggio in Grecia ci fu ben più diun pranzo al Kolonaki Tops da organizzare. Murtaza andòa stare da Della, nel suo appartamento di Pakgrati Square,e da lì telefonò al ministro Lamprias, segretario del primoministro Karamanlis, dopo di che assunse Della peraiutarlo nei colloqui con le persone che non parlavanoinglese e ottenne un appuntamento con il primo ministro,già amico di suo padre. Karamanlis, ex politico di estremadestra passato a un partito di centro, era da poco tornatoin Grecia dopo un periodo di esilio. Fu molto gentile con

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Murtaza, e lo ricevette con simpatia. Mir gli chiese aiutonella battaglia per salvare la vita di suo padre: chiese cioèal premier greco di far pressione su Zia affinché nongiustiziasse il primo premier pachistano elettodemocraticamente.

In quest’ultima visita Della non lo accompagnò:ufficialmente, lei e il primo ministro erano su fronti opposti.La preoccupava molto l’idea che il governo venisse asapere di lei e di quel giovane pachistano, e si domandavase ciò avrebbe avuto un effetto negativo sulla gestione delcaso di suo marito e degli altri colonnelli incarcerati. Dellaperò non era affatto paurosa, e a un certo punto arrivò allaconclusione che, al contrario, quella relazione potevaaddirittura migliorare la sua posizione nella nuova Grecia,togliendole un po’ della sua aura di agitatrice politica didestra.

Nel solo 1978 Murtaza andò in Grecia almeno diecivolte, fermandosi ad Atene ogni volta che andava o tornavadalla Turchia, dalla Siria o dall’Europa. Si recò in Greciaper parlare con i rappresentanti del nuovo governo, e giròper tutto il paese insieme a Della. I due andarono anchesull’isola di Egina, dove il generale Roufogalis eraimprigionato; e mentre Della faceva visita al marito,Murtaza leggeva i giornali al caffè della piazza. Si recaronoanche a Veria, dove Murtaza conobbe la madre di Della ele sue sorelle, Nana e Vou, che li accompagnarono avisitare i luoghi più importanti della città natale diAlessandro Magno. Nana portò Della e Murtaza sul MonteParnaso, vicino a Delfi, quando vi cadde la prima neve.

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Nana sciava bene, Della così così e Murtaza per niente.Come tutti i pachistani, Mir non indossava quasi mai abitiinvernali e non era mai stato su una montagna in vita sua. Aun certo punto Della, che stava facendo del suo meglio perscivolare giù da una bassa collina, vide una figuretta conuno scialle in testa farle dei cenni di saluto dal fondo delladiscesa: era Mir, che aveva scritto a grandi lettere il suonome sulla neve fresca con foglie e ramoscelli.

Anche Della andava spesso a Londra; fu là che Murtazale regalò una copia di If I am Assassinated, con la dedica:«Con i migliori auguri, a Della». Shah, più espansivo,aggiunse: «Con tanto amore». A Londra i due fratellicambiavano continuamente casa, e nemmeno Dellaavrebbe saputo dire fino a che punto quei traslochi fosserodovuti a questioni di sicurezza; Murtaza però le scrivevasempre personalmente indirizzi e numeri di telefono sul suodiario. Lei usava un piccolo Asprey viola scuro, e la grafiain corsivo di Murtaza, leggermente obliqua, ne riempievarie pagine - Lowndes Square n. 42 è uno degli indirizzi:stranamente vicino all’ambasciata pachistana; e StanhopeMews n. 72 è l’ultimo che mio padre vi abbia annotato disuo pugno. Il giorno del suo compleanno, ilventiquattresimo, Della lo raggiunse a Londra, e i duetornarono ancora una volta al Trader Vic per festeggiare.Quell’anno lui usava un’acqua di colonia di Azzaro, ricordaDella, mentre l’anno successivo sarebbe passato alla GrayFlannel - dopo di che avrebbe usato la Geoffrey Beene peril resto della sua vita - e indossava, sempre a memoria diDella, solo camicie Turnbull&Asser e abiti di pura seta. Lei

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invece portava lunghe gonne da zingara come andava dimoda in quegli anni, e bluse ricamate alla contadina.Murtaza fumava spesso sigari Romeo y Julieta, la marcapreferita del Che, e ne infilava la fascetta rossa al dito diDella. I due andarono insieme a Oxford, dove incontraronoi tutori di Murtaza - che stava ancora lavorando alla sua tesidi master. Della era con Murtaza anche quandoquest’ultimo andò al parlamento per tenervi una conferenzasulla situazione pachistana. Murtaza era timido, ricordaDella, e quella volta le capitò di pensare che ci avrebbemesso mesi a sentirsi a suo agio in una situazione delgenere. Ma non si trattava tanto dei deputati inglesi, quantodi Della; Murtaza era cresciuto in mezzo alle folle e avevaalle spalle una lunga campagna politica in difesa di suopadre, aveva fatto comizi e parlato con la gente di casa incasa fin da ragazzino. Era timido solo con lei. Non si eramai sentito così prima di allora. E nemmeno Della.

La dittatura del generale Zia ul Haq muoveva intanto isuoi primi passi. Nel 1977 Zia aveva promesso di indire leelezioni entro novanta giorni, ma ben presto avevacambiato idea, con la scusa che era meglio avviare primaun processo di «responsabilizzazione» della classepolitica: l’opera di vaglio che aveva portato allacompilazione del Libro bianco contro Bhutto. La vernicedemocratica del potere si era rivelata molto sottile. Murtazaperò era ancora convinto che il generale non avrebbe fattouccidere suo padre. Per molti quel bigotto militare daicapelli impomatati non era che un incidente della storia - lareputazione del suo servilismo lo precedeva ovunque e i

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pachistani non credevano che avrebbe osato mettere amorte l’ex primo ministro sotto gli occhi del mondo, resiattenti dalle attività di Murtaza e Shahnawaz. Le terre difamiglia dei Bhutto, inoltre, erano al sicuro: il generale nonavrebbe potuto espropriarle tanto facilmente in una regionetradizionale come il Sind, e fu proprio il reddito derivanteda quei possedimenti a tenere a galla tutta la famiglia neifrenetici anni del comitato.

In ottobre, un mese prima del suo ventiquattresimocompleanno, Murtaza andò in America e in Canada, dasolo, per incontrare degli uomini di stato con i quali nonaveva ancora parlato. Il suo ex compagno di stanza BobbyKennedy Jr, che stava frequentando giurisprudenza in unateneo della Virginia, aveva lavorato sodo perorganizzargli una serie di incontri con personaggi politici diprimo piano. Aveva anche scritto e pubblicato sul«Washington Post» alcuni editoriali basati su informazioniche Murtaza stesso gli aveva fatto avere sulla leggemarziale in Pakistan e sulle ingiustizie commesse nellacausa legale contro suo padre. Insieme, Bobby e Murtazaandarono a Washington per incontrarvi alcuni senatori fracui lo zio di Bobby, Ted Kennedy. «Il pressing diplomaticodi Mir era molto efficace», ricorda Bobby. «Lavorava sodoe la gente era contenta di poterlo aiutare.»7

I due andarono anche a Plains, Georgia, per incontrareLillian Carter, la madre del presidente Jimmy Carter, cheera stata in Asia del Sud con i Peace Corps. La signoraCarter nutriva un profondo interesse per India e Pakistan e,

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come ricorda Bobby, «era deliziata di conoscere Mir. Fumolto gentile, ma disse subito che non credeva di poteresercitare un’influenza efficace, anche se credo abbiacercato sinceramente di aiutarci laddove le fu possibile».8

Bobby dedicò molto tempo a Murtaza, e cercò di aiutarloa sensibilizzare sul caso di suo padre alcune personeimportanti. I due viaggiarono insieme per tutto il Sud, e lasera, per distrarsi un po’, andarono a cavallo e a caccia diprocioni. «Una volta ci recammo da un distillatoreclandestino che si chiamava George Kelly: un omonegrosso, di colore, con un occhio solo, che viveva nellaLowns County, Alabama - una contea proibizionista. Avevauna baracca con dentro un jukebox e vendeva birra agliabitanti del luogo, principalmente neri; così cipresentammo con alcuni procioni che avevamo catturato,perché George Kelly era famoso anche per i suoibarbecue. Una sera andammo da lui, e mangiammo eballammo e parlammo con la gente che era lì.»9

Ogni volta che andava a New York per parlare conqualche delegato all’Assemblea generale dell’ONU o con igruppi pachistani residenti negli USA, Murtaza cercava dipassare un po’ di tempo anche con i suoi amici delcollege. I tempi erano troppo difficili per restare soli.«Volevo molto bene a Mir», mi racconta Bobby al nostroprimo incontro, diciotto anni dopo. «Era uno dei mieimigliori amici, perché aveva tutte quelle qualità che quichiamiamo virtù. Era onesto, un amico leale. Desideravasinceramente darsi da fare per tutte le persone che non

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avevano i suoi stessi privilegi. Era un vero populista,capisci? Non pensava solo alle masse, si preoccupavadegli individui - era curioso, faceva sempre un sacco didomande a tutti. In Alabama parlò con quella gente dicolore, gente poverissima che non aveva mai messo piedefuori dalla Lowns County, chiacchierò per ore con loro dellaloro vita.»10

Successivamente Murtaza andò in Canada perincontrare gli attivisti della sezione di Toronto del SaveBhutto Committee e parlare con la stampa canadese e convari esponenti politici. Milbry, la sua amica di Harvard chelo accompagnò in giro per l’America e a Toronto, inquell’occasione lo vide in una luce del tutto nuova: «Era unperiodo estremamente difficile, ma lui si comportava conmolta maturità. Aveva sulle spalle un peso enorme, ma Mirha sempre amato la vita. Si impegnava a fondo in tutto ciòche faceva».11

A Toronto, Murtaza si impegnò a fondo per trovarequalcuno che volesse produrre un documentario sullevicende giudiziarie di suo padre. «Ma la cosa nonaccadde: tutto qui», ricorda Milbry, ancora addoloratanonostante siano passati tanti anni. «Incontrammo speakered équipe televisive, ci mancava tanto così, ma eravamotalmente giovani - tutta la campagna negli USA si risolse inuna gran frustrazione. Raramente gli americani sannoguardare oltre i confini di casa loro, e il Pakistan è davveromolto lontano. Mir però doveva assolutamente andareavanti: il tentativo di salvare suo padre gli stava mangiando

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la vita, se gli fosse anche solo venuto in mente chel’avrebbero ucciso si sarebbe perso d’animo.»12

Della e io ci siamo incontrate vent’anni dopo la storiad’amore fra lei e mio padre. È stato come un ritrovarsi,anche se non ci eravamo mai viste prima. È stata lei acontattarmi - io l’ho cercata per anni, chiedendo a tutti ivecchi amici di mio padre se la conoscevano, l’amantegreca degli anni giovanili del mio defunto padre. Nonsapevo nemmeno il suo cognome. E anche se l’avessisaputo non avrebbe funzionato, perché nel frattempol’aveva cambiato. Poi, due anni dopo il mio viaggio negliStati Uniti, un uomo con cui ho parlato solo al telefono, unex fidanzato di una delle mie zie, l’ha incontrata a una cenaa Palm Beach. Lei gli si è presentata, forse è scattatoqualcosa, non so. O forse hanno parlato del Pakistan, dicome entrambi avessero avuto una storia d’amore con unpartner pachistano, finché non sono venuti fuori i nomi edentro di loro è risuonato qualcosa. Fatto sta che, in unmodo o in un altro, è emerso il nome di mio padre, e a quelpunto l’uomo ha detto a Della che Mir, l’uomo di cui erastata innamorata, aveva una figlia e che questa figlia lastava cercando. Non c’è stato bisogno d’altro - informatadel fatto che volevo conoscerla, Della mi ha cercata suGoogle e in men che non si dica ha trovato il mio indirizzoe-mail.

E così nell’estate del 2008 vado in Grecia perconoscerla. È sulla sessantina, ma ancora molto bella.Ricorda un po’ Nusrat, mia nonna: ha gli zigomi delicati e

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porta bene la sua età, proprio come la mia joonam, la miavita, come chiamavo la nonna nel suo farsi nativo. Il mioaereo atterra ad Atene e subito ne prendiamo un altro perMyconos, dove lei vive e dove mi mostra le lettere e lefotografie di mio padre. A Myconos fa caldo e soffia unadolce brezza, e il profumo del basilico, il repellente naturalecontro le zanzare usato in Grecia, riempie l’aria della sera.Della mi racconta che lei e papà avevano ascoltato eballato al ritmo di Ma Baker e Mammy Blue (entrambecanzoni sulla madre, penso fra me e me). Della coglie unastrana espressione sul mio viso e subito mi spiega chepapà le diceva spesso che somigliava a Nusrat, e laprendeva in giro chiamandola Ma Baker, al che lei strillavae si contorceva dal ridere per il suo perverso sensodell’umorismo. Poi mi ricorda gli anelli di fumo che facevapapà, riportandolo in vita in una sua nuova manifestazione.E mi fa conoscere i suoi amici, amici di cui non sapevoniente, sparsi per tutta la Grecia. La prima sera a Myconosandiamo a cena fuori con la sorella di Della, Nana, e Dellami racconta di un viaggio che lei e mio padre fecero aMontecarlo insieme a una sua amica, Kryssa. Trascorserolà un fine settimana, proprio all’inizio della loro storiad’amore; poi, quando per Kryssa e Della venne il momentodi ripartire, risultò impossibile trovare un taxi. Il tempo stavaquasi per scadere, il loro aereo sarebbe decollato nelprimo pomeriggio. Allora mio padre, per portarleall’aeroporto, noleggiò un elicottero. Stento a immaginarlonell’atto di fare una cosa tanto esagerata, tantoimprudente. Ma era innamorato, immagino, e l’amore

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spinge a fare cose incredibilmente sconclusionate. In unprimo momento scoppio a ridere per quella storia, poipiango sulla pietanza che ho ordinato perché quel Mir, io,non l’ho mai conosciuto.

Dopo cena Della ci guida lungo gli stretti vicoli bianchi diMyconos fino a un ristorante. Non so dove stiamo andando,ma sicuramente non è la stessa strada per cui siamovenute. Al ristorante Della si avvicina alla proprietaria el’abbraccia, raccontandole in fretta qualcosa in greco. ÈKryssa, nome che in greco significa «d’oro»: un po’ piùbassa di Della, la voce arrochita dal fumo, la sigarettaaccesa fra le dita. È quasi mezzanotte. Poi Dellal’accompagna verso di me - ancora ignara del fatto che èla stessa Kryssa della storia dell’elicottero - e io mipresento solo come Fatima e le tendo la mano. Leiricambia la stretta guardandomi fisso. «Ma non mi dire»,sussurra poi alla sua amica in greco. «È la figlia delpachistano?» Della annuisce, poi lei e Kryssa piangono unpo’. Asciugandosi le lacrime, Kryssa mi afferra, miabbraccia e mi stringe le spalle. Poi, baciandomi i capelli,mi dice, in un inglese dal forte accento greco: «Sono gliocchi. Lo vedo dai tuoi occhi, che sei la figlia di Mir». E perla seconda volta stasera anch’io mi metto a piangere.Kryssa mi chiede se ho con me qualche fotografia di miopadre. Ne ho una che ci ritrae insieme quando erobambina. È una bella fotografia: papà sorride e mi tienestretta vicino al viso. «Che tristezza», commenta Kryssa,scrollando la testa.

«Ti sembra possibile, quello che gli è successo?»

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domanda Della, cercando di asciugarsi il viso. Kryssascuote la testa: «Se ci penso mi sembra di impazzire».

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CAPITOLO 7L’inizio del 1979 fu contrassegnato da un frenetico

sforzo per aumentare la pressione internazionale sulregime pachistano e salvare la vita di Zulfikar. Lacondanna a morte era stata confermata. Da Benazir, che sitrovava a Karachi, Suhail ebbe e inoltrò la notizia che lagiunta stava per farlo giustiziare a Nusrat, che si trovava aLahore. Le due donne furono tra i primi a saperlo, e nerimasero sconvolte: ormai non sapevano più cosainventarsi per salvarlo. Il governo di Zia ul Haq consolidavail proprio controllo su tutte le zone del paese, e intanto lasalute di Zulfikar peggiorava rapidamente.

Le notizie provenienti dal Pakistan, dunque, erano cupe.Zulfikar, che non aveva mai creduto di poter avere unprocesso giusto dal governo militare, era sicuro che prestol’avrebbero ucciso; Murtaza invece continuava a sperareche, dall’estero, il Save Bhutto Committee avrebbe potutopremere sul governo pachistano con abbastanza forza datenere in vita suo padre. In un volume di ritagli di giornalerisalenti a quell’epoca ha evidenziato con un tratto di pennauna granulosa fotografia in bianco e nero raffigurante unuomo dall’aspetto austero. La didascalia recita:

Stan Newens, membro del parlamento, hadepositato una mozione alla House of

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Commons sulla quale ha raccolto ben 100firme: «Io siedo alla sinistra del Labour Party[…] ma vedo che dai nostri banchi fino aquelli alla destra del Partito conservatore,lungo tutto l’arco delle posizioni parlamentari,tutti provano un forte senso di repulsione perquesto processo, per i verdetti emessi e,infine, per la cosiddetta sentenza che prestoverrà applicata. Personalmente mi sono fattol’opinione che si tratti di un assassiniocamuffato da verdetto politico o giudiziario.

Nella sua qualità di presidente del Save BhuttoCommittee di Londra, Murtaza organizzò una due giorni didiscussione sulle incongruenze legali della causa montatacontro suo padre. La Convenzione dei giuristi internazionalisul processo Bhutto fu convocata per discutere del casodell’ex primo ministro pachistano e, in una straordinariadimostrazione di solidarietà giuridica, vi accorseropartecipanti da tutto il mondo. Dall’Inghilterra arrivarono ildeputato Jonathan Aitken (che più tardi sarebbe caduto indisgrazia), il redattore capo dell’«Observer», docenti dilegge e dottrine politiche di Oxford e della London Schoolof Economics. Amnesty International mandò due suoirappresentanti. Il presidente del comitato esecutivo dellaCommissione internazionale dei giuristi arrivò da Ginevrainsieme ad alcuni avvocati e procuratori statunitensi. Ma la

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voce più influente della tavola rotonda fu senza dubbioquella di Ramsey Clark, ex procuratore generale delpresidente Johnson. Suahil, l’amico di Murtaza, ricorda lasua poderosa presenza scenica: «Clark non si limitò apartecipare alla conferenza, ne coniò anche la definizionedicendo che il caso Bhutto non era tanto un processo peromicidio quando il palese omicidio del processo legale - fumolto incoraggiante sentirlo parlare con tanta veemenza indifesa del nostro presidente».1

Dopo aver riletto i dossier del caso e gli altriincartamenti preparati dal regime militare in relazione alprocesso Bhutto, i giuristi emisero un comunicato che fusubito consegnato alla stampa internazionale. Tutti eranod’accordo sul fatto che il processo Bhutto violava numerosi,fondamentali standard di giustizia in «almeno» sei aree:mantenere la distinzione fra giudice e procuratore,svolgere il processo a porte aperte, tenere un accuratoregistro delle sedute processuali, istituire un’idoneastruttura processuale, nonché per la decisione di portarecomunque avanti il caso nonostante l’improprietà el’insufficienza delle prove. Infine i giuristi facevano notareche i maltrattamenti inflitti a Bhutto dai funzionari dello statoerano una cosa vergognosa e già di per sé oggetto dipreoccupazione a livello internazionale.

La primavera cominciò con una lettera di Zulfikar al suoprimogenito. Un messaggero arrivò a Londra con la notizia

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che la salute dell’ex primo ministro si era aggravata: eradimagrito moltissimo, e aveva chiesto di vedere undentista perché i denti gli stavano marcendo. Mio padre miha raccontato spesso che nel cibo della prigione c’eranodelle schegge di vetro che gli ferivano le gengive,mescolando il suo sangue al rancio del carcere. Ilmessaggero aveva con sé anche una lettera, l’ultima cheMurtaza avrebbe ricevuto dal padre.

Della era con lui quando la lesse. «Va’ in Afghanistan»,gli ordinava Zulfikar. «Cerca di restare il più vicinopossibile alla tua patria.» L’Afghanistan era ancora unpaese socialista, non ancora invaso dai russi né daibarbuti fondamentalisti che sarebbero venuti dopo. Lalettera di Zulfikar aveva un tono più serio del solito: il tonodella vendetta. «In quella lettera, che ho potuto vedere eleggere più volte con i miei stessi occhi», sottolinea Della,«Zulfikar diceva a Murtaza, e per suo tramite a Shah: “Senon vendicherete il mio assassinio, non siete più i mieifigli”.»2

Ricorda Della: «Mir cominciò subito i preparativi». «Io glidissi di avere la sensazione che il governo militare nonavrebbe osato uccidere suo padre, ma lui, conespressione seria, rispose: “Sì che lo faranno. Tu nonconosci il Pakistan”».3

Nel giro di un anno, la speranza di Murtaza che suopadre potesse sfuggire alla forca era quasi svanita. Aquell’epoca Tariq Ali, eminente scrittore, storico e attivistapachistano, risiedeva in Inghilterra: e nonostante lui e

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Zulfikar non fossero mai andati troppo d’accordo - si erarifiutato di aderire al PPP con la motivazione che non eraabbastanza radicale, e anche perché al suo internocontinuava a serpeggiare un che di feudale - si appassionòmolto alla campagna per il suo salvataggio. «Quando lasentenza che lo condannava a morte fu confermata, fusubito chiaro che la cosa più importante da fare erasalvargli la vita», racconta. «Tutto l’insieme era corrotto finoal midollo. I militari volevano assassinare il primo premierdemocraticamente eletto del paese - una cosainaccettabile. Qualsiasi divergenza ci fosse stata fra lui eme diventò subito irrilevante. Murtaza sapeva che su moltipunti non ero d’accordo con suo padre, ma anche per luiquesto non era un problema. Credo fosse contento, invece,che anche noi partecipassimo alla campagna. Più di unavolta capitò che mi abbracciasse dicendo: “Grazie per tuttoquello che stai facendo”.»4

Nel frattempo la campagna cresceva in misuraesponenziale. Il Save Bhutto Committee organizzavagrandi manifestazioni in tutto il Regno Unito e galvanizzavale comunità pachistane residenti in tutte le principali cittàdel mondo - Svezia, Francia, stati del Golfo, Canada eUSA. Le notizie relative alle proteste internazionali controla giunta di Zia venivano diffuse in tutto il Pakistan dallaBBC International, informando i cittadini di un paese i cuimedia erano stati brutalmente zittiti. «In fondo al cuore, adispetto di tutto», ricorda Tariq Ali, «avevamo lasensazione che non l’avrebbero fatto - che non avrebbero

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ammazzato Zulfikar Ali Bhutto - che a un certo puntosarebbe successo qualcosa che l’avrebbe impedito.Credo che nei primi tempi la pensassero così ancheMurtaza e Shahnawaz. Lui era il più popolare dei leaderpolitici pachistani: ci sarebbe stata una sollevazione dimassa, la gente avrebbe preso d’assalto le prigioni… noncapivano fino a che punto la popolazione fosse statabrutalizzata dal regime.»5

Ogni giorno, in Pakistan, si eseguivano fustigazioni elapidazioni in pubblico e ogni genere di torture umilianti.Nella storia del paese non era mai successo che lo statosfoggiasse tanto apertamente la sua capacità di usare laviolenza contro il suo stesso popolo. Non ci sarebbe stataalcuna sollevazione di massa per salvare la vita al primoministro. La gente era troppo terrorizzata.

Murtaza e Shahnawaz affrontarono il problema dellaresistenza del popolo pachistano, o della sua assenza,durante una conferenza stampa organizzata a Londraprima che fosse confermata la condanna a morte delpadre. Un giornalista con un lieve accento australianodomandò a Murtaza cosa pensasse della mancanza disostegno pubblico interno a Zulfikar, e Murtaza rispose:«Lo so, ci sono poche manifestazioni di piazza. Innanzituttomigliaia dei suoi sostenitori sono stati arrestati. Ci sonostate retate su vasta scala. Il regime ha richiamatocontingenti militari dalle regioni di confine, ha spostato leunità frontaliere all’interno del paese - le misure disicurezza sono molto oppressive, davvero schiaccianti».6

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Shahnawaz era seduto accanto al fratello. Indossava unabito marrone scuro, ma ancora non si era fatto crescere ibaffi come Murtaza. La sua voce era profonda e sonora, elui, preso il microfono, parlò lentamente, misurando leparole: «Spero che il generale Zia vorrà inchinarsi allepressioni internazionali […] ma se non lo farà, temo che ilPakistan andrà incontro a conseguenze tremende».7Nessuno dei due accennò alla possibilità di una resistenzaarmata. Non ancora.

Tuttavia l’idea cominciava ad affiorare nella loro mente,e indubbiamente fu resa più urgente dalla lettera di Zulfikar.«Fu durante una delle assemblee organizzate nell’ambitodella campagna che Murtaza tirò fuori per la prima voltal’idea della guerriglia», ricorda Tariq Ali. «Mi domandòcosa ne pensassi, e io gli dissi: “Murtaza, non sono deltutto sicuro che sia la tattica più giusta, ma anche se lofosse non sono cose che si possono organizzare così,sotto gli occhi di tutti - guarda come ogni tua mossa vieneosservata - non puoi”. Sul serio, non credevo che avrebbefunzionato. Allora Murtaza mi chiese: “Insomma cos’altroposso fare per salvare la vita di mio padre?”. E io: “No, nonlo faremo. Non funzionerebbe. Tuo padre è circondato”.»8

Rawalpindi, sull’altopiano del Potwar, non è moltolontana dalla capitale del Pakistan, Islamabad. È semprestata, ed è tuttora, sede di guarnigione militare. Sede delleforze armate britanniche all’epoca del raj, e dell’esercito

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pachistano dopo l’indipendenza, sorge in posizioneelevata rispetto alle terre circostanti ed è senz’altro piùfresca e ventosa; eppure ha una reputazione sinistra,perlomeno tra gli uomini politici. Nel XVIII secolo virisiedeva il re afghano in esilio, Shuja Shah. Qui fuassassinato l’uomo che Mohammad Ali Jinnah avevascelto come primo premier del Pakistan, Liaqat Ali Khan, equi l’esercito portò Zulfikar Ali Bhutto per ucciderlo. Quasitrent’anni dopo questo assassinio anche la suaprimogenita, Benazir, vi avrebbe perso la vita. Rawalpindinon mi è mai piaciuta. È una città lugubre, che dà i brividi.

La prigione di Rawalpindi è stata distrutta molto tempofa: Zia l’ha fatta radere al suolo negli anni Ottanta, perchénon diventasse un simbolo bhuttoista. Oggi ne rimane soloun muro di vecchi mattoni rossi coperti di edera scura.Tutto il resto è stato trasformato in un banale centrocommerciale. Situata a metà strada fra l’ex residenza delprimo ministro e vari uffici militari, è stata ribattezzataJinnah Park e oggi ospita un McDonald’s, un multisaleCinepax e una pizzeria Pappasalis in franchising daIslamabad. All’ingresso di quella che un tempo era laprigione di Rawalpindi oggi c’è un edificio giallo a duepiani: il secondo piano è nascosto da un cartellone con lascritta «Blacks» e l’immensa fotografia di due occhi didonna; forse la pubblicità di un salone di bellezza, non so. Ilpianoterra dice semplicemente «Tequila City», e anche nelPakistan proibizionista è facile immaginare cosa viaccada.

È qui che i militari uccisero Zulfikar Ali Bhutto,

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cancellando poi ogni traccia del suo sangue.Della ricorda che la notte prima del 4 aprile 1979 era

stata molto animata. La casa di Stanhope Mews doveabitavano Murtaza e Shahnawaz, nella zona centrale diLondra, aveva visto un continuo va e vieni di gente. Lecase abitate dai fratelli Bhutto erano sempre piene diconnazionali - persone appena arrivate dal Pakistan conlettere e notizie, membri e simpatizzanti del Save BhuttoCommittee, giornalisti e attivisti politici provenienti daManchester, Birmingham e Leeds. Quella notte variepersone si erano fermate a dormire in salotto e neicorridoi, e tutti, a tarda ora, avevano cucinato e mangiatopiatti tipici del Pakistan seduti sul pavimento. Fu fra le sei ele sette del mattino che suonò il telefono.

«Casa Bhutto?» domandò la voce all’altro capo dellalinea. Della, cercando di non svegliare Murtaza, rispose disì. L’uomo al telefono si presentò come un reporter dellaBBC e chiese a Della se sapeva che Zulfikar Ali Bhutto erastato ucciso alle due del mattino, ora del Pakistan. Dellafece attenzione a non ripetere quelle parole; no, risposesenza alzare la voce, non lo sapeva. Allora il giornalistachiese di parlare con Murtaza, portavoce ufficiale dellafamiglia. Della non disse niente; era sotto shock. SvegliòMurtaza e gli passò la cornetta. «Mir, è per te», disse. Poi,nel tentativo di attutirgli un po’ il colpo, aggiunse : «È laBBC».

Murtaza si mise a sedere con le gambe penzoloni dalletto. Prese il telefono. Della andò a sedersi di fronte a lui.Subito le mani e il viso presero a tremargli. Gli battevano i

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denti. Sopraffatto dall’emozione, in quello stesso momentoMurtaza giurò di vendicarsi. «Hanno ucciso un eroe»,disse. «Gliela farò pagare.» Riattaccò. Della ricorda chesembrava sul punto di andare in mille pezzi. Lei loabbracciò e cercò di confortarlo, lo cullò fra le braccia e glidisse di stare calmo, di non fare pazzie.

In fondo se lo aspettavano. Murtaza aveva cominciato aprepararsi a quell’evento fin da quando aveva ricevutol’ultima lettera di suo padre, in marzo.

Mir si alzò e andò in bagno per farsi una doccia eindossare uno shalwar kameez bianco, il colore del luttonell’Asia meridionale, che gli era stato mandato dalPakistan appositamente per quel giorno. Quando andònell’altra stanza per parlare con suo fratello aveva ritrovatoil controllo. Ci andò da solo, e disse a Shah che il loropadre era stato ucciso. Poi gli tese un altro shalwarkameez bianco e gli disse di andare a lavarsi. Fuori dallacasa c’erano già delle persone venute a porgere lecondoglianze, e i giornalisti cominciavano ad arrivare.

Quel giorno però Murtaza, solitamente così a suo agiodavanti alla stampa, non se la sentiva proprio di uscire.«Cosa dovrei dire, cosa si aspettano da me?» domandò aDella, tenendosi la testa fra le mani. «Di certo non quelloche hai detto poco fa al telefono», rispose lei, parlandoglidolcemente. «Devi stare attento: tua madre è ancora inPakistan.»9 Seguito da Shahnawaz, Murtaza uscì dunquead affrontare la stampa. Quando aprì la porta le telecamerestavano già filmando. I due fratelli avevano un aspetto

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stanco e affaticato. Murtaza si schiarì la gola e cominciò aparlare: «Non è molto ciò che ho da dirvi. Sono qui per diresolo che, ovviamente, questa è innanzitutto una tragediapersonale. Hanno cercato di spezzare nostro padre,l’hanno torturato per due anni, ma non ci sono riusciti.Hanno cercato di infangare la sua reputazione politica, eadesso l’hanno ucciso. Noi non abbiamo niente di cuivergognarci. Oggi seppelliscono un martire».10

In realtà i militari avevano seppellito Zulfikar primaancora di diffondere la notizia della sua esecuzione. Lafamiglia non vide mai il suo corpo. Non esistono prove, némediche né di altro tipo, del fatto che sia stato impiccatocome affermò la giunta militare. Per lungo tempo lafamiglia è stata convinta che l’avessero torturato a morte.Bobby Kennedy Jr ricorda ancora quanto Murtaza fossescioccato: «Fu una cosa devastante, che sfidò seriamentela sua fiducia nelle forme di governo, nel suo paese, in tuttociò in cui aveva creduto».11

In Pakistan, nonostante le rigide misure adottatedall’esercito per prevenire ogni pubblica manifestazione dilutto, la notizia dell’uccisione di Bhutto fu accolta da unmare di cordoglio. La gente si infiammò soprattutto neldistretto elettorale di Zulfikar, Larkana, e le strade di tutte leprovince si riempirono di auto che, in processionespontanea, si recavano alla patria originaria dei Bhutto,Garhi Khuda Bux, per rendere omaggio alla fossa, scavatadi fresco, del primo ministro.

Tuttavia ci furono anche delle persone che

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festeggiarono. Per esempio Nisar Khuro, della famigliafeudale dei Khuro, anch’essa originaria di Larkana, che siera dato personalmente da fare affinché Zulfikar fosseimprigionato e ucciso; Abdul Waheed Katpar, membrofondatore del PPP e anche lui di Larkana, ricorda di averlosentito gridare: «Prima impiccatelo, poi loprocesserete!»12 alle adunate politiche di tutta la città.«Quando uccisero Bhutto sahib, Khuro distribuì mithai,caramelle, per le vie cittadine - lo sanno tutti»,13 raccontaKatpar stringendo i denti. Per lui è ancora molto dolorosorichiamare alla memoria quelle vicende. Dopo la morte diZulfikar, Nisar Khuro fu cooptato nel Partito del popolo dasua figlia Benazir e divenne capo della sezione regionaledel Sind. Ancora oggi fa parte del PPP di Benazir e di suomarito, per il quale svolge le funzioni di portavoce pressol’Assemblea del Sind.

Più tardi nella mattinata la casa fu di nuovo piena digente, accorsa stavolta per fare le condoglianze. MargaretThatcher, non ancora primo ministro ma già sulla stradaper diventarlo, andò a trovare Murtaza e Shahnawaz ediede loro una lettera per Nusrat. Membri del parlamentoinglese e simpatizzanti del Save Bhutto Committee eranoun flusso inarrestabile di persone a lutto. La rabbia, ildolore e lo shock di tutta quella gente erano palpabili. «Segli Stati Uniti avessero detto guardate che facciamo sulserio, se si fossero esposti dicendo state sbagliando, nonvogliamo che ammazziate Bhutto, la giunta non avrebbeosato farlo»,14 afferma Tariq Ali, riassumendo i sentimenti

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provati allora dalla comunità pachistana. Henry Kissingeraveva mantenuto la sua promessa: di Zulfikar Ali Bhuttoavevano fatto un esempio orribile.

«Murtaza era chiaramente traumatizzato», ricorda Tariq.«Sul suo viso le emozioni si leggevano sempre conestrema chiarezza. Alla fine, quando suo padre fugiustiziato, il suo strazio era visibile».15 Shahnawaz inveceera furioso. Pur essendo il figlio più piccolo, era comeincandescente dalla rabbia. Della ricorda che, qualchegiorno dopo l’esecuzione di Zulfikar, la polizia bussò allaporta di Murtaza e di Shah: una telefonata anonima avevaannunciato la presenza di una bomba all’ambasciata, esembrava proprio che fosse partita dal loro apparecchio. Aquei tempi, in realtà, la tecnologia atta a scoprire cose delgenere ancora non esisteva, ma a quanto pare la poliziaaveva i suoi sistemi. Fu proprio Shahnawaz ad andare allaporta. Sì, era stato lui a fare la telefonata. No, non c’eranessuna bomba; il comitato non aveva i mezzi per unattacco del genere, ma il ragazzo era giovane e arrabbiatoe voleva che anche all’ambasciata avessero paura, volevaconvincerli che ciò che era accaduto in Pakistan avrebbeavuto delle ripercussioni. La polizia portò Shah allacentrale: Murtaza insistette per andare con lui, e alla fineglielo permisero. Perfino i poliziotti capivano che il ragazzoaveva fatto quella telefonata sotto l’effetto di uno stressimmenso: suo padre era appena stato assassinato.

Il Save Bhutto Committee organizzò un namaz-e-janaza,la preghiera islamica per i defunti, ad Hyde Park. Vi

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accorsero migliaia di persone, tutte vestite di bianco, peronorare il morto con i tradizionali riti islamici. «Molti di noierano fuori di sé dall’orrore», racconta Tariq Ali. «Ricordoche in quell’occasione parlai sia con Murtaza che conShah, e Murtaza mi disse: “Adesso basta, è ora di finirla”.In lui, la rabbia aveva preso il posto del dolore. “Adessodovremo combatterli fino alla fine. Non ci resta altro dafare. È l’unica lingua che sanno comprendere”. Era davverofurioso; lo faceva arrabbiare moltissimo il fatto che suopadre fosse stato ucciso, che il mondo intero fosse stato aguardare e che lui stesso non fosse riuscito aimpedirlo.»16

Della rimandò il ritorno ad Atene per stare vicino a Mir, ilquale era veramente distrutto. Per quaranta giorni, iltradizionale periodo di lutto islamico, dormì sul pavimento,senza né coperte né cuscino. «Perché voglio ricordare»,diceva a Della quando lei gli domandava perché insistessea voler dormire in modo tanto scomodo quando ciò di cuiaveva più bisogno in assoluto era proprio di dormire benee recuperare le forze. Anche le sue sorelle, Nana e Voy,riempivano di attenzioni gli orfani, cercando di farlimangiare e di aiutarli ad arrivare in qualche modo alla finedella giornata. Anche Nana chiese a Murtaza perchéinsistesse tanto a voler dormire sul freddo pavimento.«Voglio provare quel che prova lui», fu la risposta. Unmese dopo, quando lui e Shahnawaz andarono in Siria perincontrare il presidente Hafez, Murtaza dormiva ancora sulpavimento.

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Dopo due anni di duro lavoro per salvare la vita delpadre attraverso tutti i canali diplomatici e mediatici, edopo aver perso la loro battaglia contro uno stato armato eviolento, Murtaza e Shahnawaz lanciarono subito unanuova campagna. Spronati dall’ultima lettera del padre edalla crescente brutalità con cui in Pakistan si reprimevaogni processo democratico, i due fratelli, che da ragazziavevano venerato Che Guevara e i movimenti di resistenzain Africa e in America Latina, cominciarono a organizzarela lotta senza quartiere contro il regime di Zia. Suhail, chepresto avrebbe abbandonato la sua famiglia e la vita checonduceva in Pakistan per unirsi a loro, riassume così isentimenti che li portarono a sposare l’idea della lottaarmata: «Quando la costituzione viene abrogata, quandoogni accordo politico e legale a base della convivenzanazionale viene rescisso, e chi governa il paese lo fa dadietro la canna di un fucile, è dovere di ogni cittadinoprendere le armi».17 Tariq Ali, che ebbe modo di seguirela campagna da vicino, concorda con lui: «L’impossibilitàdi ottenere un efficace sostegno diplomatico dai governidel mondo ebbe un ruolo decisivo nel convincere Murtazache l’unica opzione possibile fosse quella della lottaarmata». 18 Lui le aveva provate tutte - aveva stampatogiornali, parlato con i giornalisti, tenuto conferenze stampa,protestato davanti alle sedi diplomatiche, parlato conministri e consulenti legali di tutti i paesi del mondo: ma

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non era servito a niente. Niente di tutto ciò aveva potutosalvare la vita di Zulfikar Ali Bhutto.

Nel maggio del 1979 Murtaza e Shahnawaz andarono aDamasco per chiedere il sostegno del presidente Hafez alAssad, il quale era stato buon amico del loro padre e ungiorno aveva offerto loro asilo politico nel suo paese.Murtaza non parlò a Della delle ragioni che lo portavano aDamasco, ma lei intuì che quella volta si trattava diqualcosa di diverso. «Murtaza era cambiato, dopo la mortedi suo padre», ricorda. «Era diventato più serio. Prima infondo era ancora uno studente, nonché il figlio del primoministro - andava in spiaggia, frequentava i nightclub, glipiacevano le belle cose, i vestiti, la buona cucina. Poi tuttociò scomparve. Cominciò a frequentare posti come laSiria, la Libia, l’Afghanistan. Non sorrideva più, non ridevapiù, sembrava in ritiro. Si stava torturando.»19

Murtaza telefonò a Della chiedendole di raggiungerlo aKabul, dove intendeva fermarsi dopo essere stato in Siria.Nell’estate del 1979 Murtaza e Della non erano piùsemplicemente due attivisti politici che si commiseravanoa vicenda e si scambiavano aneddoti di guerra: eranoseriamente innamorati e fidanzati. Murtaza le aveva datoun semplice anello comprato in una gioielleria di SloaneStreet e le aveva chiesto di sposarlo. Ma lei non poteva,perché era già sposata. Ed essendo suo marito, ilgenerale Roufogalis, ancora in carcere, per il momento nonpoteva nemmeno pensarci. Forse in futuro. Forse.

Il 12 giugno Della prese l’aereo per Kabul. Murtaza

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l’aspettava all’aeroporto. Il governo gli aveva assegnato unvillino, e lui stava cominciando a sistemarsi nella sua nuovavita. Il villino, poco lontano da Chicken Street, cosìchiamata perché vi sorgeva una macelleria, era arredatocon grande semplicità: appoggiate alla parete dellacamera da letto, Della ci trovò delle armi automaticheappena disimballate. Cercò di controllare il suo sconcerto,e Murtaza, che in precedenza aveva accatastato suipavimenti sempre e soltanto libri, lo spazzò via con unarisata: «Sono solo giocattoli», disse. «All’anima deigiocattoli!» ribatté Della. «Credo che all’inizio non avesserealizzato quanto sarebbe stato pericoloso il nuovocompito che si era dato», mi racconta trentuno anni dopo.«Ed era enorme. Invece era evidente a cosa avesserinunciato per realizzare quella sua idea. Anche con miomarito e la sua situazione, io non avrei mai potuto farlo. Erauna cosa scioccante, ma lo ammiravo molto. Comeavrebbe potuto continuare a vivere così tutte le suegiornate? Era la volontà di suo padre a guidarlo; su questonon ci sono dubbi.»20

Dopo una cena a base di naan kabuli e agnello, Dellaaffrontò ancora una volta l’argomento delle armi e delperché Murtaza fosse in quello strano paese, e solo. Glidisse chiaramente che, a suo parere, il modo che lui eShah avevano scelto per vendicare la morte del padre erasbagliato. Murtaza si irritò: «Tu non puoi capire: hannoimpiccato mio padre! Non sai quanto possa far male!». Ele raccontò di come fosse ripartito dal Medio Oriente con le

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armi, lui, unico passeggero di un aereo pieno di armi. Dellanon riusciva a far coincidere questa immagine di Murtazacon quella dell’uomo che fino a due mesi prima credeva diconoscere tanto bene. Cercarono di passare delle giornatepiacevoli - Murtaza la portò a comprare qualche shalwarkameez, che Della indossò in modo assolutamenteindecente, infilando la lunga tunica nella cintura deipantaloni perché così le sembravano più alla moda, maesponendo l’unica parte dell’abbigliamento che vaassolutamente nascosta - il cavallo dei pantaloni. Miracconta che parlava in greco con il cane di Murtaza, unpastore tedesco di nome Wolf, e che se ne andava in giroper casa con il suo shalwar kameez fuori dai pantaloni,inciampando nei fucili.

Una settimana dopo Della ripartì per Atene, facendotappa a Karachi per consegnare alcune lettere di Murtazaa Nusrat e a sua sorella Benazir. Era la prima volta chevedeva il Pakistan; non appena arrivò al 70 di Clifton Roadfu subito accompagnata da Nusrat. Le due donne siabbracciarono, studiandosi a vicenda. Era la prima voltache si incontravano; e sarebbe stata l’ultima. Nusratsembrava una versione meno alta e in bruno della stessaDella - una somiglianza davvero impressionante. Entrambeavevano zigomi ben definiti, regali, un lungo naso elegantee un perfetto portamento da ballerina. Nervosa, Nusrat latempestò di domande su suo figlio, e Della le diede labusta di Murtaza, cercando di rispondere come megliopoteva. A un certo punto di una conversazione giàsussurrata, Nusrat prese per mano la sua ospite, che stava

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sussurrata, Nusrat prese per mano la sua ospite, che stavaancora parlando, e la trascinò un po’ più in là nella stanza,lontano dal lampadario sotto cui erano state fino a quelmomento. «Questa casa ha le orecchie», disse, indicandoun punto sul soffitto. Della, ancora sporca e sudata per ilviaggio, avrebbe voluto farsi una doccia e potersicambiare d’abito; ma Nusrat insistette che prima dovevaassolutamente vedere Benazir e darle la lettera di suofratello. Benazir però non era in casa per riceverla. Dopoun po’ Della si stancò di aspettare e chiese di essereriportata indietro.

Fu accompagnata al 71 di Clifton Road, la casaadiacente a quella dei Bhutto, in cui si trovava l’ufficio; inuna stanza, seduta a un tavolo, Benazir stava scrivendo amacchina. Non alzò gli occhi; non si accorse nemmenodella bionda straniera in piedi davanti a lei. «Mi aveva fattoaspettare così tanto che la cosa cominciava a darmifastidio. Cosa stava cercando di dimostrare?» scrive Dellanelle sue memorie.21 «Avevo fatto tanta strada,dall’Afghanistan a lì, per portarle notizie dei suoi fratelli chenon vedeva da più di due anni, e quella donna nonsembrava avere la minima fretta di sentirle.» Alla fine Dellaottenne udienza da Benazir, che aveva sette anni meno dilei. Ma ebbe solo il tempo di presentarsi e di consegnarela lettera di Murtaza. Benazir si comportava come un eredeal trono, racconta Della; e ricorda che una volta Murtaza leaveva detto che la sorella desiderava molto assumersi tuttele responsabilità politiche dopo il padre, e che lui le volevatalmente bene da cederle volentieri il passo. Tutto fu teso e

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difficile in quella visita: Nusrat le parlò solo bisbigliando,nella convinzione che la casa fosse piena di cimici, eBenazir non le parlò affatto. La mattina dopo ripartì perAtene.

Mentre lei era in Grecia e Murtaza a Kabul, i due sitennero in contatto solo per lettera. Ormai Murtaza eShahnawaz avevano abbandonato l’idea di cercare unasoluzione diplomatica al problema della dittatura nel loropaese - i due anni trascorsi in giro per il mondo li avevanoconvinti che non si possono usare mezzi pacifici contro unregime militare. La violenza esercitata da Zia era troppopotente, la presa dei militari sul paese troppo forte. Allagiunta era possibile opporsi solo con le armi. Allora i duefratelli, sul modello delle guerriglie che avevano veneratoda giovani, formarono l’Esercito di liberazione del popolodella Palestina (ELP); ben presto però si sarebbero accortiche l’ideale romantico di una lotta di popolo armata controun apparato militare gigantesco come quello pachistanonon era affatto facile da realizzare.

In giugno, scrivendo a Della degli sviluppi organizzatividell’ELP dopo la sua partenza da Kabul, Murtaza scherza:

Noi, Esercito di liberazione del popolo,siamo un fenomeno unico sotto molti punti divista: 1) il nostro portavoce ufficiale è uncane (Wolf); 2) abbiamo più comandanti checombattenti; 3) siamo la prima

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organizzazione nella storia del Pakistan acredere nella lotta armata; 4) riteniamo che lasegretezza non sia una cosa attorno allaquale valga la pena di mantenere il segreto;5) il nostro capo ha più nemici che amici - ela trova una cosa interessante; 6) nessuno saancora con precisione chi sia il capo; 7) ilnostro portavoce ufficiale ha le zecche e amamasticare vecchi ossi - per non parlare delfatto che defeca sui tappeti.22

E prosegue:

Il popolo del Pakistan, per il quale l’ELPsembrerebbe volersi battere, appartiene auna razza ancora più strana. La sua «guerra»d’«indipendenza» l’ha «vinta» un anno primadi cominciare a desiderarla. Si può dire chel’indipendenza gli sia stata imposta;qualcuno l’ha supplicato di voler diventarelibero e indipendente […] L’esercitopachistano, poi, riflette efficacemente ilcoraggio e la determinazione del popolo allecui spalle si mantiene: 1) quando cade sul

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didietro, il soldato ne riporta danni cerebrali;2) i militari credono fermamente nell’equità:rappresentano lo 0,06 per cento dellapopolazione, ma consumano fra il 70 e l’80per cento delle ricchezze del paese […] Ilportavoce ufficiale dell’ELP, Wolf, sa di poterbattere in qualsiasi momento i vertici militaridell’esercito pachistano in qualsiasi provaintellettuale. Noi gli abbiamo consigliato dinon sfidarli, perché la cosa potrebbe soloprovocare il suicidio di massa degli alti gradidell’eroico esercito pachistano. È un riflessocondizionato altamente prevedibile fra lenostre coraggiose forze armate, famose nelmondo anche per la loro eroica capacità diarrendersi. Una volta un acutissimo statistabritannico disse: «La guerra è un affaretroppo serio per lasciarla fare ai militari».Verissimo. E allora lasciamo almeno che sioccupino di governare… Presto il dominiodei generali finirà per sempre. Il potere dellafrusta e delle baracche sarà sepolto. Primasono riusciti a spezzare in due il paese.Adesso spazzeranno via anche il resto.Finirà così la breve e triste storia delPakistan, un paese che ha ucciso il suoprotettore e che ha morso la mano che glidava da mangiare; un paese artificiale, fattoper essere annientato su un infame e

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criminale patibolo. Così il Pakistan passeràalla storia, ignominioso e dimenticato.

Murtaza conclude la lettera mandandole tutto il suoamore e firmandosi «Salahuddin»; era il suo nom deguerre , un omaggio al liberatore arabo di Gerusalemme.

Alla fine di luglio Murtaza e Shahnawaz lasciarono Kabulper la Libia, dove incontrarono il colonnello Gheddafi. Da lìraggiunsero Damasco. Della li raggiunse in Siria; equando accompagnò Murtaza in visita ufficiale dalpresidente Assad, lui la presentò come la sua fidanzata. Aun incontro con i massimi esponenti politici siriani ungenerale le chiese come stesse suo marito: cercando dimostrarsi indifferente, Della balbettò che stava bene, ma inrealtà era turbata. Poi Murtaza la portò a Maa’lula, la cittàdella Siria meridionale i cui abitanti parlano ancoraaramaico, e in una breve pausa fra gli incontri ufficialivisitarono un monastero. Una donna volle leggere loro lecarte, e disse a Della che non avrebbe avuto figli, mentrel’uomo che era con lei ne avrebbe avuti. Come era arrivataa mettersi in quella posizione?, si domandava Della. Era lamoglie del leader di una giunta militare di destra e lafidanzata di un neorivoluzionario di sinistra.

In cerca di appoggi per il loro nuovo Esercito diliberazione del popolo, Murtaza e Shahnawaz visitaronotutti i paesi che avevano avuto buoni rapporti con il governosocialista di Zulfikar e, dopo aver ringraziato per l’aiuto che

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avevano ricevuto durante la campagna per salvare la vita alpadre, spiegarono ad ambasciatori e capi di stato la nuovarotta su cui si stavano muovendo. Presto avrebberoscatenato la lotta armata contro la giunta militare al poterein Pakistan. Yasser Arafat, al quale Zulfikar era piaciutomoltissimo, si congratulò con loro per l’impegno e raccontòdelle proprie battaglie, nella speranza che le vicende dellaresistenza palestinese potessero essergli d’ispirazione.Nient’altro. Attorno a questo incontro sono fiorite molteleggende - secondo alcuni Arafat mandò addirittura aKabul alcuni agenti segreti dell’OLP per addestrare gliuomini raccolti da Murtaza e Shahnawaz; per altri il leaderpalestinese stornò alcuni carichi di armi dall’OLP all’ELP, eistruì personalmente i fratelli Bhutto sulla gestione dellaguerriglia. Non c’è niente di vero. I due fratelli cominciaronoa portare la kefia, il tipico scialle a scacchi della Palestina;rossa Murtaza, in quanto comandante più anziano, biancae nera Shahnawaz. Tutto qui. Conoscendo mio padre,penso che queste voci l’avrebbero deliziato: lo adulava chela gente andasse costruendo tanti fantastici miti attorno allasua organizzazione.

In settembre Murtaza e Della si incontrarono di nuovo,stavolta a Ginevra. Lui vi era andato per incontrare SheikhZayed, leader degli Emirati Arabi Uniti e buon amico diZulfikar. Murtaza si presentò alla riunione del 13 settembreconvinto che Zayed gli avrebbe accordato un sostanziosofinanziamento. Ne uscì molto deluso. Tornò in albergovisibilmente contrariato e raccontò a Della che Zayed siera detto in disaccordo con la strada che avevano scelto.

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«Gli aveva consigliato di tornarsene a Londra e metter sufamiglia. Gli aveva detto: “Il tempo aggiusta tutto, vedraiche un giorno le cose cambieranno. Devi avere pazienza”.Mir era furibondo.»23 Lo sceicco inoltre si era rifiutato difinanziare l’ELP, dando a Murtaza un mero gettone dipresenza di diecimila dollari. «Cosa vuole che me nefaccia?» commentò, sventolando la busta con i soldi. Dellacercò di calmarlo; anche lei la pensava come lo sceicco -non voleva che Murtaza avesse a che fare con un esercitodi liberazione armata, indipendentemente dalle sueragioni. «Alzati che andiamo a fare due passi», le ordinòMurtaza, spingendola di gran furia fuori dall’albergo. Laportò al negozio della Rolex, dove le comprò un orologioda polso. «Questo è da parte dello sceicco di Abu Dhabi»,le disse. Lui non li voleva, i soldi di quell’uomo: la suamissione non ne aveva bisogno.

«Pensava che quella di stabilirsi a Kabul fosse unascelta obbligata», mi racconta Milbry Polk, la sua vecchiaamica del college, oggi direttrice della Wings World Quest,una ONG che sostiene le donne esploratrici. «Anche se ciòsignificava rimandare molti dei suoi sogni personali […]dare un taglio netto a tante cose - il suo stile di vita, le sueamicizie, i viaggi. Era una scelta estrema, maprobabilmente se non l’avesse fatta Murtaza non avrebbepiù potuto guardarsi in faccia. Lui era un bravo figlio e unbravo pachistano, e comunque tutto il peso dellaleadership gravava sulle sue spalle.»24 Prima di tornaredefinitivamente a Kabul, dove ormai le fondamenta

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dell’ELP erano state quasi completate, Murtaza feceun’ultima sosta a Londra, dove rivide due dei suoi più cariamici dell’epoca del college. Sapeva bene che per chissàquanto tempo non sarebbe più potuto andare nella capitaleinglese. Qualcuno gli aveva detto che il generale Zia avevaordinato alle linee pachistane di dirottare sul Pakistanqualsiasi volo avesse avuto a bordo anche uno solo deifratelli Bhutto. Il pericolo era ovunque.

A Londra, dunque, Murtaza vide il suo ex compagno distanza Bill White, che fu turbato dall’evidente cambiamentodel suo amico. «L’ultima volta che vidi Mir mi disse: “Credoche non ci rivedremo per molto, molto tempo”», raccontaBill, parlando lentamente con la sua profonda voce dibaritono. «Allora io replicai: “Ma di che diavolo staiparlando?”. E lui confessò che non era affatto sicuro cheavrei voluto rivederlo ancora. “Potrei ritrovarmi a fare dellecose che non approverai”, mi disse. “Quello che sto perfare è molto pericoloso, e potrei non vivere abbastanza pervederne la fine.” Io gli dissi di non essere ridicolo.Saremmo rimasti in contatto. Ho sempre pensato che perventi, trent’anni almeno lui e io non ci saremmo persi divista, che avremmo conosciuto ciascuno la famigliadell’altro, sapendo sempre tutto delle nostre vite. Mentre mialzavo per andar via lui mi chiese: “Davvero credi cheriusciremo a tenerci in contatto?”.»25 Anche un’altraamica, Magdalena, ebbe con lui un addio piuttostoinquietante: «L’ultima volta che lo vidi fu a Londra, nel1979, prima di scoprire che si era stabilito a Kabul. Mi

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disse: “Non giudicarmi un cattivo amico se non riuscirò afarmi sentire molto spesso”».26

«Ormai Mir prendeva tutte le azioni di Zia come unaquestione personale», racconta Bill, cercando di spiegarequella svolta improvvisa. Ancora oggi l’argomento Kabulresta piuttosto scabroso: come puoi spiegare alla figlia deltuo migliore amico, una giovane donna che non hai maiincontrato prima d’ora, perché suo padre decise di buttaretutto all’aria - la sua vita, la sua idea di pace, la sicurezzastessa della sua famiglia - per mettersi alla testa di unmovimento armato? «Era convinto che Zia avesseoltrepassato un punto di non ritorno il giorno in cui si erapreso la vita di Zulfikar Ali Bhutto, e pensava che dovessepagare per questo. Mir non era uno che rifuggissedall’assumersi i suoi rischi. Per essere una personacresciuta in un ambiente tanto privilegiato, eradecisamente tosto.»27

Il 17 settembre 1979, vigilia del suo venticinquesimocompleanno, Murtaza prese l’aereo e tornò a Kabul. Doveavrebbe vissuto tre anni.

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CAPITOLO 8Intanto, in Pakistan, Nusrat e Benazir erano sbatacchiate

fra prigione e arresti domiciliari, tanto a Karachi quanto aLarkana. Ogni volta che si avvicinava un momento diincertezza politica il regime le faceva rinchiudere, per poiliberarle quando la tensione era passata. Un pomeriggio incui mi trovavo ad Al Murtaza, a Larkana, volendo liberareun po’ di spazio per i miei libri ho cominciato a frugarenegli armadi della mia stanza e mi sono ritrovata fra lemani dei vecchi quaderni. Li ho spolverati, li ho aperti conattenzione, e ho scoperto che erano appunti e diari diBenazir risalenti proprio a quel periodo. Seppur nonsempre datati, erano stati scritti fra l’autunno del 1979 e unmomento indefinito del 1981.

Esattamente come la Benazir che ho conosciuto in vita,anche i suoi appunti contenuti nei quaderni sonocontraddittori e divergenti. A volte sembra addirittura che ascriverli siano state due persone diverse. In una letteradatata 18 novembre e indirizzata al sovrintendentecarcerario di Larkana - responsabile degli arrestidomiciliari di Benazir, il tono è fiero e coraggioso:

Da qualche giorno mi sento poco bene. Ieri,quando la mia salute è peggiorata, hochiesto di vedere un medico. Sono passate

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ventiquattr’ore, ma non si è visto nessuno.Rientra nella vostra linea politica, far soffrire iprigionieri politici? Farete meglio acontrollare nel Manuale carcerario, perchéAllah e il popolo del Pakistan ve nechiederanno conto […] Desidero inoltreattirare la vostra attenzione sul fatto che: a)alcuni materiali di lettura sono statiillegalmente trattenuti affinché nonarrivassero in mano mia; b) anche alcunigeneri alimentari sono stati trattenuti dallapolizia di frontiera prima di arrivare a me; c)mi si è impedito di ricevere del materiale dascrittura; d) mia sorella dice che ai miei legaliè stato impedito di parlare con me.

Da un appunto contenuto nei quaderni traspare inveceuna prigioniera di tutt’altro tipo: «Uffa, quante zanzare.Svegliata a mezzogiorno. Un’ora di massaggio. Pranzo.Un’altra ora di massaggio. Lavata. Vestita. Truccata. Lettoun libro. Tè alle quattro. Dato da mangiare al cervo.Passeggiata. Lavato finestre o pareti. Giocato aScarabeo. Letto un po’. Cena alle otto. Letto/scarabeo.Che spreco».1

C’è la Benazir che ha sofferto terribilmente per l’orribilemorte di suo padre e che si considera una sorta di

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apprendista della politica, intenta a raccogliere ecombinare frammenti di conoscenza sulla situazionegenerale del paese e annotazioni politiche con tanto dinomi e date. «Un paio di sere fa abbiamo concepito unasorta di governo provvisorio»,2 scrive Benazir nel suorigido corsivo. Un altro giorno compila una lista dipersonaggi locali, tutti presidenti di qualcosa, segnandoneil nome e con quanti voti si sono procurati quella posizione.Altre volte scrive del padre e di Zia: «Dato che il mandatodei comandanti di corpo d’armata scadrà a marzo, sembraimprobabile che Zia riesca a “sistemare le cose” con lasua solita meschinità prima di allora. Quel maledettoassassino, lo Yazid del XX secolo».3

Ma c’è anche la Benazir accomodante, che si esprimecome una che stia partecipando a un corso per ilmiglioramento della propria vita e non come una personaagli arresti domiciliari: «Ci sono voluti secoli per ottenererose di buona qualità», scrive il 14 novembre, qualchegiorno prima della lettera al sovrintendente carcerario dicui sopra. «Tagliati i boccioli della rosa azzurra e chiamatiMachiavelli il Principe Azzurro; la rosa gialla è la BorgiaBionda; quella di velluto rosso cupo l’Incantatrice», e cosìvia. Tre giorni dopo scrive: «Oggi ci hanno sequestrato deidolciumi, delle cose da mangiare mandate dalla bua (zia)e tutti i generi alimentari già cucinati».

Altre volte ancora Benazir è un po’ dell’una e un po’dell’altra. Complicata, infinitamente complicata; emanipolatoria. «Sugar», scrive un giorno, un venerdì, «è

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venuta a miagolare alla mia finestra perché la lasciassientrare. Aveva catturato un topo e voleva mostrarmelo.Sugar si comporta spesso come un essere umano. Ècome se sapesse comunicare. Il 23 è venuta Sunny»(Sanam, la sorella minore). «È stata scortese e mi ha fattoarrabbiare. Il suo egoismo non ha limiti. Non riflette su cosasignifichi per noi vivere così rinchiuse. Forse le costerebbetroppo, un po’ di buona educazione.»4 Oppure Benazir èinquietante: in una pagina non datata riassume un libro cheha appena letto: «L’uomo che arriva al vertice lo faarrampicandosi […] Qualità del leader: osserva; legge;ascolta; pensa» (fa un bel po’ di cose). «Quando faipropaganda cerca di farlo bene, scrivi come parli. Unapubblicità ben scritta, con un’illustrazione tale da colpirel’occhio e uno slogan centrato, collocata sullapubblicazione giusta, ha il massimo dell’impatto.»

Per Murtaza, dicevamo, Kabul era una scelta obbligata.Suo padre gliel’aveva raccomandata nella sua ultimalettera, perché l’Afghanistan significava essere il più vicinopossibile al Pakistan. «In Pakistan l’esilio è una tradizionenazionale», mi spiega Suhail, che nel settembre del 1979raggiunse Murtaza a Kabul. «Già durante il movimentoKhilafat, prima e dopo la seconda guerra mondiale, unguerriero di nome Obaid Ullah Sindhi - sì, anche lui era delSind - diresse la sua resistenza contro l’impero britannicoda Kabul.»5

Ma l’esilio oltre il confine settentrionale, in Afghanistan,era anche una tradizione di famiglia. Il bisnonno di Murtaza,

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Ghulam Murtaza Bhutto, dal quale mio padre prese il nome,all’epoca del raj ebbe una relazione con la moglie di uncommissario britannico. Quando la tresca fu scoperta luiscappò a Kabul, dove fu ricevuto come un ospite dall’emirodella città. Alla fine gli inglesi (e il marito della sua amante)gli offrirono un accordo di pace e lui tornò a Larkana, dovefu prontamente assassinato.

Ma a parte questa associazione con il nome dei Bhutto,l’Afghanistan era già pieno di nazionalisti beluci e pashtuncacciati dal governo federale, per non parlare del fatto cheaveva una profonda affinità culturale e religiosa con ilPakistan, con cui condivideva anche una qualche ereditàetnica; tutte ragioni per le quali gli esuli pachistaniconsideravano questo paese un’opzione molto più fattibileche non l’India o il Bangladesh.

Shahnawaz non si trasferì subito in Afghanistan insiemea suo fratello, ma restò a Londra per concludere alcuniaffari personali. In realtà era fidanzato con una giovaneturca, Nurseli, conosciuta quando frequentava il college inSvizzera. Erano usciti insieme per qualche anno, dopo diche Shahnawaz le aveva fatto la proposta di matrimonio.Nurseli veniva da una famiglia ricca, ma era una ragazzasemplice, rotondetta; Shahnawaz le voleva bene.Ciononostante dovette metterla di fronte a un ultimatum.Quando le disse che insieme al fratello aveva in mente discatenare una rivolta armata contro la giunta militare alpotere in Pakistan, Nurseli e la sua famiglia si tiraronoindietro. Sospendi tutte le «attività», gli dissero, oromperemo il fidanzamento. Shah non poté farci niente.

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Sistemò i suoi affari a Londra, lasciò la ragazza, fece levaligie e partì per Kabul.

Nell’autunno del 1979 i fratelli si stabilirono in un villino diChicken Street, una traversa di Wazir Akbar Khan Road.La casa, detta Palace Number 2, sorgeva proprio davantiall’ambasciata tedesca, a sinistra di quella libica e amezzo chilometro dalla pachistana. Era una semplicecasetta a un solo piano, con tre camere da letto - una perMurtaza, una per Shah e una per Suhail: uno studio, unacucina e un grande soggiorno-salotto. Le pareti eranodipinte di bianco avorio, e il soggiorno foderato di pannellidi legno. All’esterno c’era un grande prato, e i tre ci miserouna rete per giocare a badminton. Poi comprarono unagriglia e spesso, la sera, organizzarono dei barbecue.

A Kabul, Murtaza assunse lo pseudonimo di SulaimanKhan. Le precauzioni non erano mai troppe, soprattutto coni funzionari pachistani che abitavano in fondo alla via. Luinon parlava il dari, al di là di poche parole - convenevoli dibase, sufficienti a passare inosservato - né il pushto;diversamente da Suhail, la cui famiglia era originaria diPeshawar. Fra i tre era Shah quello che parlava meglio ildari, e non tanto perché sua madre era iraniana quantoperché al college aveva avuto molti amici farsi.Nell’insieme si può dire che i tre lo parlavano quasicorrentemente.

Wolf, il cane a cui Della si rivolgeva in greco, avevaviaggiato da Londra a Kabul insieme a Murtaza. Mir amavamoltissimo i cani, e sosteneva che un buon esemplare daguardia poteva essergli estremamente utile. Peccato che

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Wolf fosse più un animaletto da compagnia che non uncane da guardia. Nell’altra metà del Palace Number 2viveva un gruppo di russi - in quella fase nessuno avrebbesaputo dire perché - che avevano un ingresso e un pratotutti loro ma spesso si fermavano al di là del cancello pergiocherellare con Wolf. Quando se ne andarono sparìmisteriosamente anche il cane, e Murtaza rimase dell’ideache l’avessero rubato. Dopo quella sparizione portò a casaun altro pastore tedesco, prontamente battezzato Wolf 2.Tre anni dopo, quando Murtaza lasciò Kabul, Wolf 2 partìcon lui.

Il presidente dell’Afghanistan, salito al potere nel 1978dopo una rivoluzione di stampo comunista, diede ilbenvenuto ufficiale ai fratelli Bhutto e lasciò loro pienalibertà di movimento perché organizzassero a Kabul unproprio esercito. I due si videro assegnare addirittura unautista fisso, Abdur Rehman, al quale Murtaza si affezionòmoltissimo. Sui quarantacinque anni, Abdur Rehmanportava i tre ribelli pachistani in giro per la città maconsegnava loro anche i pasti che il presidente insisteva amandargli due volte al giorno. «Avevano uno stranosistema, in Afghanistan», ricorda Suhail. «In ogni ufficiopubblico, da quello del presidente a quello dell’ultimopoliziotto, tutti i dipendenti pubblici ricevevano un sussidioalimentare composto da riso, due pezzi di roti (panebianco), curry e patate. Anch Najibullah, capo dei servizisegreti e membro del Politburo, riceveva lo stesso pasto,con in più una ciotola di yogurt a parte. Gli afghani noncoltivano il riso, ma lo amano moltissimo; in realtà

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mangiano la stessa, identica cosa a ogni singolo pasto!Dopo l’invasione russa, con il coprifuoco, prendemmol’abitudine di ritirare la nostra cena verso le sei di sera; poiaspettavamo che facesse buio, “pachistanizzavamo” il cibocon l’aggiunta di cipolle, pomodori e masala, loscaldavamo sulla stufa e lo mangiavamo.»6

Najibullah, futuro presidente dell’Afghanistan, aveva duepersone che lavoravano per lui, due muawan, «aiutanti», indari; e il muawan numero uno, un certo Nooristani, fuincaricato di occuparsi degli esuli pachistani. Nooristaniera bassino, sempre perfettamente rasato, con i capelligrigi un po’ radi sulla sommità della testa, e dai fratelliBhutto si faceva vedere sempre e soltanto in abito intero.«Facemmo presto amicizia», ricorda Suhail. «Veniva danoi due o tre volte la settimana per aggiornarci sullasituazione nel paese e raccontarci ciò che aveva sentitodire del Pakistan. Apparteneva a una nota famiglia dipolitici - suo fratello dirigeva l’aeroporto di Kabul, un suocognato era il capo della corte suprema.»7 Suhail eMurtaza avrebbero incontrato nuovamente Nooristani inPakistan, dove quest’ultimo sarebbe scappato a metàdegli anni Novanta: a ruoli invertiti, dunque. Chiedo aSuhail se sa dove si trovi Nooristani oggi: forse ancora aPeshawar? «Non lo so», risponde lui scuotendo la testa.«Ho sentito dire che suo cognato, capo della cortesuprema, è stato ucciso dai mujaheddin. Non so che fineabbiano fatto lui o suo fratello Sultan, quello che dirigeva

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l’aeroporto.»8Kabul era molto solitaria per i tre giovanotti. Quando i

russi invasero l’Afghanistan, due mesi dopo il loro arrivo, fuimposto il coprifuoco a partire dalle nove di sera.«Prendemmo l’abitudine di fare lunghe telefonateinternazionali alle nostre famiglie e ai nostri amici, nelleserate che eravamo costretti a trascorrere in casa», rideSuhail. «Ma le linee funzionavano talmente male che dopoun po’ lasciammo perdere e ci accontentammo di restareall’apparecchio a chiacchierare con le centraliniste. Iltempo non passava mai. Certe sere ci annoiavamo cosìtanto da dimenticarci se avevamo già cenato oppure no, eci tornava in mente solo quando entravamo in cucina evedevamo il lavello pieno di piatti sporchi.» Ma con ilcoprifuoco, e il conseguente azzeramento della mobilità,non ci furono più operatrici telefoniche disposte a restare inlinea per ammazzare il tempo. La noia peggioròulteriormente. «C’era un solo canale televisivo, statale, chenel fine settimana mandava in onda un programma dimezz’ora intitolato Ranga Rang, ovvero “Pieno di colore”»,racconta Suhail sorridendo. «Era un programma musicalecomposto da sei canzoni, comprese una in urdu e una ininglese. Era il nostro programma preferito. Tutto il resto erapropaganda, a ogni ora del giorno! Lo aspettavamo pertutta la settimana, e quando arrivava eravamo pronti, sedutidavanti al televisore, puntuali con i nostri cibipachistanizzati e altri spuntini.»9

Pur avendo cominciato a spostare truppe in Afghanistan

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fin dall’autunno del 1978, i russi lanciarono un attacco divasta portata solo nel dicembre del 1979. Per tutti coloroche vivevano a Kabul, l’invasione non fu certo unasorpresa: c’erano già tanti russi in città, vivevano alla portaaccanto di ciascuno. La notizia dell’invasione però fu datacon grande sensazionalismo dai media esteri. Della era adAtene e stava guardando la televisione quandoannunciarono che i russi avevano invaso l’Afghanistan, e fumolto colpita dalla notizia che il presidente Taraki era statogiustiziato. Taraki era ancora in carica l’ultima volta che leiera andata a Kabul; la violenza con cui gli eventi si eranosviluppati aveva dell’incredibile. Sul suo diario Asprey violaDella aveva preso appunti un giorno in cui Murtaza avevacercato di spiegarle le complesse dinamiche della politicainterna afghana, scrivendole di suo pungo i nomi da tenerea mente: Babrak Kamal, Hafizullah Amin, Noor Mohammade così via. Quegli appunti sono ancora lì, scritti in piccolo,schiacciati fra date e appuntamenti; ma ogni volta cheriapre quel diario in cerca di risposte all’improvvisainversione di marcia dell’Afghanistan, Della vi trova sempremeno conferme e consolazioni. «Kyber, uomo di Kamal, haparlato un po’ troppo durante un discorso ed è statoammazzato», recita un appunto. «Amin è stato ucciso acasa di Taraki», leggiamo in un altro.

Spaventatissima, Della cercò di raggiungere Murtazatelefonicamente; ma le linee erano mute. Provò a chiamarequalche amico a Londra, ma nessuno di loro aveva notizie.Tutti erano preoccupati, ma Della passò subito all’azione.Andò a trovare un suo amico avvocato che, possedendo

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delle azioni del quotidiano «Acropolis», riuscì a farle avereun pass della stampa, si appese una Nikon al collo e corsein aeroporto. Nella speranza di riuscire a trovare, in India,una coincidenza per Kabul, salì sul volo 788 dell’Alitalia daAtene per Nuova Delhi. Arrivò a Delhi nel cuore della notte,ma dietro al banco dell’Ariana Airlines non c’era nessuno.Per il resto della notte dormì sulla sua valigia nera, nelsudiciume attorno all’aeroporto.

Il pomeriggio del giorno dopo l’Ariana Airlines annunciòche il volo per Kabul era stato cancellato. Della si unì aglialtri viaggiatori delusi, e fece la conoscenza di undiplomatico italiano con una ventiquattrore incatenata alpolso e di un americano in jeans e stivali da cowboy.Quest’ultimo le raccontò di voler raggiungere Kabul percomprarvi dei tappeti. Come copertura non era il massimo:secondo Della, puzzava di CIA lontano un miglio. Lei,almeno, aveva una macchina fotografica a rendere piùcredibile il suo travestimento: ma dov’era l’attrezzatura peril trasporto dei tappeti di quel cowboy?

Lo strano terzetto lasciò l’aeroporto e occupò tre stanzeal vicino Taj Mahal Hotel. Trascorsero la serata al ristorantesulla terrazza e andarono a dormire presto, nella speranzadi trovare, il mattino dopo, un modo per lasciare il paese.Ma anche il volo dell’indomani per Kabul fu cancellato. Perla seconda volta Della lasciò l’aeroporto insieme ai suoibizzarri compagni e, non trovando più camere libere al TajMahal, si avviò con loro verso l’Asoka Hotel, un albergo piùvecchio e infinitamente meno caro. A questo punto ildiplomatico italiano, che sganciava la catena che lo legava

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alla ventiquattrore solo per mangiare, si arrese e decise ditornare alla sua ambasciata; Della e il commerciante ditappeti dovettero quindi contare i centesimi e condividereuna stanza a due letti del più economico Asoka Hotel.

Fu con grande sollievo che, dopo quattro giorni d’attesa,i due trovarono finalmente un volo per Kabul e poteronopartire per il nuovo Afghanistan. L’aereo atterrò senzaincidenti: c’erano russi dappertutto. A questo punto Della siseparò dall’americano, il quale ebbe non poche difficoltà aspiegare a quelli della dogana come mai un commerciantedi tappeti viaggiava con una vagonata di pellicola alseguito. Quando gli telefonò dall’aeroporto, Murtaza fustupefatto nel sentire che ci aveva messo ben quattrogiorni per arrivare. Perché non lo aveva chiamato prima?«Non muoverti», le disse. «Mando subito qualcuno aprenderti.»

Suhail fu spedito all’aeroporto, prelevò Della el’accompagnò al Palace Number 2. Era il momento piùfreddo dell’inverno di Kabul, e le strade, quasi tuttedeserte, erano coperte di fango e di neve. Della, ancora inrodaggio nel suo nuovo ruolo di giornalista, vide un carroarmato russo parcheggiato davanti alla casa. Un soldatocontrollava la situazione con la schiena appoggiata almezzo blindato. Della balzò fuori dall’auto per fotografarlo;subito il soldato alzò il fucile e avanzò verso di lei. Suhaill’afferrò per il braccio e la spinse dentro il garage,scambiando rapidamente con il soldato qualche parola inrusso internazionale. Non era quella la Kabul che Dellaricordava. Doveva essere accaduto qualcosa di molto

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brutto.Murtaza la consolò e cercò di farla sentire a suo agio in

una città che sembrava sull’orlo della più brutale violenza.Verso sera arrivò un ospite per cena, un uomo scarno chesi faceva chiamare Azmuddin e che, come Murtaza spiegòa Della, faceva parte del nuovo governo. Ancora nei pannidella giornalista, Della gli chiese come andassero le cosein città. L’uomo parlò a lungo, ripercorrendo un secolo distoria afghana fino all’assassinio di Taraki. Parlava connonchalance degli ultimi eventi, e a un certo punto disseche secondo la vox populi l’ex primo ministro era statosoffocato nel sonno e si era villanamente rifiutato di morirein fretta, tanto che la sua vita ci aveva messo ben dieciminuti a lasciarsi spegnere. Della provò a metterlo allestrette domandandogli perché il filosovietico Taraki avessedovuto morire in quel modo. «Era un uomo pericoloso.Così l’abbiamo eliminato», rispose Azmuddin guardandoladritto negli occhi.1011 Murtaza le toccò la mano,suggerendo che forse era meglio lasciar perdere.Azmuddin era un uomo dei servizi segreti, e i nuovi agentinon erano certo simpatici e amichevoli come gli ex vicini dicasa suoi e di Shah.

Una sera Della, Murtaza, Suhail e Shah andarono a cenaall’Intercontinental Hotel. Parlando del Pakistan e delregime di Zia, Della si accorse che Murtaza si esprimevain modo più risoluto, più duro. Un po’ come Kabul, anche luiera cambiato. Nella hall dell’albergo c’era una bacheca conattaccate sopra le notizie arrivate durante la giornata via

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telegrafo. Nella parte alta della bacheca c’era scritto:Bulletin Board, bacheca dei comunicati. Mentre uscivano,Della tirò fuori dalla borsetta un pennarello e tracciò duelineette fra le lettere che componevano le parole in modoche si leggesse: Bullet/in/Board, Pallottola /nella/bacheca.

Tornata a casa con Murtaza, Della si rese conto diquanto lo amasse, e di quanto fosse stata pazza a faretutta quella strada solo per controllare se stava bene. PoiMurtaza disse che, pur essendo felice di vederla, ritenevache per lei non fosse sicuro fermarsi a Kabul. Dati iprecedenti di suo marito, i russi potevano pensare chestesse dalla parte degli americani o addirittura che fosseun agente della CIA. Qualcuno glielo aveva fatto notare giàdall’inizio della loro storia, ma stavolta la faccenda eraseria: per la sua stessa sicurezza doveva lasciare al piùpresto Kabul.

Il giorno dopo, era domenica, dedicarono la mattinata acercare un modo sicuro per andar via. Alla fine il pass dagiornalista di Della si rivelò una chiave magica, e unatroupe televisiva canadese in partenza per Peshawar conun jet privato acconsentì a caricare un altro passeggero. Sisepararono con la promessa di rivedersi al più presto: infebbraio Murtaza sarebbe dovuto andare in Turchia. Dellanon gli chiese perché - aveva smesso da tempo di faredomande - e lui promise di passare da lei ad Atene.

Dopo l’invasione russa i programmi televisivi divenneroun po’ più sopportabili. Per dare fastidio ai mujaheddinislamici andava spesso in onda una trasmissione condanzatrici del ventre egiziane che si contorcevano e si

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dimenavano vestite solo di tulle: era intitolato Raqse Arabi,«danza araba».

I due fratelli stavano lavorando alla stesura del manifestoprogrammatico del loro movimento, che avevanobattezzato Al Zulfikar come la spada a due punte dell’imamsciita Ali, guerriero senza macchia e senza paura e capocoraggioso; ovviamente però quel nome alludeva anche alloro padre, che lo portava proprio in omaggio alla spadadell’imam: Zulfikar Ali, la spada di Ali. Inoltre parlavano conattivisti pachistani, leader studenteschi, universitari,ingegneri, tutte persone che in patria si erano battutecontro la giunta militare e che ora avrebbero formato ilnerbo delle forze di Al Zulfikar. Stranamente, però, Murtazanon aveva ancora abbandonato la sua tesi di Oxford equando poteva rubacchiava un po’ di tempo per rivederla ebatterla a macchina, portando avanti un’anacronisticadoppia vita da studente, incastrata fra i compiti impostidalla costruzione di un movimento armato contro unacrudele dittatura militare. Man mano che nuove reclutearrivavano alla spicciolata nella capitale afghana,Shahnawaz e Murtaza dedicavano intere giornate esettimane a collocarle all’interno dell’organico e aorganizzare riunioni per discutere di come combattere almeglio la dittatura. «Erano così grati a tutti per l’appoggio ela solidarietà che ricevevano», racconta Suhail. «Una volta,nei primissimi giorni dopo l’invasione russa, quandoancora si combatteva un po’ in tutto l’Afghanistan, imujaheddin emisero un comunicato per dire che avrebberoinvaso la capitale; allora Mir, non volendo che gli uomini

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invaso la capitale; allora Mir, non volendo che gli uominivenuti fin là per unirsi a noi - per combattere insieme a noiper la nostra causa - si sentissero abbandonati, raccolse lesue cose e li raggiunse nel loro alloggio per passare lanotte con loro.»12

Dopo il viaggio in Afghanistan, Della ricominciò acorrere qua e là per chiedere la liberazione di suo marito.Andò ancora una volta in America, e a un certo puntoincontrò di nuovo Ahmed, l’ambasciatore somalo, che nelfrattempo era stato spostato alle Nazioni Unite. Ovunqueandasse, evidentemente, Della si ritrovava sempre aparlare o in difesa di Murtaza o in difesa di suo marito.Ahmed le chiese del suo amico pachistano e di cosa fossesuccesso dopo l’esecuzione di suo padre, ma Della potédirgli ben poco - non era più molto quello che poteva fareper Murtaza.

In febbraio, fra un viaggio in Turchia e uno in Libia,Murtaza fece tappa ad Atene per vederla. Sembrava fossetornato quello di un tempo; di nascosto da lei lescribacchiava appunti sul diario. «Club», aveva scrittoDella su una certa data di marzo. «QUALE CLUB?»annotava Mir con un’enfatica sottolineatura. Poi, fattescorrere le pagine fino a settembre, sulla pagina del 18,data del suo compleanno, scriveva: «Data storica». Ma ilvecchio Murtaza non aveva quasi fatto in tempo ariaffiorare che sparì di nuovo.

In Pakistan, dopo la cattura e l’esecuzione di Zulfikar,c’era stata una compatta campagna denigratoria neiconfronti della famiglia. La giunta aveva fatto stampare e

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distribuire dei pamphlet in cui Bhutto veniva definito «nonislamico», ateo e comunista. Ovunque si potevano vederefotografie di Nusrat e delle sue figlie - le teste sovrappostea corpi di donna in bikini, oppure nell’atto di tracannarealcol a una festa chiassosa. L’establishment peròconservava l’attacco più feroce per Murtaza e Shahnawaz.

Non appena si furono stabiliti a Kabul, dichiarando divoler combattere il regime militare fino alla rimessa invigore della costituzione del 1973, la giunta cominciò adefinirli terroristi. Fino a quel momento Al Zulfikar si eralimitato a emettere comunicati, chiedere appoggio politicoe dire pubblicamente che il governo utilizzava la violenza ela tortura contro il popolo pachistano. In Pakistan peròl’organizzazione godeva delle simpatie, per quantoclandestine, di molti studenti e attivisti che facevano partedi un contesto resistenziale più ampio: e ciò non era vistodi buon occhio. Ciononostante Murtaza non perdeva il suosenso dell’umorismo, nemmeno nelle circostanze piùdifficili. Scriveva delle lettere molto divertenti, per esempioprendendo in giro Della riguardo al suo paese: «A livellointernazionale la Grecia è famosa per tre ragioni. Primo, hapiù isole che abitanti. Secondo, un tempo faceva partedella Turchia. Terzo, il suo eroe nazionale, AlessandroMagno, era jugoslavo».13 Dalla Libia le mandò unacartolina con l’immagine di un cammello e la promessa diportare sempre l’anello che lei gli aveva regalato, anche sedi solito non portava gioielli, a parte l’orologio del padre.«Penso a te tutto il tempo», scrive, e le propone per

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l’estate seguente di andare insieme in India.Della però non poté andare: non stava bene, si sentiva

esausta. Stava cercando di occuparsi un po’ di sé, dopoaver trascurato a lungo alcuni problemi di salute chel’affliggevano da anni. Così fu Murtaza a fermarsi ad Atenesulla via dell’India. In una delle lettere scritte dal carcere, dicui ho sentito parlare da mamma ma che personalmentenon ho mai visto, il padre di Murtaza si complimentava coni suoi figli per l’ottimo lavoro che stavano facendoattraverso il Save Bhutto Committee. Seguivano qualchecommento e qualche suggerimento su questo e suquest’altro, ma la lettera si chiudeva su una nota imperiosa: Zulfikar proibiva perentoriamente ai suoi figli di metteremai più piede in India. Non è una gentile richiesta, e inmerito non vengono date spiegazioni, perchéevidentemente i ragazzi le conoscevano già e leconsideravano ovvie. Ma su questo punto i due figli non gliavrebbero obbedito.

A Delhi, Murtaza incontrò Indira Gandhi - chenotoriamente non era andata molto d’accordo con suopadre - e suo figlio Rajiv. Ricordo perfettamente il giornodell’assassinio di Rajiv Gandhi. Mio padre e io eravamo alsupermarket in Libano, e passammo davanti a untelevisore acceso del reparto elettronica proprio mentreveniva data la notizia. Papà si fermò a guardare,scrollando la testa. Io non sapevo nemmeno che siconoscessero.

Murtaza andò ad Atene ancora due volte: tornandodall’India e poi a settembre, per quattro giorni durante i

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quali festeggiò il suo compleanno, sulla strada perDamasco. Della non gli chiese nemmeno dove fossediretto: non voleva saperne più niente. In ottobre Murtazaandò a trovarla per l’ultima volta. Anche se loro due nonpotevano sapere che sarebbe stata l’ultima volta, la visitaebbe un sapore dolceamaro. Murtaza era pensieroso -Della lo vide lisciarsi i capelli in cima alla testa, un gestoche faceva solo quando era in ansia. Notò anche chefumava un po’ troppo, e che parlava meno del solito. Leinon stava ancora bene, e Murtaza la supplicò di nontrascurarsi.

Il 18 ottobre, prima di uscire per andare all’aeroporto,Murtaza le scrisse una lettera molto tenera che lasciò daqualche parte affinché la leggesse dopo la sua partenza.Lei lo accompagnò in macchina all’aeroporto di Atene. Siabbracciarono, si baciarono, poi lui salì sul suo aereo. Apresto, si promisero.

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CAPITOLO 9Intanto, al di là del confine, il Pakistan bruciava. Il

movimento d’opposizione al generale Zia, inizialmentetenuto a freno dal regime con la mera forza bruta, nonfaceva che crescere. Dopo aver giustiziato Zulfikar AliBhutto e imposto un rigido coprifuoco per impedire ognispostamento nel paese, Zia aveva messo fuori legge tutti ipartiti e bandito ogni sorta di attività politica, proibito iraduni pubblici e censurato tutti gli organi di stampa. 1L’assoluto disprezzo che Zia sembrava avere per i dirittisia civili sia umani, per ogni libertà sessuale e per le piùbasilari regole della democrazia avevano ispirato la piùconcorde resistenza che il Pakistan abbia mai conosciuto.Il regime del generale, a sua volta, colpì con la massimadurezza quel movimento che la sua stessa brutalità avevagenerato. Lo stato retto da Zia non era solo crudele oltreogni limite - con tanto di pubbliche fustigazioni eimpiccagioni - ma anche estremamente abile nell’artedell’umiliazione. Durante il mese del digiuno islamico, ilRamadan, faceva sospendere la fornitura d’acqua potabiledall’alba al tramonto in tutta Karachi, in modo da toglierlaanche ai non islamici, imponendo il digiuno anche a chinon voleva (il fatto che anche le fogne fossero bloccatedimostra in che stima tenesse i non credenti). Quanto alresto dell’anno, Zia aveva reso obbligatorie le cinquepreghiere quotidiane in tutti gli uffici pubblici, le attivitàcommerciali e le scuole.

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Il movimento di resistenza pachistano era composto daquattro gruppi principali: stampa, avvocati, donne esindacalisti, mentre le agitazioni erano organizzate dagruppi politici e da singoli attivisti fra i quali Murtaza.

Non appena Zia si fu rimangiato la parola di indire libereelezioni per l’ottobre del 1979, la giunta militare impose lacensura a tutti gli organi di stampa. Sei quotidiani furonochiusi definitivamente - «Musawat», il giornale che Murtazacontinuò a stampare e a diffondere da Londra, «Tameer»,«Hawat», «Aafaaq», «Sahafat» e «Sadaqat». Anche ilsettimanale «Mustaqbul» e il mensile «Dhanak» furonocostretti a chiudere.2 Il governo varò poi il Regolamento n.9 della legge marziale, attribuendosi il potere di imporrecomunque la censura su argomenti ritenuti «lesividell’ideologia islamica», pericolosi per la sicurezzanazionale o «per la moralità e il mantenimento dell’ordinepubblico».3

Le emittenti locali e internazionali, BBC compresa,venivano controllate due volte al giorno da un censorenominato dalla giunta che, da solo, aveva il potere didecidere cosa si poteva e cosa non si poteva dire. Quantoveniva giudicato lesivo dell’ «ideologia islamica», uno deitemi cui il generale fondamentalista teneva di più, eraspesso assurdo e arbitrario: uno zelante produttoretelevisivo arrivò a censurare Olivia, la fidanzata di Bracciodi Ferro, perché disegnata con la gonna.4 Giornaliste econduttrici della televisione di stato, la PTV, erano tenute amettere l’hijab prima di andare in onda. Mehtab Rashdi,

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annunciatrice del telegiornale, fu la prima a licenziarsicome forma di protesta contro l’obbligo dell’hijab.

Diffondere e commentare notizie tali da mettere incattiva luce il regime militare era sempre considerato«attività antistatale». Nel 1984 Hussain Naqi, direttore delPakistan Press Institute di Lahore, perse il lavoro per averletto la notizia che durante una conferenza stampa ilpresidente degli Stati Uniti aveva detto che il Pakistan nonera una democrazia.5 Il controllo sulla stampa era talmenterigido che tutte le notizie riguardanti scioperi della fame,proteste studentesche e raduni politici venivanocomunicate a giornalisti e editori solo per diffidarli dalpubblicarle.6

Sebbene anche i precedenti governi pachistani - come,a voler essere generosi, tutti i governi - avessero impostodelle restrizioni alla libertà di stampa in questa o quellafase storica, nessun altro regime era mai stato tantoinflessibile nel punire i giornalisti per disobbedienza amezzo stampa. Nel 1978 gli editori di tre quotidiani in urdu,«Urdu Digest», «Sun» e «Musawat», organo del PPP,furono arrestati e condannati a un anno di carcere duro e adieci frustate in pubblico per «aver pubblicato commentitali da gettare discredito su Zia».7 In seguito questigiornalisti furono rilasciati e perdonati, ma il messaggioera chiaro. Disobbedire allo stato era inaccettabile.Siddiqueh Hidayatullah, un’insegnante che all’epocacominciava la sua carriera presso il Kinnaird College diLahore, assistette alla frenesia con cui avvenne la prima

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fustigazione pubblica della città e così la racconta: «Lafustigazione avvenne su un grande chowrangi, una rotondastradale, di Jail Road: proprio così, all’aperto, nel belmezzo di una via trafficata. C’erano migliaia di persone, oalmeno così sembrava: alcuni erano stati trascinati fuori daibazar limitrofi, ma altri probabilmente si erano avvicinatiper semplice curiosità. Degli uomini si arrampicaronoaddirittura sugli alberi per vedere meglio. Una cosamorbosa. C’era sempre una gran tamasha, agitazione,attorno a questi eventi, il regime voleva che tutti vedesserocon i loro occhi quanto fosse feroce e disumano».8 Quellostesso anno l’editore del quotidiano «Sadaqat», diKarachi, poi chiuso definitivamente, fu arrestato per ilcrimine di aver trovato qualcosa da ridire sul budgetcentrale del governo.9

Anche drammaturghi, poeti e scrittori caddero vittimadella scarsa tolleranza di Zia per la libertà creativa; quandole loro opere non incontravano il gradimento della giuntafurono puniti o ridotti al silenzio e infine costretti ad andarein esilio. Fra gli scrittori più importanti che dovetterolasciare il Pakistan ricordiamo il poeta Faiz Ahmed Faiz,che trovò rifugio a Beirut, Rehmatullah Majothi, NaseerMirza e Tariq Ali.

Giornalisti e editori si opposero alla censura governativain mille modi, e furono puniti per aver sfidato il potere concondanne al carcere o con multe pesanti; il punto di svoltaperò arrivò nel maggio del 1978, quando quattro cronistivennero frustati in pubblico per dissidenza. 10 Mai,

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nell’intera storia del Pakistan, era successo che deigiornalisti fossero brutalizzati a quel modo. La punizioneperò non sortì l’effetto desiderato: invece di terrorizzare lastampa costringendola alla sottomissione, quelle frustatespinsero ulteriormente i giornalisti verso la resistenza attivacontro il governo. Cosa che essi fecero principalmente indue modi.

Innanzitutto esponendosi volontariamente all’arresto conazioni di protesta ad alta visibilità come scioperi dellafame, sit-in e manifestazioni, nonché stampando materialicritici nei confronti del governo. Nei due mesi successivialla prima fustigazione pubblica di giornalisti ne furonoarrestati ben centocinquanta.11 Zia tentò di giustificarel’inflessibile trattamento riservato alla stampa dichiarando:«Non ho alcun rispetto per quei giornali e per queigiornalisti che usano pedissequamente la penna perdanneggiare gli interessi nazionali».12

Tali commenti non fecero che esasperare ancora di più ilavoratori della carta stampata. Nel 1979, oltre a farsiarrestare, i giornalisti cominciarono uno sciopero dellafame a oltranza nella sede di «Musawat» in segno diprotesta contro la chiusura del giornale. Le agitazioniandarono avanti finché la polizia non fece irruzione e non liportò via.13 Nello stesso anno, a Muzzafarabad, unmagistrato locale fece chiudere ben nove quotidiani in urduche si erano rifiutati di interrompere la pubblicazione dimateriali critici verso il governo.14 Nel 1983 dieci

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giornalisti di Lahore furono licenziati per aver partecipato auna campagna di disobbedienza civile contro larepressione governativa, e come punizione ulteriore nonpoterono più lavorare nei media finché Zia restò al potere.

La stampa, inoltre, che dopo di allora non si è mai piùdimostrata altrettanto coraggiosa, si oppose alla leggemarziale con atti di velata resistenza che il governo definì«comportamenti devianti». Per ordine del comitatocensorio, i giornali dovevano sottoporre ogni loro articolo alvisto di un controllore prima di pubblicarlo. Spesso questicensori cancellavano dalle bozze intere storie e brani checonsideravano inadatti alla pubblicazione. Da un certomomento in poi, però, invece di riempire questi spazi conlunghi stralci di materiali insignificanti, i giornalicominciarono a lasciarli in bianco. Quando il principalequotidiano pachistano in lingua inglese, il «Dawn» -solitamente disciplinato portavoce dell’establishment - uscìcon un numero quasi interamente composto di colonnebianche, il governo minacciò di chiuderlo per sempre.15

Molti altri giornali seguirono questo esempio, per poicambiare tattica quando i censori governativi ebberomangiato la foglia. Quando la pubblicazione di colonne inbianco fu proibita per legge, opinionisti come MazharAbbas, che scriveva sul «Daily Star», cominciarono aopporsi alla matita dei censori in modo ancora piùcaustico. «Negli spazi vuoti facevano stampare il disegninodi un asino o di un cane, e subito sotto davano notizia di undiscorso pronunciato da Zia o da uno dei suoi ministri.

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Dopo un po’ i censori cominciavano a capire che stavasuccedendo qualcosa di sospetto. Il passo successivo eracomunicarti che dovevi far sapere al comitato di censuraesattamente quali notizie avresti usato per riempire qualispazi bianchi!».16

Quando poi i censori diedero un ulteriore giro di vite,tagliando la sera notizie già approvate nel controllomattutino, i giornali trovarono nuovi modi per aggirare larepressione. Per esempio, alcuni articoli tagliati daicensori di Karachi venivano stampati nell’edizione diLahore, che aveva giornalisti, tipografi e censori diversi.17Gli sforzi messi in campo collettivamente dai lavoratoridella carta stampata, che si mossero come un fronte più omeno compatto contro il regime di Zia, riuscironoperlomeno a impedire che tutto il «quarto stato»diventasse semplicemente un portavoce della leggemarziale.

Sotto il regime di Zia una metà della mia famiglia era inesilio e l’altra metà in prigione. Quando ho cominciato lemie ricerche su quel periodo ho parlato anche con deigiornalisti - i quali, per fortuna, ce l’avevano ancoraabbastanza con Zia da voler condividere con me i loroprecisissimi ricordi ogni qualvolta i miei libri e i miei ritaglidi giornale diventavano troppo avari di informazioni.

Avevo ventidue anni ed ero in Inghilterra a studiare per ilmio master quando, flirtando con l’idea di un viaggio nelpassato di mio padre e della mia famiglia, ho deciso discrivere la mia tesi proprio sulla resistenza contro la

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dittatura di Zia. L’argomento era di grande attualità: ilsuccessore di Zia, il generale Musharraf, governava ormaida sei anni e una nuova guerra afghana incombevasull’orizzonte del mio paese. Ma era ben più della meracuriosità intellettuale a spingermi a scrivere quella tesi.Avevo anche bisogno di capire mio padre. E volevorompere il tabù che ci impediva di parlare della «faseafghana». Ero cresciuta idolatrando la decisione di miopadre di imbracciare le armi contro la giunta militare, mapoi, man mano che diventavo grande e mi accorgevo diessere cresciuta senza un padre, avevo cominciato alottare per liberarmi da quella reverenza infantile. Perchédiavolo era dovuto andare a Kabul? Quella decisione ciaveva stravolto la vita. E ora non mi bastava più saperesemplicemente che ci era stato. Non mi accontentavo piùdi amarlo indipendentemente dalle sue scelte. Dovevoscavare più a fondo, sforzarmi di capire cosa fossesuccesso. Da allora la mia reverenza per la figura di miopadre non è cambiata, ma il mio metodo di lavoro sì. Alungo mi sono seppellita fra alti scaffali carichi di libri,divorando teorie e storie della lotta armata per quello chevolevo fosse uno studio libero da ipoteche e da tesiautocelebrative. Una scelta che non solo mi ha dato glistrumenti per capire una fase che per tutta l’infanzia el’adolescenza avevo visto solo avvolta dalle nebbie delmito, ma con il beneficio aggiunto della giusta distanza chebisogna saper prendere quando si lavora su un periodostorico che per noi ha avuto conseguenze profondamentepersonali.

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Insieme ai giornalisti e agli altri lavoratori della cartastampata, anche gli avvocati levarono una voce criticacontro il regime di Zia. Fin dai primi giorni della dittaturamilitare gli avvocati del Pakistan «tennero seminari,organizzarono marce di protesta, boicottarono i tribunali esi offrirono spontaneamente all’arresto»18 per chiedere larevoca della legge marziale, il ripristino dell’indipendenzadella magistratura e il rispetto dei diritti civili e politici. Ilmovimento degli avvocati che abbiamo visto nascere nel2007 contro il regime di Musharraf non è assolutamentestato il primo nel suo genere; le sue radici affondano inquello contro Zia.

Solo nei primi mesi del 1981 ben 460 avvocati furonoarrestati per aver protestato contro la legge marziale.19 Laresistenza dei membri del foro era chiaramente unareazione contro la cooptazione del sistema giudiziario daparte della giunta militare e contro le sue interferenze negliaffari legali dello stato. La tristemente famosa «dottrinadella necessità», secondo cui «ciò che altrimenti nonsarebbe legale, lo diventa in forza di necessità», è statausata retroattivamente dai tribunali pachistani pergiustificare tutti i periodi di legge marziale impostidall’esercito, nonché per condonare la presa del potere daparte di Zia.20

Non appena questa dottrina ebbe preparato la stradaaffinché Zia potesse continuare a comandare, il generale

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cominciò a coltivare un ambiente giudiziario a luifavorevole. Entro il 1979 tutti i giudici che avevanomostrato poco entusiasmo per i militari al potere furonolicenziati e sostituiti.21 I poteri delle corti civili venneroridotti, e per eseguire gli ordini del regime furono creati deitribunali militari.

I seggi della Sharia federale si riempirono di religiosiche spesso non sapevano nulla di diritto. Il loro compito eraquello di giudicare quali leggi fossero «incompatibili con iprecetti dell’islam», e su tale base dichiararleimmediatamente nulle e non valide.22 Nel frattempo aitribunali militari fu assegnata una sfera di competenzamolto più ampia, nonché la facoltà di operare senza alcuncontrollo da parte della giurisdizione civile. In baseall’Ordinanza n. 77 erano proprio questi tribunali agiudicare i casi riguardanti «reati politici, violazioni deiregolamenti della legge marziale e qualunque altro reatoprevisto dal codice penale pachistano».23

I tribunali militari non persero tempo, e in men che non sidica cancellarono tutte le più elementari libertà civili e ognidiritto alla tutela legale; con il nuovo, draconiano sistemagiudiziario i detenuti non avevano il diritto di sapere dicosa li si accusasse e potevano essere imprigionati per unperiodo di tempo illimitato senza alcuna accusa formale; itribunali militari non erano tenuti a mettere per iscritto leloro accuse né i procedimenti legali che ne derivavano, ilnumero dei casi trattati da tali tribunali non veniva resopubblico, mentre i legali degli accusati potevano solo

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osservare, e non partecipare, al processo dei loroclienti.24

Nel 1984 si venne a sapere di numerosi casi checontenevano in nuce tutta l’illegalità del regime, e chespronarono la comunità giuridica a intensificare laresistenza. Due procedimenti in particolare, nel corso deiquali furono commesse grossolane violazioni dell’ordinelegale, incendiarono gli animi fra gli addetti ai lavori. Ilprimo fu il caso della prigione di Rawalpindi, che vidediciotto persone arrestate per «attività contro lo stato» edetenute un anno intero prima che contro di loro venisseroformulate accuse specifiche. Alla fine il processo fucelebrato a porte chiuse, in prigione, e i diciotto furonocondannati per aver cospirato al fine di abbattere ilgoverno con l’aiuto di una potenza straniera che non venivanominata. Agli accusati fu negato un giusto processononché ogni contatto con i familiari e con la stampa, e il piùdelle volte anche con gli avvocati difensori.25

Il secondo caso, quello della prigione di Kot Lakhpat,testimonia un’escalation rispetto al primo: cinquantaquattroimputati furono arrestati con accuse analoghe a quelle deiprimi diciotto. Qui però agli avvocati fu addirittura impostoun «giuramento di segretezza» con il quale siimpegnavano solennemente a non rivelare a nessuno idettagli del processo, che come il primo si svolse a portechiuse, in prigione. Cinquanta degli accusati di questocaso boicottarono il processo e cominciarono lo scioperodella fame contro le condizioni disumane della loro

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detenzione, e per rivendicare il diritto a un processogiusto.26

Questi due avvenimenti ebbero grande risonanza sullastampa e suscitarono enorme scandalo nell’ambientelegale, spingendo ancora più avvocati nelle strade aprotestare: ed era solo l’inizio. Il regime aveva cominciatoa giustiziare la gente per «attività contro lo stato» a unritmo decisamente allarmante. Si stima che fra il 1979 e il1985, fase di massima brutalità da parte della giuntamilitare, siano state giustiziate per ragioni politiche fra lecento e le mille persone. Anche se la legge prevedeva lapossibilità di chiedere la grazia, a metà degli anni Ottanta ilgenerale Zia non aveva mai commutato nemmeno unasentenza capitale.27

Zia aveva un debole per la dimensione teatrale deglieventi: oltre alle retate e ai raid di mezzanotte, lapopolazione poteva sempre recarsi in uno stadio o ai bordidi un campo da cricket - vale la pena sottolineare che lanazionale pachistana di cricket non ci trovò mai niente daridire, anzi, sembrava contenta di essere usata dal regimeper i suoi scopi, per esempio nel caso del trionfo di politicaestera riportato da Zia sull’India con la «diplomazia delcricket», un episodio quantomai monodimensionale - perassistere a pubbliche flagellazioni, pubbliche esecuzioni e,di tanto in tanto, pubbliche lapidazioni di donne. Comescrive Foucault, esecuzioni e torture inflitte in pubblico nonservono a ristabilire la giustizia, ma a «riattivare ilpotere».28 Si tratta di rituali assolutamente politici, grazie

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ai quali il dominatore, offeso, ristabilisce la propriagrandezza e sovranità «nelle forme più spettacolari».29

Pur essendo già attive nel più generale movimento diresistenza contro la dittatura, nonché negli ordini dellastampa e dell’avvocatura, nel 1979, dopo il varo delleOrdinanze Hudood, le donne aprirono un nuovo fronte dilotta composto e guidato principalmente da loro. LeOrdinanze, in vigore ancora ai giorni nostri, sono unaraccolta di leggi centrate principalmente sul corpo delledonne e sul concetto di zina, parola araba che indica irapporti sessuali fra uomo e donna al di fuori delmatrimonio. Zina bil jabr è la variante usata per riferirsi allostupro: secondo la nuova definizione imposta dalla giuntamilitare a contare non sarebbe tanto il consenso, quanto ilrapporto in sé. Sulla base di questa legge una donna puòessere condannata anche dopo uno stupro perché, volenteo meno, ha avuto un rapporto sessuale fuori dalmatrimonio: in base alle Ordinanze Hudood la vittima distupro viene processata insieme allo stupratore in quantocolpevole di zina bil jabr. Le Ordinanze inoltre regolano lamateria dell’adulterio, dei rapporti sessuali in quanto tali edella prostituzione.30

Le Ordinanze Hudood contengono poi delle clausolecontro il consumo di alcol e di narcotici, le attività ostili daparte delle minoranze (di qualsiasi tipo), il furto e altri reatiminori. Provvedimenti di legge che risultano insoliti non

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solo per il puritano tentativo di imporre un certo ordine allavita privata delle persone, ma anche per le forme dipunizione prescritte per i «crimini» che definiscono: le piùcomuni sono la fustigazione pubblica e la detenzione, masono previste anche la lapidazione a morte, l’amputazionee le multe pecuniarie.31

Prima dell’entrata in vigore delle Ordinanze Hudood ilcodice penale pachistano non definiva reato lafornicazione, conteneva degli articoli contro lo stupro ancheall’interno del matrimonio e definiva la violenza sessuale unreato per il quale il violentatore, e non la vittima, era daperseguire.32 Nell’ambito delle Ordinanze Hudood, invece,le leggi relative alla zina prevedono che si possa essere«giudicati colpevoli con o senza il consenso dellaparte»:33 ciò significa che la donna, in base ai semplicirisultati di un esame medico, può essere incriminata moltopiù facilmente rispetto all’uomo. Infatti basta una semplicevisita per dimostrare che una donna ha avuto da poco unrapporto sessuale o non è più vergine, mentre l’innocenzadell’uomo dipende esclusivamente dalla sua parola.

Le Ordinanze Hudood illustrano bene il regime barbaro emedievale di Zia; ma il dittatore fece molto di più chebrutalizzare le leggi del paese: cambiò drasticamenteanche popolazione e società. Nel 1983 Lal Mai, diLiaqatabad, fu la prima donna a essere frustata in pubblicoper adulterio in base alle Ordinanze: secondo i resocontidell’epoca furono ben ottomila gli uomini che andarono a

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vederla ricevere le sue quindici frustate.34 Non è chiaro segli spettatori della punizione di Mai siano stati portati là ecostretti a guardare dalla polizia, come sarebbe accadutoin Afghanistan sotto i talebani, o se vi siano andatispontaneamente per soddisfare la loro morbosa curiosità.Fatto sta che c’erano, e a migliaia.

Le donne di tutte le regioni del Pakistan che scesero inpiazza per chiedere la revoca delle Ordinanze Hudoodfurono crudelmente picchiate e arrestate dalla polizia.35Molte avvocatesse si organizzarono nell’Associazioneavvocatesse pachistane (Pakistan Women LawyersAssociation, PWLA), e nonostante la minaccia di graviritorsioni da parte del governo organizzarono conferenzeche si tennero nel 1982, nel 1983 e nel 1985 perrichiamare l’attenzione sulla brutalità dei nuoviprovvedimenti legislativi. 36 Oltre al PWLA, numerosi altrigruppi di donne tuttora esistenti in Pakistan sono nati dalmovimento di resistenza contro le leggi imposte da Zia.Molti di questi lavorano per la difesa e l’ampliamento deidiritti delle donne, primi fra tutti l’Associazione delle donnepachistane (All Pakistan Women’s Association, APWA) e ilForum d’azione delle donne (Women’s Action Forum,WAF).37

Nei primi anni Ottanta nessun settore della societàpoteva più sentirsi al sicuro dalle interferenze dell’esercito.

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Oltre a insinuarsi sia sul piano politico che su quello legalefin nei più minuscoli cantucci della vita quotidiana, da uncerto punto in poi i militari cominciarono a intromettersianche nella conduzione dell’economia nazionale. Sel’esercito non riusciva a controllare il prezzo di un certobene sul mercato interno, quel bene spariva. Se l’esercitonon poteva prendersi una fetta dei profitti derivanti dalmercato nero, i commercianti di quel settore venivanoarrestati e spesso anche frustati in pubblico.38

Ma la monotona costrizione dei rapporti economici di cuiparla Marx non aveva prodotto una forza lavoroarrendevole, bensì il suo esatto contrario, e le lotteandarono avanti almeno fino al 1985, quando il regimeriuscì a schiacciare il movimento di resistenza.Commercianti e venditori di strada erano politicamenteforti perché erano in tanti, e si impegnarono in unavigorosa resistenza di base. Tradizionalmente questogruppo non aveva mai «sostenuto alcun governo a partequello di Zulfikar Ali Bhutto»,39 e anche per questorappresentava un settore molto energico del movimento diresistenza contro la giunta militare. I problemi di brevetermine connessi alla pura sussistenza non impedivano acommercianti, mercanti e loro dipendenti di risponderecolpo su colpo alle politiche del governo. Zia cercò dischiacciarli attaccandoli nei loro diritti e nelle lorocondizioni lavorative, ma i lavoratori del settore reagironoorganizzando scioperi, boicottaggi, marce e dimostrazionidi strada per tutta la durata della dittatura.40

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I sindacati subirono un attacco durissimo da parte delregime; Zia si occupò personalmente di far calare leadesioni a tutti i movimenti per i diritti dei lavoratori. Nel1981 proibì ogni attività sindacale fra i lavoratori dellePakistan International Airlines: le sedi sindacali della PIAfurono chiuse, e quando cercarono di resistere a taledecisione lavoratori e dirigenti sindacali furono arrestati.41Verso la fine del 1981, quando gli operai della nuovaKarachi Steel Mills scesero in piazza per chiedere miglioricondizioni di lavoro, la polizia li aggredì e il presidentedella loro sezione sindacale fu portato via e imprigionato.42 Una Conferenza nazionale sul lavoro che avrebbedovuto tenersi a Lahore quello stesso anno fu annullata dalgoverno, che ordinò alle forze dell’ordine di fare glistraordinari pur di impedire ai leader sindacali l’ingressonella provincia del Punjab.43

Più i sindacalisti cercavano di contrastare la legislazioneantisindacale di Zia, più duramente venivano puniti. Unleader sindacale fu detenuto sia nella prigione di Camp siain quella di Kot Lakhpat: in entrambe le strutture carcerariefu denudato subito dopo l’arrivo, steso su un tiktiki - unastruttura a forma di A cui si veniva legati per le mani, per ipiedi e per la cintola - e frustato.44 Operai di tutte leregioni del paese furono arrestati, picchiati e torturati dalleautorità carcerarie per essersi opposti ai diktatantisindacali del governo chiedendo pubblicamentemigliori condizioni di lavoro.45

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Anche intellettuali e professionisti delle città giocaronoun ruolo importante nella resistenza contro la leggemarziale. In particolare l’ordine dei medici, di solitoneutrale, si schierò con una decisione senza precedenticontro la giunta. Le Ordinanze Hudood, per esempio,prevedevano che i ladri fossero puniti con l’amputazionedelle mani; e i medici, unica corporazione qualificata perapplicare tale punizione, si rifiutarono sistematicamente difarlo.46 Ghulam Ali, di Okara, rubò un orologio da paretedalla moschea locale e fu condannato all’amputazionedella mano destra; ma in tutto il Pakistan non si trovò unsolo medico disposto ad applicare la sentenza, laddove sisa che in altri paesi in cui i ladri sono puniti con peneanaloghe, per esempio in Afghanistan e in Arabia Saudita,le amputazioni vengono tuttora realizzate con l’aiuto dellacomunità medica. Il tribunale non ebbe alternativa: la penadi Ghulam Ali fu commutata in sei anni di carcere duro.

La primissima ondata di resistenza politica organizzata,però, fu opera unicamente degli attivisti del PPP di Bhutto.Subito dopo l’assassinio di Zulfikar, secondo le stime,circa tremila lavoratori e attivisti iscritti al partito furonoimprigionati per soffocare sul nascere ogni sollevazionepopolare contro la decisione di Zia di mettere a morte ilprimo premier democraticamente eletto del paese. Alcunedi queste persone mi hanno parlato delle misure estremeche venivano messe in atto contro di loro in carcere per

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una mera questione di principio. Spesso i detenuti eranospostati da una cella all’altra nel cuore della notte, oaddirittura da una prigione all’altra, per disorientarlicompletamente; pur essendo prigionieri politici eranocostretti a condividere celle piccolissime con criminaliincalliti (i quali, per fortuna, in genere erano politicamenteliberali e contrari al regime di Zia); il cibo veniva frugato eperquisito davanti a loro prima che potessero mangiarlo. Adue militanti con cui ho parlato furono strappate le unghiesolo perché avevano osato gridare slogan favorevoli aBhutto. Ciononostante, gli attivisti politici e le altre personefedeli a Zulfikar, soprattutto nella provincia del Sind,continuarono a portare in piazza atti di resistenza e di sfidagridando slogan come «Zia hatao», destituire Zia.L’episodio più estremo fu quando i militanti del partitobersagliarono di pietre l’elicottero su cui viaggiava Ziaimpedendogli di atterrare a Dadu, nella parte più internadel Sind.4748

Un altro episodio famoso fu quando la vedova di Zulfikar,Nusrat, venne aggredita mentre assisteva a una partita dicricket nello stadio Gheddafi di Lahore. Nusrat sapevabenissimo che la sua presenza avrebbe eccitato la grandefolla riunita nello stadio; gli attivisti del PPP, inoltre,volevano approfittare della partita per aprire uno striscioneche chiedeva le dimissioni di Zia, e lei si era offerta di farloro da scudo. Ma quando i poliziotti si accorsero cheNusrat Bhutto, nemico pubblico numero uno della dittatura,era fra il pubblico, e che il suo atteggiamento saldo e

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stoico stava creando una tensione palpabile all’internodello stadio, le si avvicinarono e la invitarono adandarsene. «No», rispose Nusrat, «sono venuta per vederela partita.» A questa risposta i poliziotti la colpirono in testacon i manganelli. Nusrat riportò ferite alla fronte e al capoche richiesero punti di sutura, e fu fotografata mentreveniva portata fuori dallo stadio, semi-incosciente, con icapelli arruffati e il viso sporco di sangue.

Bisogna però dire che non tutti i membri del PPP sisacrificarono con altrettanta fermezza nella lotta contro lagiunta militare. L’attuale primo ministro e membro delpartito Yousef Raza Gilani - che fra parentesi somigliamoltissimo a Saddam Hussein - quegli anni non litrascorse in prigione ma a lavorare per il Majlis e shoora, ilConsiglio parlamentare sulla religione del dittatore, gomitoa gomito con il protégé del generale Zia, Nawaz Sharif.Ciononostante, questo suo passato di fiancheggiatoredella giunta militare non gli ha impedito di entrare nel PPPdi Benazir; anzi, gli ha permesso di diventare il numero duedel partito guidato da Zardari.

Come reazione alla politica assolutista di Zia, infine, nel1981 nacque il Movimento per la restaurazione dellademocrazia (Movement for the Restoration of Democracy,MRD), che consisteva in un guazzabuglio di alleanze.Inizialmente capeggiato dal PPP, e alla fine fagocitato daBenazir, il movimento era composto dal Partitodemocratico nazionale, dal Partito democratico del

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Pakistan, dal Jamaat-e-Islami, un gruppo religiosoislamico, dal partito Mazdoor Kisan, radicato nellecampagne, dal Partito dell’alleanza nazionale pashtun e damolte altre organizzazioni.49

Il suo programma, che chiedeva la fine della leggemarziale, la convocazione di libere e giuste elezioni e ilripristino di un governo democratico, ottenne grandesostegno popolare ma al tempo stesso suscitòun’altrettanto grande preoccupazione da parte della giunta.Alla fine però si sarebbe rivelato inefficace: in parte perragioni legate alla sua stessa nascita, in parte per leinterferenze e le infiltrazioni del governo.

Appena nato, l’MRD annunciò di voler organizzare per ilfebbraio del 1981 un momento di protesta in tutto il paese.Non appena uscirono allo scoperto per sostenere questoprimo appello del movimento, quindicimila persone furonoarrestate per violazione del divieto di tenere pubblichemanifestazioni e raduni politici.50 Il regime si attivò persoffocare la nascente presa popolare dell’MRD, e il fattoche proprio il mese seguente un aereo della PIA fossedirottato gliene fornì il pretesto. Le prigioni traboccavano diprigionieri politici. In tutto il mondo le organizzazioni per idiritti umani parlavano di quelle celle disumane esoffocanti. Bisognava fare qualcosa. Grazie aldirottamento, la giunta militare prese due piccioni con unafava: molti dei più noti prigionieri politici del paese furonorilasciati, e l’MRD fu messo a tacere mettendone i leaderpolitici agli arresti domiciliari e i sostenitori in galera. La

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protesta del 1981 era finita prima ancora di cominciare.

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CAPITOLO 10Nei tumultuosi anni che lo costrinsero a restare

all’estero, Murtaza non dimenticò mai i suoi studi. Docentie amministrazione della Christ Church di Oxford eranosolidali con lui, anche perché avevano già formato e istruitoun certo numero di membri della sua famiglia. Quandodecise di trasferirsi da Oxford a Londra per lavorare atempo pieno al Save Bhutto Committee, Murtaza ricevetteuna lettera dal professor Ian Stephens. Dice: «Le scrivoper offrirle solidarietà, e sostegno ove sia necessario.Immagino stia vivendo un periodo davvero orribile».Stephens gli racconta poi che un collega l’aveva visto «allatelevisione mentre cercava di convincere un tipo veramenteassurdo che si sbagliava in ciò che stava amabilmenteaffermando sulle ignobili condizioni di detenzione di suopadre».1

Prosegue Stephens, che ai tempi aveva appenapubblicato un libro sull’Asia del Sud: «Attorno al 1931, aDelhi, suo nonno è stato molto gentile con me […] E nel1973 suo padre, per quanto terribilmente impegnato, feceuna lunga deviazione per soccorrere gentilmente un miocollega bengalese - uno studioso della civiltà di Rodi che,vinta una cattedra a Oxford, era rimasto bloccato nelPakistan Occidentale. In memoria di questi episodi mipiacerebbe, se mai ne avesse bisogno, essere a mia voltagentile con lei».

Era stato molto difficile, per Murtaza, stare lontano dai

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suoi insegnanti e dalle lezioni; ma non per questo avevatrascurato gli studi. Il suo supervisore era Hedley Bull, la cuidisciplina coincideva con la sfera di interessi di Murtaza:Bull infatti era specializzato in relazioni internazionali eaveva pubblicato il suo primo lavoro, The Control of theArms Race, sullo stesso argomento su cui si stavadocumentando Murtaza. Nella sua prima relazione tutoriale,relativa al primo trimestre del 1977, scriveva dello studente- all’epoca ancora residente a Oxford: «Dev’esseresottoposto a un terribile stress, ma a mio giudizio stalavorando in modo soddisfacente».2 E aggiungeva che latesi di Murtaza, una versione estesa e approfondita dellasua dissertazione di Harvard sulla deterrenza nucleare,richiedeva un po’ più di lavoro nell’analisi dei casi di studio.

Nell’autunno del 1978, dopo aver depositato una primabozza della sua tesi, Murtaza, impegnatissimo a viaggiaree a fare pressione per salvare la vita di suo padre, si sentìdire che a Oxford l’avevano persa. Lui non ne aveva fattealtre copie; né, con gli andirivieni e la confusione cheregnavano al Save Bhutto Committee, aveva potutoorganizzare in modo logico schede e appunti. Scrissedunque al suo tutor, il quale a sua volta contattòl’amministratore del college, che diramò un SOS interno:«Credo abbiate tutti sentito parlare della triste storia dellatesi di Mir Bhutto […] Il disguido è una cosa molto seria perlui, in quando, irresponsabilmente, non ha provveduto afarne una copia […] Penso che potremmo alleviare la suaansia se gli dicessimo che stiamo facendo ulteriori

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indagini».3Seguì un’altra lettera, anche questa spedita all’indirizzo

londinese di Murtaza, nella quale gli viene assicurato che«stiamo rivoltando ogni pietra»4 alla ricerca della bozzaperduta. La relazione tutoriale di Bull per l’anno 1978 fanotare seccamente che se la bozza non fossemagicamente riapparsa Murtaza avrebbe dovutoricominciare tutto daccapo. «Non ho più risentito Mr Bhuttodall’inizio del trimestre. Evidentemente i problemi di suopadre sono arrivati a un punto di crisi. Mr Bhutto sta poiattraversando anche una crisi personale in quanto la bozzadella sua tesi di laurea, da me rispeditagli nel mese diluglio, non gli è mai arrivata».5

A Londra, Murtaza cambiò casa almeno tre volte: inparte per ragioni di sicurezza, in parte perché il continuoandirivieni di gente spargeva il panico nel vicinato.Evidentemente anche la tesi, a un certo punto del suoviaggio, era rimasta intrappolata nel caos e nellaconfusione generale e si era persa.

Quando finalmente la famosa bozza fu ritrovata, la vita diMurtaza era ormai andata a gambe all’aria. La relazionetutoriale di Bull per l’anno 1979 registra, nella solita grafiaun po’ scarabocchiata: «Mr Bhutto non si è fatto vederequesto trimestre, ma mi ha telefonato dall’Afghanistan perchiedere più tempo per lavorare alla sua tesi, che nelfrattempo è stata ritrovata».6 Gli furono concessi altri tretrimestri. E il dramma della tesi perduta riprese ad andare

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in scena sul palcoscenico della fumosa città di Kabul.All’inizio del 1980 Bull scriveva una relazione fuori

programma, dattiloscritta in un severo inchiostro nero, perregistrare che a partire dall’invasione sovieticadell’Afghanistan non aveva più avuto notizie del suo allievo.Ormai stava diventando del tutto impossibile, per alunno etutor, lavorare insieme in modo normale, dato che i russiavevano tagliato le linee telefoniche e il servizio postaleafghano era completamente inaffidabile. Ma nell’estate del1980, chissà come, nonostante il gran vortice di attività e ditraslochi, per non parlare del movimento di liberazionenazionale che stava organizzando, Murtaza rimandò al suotutor una bozza completa della sua tesi riveduta e corretta.Bull l’accolse molto bene: «È evidente che, nonostante ledistrazioni e gli impegni politici, Mr Bhutto sta ancoralavorando seriamente al suo tema».7

Purtroppo però non bastava. Alla tesi, per quantocompleta, mancavano ancora le rifiniture. Bull dichiaravache, «pur avendo lavorato bene in condizioni moltodifficili», se Mr Bhutto voleva che la sua tesi avessesuccesso doveva assolutamente «tornare qui peroccuparsene a tempo pieno». 8 Cosa che non sarebbe piùaccaduta. A quest’ultima lettera Murtaza non rispose mai: ilcaso della tesi di Oxford era definitivamente chiuso.

All’inizio del 1981 Della, rimasta ad Atene, sperava chetempi migliori stessero finalmente per arrivare. Lei e

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Murtaza avevano attraversato insieme molte burrasche - lacampagna per i loro cari imprigionati, l’esecuzione diZulfikar, il trasferimento di Mir a Kabul. Così aprì il suodiario Asprey viola e, in una pagina nuova, annotò alcuniproponimenti per i tempi a venire: «Non dare informazionia nessuno. Migliorare la situazione economica. Procurarsiuna casa propria entro la fine dell’anno. Imparare l’urdu e lospagnolo».9 Aveva deciso di lasciare il marito, il generaleRoufogalis, che ormai languiva in prigione da otto anni.L’avevano arrestato solo tre mesi dopo il loro matrimonio,e a quel punto Della aveva aspettato abbastanza dasapere che non valeva la pena di restare aggrappata aquella possibilità. E poi era innamorata di Murtaza.

Lui le aveva chiesto più volte di sposarlo, ma lei non sela sentiva di lasciare Roufogalis mentre era ancora incarcere. Murtaza allora insisteva, e le parlava dellemontagne del Pakistan che Alessandro Magno avevavarcato con le sue truppe, dei leopardi delle nevi chevivono sull’Himalaya, del suo Sind nativo, e semprepromettendole che insieme avrebbero potuto costruirsi unanuova vita. Le diceva che avrebbero avuto dei figli, che lorodue avrebbero generato degli angeli. «Sistemare e ripulirele tube», aggiungeva Della in fondo alla lista delle cose dafare. E concludeva con: «Amare sempre Mir».

Il 26 gennaio Della ricevette una lettera di Murtaza el’aprì con grande eccitazione. Era stata scritta dodici giorniprima.

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Da quando mi sono trasferito qui ci siamovisti sempre meno. E ovviamente abbiamoviaggiato insieme sempre meno. Mi sentomale quando penso a tutte le promesse cheti ho fatto: ma ce n’è almeno una che vogliomantenere a ogni costo, ed è quella dimostrarti il Sind e i leopardi delle nevi.

Della probabilmente lesse queste frasi con grande gioiaperché i leopardi delle nevi le parlavano del loro futuroinsieme, erano come un piccolo codice segreto condiviso.

Il mio compito si è rivelato infinitamente piùdifficile di quanto pensassi. Le cose sonomolto più complicate di quanto un outsiderpossa immaginare. Questa battaglia miimpegna più di quanto io lo sia mai stato intutta la mia vita, ma del successo sonosicuro. Perché il popolo è con noi; perchéanche la dinamica della storia è con noi. Manonostante tutto ciò ti penso sempre, e nonsmetterò mai di pensarti.

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Se a questo punto Della non aveva ancora colto il tonogenerale della lettera, nel capoverso seguente esso deveaverla colpita come uno schiaffo in faccia.

Tu però, giovane e bella come sei, devicominciare a pensare seriamente al tuofuturo. Non preoccuparti per me: il miodestino si deciderà attraverso la canna di unfucile […] Ormai sono coinvolto in un lavoro ein uno stile di vita che non sono stato io acreare. Tu non devi distruggere la tua vita peramor mio.

Poi Murtaza l’assicura che in ogni momento, fino algiorno della sua morte, dirà e ripeterà sempre che lei èstata l’unico vero amore della sua vita. «Pensa a te, al tuofuturo. Io sarò perso nel mio lavoro per i prossimi due o treanni.» Se le chiede un sacrificio così grande è solo per ilsuo bene. Vorrebbe scriverle ancora tante cose, ma nonpuò.

Questa è l’ultima cosa che le scrisse prima di metterefine alla loro relazione.

«A quell’epoca eravamo l’unica organizzazione senzaingresso libero», racconta Suhail a proposito di Al Zulfikar,

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il movimento fondato dai fratelli Bhutto giocando sul nomedel loro padre e della famosa spada dell’imam Ali.«Eravamo noi a contattare le persone: non accettavamomai quelle che si avvicinavano spontaneamente per timoredi infiltrazioni. » Poi scrolla la testa e abbassa lo sguardo.«Ma accadde lo stesso, anche se eravamo stati attenti.»10

All’inizio del 1981 l’organizzazione cominciavafinalmente a prendere forma. Gli attivisti che si erano datida fare tra il 1977 e il 1979, durante il processo el’imprigionamento di Zulfikar, erano i candidati ideali perunirsi al movimento di liberazione nazionale, e accorsero aKabul da tutte e quattro le province del Pakistan. «A causadelle persecuzioni di cui erano oggetto in patria», mispiega Suhail, «molti attivisti e dirigenti fedeli al partitofurono costretti a emigrare. Era troppo pericoloso, per loro,restare in Pakistan, dove rischiavano continuamente diessere arrestati, picchiati e torturati. Il paese viveva sottouna dittatura spietata. Ma gli attivisti del PPP, soprattuttoquelli dal curriculum più sincero, erano quasi tutti poveri enon avevano i mezzi per emigrare in Europa o comunquein Occidente. Anche per questo venivano da noi. La nostrabase di Kabul era un rifugio in cui potevano stare al sicuroe portare avanti la lotta contro la giunta militare.»11

Suhail è un uomo lindo e curato, piuttosto alto. Col tempoi capelli gli si sono diradati in cima alla testa e sonodiventati grigi, come anche i peli dei baffi, di un bianconuvola. Fuma le sue sigarette, come faceva mio padre,lentamente, come se quell’attività richiedesse una certa

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concentrazione. Quando parliamo dei vecchi tempi, deigiorni di Kabul, oscilla fra la voglia di ridere e scherzare suquei tre ragazzi - tutti di famiglie abbienti - che se nestavano in Afghanistan a complottare per rovesciare ladittatura e l’assoluta serietà dei compiti attuali, per cuiquegli stessi ragazzi hanno dato la vita.

«Anche alcune donne vennero dal Punjab in Afghanistanper unirsi a noi», mi dice, ricordando ogni dettaglio comese fosse accaduto ieri. «Noi eravamo aperti, non volevamochiudere la porta in faccia a nessuno che condividesse lanostra causa con fede sincera; ma se pensi al terreno sucui dovevamo muoverci - bisognava attraversare tutta lafascia tribale del Pakistan per raggiungere l’Afghanistan, -capirai anche tu che non poteva funzionare. » Eppure ciprovarono lo stesso. Mi riempie di felicità questo piccolopensiero: mio padre era così progressista da ammettereche gli uomini, da soli, non possono fare la rivoluzione. Ealla giovane età di ventisette anni! Mentre indugio suquesta riflessione Suhail riprende a descrivere la vitaquotidiana che facevano a Kabul - un periodo cui l’hosentito spesso riferirsi come ai «bei tempi».

«Alla fine eravamo un centinaio di persone. C’era unquartier generale separato in cui lavoravamo e ospitavamola gente, e il movimento era suddiviso in tre settori - l’alapolitica, quella militare e quella che si occupava dellasicurezza. Mir era il segretario generale di Al Zulfikar,mentre Shah, all’inizio, dirigeva l’ala addetta alla sicurezzae poi quella militare.»

Per me Al Zulfikar, altrimenti detto AZO, dove la O sta

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per organizzazione, non è mai stato un’entità del tutto reale.Ero ancora piccolo quando fu sciolto. Ne sentivo parlaresolo di sfuggita, oppure ne intravedevo il logo su fogli dicarta da lettere dimenticati in un vecchio cassettopolveroso che nessuno apriva mai. I suoi aderenti, peresempio Suhail, per me erano semplicemente degli amicidi famiglia, sorta di zii acquisiti che a volte ci portavano amangiare il gelato e con i cui figli giocavamo. L’idea cheAZO sia esistito anche in un contesto completamentediverso mi risulta bizzarra, come quando si vede un filmstraniero senza i sottotitoli. Oggi però, finalmente, possocapire il senso di pericolo che, durante la mia infanzia,aleggiava sempre attorno a mio padre e allo zio Shah;all’improvviso tutto sembra acquistare un senso, e anchese oggi non rifarei le loro scelte sono segretamenteorgogliosa che mio padre abbia saputo rinunciare a unoscialbo ma comodo esilio londinese per combattere controquello che riteneva un sistema sociale ingiusto.

«La nostra routine quotidiana cominciava al mattinopresto, con la ginnastica sotto la guida di Shah», cominciaSuhail, giocherellando con il pacchetto di sigarettenazionali. «Poi c’era la conferenza - qualcuno della sezionepolitica veniva da noi e si parlava di un certo numero diargomenti, senza preclusioni: la storia del settore militaredel Pakistan, la crescita del Partito del popolo, la storiadelle lotte democratiche in altri paesi - erano temi moltodiversi fra loro.

«Prima di pranzo c’era ancora l’addestramento fisico. Almomento di mettersi a tavola Shah andava a mangiare con

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questo o con quell’altro: aveva moltissimi amici fra le nuovereclute, e nel tempo libero era sempre molto allegro egioviale con gli uomini. Nel pomeriggio ci si divideva ingruppi di approfondimento e si discuteva sui vari obiettividel movimento, su ciò per cui ci stavamo battendo e sutemi generali. Shah era molto popolare fra le persone chesi univano a noi: era giovane e divertente, e in più aveva unsenso molto preciso delle dinamiche fisiche legate alcombattere una lotta armata. Murtaza veniva al quartiergenerale almeno una volta al giorno, ma si occupavasoprattutto degli aspetti politici e diplomatici. Ricevevaesponenti o delegazioni inviatigli da altri gruppi politicipachistani e dedicava ore a raccogliere informazioni sullasituazione interna del paese, a setacciare la stampa, aparlare con i giornalisti, a preparare dichiarazioni politichee così via - erano i suoi compiti, lui era il segretariogenerale.» Col passare del tempo questi ruoli separati edistinti - Shah il comandante militare dell’organizzazione,Murtaza il suo leader politico - si sarebbero cristallizzatisempre più, segnando la vita dei due fratelli in mododiverso.

Nel frattempo, ad Atene, Della era fuori di sé dallarabbia. Lei non aveva chiesto di poter fare una vita facilequando aveva cominciato a vedersi con Murtaza, e ora nongli avrebbe permesso di dileguarsi nella rarefattaatmosfera della sua vita politica.

Gli scrisse a Kabul una lettera piena di collera, conl’inchiostro blu tutto sbaffato dalle lacrime. «Tu, maledettopazzo», comincia, «chi ti ha chiesto di dire la tua sul mio

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futuro? Il mio futuro appartiene solo a me, e intendo farneciò che mi pare […] Anch’io ho un mio destino, un dovereche sto cercando di assolvere e un grande, profondoamore per te. Leggendo la tua lettera ho sentito come se icieli si fossero spalancati e tutta la neve delle montagneafghane mi fosse caduta in testa».12 Di questa lettera feceanche una copia, quella che consegna a me ventisette annidopo. A quel tempo spedì l’originale, tirò una riga su«amare sempre Mir» nel suo diario Asprey viola ecominciò ad aspettare.

Una settimana dopo arrivò una cartolina di Murtaza dallaLibia, con il timbro postale del 29 gennaio. Della la portòall’ambasciata libica ad Atene e la mostrò all’uomo sedutodietro il bancone, pretendendo da lui delle risposte. Disseche doveva assolutamente rintracciare la persona cheaveva spedito quella cartolina. Il funzionariodell’ambasciata la guardò attentamente, domandandosi ache gioco stesse giocando, poi le disse di rifarsi vivaqualche giorno dopo. Quando tornò, Della si sentì dire chein Libia non viveva nessuno con quel nome e che si illudevase pensava che l’ambasciata potesse aiutarla in quellaspecie di caccia all’uomo. Della scappò via come unafuria, ma non senza afferrare una manciata di opuscolituristici su Tripoli. Tornata a casa, cominciò subito atelefonare a tutti gli alberghi della capitale libica chiedendodi Mir. Non lo trovò. Se n’era già andato.

Non per questo si lasciò abbattere. A un certo puntoriuscì a raggiungere telefonicamente Shah, che ne fu molto

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sorpreso; se Della era riuscita a trovarlo chiamando allacieca un certo numero di alberghi in alcuni paesi a caso,allora il loro stile di vita basato sulla segretezza non erasegreto affatto. No, Murtaza non era con lui, ma gli avrebberiferito il messaggio. Qualche giorno dopo Shah larichiamò per dire che suo fratello aveva telefonato da AbuDhabi e lo aveva incaricato di parlare con lei perrassicurarla che stava bene, chiederle di essere paziente eprometterle che presto le avrebbe scritto per spiegarleogni cosa.

Il 24 febbraio in Grecia ci fu un forte terremoto. I dannierano ingenti, e tutti i greci erano incollati alla televisioneper seguire le notizie del disastro. Anche Della la stavaguardando quando un’altra notizia attirò la sua attenzione.Un aereo della PIA era stato dirottato. I dirottatori avevanodichiarato di far parte di un movimento militare con base inAfghanistan, dove l’aereo era stato fatto atterrare. Dellaascoltò attentamente, sforzandosi di capire bene cosal’annunciatore stesse dicendo. Non può essere, pensò.Non può essere. Sono stati Murtaza e Shahnawaz Bhutto,diceva intanto l’annunciatore, a ordinare il dirottamento, e iterroristi hanno dichiarato di agire per conto di Al Zulfikar.

Al Palace Number 2 il telefono squillò attorno alle cinquee mezzo del pomeriggio. Murtaza sollevò il ricevitore e lapersona all’altro capo della linea chiese di poter parlarecon Mir Murtaza Bhutto. Era piuttosto strano che qualcunotelefonasse in quanto quel numero non era pubblico - noncompariva sull’elenco telefonico, e la maggior parte deifunzionari governativi che lo utilizzavano erano suoi amici al

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punto che chiamava per nome le loro segretarie. A ognimodo, Murtaza diede per scontato che la chiamata venisseda un ufficio del governo. «Salamullah Tipu vuole parlarecon lei», disse la voce al telefono. Il nome gli suonavafamiliare, ma non molto. «E chi sarebbe, SalamullahTipu?» domandò Murtaza, un po’ irritato, con il massimo digentilezza cui poté fare appello. «Uno che ha appenadirottato un aereo. Chiamo dalla torre di controllodell’aeroporto di Kabul. In questo momento la persona dicui stiamo parlando, si trova a bordo dell’aereo e hachiesto di essere messa in contatto con lei.»

Così Murtaza venne a sapere che un aeroplano era statodirottato in suo nome. Ma non era la prima volta chesentiva parlare di questo Tipu.

Nessuna delle interviste che ho fatto sull’episodio deldirottamento è stata particolarmente facile. Suhail e iocominciamo a parlarne al 70 di Clifton Road, ma in quellacasa, probabilmente, i lampadari hanno ancora leorecchie. Così usciamo in giardino, ci sediamo sotto unalbero di champa e riprendiamo a parlare sussurrando,chini l’uno verso l’altro, sotto lo sguardo attento dei vicini: laresidenza del console russo e il consolato iraniano. Lì cisentiamo abbastanza al sicuro, nonostante la compagnianon sia delle più amichevoli. Quel dirottamento è stato unaspada di Damocle appesa sopra la testa di mio padre,pronta a cadere in qualunque momento. Per me, ora, èdella massima importanza ottenere tutte le informazionipossibili. Il processo ufficiale intentato contro mio padre emio zio, che alla fine li ha visti assolvere da ogni

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imputazione, nel 2003 si è chiuso senza clamori malasciandosi dietro, almeno per me, un buco nero didomande senza risposta. Chi c’era dietro queldirottamento? Chi fu a tirare giù quell’aereo dal cielo?Troppo facile dichiarare il caso chiuso dopo che qualcunosi fu occupato dei fratelli Bhutto rimuovendoli dal quadro. Aun certo punto porto Suhail in una caffetteria alla moda diun’affollata via commerciale di Karachi, dove perl’ennesima volta adottiamo la nostra posizione china inavanti per riprendere a bisbigliare su due caffè macchiaticostosi come un occhio della testa. Sembra assurdostarsene lì - tra frotte di adolescenti intenti a confrontarepregi e difetti dei rispettivi cellulari e gruppetti di desi,yuppie, persi in pettegolezzi aziendali - ad analizzare idettagli di un dirottamento dietro al quale si intravede lalonga manus di una giunta militare. Suhail si dimostramolto comprensivo con me e con la mia paranoia dicambiare continuamente posto: è sempre stato come unsecondo padre per me. Era presente alla mia nascita e aquella di mio fratello Zulfi, e c’era quando i miei adottaronoMir Ali, un neonato di un mese proveniente dall’orfanotrofiodi Karachi. Suhail viene tuttora a trovarci per tutti i nostricompleanni, anche per il mio, anche se ormai ho quasitrent’anni.

Tre mesi prima un gruppo di uomini era arrivato a Kabulproveniente da Karachi. Fra loro c’era anche SalamullahTipu, che in Pakistan si era fatto conoscere per gli attiviolenti con cui condiva la sua partecipazione allemanifestazioni studentesche. Aveva già combattuto con

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manifestazioni studentesche. Aveva già combattuto conl’ala studentesca del partito religioso Jamaat-e-Islami, edera stato coinvolto in una sparatoria all’università diKarachi nata da uno scontro di potere interno al partitostesso.

Era un bell’uomo, ricorda Suhail. Qualche tempo primaera stato nell’esercito, ma non per molto. Aveva sognato diarruolarsi fin da quando era bambino, ed era stato presonelle forze armate non appena ne aveva avuto l’età legale.Poi però ne era uscito dicendo che durante il periododell’addestramento qualcuno lo aveva tagliato fuori dachissà cosa per ragioni prettamente personali chepreferiva non specificare. «Era una storia poco chiara, daicontorni vaghi, come anche le ragioni per cui aveva chiestodi unirsi a noi - un quadro che, nell’insieme, per noi lometteva definitivamente fuori questione», racconta Suhail,sforzandosi di rimettere insieme i frammenti dei primiincontri.13

«Non faceva parte della nostra organizzazione, non eraun quadro del PPP; era arrivato a Kabul tramite contattinormali. Al quartier generale si presentavano sempre moltiattivisti, leader tribali, nazionalisti, persone di sinistra - il piùdelle volte per discutere con Murtaza la situazione politicain Pakistan o per portarci notizie da casa.» Questo Tipusembrava uno sveglio, consapevole dei problemi che ilpopolo doveva affrontare sotto il regime di Zia; ma in luic’era qualcosa che non quadrava. Un che di spigoloso, diruvido. Sembrava avesse alle spalle un backgroundviolento, a livello sia familiare sia di comunità. «Era venuto

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a cercare proprio noi», insiste Suhail. «Fu questo arenderci sospettosi.»

Il gruppo di Tipu era composto da altri due uomini, oltre alui: un suo cugino e un amico. Era l’epoca d’oro deidirottamenti - resi famosi dai palestinesi che, in questomodo, cercavano disperatamente di attirare l’attenzionedel mondo sulla loro drammatica situazione. Leila Khalid,dopo aver orgogliosamente dichiarato che il dirottamentodi aerei era il suo mestiere, dalla sera alla mattina eradiventata il simbolo guerrigliero della frustrazione di quelpopolo. I dirottamenti, allora considerati particolarmentetelegenici, servivano dunque a catturare l’attenzione delmondo.

Proprio per questo Tipu suggerì a Murtaza che il neonatomovimento Al Zulfikar, seguendo l’esempio di altrimovimenti di liberazione nazionale, dirottasse un mezzodelle linee aeree pachistane. Suhail ricorda ancora la suatirata: «“Come anche voi sapete, in Pakistan c’è ladittatura. Nessuno strumento legale può far fronte aglieccessi commessi dalla giunta militare.” Tipu questol’aveva capito, e raccontava di come la gente, in Pakistan,vivesse nella paura. Parlava dei tanti attivisti politici chemarcivano in prigione senza poter ricorrere a un tribunale.Aveva perfettamente ragione; gli avvocati erano divisi fraquelli che appoggiavano e aiutavano il regime e quelli concui il regime stesso usava il pugno di ferro perché gli siopponevano apertamente. Tipu disse che il dirottamento ciavrebbe dato la possibilità di negoziare il rilascio di alcuniprigionieri politici».

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Ma Murtaza respinse l’idea. Non era la prima volta chequalcuno gli suggeriva di tentare un dirottamento, nellaconvinzione che in questo modo si potesse assestare unduro colpo al regime militare. Un mese prima che Tipu e isuoi arrivassero a Kabul, un altro gruppo di giovaniprovenienti da Rawalpindi si era presentato al quartiergenerale per dire sostanzialmente la stessa cosa. Murtazaaveva respinto anche loro.

Mir rifiutò di collaborare con Tipu, ricorda Suhail,argomentando: «Noi stavamo lottando contro una criccamilitare che aveva usurpato il potere del popolo. La nostralotta non prendeva di mira istituzioni nazionali come la PIAné altri obiettivi civili». Tipu rimase molto deluso nel vedereche le sue appassionate perorazioni venivano respinte.Dopo il primo incontro prese di nuovo contatto con ilmovimento per perorare una seconda volta la sua idea. Furespinto ancora, e stavolta con maggior durezza. «Perquesto la notte in cui ricevette quella telefonata Mir fu coltodi sorpresa», ricorda Suhail, scrollando la testa egiocherellando con una sigaretta mai accesa.

L’aereo della PIA avrebbe dovuto volare da Karachi aPeshawar, e i tre dirottatori se ne impadronirono quandoera a metà strada. Tipu, che comandava il gruppo, ordinòal pilota di fare rotta sul Medio Oriente, senza tenere inconto che l’apparecchio era stato preparato per un volomolto più breve, e che quindi il combustibile non glisarebbe bastato per andare tanto lontano. Allora idirottatori ordinarono un nuovo cambio di rotta, stavolta suKabul; era il punto d’atterraggio più vicino - solo una breve

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tratta oltre il confine. Nel dirottamento le autorità afghanevidero una preziosa occasione per migliorare i rapporti conil Pakistan e, stranamente, anche con i fratelli Bhutto. Nonappena l’aereo toccò terra, infatti, esse chiamarono ilPalace Number 2 e chiesero a Murtaza di fare daintermediario.

«I nostri rapporti con gli afghani stavano attraversandoun momento piuttosto difficile», ricorda Suhail. «Le autoritàcercavano di interferire con il modo in cui Murtaza dirigeval’organizzazione, e premevano sugli espatriati pachistaniper ottenere qualche informazione su ciò che stavamotramando. Murtaza ne era seccatissimo; stava addiritturapensando di andar via da Kabul, non voleva esserecompromesso. Ed ecco che gli capita fra capo e colloquesto dirottamento.» La telefonata fu fatta da Najibullah, ilfamigerato capo dei servizi segreti, il quale disse a Suhailche sarebbe andato subito da loro per discutere lasituazione. Anche il dirigente di scalo della PIA chiamòMurtaza: «Ci conosceva, così telefonò e disse: “Ehi, gente,dovreste proprio dare una mano a risolvere questopasticcio - ci sono anche donne e bambini suquell’aereo”».

Najibullah andò quindi da Murtaza, più che consapevoledelle tensioni esistenti fra il suo governo e gli ospitistranieri. «Parlava perfettamente sia inglese sia urdu»,racconta Suhail ridendo, «ma quella notte volle a tutti i costiparlare pashtun e mi chiese di fargli da interprete con Mir, ilcui primo impulso, naturalmente, fu di fare ciò che era insuo potere per mettere fine alla crisi degli ostaggi; è per

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questo che Mir mise da parte le frizioni esistenti fra noi e ilgoverno e si dichiarò subito pronto a fare il possibile perrisolvere pacificamente le cose.»

Murtaza e Suhail andarono all’aeroporto di Kabul conun’auto guidata dal capitano Baba, che nonostante lostrano nome era il direttore delle linee aeree afghane, leAriana Airlines. Arrivati sul posto, le autorità feceroindossare loro delle giacche blu uguali a quelle degliingegneri aeroportuali e li accompagnarono sulla pistadove stazionava il velivolo. «Bene, adesso parlate conloro», disse il capitano Baba. «Ditegli che è ora dismetterla, a voi daranno ascolto.»

«Era notte fonda quando arrivammo sulla pista»,racconta Suhail, «almeno le due o le tre del mattino.» Finoa quel momento nessuno dei passeggeri si era fatto male,e tutti volevano solo che la crisi si risolvesse in fretta epacificamente. Il capitano Baba fece scendere Mir e Suhailproprio davanti all’aereo, poi mandò un messaggio al capodei dirottatori chiedendogli di scendere.

L’incontro fra i tre fu molto breve, non più di unaquindicina di minuti. Murtaza disse a Tipu di rilasciaresubito donne e bambini, e gli ordinò di non fare alcun maleai passeggeri. «Era arrabbiato», ricorda Suhail, «mamantenne la calma, consapevole dei pericoli checorrevamo tutti - noi pachistani per la difficile situazione incui quell’azione ci metteva, i passeggeri, ovviamente, maanche le persone che avrebbero pagato per tutto ciò inquanto si trovavano nelle mani dei criminali di Zia. Disse aTipu che bisognava concludere al più presto. Ma Tipu gli

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disse di no.» I dirottatori infatti avevano già reso pubblicoun elenco di cinquantacinque prigionieri politici detenutinelle carceri di Zia che avrebbero dovuto essere liberati incambio della vita dei passeggeri. «No, non possiamofermarci adesso», disse Tipu. «O il governo massacrerà iprigionieri che noi stessi avremo aiutato a identificare. » Icinquantacinque detenuti erano principalmente militanti delPPP, ma anche noti attivisti e lavoratori di sinistra arrestatiun po’ in tutto il paese, soprattutto nel Punjab. Puraccogliendo la richiesta di Murtaza di lasciare andaredonne e bambini, Tipu disse che senza qualcheconcessione da parte del governo sarebbe stato un verosuicidio, per loro, mettere fine al dirottamento.

Il colloquio era terminato. Murtaza aveva chiesto la finedello stallo e il rilascio degli ostaggi. Non c’era spazio peraltre discussioni, né tempo da perdere. Quindici minutidopo il loro arrivo, Murtaza e Suhail lasciavano l’aeroportodi Kabul e Salamullah Tipu tornava sull’aeroplano. Qualcheora dopo, di primo mattino, donne e bambini furono liberatie ricoverati presso il Kabul Intercontinental Hotel.

«Non appena lasciammo l’aeroporto, il governo delPakistan mandò a Kabul una squadra di negoziatori con ilcompito di trattare con Tipu e i suoi e di stroncare la lororesistenza», racconta Suhail. Sembra farlo ancoraarrabbiare il ricordo degli eventi che, ventisette anni dopo,ci hanno portato in questo caffè rumoroso e pieno di fumoa parlare di un dirottamento. «Osservando i negoziati,chiunque si sarebbe reso conto che alla giunta nondispiaceva affatto trascinare la commedia del dirottamento

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il più a lungo possibile. I negoziatori non sembravanoseriamente intenzionati a trovare una soluzione, sembravacercassero solo di guadagnare tempo, di irritare idirottatori fino a spingerli a una reazione tale da giustificarel’uso della forza da parte della giunta militare.»

E mentre i negoziatori mandati dalla giunta trattavanocon i dirottatori, uno dei passeggeri fu ucciso. Il maggioreTariq Rahim, e a sparargli fu uno dei dirottatori. Un tempocollaboratore di Zulfikar, dopo la sua morte era statodiplomatico in Iran. Più il tempo passava, e la crisi non sirisolveva, più l’affermazione del governo militare secondocui dietro l’operazione c’erano i fratelli Bhutto e il PPPdiventava inverosimile: perché mai i fratelli Bhuttoavrebbero dovuto uccidere un ex collaboratore del propriopadre?

Le prigioni di Zia scoppiavano di prigionieri politici, eanche i suoi alleati internazionali più ciecamente fedelicominciavano a essere in difficoltà di fronte all’evidenza ditante violazioni dei diritti umani. Bisognava che qualcosacambiasse, doveva esserci un segnale di rotturanell’impenitente uso della violenza da parte del dittatore - leprigioni dovevano essere svuotate di tutti gli attivistidemocratici. Ma per Zia rilasciare dei detenuti cheavevano sfidato apertamente il suo potere equivalevasenz’altro a un’intollerabile perdita di credibilità, a un segnodi debolezza in un paese in cui la debolezza non ha maigiustificazioni, e men che meno da parte delle forzearmate.

Il dirottamento dunque poteva rivelarsi molto utile per la

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giunta - che poteva appropriarsene per liberare un po’ diprigionieri politici offrendoli all’opinione pubblica comedimostrazione della ragionevolezza e della clemenza delregime. E al tempo stesso l’azione e le sue conseguenzepotevano ritorcersi contro la resistenza popolare, fornendoalla giunta una scusa credibile per dare un giro di viteall’opposizione e in primo luogo all’MRD. I fratelli Bhuttosarebbero stati marchiati come terroristi; quel loro continuoviaggiare da un paese all’altro sarebbe finito e la giuntaavrebbe potuto scagliare contro di loro numerose accusedi tradimento - con tanto di sentenza capitale annessa.Quell’episodio si sarebbe trasformato, come detto, in unaspada di Damocle destinata a pendere sul loro capo permolto, molto tempo.

Lo stallo in cui si era arenato il dirottamento di Kabuldurò sette giorni, finché anche il governo afghano non capìche il regime di Zia non aveva alcuna seria intenzione dinegoziarne la fine. A questo punto, per paura che ipachistani stessero semplicemente prolungando il bracciodi ferro nell’attesa che una tragedia li costringesse a unatto di forza, le autorità afghane dissero che l’aereodirottato doveva andarsene da qualche altra parte. Idirottatori scelsero la Siria, un altro paese che sapevanoavere buoni rapporti con i fratelli Bhutto, certi di trovarvi unamichevole punto d’atterraggio. Il presidente Hafez alAssad invece negò al velivolo il permesso di atterrare, etenne duro finché il governo pachistano non chieseufficialmente a quello siriano di permettere l’atterraggio edi garantire alle persone a bordo di poter transitare sane e

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salve dal suo paese.Una volta in Siria, l’aereo dirottato rimase fermo sulla

pista dell’aeroporto di Damasco ancora per qualchegiorno. In tutto la crisi durò circa dodici giorni. «Credoproprio sia stato uno dei dirottamenti più lunghi dellastoria», commenta Suhail, cauto. Alla fine, cinquantaquattrodei cinquantacinque prigionieri politici richiesti daidirottatori furono rilasciati e presero un aereo per la Siria;tutti i passeggeri furono liberati, e così l’aereo della PIA. Iprigionieri politici e i tre dirottatori furono alloggiati alDamascus Airport Hotel e poterono fare richiesta di asilopolitico sotto l’egida delle Nazioni Unite. Ghulam Hussainera fra i prigionieri politici rilasciati: già segretario generaledel PPP, si era rifiutato di lasciare il partito per entrare nelgabinetto di Zia. Per questa sua sfida gli avevano accollatopiù di dodici omicidi e l’avevano gettato in prigione. OggiHussain è un uomo anziano - somiglia un po’ a BabboNatale, con la barba bianca accuratamente pareggiata e ibianchi capelli luminosi -, nonché un prolifico poeta e unvalido scrittore.

«I dirottatori non erano del PPP», precisa quando lointervisto nella sua casa di Islamabad. «La cosa era statapilotata fin dall’inizio dal generale Zia. Era lui a volere checi fosse una gran conflagrazione sotto gli occhi di tutto ilmondo, pensava di poter distruggere così i fratelli Bhutto».

Hussain ama la buona compagnia, ride forte e parla conuna cadenza melodiosa. Porta delle lenti sottili incorniciated’oro e scarpe ortopediche. Ha una voce forte e profonda,spesso interrotta da risatine acute quando richiama alla

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mente qualche dettaglio del passato. È anche un oratoreappassionato: l’ho ascoltato io stessa ai comizi politici eho visto come la folla lo ascoltava in silenzio, pendendodalle sue labbra. Si rivolge a me chiamandomi sahiba,signora; ma mio padre e mio zio, per lui, sono sempre esoltanto «i ragazzi».

Parlandogli oggi, sentendolo risponderefantasiosamente a una domanda con indovinelli e poesie erisate, mi chiedo come abbia potuto sopravvivere alcarcere di Zia; e pensare che a quei tempi ha dovutoconoscere ben otto prigioni, sempre spostato dall’unaall’altra e sempre sotto la minaccia della tortura. «Ognivolta che mi spostavano», ricorda con orgoglio, «io gridavoforte jiye Bhutto!, lunga vita a Bhutto!» In prigione gli eraproibito ricevere libri e giornali, ma poteva tenere con ségli strumenti medici e la carta per scrivere. Si era creatouna sua routine: ogni volta che lo trasferivano in un nuovopenitenziario ricominciava a coltivare un minuscologiardino nel fazzoletto di fango davanti alla sua cella. Avevaanche imparato a cucinare, «molto bene, a dire il vero», eteneva due diari che mandava ai figli nella speranza chepotessero sostituire la presenza paterna a casa, dovesentivano molto la sua mancanza.

«In fondo anche il cervello è un organo, no?» mi dice intono scherzoso. «Bisogna usarlo, o lo si perde!»

Hussain impiegò il tempo in cui rimase bloccato alDamascus Airport Hotel, quasi un anno, a scrivere poesie,un’abitudine che aveva preso quando stava in prigione. «Ilregime pensava di sfruttare il dirottamento, che è pur

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sempre un atto di violenza, per controbilanciare la violenzaestrema che Zia e i suoi avevano commesso controZulfikar Ali Bhutto. Ma sfortunatamente per lui negli stessigiorni il presidente Carter dovette affrontare un’altra crisidegli ostaggi, quella di Teheran; e così il tentativo di Ziapassò in secondo piano.» Alla fine Hussain ottenne asilopolitico in Svezia.

Imperterrita, la giunta militare continuò a temporeggiarecercando in tutti i modi di affibbiare la responsabilità deldirottamento a Murtaza e Shahnawaz. Inoltre Benazir,eccitata alla prospettiva di un buon colpo messo a segnocontro la giunta, commise l’errore di fare alcune telefonatepiene di giubilo. «Ce l’abbiamo fatta!» si vantò con amichee colleghe di lavoro. «Finalmente li abbiamo in pugno!»Immediatamente la polizia fece irruzione in casa suaarrestando lei e Nusrat con l’accusa di essere le mandantidel dirottamento. In realtà era da parecchio tempo cheBenazir non parlava con i suoi fratelli, e non aveva idea delpericolo che correvano. Quelle telefonate compromisero leie Nusrat, ma soprattutto segnarono il destino dei suoifratelli. «Il rapporto del giudice competente sul dirottamentoaereo conclude che fu un’azione individuale», scriveBenazir in un appunto non datato di uno dei suoi polverosiquadernoni. «Il regime parlò di “dirottamento del PPP”prima ancora che i dirottatori ne avessero rivelato iparticolari» - 2 o 3 marzo 1981. «[…] Votato un PCO[Provisional Constitutional Order, decreto costituzionaleprovvisorio] secondo il quale nessuno di noi potrà piùricorrere agli organi della giustizia costituzionale nemmeno

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per le più evidenti montature giudiziarie. Zia ammette che ilPCO è stato approvato per “eliminare” i responsabili deldirottamento.» Benazir dimostra un’impressionanteconoscenza della legge quando valuta il pericolo cui lei e lasua famiglia sono state esposte per colpa delle suevanagloriose esternazioni: «La BBC diffonde la notizia chebegum sahiba e io saremo incriminate per il dirottamento.E ciò prima ancora che contro di noi sia stata formulataun’accusa formale e prima che le agenzie rilevanti ciabbiano interrogate per controllare se dalle indagini risultiuna prima facie di reato oppure no». Alla fine né lei né suamadre furono incriminate, solo i suoi fratelli.

«Cosa?» strilla uno degli amici di mia zia quando toccoil tema delle sue esternazioni durante il dirottamento. «No,no, no. Benazir era contrarissima agli atti di terrorismo dicui si macchiarono i suoi fratelli», insiste questo amico,che mi chiede più volte di non citare il suo nome.Stringendo i denti, ricordo a questa persona che ancheMurtaza e Shah sono stati prosciolti con onore dallo stessotribunale che li aveva accusati di terrorismo.

Cercare di intervistare gli amici di mia zia è stato un veroe proprio incubo. Alle mie domande hanno sempreopposto un muro modello STASI di verità purgate eapprovate dallo stato. «Com’era Benazir prima di salire alpotere?» domando a una sua amica, una che ha fattocarriera grazie all’amicizia con lei e che è stata addiritturain parlamento durante il suo primo mandato («Eravamocome bambine, era tutto così nuovo per noi!» racconta.

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Non senza affrettarsi ad aggiungere: «Ma naturalmenteimparammo in fretta…»). «Cosa intendi dire?» si impuntacon occhi palpitanti. «Mah, così, prima di diventare primoministro, com’era?» preciso io, lentamente. «Oh, lei èsempre rimasta uguale a sé stessa!» E i suoi occhi sifanno come di vetro. «Generosa, ha sempre avuto in mentesolo il suo paese: potremmo dire che ne eraossessionata!» - pausa per una risata di cuore. «Eamorevole, sempre attenta ai bisogni di tutti. Benazir non èmai cambiata.»

Con altri, era come parlare al muro. Il ruolo di Benazirnon poteva assolutamente essere messo in discussione.Lei non aveva mai sbagliato. Ogni allusione al fatto chepotesse averlo fatto era subito bollata come merapropaganda, perfide menzogne diffuse dai nemici dellafamiglia Bhutto, affermazioni fallaci fatte da membriantidemocratici delle forze armate o vendette misoginecontro la prima donna premier del mondo islamico.

Ma torniamo al dirottamento. Un amico si fece subitocarico della difesa di Benazir: cosa ben poco utile, a dire ilvero, in quanto si capì subito che lei e sua madre eranostate arrestate solo perché si era ingenuamente vantata,nel modo più generico, del fatto che erano stati «i nostri» afare il colpo. Solo allora, rendendosi conto che stavafacendo il gioco del regime, Benazir comprese ciò che tuttigli altri attorno a lei avevano capito non appena la notiziadel dirottamento era stata resa pubblica. Fece marciaindietro: non erano stati «i nostri» a dirottare l’aereo. Leiera sempre stata contraria alla violenza, a ogni tipo di

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violenza. Fece l’innocentina. Erano i suoi fratelli a esserediventati terroristi. Lei era una vera Aung San Suu Kyimusulmana, la Gandhi del Pakistan.

I tribunali di Zia formalizzarono le accuse contro Murtaza,Shahnawaz e Suhail; pena prevista, la morte. Di fatto, però,nel 2003 tutti e tre sono stati assolti con formula piena -anche se il caso non è mai stato archiviato né le accusesono mai state verificate al di là della testardaggine con cuiZia usava ripetere che il dirottamento rientrava nei pianidei Bhutto per seminare il caos nel paese. Ancora ai giorninostri questa macchia infamante pesa sulla memoria deifratelli Bhutto. Dopo la loro assoluzione postuma,proclamata dallo stesso tribunale che aveva sollevato leaccuse, il faldone con i documenti relativi al dirottamento èstato infilato in qualche cassetto polveroso di qualcheignoto ufficio governativo. Ed è stato come se niente fossemai accaduto.

Qualche tempo dopo Salamullah Tipu cominciò alavorare apertamente per il governo. Il ruolo svoltonell’operazione dirottamento, evidentemente, non gli avevaimpedito di fare carriera.

Da mesi ormai Della non aveva più avuto notizie diMurtaza. Il 20 aprile provò a chiamarlo al suo numero diKabul, ma ormai lui non rispondeva più al telefono daparecchio tempo. Qualche giorno dopo ricevette unalettera, datata 25 aprile 1981 e scritta a mano sulla suacarta da lettere personale. «Forse a questo punto avrai

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capito perché ho dovuto scriverti quel che ti ho scritto.Ormai a darmi la caccia non sono più solo la poliziapachistana o i ribelli afghani, ma anche l’Interpol. Per me èdiventato praticamente impossibile viaggiare. Il mio mododi vivere non è più quello che conoscevi tu. Sono unfuggiasco, letteralmente, un ricercato vivo o morto. Sonocostretto a vivere in clandestinità, e sotto pesanteprotezione […] Credo che tu abbia provato a telefonarmi. Èdel tutto inutile. Non riavrò più la linea.»1415 Murtazaconclude la lettera dicendo che spera resteranno amici eche col tempo Della capirà perché ha dovuto prenderecerte decisioni. Decisioni che, ripete, erano tutte e solonell’interesse di lei.

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CAPITOLO 11A maggio di quell’anno Della e Murtaza avevano ormai

perso i contatti. La loro separazione sembrava definitiva, eDella non si dava pace. Si tagliò i lunghi capelli biondi, litinse di castano scuro e fece del suo meglio per andareavanti con la sua vita. Sul finire dell’estate, trovandosicasualmente a Londra, sempre per caso incontrò unvecchio amico di Murtaza. Dopo averci girato un po’attorno gli chiese di Mir, e lui disse che stava bene. Glidomandò se avesse un’altra; da subito aveva sospettatoche ci fosse un’altra donna a distrarne l’attenzione,spingendolo a rompere con lei tanto bruscamente. L’amicoglielo confermò. Ma lei lo sapeva già. Probabilmentel’aveva sempre saputo.

Anni dopo, quando vado a trovarla in Grecia, Della miracconta di aver avuto la sensazione che papà avesseun’altra fin dal momento in cui aveva messo fine alla lororelazione. Istintivamente ho reagito in difesa dell’onore dimio padre, e allora Della ha attirato la mia attenzione sulledate. Facendo mentalmente il conto alla rovescia, non hopotuto non notare che Della e mio padre si erano lasciatiesattamente un anno prima della mia nascita. Quando leiaveva scoperto che lui aveva un’altra, io ero già stataconcepita.

Papà conobbe la mia madre biologica, Fowzia, per purocaso. Lei aveva l’abitudine di condurre il cane a fare unapasseggiatina in giro per il quartiere, una cosa rarissima

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nella Kabul di quegli anni, e papà la notò. Così cominciò aunirsi a lei per la passeggiatina quotidiana del caneportando con sé Wolf 2. Kabul era una città desolata,schiacciata fra una guerra civile e un’occupazionestraniera; non era molto quello che i giovani potevano fareper divertirsi. Alla fine Suhail, Shah e Murtaza feceroamicizia con la giovane afghana discendente da unafamiglia di diplomatici, la quale portava i lunghi capellicastani legati in una treccia che le correva lungo tutta laschiena. I ragazzi passavano le serate a casa sua, con leie la sua famiglia, e col tempo Shah s’innamorò della figliaminore, Raehana. Diversamente dai suoi fratelli e dalle suesorelle, Raehana era timida e introversa. Lei e Shahnawaz,entrambi ultimi nati, cominciarono a uscire insieme: e ilperiodo di corteggiamento fu impetuoso e selvaggio.Raehana sosteneva i mujaheddin, Shah invece, di fatto,beneficiava dell’ospitalità comunista; così i due litigavano escherzavano come se l’universo ruotasse attorno a loro,finché non fu deciso che dovevano proprio sposarsi.Raehana e Shah si sposarono per primi, le nozze fra suasorella e Murtaza furono celebrate poco dopo; quando sisposò, Fowzia era già incinta di me.

«Non passò molto tempo fra i due matrimoni», ricordaSuhail. «I ragazzi organizzarono un ricevimento in comune,e si presentarono in uniforme color cachi e kefiah, bianca erossa quella di Mir, bianca e nera quella di Shahnawaz. Miraveva chiesto anche a noi di indossare le nostre. » Ridesommessamente, quasi fra sé e sé, poi sembra cambiaremarcia e torna serio. «Quando andai da Najibullah per

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invitarlo al ricevimento, lui tirò fuori un fascicolo e me lomise sotto gli occhi.» Molte storie orribili cominciano così:furtivamente e con un fascicolo misterioso. Najibullah, capodei servizi segreti, membro del Politburo e futuropresidente dell’Afghanistan, non era un uomo facile dainterpretare. Era famoso per la sua brutalità, e i suoirapporti con i fratelli Bhutto erano stati caratterizzati dafrequenti alti e bassi fin dal loro arrivo in città; ma in fondone aveva sempre garantito la sicurezza e li aveva protetti,pur mantenendo una distanza tale da lasciarli operareliberamente.

Suhail non era sicuro di quali rivelazioni contenesse ilfascicolo, ma fedele al ruolo di paziente messaggero edemissario che si era scelto aspettò di sentire il peggio.Najibullah gli chiese perché non fosse andato prima araccontargli le storie d’amore dei due fratelli, quasi la lorovita intima fosse una questione rilevante per lo stato. Poiaprì il fascicolo e disse che la famiglia delle due ragazze,gli Zia (macabra ironia della sorte), aveva contatti con imujaheddin. Il padre aveva lavorato nei servizi segreti, edera stato spesso all’estero in paesi come l’Indonesia. Aquesto punto Najibullah fece una pausa per ricordare aSuhail che il regime di Zia sosteneva i mujaheddin tramite iservizi segreti militari del Pakistan e li riforniva di armi e disoldi tramite la CIA.

Non era la prima volta che Najibullah si occupava degliaffari di cuore dei Bhutto. Quando Murtaza stava con Della,i servizi segreti afghani si erano convinti che lei fosseun’agente della CIA. Nella sua ultima lettera a Della,

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Murtaza scrive:

Penso che Shah ti abbia spiegato la nostraposizione su questo punto. Io so che non èvero, ma molti dei nostri amici sonoassolutamente convinti che tu lavori per gliamericani. Ho cercato di spiegare comestanno i fatti, ma non sono riuscito aconvincerli. Stanno portando avantiun’indagine completa e approfondita su di te,sul tuo background, sui tuoi amici, viaggi,contatti eccetera.

Murtaza aggiunge di essere convinto che la letterasarebbe stata censurata prima di raggiungere Della, ma difatto sembra che non sia stata toccata.

E ora Najibullah faceva la stessa insinuazione sullesorelle Zia. Suhail ripeté stancamente quella che eradiventata la loro risposta standard: «Lei è il benvenuto inqualsiasi momento vorrà venire a casa nostra per parlarecon i ragazzi».1 Ma arrivando alla casa Najibullah scoprìche Murtaza, appena sposato, portava ormai l’anellomatrimoniale. E non tirò fuori il fascicolo. Quando se neandò, Suhail lo accompagnò fino alla porta e gli chiese:

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«Dottore sahib, perché non ha detto niente?». «A cosaservirebbe, ormai?» replicò Najibullah, seccato.

Io sono nata a Kabul il 29 maggio 1982, attorno alle tre equarantacinque del mattino, sotto il coprifuoco. Le doglieerano cominciate fra le sette e le otto della sera prima, eFowzia fu portata in un ospedale governativo sottomassiccia sorveglianza. L’insurrezione dei mujaheddin eraal culmine, e i continui attacchi sferrati tutto attorno alla cittàimponevano alla gente di chiudersi in casa allo scoccaredel coprifuoco. Il governo, per ordine di Najibullah, avevacircondato con un anello di soldati l’ospedale in cui dovevonascere, nel timore che potesse diventare un obiettivo per imujaheddin, che avrebbero potuto così colpirecontemporaneamente la famiglia Bhutto e il regime. Fatan,la moglie di Najibullah, era là per occuparsi degli aspettiorganizzativi. Ehsan Bhatti, membro di Al Zulfikar e caroamico sia di Murtaza sia di Shahnawaz, si piantò fuori dallasala parto in uniforme color cachi e kefiah palestinesefinché Fatan non gli chiese di toglierla perché «troppovistosa».

«Mir era nervosissimo», racconta Suhail, «così il numerodue di Najibullah, Jamil Nooristani, ormai nostro amico, ciriportò tutti e tre a casa per attendere lì la notizia dellanascita.»2 Nooristani, ricordo che mio padre ci scherzavaspesso sopra al riguardo, in macchina cercò di distrarlosuggerendo per il nascituro tutta una serie di tradizionali

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nomi pashtun: nomi come Gulabo o Gulrukh, checominciavano tutti con il prefisso Gul.

Alle quattro del mattino papà ricevette la notizia che eronata. Il parto non era stato facile, e alla fine i mediciavevano dovuto ricorrere al forcipe. Papà festeggiòconcedendosi un toast, e tutti si tuffarono in un’accaloratadiscussione sul nome da darmi. «I primi nomi che glivennero in mente furono quelli delle tue bisnonne paterne»,ricorda Suhail, ripetendo una storia che ho sentitoraccontare da mio padre un’infinità di volte, «Fatima eKhurshid. » Grazie a Dio papà si decise per il primo, e ioebbi il nome della mia bisnonna iraniana. Suhail schioccala lingua con disapprovazione sentendomi esprimereorrore all’idea che avrei potuto chiamarmi Khurshid.«Come sai, in urdu significa “sole”», mi ripete.

«Mir era al settimo cielo», dice Suhail sorridendo. «Ti siaffezionò subito, manco tu fossi stata mandata sulla terrasolo per lui.» C’è una foto in bianco e nero di me appenanata con la boccuccia aperta come se stessi parlando.«Ha circa quattro settimane», vi ha scritto mio padre sulretro, in inchiostro blu. «Ed è già alta come me.»Effettivamente sono stata molto alta almeno fino ai dodicianni, quando stranamente la mia crescita ha rallentato e siè fermata, lasciandomi inchiodata per sempre a un metro ecinquantotto: trenta centimetri buoni meno di mio padre.

Tre mesi dopo anche Shahnawaz diventò padre. Anchela sua era una femmina e la chiamarono Sassi, come latragica eroina di una famosa leggenda popolare sindhi. Idue fratelli avevano sposato due sorelle ed entrambi

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avevano avuto una figlia. Sembrava proprio che la vitaavesse cambiato rotta, per i fratelli Bhutto.

E invece andò avanti pericolosa come sempre. Dopo ildirottamento, Al Zulfikar sferrò contro il regime il suoattacco più audace: un gruppetto di tre militanti attaccòl’aereo di Zia subito dopo il decollo dalla base aerea diChaklala, a Rawalpindi. Erano armati di un missile SAM-6a ricerca di calore, e lo mancarono per un pelo. A bordo,pilota e passeggeri si resero conto del pericolo mortaleche avevano corso. Insieme al generale Zia c’eranoGhulam Ishaq Khan, allora presidente del senato - l’uomonelle cui mani Benazir giurerà come primo ministro nel1988 - e Mahmood Haroon, la cui firma spicca in calce allacondanna a morte di mio nonno e che, altrettantoassurdamente, diventerà governatore del Sind sotto ilprimo governo di Benazir. Sembra impossibile che, di trealti dirigenti della giunta militare che si trovavano suquell’aereo, Benazir sarebbe arrivata a cooptarne due,mentre col terzo avrebbe comunque negoziato, ma senzaarrivare a un accordo. I tre se la cavarono, ma l’attacco conil SAM-6 accrebbe ulteriormente la furia del regime contro ifratelli Bhutto e la loro organizzazione. «È stato il colpo piùazzardato e più diretto che abbiamo mai messo a segno»,ricorda ancora Suhail.3

Ciononostante fu un’azione da irresponsabili. L’attentatoalla vita di Zia, realizzato a così breve distanza di tempodal dirottamento della PIA, creò semplicemente nuovospazio, e stavolta con una certa legittimità, per ulteriori

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aggressioni contro i fratelli Bhutto. Secondo Suhail, varitribunali formularono contro di loro ottantaquattro capid’accusa per tradimento, ciascuno dei quali comportava lapena di morte (personalmente ricordo un numero più alto,sulla novantina; altre persone dicono una cinquantina).

Né la giunta si limitò a depositare accuse legali contro diloro. Li prese di mira anche in modo più diretto. Chiedo aSuhail se ci furono attentati contro le loro vite, mentrevivevano a Kabul. Lui comincia e tronca più volte la stessafrase. Fuma una sigaretta, beve un po’ di tè, cerca dicambiare argomento. Poi si vede costretto a rispondere disì. Alcuni membri delle tribù senza legge del Pakistanfurono effettivamente mandati a Kabul per assassinare iBhutto. Suhail non ha mai voluto parlarne, o almeno noncon me. Ma io ne so ugualmente qualcosa. Ricordo chemio padre aveva dei segni sul corpo e sul viso. Ricordo lecicatrici sulla sua schiena, vicino al cuore e sul naso.Ricordo che non era molto disposto a parlarne e chequando, da bambina, gli domandavo come se le fosseprocurate, rispondeva solo che gliele avevano fatte dellepersone cattive.

È una storia difficile da trattare. Murtaza e Shahnawazerano solo due ragazzi che cercavano di realizzare l’ultimodesiderio del padre morente, ma alla fine sarebbe statoproprio quel desiderio a costar loro la vita. Da parte diZulfikar, esporre i suoi figli ed eredi a un pericolo tantograve era stato estremamente irresponsabile. Togliere aisuoi ragazzi ogni possibilità di vivere una vita pacifica,sicura e normale era stata una scelta vendicativa: Murtaza

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e Shahnawaz ne sarebbero morti. Zulfikar avrebbe dovutosaperlo. Anche loro però avevano sbagliato a seguire larotta che il padre gli aveva tracciato. E da alcuni indizi, dauna certa svolta che si verificò nella loro vita, sembra chealmeno in parte l’avessero capito.

Nel 1982, mentre entrambi stavano per diventare padri,Murtaza e Shahnawaz cominciarono a riflettere seriamentesulle attività della loro organizzazione. Conferma Suhail:«Da un certo momento in poi, la maggior parte del nostrolavoro si centrò sull’aiutare e fomentare la resistenza entro iconfini del Pakistan. Eravamo diventati una sorta diquartier generale per tutti quelli che ce l’avevano con lagiunta, un rifugio sicuro o un punto di raccolta per i poveriattivisti pachistani che si beccavano il grosso della brutalitàdel regime».4

In quella fase Murtaza lavorava alla trasmissione diprogrammi radiofonici da Kabul in Pakistan. Avevaraccolto decine di storie di vita sotto la dittatura e diepisodi di violazione dei diritti umani e di prevaricazionepolitica: stava preparando una serie di programmi e,contemporaneamente, studiava i problemi logisticiconnessi al fatto di trasmettere attraverso un confineinternazionale. Come prima, e più di prima, i fratelliricoprivano ruoli diversi. Murtaza sembra non vedesse l’oradi abbandonare la via militare per tornare a battersi controil regime con gli strumenti della diplomazia. Shahnawazinvece passava la maggior parte del suo tempo con iquadri dell’organizzazione, occupato a risolvere problemi

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di sicurezza e di addestramento militare. Era ancora pienodi rabbia, e voleva infliggere il massimo del danno alregime dittatoriale. «Dopo l’assassinio di suo padre, Shahcominciò a guardare al fratello maggiore come a una figuragenitoriale», ricorda Suhail, cercando di chiarirmi chedinamica ci fosse fra loro. «Mir e Shah si completavano avicenda, erano complementari. Bisogna darne credito aShah - quella vita, lui, l’aveva scelta. Aveva rinunciato atutto per andare a Kabul, per lavorare nell’organizzazionedi suo fratello, sentiva il dovere di aiutarlo in quella lottaimpari.»5

Intanto però, in Pakistan, il movimento per far cadere Ziaul Haq stava perdendo colpi. Nel 1983 l’MRD lanciò unacampagna di disobbedienza civile, che si sviluppò congrande forza nel Sind ma senza attecchire nelle altreprovince, ad eccezione, forse, del Belucistan.Diversamente dalle azioni di disobbedienza civile messein atto da Gandhi, però, quelle dell’MRD non risultarono deltutto pacifiche. Ci furono scioperi e serrate, ma sempreaccompagnati da significativi atti di violenza. Le agitazionidi Larkana, Sukkar, Jacobabad e Khairpur, nel Sind,furono così sanguinose che il governatore di quest’ultimaprovincia si vide costretto ad ammettere che, nelle primetre settimane di tumulto, c’erano stati 1999 arrestati, 189morti e 126 feriti.6

Cominciavano ad aprirsi crepe anche dentro ilmovimento. La leadership dell’MRD del Sind pensava che idirigenti delle altre province non si impegnassero

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abbastanza, anche se migliaia di attivisti del Punjab eranofiniti in carcere; la leadership di quest’ultima regione,invece, riteneva che la giovane e inesperta figlia di Zulfikar,Benazir, si fosse impadronita del movimento per farne lostrumento delle sue ambizioni politiche personali. L’MRDnon era abbastanza forte da superare queste faide interne.Di fatto il movimento si ritorse contro sé stesso, minandol’efficacia della resistenza contro il regime in due modiprincipali.

Il successo che la campagna di disobbedienza civileebbe nel Sind, ma non nel Punjab, ridiede fiato allepolitiche regionalistiche, «rendendo più profonda laspaccatura fra le province»:7 un pericoloso segnale didiscordia territoriale destinato a ricomparire in futuro. Ma lacosa più importante è che mobilitandosi solo per lademocrazia e per le elezioni, trascurando gli aspetti etici difondo della dittatura militare, dell’oppressione politica edelle violazioni dei diritti umani, a partire dal 1983 l’MRDottenne il risultato di convincere il generale Zia chebisognava assolutamente fare qualche passo di facciataper legittimare una volta per tutte il suo dominio.

Nel dicembre del 1984, dunque, Zia indisse unreferendum sul suo Programma di islamizzazionelegandolo alla conferma del suo diritto a restare al potere.La domanda posta agli elettori, infatti, era formulata inmodo insidioso: «Se siete d’accordo che siano introdottedelle leggi islamiche in conformità al Corano, rispondeteSÌ. Se il risultato del referendum fosse positivo, ciò

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significherà che approvate che il generale Zia ul Haq restipresidente per altri cinque anni».8 Dal referendum risultòun consenso ridicolmente gonfiato, del novantotto percento,9 a favore del presidente e della sua politica. L’MRD,temendo di inimicarsi i partiti religiosi, non aveva fattocampagna elettorale contro il Programma diislamizzazione e aveva invitato la gente a boicottare il voto;un esercizio del tutto privo di utilità.

Ottenuto così il «sostegno» del popolo, all’inizio del 1985Zia convocò le elezioni, creando una plausibile facciata dinuovo ordine civile per il suo regime e legittimando inmodo efficace il suo potere. L’MRD boicottò anche leelezioni, autoescludendosi dalla competizione. Non solonon era riuscito a far sloggiare il dittatore, ma gli avevaanche suggerito la direzione giusta in cui muoversi - ilgenerale infatti sembrava aver accolto i suoi suggerimentidando il via a un programma di «democratizzazione».

Non appena il nuovo governo si fu insediato, Ziaconcesse alla dirigente dell’MRD nonché neoelettapresidentessa del PPP, Benazir Bhutto, il permesso ditornare in patria dal suo autoimposto esilio nel RegnoUnito. Benazir infatti si era presa un periodo di vacanza dalPakistan. I suoi fratelli, che si trovavano ancora a Kabul,non erano stati d’accordo su quella scelta. A loro nessunoregalava periodi sabbatici per ritemprare le forze; ma infondo Benazir aveva reagito molto male alla morte delpadre e aveva sofferto di gravi otiti mentre era agli arrestidomiciliari. Per questo avevano acconsentito, senza dire

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niente contro la sua decisione di andare a Londra.Ciononostante, al centro del dibattito politico dell’MRD edel PPP c’erano molte e pesanti critiche su di lei e sullesue posizioni. La successione di Benazir al vertice delpartito che era stato di suo padre non era frutto di unavotazione interna, ma era stata in qualche modo impostada Benazir stessa, che aveva mandato avanti la suapovera madre in lutto, Nusrat, come presidentessaonoraria. Nana, la sorella di Della, durante una cena aMyconos mi racconta che, a quanto aveva capito, già inquella fase precoce si era creata molta tensione perl’ambizione politica di Benazir: «C’erano scontri anche fralei e Mir. Ma lui le voleva bene, e si era tirato indietro perlasciarle il passo. Ricordo che una volta ci disse: “Benazirci tiene tanto a essere l’erede politico di nostro padre,quindi okay, io mi faccio da parte”».10

Di fatto furono i consiglieri del nuovo primo ministro,Junejo, a indurlo a permettere il ritorno di Benazir dicendoa lui e al generale Zia: «Benazir rappresenta una minacciapiù per l’MRD che per il governo».11 Avevanoperfettamente ragione. Nel 1985, dal punto di vista politico,l’MRD era finito; non solo non era riuscito a unificare i varimovimenti di resistenza, ma li aveva ancor più allontanati.Involontariamente, insistendo solo sull’importanza di avereun governo democratico senza parlare degli abusiperpetrati sotto la dittatura o dell’incompatibilità tra poteredelle forze armate e sistema di governo ugualitario, l’MRDaveva consegnato a Zia gli strumenti atti a consolidare la

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sua presa sul potere e a neutralizzare l’opposizione. InPakistan, dopotutto, la democrazia è stata sempre esoltanto una parola, un luogo comune o uno sloganelettorale, non un sistema di governo.

Quando nacqui io, mio padre e mio zio avevano ormaideciso di lasciare Kabul e tutto il traffico del trasloco eragià cominciato. Nell’estate del 1982, infatti, era ormaichiaro che i fratelli Bhutto non potevano restare inAfghanistan. Le ricadute del dirottamento e l’eccessivaindipendenza di cui avevano dato prova sposando donnelocali ed espandendo sempre di più le loro attività gliavevano fatto perdere il favore dei padroni di casa.

«Ci accorgemmo che le autorità afghane stavanoostacolando le nostre comunicazioni con il Pakistan»,conclude Suhail. «E non bisogna dimenticare che eraproprio per quello che avevamo scelto l’Afghanistan - peressere vicini al Pakistan. I nostri documenti di viaggiovenivano trattenuti per presunti intralci burocratici, eravamocostretti a vivere in una casa di proprietà governativa, alasciarci proteggere dai loro servizi di sicurezza, a farciscarrozzare dai loro autisti. Ormai le cose si erano fattetese. Così dicemmo: “Guardate, anche per voi la situazioneè diventata difficile, così ora noi ce ne andiamo etorneremo solo quando tutto si sarà sistemato”. Siarrabbiarono parecchio: era evidente che ormai avevamoscelto di andar via, e capivano benissimo che lo facevamo

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in segno di protesta. »12 Ma non ci fu animosità inquell’addio. Nooristani, l’uomo che più di tutti aveva avuto ache fare con Murtaza, si rattristò vedendoli andar via, manon cercò di fermarli.

Anche tutti quelli che avevano raggiunto i due fratelli aKabul, un centinaio di persone, cominciarono a far levaligie preparandosi a passare sotto la protezione di unnuovo paese. Come porto scelsero la Libia. «A quei tempiera un centro d’accoglienza per dissidenti politici», ricordaSuhail. «Palestinesi, filippini, gente del Bangladesh - di’ unnome qualsiasi - ogni regione che soffrisse per un qualchetipo di conflitto aveva dei connazionali a Tripoli. »13Murtaza partì per primo per parlare con il colonnelloGheddafi, già amico della famiglia Bhutto durante ladetenzione di Zulfikar. Suhail lo accompagnò. Insieme, idue decisero che Murtaza si sarebbe stabilito con lafamiglia a Damasco mentre Suhail e Shahnawazavrebbero seguito l’organizzazione da Tripoli.

Dunque Shahnawaz si sarebbe occupato della baseoperativa, come era già accaduto in Afghanistan; ormaiquello era diventato il suo lavoro. Aveva un rapportoprivilegiato con coloro che volevano entrare nella lottacontro la dittatura, e l’addestramento dei giovani quadrinelle tecniche militari e di sicurezza gli dava molto da fare.Murtaza invece, in quanto fratello maggiore e capodell’organizzazione, seguiva tutta la parte politica ediplomatica. Da anni ormai scriveva, negoziava e cercavadi agire sulla posizione del Pakistan nel mondo attraverso

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vari progetti - fra cui il documentario cui aveva cominciatoa pensare fin da quando abitava a Londra. Suhail scelse direstare con Shahnawaz, il quale si trasferì a Tripoli con lamoglie poco dopo la nascita di Sassi. Nel gennaio del1983 anche la moglie di Suhail, Kamar, lo raggiunse inLibia con i figli Bilal e Ali. Ma ci sarebbero rimasti solo tremesi.

«Ci trovammo malissimo», racconta Suhail. «Kabul erauna città vivace, abituata a parlare apertamente, mentre inLibia era tutto sottosopra.»14 E fa oscillare la mano asignificare l’incertezza della vita quotidiana in Libia. «Illeader, Gheddafi, era molto solidale, molto gentile, e ciaccolse benissimo; ma non c’era alcuna struttura, era tuttotroppo segreto.» Shah e Suhail vivevano, ciascuno con lapropria famiglia, in due villette vicine allo Shati AndalousHotel, sulla riva del mare. Quando gli dico che, a pensarci,quegli alloggiamenti mi sembrano piuttosto pittoreschi,immaginando la Libia dalle foto che ho visto sulle riviste diviaggio, Suhail sospira e sorride. «Ogni comunicazionecon il mondo esterno era impossibile: non c’erano giornali,per via della rigida censura applicata dal regime, e alla TVnon capivamo niente perché era solo in arabo. Eravamocircondati dall’oscurità più totale, ci sentivamo comearenati su una spiaggia deserta. Era tutto troppo dominatodalla burocrazia.» Poi fa una pausa e infine, quasi glivenisse in mente solo in quel momento, aggiunge: «E poiera un paese proibizionista».

È piuttosto strano, per me, pensare che la Libia possa

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essere sembrata una scelta così poco attraente a personeche avevano vissuto nella Kabul semidistrutta dalla guerra;di fatto però Shah e Suhail non sopportarono di restarci.«Avevano uno strano tipo di economia», continua Suhail,nel tentativo di spiegarmi quanto fossero infelici a Tripoli.«Al mercato non si trovavano sempre generi di primanecessità come le uova o le sigarette. E quando, una voltaogni morte di papa, arrivavano sugli scaffali, si vedevagente andar via con otto o dieci cartoni di uova alla volta.Una cosa davvero stranissima.» Anche loro, però, eranocambiati. Avevano visto fallire il sogno di una guerrigliacome quella di Che Guevara, e tutti i loro sforzi, romanticima mal diretti, si erano in qualche modo ritorti contro diloro. Erano stati schiacciati da un’opinione pubblicanegativa. Qualche anno prima i media internazionali liosannavano come giovani eroi impegnati a combatterel’abrogazione di una costituzione, mentre ora la loro figuraveniva banalizzata - li chiamavano terroristi, li schernivanodefinendoli combattenti senza terra. «Non che volessimouna medaglia per quello che facevamo», dice Suhail. «Manoi eravamo la prima linea della lotta contro Zia. Nonstavamo a Washington a corteggiare i funzionari deldipartimento di stato, né a Londra ad abbuffarci ai pranziufficiali. La nostra vita la dedicavamo interamente allalotta.»15

Alla fine fu deciso che anche Shah e Suhail avrebberoraggiunto Murtaza in Siria. Ormai tutti e tre avevanofamiglia. Non erano più ribelli solitari dispersi sulle

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montagne. C’erano scuole da scegliere e pannolini dacambiare. Per due anni sonnacchiosi restarono in Siria aoccuparsi delle minuzie della vita familiare. Il movimento diresistenza in Pakistan aveva esaurito la benzina, era statolasciato in panne dall’incompetenza politica dell’MRD. Igiornalisti erano stufi di combattere un regime che nondava segno di indebolirsi, aiutato e sostenuto com’era daisoldi americani. Gli studenti avevano smesso di tiraresassi ed erano tornati in aula, e ormai pensavano solo aprocurarsi una laurea con cui fuggire dal paese. Gli scrittoriche si erano fatti un nome con opere teatrali e libellisovversivi, avevano anch’essi le bollette da pagare. Lostesso valeva per Al Zulfikar. Esisteva ancora, ma solonello spirito.

I due fratelli si dedicarono quindi alle loro famiglie e sisforzarono di vivere una vita normale come ospiti delpresidente Hafez al Assad, il leone di Damasco. Ma sulfinire del 1984 la noia di questa esistenza da esule errantecominciò a tormentare Shahnawaz. La sua frustrazione eragrande. Aveva ventisei anni, una moglie giovane e unafiglioletta di due anni. Ma in famiglia era sempre statoquello con lo spirito più libero. Non doveva essere facile,per lui, adattarsi a vivere come rifugiato politico in unaclaustrofobica enclave mediorientale, tre famiglie di esuliammonticchiate una sull’altra. E probabilmente non glisembrava nemmeno giusto. Cominciò a rimuginaresull’idea di traslocare ancora, di andare a stare in Europa,per dare alla sua famigliola una piccola possibilità diessere libera. Gli sarebbe piaciuto tornare in Francia,

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magari vicino al college che aveva frequentato.«Quando si trattava di Shah», racconta Suhail, «Murtaza

lo trattava sempre come il suo amatissimo fratellinopiccolo. Gli voleva un bene dell’anima. Così, quando Shahcominciò a dire che voleva andar via, Mir deve aver messoda parte i suoi sentimenti personali sui rischi che avrebbecorso in Europa per lasciarlo libero di fare la suascelta.»16 La voce di Suhail si fa tesa, aspira forte dallasigaretta. Sento che forse quello che sta dicendo nonriguarda solo Murtaza, che ovviamente era preoccupatoall’idea che suo fratello andasse a vivere tanto lontano.Provo a fargli un po’ di pressione.«Perché pensi che fosseuna scelta sbagliata? Perché mai la Francia dovevaessere più pericolosa degli altri paesi in cui avevanovissuto?» Suhail posa la sigaretta e mi guarda dritto negliocchi. «Andare in Francia fu un errore. Assolutamente. InAfghanistan i ragazzi erano protetti, c’era chi li difendeva.E anche a Damasco. Ma in Francia, Shah avrebbe dovutovivere allo scoperto. Sarebbe stato esposto. Una voltapresa la decisione di battersi contro la giunta militare, edopo aver vissuto in Afghanistan a quello scopo, loro dueerano marchiati.»17

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CAPITOLO 12Quel che accadde dopo è tuttora avvolto nel mistero.

Sappiamo solo quanto segue. Nell’ottobre del 1984 Shahcon la moglie Raehana e la figlia Sassi lasciò Damascoper trasferirsi nel Sud della Francia. Il trasloco fu unpiacevole cambiamento per la giovane coppia. A Kabul,Raehana era stata una studentessa appartenente a unafamiglia di diplomatici legata all’ ancien régime. Suomarito invece era stato ospite di un governo comunistaappoggiato dai sovietici. Entrambi avevano poco più divent’anni, meno di quanti ne abbia io nel momento in cuiscrivo questo libro. Si erano sposati contro la volontà dellafamiglia di lui, tutt’altro che contenta di vedere il ragazzostringere un nuovo legame così poco tempo dopo la rotturadel fidanzamento con Nurseli, che i suoi genitoriconoscevano e sarebbero stati felici di accogliere.Nondimeno, Shah e Raehana avevano goduto di una vitamatrimoniale intensa e appassionata. E ciononostante adividerli non c’erano solo le famiglie, ma anche la politica.Raehana era un’appassionata sostenitrice dei mujaheddin,Shah un loro oppositore. Imbevuti di ideologiaantimperialista, Shah e suo fratello erano convinti che gliStati Uniti non solo avessero avuto a che fare conl’esecuzione del padre, ma stessero ancora appoggiandola giunta militare di Zia.

La Francia rappresentò per la giovane coppia la primavera occasione per sperimentare una vita propria, lontano

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dalle spaccature politiche e anche dalle famiglie d’origine. Idue sposi si stabilirono in un piacevole appartamento diNizza, al secondo piano di una palazzina di Avenue du RoiAlbert. Shah andava spesso in Siria per incontrareMurtaza, ma faceva in modo di trattenervisi poco e poitornava a casa. In Francia, la sua famiglia viveva una vita ilpiù possibile normale, compatibilmente con le condizioni.

Nell’estate del 1985 convergemmo tutti su Nizza per unariunione di famiglia. Erano molti anni che non ci riunivamotutti insieme nello stesso luogo e nello stesso momento.Nusrat arrivò da Ginevra, dove viveva in esilio, Murtaza daDamasco e Benazir - con Sanam - da Londra.

Mir e Shah erano pazzi di gioia - dopo la morte delpadre erano stati praticamente inseparabili, eapprezzavano moltissimo quell’occasione di stare ancoraun po’ insieme. Non facevano che scambiarsi battute ericordi d’infanzia: per esempio su quella volta che Shah,durante una visita di stato della sua famiglia in Cina, avevavoluto a tutti i costi posare per una foto con le bracciapiegate all’altezza della vita come Chou En-lai, costretto atenerle a quel modo da una vecchia ferita di guerra.Andammo tutti da Shah: l’idea era di trattenerci a Nizza pertutto il mese di luglio.

Quando arrivammo, Murtaza vide subito che Shah avevamesso il suo nome e cognome sul citofono. Lopreoccupava che il fratello stesse usando il suo vero nome,e lo sgridò per questo: «Non dovresti dare tanta pubblicitàalla tua residenza, accidenti! Questa è la Francia!». ANizza il governo non gli garantiva alcuna protezione, non

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c’erano poliziotti incaricati di vegliare sull’incolumità deifratelli Bhutto. Ma sembrava trattarsi di un erroreinsignificante, e l’estate cominciò sotto i migliori auspici.

La famiglia riunita passava il pomeriggio sulla spiaggia,a oziare nel sole. A volte Shah, da sempre l’atleta difamiglia, noleggiava un aquascooter o faceva un po’ di scid’acqua, salutando con la mano tutti noi che lo guardavamodalla spiaggia e facendoci ridere con mosse e gesti buffi -sapeva fare di tutto. Aveva ventisei anni, ed era al culminedella sua prestanza fisica. Ricordo di averlo visto fare scid’acqua dietro un motoscafo pericolosamente veloce, ealzare una mano sopra la testa, ridendo forte mentre noitrattenevamo il respiro: lui però non perdeva mail’equilibrio. Era la nostra gioia e la nostra vita, l’adoratobambino piccolo, il secondo maschio della famiglia.Sapeva essere allegro e positivo in ogni circostanza, lasua personalità brillava in qualsiasi compagnia.

Sassi e io avevamo entrambe tre anni, solo che io avevotre mesi più di lei. Il divertimento che ci piaceva di più erastare sul balcone della casa di Shah, al secondo piano, eversare cartoni di succo di frutta nella piscina delpianoterra per poi scappare via con mille risolini quando ilvicino del piano di sotto usciva di casa facendo fuoco efiamme e imprecando in francese contro gli ignoti cheavevano trasformato la sua piscina in un cocktail di succodi mela e d’arancia. Il balcone era il nostro regno: cipassavamo tantissimo tempo, soprattutto a giocare con uncavallino a dondolo che qualcuno ci aveva datoprobabilmente per distrarre la nostra attenzione dalla

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piscina. Portavamo degli occhiali da sole stile anni Ottanta,dai colori acidi, che ci facevano sentire delle vere rockstar,e condividevamo un braccialetto, un cerchietto bianco erosa, che ci passavamo l’un l’altra, indossandolo a turno.Pur essendo solo cugine, eravamo stranamente simili.Portavamo i capelli lunghi fino alle spalle, con i riccioli e lafrangia; io li avevo castano scuro, lei castano chiaro. Maper tutto il resto eravamo praticamente gemelle, o almenoera così che ci sentivamo.

Spesso, quando lo zio Shah mi passava accanto, soloper dare fastidio a Sassi mi aggrappavo alla sua gamba emi mettevo a strillare: «Questo è il mio papà!» bensapendo che lei era troppo dolce per acchiappare miopadre e fare altrettanto. Poi, quando scoppiava a piangere,tornavo di corsa dal mio papà, mi tenevo alla sua gamba egridavo: «Anche questo è il mio papà!». Sassi raccontache la mordevo sulle guance, ma io non me ne ricordo. Levolevo un bene dell’anima, e la consideravo una miaproprietà. Vivevamo in un mondo di soli adulti e, con lalimitata consapevolezza dei bambini, sentivamo che lasituazione attorno a noi era densa di pericoli. Sapevamo diaver avuto un nonno che era stato ucciso; e che quello incui vivevamo non era il nostro paese, e che la nostra patriaera un posto lontano di cui avevamo solo sentito parlare.Sentivamo che, in qualche modo, le cose non erano comeavrebbero dovuto essere, e per questo ci aggrappavamol’una all’altra creando un piccolo mondo immaginario che ciintratteneva e affascinava.

La sera andavamo tutti insieme al ristorante, dove

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bisognava accostare vari tavoli per trovare un posto aciascuno, e cibo e conversazione andavano avanti fino anotte fonda. A un certo punto, immancabilmente, Murtaza eShah se la svignavano per andare a bersi un bicchierino alCarlton Hotel, approfittando delle molte libertà concessedalla Francia del Sud. Tornavano a casa solo alle primeore del mattino.

Il 17 luglio passammo la giornata a nuotare a Port LaGalère. Per la serata avevamo in programma un barbecue,così Shah e Raehana restarono a casa a preparare. Fupapà a portare Sassi e me sulla spiaggia, dove la giornatatrascorse tra giochi d’acqua e risate. A casa, intanto,Raehana mandava Shah dal droghiere per comprarealcune cose; avremmo mangiato fuori, sulla spiaggia, e lebocche da sfamare erano tante. Shah tornò con delle bibitee con piatti e posate di plastica; poi guardò un po’ ditelevisione e si fumò una sigaretta mentre noi cipreparavamo per la serata.

C’erano molti Bhutto, quella sera, sulla spiaggia di LaNapoule. Shah e Murtaza andarono avanti e indietro fra lacittà e la riva del mare per prelevare i vari membri dellafamiglia e portarli al luogo dell’appuntamento. Alle nove emezzo tutti gli invitati erano presenti e la baldoria ebbeinizio. Joonam, come ormai avevo imparato a chiamaremia nonna Nusrat, aveva portato un’insalata con yogurt ecetrioli all’iraniana. Qualcun altro aveva portato il gelato perdessert. Il barbecue fu acceso e Shah cominciò a cuoceresul fuoco spiedini e braciole. Lo rivedo spremere il limonesulla carne e ridere forte perché uno schizzo gli era arrivato

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in un occhio. Ciononostante continuò a grigliare la carne,indifferente agli spruzzi di limone, strizzando teatralmentegli occhi per le foto che qualcuno stava scattando. Ricordoche la spiaggia era deserta, tranne che per la nostraallegra e turbolenta famiglia. E che sul muro accanto alquale erano parcheggiate le auto c’erano dei graffititracciati con le bombolette spray. Più tardi papà miavrebbe detto che anche Joonam, quella sera, era stataallegra e vivace, libera per qualche ora dalla depressionein cui era caduta dopo la morte di Zulfikar. Per tutta la seraparlò in farsi con la sua famiglia d’origine e in inglese con ilresto dei parenti, e a un certo punto disse che speravaproprio di morire prima dei suoi figli perché non potevanemmeno immaginare di dover perdere un altro dei suoicari.

Il barbecue andò avanti fin verso le undici di sera,quando Murtaza e Shahnawaz salirono ciascuno sullapropria auto per riportare a casa il parentado. Io erosicuramente con mio padre. Quanto a Sassi, non so dovefosse. Shah e Raehana arrivarono in Avenue du Roi Albertarrabbiati l’uno con l’altro; strada facendo avevano litigatoperché Shah sarebbe voluto andare al casinò mentreRaehana non voleva nemmeno sentirne parlare, lei volevaandare a un nightclub chiamato Whisky à gogo.

Nell’atrio della palazzina in cui vivevano le cosedegenerarono ulteriormente. Papà chiese cosa stessesuccedendo, e Raehana gli rispose di farsi i fatti suoi.Papà si irritò. Pensava che Shah si sarebbe frappostocercando di calmare la moglie, ma quando si decise a

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farlo, ormai fra mio padre e Raehana erano corse parolegrosse, e anche Shah si ritrovò coinvolto nella lite. AlloraRaehana disse a mio padre e a Fowzia di far le valigie e disloggiare da casa sua. Sentendosi insultato, papà imprecòcon rabbia ed entrò in casa come una furia per fare levaligie. Ricordo il chiasso che facevano tutti. Ricordo diaver desiderato che la smettessero di gridare, di averavuto paura, e di essermi sentita molto stanca. Nel giro dipochi minuti tutti i nostri vestiti furono scaraventati nellevaligie e noi tre ce ne andammo a casa di Joonam, in unquartiere poco lontano.

Shah portò in casa sua moglie e sua figlia e cercò dicalmarle. Raehana e Sassi andarono in camera da letto, eShah portò alla figlioletta un biberon di latte. Aspettò divederle addormentate e tornò in salotto. Nel frattempopapà andava al casinò con qualche altro membro dellafamiglia e ci restava fino alle cinque del mattino - l’ora dichiusura dello stabilimento - per poi trasferirsi nel limitroforistorante Manhattan e tornarsene infine a casa. Papàarrivò verso le sei e mezzo del mattino e andò subito aletto. Cosa sia accaduto dopo di ciò è un mistero.

La mattina del 18 papà si alzò e andò in centro a faredelle commissioni. Comprò anche una copia dell’ «HeraldTribune», quindi tornò a casa di sua madre. Alle due menoun quarto qualcuno suonò alla porta: era Raehana.Sembrava sconvolta, ma all’inizio papà non era certo nellostato d’animo giusto per accoglierla affettuosamente.Joonam però capì subito che c’era qualcosa che nonandava, e insistette perché Murtaza le parlasse. «È

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successa una cosa strana», disse Raehana. «Sulmomento ho pensato che Shah si fosse fatto male facendoqualcosa in casa», dichiarò Murtaza alla polizia. Più tardinessuno avrebbe ricordato con esattezza se la parola«overdose» fosse stata pronunciata oppure no. Joonamchiamò subito la polizia e diede l’indirizzo di Shah.

Papà salì sulla Mercedes verde metallizzato di Shah, cheRaehana aveva guidato fin lì con Sassi seduta accanto, ela riportò indietro. Lungo il tragitto un altro membro dellafamiglia che era con loro le chiese se Shah si fosseripreso. Tutti ricordano che Raehana rispose che era blu.Più tardi Murtaza avrebbe ricordato di essere statoterrorizzato da quella risposta, e di aver chiestorabbiosamente a Raehana se era vivo o morto. Fino a quelmomento, il pensiero non gli aveva nemmeno sfiorato lamente. Lei disse che non lo sapeva, che aveva avuto pauradi guardare.

Quando entrarono in casa videro il corpo di Shah riversoa faccia in giù sul pavimento del salotto, fra il divano e iltavolino da caffè. «Non appena lo vidi capii subito che eramorto», dichiarò Murtaza. Shah aveva dei segni blu sulpetto, e il suo viso aveva già cominciato a virare verso unnero bluastro. Indossava ancora i pantaloni della seraprima, ma senza camicia. Era morto.

Vedendo quei segni blu sul corpo del fratello, Murtazacapì che la morte non era stata naturale. Pensò chepotesse trattarsi di avvelenamento. Mandò qualcuno giùdalle scale a vedere se la polizia stesse arrivando e intantocominciò a frugare l’appartamento. Un anno prima lui e

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Shah avevano ricevuto ciascuno una fialetta di veleno daprendere nel caso fossero caduti nelle mani della polizia diZia. Nessuno sa chi gliele avesse date; è una delle moltecose che i due hanno preferito tenere per sé. Quelle fialetteerano sigillate con un anello di metallo e contenevano unliquido incolore. Se mescolato con un altro liquidoqualsiasi, era stato detto loro, il veleno sarebbe statoimpossibile da individuare: ma bisognava maneggiarlo conprecauzione, perché una volta assunte, quelle tossineagivano rapidamente causando la morte nel giro di pochiminuti.

La polizia arrivò e cominciò subito a perquisirel’appartamento. Murtaza cercò la fialetta di Shah in tutte lestanze, ma non la trovò. Frugò anche negli armadietti dellacucina, stando attento a non spostare niente. Un dottore,arrivato con troppe ore di ritardo per poter salvare Shah,era in cucina con lui quando tolse il coperchio al bidonedella spazzatura e, sotto un mucchietto di tovagliolini dicarta, trovò una fialetta di vetro con l’etichetta«Pentrexide». La passò al dottore e informò la polizia diquel che aveva trovato. Disse che Shah era giàsopravvissuto a quattro attentati. Disse che loro dueavevano molti nemici. Chiese se era possibile che unestraneo fosse penetrato nell’appartamento. Disse e ripetéche non poteva credere nemmeno per un istante che suofratello si fosse suicidato.

C’era ancora una cosa che Murtaza doveva fare primache il corpo di Shah venisse portato via. Dirlo a sua madre.Risalì in macchina e tornò a casa di Nusrat. Lei aveva già

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telefonato più volte per chiedere cosa stesse succedendo,ma tutti le avevano risposto: «Te lo dirà Mir, aspetta, Mirsta venendo lì e te lo dirà lui stesso». Fu così che Mir arrivòa casa della madre, solo. Lei gli aprì la porta, isterica dallapreoccupazione. Lui la tenne saldamente per le braccia ele disse che Shah era morto. «Mamma, Gogi se n’èandato», disse, usando il nomignolo con cui tutti in famigliaavevano sempre chiamato Shah. Nusrat gli si abbandonòfra le braccia, squassata dai singhiozzi, e subito chiese diessere portata da lui. Tornammo tutti a casa di Shah, iocompresa. Nessuno poteva occuparsi di Sassi e di me,per questo fummo portate anche noi sulla scena delcrimine insieme al resto della famiglia.

In realtà era stata Sassi a trovare il cadavere del padre.«Da allora sono stata tormentata da quella scena checontinuava a tornarmi in mente», mi racconta ventiquattroanni dopo. «È l’unico ricordo chiaro che ho di mio padre.Da allora è passato tanto tempo, ma l’immagine è ancoravivida: lo fissavo, lui era là, disteso sul pavimento, easpettavo che si svegliasse. Era uno dei miei compiti,quello di svegliarlo la mattina. Ma quella volta non fu affattocome al solito, perché papà non si svegliò e non mi afferròné mi baciò né mi lanciò in aria come faceva sempre. »1Più tardi Raehana avrebbe raccontato alla polizia che erastata proprio la vocetta terrorizzata della figlia a svegliarla.Dal salotto Sassi gridava: «Papà, papà!» più e più volte.Quando l’aveva raggiunta, Sassi era seduta accanto alcorpo senza vita di suo padre e lo scrollava cercando di

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svegliarlo.Le prime indagini rilevarono piccole macchie di vomito

sul pavimento del bagno collegato alla camera da lettomatrimoniale. La polizia confermò di aver trovato delveleno nell’organismo di Shah: un veleno potente,concepito per lasciare un residuo nelle narici della vittima,non nel sangue o negli organi interni. Chi sia stato asomministrargli quel veleno, però, nessuno ha saputodirmelo.

Ben presto cominciarono a circolare varie congetture. Lapiù ovvia era che fosse stato il generale Zia a ordirel’attentato contro Shah. Anche se Murtaza era ilprimogenito, nonché il capo dell’organizzazione cheattaccava il regime militare, la sua figura era quella di uncapo diplomatico. Erano in molti a percepire Shah come ilpiù aggressivo dei due; dopotutto era lui a occuparsi delsettore addestramento e sicurezza. Murtaza è semprerimasto dell’idea che solo il governo di Zia poteva averordinato l’assassinio. Ma come fossero riusciti a portarlo atermine era piuttosto difficile da spiegare.

Altri, ovviamente, sostenevano che Shah si fossesuicidato: un’ipotesi furiosamente negata da Murtaza, ilquale disse a poliziotti e giornalisti che Shah «era moltocoraggioso. Sapeva affrontare la vita. Non aveva paura diniente, andava addirittura in giro senza guardie del corpo.Sapeva far fronte a qualsiasi situazione». Dichiarò agliagenti che suo fratello era felice, era un uomo di successo,finanziariamente solvibile, e che mai, in nessun momentodella loro vita in comune, l’aveva sentito parlare di suicidio.

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Non era stato trovato alcun biglietto d’addio, e dagli eventidella sera prima o da quelli del passato recente non sipotevano ricavare indizi del fatto che ci stesse pensando.Anche Nusrat disse che l’ipotesi del suicidio non avevasenso. Secondo l’islam, togliersi la vita è peccato. Per leiera inimmaginabile che Shah, un ragazzo che avevasaputo affrontare con tanto coraggio la morte del padre,potesse ritrovarsi all’improvviso così al di là di ognisperanza da volersi uccidere. Altre persone, però, lapensavano diversamente. Fowzia per esempio disse allapolizia che a suo parere Shah si era ucciso, ma i Bhuttoerano troppo orgogliosi per ammetterlo. Questedichiarazioni ferirono molto il resto della famiglia.

E infine c’era un’altra teoria, quella principale. Per tutta lavita io stessa sono stata convinta che la moglie di Shah,Raehana, avesse avuto a che fare con la sua morte.L’autopsia stabilì che il decesso era avvenuto nelle primeore del mattino: quindi erano passate almeno nove oreprima che qualcuno avvisasse il resto della famiglia o lapolizia. Impossibile non notare che Raehana aveva datol’allarme solo parecchio tempo dopo la morte. Ed è proprioqui che le cose si fanno ingarbugliate. Perché ladeposizione resa da Raehana alla polizia esiste ancora, ela sua testimonianza rimette tutto in discussione. Le sueparole sono sconnesse e incoerenti. Le ho lette sia infrancese sia in inglese. Me le sono fatte tradurre eritradurre. Le ho lette al dritto e al rovescio, e a tutt’oggi nonso ancora che farmene.

La mia esperienza personale con la polizia mi spinge a

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diffidare delle confessioni ottenute in carcere. Non credo cisiano verità che solo la polizia è in grado di farci sputare.Per questo non me la sento di usare la deposizione diRaheana contro di lei. Perché non sono in grado di direcon un affidabile grado di certezza se il fascicolo in manoalla polizia rappresenti un’onesta ricostruzione dei fatti.

Ciononostante sono cresciuta nella convinzione, moltoradicata nella mia famiglia, che Raehana fosse in qualchemodo coinvolta. Non aveva chiamato i soccorsi in tempoutile. Non aveva reagito con sufficiente prontezza. Le cosefra lei e suo marito non andavano bene. La sera primaaveva buttato Murtaza fuori casa. Fra lei e i Bhutto c’eranosempre stati diffidenza e avversione. Dalla suadeposizione si evince che non soccorse Shah mentremoriva, ma risulta altrettanto evidente che non fu lei aucciderlo.

Comunque Raehana fu arrestata, e per un po’ rimase inprigione a Nizza. Fu interrogata per mesi e poi rilasciata.Infine lasciò la Francia e andò in California, per stare con lasua famiglia che si stava già occupando di Sassi. Non lavedemmo mai più.

Sulla base delle dichiarazioni rese da Raehana, Murtazae Benazir presentarono contro di lei una denuncia a nomedella famiglia Bhutto appellandosi alla legge sull’omissionedi soccorso vigente in Francia. Jacques Vergès, polemicoavvocato francese, avrebbe rappresentato la famiglia e sidisse sicuro di poter ottenere la condanna in contumacia diRaehana per non aver prestato soccorso a un agonizzante.

Ricordo che, col passare degli anni, mio padre cominciò

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a nutrire qualche dubbio in merito a ciò che poteva essereaccaduto quella notte a Nizza. Quando le mie zie facevanoil diavolo a quattro sulla questione di Raehana, spessotaceva. Di fatto non arrivò mai a una conclusione definitivasu cosa fosse successo. E poi, ormai era tardi. Sotto iponti erano passati troppo tempo, troppa rabbia e troppatristezza. Lui incolpava sé stesso per non essere stato là,quella notte, a proteggere il suo fratellino. Questaconvinzione sì che non l’abbandonava mai. Cominciò adimagrire. Perse il suo sorriso, la capacità di ridere escherzare. Anche per Joonam, ricordo, quella morte fu unpeso troppo grande che le gravava sul cuore. Non tornòmai più quella di prima.

Sassi e io non ci saremmo riviste per ben ventitré anni.Finché fummo bambine ci scrivevamo, di tanto in tanto, o ciparlavamo al telefono, ma i nostri contatti erano ridotti alminimo. Entrambe sognavamo di ritrovarci, prima o poi, eimmaginavamo la gioia dei nostri papà al sapere cheeravamo ancora insieme. La cosa però non sembravamolto probabile. Poi, la notte del mio ventiseiesimocompleanno - avevo cominciato a lavorare a questo libroda un mese -, ricevetti una sua e-mail. Passai una notteinsonne. Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta che cieravamo sentite, almeno undici, e non sapevo cosaaspettarmi. Risposi chiedendole il suo numero di telefono.Qualche giorno dopo ci parlammo. Ormai eravamo adulte.Ci eravamo diplomate, eravamo andate al college e cistavamo occupando dei nostri studi postlaurea. Noneravamo più bambine. Ci parlammo e, nel conoscerci di

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nuovo, ci trovammo subito a nostro agio.Sassi desiderava molto venire in Pakistan per pregare

sulla tomba di suo padre. Non ci era mai stata, non avevamai visto nemmeno un centimetro quadrato della terrapaterna. Così cominciammo subito a fare dei piani perrealizzare questo suo desiderio. Sarebbe dovuta arrivare aKarachi clandestinamente, perché nel ramo della famigliache faceva capo alle nostre zie c’erano molte persone chenon avrebbero apprezzato affatto l’idea di vederci stare unpo’ insieme a scambiarci vecchi ricordi. Finché Benazirera stata in vita tutti avevano fatto del loro meglio pertenerci lontane, e non sarebbe stato facile ignorare quelche restava delle sue ultime volontà. Così decidemmo diincontrarci ad Abu Dhabi, all’aeroporto. Innanzitutto io sareiandata a Londra, fingendo che fosse un viaggio come tantialtri. Sassi avrebbe preso un volo da New York, dovestudiava, per il Golfo: una mossa che avrebbe eliminatoogni sospetto, se per caso ci fossero stati degli agentiincaricati di impedire l’ingresso in Pakistan ad altri Bhutto. Ivoli di proseguimento li avrei prenotati io, e infine l’avreiportata a casa. Nessuno sapeva che Sassi sarebbearrivata a Karachi, nessuno a parte mamma e Zulfi. Lei nonl’aveva detto a nessuno, e altrettanto avevo fatto io.

Ci eravamo messe d’accordo per incontrarci in un puntopreciso del piccolo aeroporto di Abu Dhabi, mainciampammo una nell’altra prima di arrivarci. Ciriconoscemmo subito, anche se crescendo eravamodiventate due persone completamente diverse. Io avevo icapelli ricci, di media lunghezza, mentre i suoi erano lunghi

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e ondulati. Aveva portato un braccialetto da indossare aturno. Non appena fummo sull’aereo che ci avrebbe portatea Karachi cominciammo subito a confrontare i nostriappunti, trovandoci parecchie, inquietanti corrispondenze.

Le due settimane seguenti furono un turbinio dispostamenti fra Karachi e Larkana. Sulla tomba di Shah,Sassi fu travolta dall’emozione di ritrovarsi finalmentevicino a suo padre. Andammo a vedere la casa di Shah, aNaudero, dove Zulfikar sperava che suo figlio avrebbeabitato anche in vista della sua candidatura alle elezioni.Ora la occupava il vedovo di Benazir, e prima ci avevaabitato lei stessa. Nel 1988, per il seggio destinato a Shah,si era presentata Benazir, che da quella vittoria avevaspiccato il volo per diventare primo ministro. Non potemmoentrare, quelli di casa ci consideravano nemiche. Più tardi,sedute nella stanza che i nostri padri avevano condiviso,come condividevano ogni cosa, affrontammo il tema di suamadre. Io le raccontai il poco che avevo sentito direcrescendo, e cioè che la famiglia la incolpava della mortedi Shah. Sassi non ne fu sorpresa. Anche lei era cresciutasotto il peso di quelle accuse. Ma poi disse anchedell’altro, cose che non mi avevano mai nemmeno sfioratola mente. In quel momento, per la prima volta nella miagiovane vita, ebbi modo di sentire l’altra campana.

«La versione comunemente accettata degli avvenimentiche portarono alla morte di mio padre mi ha sempreriempito di rabbia e di frustrazione», disse. «Io conoscevola verità, e avrei voluto dire a tutti che mia madre non era innessun modo responsabile dell’accaduto. Ma sapevo che

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c’era troppo potere in gioco, forze che nei primi tempidopo la sua morte avrebbero impedito a questa versionedi emergere.» Confesso che non avevo mai preso inconsiderazione l’idea che, in questa storia, potesseroesserci degli elementi a me sconosciuti; e non era ciò chemi aspettavo di sentire. «Mia madre era un obiettivo fintroppo facile», disse Sassi. «Ma se era davvero colpevole,perché la lasciarono andare? E perché nessuno ha maiindagato su qualche altro sospetto? Quel che è certo è chenoi due non abbiamo mai tratto alcun beneficio dalla mortedi papà.»

Erano buone argomentazioni. Perché mai Raehana erastata scarcerata, se era coinvolta nell’omicidio? A detta ditutti, i sospetti su di lei erano stati presto accantonati.L’avevano rilasciata, le avevano addirittura permesso diuscire dal paese: non è certo la procedura standard peruna persona sospettata di omicidio. Ma allora chi erastato?, domandai. Non avevo mai osato immaginare chequalcun altro avesse potuto trarre vantaggio dalla morte diShah. Mi sembrava una cosa che non avevo mai osatoimmaginare. Una cosa scandalosa, allucinante. Eppuresapevo, per mia personale esperienza, che niente èimpossibile in casa Bhutto.

Sassi e io passammo insieme qualche mese. Lei si erapresa un periodo libero dalla scuola, così potemmodivertirci anche noi come avevano fatto i nostri padri nelloro pied-à-terre da scapoli. Parlammo spesso dei genitori

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di Sassi, e facemmo le ore piccole cercando di capirecosa poteva essere capitato a Shah. «Che sentimentiprovo riguardo alla morte di mio padre?» rispose leiquando glielo chiesi esplicitamente via e-mail. «Sonoarrabbiata, ferita, triste. Mi dispiace di non avere unmaggior numero di ricordi. Mi fa arrabbiare che la sua vitasia stata strappata innanzitutto a lui, ma anche a me e amia madre, in così giovane età. Mi fa star male che miamadre abbia dovuto soffrire tanto. Proprio nel momento incui tutti avrebbero dovuto stringersi assieme, cominciaronole divisioni. Mi stupisce che sulla sua morte, in Pakistannon si siano fatte indagini formali. Mi sembra una cosamolto strana, ma evidentemente a qualcuno convenivacosì.»

Nella primavera del 2009, eternamente alla ricerca diqualcuno in grado di dirmi cosa fosse successo quellanotte a Nizza, sono andata a Parigi e finalmente ho potutoincontrare Jacques Vergès. Avevamo fissato unappuntamento nel suo ufficio, in una via indefinita nel cuoredella città. In realtà io l’avevo già incontrato una volta:avevo forse quattro anni, ed ero stata seduta nel suo ufficiomentre lui e mio padre discutevano della vicenda di Shah.Ricordo che sulla scrivania c’erano delle scatolette che miero divertita a chiudere e ad aprire mentre gli adultiparlavano di denunciare Raehana. E così, in un ufficiodiverso, mi ritrovo faccia a faccia con l’uomo cherappresenta - o almeno spero - la mia migliore occasioneper trovare una risposta definitiva a tante domande rimastein sospeso.

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A parte la sordità Vergès, ormai sull’ottantina, nondimostra affatto la sua età. È ancora lo stesso uomo chericordavo, magro, con i capelli grigi e sottili, vestito inmodo un po’ affettato. Mi introduce nel suo ufficio. «Io e Mireravamo ottimi amici», mi dice, con il suo forte accentofrancese. «Mi ha addolorato moltissimo sapere che erastato ucciso.» Lo ringrazio sottovoce, tremando esforzandomi di mantenere un atteggiamento professionale.«E anche Benazir…» aggiunge poi, e io sento il mio cuoreperdere un colpo. È una cosa che la gente ripetecontinuamente. «La storia di tuo padre è stata unavergogna; ma Benazir, oh, la sua perdita è stata una veratragedia.» Penso che stia per lanciarsi in un panegiricocome quelli che ho dovuto ascoltare infinite volte, e inveceno. Si limita a scuotere la testa, mormorando qualcheesclamazione. Vergès l’ha conosciuta bene, e questocommento così parco di lodi mi lascia un po’ stupita. Poimi dà una leggera pacca sulla spalla, indicando unapoltrona. Con una risatina nervosa mi accingo a seguirlo.

Ci sediamo l’uno davanti all’altra alla sua bella scrivaniaintagliata, e per qualche minuto parliamo di mio padre e dimia madre e dei ricordi che lui ha di entrambi. Finché,facendo appello a tutto il mio coraggio, entro nel meritodella morte di Shah. «Io avrei voluto montare un grossoscandalo attorno a quell’omicidio, ma ricordo che Benazirera contraria. Diceva che non potevamo sfidare la CIA e iservizi segreti pachistani che, secondo tuo padre, stavanodietro la morte di suo fratello.»2 «Perché?» gli domando,

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sinceramente curiosa. Vergès ride, e dall’espressione sulvolto capisco tutto. Perché Benazir lavorava per loro.Perché il suo potere è sempre dipeso dalla loroapprovazione. Qualche mese prima della sua morte,secondo alcuni reportage, Benazir aveva contattato laBlackwater, un’impresa di mercenari americani, peraffidarle la propria sicurezza durante quella che sarebbestata la sua ultima campagna elettorale. La Blackwater nonaveva accettato l’incarico. «Ma mio padre», domandoancora, «lui, cosa ne pensava?» «Mir era determinato,voleva fare un gran casino: ma sua sorella lo bloccò.»Nessuno pensava davvero che si fosse suicidato,conferma Vergès; era semplicemente impossibile.

Facendo appello alle mie ultime forze gli domandoancora di Raehana. «È mai possibile che fossecoinvolta?» «La causa contro Raehana era difficile»,risponde Vergès, facendo lunghe pause e parlando ininglese, a mio beneficio. «Non c’erano prove concrete,solo sospetti.» Accenno a ciò che ho letto nel fascicolodella polizia, precisando che, a quanto sono riuscita acapire, era stata proprio lei ad autoincriminarsi con la suadeposizione. Possibile che ci fosse in gioco anchedell’altro? Che Raehana, giovane vedova di soli ventitréanni, fosse stata in qualche modo costretta a fare delledichiarazioni che si sarebbero ritorte contro di lei? Ancorauna volta, Vergès si stringe nelle spalle. Mi gira la testa.Non mi aspettavo niente del genere. Pensavo che Vergèsmi avrebbe semplicemente detto, con assoluta sicurezza,che X era colpevole e Y innocente. Lui invece non mi sta

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dicendo niente del genere. Nient’affatto. A questo punto,seduta sul bordo della mia bella, antica poltrona e chinatain avanti per farmi sentire da Vergès, ma abbassando lavoce per chiedere conferma dell’inimmaginabile, memoredi ciò che Sassi mi ha raccontato qualche mese prima osochiedere: «Perché Benazir s’intestardì a chiudere il caso inmodo così poco chiaro, senza andare fino in fondo? Ciguadagnava qualcosa, lasciandolo in sospeso?». Le manimi tremano così forte che non riesco quasi più a scrivere.«È possibile», risponde Vergès, cauto.

«Perché?» Domando ancora, chinandomi ulteriormenteverso di lui e sforzandomi di non bisbigliare. È come unabestemmia, quell’idea, una cosa impossibile: ma perchénon mi risulta del tutto inimmaginabile? «È evidente chequando Mir e Shah decisero per quella linea d’azione»,risponde Vergès riferendosi all’AZO, «Benazir nonapprovò. Lei aveva scelto un’altra strada - quella dellacooperazione con l’Occidente, e soprattutto con gli USA. Isuoi fratelli invece erano contrari, anzi, osteggiavanoapertamente queste sue posizioni. Non mi stupirebbe seBenazir avesse tratto vantaggio dall’eliminazione prima diun fratello e poi dell’altro.» Le sue parole rimangono comesospese, a galleggiare fra di noi. Ho la nausea. Ma perchéin questa famiglia deve sempre essere tutto tantocomplicato? E tanto brutto, e tanto violento? Prima,parlando di mio padre, Vergès mi ha chiesto della nostrasituazione in Pakistan. Gli ho risposto che la vita è difficile,ma che noi resteremo. «Pensa come dev’essere stato,venire uccisi dalla propria sorella», mormora lui, e io sento

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che sto per scoppiare a piangere. Annuisco, dico che lamorte di mio padre ci ha spezzato il cuore. Ma poi, quandoricomincio a parlare di Shahnawaz, e viene fuori il nome diBenazir, e io gli domando che ruolo può aver avuto, lei,nell’omicidio, se ne ebbe uno… Parliamo del fatto cheBenazir non si è comportata bene nei confronti dellafamiglia di Shah, usurpandone di fatto i diritti. Ancoraquella parola. Mi ferisce le orecchie. Ma perché primaShah? Non era lui il capo, il capo era mio padre.«Secondo lei, quello che i suoi fratelli stavano facendo nonl’aiutava», specula Vergès, calmo. «Tra i due fratelli, il piùforte era indubbiamente Mir. Forse fu necessario eliminareShah proprio perché era il più debole dei due.»

Resto seduta davanti a lui, in silenzio. Avevoprogrammato di uscire con gli amici dopo questoappuntamento, sicura che avrei avuto bisogno di conforto edistrazione. Ora invece annullerò tutto. Non voglio vederenessuno. Vergès mi fissa per qualche secondo. «Somiglimolto a Mir», dice poi, e mi sembra di vedere delle lacrimenei suoi occhi. Gli sorrido, col cuore che mi batte forte.«Quand’è che Benazir diventò primo ministro?» midomanda poi, tornando all’argomento principale dellanostra conversazione. «Tre anni dopo», gli rispondo. Luiannuisce, senza dire niente. «Non volle mai che sifacessero delle indagini serie sull’assassinio di suofratello», riassumo io a voce alta, ripensando anche alleparole di Sassi. «Ahh, be’ …» sospira Vergèsappoggiandosi allo schienale della poltrona. «Forseperché sapeva già.»

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CAPITOLO 13Nel frattempo a Damasco, nostra dimora permanente

dopo l’assassinio di Shah, Murtaza soffrivaspaventosamente per la perdita del fratello. «Incontrai Mirsoltanto dopo l’estate in cui perdemmo Shah», ricordaSuhail, che aveva partecipato alla tragedia da lontano.«Era molto dimagrito. Non lo vedevo così pelle e ossa daquando eravamo ragazzi, negli anni Settanta. Era stato uncolpo durissimo, per lui.»1 Un tempo il nostroappartamentino era sempre pieno di gente. Shah vivevacon la sua famiglia al piano di sopra, Suhail, Kamar e i lorofigli erano presenze frequentissime in entrambe le case. Eall’improvviso non c’era più nessuno. Shah se n’eraandato, Raehana e Sassi erano lontane, e qualche tempodopo traslocarono anche i Sethi. Eravamo rimasti solo noi.Papà e io ci aggiravamo nella palazzina di Mezzeh comeanime perse, come due vagabondi.

Poi l’estate passò portandosi via Shah, e con l’arrivodell’autunno papà e Fowzia cominciarono a litigare. Non cela facevano più a vivere insieme, le cose fra loro eranodiventate troppo complicate. Murtaza aveva persomoltissimo, e la presenza della moglie glielo ricordavacontinuamente. Una volta presa la decisione di andare via,e di chiedere il divorzio da Fowzia, papà si sedetteaccanto a me e mi spiegò tutto per bene. Pur avendo solotre anni, io capivo che tutto ciò aveva a che fare con lo zioShah. E sapevo che non era una cosa che si potesse

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aggiustare. Ma comprendevo anche che papà era il centrodel mio piccolo mondo, e ricordo di essermi sforzata diaccogliere la notizia del divorzio senza fare storie.

Dopo quel giorno, a quanto mi è stato raccontato,cominciai ad avvicinarmi timidamente a tutte le donne con icapelli lunghi e neri che vedevo nelle stazioni ferroviarie oin libreria, e nelle quali mi sembrava di riconoscereFowzia. A volte mi confondevo e seguivo qualsiasi donnaavesse una treccia scura. Io non me ne ricordo; rammentosolo di quando papà mi parlò del divorzio. All’epocaportavo un cappotto di lana, e stavo acquisendo nuoveparole. Il vocabolo divorzio l’imparai in fretta: sapevo cosasignificava, e mi sembrava avesse un suono da grandi.

Per me è difficile scindere i sentimenti che provavoallora per Fowzia dall’immagine della donna che hoincontrato molto tempo dopo, da adolescente e poi daadulta. Mi fa paura, mi terrorizza addirittura, la mia madrebiologica. Di quando ero piccola ricordo i suoi malumori, ilsuo carattere sempre imprevedibile, la sua bellezza, lecure che dedicava ai capelli, il kohl scuro con cuisottolineava gli occhi, la consapevolezza che dimostravadella propria avvenenza. So che a metà pomeriggio mipermetteva di prendere il tè con lei, me lo zuccherava e melo allungava con il latte - credo fosse tutto lì il tempo chepassavamo insieme. I miei ricordi non si spingono oltre.Era papà a farmi il bagno, a leggermi la fiaba dellabuonanotte, a tagliarmi i capelli, a vestirmi e a comprarmidegli stivaletti uguali identici ai suoi, sempre lucidati allaperfezione. Quasi a prendere le distanze da Fowzia, io mi

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comportavo come un maschiaccio (per farle un dispetto,tagliavo con le forbici i suoi rossetti in modo da eliminarnela punta); e comunque, per me, c’era solo mio padre.

Forse è stata colpa mia. Forse il mio cuore era troppopieno, e io non l’ho mai sgombrato per fare spazio aFowzia. Ma già da bambina penso di averci provato.Ricordo un pomeriggio, o forse era mattina, in cui Fowziami chiamò da lei: era a letto, nella nostra casa diDamasco, gemeva forte, tossiva e si rigirava sotto lecoperte. «Di’ a tuo padre di comprare dell’anguria»,farfugliò con voce sonnolenta.

Uscii dalla stanza per trasmettere il suo messaggio. MaFowzia mi chiamò ancora, più forte, ululando il mio nome.«Dell’anguria», continuava a ripetere, «voglio che Mir miporti dell’anguria.» Era confusa, sembrava avesse deidolori; mi fece paura. Non potevo far niente riguardoall’anguria che sembrava desiderare tanto ardentemente:ero piccola, avevo solo tre anni. Lei però si arrabbiò conme. Non sapendo come gestire una situazione che noncapivo, mi misi a piangere. Sentendomi singhiozzare,papà entrò in camera come una furia e vide Fowziaabbandonata scompostamente sul letto. Aveva presoqualcosa, una quantità eccessiva di non so che, e stavamale. Papà mi spinse fuori.

Fowzia non aveva certo la forza di papà, quella forza dacui io, bambina, egoisticamente dipendevo. La nostra vitaera troppo intensa e fragile perché potessiconsapevolmente fare altrimenti. Fowzia è sempre stata unmistero per me. Non la capivo. E lei non capiva me. Era

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una persona strana. Esotica e raffinata, ma non forte, nonserena.

Un giorno, dopo l’assassinio di mio padre, Fowzia sipresentò al mio liceo, a Karachi, e chiese di vedermi. MrDewolf, il preside, mi mandò a chiamare durante l’ora dibiologia e mi spiegò che nel suo ufficio c’era una donnache sosteneva di essere mia madre, e che insisteva pervedermi. Mi sentii male. Mr Dewolf mi portò nell’ufficio delconsulente per l’orientamento scolastico, da dove telefonaia mamma la quale era in partenza per Larkana. Non vogliovederla, dissi nella cornetta. «Ma tu devi», risposemamma. Dopo il divorzio papà avrebbe voluto buttar viatutte le foto di Fowzia contenute negli album di famiglia, edera stata mamma a insistere perché non lo facesse. Loaveva convinto a tenerle per me. «Devi assolutamentevederla», ripeté mamma in tono gentile. Io dissi che leavrei parlato solo se lei rimandava il viaggio a Larkana eveniva a scuola per stare con me durante il colloquio.«Sarò lì tra mezz’ora», rispose.

Mr Dewolf, la cui affabile moglie era la miaprofessoressa di francese, mi mandò ad aspettare ininfermeria. «Faremo come dici tu», mi rassicurò. «Nonpreoccuparti. » Era stato lui ad aiutare mamma e me a direa Zulfi che papà era stato ucciso, il mattino dopo il suoassassinio. Anche per questo poteva capire cosasignificasse per me questa visita a sorpresa. In infermeriatutti i pazienti furono rimandati in classe e i letti restaronovuoti. Mentre aspettavo mamma andai nel bagnodell’infermeria e mi chiusi dentro con doppia mandata, in

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preda al panico. La signorina Ali, infermiera della scuolanonché mia amica, rimase con me, mi insegnò a fare deibei respiri profondi e mandò a chiamare le mie amiche piùcare affinché mi aiutassero a passare quella mezz’ora.

Ma quando, nell’ufficio di Mr Dewolf, mi ritrovai faccia afaccia con Fowzia, non mi sentii comunque a mio agio.«Tuo padre ti ha rapita», ringhiò lei mettendomi tra le maniun gigantesco cesto regalo avvolto nel cellophane. Nonerano passati nemmeno sei mesi dalla sua morte. «Seavessi voluto avrei potuto riprenderti, sai?»

Il dramma di un divorzio vecchio ormai di dieci anniriandava in scena sotto gli occhi di Mr Dewolf, al qualeavevo chiesto di restare. «Conoscevo qualcuno negli altiranghi dell’esercito americano. Mi offrirono di riportarti dame in elicottero. Tuo padre non avrebbe potuto farciniente», continuò. «Ma io non l’ho fatto, e solo per amortuo.»

Non sapevo cosa dire. Grazie? Ero sbalordita,spaventata e tanto, ma tanto arrabbiata.

Devi chiamarmi mamma, insisteva Fowzia. Io dissi chenon volevo più vederla. Mamma mi diede una gomitatasotto il tavolo. Dissi che non avevo tempo, che dovevostudiare molto, adesso che ero al liceo, e guardai MrDewolf in cerca di appoggio. Mamma disse che avreipotuto studiare la sera. Cedetti, ma a condizione cheFowzia («Devi chiamarmi mamma!» continuava a ululare,inferocita dalla mia testardaggine) mantenesse il nostrorapporto su un piano privato e lontano dai media. Lei disseche andava bene.

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Quella stessa settimana, dopo che mi fui rimangiata laparola rifiutandomi di incontrarla, Fowzia convocò unaconferenza stampa per denunciare il mio «rapimento» e il«lavaggio del cervello» cui mi aveva sottoposto la miacattiva «matrigna» per ordine di Casa Bilawal, la casa diBenazir e di Zardari a Karachi. Disse che mamma erasoltanto una domestica, che papà non l’aveva mai amata el’aveva sposata solo perché si occupasse della bambina.Chiamò Zulfi il mio «fratellastro», e disse che io ero ugualeidentica a lei. Scrisse delle lettere aperte indirizzate a me ele fece pubblicare su tutti i giornali in lingua inglese, e sirivolse a un tribunale pachistano per avere la mia custodia.Ogni mattina la bibliotecaria della scuola, una signorainglese molto gentile, toglieva dagli scaffali tutti i giornali ininglese e li nascondeva affinché io non dovessi leggere gliultimi attacchi di Fowzia contro mio padre mentre facevo icompiti. Tramite un avvocato le mandai a dire che nonvolevo rivederla mai più e che non avrei lasciato la miafamiglia per andare a stare con lei, una persona che quasinon conoscevo. «Scommetto che in meno di due settimaneti sarai dimenticata di tutti loro», mi assicurò lei, e miregalò uno smalto per le unghie al profumo di vaniglia. Inqualche angoletto del mio io ventisettenne di oggi, credo diessere ancora un po’ spaventata da Fowzia.

Il divorzio però non costituiva la parte principale dellamia piccola vita; più grande di qualsiasi altra cosa era ilvuoto creato dall’assenza di Shah.

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L’avevo visto anch’io, il corpo senza vita dello zio Shah.Non me lo ricordo. Ma subito dopo aver detto alla madreche suo figlio era morto, papà l’aveva portata sul luogo delcrimine; e siccome non c’era nessun altro che potesseoccuparsi di noi, come ho già detto, ci eravamo andateanche io e Sassi.

«Quella cosa ti restò addosso per molto tempo»,racconta mamma ventitré anni dopo, mentre a notte fondagirelliamo per la cucina in cerca di qualcosa da mangiare.«Tu ricordavi di aver visto tuo zio a faccia in giù sultappeto, ma nessuno aveva capito quanto la cosa ti avessesconvolta; finché un pomeriggio, qualche mese dopo,trovasti tuo padre addormentato nella sua camera da lettodi Damasco, anche lui sdraiato sulla pancia, come tuo zio,con il viso coperto, e cominciasti a scrollarlo, piangendo egridandogli di svegliarsi. Allora capimmo. Pensavi fossemorto, come Shah.» Io non ho alcun ricordo di aver visto ilsuo cadavere, assolutamente nessuno. Ma per anni,dormendo nello stesso letto con mio padre, mi sareisvegliata nel cuore della notte per assicurarmi che stesserespirando.

Papà era consumato dal dolore. Per un po’, a quantodicono, visse solo per me, per darmi da mangiare e farmi ilbagno e mettermi a dormire. Ma a volte capitava di vederloassorto, incapace di aprirsi un varco nei suoi stessisentimenti per tornare alla vita. Una sera era seduto nellastanza che sarebbe diventata il suo studio, un piccololocale con una libreria di vetro addossata alle finestrenascoste da tende bianche. Era in silenzio, e si passava le

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mani nei capelli come faceva sempre quando era nervosoo arrabbiato. Evidentemente c’era qualcosa che nonandava. Gli portai un giocattolo, un piccolo computerFisher Price con l’ologramma di pesci e uccelli etartarughe che cambiavano quando si premeva uno deigrossi tasti. Gli mostrai le immagini, pensando dirallegrarlo, ma non fu così. Allora mi avvicinai a lui in puntadi piedi e gli posai la testa sulle ginocchia. «Papà, cosac’è che non va?» gli domandai. Lui si sforzò di sorridere edi trovare un punto da cui cominciare. Senza Shah, sisentiva solo.

Loro due erano stati molto più vicini che non con lesorelle. Shah aveva una leggerezza di spirito che con l’etàera solo migliorata, e Murtaza era come magnetizzato dallapersonalità effervescente del fratello minore. L’allegria diShah era contagiosa. Erano molto diversi, macomplementari l’uno all’altro. Laddove Shah eraspontaneo, Murtaza era paziente; se Shah eramalinconico, Murtaza era pieno di speranza. Erano moltopiù che fratelli, uniti da un legame di sangue: eranocompagni. Compagni di lotta.

La morte di Shah spense l’incandescenza che emanavadalla nostra strana famiglia in un momento in cui aveva benpoco altro di cui rallegrarsi. Papà era come annientato.Non l’avevo mai visto così oppresso dalla tristezza prima diallora, né l’avrei mai più rivisto così.

La vita in esilio per lui era stata sopportabile solo fintantoche aveva avuto Shahnawaz con cui autocommiserarsi. Lacompagnia del fratello faceva sì che anche le lunghe

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nottate in paesi stranieri passassero in fretta. Insieme, lorodue avevano l’impressione di tornare in patria ogni voltache scherzavano insieme, quando parlavano la loro lingua,quando resuscitavano i ricordi legati al padre e al loromondo. Condividevano lo stesso sogno da esuli - il sognodi poter tornare, un giorno…

Papà aveva gli occhi pieni di lacrime. Non c’era niente arompere il silenzio, nessuno a spiegare le cose al postosuo. L’ologramma del pesce nuotava attraverso lo schermodel mio computer giocattolo, mentre io restavo in attesa.«Sono triste», mi disse quando, a disagio, cominciai adagitarmi. «Perché?» gli chiesi. Ma sapevo già la risposta.«Mi manca lo zio Shah», disse, e per la prima volta in vitamia lo vidi piangere. Poi aggiunse che quel giorno era ilcompleanno di Shah. Era novembre. Avrebbe compiutoventisette anni.

La vita a Damasco scorreva priva di difficoltà. Fui iscrittaa una nuova scuola americana, la Damascus CommunitySchool, aperta da poco nel seminterrato di un grandepalazzo sulla Mezzeh Road. Casa nostra, nella partevecchia di Mezzeh, era vicina a una grande moschea,Jamia al Akram, e a un centro sportivo. Nel palazzovivevano solo rifugiati. Ora che Shah e Suhail l’avevanolasciato, nell’appartamento sopra il nostro arrivò Omar, unnuovo vicino la cui famiglia era entrata in rotta di collisionecon l’Iraq baathista di Saddam. Ben presto Omar diventònostro amico; aveva grossomodo l’età di papà, e a volte

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loro due giocavano a squash o ammazzavano il tempochiacchierando dei loro paesi d’origine e degli avvenimentiche li avevano spinti in esilio. Solo raramente qualcunoandava ad abitare nell’appartamento del giardino, quellodel pianoterra. Gli inquilini andavano e venivano, e noipachistani e iracheni continuavamo a farla da padroni.

A volte Benazir, andando avanti e indietro tra la suafrenetica attività politica in Pakistan e le pause diricreazione a Londra con Sanam, si fermava in Siria perpassare un po’ di tempo con noi. Io la chiamavo Wadi bua,e lei mi chiamava Fah-tee, allungando il suono ah. Quandoveniva a trovarci occupava sempre la stanza degli ospiti. Iopiangevo quando andava via, allora lei mi abbracciava e iosentivo i suoi morbidi capelli odorosi di cipria e la sua pelleumida e fresca, e lei mi prometteva di tornare presto. Misedevo sulle sue ginocchia, fissavo il neo che aveva ametà strada fra la nuca e la spalla e tiravo silenziosamentesu col naso, finché lei non mi dava un bacio e mi rimettevaa terra. Fu Wadi a farmi conoscere Beatrix Potter e aleggermi un’infinità di volte Jemima Anatra de’ Stagni.

A volte fra di loro, fra papà e Wadi, mi sembrava dipercepire una tensione. Era un qualcosa di impalpabile,ma c’era. A volte papà diceva una cosa e leisemplicemente lo ignorava, e se lui insisteva a parlarne siarrabbiava. Oppure lui le parlava in tono esasperato efaceva roteare gli occhi verso di me come se pensasseche aveva detto una stupidaggine. Ma io avevo un rapportoprivilegiato con mia zia; ero troppo prepotente per nonesigerlo. In quanto prima nipotina della famiglia, e in

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esigerlo. In quanto prima nipotina della famiglia, e inquanto bambina precoce che non taceva mai, Wadiriteneva che somigliassi a lei. Lo pensava anche moltaaltra gente. «Sei in tutto e per tutto uguale a tua zia», midicevano spesso, vuoi come complimento, vuoi comeammonimento.

Appena poteva, Wadi veniva da noi per il miocompleanno, che fosse a Ginevra o a Damasco, rendendopiù solenne la mia festa. Eravamo entrambe del segno deiGemelli, anche se il suo compleanno cadeva dopo il mio (èuna strana coincidenza che tutte e tre le donne amate damio padre, più la sua grintosa sorella maggiore e la suaprepotente figliola, fossero dei Gemelli. Non so cosaquesto particolare possa dirci di lui. O di noi).

Eravamo amiche, Wadi e io. Ci piacevano gli stessidolci stucchevoli - gelato con scaglie di cioccolato allamenta, bucce di mela candite e marron glacé; fino a ogginon ho mai conosciuto nessun altro cui piacessero lecastagne glassate. Soffrivamo degli stessi piccoli problemidi salute, principalmente otiti, e come tutti i primogeniti cisentivamo esageratamente importanti.

In quanto ragazzina precocemente insonne (l’insonnia èun po’ la maledizione di famiglia), quando cercavo diaddormentarmi accanto a papà lui mi metteva paura conuna mia versione personale dell’uomo nero, il dottorAlfonso, un dentista dai lunghi baffi e dai capelli neriimpomatati che andava dai bambini cattivi che nonvolevano dormire per strappar loro tutti i denti. Aveva unavoce nasale, e se non volevo andare a letto suonava ilcampanello e chiedeva di me. Pochi minuti di esposizione

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campanello e chiedeva di me. Pochi minuti di esposizionealla sua voce raccapricciante e scappavo via come illampo. Un mattino, dopo aver ricevuto nel cuore della nottela visita di questo mio babau, domandai a Wadi se anchelei conosceva il dottor Alfonso. Qual era il suo veroaspetto? Era vero che portava sempre con sé delletenaglie? E lei, di chi aveva più paura: di lui o del generaleZia? «Di cosa stai parlando, Fah-tee?» disse lei. Deldentista, insistetti io, parlo del dentista cattivo che ieri notteè venuto a cercarmi per strapparmi i denti. «Ma non esistenessun dottor Alfonso!» disse Wadi, ridendo forte. «Erasolo tuo papà che, fuori dalla porta in pigiama, suonava ilcampanello come un pazzo!»

Non affrontai papà se non quando cercò nuovamente diminacciarmi con la storia del dottor Alfonso. Ero quasisicura che Wadi mi avesse solo presa in giro.

Cominciai la scuola dell’infanzia: facevo amiciziafacilmente. Il mio primo amico fu un bambino di nome Aliche ben presto cominciò a passare il fine settimana da noi,e sempre chiedendo a papà di preparargli delle uova fritte.Anche i suoi genitori diventarono buoni amici della miafamiglia, e fra noi costituimmo una piccola cerchia.

Vivevamo in Siria come ospiti del presidente Hafez alAssad, e in quanto tali ci era stata assegnata una grandeChevrolet bianca con cui andare in giro per Damasco.Papà metteva spesso una musicassetta di Elvis Presley odella Motown, e ce ne andavamo al Noura Supermarket diAbu Roumaneh cantando in coro le loro canzoni.Facevamo anche delle puntate speciali da Apollo’s, vicinoal Cham Hotel, per mangiare del gelato artigianale al

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al Cham Hotel, per mangiare del gelato artigianale alpistacchio e alla fragola. Papà correggeva sempre la miapronuncia: si dice «stro-be-ri», non «stra-bri». Io avevoancora un accento americano che mio padre, formato allagrammar school, cercava con pochissimo successo difarmi perdere. Si dice «fo-ti» non «forti». Nei mesi estiviandavamo nella città vecchia a comprare certi frutti dicactus, sabarra in arabo, che lo zio Shah ci avevainsegnato a mangiare. Li tenevamo in frigorifero, in unaciotola, perché si mangiavano freddi.

A volte papà, mentre mi parlava del Pakistan, disegnavaritratti di Zia e del suo primo ministro. Li faceva semprecon gli occhi vuoti e i baffi a punta. Mi spiegava cos’erasuccesso prima a mio nonno e poi a mio zio. Allora io glidomandavo se noi due eravamo al sicuro, e lui mi baciavae mi diceva che certo, lì a Damasco eravamo al sicuro. Lasera, prima di andare a dormire, si chinava a frugare sottoil letto come se cercasse qualcosa. Una volta gli domandaicosa stesse cercando e lui mi rispose che stava solocontrollando per assicurarsi che là sotto non ci fosse nientedi pericoloso. Io pensavo a una bomba. O a un uomo conla pistola. Non ebbi mai abbastanza coraggio da guardarea mia volta, ma quando papà aveva completato la suaricerca serale provavo sempre un grande sollievo.

Fu un’infanzia strana, ma bella. Nonostante il gioco diguardie e ladri cui giocavamo nella realtà, sempre con lapaura di essere scoperti, con il rischio di fare la stessa finedi Shah e con tutte le altre minacce che erano unacomponente fissa della nostra vita, a volte potevo

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addirittura dimenticare che eravamo diversi dagli altri, io emio padre. Insieme guardavamo i film di James Bond(Sean Connery era il nostro attore preferito) e mangiavamocioccolata prima di cena. A volte, mentre dormivo, papà midisegnava sul viso un bel paio di baffi con un pennarelloverde, e all’ora di andare a scuola mi svegliavo con quelverde spalmato su tutta la faccia, e insieme cercavamo poifreneticamente di cancellarlo con l’acqua calda prima delsuono della campanella. All’ora di andare a letto papà mileggeva delle storie, inventando buffi accenti per ciascunodei personaggi, oppure io lo intervistavo con un microfonogiocattolo. Da grande volevo fare la giornalista, adoravoleggere e scrivere. Lui mi rispondeva sempre con ilmassimo della serietà, prendendosi il tempo di riflettere frauna risposta e l’altra e tacendo scrupolosamente finchénon avevo formulato la mia domanda.

Una volta, mentre stavamo ascoltando alla televisione lenotizie sulla prima intifada palestinese, osservando il suoviso vidi che stava cambiando espressione. Gli domandaicosa stessero trasmettendo sullo schermo, e allora lui miprese in braccio e mi mise a sedere sulle sue ginocchia.Mi chiamava sempre Fatushki quando era d’umorescherzoso e aveva voglia di giocare, Fati quandofacevamo i seri e gli intellettuali e Fatima quando eraarrabbiato con me. Disse che quella gente che vedevo allaTV, tutte quelle persone che si coprivano il naso e la boccacon uno scialle a scacchi bianchi e neri per proteggersi dalfumo, erano proprio come noi. «Non hanno più una casaloro, e vivono da rifugiati. Tu, Fati, devi pensare anche a

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loro nelle tue preghiere, quando ti rivolgi a Dio, e devichiedergli di aiutarle a riavere la loro patria, proprio comenoi.» Ci pensai un po’ sopra e poi chiesi ancora: «Ma sequando mi rivolgo a Dio mi ricordo dei palestinesi e glichiedo di aiutarli a tornare nella loro patria, non è che alloraLui si dimenticherà di noi?».

Perché sapevo perfettamente che noi eravamo gentesenza terra; sapevo che venivamo da qualche altro posto,un posto che io non avevo mai visto. A volte papà, quandogli veniva voglia di ascoltare i suoni della sua terra, mettevadelle vecchie canzoni popolari sindhi, il più delle volte HoJamalo. Come tovaglia usavamo degli ajrak, tradizionaliscialli stampati sindhi, e quando cucinava l’achar goshtpapà lo faceva sempre troppo speziato. A ogni pasto, chesi trattasse di hummous o di pizza, in mezzo al tavolo c’erasempre un piatto di sikharpuri achars, sottaceti fatti veniredal Sind. Di solito con me non parlava in urdu,condividevamo la nostra vita e i nostri pensieri in inglese,ma quando era arrabbiato e alzava la voce lo sentivoemettere dei suoni stranissimi, a me del tutto sconosciuti, eche sembravano uscire da un altro uomo. Allora michiamava drama-bazee , o mi diceva di smetterla disaltellare qua e là come una junglee. Prima del sonnellinopomeridiano mi aveva insegnato a camminargli sullaschiena, e ricambiava il favore con il thadara, facendomiscorrere le dita lungo la schiena finché non miaddormentavo.

Al risveglio, mentre si faceva la barba, insistevo per

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essere inclusa anch’io in quella operazione. Allora papà miinsaponava la faccia con una piccola quantità di schiuma,mi dava un rasoio di plastica senza lama e ce ne stavamodavanti al lavabo a farci la barba insieme. Questo giocoandò avanti finché non ebbi almeno sei anni. Dopo il ritodella barba io mi aggiravo per la stanza con i suoi stivali aipiedi e una delle sue camicie addosso, e gli portavocravatta e gemelli. Gli lucidavo perfino le scarpe. Papà eramolto meticoloso in tutto ciò che riguardaval’abbigliamento, ma in segreto trovava noiosa quellaroutine di lucidarsi le scarpe che pure consideravaassolutamente necessaria se voleva essere «vestito ecalzato», come diceva sempre riprendendo l’espressioneusata durante l’infanzia sua e di Shah, quando erano idomestici a stirare i loro vestiti e a preparare i loro abiti dasera. Accanto a lui, però, c’ero io, ansiosa di servirlo intutto ciò di cui potesse avere bisogno. Gli lucidavo glistivali con grande passione, prendendomi tutto il temponecessario per renderli brillanti esattamente come li volevalui. Papà era l’anima del mio mondo. Ogni sera, prima chemi addormentassi, mi diceva che mi voleva bene eribadiva che sarebbe morto se mi fosse successoqualcosa di male. Si sarebbe ucciso, diceva. «Anch’io,papà», rispondevo, e mi giravo sul fianco per dormire.

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CAPITOLO 14Mio padre s’innamorò di mamma in ascensore. Ogni

giorno io e lui facevamo una scappata al Cham Hotel,vicino alla Banca Centrale di Damasco, per una nuotata inpiscina. Eravamo anche gli ultimi ad andarci, in autunnoinoltrato, se c’era ancora abbastanza caldo per un tuffo.Papà mi aveva insegnato a nuotare una prima voltaquando avevo due anni, ma poi ogni estate mi dimenticavocome si facesse e doveva insegnarmelo daccapo. Neigiorni più soleggiati, quando eravamo sicuri di averetempo in abbondanza per nuotare, papà giocava anche asquash, a un passo dalla piscina, mentre io sguazzavo inacqua. Il centro sportivo ospitava anche il corso diaerobica di mamma.

Il 15 novembre 1986 eravamo dunque sul bordo dellapiscina del Cham. Io indossavo un costume giallo, papàdei pantaloncini da bagno rossi. Ghinwa Itaoui avevaventiquattro anni ed era libanese: anche lei era esule,come noi. Era cresciuta durante la guerra civile, e quando ibombardamenti e il fuoco incrociato dei cecchini si eranofatti troppo intensi aveva dovuto lasciare la scuola e andarea vivere nella cantina di casa dei suoi, proprio sulla LineaVerde, imprigionata fra Beirut Est e Beirut Ovest. Primache compisse vent’anni gli israeliani avevano invaso il suopaese, e Beirut non era più stata un campo di battaglia concui i suoi abitanti se non altro avevano familiarità.

Poi Ghinwa aveva lasciato Beirut per Damasco, dove

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lavorava come receptionist e insegnava danza classicaalle bambine nel seminterrato di una chiesa cattolica diAbu Roumaneh. Quel pomeriggio di novembre vide unuomo nuotare in piscina con la figlioletta. Furono proprio isuoi capelli brizzolati, racconta, ad attirare la suaattenzione e a farle notare quel signore alto e abbronzato.Quando ce ne andammo, anche Ghinwa stava uscendodalla palestra in cui, due volte la settimana, dava lezioni diaerobica, vicino al campo da squash. Murtaza indossavauna maglia color blue marine a righine con sotto unacamicia rosa, e il profumo della sua colonia Grey Flannelriempiva il piccolo vano dell’ascensore. Mentre salivamoSuhail, venuto a trovarci, restò pazientemente in silenziomentre io chiacchieravo con mio padre. Ghinwa notò lagentilezza con cui l’uomo dai capelli brizzolati rispondevaalla sua bambina, e l’attenzione con cui ascoltava le suerisposte. «Parlava un ottimo inglese, senza il minimoaccento. Ma non sembrava l’inglese del Regno Unito; nonriuscivo a capire da dove venisse».1

Poi ricordo: «Credo fosse giovedì, due giorni dopo,quando lo rividi». Mio padre e Ghinwa avevano un amico incomune, un chiassoso dentista di nome Mazen Aloush,vecchio amico della famiglia di lei - conosceva bene i suoigenitori e altri suoi parenti rimasti in Libano - e conoscenzarecente per Murtaza, che gli era stato mandato inoccasione di un mal di denti. «Stavo raggiungendo la miaclasse di aerobica quando Mazen mi venne incontro. Erapassato solo per salutarmi, e come sempre cominciò a

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scherzare chiedendomi di presentarlo a qualcuna delleragazze che stavano arrivando per la lezione. Gli dissi dichiudere il becco. Mazen era sposato, mi avrebbe solofatto perdere tempo. Ma lui si chinò su di me e sussurrò:“Di’ un po’, se tu mi fai conoscere una delle tue amiche, incambio io ti presento un mio amico”». Gli ressi il gioco:pensai che stesse scherzando, come sempre. “Chi?”, e luimi indicò l’uomo con i capelli brizzolati. Mir stavacamminando verso la piscina, e tu gli correvi accanto con iltuo costumino. Dissi: “Lo sai che non esco con uominisposati”. “Non è sposato”, ribatté lui: “è divorziato”. Avevaun sorriso da un orecchio all’altro. Lo lasciai lì impalato eme ne andai dalle mie ragazze.»

Terminata la lezione di aerobica, Mazen accompagnòGhinwa al tavolo dove Murtaza era seduto con alcuni amici.Le presentò tutti con il titolo di «dottore», un arabismo concui cercava solo di creare confusione dato che in realtàl’unico vero dottore era proprio lui. Ghinwa si mise asedere. Era alta, più di un metro e settanta, e portava ilucidi capelli neri acconciati in fitti riccioletti. Era moltobella.

«Dottore in che cosa?» chiese a Murtaza, rompendo ilsilenzio fra loro. Lui sorrise e le rispose: «Economia». Eratimido, ma gentile. Ghinwa scoppiò a ridere. Ma è ridicolo,pensò: cosa ci fa un economista nella Siria socialista? Poilui le disse che veniva dall’Afghanistan, e anche questaseconda informazione le sembrò poco credibile. Per un po’chiacchierarono, e Ghinwa gli chiese come si chiamassela sua bambina. «Fah-tima», rispose lui. «Ah, Fa-ti-ma»,

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ripeté lei con voce melodiosa, pronunciando il mio nomealla maniera araba, e si voltò per cercarmi, quandoall’improvviso sentì la mia piccola mano dietro la schiena:senza farmi notare ero sgattaiolata dietro di lei e avevoinfilato le mani sotto il suo cuscino. Ero molto protettiva neiconfronti di mio padre: da quando potevo ricordareeravamo sempre stati io e lui da soli, e volevo vedere unpo’ più da vicino la bella signora con cui stava parlando.«Ciao, Fa-ti-ma», disse Ghinwa dolcemente. Io abbassai ilmento sul petto e la guardai storto per tutto il resto delpranzo.

Qualche ora dopo Mazen e Ghinwa presero un taxiinsieme in quanto lui si era offerto di accompagnarla acasa a Muhajirin, un quartiere di Damasco nascosto fra imonti Qasiyoon. «In macchina gli dissi: “Ma Mazen, non haalcun senso”, riferendomi al fatto che Murtaza avevadichiarato di essere un economista. “Chi è, in realtà?” “Èvero”, disse lui, “non ha alcun senso. Ma tu, dovevi propriofargli tutte quelle domande?”.» A quel ricordo mammascoppia a ridere. A volte mi sembra di vivere solo persentirla ridere. Ride con le costole, da un punto profondodentro di lei, e tutta la faccia le si raggrinzisce dal piacere.

Quando aveva insistito a interrogare Murtaza sul suodottorato in economia, Mazen le aveva dato un calcio sottoil tavolo per farle chiudere la bocca. In taxi il suo amico leraccontò chi era in realtà Murtaza Bhutto: tutt’altro che uneconomista, bensì un esule pachistano figlio del primoministro assassinato. «Per me Zulfikar Ali Bhutto è semprestato un eroe», racconta mamma mentre ce ne stiamo

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sedute nel vecchio spogliatoio del nonno, uno spazio checol tempo abbiamo trasformato in una sorta di salottino.«Se l’eroismo avesse un volto, per me sarebbe il suo. Dabambina lo guardavo alla televisione: avrò avuto dodicianni quando lo vidi la prima volta. Tutto il mondo araborimase schifato quando Zia ul Haq decise di farlogiustiziare, e poi lui morì in modo tanto coraggioso, da verouomo. » I genitori di Ghinwa erano marxisti: sua madreKafia, figlia di un rispettato sceicco, era insegnante epoetessa, mentre suo padre Abboud, ingegnere, negli anniQuaranta aveva combattuto con i nazionalisti libanesi percacciare i francesi. Era gente che conosceva la sua storia.Mazen le fece giurare di mantenere il segreto: non dovevaassolutamente dire a Murtaza che aveva scoperto la suavera identità. Anche lei era esule, quindi poteva capire che,se era stato costretto a lasciare la sua patria con laviolenza, poteva non avere particolarmente voglia diparlarne. Lei non toccò più l’argomento, nemmeno conMazen.

Qualche giorno dopo, quando Ghinwa tornò al centrosportivo per le lezioni di aerobica, Murtaza era in piscinada solo. Finita la lezione, lui la invitò a bere qualcosa.Chiacchierarono un po’, dopo di che lui le fece qualchedomanda sulle sue lezioni di danza classica. «A quale etàpossono cominciare, le bambine?» le chiese. Ghinwaaveva deciso di non accettare allieve che avessero menodi cinque anni, ma sapeva che, a voler rispettarerigidamente la regola, la figlia di Murtaza avrebbe persol’inizio del corso per soli sei mesi. «Quattro e mezzo»,

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rispose, e io fui iscritta ufficialmente alle lezioni di ballo.La chiamavo «zia Ghinwa», e ben presto diventammo

amiche. «Quando Mir mi invitò di nuovo a pranzo,passammo a prenderti a casa dove eri rimasta perché eriammalata. Indossavi uno di quei pigiamini da bambina estavi facendo delle farfalle spremendo tubetti di tempera inmezzo a un foglio piegato in due. Ne avevi coperto quasitutto il pavimento del salotto. Io le guardai e ti chiesi se leavessi dipinte tu. Facesti segno di sì con la testa,orgogliosissima che il tuo lavoro fosse stato notato, anchese in realtà sarebbe stato impossibile non vederlo: eradappertutto! Tuo padre ti portò nell’altra stanza percambiarti, ti mise un cardigan blue marine e ce neandammo a cena allo Sheraton.»

Lo Sheraton era l’unico vero albergo in città. Il Chamteneva la piscina aperta più a lungo, ma a quel temponessun altro hotel batteva lo Sheraton quanto a qualità. Eratutto foderato di piastrelle beige e nere e offriva la migliorcucina della città; o almeno così ritenevamo noi forestieri.Quel giorno però, con la scusa della malattia, io erodecisissima a non mandar giù nemmeno un boccone. Miammalavo continuamente, da bambina, avevospessissimo febbre e influenza, prendevo tutti i virus concui entravo in contatto. E facevo anche moltissime storieper mangiare: più che altro piluccavo, a meno che non sitrattasse di un dolce. La cosa dava molto fastidio a miopadre, e le poche volte in cui si arrabbiava davvero con meera sempre per via del cibo. Quando ciò accadeva io mirifiutavo del tutto di mangiare, e lui cercava di ingozzarmi a

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forza. Un sistema che non funzionava mai a lungo, perchétrovavo sempre il modo di rigettare quel che ero statacostretta a ingoiare. Era impossibile indurmi a mangiarecome si deve, e anche trucchi e giochetti non ottenevanoniente - la loro funzione, per me, era trasparente. Quelgiorno papà minacciò di mandarmi da Fowzia se non midecidevo a mangiare. Ghinwa lo sentì e pensò che fosseuna minaccia davvero crudele. Io mi spaventai,ovviamente, ma non cedetti e continuai a rispondergli malenel momento stesso in cui mi sottomettevo alla forza dellaminaccia. Mi infilai in bocca quattro o cinque cucchiaiate dicibo, guardandolo con la fronte aggrottata, arrabbiata conlui perché mi aveva messo in imbarazzo davanti alla mianuova amica.

Dopo pranzo papà doveva portarmi dalla dottoressa,una gioviale signora dall’ hijab bianco che si chiamavaLemia Nabulsi. Mentre eravamo in macchina, zia Ghinwaprese a canticchiare le lettere dell’alfabeto e io mi unii a lei.Quando raggiungemmo Jisr al Abiad, la zona di WhiteBridge, nel centro di Damasco, dove la pediatra aveva ilsuo ambulatorio, mi tenni aggrappata alla mano di ziaGhinwa. Lei e papà si fermarono a un incrocio persalutarsi; Ghinwa doveva andare da Mazen, in ufficio, e noidalla dottoressa. Io però non le lasciai andare la mano efeci per allontanarmi con lei. «Okay, Fati, ci vediamodopo», disse papà; solo allora mi resi conto che stavoandando nella direzione sbagliata. Tornai di corsa da lui egli diedi la mano. «Non so di chi mi innamorai prima, se dituo padre o di te», racconta mamma ventitré anni dopo, nel

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vecchio spogliatoio/salottino del nonno.Per un po’ Murtaza e Ghinwa si corteggiarono cucinando

l’uno per l’altra: Murtaza cercava di preparare i chaplikebab alla pachistana con ingredienti comprati alsupermarket siriano (dimenticandosi di marinare i semi dimelograno e di coriandolo e regalando così alla sua dolcee inconsapevole metà un immediato mal di stomaco),mentre Ghinwa preparava dei piatti libanesi troppo salati.Io facevo da terzo incomodo a quasi tutti i loroappuntamenti, se non a tutti. Dopo qualche settimana diincontri, Murtaza le chiese di poter conoscere i suoigenitori. «Era così corretto», racconta mamma, ripensandoal momento in cui Murtaza mise piede per la prima voltanell’appartamento di Muhajirin, sobriamente arredato contanti ricordini della loro casa di Beirut. «Portò anche te, e iolo presentai ai miei genitori come il dottor Khalid, il suonom de guerre a Damasco. Mir aspettò che avessi finito epoi disse no, questo non è il mio vero nome. Io sono MirMurtaza Bhutto, figlio di Zulfikar Ali Bhutto. Poi disse aimiei di non preoccuparsi, che con lui sarei stata in buonemani.» Jiddo, così ho sempre chiamato mio nonno, con laparola araba che significa appunto nonno, ne ricavò unabuona impressione. Era l’unico uomo in una famiglia dicinque donne - tutte figlie femmine, tutte chiacchierone edifficili di carattere. Teta, nonna, fu più cauta: quandoconobbe Mir «fece finta di non sapere l’inglese», ricordamamma, ridendo, «per smascherarlo». Io invece le piacquisubito, e noi tre creammo fin dall’inizio un legame molto

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solido.Da quel momento in poi, ogni volta che papà doveva

partire per i suoi viaggi politici io andavo a stare con tetaKafia e jiddo Abboud. Non sono del tutto sicura di come lichiamassi allora, prima che diventassero ufficialmente imiei nonni, ma so che per me hanno sempre incarnato unasorta di calore familiare. Mamma dice che sapevobenissimo come attirare la loro attenzione anche senzachiamarli in alcun modo, ma la verità è che ho semprepensato a loro come ai miei nonni e basta. In quelleoccasioni zia Ghinwa portava a casa dei nonni il miotelevisore a colori - loro ne avevano solo uno piccolo ebianco e nero -, i miei vestiti e una certa marca di latte allafragola che a volte era l’unica cosa che mangiavo. Dopo lascuola andavo dritta da loro e passavo il pomeriggio conteta a mangiare zaatar, il timo tritato con l’olio d’oliva che sitrovava sempre sul loro tavolo della colazione in ciotoline divetro. Dopo di che facevo del mio meglio per aiutarla con ilbucato, probabilmente aumentando solo il suo carico dilavoro. Una volta, mentre papà era via, mi ammalai.Dovevo fare le analisi del sangue e prendere degliantibiotici per far scendere la febbre. Sfinita, mi misi apiagnucolare. «Voglio andare a casa», dissi a zia Ghinwa,la quale non capì di cosa stessi parlando poiché, proprioperché ero ammalata e volevo avere le mie cose attorno ame, avevamo già deciso di passare la notte da me. «Masei a casa…», disse dolcemente, lei che di notte miparlava sempre in un sussurro. «No, questa non è casamia! La mia casa è in Pakistan!» risposi io piangendo

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mia! La mia casa è in Pakistan!» risposi io piangendosempre più forte. E dire che in Pakistan, io, non c’ero maistata.

Per noi il Pakistan era come un fantasma semprepresente. Come Zia. Come Zulfikar. E come Shahnawaz.Mio padre e io portavamo sempre con noi un bagaglioinvisibile, molto amato e molto temuto al contempo.«Quando Murtaza e io ci conoscemmo, la morte di Shahveniva ancora fuori molto spesso nella conversazione. Ioperò non sapevo quanto la cosa lo avesse sconvolto. Locapii solo un anno dopo, quando qualcuno fece il nome diSassi e lo vidi piangere. Fu la prima delle uniche due voltein cui lo vidi piangere. Più tardi mi disse che non volevache io pensassi che mi dava per scontata, ma che se nonmi aveva chiesto subito di sposarlo era solo perché nonera passato abbastanza tempo dalla morte di suo fratello -due anni - e che ci eravamo sposati non appena queltempo gli era sembrato adeguato.»

Il 17 agosto 1988 il generale Zia ul Haq e altri cinque altipapaveri dell’esercito, fra cui Akhtar Abdur Rehman,presidente del Comitato dei capi di stato maggiore ed excapo dell’agenzia di controspionaggio ISI (Inter-ServicesIntelligence, che aveva combattuto la guerra in Afghanistanper conto della CIA), Arnold Raphel, l’ambasciatoreamericano, e il generale Herbert M. Wassom, capo dellamissione americana in Pakistan, arrivarono alla basemilitare di Tamewali per assistere al collaudo del nuovo

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carro armato americano MI Abrams.2 Collaudo che sirisolse in un fiasco assoluto, perché i nuovi supertankmancarono l’obiettivo dieci volte su dieci.3 C’era ben pocoda festeggiare dunque, e gli importanti ospiti erano dipessimo umore. Il pranzo fu servito alla mensa ufficiali, ecome dessert ci fu il gelato. Poi Zia chiese permesso eandò a recitare le preghiere, cosa che non mancava mai difare. Infine radunò di nuovo i suoi ospiti alla scaletta delPak One, l’aeroplano presidenziale, che doveva riportarli aIslamabad.

Era lo stesso aereo che Al Zulfikar aveva mancato perun soffio nel 1982, ma nel frattempo le misure di sicurezzaerano aumentate. Il Pak One era un Hercules C-130 difabbricazione statunitense, con uno scompartimento VIP atenuta stagna - ma dotato di aria condizionata - perproteggere il suo potente passeggero da qualunqueattentato. 4 In cabina di comando c’erano quattro membridell’equipaggio: il capo pilota Mashood Hassan alcomando, un copilota, un navigatore e un ingegnere, tuttiselezionati personalmente da Zia. Lo stesso equipaggioaveva già volato esattamente sulla stessa rotta il giornoprima, per assicurarsi che non ci sarebbero stati vuotid’aria nel momento in cui ci sarebbero passati con ilpresidente.

Alle 15.46 il Pak One decollò da Bahawalpur, in perfettoorario. Il volo per Islamabad era previsto tranquillo e senzaproblemi. Ma già a pochi minuti dal decollo l’aereo nonrispose alla torre di controllo dello scalo di partenza. «A

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diciotto miglia dall’aeroporto, vicino a un fiume, alzando gliocchi al cielo gli abitanti di un villaggio videro il Pak Onebeccheggiare come su delle invisibili montagne russe»,scrisse Edward Jay Epstein in un articolo pubblicato unanno dopo su «Vanity Fair». «Poi l’aereo fece tre giri dellamorte e piombò sul deserto, affondando nel terreno. Infineesplose, e quando tutta la benzina si fu incendiata diventòun’immensa palla di fuoco. Tutte e trentuno le persone chesi trovavano a bordo persero la vita. Erano le 15.51.»5

Del generale Zia, l’uomo che per dieci anni aveva strettofra i suoi artigli tutti i settori della società pachistana,restava solo l’osso della mandibola. Sul luogo del disastronon furono rinvenuti altri suoi resti.

Il cielo era perfettamente limpido, il clima soleggiato, e lapossibilità di un errore da parte del pilota fu prestoscartata. All’epoca corse voce che sul Pak One fosse statacaricata una partita di manghi imbottiti di esplosivo. Ilpopolo mormorava che fosse stata una cassetta di fruttaad abbattere finalmente il dittatore.

Secondo Epstein non ci furono «richieste di vendetta, nétentativi di contro-colpo di stato, né un vero sforzo diidentificare gli assassini. In Pakistan, nel giro di pochigiorni, i nomi di Zia e di Rehman sparirono semplicementedalla televisione, dai giornali e dagli altri media».6 Ilcomitato d’inchiesta dell’aviazione militare dichiarò che «lacausa più probabile» dell’incidente era il «sabotaggio»;ma ben presto le indagini furono abbandonate.7 Di fatto,nessuno cercò seriamente di capire cosa fosse successo.

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Quella, d’altronde, era stata a lungo una procedurastandard: c’era un assassinio, ma nessuno ne conservavao archiviava la documentazione. Niente. Ancora una voltala violenza era risultata il modo più semplice per liberarsi diun uomo politico, per quanto odioso. Gli archivi nazionalistatunitensi possiedono circa duecentocinquanta pagine didocumenti relativi all’incidente, ma sono ancora secretati. 8Ufficialmente Al Zulfikar, che aveva cessato ogni attivitàdopo la morte di Shah, si era sciolto. Conoscendolo, soche mio padre sarebbe stato deliziato di apprendere cheAZO era fra i molti gruppi citati in relazione all’incidenteaereo in cui era morto Zia: ma il fatto è che la lororesistenza simbolica alla tirannide era finita da tempo. Lasperanza, come sempre, non era durata a lungo.

Imbaldanzito dal suo nuovo ruolo di capo formalmente«democratico» di un governo autoritario, Zia aveva giàfatto il passo di indire le elezioni per il 1988. Anzi. Avevaaddirittura avviato dei negoziati con Benazir, che stavoltanon intendeva certo rinunciare alla sua fetta di potereboicottando le elezioni come nel 1985. Per lei fu unafortuna pazzesca, la sua consueta fortuna sfacciata, cheZia morisse poco prima delle elezioni. Perché lei si erapreparata per essere il suo primo ministro.

Murtaza aveva già parlato con la sorella di questadecisione di negoziare la condivisione del potere con lagiunta. Lui era assolutamente contrario. Ricordo benequesta conversazione: «Cosa significa, per te,“partecipare”?» le aveva chiesto papà, quasi gridando.

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«Davvero vuoi essere il primo ministro di Zia?»Io ero ancora piccola, avevo solo sei anni. Eravamo a

Ginevra, l’estate stava per cominciare e tutta la famiglia siera riunita per stare un po’ insieme. Papà era un uomoappassionato, ma sapeva controllare le sue emozioni. Nonalzava mai la voce, non imprecava, non esagerava mai.Aveva la calma sicurezza di chi sa che le cose, prima opoi, gli daranno ragione. Ricordo che stavamo mangiandola pizza. In un attimo l’atmosfera si fece scura e tesa.Benazir non era affatto controllata come papà, ma anchelei aveva l’aria di chi è abituato ad avere ragione. «Guardache io ho un piano», disse lei. Papà era molto arrabbiato.Io ero preoccupata, non l’avevo mai visto così sconvolto.Poi cominciò a parlare, in tono irato, e ricordò i morti,Shah, Zulfikar, i molti che avevano perso la vita sotto Zia equelli, ancora più numerosi, che ancora soffrivano percolpa sua. Chiusi gli occhi per non lasciar entrare dentro dime le cose che papà stava dicendo. Ma lo sentiiugualmente parlare di sé come se fosse già morto. Losentii, e subito lo chiusi fuori. In piedi dietro la sua sedia,aggrappata allo schienale, cercavo di abbracciarlo.

Non sopportavo di sentire papà accennare al momentoin cui non sarebbe più stato con noi. A volte diceva:«Quando morirò…», e allora io mi arrabbiavo e litigavamo.«Tutti muoiono, prima o poi!» insisteva lui, ridendo per farsì che quell’argomento suonasse semplice e naturale; maio lo odiavo quando parlava così. E ora ecco papà,arrabbiatissimo, litigare con sua sorella, che lui chiamavaPinky, perché stava per capitolare davanti al miraggio del

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potere, la prima di una lunga serie di capitolazioni. «Io nonce la faccio più a restarmene fuori a guardare», dichiaròlei. «Dobbiamo andare al governo. È la mia grandeoccasione, e non intendo perderla. Non possiamo andareavanti così.» Poi accennò all’argomento soldi, sostenendoche bisognava farne un po’, e a questo punto papàesplose.

Disse che lui si rifiutava di collaborare con la campagnaelettorale del partito. Che non avrebbe dato consigli né asua madre né a sua sorella, né avrebbe propostocandidati, né le avrebbe sostenute in nessun altro modo.Murtaza e Benazir parlarono solo un’altra volta delleelezioni del 1988. Lui era di nuovo arrabbiato perché leiaveva scelto suo marito, Asif Zardari, come candidato perla circoscrizione di Lyari, cuore della base elettorale delPartito del popolo a Karachi. «È per gli operai, è la lorozona, Pinky: come hai potuto metterci lui?» le domandò.Lei si offese e la conversazione finì lì.

Dire che Asif Zardari aveva alle spalle un passato riccodi chiaroscuri sarebbe un delicato understatement.Benazir era sulla trentina quando cominciò a prendere inesame alcune proposte di matrimonio; ed era la primadonna nella nostra famiglia a scegliere un matrimoniocombinato. Ma le sembrava poco appropriato restaresingle quando tutti i giorni doveva lavorare a strettocontatto di gomito con degli uomini, e con la prospettiva diascendere presto a una delle più alte cariche dello stato;sarebbe potuto risultare dannoso per la sua reputazione.Mamma ricorda che una volta, a Damasco, Benazir si

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lamentò di avere ben poche possibilità - chi l’avrebbesposata, forte e potente com’era, accettando un posto disecondo piano nella frenetica vita pubblica di una donnaprimo ministro? Chi poteva essere abbastanza forte datenerle testa? «Aveva preso in considerazione ancheYasser Arafat», ricorda mamma, e un sorrisetto ironico lesi allarga involontariamente su tutta la faccia: «Lui sì che lesembrava un compagno adatto a lei».9 Secondo ipettegolezzi di Karachi, fu il segretario personale di Zia,Roedad Khan, a suggerire alla madre di Asif di farpervenire a Benazir una proposta di matrimonio nell’annoin cui quest’ultima stava cercando di combinare le proprienozze; dopo di che la madre di Asif aveva girato l’idea aManna, sorella di Zulfikar e unica dei suoi fratelli ancora invita, la quale fece il resto del danno. Il dottor Sikandar Jatoidi Larkana, città natale dei Bhutto, arriccia il naso a sentirparlare di Zardari: «Era un volgare ragazzaccio di strada.Prima del matrimonio, chi l’aveva mai sentito nominare?Nessuno».10

Suhail cerca di esprimersi con più diplomazia: «Suopadre, Hakim Zardari, si era candidato alle elezioni del1970 per il distretto di Nawabshah - una città centenaria,poi ribattezzata Shahid Mohtarma Benazir Bhutto pervolontà del presidente Zardari «e per questa ragione eraentrato nel PPP. Secondo alcune voci, forse semplicileggende metropolitane, Mr Bhutto non aveva simpatia perlui - anzi, una volta l’aveva umiliato addirittura picchiandoloin pubblico - non voglio entrare nel merito, ma di fatto

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queste voci sono circolate. Poi, mentre Mr Bhutto eraancora in vita, questo Hakim è uscito dal PPP - o l’hannobuttato fuori, a seconda delle versioni - e ha cambiatocompletamente bandiera entrando nel National AwamiParty, uno dei partiti che all’epoca osteggiavano i Bhutto, ediventando capo della sezione del Sind». Suhail, semprecauto e prudente, si schiarisce la gola prima di continuare:«Il NAP faceva parte dell’alleanza che perseguitava tuononno, e sostenne il colpo di stato di Zia al grido di:“Impiccare Bhutto non una, ma cento volte” e “Raddoppiareil nodo al collo di Bhutto”». Dunque Hakim stava con ilNAP, all’epoca, e in una posizione regionale di rilievo:prese parte anche lui alle dimostrazioni contro Zulfikar,gridò quegli slogan contro di lui? «Non lo so. Però loslogan: “Impiccare Bhutto non una, ma cento volte” èattribuito a lui», ammette Suhail. «Ma certo!» grida il DrSikandar. «Hakim era famoso per i suoi slogan!» MumtazBhutto, cugino di Zulfikar e ministro capo del Sind, nonchécustode di tutti gli aneddoti sulla regione, afferma di nonsapere con certezza chi dei due abbia ragione: «Quel cheè sicuro, però, è che Zulfi non lo apprezzava. Non avevamai tempo per Zardari!».11 Comunque, a un certo puntoHakim Zardari cambiò nuovamente bandiera diventandouna di quelle persone che in politichese vengono definitespregiativamente lota. Personalmente ricordo che alleassemblee pubbliche papà lo chiamava «Hakoo il Dacu» -il ladro -, uno scherno che irritava moltissimo Zardari. Ma diAsif cosa si può dire, domando a Suhail? Lui, per cosa era

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noto prima di diventare il marito di Benazir Bhutto? «Oh,non era noto affatto», risponde Suhail con nonchalance:«Se si esclude il fatto che a Karachi era piuttostoconosciuto come uno che si imbucava alle feste».12

Ricordo che quell’estate mio padre disse qualcosa aproposito del tornare in Pakistan. Lui parlava spesso dellanostra patria, del giorno in cui l’avremmo rivista, ma quellavolta, come in un retropensiero, disse: «Non parlarne conWadi, okay?». Io gli promisi che non avrei spifferatonemmeno una parola. Fra noi si stava già aprendo unbaratro.

Quando si diffuse la notizia che Zia era morto, papà e ioeravamo a casa di amici. Mia nonna Joonam ci telefonò, efu zia Ghinwa a prendere la chiamata. Joonam era fuori disé, non fece quasi in tempo a chiedere di suo figlio cheesplose: «È morto, mio Dio, Zia è morto!». Ghinwa digitòfreneticamente il numero degli amici di Murtaza e strillò nelricevitore che doveva assolutamente parlare con lui.L’amico gli passò la cornetta e papà ascoltò in silenzio.Tutti lo fissavano, e vedendo che la nuca gli stavadiventando rossa cominciarono a temere il peggio, apensare che qualche altra disgrazia si fosse abbattuta sullanostra famiglia. Poi Murtaza gridò. All’altro capo dellalinea, Ghinwa sentì che aveva lasciato cadere la cornetta.

Corse a casa, trascinandosi dietro me, ed eravamoentrambi felici che tutto fosse finito. Undici anni di paura e

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di violenza erano finiti. Zia era morto.

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CAPITOLO 15La fase preparatoria delle elezioni del 1988 partì subito

con il piede sbagliato. Benazir decise di non allearsi congli altri partiti che formavano l’MRD - errore che la porterà aritrovarsi davanti, una volta salita al governo, una coalizioneostile - per avere le mani libere dalla Dichiarazione diautonomia provinciale da esso siglata nel 1986. Taledichiarazione chiedeva che fossero limitati i poteri delgoverno centrale in quattro aree: valuta, comunicazioni,difesa e politica estera.1 Ma faceva anche un ulteriorepasso verso la democratizzazione della vita politica delpaese ponendo «rigidi limiti alla facoltà del governocentrale di sciogliere quelli provinciali».2

Benazir avrebbe potuto favorire la sua stessa carrierapolitica creandosi al contempo un’immagine personale dileader democratica; ma come scrive lo storico Ian Talbot,«non dimostrava particolare interesse nemmeno per ilrafforzamento e la democrazia interna del partito, anche senello stesso tempo guidava una crociata nazionale per lademocratizzazione della vita politica del Pakistan».3

È così che si alienò buona parte della cerchia interna delPartito del popolo. Molti membri fondatori ed esponentidella vecchia guardia, fra cui suo zio Mumtaz Bhutto eHafeez Pirzada, costituente del 1973, uscirono dal partitonon appena Benazir ne assunse la guida. A sostituirli fuchiamato un gruppo dirigente composto da conoscenti di

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Benazir nel mondo degli affari e politici di palazzo, cheorientarono le vele del PPP al vento politico prevalente e inpoco tempo divennero i sensali del potere del partito cosìrinnovato. Il marito di Benazir, Asif Zardari, giocò un ruoloimportante nel modellare questa nuova cricca, in quantogestì personalmente la distribuzione delle candidature perle elezioni del 1988 affidandole pressoché interamente asuoi amici di scuola e ad altri seguaci fedeli o, stando alleparole di Talbot, «a nuovi iscritti entrati nel partito perragioni di opportunismo». Tutte persone che riuscironoefficacemente a tenere in panchina i militanti più anziani epiù leali.4

Ghulam Hussain, per esempio, membro fondatore ed exdetenuto politico rilasciato all’epoca del dirottamento dellaPIA, non trovò posto nella rimessa a modello del partitovoluta dalla coppia Benazir-Zardari; e nonostante sottoZulfikar fosse stato segretario generale del partito, ruoloche gli era costato cinque anni di carcere. «Zia mi avevamandato ben tre generali, in prigione», racconta Hussainnella sua casa di Islamabad, «per convincermi arassegnare per iscritto le mie dimissioni dall’incarico disegretario generale e offrirmi in cambio un ministero nelnuovo regime. Se mi fossi rifiutato di farlo, mi dissero,sarei stato incriminato per tradimento. Mi accusavano diaver capeggiato uno scontro a fuoco a Liaqat Bagh,Rawalpindi. Te l’immagini? Senza un processo, senza unacondanna: mi avevano semplicemente arrestato e messoin carcere. Ma io risposi che sarei rimasto con Bhutto

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qualsiasi cosa fosse successa. Quando ci portaronodavanti a un giudice, quei generali misero in atto le lorominacce e cercarono di spaventarci mostrandoci qualefosse la nostra posizione di prigionieri senza diritti. Ma iofeci una scenata. Dissi al giudice: “Tutti voi avete paura diZia. Io invece ho paura solo di Dio, non di un piccolouomo!”. Mi trascinarono subito fuori dall’aula mentregridavo: “Zia hatao!”, destituiamo Zia!

«Benazir, che non sapeva nemmeno l’urdu - i suoidiscorsi li scriveva sempre in inglese - mi scaricòassegnando la candidatura del PPP per il distretto diJhelum a Chaudry Aftaf, della Pakistan Muslim League(PML) - il partito di Zia! - solo perché era un jagirdar, unpadrone feudale così potente da avere addirittura deglischiavi. Un uomo che, in aperta violazione di tutti i principiideologici del partito, aveva fatto parte della Majlis eShoora di Zia! A me non fu concesso nemmenol’elementare segno di rispetto di apprendere della miaestromissione da Benazir stessa. Lo lessi il giorno doposui giornali.»5 Hussain mi ricorda che anche l’attuale primoministro del PPP, Yousef Raza Gilani, ha fatto parte delconsiglio religioso di Zia, il cui potere, ai tempi della giuntamilitare, rivaleggiava con quello del parlamento.

Ma anche se molti veterani del partito si ritrovaronomessi da parte, gli operai si sentirono ancora più traditi.Maulabux è uno sheedi dalla corporatura robusta, conqualche goccia di sangue africano, sindhi e beluci nellevene. Lui e la moglie vivono a Lyari, cuore pulsante del

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PPP di Karachi e per decenni roccaforte dei Bhutto. «Dilse, dal profondo del cuore, noi stavamo con Zulfikar AliBhutto», 6 comincia Maulabux, che amici e compagnichiamano Mauli, «rapanello bianco», in urdu: un nomignoloche ha fatto presa così bene che ormai lo usa anche lui.

«Il nostro lavoro, i nostri sacrifici, tutto derivavadall’amore che nutrivamo per lui. Dopo il suo assassinio, ilnostro pensiero principale fu che nessun compromessocon quei criminali sarebbe mai stato accettabile. La stradaera difficile, questo è ovvio, ma noi non avevamo paura dipagare con il carcere o con la nostra stessa vita.» Sonocose tuttora molto commoventi per Maulabux, il quale,mentre parliamo, mi ricorda che noi due ci siamo giàincontrati, molto tempo fa - a Kabul, quando io ero ancorauna bambina. «Quelli di noi che avevano lavorato per ilpartito durante la dittatura, quelli erano i veri attivisti politici.La lotta era stata lunga e difficile, ma ci sentivamo comeuna grande famiglia. Se uno di noi veniva fermato o ferito,tutti gli si stringevano attorno. Avevamo imparato la politicadai più anziani, dai membri fondatori del partito. A queltempo eravamo giovani, ci consideravamo un po’ i lorodiscepoli ed eravamo innamorati del socialismo,dell’ugualitarismo, dei principi del PPP.»

Soffrivano molto. Rischiavano l’arresto e la fustigazionesolo per aver distribuito un volantino dell’MRD o per averorganizzato una manifestazione di donne o un raduno diprotesta in un parco o in una rotonda stradale. Quando perloro la situazione si faceva troppo tesa, prendevano

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l’autobus da Karachi per Gwadar, nel Belucistan, epassavano clandestinamente la frontiera con l’Iran. Gliiraniani, che lungo la frontiera sono di etnia beluci, lilasciavano entrare anche senza visto, e per un po’ imilitanti se ne stavano rintanati presso amici e parenti nelBelucistan iraniano. Entrare in clandestinità costava moltisoldi, ma quelle persone pagavano tutto di tasca propria.«Mir baba ringraziò personalmente molti nostri amici eparenti d’oltre confine, li raggiunge a uno a uno, pertelefono o per lettera, esprimendo loro la sua gratitudineper aver protetto noi attivisti nel momento del bisogno.Quando Mir baba è tornato in Pakistan, tutti noi l’abbiamoseguito. Nessuno ha mai avuto il minimo dubbio chel’avremmo fatto.» «Perché?» domando io. «Perché la lottanon era ancora finita», risponde Mauli, abbassando la vocein un modo che non è certo tipico suo.

Shahnawaz Baloch, una versione più alta e allampanatadello stesso Maulabux, fa cenno di voler parlare. Il tonogenerale della conversazione è cambiato. Ognuno ha i suoiconti in sospeso. «Nel 1985, ormai Benazir ci avevadeluso», comincia, parlando in un misto di urdu e diinglese. «Il partito era stato espugnato. Da ricchi industrialie capitalisti che non capivano niente di politica. Da amicipersonali della presidente e di suo mario; da jagirdar e daproprietari feudali, gli zamindar; mentre i militanti cheavrebbero meritato una posizione di leadership - per la loroconoscenza dell’ideologia del partito, per i loro sacrifici,per la loro lealtà, perché calati nella comunità che

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rappresentavano - queste persone, cioè noi, erano tagliatifuori. Benazir offriva il potere su un piatto d’argento a tuttequelle altre fazioni, mentre noi perdevamo anche il diritto didire come la pensavamo».7

Aftab Sherpao, che nel 1976 era stato eletto vicepresidente del PPP, è un altro dei dirigenti che perseanche il diritto di esprimersi quando il partito fu rimodellatoin funzione delle elezioni del 1988. «C’è una differenzaenorme fra i due PPP», afferma. Sherpao è un espertouomo di stato: quando ci incontriamo ha appena lasciato ilgabinetto del generale Musharraf - è stato ministro degliInterni per tutto il tempo in cui il paese ha combattutoinsieme agli Stati Uniti la loro «guerra al terrore», un ruolopericolosissimo in quanto gli attentatori suicidi hanno piùvolte attaccato lui e la sua famiglia, mancandoli di poco.Qualche anno fa ha fondato un’ala scissionista del PPP,che ha criticato apertamente le scelte fatte dal partito sottoBenazir e suo marito. «Zulfikar Bhutto era un buonascoltatore. Allora io ero ministro della Provincia dellaFrontiera di Nord-Ovest, e lo vedevo starsene seduto perore ad ascoltare le persone sedute attorno a un tavoloprima di prendere una decisione su un problema qualsiasi,più o meno importante. Lei invece, sua figlia, se quello chestai dicendo non le piace ti toglie semplicemente la parola.Per quanto riguarda l’acume politico, poi, non c’èparagone. È vero, anche lei è perspicace, ma non quantolo era suo padre. Tutto lo slancio che possiede l’ha presoda lui.»8

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Quando, nella fase preparatoria delle elezioni, il partitodecise di negoziare con l’esercito e di lavorare con iprotégés di Zia, tutti gli attivisti pensarono che il PPP cheavevano conosciuto non esisteva più. «La differenza fra ilpartito di Mr Bhutto e quello di Benazir continuava acrescere», prosegue Shahnawaz. «Diventò come unaguerra: da una parte noi attivisti storici, dall’altra quegliuomini d’affari che avevano cancellato l’ideologia fondativadel partito. Era una guerra fra soch, fra linee di pensiero.»Mauli è d’accordo con lui: «Lei era tutto l’opposto di quelche era stato Zulfikar Ali Bhutto. Lui aveva fatto del partitociò che era scegliendo come candidati i piccoli, i poveri.Con Benazir, invece, noi fummo messi da parte evedemmo i waderas» - un misto fra gli zamindar, checoltivano la terra, e gli jagirdar, che sfruttanosemplicemente i contadini - «ottenere una candidatura vial’altra. La scelta non si faceva più in base al merito, ma inbase al potere e ai favoritismi personali.»

Come mai non l’avevano visto arrivare? Perché si eranolasciati trarre in inganno dalla linea politica di Benazir,quantomeno opportunistica? Mauli riflette un momento. Poiannuisce: ha capito che cosa gli sto chiedendo. «Nel 1986,quando Benazir tornò dall’esilio che si era autoimpostadopo l’assassinio del fratello, tutti noi la sostenemmoperché prometteva di portare avanti il programma diZulfikar Ali Bhutto. Restammo con lei perché promise chenessun altro Bhutto sarebbe stato ucciso, che la forza delpartito li avrebbe protetti. Eppure già allora qualcuno ci

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domandava: “Perché volete battervi per Benazir?”. Lanostra risposta era sempre la stessa: la nostra lotta non ècominciata con lei, ha avuto inizio molto tempo fa.»

L’accordo che Benazir sottoscrisse con l’élite militaresegnò il suo destino anche quando Zia fu toltodall’equazione. Alle elezioni del 1988 l’esercito fece inmodo che il PPP non prendesse troppi voti, tenendo cortele redini a Benazir. Il partito ottenne novantadue deiduecentosette seggi dell’Assemblea nazionale - il chesignifica che in parlamento non avrebbe avuto il potere direspingere o rovesciare le leggi proposte da Zia, e chequindi il retaggio del dittatore sarebbe rimasto intatto.9

Benazir accettò tutte le condizioni poste dai militari. Ilbudget della difesa non sarebbe stato toccato, l’esercitoavrebbe mantenuto il diritto di veto su tutte le questionirelative alla sicurezza e alla politica estera, le condizionidel prestito elargito dal’FMI sarebbero state confermate.10Il ministro degli Esteri di Zia, Yakub Ali Khan, rimase al suoposto per tutelare i punti che stavano più a cuoreall’esercito, per esempio l’Afghanistan e il Kashmir, mentrel’ex favorito di Zia nonché presidente del senato, GhulamIshaq Khan, fu promosso capo di stato maggiore.11

Il 2 dicembre 1988 Benazir Bhutto prestò giuramento, econ i suoi trentacinque anni divenne il primo ministro piùgiovane della storia del Pakistan. A Damasco, intanto,Murtaza seguiva con ansia lo scrutinio dei voti.

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L’ambasciata pachistana ci chiamava direttamente a casaper darci i risultati aggiornati minuto per minuto. Quando loscrutinio finì, Murtaza era furibondo. «Hanno truccato leelezioni!» Ghinwa ricorda di avergli sentito esclamare.«Questi non sono i risultati che il PPP avrebbe dovutoraggiungere dopo undici anni di legge marziale!»

Il PPP infatti aveva ottenuto solo una risicatamaggioranza. Murtaza chiamò la sorella al telefono e lasupplicò: «Ti prego, Pinky, non puoi accettare questirisultati!». Ma lei non gli diede retta, sopraffatta com’eradalla gioia di trovarsi tanto vicina al potere da riuscirequasi a toccarlo. Anche Nusrat suggerì alla figlia dichiedere che le elezioni fossero invalidate: «Fallo e vedrai,diventerai solo più forte», le disse. Benazir mostrò a tutti lasua irritazione per quel suggerimento non gradito mollandosu due piedi la madre a Islamabad e andandosene aLarkana da sola, dove restò finché le sue decisioni nonfurono rese pubbliche. Aveva accettato tutte le condizioniposte dall’esercito.

«Quel giorno», ricorda Ghinwa, «il telefono squillavatanto che sembrava voler cadere dal tavolo, ed era sempregente che voleva fare a Mir le sue mabruk, le“congratulazioni”. Lui rispondeva gentilmente, ma dentro disé era molto abbattuto. In teoria avrebbe dovuto venire aprenderti a scuola - tu frequentavi la prima classe - einvece venne da me e mi disse: “Potresti andarci tu, perfavore?”. Gli chiesi perché, e lui rispose: “La gente mi siavvicinerebbe per farmi le congratulazioni. Ma per mequesta non è una vittoria. Preferisco non andare”.»

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Papà e io eravamo cresciuti insieme alla mia scuola, laDamascus Community School. L’avevamo seguita dalseminterrato di Mezzeh fino al campus nuovo fiammante diAbu Roumaneh. Papà era venuto a leggere qualcosa perla mia classe tutti gli anni, dalla materna in poi; era il piùdivertente dei narratori, sapeva cambiare faccia e voce perincarnare tutti i personaggi di qualsiasi libro di lettura cifosse assegnato per l’anno scolastico. E alle maestre lesue performance piacevano quasi quanto ai bambini.Maestre e genitori erano diventati come una secondafamiglia per noi, soprattutto prima che Ghinwa entrassenella nostra vita. Ma quel giorno Murtaza non se la sentivadi affrontarli.

L’ex numero due di Zia, il presidente Ghulam IshaqKhan, aspettò un’intera settimana prima di conferire aBenazir l’incarico di primo ministro. Una mancanza dirispetto che fece ulteriormente infuriare Murtaza. Prima lecondizioni poste dall’esercito, poi i brogli, e infine questotemporeggiare: era troppo. Telefonò di nuovo a suasorella: «Ti stanno legando mani e piedi», disse. «Saraidebole. Devi rifiutare le condizioni che ti hanno imposto.Non accettare incarichi di governo, resta all’opposizione,Pinky. Sarai in una posizione fantastica. Non dovraichinare la testa davanti a quei bastardi.» Ma le personeche circondavano il futuro primo ministro le consigliaronoaltrimenti. «Non possiamo permetterci di stareall’opposizione, Mir», rispose lei. «Se non sente di poterottenere qualcosa da noi, la gente ci lascerà.» Non eravero. Il partito era pieno di attivisti leali e disinteressati. Gli

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intrusi, le reclute prezzolate, si sarebbero allontanati se nonottenevano quel che volevano. Ma era un rischio cheBenazir non intendeva correre.

Nell’estate del 1988 Murtaza chiese a Ghinwa disposarlo. Ci eravamo innamorati di lei tutti e due. Io vinsi lamia solita, prepotente possessività nei confronti di papàper farle posto, ma ad alcune condizioni. Papà era sempremolto attento e premuroso, a San Valentino compravaregali per entrambe e mi portava un piccolo mazzo di fioriogni volta che ne regalava uno grande a lei. Ma c’era unaquestione lessicale da rettificare con urgenza. Unpomeriggio, mentre attraversavamo in macchina Mezzeh,chiesi a papà perché chiamasse Ghinwa «tesoro». Non mipiaceva affatto essere esclusa dallo strano sentimento chelui sembrava provare per una persona tanto vicina a me.«Perché le voglio bene», rispose lui, rendendosi subitoconto di essere su un terreno insidioso. «E a me?» glidomandai. Arrivammo a un compromesso: lui avrebbepotuto chiamare «tesoro» la zia Ghinwa se all’interno dellastessa frase chiamava me «mia cara». Non appena papàsi fu detto d’accordo con tali condizioni me ne dimenticaicompletamente.

«Quel giorno compivo ventisei anni», racconta mamma.«Sapevo che Mir stava per darmi un anello difidanzamento. Avevamo già parlato di matrimonio e dimetter su casa insieme e avevo la sensazione che miavrebbe fatto la proposta proprio il giorno del miocompleanno. Vorrà farmi una sorpresa, pensavo, e cosìaspettai pazientemente l’arrivo del gran giorno. Quella sera

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andammo a cena allo Sheraton insieme ad alcuni amici, ea un certo punto della conversazione Mir si girò dalla miaparte e disse: “A proposito, che cosa vuoi per il tuocompleanno?”. Stavo per scoppiare a piangere lì per lì. Elui, che mi fissava con espressione impassibile: “Cosa?Che cos’ho detto?”. E non scherzava: sentii la mia facciafarsi paonazza.»

Oggi mamma porta il suo anello di fidanzamento solo ditanto in tanto, quando pensa di poter sopportare i ricordiche si accompagnano a quel gioiello: in questo momento,per esempio, non ce l’ha. Le sue dita sono nude, eparlando lei se le torce. «Penso avesse paura che glidicessi di no. Doveva sentirlo dalla mia bocca, così glidissi che pensavo mi avrebbe chiesto di sposarlo. Allora sìche esplose in un vulcano di risate e disse: “Bene allora,perché non l’hai detto subito?”.» E il giorno dopo tornaronoinsieme allo Sheraton per scegliere due anelli allagioielleria Muwafak, la stessa che mi faceva da casellapostale quando ragioni di sicurezza mi impedivano diusare l’indirizzo di casa per la mia corrispondenza privata.

Vorrei dire ancora due parole circa lo Sheraton Hotel,che fece da base operativa alla mia famiglia fintanto cherestammo a Damasco. Era lì che consumavamo i nostripasti; d’estate sguazzavamo nella sua piscina dall’alba altramonto; le mie feste di compleanno, generosamenteprogettate e orchestrate da mio padre, si svolgevano nellasua sala da ballo - anche se io e i miei amici finivamosempre con l’andare a giocare nel bagno del seminterrato,lasciando gli adulti di sopra. Quando vi aprì una pizzeria,

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Luigi’s, papà mi prendeva su dal letto in pigiama epantofole e mi portava a comprare un paio di pizze anchenel cuore della notte, se gliene veniva voglia. In mancanzadi spazi pubblici, lo Sheraton era il nostro universo. Dopol’assassinio di papà sono andata ancora a mangiare lapizza da Luigi’s. I camerieri si sono stretti attorno al miotavolo, in lacrime. Papà era stato un amico per loro, iricordi di lui erano sparsi per tutto l’albergo.

Quando Murtaza e Ghinwa tornarono a casa percomunicarmi la notizia del fidanzamento mi trovarono che,annoiata, saltellavo sul letto. A ogni salto facevo un verso,un monotono yea yeaa yeaa, cercando di capire quantolontano poteva arrivare la mia voce. Papà non riuscì atrattenersi e sputò fuori la novità tutta d’un fiato: «Fatizia-Ghinwaeiocisposiamo! ». Sentendolo io saltai ancora piùin alto, e i miei annoiati yea si trasformarono in assordanti,eccitati yay! Ero contentissima. Ogni volta che Ghinwa nonera con noi sentivo la sua mancanza, e sapevo che perpapà era lo stesso.

Si sposarono il 21 marzo 1989. I preparativi per le nozzefilarono lisci come l’olio, tranne per una cosa. Duesettimane prima del gran giorno Ghinwa andò dalparrucchiere, ovviamente quello dello Sheraton, e si fecetagliare i capelli, che risultarono lunghi all’incirca comequelli di Murtaza. Quando la rivide dopo il taglio, nella salada pranzo dello Sheraton, senza il velo, papà quasi non lariconobbe. Il matrimonio fu riservato a pochi intimi: Joonamvenne da Karachi, e teta Kafia e jiddo Abboud

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rappresentarono la famiglia di Ghinwa insieme a Kholoud,una delle sue tre sorelle maggiori, che io chiamavo ziaLulu. Ufficiosamente, io ero la damigella d’onore.«Sembravi convinta che fossero le tue, di nozze», raccontamamma, riferendosi a cose che so già. «Ci eravamo fattefare degli abiti nuovi, il mio era bianco e il tuo azzurrochiaro con dei pizzi. Poi ti avevo portata a comprare unpaio di guanti e delle mollette carine per i capelli. Tu nonvolevi che Mir e io sedessimo vicini: anche nelle foto delmatrimonio sei sempre seduta fra noi due.» Secondol’usanza islamica, papà e Ghinwa firmarono i documentidel matrimonio nel salotto di casa nostra. Io tenevo in unamano la macchina fotografica e nell’altra il mio diario rosacon in copertina Minnie e la scritta «I love you», regalo dipapà, come se fossero un bouquet.

Avevo contrassegnato ogni pagina di quel diario con unasorta di codice da prima elementare - avevo appenaimparato a scrivere - e ogni tanto invitavo papà adannotarvi i suoi pensieri. In una pagina misteriosamenteintitolata «E.M.» lui aveva disegnato un topolino e me.«Era la vigilia di Natale», recitava la didascalia, «nessunacreatura si muoveva, nemmeno una Fatima o un topolino.E poi, che differenza c’è?» Il giorno del matrimonio scrissisul mio diario due frasi. Una dice: «Papà è buono, mi vuolemoltissimo bene e, ah, ne vuole anche a te». Seguonoalcuni disegnini di cuori e cavalli, e poi: «Oggi papà eGhinwa si sposano, per me è un Giorno Molto Speciale.Adesso chiamerò Ghinwa mamma mentre papà continueròa chiamarlo papà». Avevo sette anni.

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Quando il mullah ebbe siglato i documenti nuziali,Joonam mi fece sedere e mi spiegò che ora Ghinwa eradiventata mia madre e quindi non avrei più dovutochiamarla zia. Io rimuginai un po’ se fosse megliochiamarla «madre», parola per me nuova ed eccitantedato che con la mia madre biologica non avevo mai legatomolto (mi sembra un po’ troppo all’antica, disse Joonam) o«mamma», che era come tutti i miei amici chiamavano leloro madri; alla fine decisi per «mamma», che misembrava più bello. Anche papà chiamava Joonam così.«Da quel momento in poi non hai più smesso dichiamarmi», racconta mamma facendomi il verso:«Mammamammamammamamma…». Il che, sia detto conmio grande imbarazzo, è vero.

Siccome era proprio un’occasione speciale anchemamma ebbe il permesso di scrivere qualcosa sul miodiario, e lo fece qualche giorno dopo: «Ora sì che sonodavvero felice, perché sono diventata la mamma di unabella bambina di nome Fatima. Fatima, la mia bambina, èmolto dolce e anche molto intelligente. È vero, a volte nonobbedisce, ma è solo perché non sa ancora le cose e noncerto perché sia cattiva». Non ricordo a quale episodio siriferiscano queste righe, ma evidentemente non le avevodato retta in qualcosa.

Dieci giorni dopo i miei genitori diedero un ricevimentodi nozze per una trentina di amici, sempre allo Sheraton.Mamma indossava un sari color bianco avorio che papà leaveva dato come regalo di nozze. Io ero appena stataoperata alle tonsille e dovetti restare a casa, tutta

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ingrugnita, con la zia Lulu, perdendomi la festa.Quello stesso anno, alla fine di agosto, mamma e io

andammo in Pakistan. Per lei era la prima volta, per me laseconda. Tornare a Karachi insieme a mamma lo facevasembrare un vero ritorno in patria, ma per lei non fu affattofacile. «Mir non aveva mai pensato di vivere tutta la sua vitain esilio, mai», commenta mamma, scrollando la testa condecisione. «Aveva sempre pensato che, un giorno o l’altro,sarebbe tornato in patria, anche se a me non sembravaproprio possibile. Ogni volta che volevo fare qualchecambiamento in casa lui diceva: “No, lascia stare, non ècasa nostra. Presto torneremo a casa”. Si stava semprepreparando per il ritorno.»

Murtaza aveva già parlato con sua madre dell’idea ditornare in patria, mettendo così fine a un esilio che eracominciato con Zia e che avrebbe dovuto terminare con lasua morte. Joonam lo sostenne, come sempre, ma un altromembro della famiglia la pensava altrimenti. Benazir siimpuntò quando il fratello le disse che forse potevamotornare in Pakistan, che lui era pronto ad affrontare lamiriade di processi per tradimento che Zia aveva montatocontro di lui e contro Shahnawaz. «No, non ora, ti prego»,gli disse. «Le cose sono già anche troppo difficili per me».Benazir disse a suo fratello che i servizi segreti pachistani,l’ISI, avevano «perso il suo faldone», e che nessuno era piùin grado di dire quanti e quali procedimenti il dittatoreavesse avviato contro di lui. Disse che lei aveva le manilegate.

«Nel 1988, con la nascita del primo governo guidato dal

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PPP, moltissimi dissidenti politici che avevano dovutorifugiarsi all’estero tornarono in Pakistan», racconta Suhail.«Molti sindhi che Zia aveva perseguitato, ma anche moltibeluci - perfino Khair Bux Marri tornò dall’Afghanistan.Quindi ci si aspettava che anche Murtaza e i suoiavrebbero fatto altrettanto. Anche noi ci eravamo battuti peril ritorno alla democrazia e contro Zia, eppure venivamotrattati diversamente da tutti gli altri ed eravamo esclusi daldiritto al ritorno.»12 Suhail e Murtaza dunque dovevanorestare all’estero, parcheggiati in una sorta di limbo. «Maperché papà non lo fece lo stesso? Perché non decise ditornare comunque?» domando a mamma. «Perché non silimitò a ignorare le obiezioni del primo ministro e a tornarea casa sua?» «Il grosso dei quadri di Murtaza era già inPakistan. Lui era lontano, isolato, e poi non voleva creareproblemi a sua sorella forzandole la mano, non volevaessere accusato di aver rovinato tutto, perché sapevaquanto lei avesse desiderato diventare primo ministro. Epoi sapeva anche, o almeno credo, che il suo governo eradebole e a un certo punto sarebbe caduto da solo.»

Quando un giornalista della BBC gli chiese perché nonfosse tornato in patria subito dopo l’avvento dellacosiddetta «democrazia», Murtaza in tutta sinceritàrispose: «Volevo tenermi un po’ in disparte. Non avreipotuto vivere con l’idea di aver fatto perdere a mia sorella ilsuo governo». In realtà, Benazir era perfettamente in gradodi perderlo da sola.

A Karachi, durante quel nostro primo ritorno, mamma

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parlò alla sua prima conferenza stampa. Papà credeva inlei, e l’aveva incaricata di farlo al posto suo. Inquell’occasione un giornalista le fece la domanda che,nell’inverno del 1989, tutti avevano in mente: perchéMurtaza non tornava in patria per partecipare alla svoltademocratica? Mamma rispose in tutta onestà: «Luiavrebbe voluto. Ma sua sorella gli ha chiesto di non farlo,non ora». Benazir non avrebbe mai dimenticato questaeccessiva franchezza da parte di sua cognata.

Poco dopo il nostro ritorno a Damasco mamma scoprì diessere incinta. Lei e papà me lo dissero insieme.Sembravano piuttosto nervosi: in fondo ero stata una figliaunica per così tanto tempo, e piuttosto prepotente pergiunta. «Fati», cominciò papà, deglutendo a vuoto e poilanciandosi nel suo nuovo stile «tutto d’un fiato»:«Mammaeioavremounbambino! ». Io ne fui eccitatissima.Mi misi a gridare e a saltellare su e giù, stavolta sulpavimento di marmo invece che sul letto. Speravo solo chenon fosse un’altra femmina.

Zulfikar Ali Bhutto junior nacque il 1° agosto 1990, condieci giorni di ritardo. Io ero a casa della mia amica Paulaquando papà venne a prendermi come una furia perportarmi all’ospedale. Arrivò prima del previsto, e io ne fuicontrariata. Pensavo di avere davanti ancora due ore digioco, e lui non disse nemmeno una parola sul perchéfosse venuto a prendermi così presto. Dapprima suonò ilclacson come un pazzo, giù in strada, sotto le finestre diPaula, poi, siccome non rispondevo, corse al citofono egridò che dovevo raccogliere le mie cose e scendere,

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subito. Di solito non era così agitato; pensai che mi stessefacendo uno scherzo.

Qualche settimana prima, un sabato mattina, aveva fattoirruzione in camera mia gridando che dovevo alzarmi,subito! «Fati! Fati! Fati!» strillava. «Vieni! Svelta!» Io miero stropicciata gli occhi e avevo dato un’occhiata allasveglia sul comodino: erano solo le sette e mezzo. «Cosasuccede? » gli avevo domandato mettendomi a sedere sulletto, ancora mezzo intontita. «Sbrigati! Alzati, alzati!»aveva gridato ancora, precipitandosi fuori dalla porta. Cosìavevo buttato le gambe giù dal letto e mi ero trascinatadietro di lui. Ma nel momento esatto in cui varcavo la sogliadella stanza papà mi aveva rovesciato in testa un secchiod’acqua. Aveva una risata così birichina, quando facevauno scherzo, che era difficile non ridere con lui. Ero statapresa da una sorta di attacco isterico ed eravamo rimastilì, nel corridoio bagnato, io zuppa d’acqua, lui con ilsecchio vuoto in mano, a contorcerci dalle risate.

Ma quella volta non era uno scherzo. Salii in macchina,dopo aver sceso le scale con tutto comodo, e schizzammoverso il Chami Hospital, nel centro della città. Lo vedemmoinsieme, Zulfi, per la prima volta. Aveva la pelle tutta seccae squamosa per essersi trattenuto nell’utero ben oltre iltempo prescritto, e di un rosa acceso. Joonam venne aDamasco per stare un po’ di tempo con noi. Nel tentativodi rappezzare un po’ le cose con sua madre e di tenerlaper così dire nella sua sfera d’influenza, Benazir le avevadato un ministero a livello federale. Joonam però nonintendeva sacrificare la vita familiare al lavoro, anche

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perché capiva benissimo per quale ragione le avesserodato quell’incarico, e lasciò l’ufficio per trascorrere unmese con noi in Siria. Ecco perché Joonam era aDamasco quando il governo di Benazir cadde. L’idilliodella nostra nuova vita familiare era al completo.

Il governo di Benazir morì con un pigolio, non conun’esplosione. Eppure la violenza etnica e settaria cheavrebbe offuscato il suo secondo mandato, con tanto diaccuse di violazioni dei diritti umani, aveva radici in questosuo primo mandato governativo. Il 1989 infatti vide latensione fra sindhi e muhajir - l’etnia dei profughi fuggitidall’India al tempo della Spartizione - degenerare in«un’escalation di scontri a fuoco apparentementeinspiegabili in tutta Karachi».13 Anche il ministro capo delSind fu costretto ad ammettere che la spirale di violenzanella sua provincia era ormai fuori controllo, definendolauna «mini insurrezione».14

In una lettera alla madre Murtaza parla delle ragioni dimalcontento all’interno del partito: «Al telefono ti hominacciata di scriverti una lunga lettera», comincia. «Mafarò del mio meglio per essere breve. Mi dispiace se ilcontenuto sarà un po’ sgradevole, ma credo valga la penadi parlarne. A Clifton, di recente, due generosi PSF[membri della Federazione degli studenti pachistani, ramostudentesco del PPP] sono stati uccisi dalla polizia con ilpretesto di un’“operazione antirapinatori”. Altri fedeli

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membri del partito, tutta gente che negli anni di Zia è stataattiva e/o in prigione, sono finiti per l’ennesima volta incarcere. E pare subiscano ancora la tortura.» Nella paginaseguente Murtaza elenca i nomi delle persone che stavanosoffrendo nelle mani del sistema poliziesco di Benazir; unalista che riguarda Hyderabad, Thatta, Karachi e molte altrecittà. Ma non è tutto: «Kausar Ali Shah [non ancoradeputato del PPP], che a Kabul cospirava con i ribelliafghani per uccidere me e Shah, è stato nominato direttoregenerale della National Construction Company. Nelfrattempo Saifullah Khalid continua a subire abusi eumiliazioni perché, pur spezzato nel corpo e nello spiritodalla tortura, si è sempre rifiutato di coinvolgere te o Pinkynelle false accuse di Zia. So che lei dice che ormaibisognerebbe liberarsi di lui: cerca almeno di vedere suopadre e di fare qualcosa per aiutare i suoi fratelli».

La lettera è scritta con un inchiostro rosso che di solitoMurtaza non usava, ma che conferisce alle sue paroleun’ulteriore misura d’urgenza.

Altri due ragazzi originari del Punjab, JavedIqbal15 e Mohd Yousef, sotto Zia sono statiorribilmente torturati. Ma fino all’ultimo hannoribadito: «Noi siamo bhuttoisti, e lo

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rimarremo qualsiasi cosa ci facciate». Nel1983 un gruppo di psicologi dell’esercito liha intervistati per capire come facesse ilPPP a sottoporre i suoi quadri a un«lavaggio del cervello» così efficace chenemmeno sotto le peggiori torture sidecidevano a parlare. Questi due «casi damanuale» di lealtà verso lo shahid Bhuttosono ancora in prigione a Lahore. Non tisembra una vergogna? Sicuramente avraimolti altri problemi da affrontare, ma credoche abbiamo il dovere morale di occuparcianche di questi.16

Murtaza conclude la lettera mandando il suo amore allamadre e alla sorella piccola e, sul retro dell’ultima pagina,attacca un ritaglio preso da un giornale pachistano in cui ilgoverno di Benazir è accusato di aver ridotto al silenzio lastampa indipendente. E aggiunge: «P.S.: Ho pensato cheti avrebbe fatto piacere leggerlo».

Nel frattempo Benazir e la sua cricca si davano da fareper sfruttare il più possibile il Pakistan. Sembrava che anessuno importasse niente delle questioni di politicainterna. Le porte del PPP erano state spalancate ai reducidel regime di Zia. Mahmood Haroon, la cui firma si legge incalce alla condanna a morte di Zulfikar Ali Bhutto, fu

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nominato governatore del Sind; Nisar Khuro, quello cheaveva detto che Zulfikar doveva essere «prima impiccato epoi processato», diventò capo sezione del partito per ilSind e vari altri personaggi, che non si sa come eranoriusciti a restare a galla pur essendo stati nel gabinetto onella cerchia interna del dittatore, ottennero cariche diprestigio nel PPP.

Quanto al resto, Benazir capovolse molti dei puntiprogrammatici di suo padre con apparente facilità e senzafarne mistero. Chiese al Commonwealth di riammettere ilPakistan, indifferente alle argomentazioni di principio sullacui base Zulfikar aveva fatto uscire il paese da unorganismo internazionale completamente dominato dagliinteressi britannici; eliminò il tetto imposto alla proprietàfondiaria con la riforma agraria, resuscitando quel sistemafeudale che suo padre aveva cominciato a smantellare;avviò la privatizzazione delle industrie che Zulfikar avevanazionalizzato, assicurandosi che la parte del leone noncadesse mai troppo lontana dalle sue mani. Lozuccherificio di Naudero, costruito da Zulfikar per il popolo,fu privatizzato da Benazir e comprato da Anwar Majid,uomo d’affari nonché fedelissimo di Zardari. La fabbricatessile Shadadkot, un’altra delle industrie di proprietàpubblica che Zulfikar aveva costruito nel Sind, fu compratada Nadir Magsi, membro di spicco del PPP di Benazir, ilpartito che aveva costruito e nazionalizzato queste stesseimprese a beneficio dei più poveri della provincia. L’elencodelle fabbriche comprate dai prestanome di Benazir e disuo marito è lungo e imbarazzante; basterà dire che

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continua ad allungarsi ancora ai giorni nostri. Anche i piùloschi soci d’affari di Zardari e alcuni volgari ladruncoli dalui conosciuti per caso trovarono spazio nel sanctasanctorum del PPP. Tutte persone che incassaronomilioni, e quasi sempre sotto il tavolo; per ciascuno diquesti affari qualcuno girò cerimoniosamente unabustarella a Benazir e a suo marito. Zardari si conquistòcosì il soprannome di «Mr Dieci Per Cento».

A livello internazionale, intanto, il governo portava avantile linee politiche impostate da Zia senza sostanzialivariazioni. L’avventura afghana proseguì, spalleggiata eistigata dalle agenzie di controspionaggio, e lo stesso valeper il programma nucleare pachistano. Iqbal Akhund, unodei principali consiglieri di politica estera di Benazirnonché diplomatico di carriera, il quale ebbe modo diosservare personalmente e da vicino il suo governo,riassume con perfetta chiarezza quale fosse questapolitica estera: «Sull’Afghanistan, sul Kashmir e sull’India ilgoverno aveva davanti problemi molto complessi e spinosi,ma il processo decisionale era nelle mani dell’esercito edelle agenzie di controspionaggio dei tempi di Zia. E inquelle mani, in ultima analisi, rimase».17

Divenuta primo ministro, Benazir decise di coprirsi ilcapo con una dupatta bianca. Era la prima, nella nostrafamiglia, a portare uno hijab. Suo padre, che era stato cosìprogressista da sottrarsi perfino ai dettami tradizionalidella purdah - il sistema che impone di tenere le donne difamiglia dentro casa, dietro porte chiuse, in modo che

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nessun uomo possa vederle, tranne i parenti stretti, e daviolare ogni comandamento portando ai comizi anche lamoglie e le figlie oltre ai figli maschi, non pensava che ilvelo fosse necessario per ottenere la pubblicaapprovazione. Fatima Jinnah, sorella e compagna delfondatore della nazione, negli anni Sessanta si erapresentata alle elezioni contro il generale Ayub Khan e, puressendo nubile, non aveva mai ritenuto di dovresti coprirela testa. La decisione di Benazir fu la prima nel suo genere;nemmeno sua madre Nusrat si copriva il capo. Fu unascelta finalizzata unicamente a tenere dalla sua partiti eleader islamici, come il Jamiat-e-Ulema Islami di«Maulana» Fazlul Rehman, suo alleato fisso. A volte l’islamdiventava un semplice accessorio d’abbigliamento, e altrevolte, a quanto pare, un fattore ideologico. Benazir nonabolì le Ordinanze Hudood, secondo le quali le donnecolpevoli di adulterio o di aver avuto rapporti sessualiprima del matrimonio venivano condannate a morte; nédifese i diritti delle donne in alcun altro modo ufficiale. Neidue anni in cui rimase in carica, il governo del Partito delpopolo guidato da Benazir non introdusse alcuna nuovalegge importante. Non fu cambiato niente, nessunaistituzione fu rafforzata. Ai primi di agosto del 1990, neglistessi giorni in cui nasceva Zulfikar, Benazir Bhutto fulicenziata in tronco dal presidente Ghulam Ishaq Khan, chel’accusò di corruzione e di non aver saputo controllare leviolenze etniche nel Sind.18 Secondo lo storico Ian Talbot«nei venti mesi in cui era rimasto in carica il governo della

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Bhutto aveva completamente mancato l’obiettivo: essereall’altezza delle aspettative».19

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CAPITOLO 16Alla nascita di un figlio maschio Murtaza fu travolto dalla

gioia. Lo chiamò Zulfi, prendendo in prestito il nomignolo disuo padre, e fra sé e sé cominciò subito a preoccuparsiper come l’avrebbe chiamato quando avesse dovutosgridarlo: ce l’avrebbe fatta a gridare con rabbia il nome disuo padre? In famiglia lo chiamavamo semplicementeJunior. Era un bambino bellissimo. Non piangeva mai, nonfaceva rumore, mangiava molto ed era esattamente ilcompagno di giochi che avevo sempre desiderato. Miseguiva per tutta la casa, copiando tutto ciò che facevo eguardandomi come se avessi appena scisso l’atomo.Quando fu un po’ più grande, e io diventai un po’ piùsevera con lui, a volte mamma interveniva in sua difesaquando lo sgridavo, ma solo per sentirsi dire con estremaserietà: «Lasciala fare, mamma. Lo fa per il mio bene».Non mi ero mai sentita così protettiva nei confronti dinessuno, nemmeno di papà, prima della nascita di Zulfi.

Papà cedeva alla nostalgia e perdeva ogni ispirazionequando immaginava di dover vivere per sempreprigioniero del confortevole malessere mediorientale. Unpomeriggio prendemmo la macchina e varcammo i confinidella città per pranzare all’Ebla Hotel, tradendo per unavolta lo Sheraton. Erano i primi giorni di primavera. L’ariaera tiepida, ma non ancora secca e arida come è semprenell’estate damascena. Andando verso il nostro tavolo, ingiardino, passammo accanto alla grande piscina, e io vidi

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un’espressione birichina negli occhi di papà. Avvertivochiaramente la sua eccitazione mentre passavamo abordo piscina; voleva buttarmi in acqua. Mamma mi avevavestita con l’abitino della festa, un paio di belle scarpette edue orecchini di cui andavo molto fiera. Papà eraelegantissimo come sempre. Con noi c’era la nostra amicaNora, e io non ero nello stato d’animo giusto perpartecipare ai divertenti isterismi di papà. «Non farlo», loavvertii mentre camminavamo verso il tavolo. Lui sitrattenne, ma proprio all’ultimissimo momento, e cigodemmo un pasto perfettamente dimenticabile.

Quando tornammo verso il parcheggio, passando dinuovo accanto alla piscina, io ero immersa in unaconversazione intima con Nora. «Fati! Guarda!» gridòpapà; io mi voltai, confusa, e lui, velocissimo, mi sollevò daterra e mi gettò nella piscina. Entrai nell’acqua gelata conun forte splash!, e nel tentativo di non lasciarmisommergere completamente mi graffiai quasi il mentocontro il bordo della vasca. Dopo aver toccato con la puntadei piedi il fondo della parte più profonda della piscinarisalii nuotando in superficie e mi issai sul bordo,arrabbiatissima. Papà era piegato in due dal ridere.Mamma scrollava la testa per quella buffonata, contenta diesserne stata risparmiata. Nora ridacchiava con papà. Ioinvece ero quasi in lacrime. «Non può essere, l’hai fatto dinuovo!» gridai stringendo i denti. «Un’altra volta!» Papàcontinuava a ridere sussurrando il suo khe khe khe, e sifermò solo per dire: «Oh, avanti!» facendo un gesto con lamano. «No!» strillai io. «Non farlo mai più!» Poi ci pensai

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un po’ sopra: in fondo era ciò che io e papà facevamosempre - scherzare, combinarci degli scherzi a vicenda, ederavamo gli unici ad apprezzare davvero questi sciocchigiochi. «Mai più, almeno finché non avrò compiutoquattordici anni. Solo allora potrai buttarmi di nuovo in unapiscina. Ma fino ad allora, niente!» Avevo nove anni. Fino aquattordici anni mi sembrava una vita intera. Le risate dipapà si estinsero bruscamente, e lui mi stupì dicendo,dolcemente: «Ma Fatushki, e se per allora io non fossi piùin vita?».

Scoppiai a piangere. Cercavo disperatamente diraggiungere un compromesso fra il desiderio di bandirequei tuffi indesiderati fino alla ragionevole età di quattordicianni e il fatto che papà si fosse messo a parlare della suamorte. Urlai e sbraitai. Lui si sedette e mi prese in braccio,inzuppandosi tutto e rovinando la camicia di seta, miabbracciò e mi cullò. Mi asciugò le lacrime.

Ma io, continuando a piangere, gridai: «Fino aquattordici anni non è lontano! Certo che sarai in vita! Tudevi vivere finché io non avrò cent’anni!». E mi pulii il nasosulla sua spalla. Papà mi baciò e continuò a cullarmi. «Lospero tanto», disse.

Tornata in Pakistan, Benazir si ritrovò dunqueall’opposizione. Fece stampare della carta da lettere con lasua nuova posizione di leader del più grande partito diopposizione del paese e si accinse a pianificare il suoritorno in politica. Ghulam Hussain fu convocato per un

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incontro con la sua ex studentessa di Scienze politiche; laquale, a dire il vero, verso la fine del 1990 era di ottimoumore.

«Mi chiese qual era stata secondo me la principaledifferenza fra il suo governo e quello di Zulfikar Ali Bhutto»,racconta. «Io le dissi di lasciar perdere. Ma lei insistette,era molto allegra. Così le dissi: “Con Zulfikar Ali Bhutto noiattivisti del partito avevamo paura di mentire, perché nesaremmo stati severamente puniti. Con te, abbiamo pauradi dire la verità”».1

Hussain è una persona molto emotiva. I suoi occhi siriempiono di lacrime mentre mi parla nel salotto della suacasa di Islamabad. «Una volta, in quanto ex segretariogenerale, fui invitato alla riunione del comitato centrale delpartito, e attorno al tavolo vidi tutti quegli ultimi arrivati equegli adulatori. Allora le dissi platealmente: “Benazirsahiba, questa tua gente vende appalti, lo sapevi?”. E lei:“Oh, lei è un uomo dei vecchi tempi. Questa è una nuovaera, dobbiamo essere all’altezza di Nawaz Sharif”.» - exnemico mortale di Benazir e suo futuro miglior amico,protégé di Zia ed ex leader della Pakistan Muslim League.«“Lui sì che ha montagne di soldi”, aggiunse poi, peraiutarmi nella comprensione e per spiegare e motivaremeglio le dubbie tattiche finanziarie del partito.

«“Ma Benazir sahiba”, le dissi io», prosegue Hussain,sul cui viso le lacrime hanno lasciato il posto alla collera,«“Pensa davvero di poter comprare la credibilità? No chenon può! Quanto potrebbe costare?”.» Sapevo che

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Hussain non era tipo da usare mezzi termini, eppure milascia sbalordita sentirlo parlare a quel modo. Stento acredere che Benazir gli abbia permesso di mettere indiscussione così esplicitamente la sua leadership. Non lopermetteva mai a nessuno: ma l’età avanzata stessa diHussain gli dava il diritto di parlare. E infatti andò avanti,prima che le porte si chiudessero definitivamente per lui.«“Nel mio villaggio”», grida Hussain, come se io con il mioquadernetto e la mia penna all’improvviso rappresentassiBenazir, «“non ci sono né l’elettricità né la scuola”, le dissi.“Se fosse nata nel mio villaggio, anche lei non avrebbepotuto andare oltre le elementari. Noi, il diritto di critica celo siamo guadagnati, abbiamo combattuto per poterparlare apertamente. Lei l’ha semplicemente ereditato.”.»

Anche Suhail, come tutti coloro che avevano vissutol’intera vita alla potente ombra del PPP, era rimasto delusoda quanto poco il partito fosse rimasto al governo.«Quando lo incontrai durante la campagna elettoraledell’88, Mir era perfettamente consapevole del fatto che ilfuturo sarebbe stato gravido di difficoltà - non c’era proprioniente da festeggiare. Ora che Zia se n’era andatobisognava che il partito concretizzasse i suoi obiettivi.»2Quando il PPP uscì dal governo senza aver fatto niente diconcreto, come a uno schiocco di dita la gente si risvegliòdal sogno che aveva costruito attorno a Benazir e alla suapromessa di democrazia. Quel governo si era rettointeramente sulle promesse, non sui principi. Si reggevasulla scivolosa premessa del potenziale e del retaggio,

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senza niente di tangibile quanto a lavoro sul terreno o aideologia. Benazir era stata esautorata, e suo marito andòin carcere per la prima di una lunga serie di volte per viadei milioni che aveva intascato approfittando delpremierato di sua moglie. Correva voce che Zardari, ilquale si considerava un grande giocatore di polo, avessefatto costruire per i suoi puledri - ovviamente tuttid’importazione - stalle con l’aria condizionata: in un paesela cui capitale commerciale, Karachi, spesso restavasenza corrente elettrica per giorni interi (è tuttora così).Ogni giorno quei cavallini erano quotidianamente coccolatie alimentati a mandorle e latte. Mumtaz Bhutto, cugino diZulfikar, capo della tribù dei Bhutto nonché membrofondatore del PPP e zio paterno di Benazir, si espresseapertamente contro di lui definendolo sulla stampa «uncriminale che ha trovato la via per il potere». (Nel 2008, nelprimo trimestre della presidenza Zardari, Mumtaz è statoarrestato. «Quell’uomo ruba il nostro nome e la nostrastoria e pensa di poterci eliminare a uno a uno», dichiaròalla stampa.)

«Quando il governo di Benazir cadde, prontamenteseguito da quello di Nawaz Sharif, i seguaci di Murtaza inPakistan cominciarono a fare insistentemente pressionesu di lui. Mir era una figura politica di prima grandezza, loera sempre stato, e i quadri del partito erano tutti con lui»,afferma Suhail. «Tutti pensavano che fosse venuto il suomomento, e che Murtaza dovesse presentarsi alle elezionie giocare il ruolo che gli spettava nella politica pachistana.»

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Maulabux, uno degli attivisti politici cui allude Suahil, siesprime con grande forza a proposito di questa idea delfigliol prodigo che torna in patria: «Nella nostra cultura l’aslwaris, il “vero erede”, era Mir baba».3 Era evidente a tuttiche, se i fratelli di Benazir erano stati via dal Pakistanmentre lei costruiva la sua carriera politica sotto Zia, erasolo perché per loro era troppo pericoloso restare. SeZulfikar aveva mandato via i suoi figli maschi era proprioperché li considerava i suoi eredi. «L’accordo non detto»,prosegue Mauli, «era sempre stato che qualsiasi cosafacesse Benazir la faceva in quanto rappresentante dellafamiglia: non in quanto Benazir individuo, ma in quantoBenazir figlia di Bhutto.»

Mauli capisce benissimo come deve suonare alle mieorecchie questa spiegazione, questo suo sforzo dispiegare, proprio a me, che ciascuno è la sua famiglia,niente di più preciso, niente di più unico. E poi anch’iosono una primogenita, e femmina, per ironia della sorte.«Ascoltami bene», riattacca misurando le parole: «è cosìanche nella cultura beluci, nella cultura pathan - perfinonelle culture occidentali, non è vero? - è la regola delprimogenito, che deve ereditare l’attività del padre, che sitratti di agricoltura, affari o politica.» Mauli fa una pausa.«Bibi», riparte, «Bhutto ka waris Bhutto hai: l’erede di unBhutto è un altro Bhutto.» Benazir invece era diventata unaZardari. Un promemoria non troppo sottile rivolto anche ame, nonostante Mauli stia facendo del suo meglio affinchéio non prenda le sue spiegazioni troppo sul personale -

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dopotutto io sono single, non ho ragione di prenderla sulpersonale: non ancora, perlomeno.

«No, non c’entra la storia dell’erede maschio o delpatriarcato», mi corregge Suhail quando avanzo questaipotesi. «Mir aveva lo stesso identico background familiaredi Benazir - anche lui era un Bhutto, anche lui aveva avutoun rapporto molto forte con suo padre, e anche lui si erabattuto contro la dittatura. Benazir però non avevanient’altro. Murtaza invece aveva le mani pulite, una storiadel tutto esente da corruzione e compromessi, la pienacomprensione ideologica della politica socialista. Era daquesto che sua sorella si sentiva minacciata.»

I quadri del PPP, quasi tutti sulla trentina, diventati cioèadulti sotto la dittatura di Zia, sembravano pensarla comelui. Hameed Baloch, residente all’altro estremo di Karachi,a Malir, ha lavorato con Benazir durante la fase dell’MRD epoi ha avuto un incarico nel suo primo governo: «Glielementi più giovani del partito, gli attivisti che erano statiin prima linea negli anni di Zia, sostenevano tutti Murtaza evolevano che tornasse». La sua delusione nei confronti diBenazir era dovuta alle stesse ragioni per cui gli attivistidella vecchia guardia, sotto la nuova leadership, avevanocominciato a uscire dal partito: «Il partito eramonopolizzato da Zardari e la corruzione era il suo unicofine - non c’era più storia nel PPP, né ideologia, eradiventato solo una macchina per far soldi».4

«Nei venti mesi in cui sua sorella rimase al governo, Mirtacque», ricorda Suhail. «Anche se vedeva benissimo

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cosa stava succedendo e non era d’accordo. Scelse unavia molto più politica e democratica: decise di presentarsialle elezioni. Non tornò in patria per rivendicare il suo titolo.Si preparò per la battaglia. Quante persone conosci,dimmi un po’, che si siano presentate alle elezioni standofuori dal paese e le abbiano vinte lo stesso?» mi domandaSuhail, sollevando un sopracciglio. Ha ragione: me neviene in mente solo una.

Nell’estate del 1993 Murtaza prese la sua decisione.Tornava a casa. Telefonò a Ghinwa, che era in Oklahomacon Zulfi per far visita a sua sorella Racha, e le disse chedoveva tornare perché aveva deciso di candidarsi alleelezioni. Ghinwa abbreviò la sua vacanza e tornò. Io ero viacon Joonam, mia nonna, e in tutta fretta fui messa su unaereo e spedita a casa. Murtaza parlò al telefono con suamadre, che era ancora - ma ancora per poco -presidentessa onoraria del partito, e le chiese di spedirgli imoduli che bisognava compilare per presentarsi candidati.Ma era Benazir, la presidentessa effettivamente in carica,insieme a suo marito, ad avere l’ultima parola sui candidatidel partito.

Benazir parlò con suo fratello nei termini più esplicitirifiutandogli decisamente la candidatura e dandogli incambio un consiglio: se davvero voleva tornare in Pakistanavrebbe fatto meglio a lasciare la Siria, notorio statocanaglia, e a stabilirsi per qualche anno a Londra, giusto iltempo per liberarsi di ogni residuo di socialismo; soloallora si sarebbe potuto parlare di una sua candidatura peril partito, fra un paio di tornate elettorali. Benazir era una

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prepotente consumata, e ormai era da troppo tempo chefaceva di testa sua.

Murtaza aveva sempre avuto la tessera del Partito delpopolo, fin dalla sua fondazione. Aveva sempre pagato lequote associative, gli aveva dato addirittura la sua vita, oalmeno ne era convinto. No, insistette con sua sorella, io mipresenterò a queste elezioni. E chiese di poter contare sunove seggi - che alla fine furono assegnati interamente aZardari e alla sua cricca. Benazir respinse tutte le suerichieste: «Non posso dare a te e ai tuoi nove seggi»,disse, e gli offrì un seggio in provincia in un qualchedistretto elettorale di secondo piano. Nessuno di noi, inquel momento, riusciva a capire perché Benazir fossetanto terrorizzata all’idea di dover competere con il fratellominore.

Per spiegare la trepidazione di Benazir, Aftab Sherpao,ex vice presidente del PPP e oggi leader di una suafazione, si esprime senza peli sulla lingua: «Eravendicativa. Aveva assaggiato il potere e non voleva piùrinunciarvi. Tolse a begum la presidenza del partito perchéaveva paura di tuo padre. Sapeva di partire svantaggiata;l’eredità di Bhutto era di Murtaza, non sua, e questopensiero la disturbava continuamente».5 Sul finire del1993 Benazir detronizzò la madre, che per buona partedell’anno aveva fatto campagna elettorale per Murtaza,dalla sua carica tutta formale di presidentessa onoraria delpartito per autonominare sé stessa presidentessa a vita. Iltitolo è tuttora in vigore.

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Un tempo, Sherpao era stato un fedele compagno dipartito per Benazir. Era sempre lui a sostituirla quando leiera in viaggio, pur controllato a vista da due fedelissimidella presidentessa, incaricati di assicurarsi che non siallontanasse dai punti principali della sua agenda politica.Ed è proprio nell’insicurezza politica di Benazir, culminatanell’imposizione di una farsa come la presidenza perpetua,che Sherpao individua la causa della loro rottura definitiva:«Ero arrivato al punto di dichiarare alla stampa», racconta(nominando «quella cosa che comincia per S» e che aBenazir non piaceva affatto, soprattutto se accompagnatada un’altra parola che comincia per E - estera), «che se cifossero state delle elezioni interne al partito nessunoavrebbe potuto competere con lei! Di cosa aveva paura?Invece lei volle fare delle elezioni-farsa in cui ai membri delcomitato centrale fu chiesto se si opponevano alla suapresidenza a vita, e i risultati di tale sondaggio non furononemmeno comunicati ai militanti. I sacrifici che ha fatto ilpartito - di quelli sì che ognuno di noi ha avuto una parte».Sherpao, il cui fratello Hayat fu assassinato all’inizio dellastoria del partito, alla fine ha lasciato Benazir per fondareun suo PPP. «Che tu sia stato frustato o incarcerato, vienia votare, per il partito sei una risorsa», mi dice nella suacasa di Islamabad sopra una tazza di tè profumata alcardamomo. «Tutti abbiamo dato un contributo - miofratello, io, tutti. Il partito non è il feudo personale di unapersona sola - appartiene a tutti noi.»

Il PPP invece era diventato una sorta di terreno feudale;non c’era spazio per leader carismatici esterni al partito

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stesso o alla famiglia dominante. Durante le assembleeinterne, gli esponenti della vecchia guardia provavano adalludere al trattamento che Benazir aveva riservato a suamadre. Una cosa davvero imbarazzante, mormoravano aocchi bassi.

«Solo nove seggi in tutto il Pakistan», commentamamma mentre, sedute in cucina, parliamo del passato edel libro che sto scrivendo e che, capitolo dopo capitolo celo fa rivivere. «È così che lei cercò di mettere da parteMurtaza, dopo essersi impossessata del partito. L’avevapraticamente fatto fuori - era diventato un peso per lei.Semplicemente, non c’era spazio per lui.» Alla fine ilseggio elettorale che Murtaza aveva chiesto per sé comesua prima scelta - il PS 204, il seggio della patriaoriginaria dei Bhutto, Larkana, dove Zulfikar avevacostruito la casa destinata al suo primogenito - fu dato a unparvenu di nome Munawar Abbassi. Gli abitanti della zonalo conoscevano solo come il proprietario terriero che avevamesso un ajrak, un tipico segno d’ospitalità sindhi, al collodel generale Zia quando questi aveva visitato Larkana.

Allora Murtaza decise di presentarsi come candidatoindipendente, e cominciò a prepararsi per la gara della suavita. A questo punto bisogna sottolineare, perché non ècosa che possa essere trascurata, che in Pakistan nonsuccede niente senza l’intervento o l’influsso dei servizisegreti. Mentre Benazir tormentava i suoi familiari, peresempio Sanam, nonché amici e conoscenti affinchédissuadessero Murtaza dal tornare in patria, i servizi - ed èfacile capire perché, con il senno di poi - cominciarono con

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fare qualche telefonata tesa ad appurare quanto fossegrave la spaccatura interna alla famiglia Bhutto. Fin dovepotessero arrivare gli 007 nazionali e quale influenzapensassero di poter esercitare non so, ma è chiaro che sela faida fosse diventata pubblica si sarebbero aperti nuovispazi per tutti quelli che volevano lavorare contro lafamiglia. Almeno nella testa di Benazir, tutte le suedecisioni godevano della benedizione del potentecontrospionaggio politico; e questo caso non facevadifferenza. L’establishment, però, non poteva influenzareMurtaza né in una direzione né nell’altra; è questo che nonriuscivano a capire. Se papà avesse ottenuto un seggio inparlamento, avremmo fatto i bagagli. Altrimenti, saremmorimasti a Damasco. Questo l’accordo interno alla nostrafamigliola.

Nell’agosto del 1993 Ghinwa andò in Pakistan con Zulfiper compilare i documenti che avrebbero permesso aMurtaza di presentarsi come candidato indipendente.Papà e io li accompagnammo al Damascus InternationalAirport per il volo di mezzanotte per Karachi. Sedemmo nelsalone delle partenze mangiando stantii panini conmortadella e formaggio mentre papà ripassava conmamma tutto quello che avrebbe dovuto fare, il programmada seguire, come trattare con la stampa eccetera. Papà lefece anche il nome di Ali Hingoro - un vecchio attivista delPPP che un tempo era stato uno degli addetti allasicurezza più vicini a Benazir e poi era stato messo daparte negli assestamenti seguiti alla presa del potere.«Resta con Ali», le disse; lui ti proteggerà. Ricordo il suo

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nome perché mi sembrò strano, quasi italiano. «Ali è unoduro a morire», concluse. Duro a morire.

La mattina dopo mamma atterrò al Jinnah Airport,accolta da migliaia di persone che avevano voluto darle ilbenvenuto di persona. «Zulfi si spaventò per tutto quelgridare slogan e consegne», ricorda. «Dalla pista salimmosull’auto di Joonam e andammo dritti a Lyari per fare lecondoglianze alle famiglie di alcuni attivisti - fu il mio primoincontro con la cultura delle condoglianze com’è vissuta inPakistan…» (Mamma ride di un riso amaro, poi fa unapausa. Di lì a poco saremmo diventati degli esperti nellacultura delle condoglianze.) Come prima cosa mammaandò a consegnare la documentazione necessaria allacampagna elettorale di papà, dopo di che fu circondata dadecine di donne che uscirono di casa per ballare efesteggiare insieme a lei. Da Lyari raggiunse in auto lezone più povere del Sind, Dadu, Badin e Thatta, perpresentare la candidatura di suo marito. Le sei oresolitamente richieste dallo spostamento Karachi-Larkanasi trasformarono, per la loro piccola carovana, in bendiciotto ore di agonia a causa della folla che si radunava alloro passaggio.

Finalmente, dopo due intensissime settimane di lavoro,mamma e Zulfi tornarono a Damasco. Io li aspettavo conansia. Avevamo solo quindici giorni per stare di nuovo tuttiinsieme, dopo di che sarebbe partito il secondo tourelettorale. La situazione era molto eccitante. Papà chiesea me di fargli la foto che sarebbe stata stampata sui posterdestinati a tappezzare tutto il Sind. Facemmo qualche

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ritratto serio e composto - niente di pacchiano, lui vestitocon un ajrak, lui in poltrona. Pose semplici, ma io eroorgogliosissima del mio ruolo di fotografa ufficiale di papà.Raccontai a tutte le mie amiche che sarei andata duesettimane in Pakistan a fare campagna elettorale per miopadre. Se avesse vinto, saremmo partiti per sempre. Nonmi credettero. Tra di noi parlavamo sempre di questastoria di tornare in un posto chiamato Pakistan (Bakistan,secondo la dizione siriana), ma fondamentalmente tuttepensavano a me come a una siriana.

Una volta in Pakistan partimmo subito in quarta.Viaggiammo in macchina per ventun ore al giorno,fermandoci in tutti i villaggi e in tutte le cittadine lungo ilpercorso per parlare di papà nei mercati di quartiere etenere comizi elettorali a commercianti e grossisti. Fino adallora io, del Pakistan, avevo visto solo i sobborghi elegantidi Karachi e la nostra casa di Larkana. Non ero mai statanell’interno. Fu uno shock. Ci arrampicammo sul tetto dicase di fango per parlare alla folla reggendoci in precarioequilibrio su tegole non cementate; andammo a fare lecondoglianze a famiglie i cui figli si erano suicidati perchénon riuscivano a trovare lavoro; partecipammo a feste dinozze accompagnate non dalla musica o dalle danze madagli spari; consumammo tutti i nostri pasti servendoci dapiatti in comune coperti di mosche.

In un alberghetto di Thatta la nostra stanza aveva ilsoffitto coperto di lucertole; mamma e io dormimmo conl’ajrak tirato sulla faccia per proteggerci da caduteinopportune. Nel bagno di un altro cosiddetto «albergo», un

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mattino, andando a lavarmi i denti scoprii che il secchiod’acqua che ci faceva da lavandino era anche la casa diuna famiglia di girini. Corsi alla porta accanto per avvisareJoonam che l’acqua era contaminata, ma lei si stava giàlavando il viso. «Ci sono dei girini nell’acqua!» gridai,cercando di fermarla. «Ringrazia il Signore che almeno c’èl’acqua, Fati», rispose lei con nonchalance, e continuò alavarsi.

Ai comizi e alle assemblee cui partecipavamo ognigiorno, Joonam parlava in urdu a una folla che gridava eapplaudiva. A volte anche a mamma veniva chiesto dileggere un intervento, un testo che lei stessa avevacomposto e tradotto in urdu dall’originale in arabo, ma lei lofaceva lentamente perché ancora non aveva moltafamiliarità con la lingua. Però era coraggiosa e prendeva laparola a tutti i comizi, subito dopo sua suocera, fermandosiogni tanto per fare qualche piccola modifica al discorso oper aggiungere un pensiero suo. Inevitabilmente, anch’iovenivo incoraggiata da qualche membro del gruppo cheseguiva la campagna elettorale a prendere la parola.Qualcuno mi sussurrava all’orecchio un paio di slogan, equando ero davanti al microfono due braccia miallungavano mio fratello Zulfi. Io odiavo il suono della miastridula voce di adolescente, e nel breve tragitto fra la miasedia e il podio mi angosciavo a morte. Fingevo di averemal di gola, la febbre, una malattia qualsiasi che miimpediva di parlare in pubblico. Finché un giorno, mentreero sul palco davanti a migliaia di facce impazienti,facendo appello a tutto il mio coraggio per ripetere come

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un pappagallo le tre frasi che mi erano state suggerite,Zulfi, tre anni, afferrò il microfono e strillò uno degli sloganche, in quelle due settimane, aveva sentito ripetere piùvolte: «Ji-ye Bhuttoooo! » Lunga vita a Bhutto! La follaimpazzì. Io scoppiai a ridere e mi voltai a guardaremamma, altrettanto scioccata al vedere che il nostropiccolino aveva ascoltato tutto e tutto immagazzinato inattesa della sua grande occasione. Da quella volta io,deliziata, diventai semplicemente la spalla di Zulfi; loaccompagnavo al microfono, lo prendevo in braccio, salivosul podio e lo reggevo pazientemente mentreentusiasmava la folla con il suo urdu infantile e la suacomunicativa da showman fatto e finito. Ero salva.

In viaggio mandavamo a memoria i canti dellacampagna elettorale - melodie tradizionali sindhi connuove parole che si riferivano a papà. In quei lunghispostamenti automobilistici dormivamo aggrovigliati tuttiinsieme, ciascuno con le gambe allungate su quelle deglialtri, con il collo piegato, molti crampi e nessunissimaprivacy. Ma c’erano anche momenti di preoccupazione e dirabbia.

A Larkana, base operativa della campagna elettorale dipapà, eravamo da poco saliti in macchina per andare atenere dei comizi quando Joonam vide uno striscione eordinò all’autista di fermarsi. Poi scese dall’auto come unafuria e si buttò sul negoziante che l’aveva esposto nella suabottega. «E questo cosa sarebbe?» strillò Joonam,agitando le mani dalla rabbia. Lo striscione era statoaffisso per conto di Munawar Abbassi, il candidato scelto

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affisso per conto di Munawar Abbassi, il candidato sceltoda Benazir per correre contro suo fratello. «Votate perMunawar», diceva, «il sepah, soldato, di Zulfikar AliBhutto.» «Si presenta alle elezioni contro il figlio di Bhutto epretende di essere il suo soldato?» Livida dalla rabbia,Joonam gridava contro il negoziante. Per un attimo pensaiche l’avrebbe colpito. Il negoziante era come paralizzato.Lo striscione non era suo, non era stato lui a esporlo,ciononostante tenne la bocca chiusa e la lasciò gridare.Joonam era furibonda, contro sua figlia, contro il partito,contro il durissimo lavoro che le toccava fare per riportarea casa l’unico figlio maschio rimastole.

Il PPP aveva orchestrato una campagna di denigrazionecreativamente cattiva e violenta, e non c’era di che stupirsi.Nei suoi slogan Murtaza veniva definito un terrorista, e siaffermava che all’estero aveva vissuto nel lusso piùsfrenato; un passaparola sotterraneo, inoltre, promettevache non sarebbe mai tornato in patria, nemmeno seavesse vinto.

La nostra campagna elettorale però andò avanti, enessuno si lasciò intimidire. L’eccitazione per il ritorno delfigliol prodigo era contagiosa, ricorda Maulabux, anche sela spaccatura interna al partito e alla famiglia diventavaogni giorno più sgradevole. «Prima che Mir baba tornassein Pakistan», mi racconta nella sede del partito di Malir, frapiatti di biscotti e bicchieri di Pakcola ghiacciata,«facemmo fare delle magliette con sopra la sua faccia.Erano semplici magliette bianche con una foto al centro.Un giorno, mentre andavamo a un comizio del PPP al

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Nishtar Park di Karachi, un uomo mi fermò e mi disse:“Mauli, volete proprio farvi picchiare?”. “Perché?”,domandai io. “Perché dovrebbero picchiarci? Stiamo solomostrando il suo volto, lo stiamo ricordando, vogliamo che imedia sappiano che Murtaza ha il sostegno dei lavoratori.E riprendemmo il cammino verso il comizio. All’ingressodel parco però la polizia ci bloccò - ci dissero che nonpotevamo entrare perché eravamo “ragazzi di Murtaza”, “AlZulfikaristi”. Lì per lì pensammo che erano la polizia el’establishment a cercare di mettere Benazir nei guai e afare cattiva pubblicità al partito. Così decidemmo diaspettarla fuori dal parco. Non appena vidi avvicinarsi lasua auto le andai incontro e, affacciandomi al finestrino, ledissi: “Sahiba, non ci lasciano entrare”. Lei mi guardò confreddezza e replicò: “Se intendete portare questamaglietta, fatevi un comizio vostro e non venite ai nostri”.»Maulabux scuote la testa. «Non la perdonerò mai peravermi detto quella frase, mai.»6

Il giorno delle elezioni papà rimase seduto nel suo studiodella casa di Damasco con le porte insolitamente chiuse.Su dei semplici fogli di carta bianca disegnava schemi incui registrare i voti man mano che arrivavano, fermo esilenzioso davanti a due apparecchi telefonici. Eratesissimo. Non potevamo fare il più piccolo rumore; se cisentiva parlare o giocare in corridoio usciva lentamentedallo studio e, con il viso molto arrossato e stanco, cichiedeva di fare silenzio.

Papà non aveva rappresentanti per il rilevamento dei voti

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nei distretti in cui si era presentato; nessun prontointervento contro i brogli, niente militanti pronti adenunciare eventuali irregolarità del voto, nienteosservatori. Negli ultimi tre giorni della campagnaelettorale Joonam non aveva fatto altro che bussare acentinaia di porte di Larkana per chiedere alla gente divotare affinché suo figlio potesse ritornare a casa. Nellesettimane precedenti le elezioni, la campagna didisinformazione orchestrata dal partito di Benazir avevaraggiunto il parossismo, e Joonam aveva dovuto lavorareinstancabilmente per arginare la marea.

Verso sera mamma e io eravamo in cucina a prepararequalcosa da mangiare per gli amici che sarebbero venuti acena, indipendentemente dai risultati del voto. Nonpreparavamo una festa, ma non intendevamo nemmenoaffrontare una eventuale sconfitta a pancia vuota. Mammaera china sui fornelli e io in piedi accanto alla porta quandosentimmo un urlo. Avevo già sentito qualcosa di simile unavolta in vita mia - la notte in cui l’aereo di Zia si eraschiantato al suolo. Un suono così forte che pensai fosseesploso il forno. Il cuore mi balzò in gola e lì rimase: maprima che mi fossi fatta un’idea di cosa stesse accadendo,papà entrò in cucina come un razzo. Aveva vinto le elezioninel distretto di Larkana, quello che era stato di suo padre.Aveva il suo indipendente, contestato seggioparlamentare.

Ci abbracciammo stretti, cercando di capire, lì sui duepiedi, che significato avrebbe avuto quell’avvenimento.Saremmo tornati in patria. Poco dopo cominciarono ad

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arrivare gli amici. La casa, il nostro piccolo appartamentodi due camere da letto, era pieno di musica e di personeche ci volevano bene. Papà aveva vinto.

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CAPITOLO 17Dopo sedici anni di esilio, durante i quali si era lasciato

costringere a stare zitto e buono, Murtaza era arrivato sottole luci della ribalta come erede manifesto del PPP. Pertutta l’estate non aveva fatto altro che rilasciare interviste agiornali pachistani, incontrando i giornalisti che loraggiungevano in Siria per scrivere della sua decisione dicandidarsi, parlando per telefono con i circoli della stampae mandando in giro dichiarazioni politiche con un fax neroche per mesi non aveva smesso di ronzare un momento.Dapprima erano stati Al Zulfikar e le attività militanti deifratelli Bhutto a suscitare l’interesse dei media. Era stataun po’ una palla al piede, che aveva sempre rimesso alloro posto Murtaza, il suo nome e la sua reputazione ognivolta che lui diventava un po’ troppo indisciplinato. MaMurtaza aveva sempre respinto l’accusa di essere unvigilante antidemocratico, con grande candore: «Se laforza si impone per forza, contro la volontà del popolo, einfrange la costituzione del paese, imprigiona i membri delparlamento, uccide i rappresentanti del popolo… allora ilpopolo è tenuto a resistere. È suo dovere morale enazionale. È suo dovere costituzionale resistere alla forzache spezza la sua volontà», afferma Murtaza in un’intervistaspesso citata.

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Sono pronto a rispondere su qualsiasiargomento. Io non ho mai tradito il popolo. Mipiacerebbe moltissimo vivere assieme almio popolo. Mio fratello è morto per la nostracausa: quanto a me, forse vivrò e morirò inSiria, ma non scenderò a compromessi. Nonho niente di cui vergognarmi. Il dirottamentodell’aereo della PIA fu opera di tre uominisoli che volevano ottenere il rilascio di alcuniprigionieri politici. A Kabul, l’aereo fu minatodalla cabina di pilotaggio alla coda con centopiccole cariche esplosive. Quegli uominiminacciavano di farlo saltare in aria… Ioinvece sono contrario ai dirottamenti, alprendere ostaggi. Il mio intervento salvò lavita a più di cento persone. Perché nessunome ne dà credito? C’è chi dice che MirMurtaza ha dirottato un aereo; ma chi fu asalvare la vita dei cento innocenti che sitrovavano a bordo?1

A ogni modo questa ondata di pubblicità negativa sullastampa, indubbiamente fomentata dall’establishmentpolitico, non poté rallentare il moto ascensionalecominciato con la decisione di Murtaza di candidarsi alleelezioni e culminato con la sua vittoria nel distretto di

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Larkana.Il 12 agosto, parlando al «Pakistani Daily News», aveva

detto: «La mia decisione di tornare in patria e parteciparealle elezioni è definitiva… Se vuole, l’establishmentpachistano può far impiccare un altro Bhutto - ma poi cosafarà, impiccherà anche mio figlio Zulfikar Ali Bhutto? Ecentinaia di altri Zulfikar Ali Bhutto sparsi per tutto ilpaese?».2

Odiavo sentirlo parlare così. Mi sembrava un modo diprovocare la sorte, soprattutto con una storia familiarecome la nostra. Nell’articolo, il giornalista sottolineavacome avesse la voce «rotta dall’emozione». Era così vicinoa realizzare il suo sogno di tornare in patria che nonriusciva a vedere oltre.

Secondo un altro aneddoto, due settimane dopo Murtazadichiarò che sarebbe tornato a Karachi «sia quel che sia»;e aggiunse alcune graffianti critiche al governo di Benazir:«Il degno, onesto e diseredato popolo del Sind dovrebbesedere in parlamento per opporsi ai corrotti, ricchicacciatori di potere che in passato hanno affollatoquell’assemblea».3 Erano interviste pericolose - che lomettevano esplicitamente contro sua sorella, i cuicompagni di partito erano appunto quei corrotti cacciatoridi potere che stavano per tornare al governo. «Io invecesono incorruttibile, il mio cuore è puro», continuò Murtaza,suggerendo indirettamente all’intervistatore l’idea dichiedergli se poteva chiamarlo «Mr Pulito»: una battutaferoce contro il marito di Benazir, soprannominato «Mr

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Dieci Per Cento» - e che nel corso del suo secondomandato sarebbe arrivato a «Mr Cinquanta Per Cento».L’articolo riporta che Murtaza scoppiò a ridere e rispose:«Sì, certo che può».

In realtà la stampa stava facendo il doppio gioco: ungiorno scriveva che Murtaza tornava in Pakistan solo perriportare sulla scena politica del paese le milizie private e ilterrorismo, e il giorno dopo pubblicava un articolo in cui losi definiva l’oracolo dei sogni perduti del PPP e siricordava ai lettori che «come membro del PPP avevapagato i suoi quattro anna di tessera fin dall’età di tredicianni».

Decidemmo che papà avrebbe lasciato la Siria il 3novembre, mentre noi lo avremmo seguito un mese dopo,alla fine del trimestre scolastico. Suhail, che nei lunghi annidell’esilio era rimasto vedovo, arrivò a Damasco con i duefigli, Bilal e Ali, per tornare in patria insieme a noi. Tuttierano in preda a una frenetica eccitazione. In realtà nonavevamo fatto altro che prepararci a partire dal momentostesso in cui ci eravamo stabiliti a Damasco. Una seramamma mi regalò una valigia e mi disse di cominciare ametterci le mie cose, scegliendo cosa volevo portare ecosa lasciare. Io la riempii di libri, soprattutto Nancy Drewe gli Hardy Boys, e quando fu piena tornai da mamma e lechiesi se potevo averne un’altra per i vestiti. Cominciai adire a tutte le mie amiche che stavolta partivo davvero,facendo l’indifferente davanti alla loro tristezza. Anch’iosentivo che stavo per tornare a casa. L’entusiasmo di papàera contagioso.

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Qualche giorno prima della partenza, Murtaza andò atrovare il presidente Hafez al Assad per ringraziarlo diaverci ospitato nel suo paese. Per anni Al Qa’ed, «il capo»era stato per noi un padrone di casa molto affabile ecortese, nonché un amico fedele di tutta la famiglia Bhutto.Quando Benazir era venuta a Damasco in visita di stato,durante il suo primo mandato, lui l’aveva accolta in pompamagna e con tutti gli onori. Papà mi aveva forzata arinunciare all’annuale concerto di primavera per andare adaccogliere Wadi, e io, pur essendo un po’ seccata di nonpoter assistere alla performance della mia classe, erostata contenta di vederla. Quella volta però lei non eravenuta a stare da noi, nel nostro piccolo appartamento, maera scesa alla foresteria presidenziale, in cima a unacollina affacciata sulla città.

Fin dal momento del suo arrivo io mi ero incollata a lei,sedendomi sulle sue ginocchia e strofinando il naso sullasua spalla, sempre alla ricerca di quel famoso neo fral’attaccatura del collo e la spalla: una perlustrazione resapiù difficile dal nuovo ostacolo del bianco hijab del primoministro.

Wadi mi aveva portato in regalo un’enciclopedia; il piùperfetto dei regali. Asif, invece, mi aveva regalatoventiquattro Barbie, la serie intera di quell’anno, e unagigantesca casa di Barbie - quasi più grande di me. Apapà non aveva fatto alcun effetto il dono fin troppogeneroso di Zardari: «Quell’uomo sta cercando dicomprare la mia famiglia», si lamentò con mamma quandotornammo a casa. Fui autorizzata a tenere una sola Barbie:

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le altre vennero regalate a un orfanotrofio locale. Non soche fine abbia fatto la casa di Barbie, so solo che nonpotei tenere nemmeno quella. Papà aveva incontratoZardari solo un paio di volte, la prima delle quali a Parigi,dove ci eravamo visti con Wadi la quale ci era andata perfesteggiare il bicentenario della presa della Bastiglia; mafu solo in Siria che poté farsi un’idea precisa della suanatura malvagia.

Alla cena di stato offerta a Benazir dal presidente Hafezal Assad, non appena fu servita la prima portata scivolaivia dalla mia sedia per saltare sulle ginocchia di mia zia,seduta accanto al presidente. Assad sorrise a quellainfrazione del protocollo e mi accarezzò la testa. Poi sirivolse al suo interprete ufficiale affinché mi chiedesse checlasse facevo e se mi piaceva la scuola.

Mamma aveva molto insistito perché, alla scuolaamericana che frequentavo, seguissi le lezioni di araboclassico insieme ai madrelingua. «Perché non le lascifrequentare le lezioni di lingua parlata?» le aveva suggeritopapà. «Potrebbe stare con gli altri bambini stranieri, ecomunque presto torneremo a casa: a cosa le servirebbel’arabo?» (I Bhutto sembrano nutrire un disgusto personaleper tutte le lingue che non siano l’inglese. Papà parlavabene sia il sindhi che l’urdu, eppure non me ne ha maiinsegnato nemmeno una parola. Fra di loro, le mie ziecomunicavano esclusivamente in inglese, e Joonam avevafatto in modo di trasmettere ai suoi figli solo lacomprensione del farsi, che pure lui parlava allaperfezione. Consapevole del destino che mi attendeva in

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quanto parte di questo blocco monolinguistico, mammatenne duro e io fui ammessa alle lezioni di araboavanzato.)

Ecco perché capii la domanda del presidente sirianoprima che l’interprete la traducesse in inglese, e fui ingrado di rispondergli direttamente. Gli assistenti di Assadsembravano agitati, si muovevano attorno a noi tronfi eimpettiti e si davano da fare come pavoni che fanno laruota; in realtà anche il personale di mia zia sembravasconvolto dalle mie infrazioni all’etichetta diplomatica. Imiei genitori, che all’inizio sembravano divertiti dalla miasveltezza, a un certo punto cominciarono a vezzeggiarmiper convincermi a tornare sulla mia sedia; ma io feci fintadi non vederli. Stavo chiacchierando con il presidente estrofinando il naso sul collo incipriato di Wadi. Ricordo chequella sera il presidente Assad fu molto gentile e informalecon me. Anche Wadi era in uno stato d’animo affettuoso erilassato, e mi lasciò stare sulle sue ginocchia per tutto iltempo.

«Non vi abbiamo dunque trattati bene?» domandò aMurtaza il presidente Assad. Era il loro incontro d’addio, epapà gli assicurò con gratitudine che lui sì, lui e il suopaese avevano generosamente accolto e protetto la suafamiglia nel momento del bisogno. «Allora perché dovetepartire?» replicò Assad, che aveva sempre trattatoMurtaza con l’affetto e la confidenza di un padre. Murtazarispose che in quel momento era suo dovere tornare inpatria. «Ma perché tanta fretta?» domandò ancora Assad.Era una buona domanda. Murtaza rispose solo che era suo

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dovere. «In tal caso», disse il presidente, «se nonpossiamo fare niente per convincervi a restare, vi prego diaccettare almeno l’aiuto che possiamo offrirvi per ilviaggio. » E propose a Murtaza di usare il suo aereopresidenziale, ben sapendo che nei giorni a venire lasicurezza di quell’uomo avrebbe rappresentato un serioproblema.

Papà era eccitato e nervoso. In quei giorni non lo vidiseduto nemmeno un momento. Tutti quegli anni di «ungiorno o l’altro» stavano per terminare. Suhail avrebbedovuto viaggiare insieme al suo compagno e vecchioamico, ma il giorno prima della partenza i due cambiaronoidea e decisero che sarebbe rimasto con noi. «Perché nonsi sa mai…» disse papà senza terminare la frase.

La sera del 2 novembre il nostro appartamentino erapieno di amici venuti a salutare Murtaza. Non fu un addiotriste e lacrimoso, bensì pieno di risate e di musica e diallegria. Quando tutti i saluti furono conclusi, rimasero soloFrank Sinatra che cantava dallo stereo e Ghinwa eMurtaza, finalmente soli; degna conclusione di una lunga,emozionante serata. Ghinwa si voltò verso suo marito edisse: «Allora, alla fine sembra proprio che tu l’abbia avutavinta…». Ma Murtaza non rise. Si limitò a sorridere,dolcemente, scuotendo la testa: «No. Non l’ho avuta vinta.Se l’avessi avuta vinta, oggi le cose sarebbero moltodiverse».

Il mattino dopo, svegliandomi, subito scoppiai apiangere. Ero così attaccata a mio padre che mi intristivoogni volta che lui doveva partire per un viaggio; ma quella

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volta le mie emozioni erano moltiplicate e centuplicate.Avevo paura per lui. E non volevo saperne di andare ascuola. Volevo restare a casa con mamma e con lo zioSuhail, ad ascoltare le notizie in modo da sapere in ognimomento che papà stava bene. In corridoio, vispo emattiniero, mio padre, che non aveva chiuso occhio pertutta la notte, mi abbracciò forte e mi asciugò le lacrimecon il pollice. «Devi essere coraggiosa», mi disse. «Ma tiarresteranno!» gemetti io. I giornali e i reportageradiofonici dal Pakistan non ci permettevano mai didimenticarlo. Secondo un articolo di tre giorni prima ilgoverno di Benazir «teneva pronto un mandato d’arrestosenza cauzione per quando Murtaza fosse arrivato», 4mentre un altro sottolineava molto opportunamente cheanche un criminale incallito come Murtaza, dal punto divista legale, poteva ottenere «la libertà su cauzione primaancora dell’arresto» in quanto membro del parlamento, sel’idea del carcere non lo solleticava più di tanto.5

Che papà sarebbe stato arrestato era una cosa chedavamo per scontata. Lui stesso aveva messo in valigianumerose riviste - da «Newsweek» a «The Economist» a«Vanity Fair», la sua preferita - per avere qualcosa daleggere in prigione. E anche carta e penna per scriveredelle lettere - che promise mi avrebbe fatto avere via faxtramite qualche amico - nonché dei libri per tenerglicompagnia. Era così rilassato circa la prospettiva dellaprigione che, sicuramente per amor mio, tendeva a farlasembrare meno spaventosa di un weekend alle terme,

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scherzando sul fatto che almeno in cella avrebbe persoqualche chiletto.

Mi misi sulla strada della scuola poco dopo che papà fuuscito per andare all’aeroporto. Il mio istituto partecipava aun torneo di calcio fra tutte le scuole americane dellaregione e la mia classe, come tutte le altre, aveva lamattinata libera per poter sostenere la propria squadra.Non appena varcati i cancelli del campus vidi Nora, la miamigliore amica. Era calma e serena. «Possa tuo padretornare da te esattamente come ti ha lasciata», mi disse,con un atteggiamento stoico che non era da lei. Nora èmezzo armena e mezzo siriana; disse che si trattava di unaugurio tradizionale della sua gente. Io ero terribilmenteinfelice e me ne andai in giro triste e depressa per buonaparte della giornata, domandandomi dove potesse esserel’aereo di papà e cercando di non preoccuparmi troppoper lui. «Tuo padre sta facendo la storia», mi disseun’insegnante che aveva sentito la notizia del ritorno dipapà in Pakistan alla BBC World, mentre Nora e io ce nestavamo a bordo campo. Mi sentii a disagio per tutto ilgiorno.

L’aereo presidenziale di Hafez al Assad aveva avutol’autorizzazione da tutti i paesi che avrebbe dovutosorvolare tranne uno: il Pakistan. L’ambasciatore siriano aIslamabad, spedito al Foreign Office con il compito difacilitarne l’atterraggio, fu mandato via in malo modo. Ilgoverno non l’avrebbe lasciato atterrare: una mossa cheavrebbe potuto causare un incidente diplomatico se Assadnon l’avesse prevista fin dall’inizio. Benazir era gretta e

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meschina, e lui lo sapeva; era una delle ragioni per cuiaveva deciso di offrire a Murtaza il suo aereo. Alla fine ilvelivolo atterrò al Dubai International Airport, dove Murtazafu ricevuto da alti funzionari degli Emirati Arabi Unitimobilitati dal presidente Assad; e il viaggio continuò conun volo delle Ethiopian Airways.

«Fu un’operazione estremamente complessa», ricordaSuhail. «Io stesso quel giorno restai attaccato al telefonoventiquattro ore su ventiquattro - lavorammo tuttifebbrilmente per far prendere a Murtaza una coincidenzaper Karachi. Inoltre eravamo ansiosi di farlo arrivareproprio il giorno 3, perché una gran folla si era raccolta alJinnah Airport per riceverlo ed era rimasta ad aspettarlo findalle prime ore del mattino.»6 Quel giorno anche HameedBaloch, che fino a qualche tempo prima aveva ricoperto unincarico di partito sotto la leadership di Benazir, si trovavaa Karachi, e fin dal mattino si era aggirato per le stradevicine all’aeroporto. «C’erano ranger e camionette dellapolizia; vedemmo addirittura qualche veicolo militare -perché eravamo migliaia, noi attivisti accorsi all’aeroportoper dare il benvenuto a Mir baba, e sembrava che quelgiorno tutti i poliziotti della capitale avessero l’unicocompito di tenerci lontani da lui. Ogni due ore cercavano didepistarci dicendo che il suo volo sarebbe arrivato alvecchio terminal aeroportuale di Karachi, a quindici minutidi distanza, e poi, una volta che avevamo camminato fin là,ci dicevano che no, a quanto pareva sarebbe atterrato nelterminal nuovo, quello che avevamo appena lasciato.»7

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A Damasco arrivò la notizia dei contingenti di polizia chepresidiavano l’aeroporto. Non avevamo previsto una simileprova di forza da parte dello stato. In fondo Murtaza era uncittadino pachistano, viaggiava su un normalissimo aereodi linea e aveva detto in più di un’occasione di esserepronto a rispondere in tribunale di tutte le accuse sollevatecontro di lui. «Non eravamo preoccupati per la trattaDamasco-Karachi», racconta Suhail, «quanto piuttosto perla sicurezza di Murtaza a terra, una volta arrivato in città.»Per assicurarsi personalmente che tutto andasse liscioanche la madre di Murtaza, Nusrat, restò tutto il giornoall’aeroporto. E anche lei dovette fare la spola fra i dueterminal insieme agli attivisti che si accalcavano perassistere al ritorno del primogenito di Zulfikar. Dopoquattro ore di questo trattamento, però, le cedettero i nervi.A un certo punto arrivò per l’ennesima volta al terminalnuovo, dopo aver perso tutta la mattinata e buona parte delpomeriggio ad andare avanti e indietro fra i due terminalsolo per farsi trattare male dai poliziotti: e quella volta ilpoliziotto che fece l’ultimo, debole tentativo di impedirle dientrare si beccò uno schiaffo in faccia.

Nusrat era una donna solida e temprata, che avevaconosciuto la dittatura militare di Zia ed era stata picchiatanello stadio di Lahore nei tempi più cupi del regime. Entrònel terminal come una furia e si mise ad aspettare l’arrivodi suo figlio, lasciando l’agente con la faccia che glibruciava per lo schiaffo ma del tutto incapace di bloccarle ilpasso. «Quando sentimmo dire che la polizia si eracomportata in modo poco rispettoso con begum sahiba»,

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racconta Hameed, «ci lanciammo contro i cancellidell’aeroporto; ma i poliziotti cominciarono a picchiarci coni lathi e a gettare lacrimogeni tra la folla - volevanodisperderci, costringerci ad andare via affinché Mir babatornasse in Pakistan senza alcun sostegno. Ma noiresistemmo, perché solo così potevamo esserci, solo cosìpotevamo sperare di riuscire a vederlo.»

Era quasi notte quando, finalmente, Murtaza atterrò. Colbuio la polizia era diventata più aggressiva, avevaarrestato numerosi attivisti e si era schierata compatta intenuta antisommossa davanti alla folla; ma la genteresisteva, e prendeva a sassate le camionette checercavano di impedirle di avvicinarsi all’aeroporto. Murtazascese dalla scaletta da solo e rivide per la prima voltaKarachi sotto la coltre della notte. Si inginocchiò sull’asfaltodella pista e baciò la terra della sua patria. Nusrat era là,emozionatissima, sciolta in lacrime. Lui ebbe solo il tempodi abbracciarla e subito fu portato via e rinchiuso nellaprigione di Landhi, nella zona nord di Karachi. Quella cellasarebbe stata la sua casa per i successivi otto mesi.

Quella notte nessuno degli attivisti che l’avevano attesosotto il sole di Karachi poté vederlo, perché Murtaza fu fattouscire dall’aeroporto attraverso un’uscita secondaria. Mac’era gioia nell’aria. Finalmente era tornato.

Benazir era ancora una volta al potere, ma di fronte a leic’era un oppositore nuovo: suo fratello. Non un membroqualsiasi di un vago partito d’opposizione: a livellopopolare, nel Pakistan patriarcale, Murtaza erariconosciuto come l’erede di Bhutto. Lei avrebbe dovuto

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riconosciuto come l’erede di Bhutto. Lei avrebbe dovutofarsi da parte. La minaccia più grave in seno alla suastessa famiglia.

Anche Maulabux fu arrestato. «Durante il secondogoverno di Benazir un gran numero di sostenitori diMurtaza Bhutto finì in carcere. Sul piano politico, avevanopaura di noi. Ci eravamo battuti nel loro stesso partito pertutta la vita, conoscevano la nostra forza. E poi lo avevamolasciato: ormai erano così corrotti che non c’era più nienteda difendere in loro.»8

Nel corso degli anni li ho sempre visti insieme, Maulabuxe Shahnawaz. Entrambi sono dotati di grande energia, puravendo passato tanti anni in prigione, e spesso, quandoparlano, le loro storie scivolano l’una nell’altra. Sonoentrambi alti, e hanno l’aspetto orgoglioso degli sheedi;Shahnawaz è il più magro e il più taciturno dei due; stavapreparando un master in pubblica amministrazione pressol’università di Karachi quando, grossomodo all’epoca delritorno di Murtaza, la polizia di Benazir lo arrestò. «Inprigione, nessuno dei sostenitori di Murtaza Bhutto eraaccusato di qualche reato penale», mi dice, facendo ecoalle parole di Mauli. «Eravamo tutti prigionieri politici -trattenuti con accuse quali tradimento, attività antistatali esimili.»9 Shahnawaz dovette assumere un avvocatoprivato; da quando era uscito dal PPP di Benazir nonaveva più potuto beneficiare dei servizi legali del partitoche invece, come lui stesso sottolinea amaramente,venivano ampiamente utilizzati per difendere chi finiva incarcere per corruzione, uso di droghe ed estorsione.

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La maggior parte delle persone che erano state lozoccolo duro dei sostenitori di Benazir nel periodoprecedente la sua ascesa al potere aveva lasciato il partitodopo il suo primo governo, ed era passata dalla parte diMurtaza. Benazir aveva punito quegli attivisti per la lorodiserzione con una condanna al carcere. «Incontravosempre Ali Sonara al dispensario della prigione centrale diKarachi», racconta Shahnawaz. «Non ci mettevano mainella stessa cella, quindi era là che ci vedevamo perscambiarci messaggi e tenerci informati a vicenda suquello che succedeva fuori. Nel blocco girava voce chequelli che il governo riusciva a mettere contro Mir babasarebbero stati rilasciati e poi picchiati dalla polizia e infineesibiti davanti alla stampa per mostrare a tutti qualetrattamento Mir baba riservasse a chi lo tradiva. Era unaprocedura standard, per il governo. Una volta, sempre neldispensario, Ali - che era stato capo della sicurezza diBenazir - mi disse che Ghous Ali Shah, assessore delministro capo del Sind, gli aveva offerto un posto nel suoufficio se avesse accettato di denunciare pubblicamenteMurtaza Bhutto.»

Quelle proposte non erano certo poco allettanti, nellecondizioni in cui erano detenuti i sostenitori di Murtaza.«Nel 1993, quando fui arrestato», prosegue Shahnawaz,«mi trattennero illegalmente: non avevano nessun mandatod’arresto, e nessuno mi disse di cosa fossi accusato. Isecondini mi torturavano spegnendomi delle sigarette sututto il corpo.» Mentre parla noto i segni che ha sullebraccia. Sono piccoli e scuri, come dei rabbiosi pezzetti di

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pelle pizzicati insieme. Le cose che racconta Shahnawaz,gli arresti senza mandato, l’assenza di qualsiasi garanziagiuridica sono tutti segni caratteristici del secondo governodi Benazir. La polizia era stata autorizzata ad agire comeun corpo mercenario, senza alcun rispetto per l’ordinepubblico o per la giustizia. Oggi lo so, ma a quei tempiscoprivamo le violazioni dei diritti umani a una a una, manmano che si verificavano, ogni volta che un vicino di casaveniva prelevato dalla polizia e non lo si vedeva più, oquando qualcuno, all’orecchio, ci sussurrava dell’esistenzadi celle della tortura.

«Quando finalmente i poliziotti mi portarono davanti a unmagistrato, ero bendato e ammanettato - anzi, avevo ipolsi chiusi da una coppia di manette e le caviglie daun’altra. Cominciarono subito a scagliarmi in faccia unaraffica di domande, ma io mi rifiutai di rispondere. “Primatoglietemi la benda”, dissi, e loro me la tolsero; allora vidiche il giudice era un tipo con una gran barba e il nishan , ilsegno lasciato dalle preghiere quotidiane, inciso sullafronte. Le braccia mi facevano così male per le torture chenon riuscivo quasi a muovermi. Pensai che mi avrebbeaiutato, essendo un uomo tanto religioso, e gli raccontai dicome la polizia mi avesse torturato per giorni e giorni - nonsapevo nemmeno quanti, avevo perso il conto. Misbottonai la camicia per mostrargli le cicatrici che avevosul petto. E quel giudice, quel pio magistrato, sai cosa midisse? Disse che la polizia poteva trattenermi illegalmente,senza mandato e senza formulare accuse, per altri duegiorni. Dopo di che mi mandò via, dicendo agli agenti di

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giorni. Dopo di che mi mandò via, dicendo agli agenti diriportarmi in tribunale quarantotto ore dopo. Loro,ovviamente, non lo fecero.»10

È strano ascoltare questi racconti, sentirmiretrospettivamente tanto inerme e pensare che questiuomini hanno sofferto per mano di mia zia, e per aiutaremio padre, in modi che non sopporto nemmeno diimmaginare. A volte, nella mia sentimentale adolescenza,mi sono chiesta se e per quanto tempo sarei riuscita aresistere alla tortura. Mi sembrava una cosa ragionevole sucui riflettere, date le storie che avevo dovuto ascoltarecrescendo; per fortuna non sono mai stata messa allaprova. Ciononostante quella domanda mi tormenta ancora:vi hanno risposto in vece mia, anche troppo spesso, altrepersone che con le loro cicatrici e con il dolore delle lorofamiglie sono la dimostrazione vivente di quanto si possasopportare.

Anche Maulabux fu imprigionato, e proprio nel primomese del nuovo governo di Benazir. Quando gli domandoperché, lui ripensa a quegli anni e scoppia a ridere: «Nel1993 fui incriminato da un sovrintendente di polizia il qualemise a verbale che ero stato visto commettere un omicidioa Lyari, la nostra zona, a mezzanotte di un certo giorno.L’uomo che mi accusavano di aver ucciso era morto quellastessa notte a mezzanotte e un quarto, cioè quindici minutidopo, a Malir - a due ore da Lyari. Per chi mi avevanopreso? Per Superman? Come pensavano che ci fossiriuscito? ». Mi unisco alla sua risata. Non saprei cos’altrofare.

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«Nessuno di noi stava con Mir baba per soldi», continuaMauli. «Eravamo in prigione, in catene, eppure non loabbandonavamo. Eravamo lì per amore - per questo lacricca di Benazir aveva paura di noi. Perché sapevano dinon poterci comprare. Un giorno, mentre ero in prigione,venne da me Nabeel Gabol.» (Lo conosco, Nabeel Gabol.Quando ancora tenevo una rubrica settimanale sulprincipale quotidiano in urdu del Pakistan l’ho attaccato piùvolte perché a Lyari manca l’acqua potabile e d’estate cisono continui blackout. È un incapace fatto e finito, eppureè stato eletto in parlamento per la provincia di Lyari e hafatto un’incredibile quantità di soldi con il primo governo diBenazir. Abbastanza per andar via dalla regione,disperatamente povera, e stabilirsi nell’elegante quartiereresidenziale della Defence. Poi, con il secondo governo diBenazir, è stato promosso a viceportavoce dell’Assembleadel Sind. Al solo sentirlo nominare mi viene la pelle d’oca.)Dopo una breve pausa per godersi l’espressione della miafaccia, Maulabux riprende: «Era lì, davanti a me, e midiceva: “Suvvia, Mauli, convoca i giornalisti e di’ che lalinea politica di Murtaza Bhutto è pessima e che lo lasci”.Allora io lo guardai dritto negli occhi e dissi: “Da qualeporta sei entrato, Nabeel?”». Lui si voltò e me la indicò - cen’era una sola, nella stanza. “Okay”, gli dissi, “adesso puoiusarla per andartene”». Mauli ansima dal troppo ridere. Miè molto simpatico. È un uomo coraggioso, che sembrairradiare coraggio. Lui e sua moglie, anche lei una sheedi,gestiscono una scuola privata gratuita sul tetto del palazzoin cui abitano, concepita per tenere i bambini poveri di

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Lyari lontani dalle strade infestate da bande di giovanidelinquenti.

«Anche ad altri amici che si trovavano in carcere, tuttimilitanti come noi, offrirono dei soldi, un mucchio di soldi.Alcuni, torturati atrocemente, cedettero, ma i nostrisentimenti erano: se dobbiamo morire, moriremo, ma lanostra vita è di Murtaza. I carcerieri abusavanoregolarmente di noi. Ci chiamavano “quelli di Al Zulfikar”,l’equivalente di terroristi. E mentre ci picchiavano ciprendevano in giro dicendo: “E adesso che cosa fa, per te,il tuo capo Murtaza Bhutto?”. Proprio noi, gli attivisti dimaggiore esperienza, eravamo sempre sulla loro listanera. E quando vedevano che non reagivamo ai colpi, cifacevano dei tagli e strofinavano le ferite con il masala.»

So che è molto doloroso, per Mauli, raccontarmi tuttequeste cose, ammettere di essere stato così vulnerabile edi aver dovuto subire tante umiliazioni. Mentre parliamo miconcentro tutta sul mio quadernetto, dove trascrivo conprecisione le parole sue e di Shahnawaz, senza guardarlinegli occhi. La società pachistana è troppo tradizionale,troppo patriarcale perché degli uomini adulti possanoaccettare tranquillamente di condividere il racconto del lorodolore con una donna, e per giunta più giovane di loro. Ioho sempre pensato di avere un’elevata tolleranza delleverità sconvolgenti e delle storie più spaventose, ma inmomenti come questo non riesco a essere professionale evorrei poter chiedere scusa invece di limitarmi ad annuirecon aria seriosa. Forse notando il mio turbamento Mauli,sempre attento e cortese, spezza il ritmo dell’intervista per

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sempre attento e cortese, spezza il ritmo dell’intervista perraccontarmi di quella volta che incontrò mio padre inprigione.

Lui e Murtaza erano entrambi detenuti nel carcere diLandhi, a un paio d’ore di strada dal 70 di Clifton Road.Papà però era tenuto in isolamento, senza contatti con glialtri detenuti, per paura che facesse una campagna direclutamento interna. Aveva chiesto più volte di esserespostato nelle celle comuni, ma ogni volta gli era statoopposto un rifiuto di routine. «Tutti noi eravamo in celle diclasse B, mentre Mir baba stava in una cella individuale.Un giorno mandò al nostro blocco il suo secondino, unuomo di nome Durrani, che aveva l’incarico di non perderlomai di vista, per domandare se un certo Mauli stavaricevendo tutto il cibo di cui aveva bisogno e stavamangiando adeguatamente oppure no. C’erano molti altrisindhi in cella con noi, militanti di altri partiti, e udendoquelle parole tutti dissero “Vah! Anche noi vogliamo unircia Murtaza Bhutto”. “Bismillah!” dissi io. Mir baba sipreoccupava sempre per me: una volta mi mandòaddirittura dei vestiti provenienti dal 70 di Clifton Road ealcuni shalwar kameez destinati a lui. “Questi sono perMauli sahib” mi sentii dire. Gli altri rimasero allibiti: nonsolo ricevevo abiti e cibo da parte di Murtaza Bhutto, mavenivo addirittura chiamato sahib! Pensarono fossi unasorta di leader religioso o roba del genere - non riuscivanoa spiegarsi come mai Murtaza Bhutto dedicasse tantaattenzione a un semplice operaio!» Mauli scoppia a ridere,e per una volta riesco a guardarlo negli occhi e a ridere

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con lui.Ansiosa di dimostrare che non ce l’aveva con suo

fratello, che pure in quel momento si trovava in una cellad’isolamento del carcere di Landhi, e che tutte le vocimesse in giro riguardo a un loro presunto dissidio politicoerano solo noorah kushti, finti litigi, Benazir offrì a miopadre la libertà sulla parola per la festa dell’Eid. Il governodichiarò che per tutta la durata della festa il 70 di CliftonRoad sarebbe stato una «semiprigione». Ma papàrespinse il caritatevole invito della sorella: «Accetteròl’offerta del primo ministro solo se anche tutti gli altriprigionieri politici potranno avere la libertà sulla parola etrascorrere le feste insieme ai loro cari». Ovviamente,Benazir rispose di no. E così fummo tutti noi, mamma, Zulfi,Joonam e io, a restare - un po’ comicamente, un po’ no - inquello strano regime di «semiprigione» nel primo giornodell’Eid. Un intervento speciale, suppongo, ci liberò daquegli strani arresti domiciliari ventiquattro ore dopo.

Lasciammo Damasco per Karachi verso la metà didicembre, e arrivammo al 70 di Clifton Road che era giànotte. Eravamo molto in ansia per il fatto che papà fosseancora in prigione, e non facevamo che interrogarci sucome potessero essere le sue condizioni di vita. Anche selo tenevano sempre in isolamento in una cella con solo unabrandina, un orinatoio e un lavandino, papà minimizzava ladurezza della sua situazione. Ci raccontava allegramentedi aver fatto amicizia con le lucertole che vivevano sul

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soffitto e con gli scarafaggi che di notte sbucavano fuoridalle tubature. A una rivista dichiarò che era fantasticoessere di nuovo in patria dopo un così lungo esilio, mapuntualizzò che, già al momento dell’atterraggio, avevaavuto ragione di sospettare che sia il governo sia suasorella nutrissero ostilità nei suoi confronti.

Come le stavo dicendo, spero proprio chenon avranno la pretesa di torturarmi adessoche ho tanto sonno. Quando mi sveglierò,allora sì che potranno farmi tutto ciò chevorranno. Ci ho messo un po’ ad abituarmiall’idea di essere qui… Dall’aeroporto mihanno portato dritto in prigione. A voltequalcosa mi svegliava e fuori dalla portac’erano due secondini che chiacchieravanoin urdu. Erano passati così tanti anni! E allorami dicevo: «Oh, ma ci sono dei pachistani làfuori». Perché pensavo di essere ancora inSiria o in qualche altro posto del genere. Poimi ricordavo che ero in Pakistan. Ma certoche ci sono dei pachistani, siamo inPakistan!11

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Quando arrivammo, il 70 di Clifton Road sembravadeserto e abbandonato. Per un po’ era stata Joonam lasua sola occupante, ma anche lei viaggiava molto ecomunque non aveva le energie per dirigere quella grandecasa come ai tempi in cui ospitava cene di stato ed era laresidenza di un primo ministro. Mamma mise le cose sue edi papà nella stanza degli ospiti, al pianoterra, e io corsi super le scale, impaziente di rivendicare come mia la vecchiastanza di papà. Ma pur avvertendo la mia ansia Joonampuntò i piedi e disse che invece sarei stata nella stanzadelle ragazze. Io non volevo saperne della vecchia stanzadi Benazir: era dipinta di nero, gli scaffali - solo tre - eranopieni dei suoi romanzi di Mills e Boon e non c’era spazioper le mie cose. Infastidita dalla prospettiva di dover starenell’unica stanza della casa che non mi piaceva, dissi aJoonam se perlomeno non si poteva dire a Wadi di portarvia le sue cose. Io non volevo vedermele attorno.

Mi iscrissero alla Karachi American School, dove avreicominciato dal secondo semestre della sesta classe.Diversamente da quando stavo a Damasco, lì tuttisapevano chi ero. Mia zia era primo ministro, e mio padreera in prigione. Non ero più un’anonima studentessa. Lascuola era enorme, con piscina e campi da tennis e uno dacalcio grande come tutta la mia vecchia scuola. EppureDamasco e le mie amiche mi mancavano più di quantoavessi creduto possibile. Passavo tutto il tempo libero altelefono a chiacchierare con le mie amiche siriane, e lebollette erano un incubo.

Qualche giorno dopo il nostro arrivo a Karachi,

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finalmente, in tribunale vedemmo papà. La polizia dovevacondurlo davanti alla corte suprema, vicino al consolatoamericano, e noi e Joonam uscimmo di casa per rivederloper la prima volta da quel mattino di novembre. Eravamoeccitatissime. Mamma si mise tutta in ghingheri, e ioimmaginavo già una bella riunione di famiglia con soloJoonam al nostro fianco. Ma nell’istante in cui entrammonel tribunale rimasi senza fiato. C’erano giornalistidappertutto, centinaia di persone venute appositamenteper incontrare papà, stringergli la mano e farsi fotografarecon lui. Per noi non c’era quasi spazio. In aula andammo asederci dietro di lui e io mi chinai in avanti per ascoltare,senza capire una parola, le procedure del tribunale. Papàindossava uno shalwar kameez inamidato, un tipo diabbigliamento che non gli avevo quasi mai visto. Sedevasu una panca insieme ai suoi avvocati, mentre gli altriaccusati, tutti giovani uomini, erano in piedi dietro il bancodegli imputati, con lunghe catene rugginose ai polsi e allecaviglie. Non avevo mai visto una cosa del genere. Manmano che il processo andava avanti, papà si chinava versoi suoi compagni e scherzava e rideva con loro: era il suomodo per abbattere la barriera che permetteva a lui distare seduto mentre tutti gli altri erano in piedi e in catene.

Più tardi Shahnawaz Baloch mi racconta che anche luirivide papà per la prima volta dopo il suo ritorno nell’aula diun tribunale. All’epoca anche lui era stato incarcerato,senza mandato, dalla polizia di Benazir, era uno deicoimputati nei circa novanta casi giudiziari montati da Ziacontro i fratelli Bhutto. «Ricordo che mi abbracciò»,

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racconta Shahnawaz, «con un abbraccio un po’ da orso. Emi disse: “Shahnawaz, non preoccuparti di niente. Sonotornato, sono qui, adesso andrà tutto bene”.»12

Dunque, tutta quella gente era accorsa in tribunale pervedere Murtaza - era l’unica occasione che avevano perdargli un’occhiata: il parlamento era troppo protetto, e isuoi cancelli vietati ai cittadini comuni. Hameed ricordache, fallito il tentativo di vederlo al Jinnah Airport, lui e altrimilitanti si erano preparati a dargli il bentornato la primavolta che si fosse presentato in tribunale. «Quella era lanostra zona, Malir, ed eravamo andati a comprare deipetali di rosa. Parcheggiammo in una strada in cuisapevamo che l’auto della polizia con Mir a bordo sarebbedovuta passare, e restammo là, seduti tranquilli in mezzoalla strada! Quella volta non volevamo assolutamenteperderci Mir baba. Coprimmo i petali che avevamo messosul sedile posteriore con un telo di cotone, in modo da nonfarci fermare dalla polizia, poi scendemmo dalla macchinae aspettammo. Quando Mir baba passò ricoprimmo lastrada di petali di rosa e gridammo Jiye Bhutto e lui civide. Alzò il pugno chiuso verso di noi. Conoscevamo quelsegnale: “Siate forti”. Poi, quando entrammo nel tribunale,lui mi abbracciò e disse: “Hameed bhai, come ti faichiamare qui?”.» Hameed ride, aspettandosi che anch’iocapisca l’allusione ai tempi di Kabul, ma io non la colgo.Deve spiegarmela. Li sto imparando, i codici di questolinguaggio, c’è voluto del tempo, ma quando attorno a tesono stati pronunciati abbastanza nom de guerre cominci

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a pensare spontaneamente alle doppie identità.Quel giorno, in tribunale, dovemmo condividere papà

con tutta quella gente. Io avrei voluto averlo tutto per me, ecominciai a intrufolarmi tra la folla per arrivargli il più vicinopossibile. Poi, a un certo punto, la corte sospese l’udienzae potemmo andare in una stanzetta secondaria dove papàpoté fumarsi una sigaretta in santa pace e finalmenterestammo un po’ da soli. Lo abbracciammo, io piansi unpo’. Sembrava più grosso, più alto, più forte, là dentro. Epiù formale. Quando tutti gli altri si furono allontanati, cidisse che da Damasco avevamo portato troppi bagagli. Lacosa ci diede un po’ fastidio: ma come, dopo tutti i traumiche avevamo dovuto affrontare era quella la prima cosa dadire? Ma non ci soffermammo troppo su quel dettaglio.Eravamo così felici di vedere papà, di sapere che stavabene. Ci eravamo sentiti così soli al 70 di Clifton Roadsenza di lui, come in una sala d’attesa, in transito, destinatia vivere una specie di vita finta finché lui non fosse tornato.Vivemmo un mucchio di momenti strani, nelle aule ditribunale, mentre papà era in prigione. Sia mamma sia iotrascorremmo in tribunale il giorno del nostro compleanno,ad ascoltare come l’udienza per la cauzione venivarimandata per l’ennesima volta. La nostra prima - e unica -foto di famiglia fu scattata nel tribunale di Karachi. E fuanche la prima volta che vedemmo com’era papà inpubblico, nel suo ruolo di capo politico.

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CAPITOLO 18Durante un’intervista rilasciata al «Weekend Post»,

Murtaza si sentì porre quella che ormai era diventata unadomanda piuttosto frequente. Sua sorella, il primo ministro,insisteva nel dire che fra loro due non c’era alcunproblema: va tutto bene; è vero, lui è in prigione, e sonostata io a farlo arrestare, ma, a parte il fatto che mio fratelloè un terrorista, fra lui e me non ci sono problemi, soloqualche questioncina personale di tanto in tanto. Benazirdescriveva sempre le loro divergenze come banali screzifamiliari. «No, non ci sono conflitti personali fra me eBenazir», rispose quella volta Murtaza. (Altre volte,parlando di lei, la chiamava signora Zardari, perché per luiera ormai da parecchio tempo che non si comportava piùcome una Bhutto. «È perché sono femminista: per questoho tenuto il mio cognome», lo rimbeccava allora Benazir,che non sopportava di sentirsi chiamare con il cognomedel marito. «Ma se il primo ministro si dichiara femminista,viene da chiedersi come mai non abbia ancora abrogato leOrdinanze Hudood», contrattaccava papà. E di solito ladiscussione finiva qui.) «Ci sono delle differenze dipercezione, di idee e di metodi politici.»

Anche la seconda domanda era in qualche modoscontata: allora è stato tutto uno show? Una sorta dicommedia intrafamiliare recitata sul palcosceniconazionale? Murtaza rispose con chiarezza, come sempre:

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Per quanto riguarda la «commedia» possoassicurarle che, […] se tutto fosse stato unacommedia, l’aereo con cui sono tornato inpatria non sarebbe stato respinto. Io nonsarei stato arrestato senza mandato, chiusoin cella senza capi d’imputazioneformalizzati, e portato davanti a un tribunalesolo dopo settanta ore di detenzione. Avreivisto i miei legali il giorno dopo l’arresto, enon dopo venti giorni. Avremmo potutoconsultare subito tutte le carte relative al miocaso: a tutt’oggi i miei avvocati non le hannoancora viste. Se tutto fosse stato unacommedia quei paladini della giustizia i qualisbandierano tanto che «la giustizia deve fareil suo corso» non avrebbero fatto arrestaremigliaia dei miei sostenitori, il mioaccampamento di benvenuto [all’aeroporto]non sarebbe stato devastato, le case deimiei amici non sarebbero state rase al suolo.E io non sarei qui a scrivere queste risposteda una cella d’isolamento nell’ex ala dipunizione della East Prison del distretto diLandhi.1

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Poi Murtaza fu portato all’Assemblea del Sind per ilgiuramento, e quando si alzò per pronunciare il suo primodiscorso in parlamento, scrive il «Daily Nation», «l’aulasprofondò in un silenzio in cui si sarebbe sentita volare unamosca: una nuova voce si levava in quell’aula per la primavolta, la voce di Mir Murtaza Bhutto, il fratello del primoministro che lei stessa aveva fatto gettare in carcere».2

Quel giorno io ero a scuola. Non mi avevano permessodi mancare alle lezioni. C’era un solo argomento sul qualepapà era davvero rigido - l’istruzione - e così, quandotornai a casa, ci trovai mia nonna sciolta in lacrime. «Avevala stessa, identica voce di suo padre», ricorda Joonam. Èvero: Murtaza e suo padre avevano la stessa voce roca, unpo’ impostata, quando parlavano in pubblico, e lo stessotimbro profondo nelle conversazioni private. «Quel giornoanche le persone che stavano dalla parte di lei, quelle chein teoria avrebbero dovuto rappresentare l’opposizione aMir, mentre lui parlava avevano le lacrime agli occhi»,racconta Suhail. «Alcuni, violando le direttive di partito,quando ebbe finito di parlare gli si avvicinarono e glibaciarono le mani; era una cosa piuttosto insolita davedere, ma erano commossi. Capisci, è proprio questoche spaventava tanto Pinky. La sfida contro di lei, ilsostegno a Mir, erano portati avanti dagli stessi attivisti delsuo partito; l’attacco veniva dall’interno, non dall’esterno.»3

Anche se, tornando in Pakistan, era stato accolto come ilvaticinato primogenito di suo padre, non per questoMurtaza non aveva niente da dimostrare. E lui ne era

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acutamente consapevole. Anche per questo aveva decisodi candidarsi per un seggio di provincia, invece che alivello nazionale: voleva cominciare dalla gavetta. Murtazaera diverso dagli altri membri della sua famiglia. Lui noncredeva che il suo cognome portasse in sé una sorta didiritto feudale; aveva visto sua sorella, a trentacinque anni,passare da profittevolmente disoccupata a primo ministroe poi di nuovo a disoccupata in meno di due anni. Perquanto lo riguardava, Murtaza disse subito chiaramenteche intendeva partire dalla gavetta e lavorare duro persalire la scala del potere un gradino alla volta. Voleva chela gente avesse il tempo di imparare su di lui tutto quelloche c’era da sapere, voleva che gli elettori scoprissero chiera - e anche lui aveva bisogno di mettersi alla prova. Ed èquel che fece, a poco a poco.

Parlando con un giornalista di «Dawn» durante unasospensione dell’udienza processuale, Murtaza risposealla campagna tutta negativa che il PPP stava portandoavanti contro di lui: «È diventato uno dei passatempifavoriti di certi elementi opportunisti interni al partito direche Murtaza Bhutto starebbe vivendo in una fallatemporale», disse:

Ciò dovrebbe significare che quando parlodella terribile povertà che ci circonda io vivonel passato, perché in teoria non dovrebbepiù esserci povertà in Pakistan. Quando

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parlo dei poveri, degli ignudi, dei senzacasa, degli affamati, della mancanza diacqua potabile, di dispensari rurali, discuole, dell’evidente bisogno di sradicare lacorruzione, le violenze sessuali, l’abuso didroga e così via, si finge che io stia vivendonel passato. Si finge che questi non siano icompiti più urgenti che dovremo affrontarecome nazione che si affaccia al ventunesimosecolo. Ma se io vivo in una falla temporale,dove credono di vivere questi buffoni? InSvizzera?4

Papà era come un tagliente, sarcastico soffio d’ariafresca. Al giornalista di «Dawn» disse anche che il PPPera diventato un partito di «baroni del furto», e chebisognava applicare un rigido «sistema di tassazioneprogressiva a tutti i settori produttivi e non che ricadono inuna certa fascia di reddito, compresi i proprietari di terreniagricoli»: un suggerimento non da poco, in bocca a unuomo con un ricchissimo background feudale. E aggiunseche il paese aveva bisogno di una sorta di «operazione acuore aperto» per sconfiggere la corruzione. I giornalisottolinearono anche che era «favorevole a elezioni interneal partito». Per i media, Murtaza era già diventato l’anti-Benazir. La sua ideologia faceva di lui l’antitesi di tutto ciò

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che Benazir era diventata stando al potere. Ovvio che lacosa non le facesse piacere.

In questa fase io le rivolgevo ancora la parola, il che èpiuttosto strano. Ma da piccola io e lei eravamo state moltovicine. Io ero la prima bimba nata in famiglia, e lei era lamia Wadi bua. Le volevo bene, e avrei fatto di tutto pur distare un po’ con lei. Ero stata presente anche quando siera fidanzata con l’uomo che avrebbe dominato sia la suavita sia quella del partito. Spesso avevo fatto da chaperonai loro primi appuntamenti, compreso quello - al lunaparkappena fuori Londra - in cui lei aveva acconsentito asposarlo. Una vespa l’aveva punta su una mano, e Asifaveva chiesto al gestore di una bancarella di dargli un po’di ghiaccio per alleviarle il dolore. Più tardi Benaziravrebbe detto che in quel momento aveva riconosciuto inlui «l’uomo giusto». Da quando eravamo tornati inPakistan, però, avevo avuto modo di conoscere un altrolato di mia zia, e non certo il migliore.

Un pomeriggio la chiamai al telefono e, in uno slancio diinfantile speranza, le domandai perché era tanto cattivacon il mio papà. Wadi assunse un tono conciliante, comesempre quando la mettevano alle strette. «Tu non sai lecose che stanno succedendo, in realtà io non ho fattoniente, hai frainteso la situazione» eccetera eccetera. Allafine, però, riuscii a portarla dove volevo io: «Bene, se seisincera e davvero non hai niente a che fare con tuttequeste cattiverie vieni anche tu, domani, a trovarlo inprigione insieme a noi». Lei rimase come paralizzata.Avevo solo undici anni. Insistetti: «Dobbiamo essere là alle

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quattro». Sapevo che era a Karachi: avevo aspettato chefosse in città per fare quella telefonata. Benazir borbottòche doveva parlare con il capo di non so qualedipartimento per chiedere l’autorizzazione a entrare in unpenitenziario e promise di richiamarmi per confermare. Ioesultavo. «Verrà anche lei!» dissi a mamma e a Joonam.«Wadi ha detto che verrà, devo solo aspettare la suaconferma!» Entrambe mi guardarono con espressionetriste. «No, no», insistetti, «vedrete che verrà!» Sapevocosa stavano pensando. Che ero un’ingenua; che quelladonna stava combattendo una guerra senza quartierecontro suo fratello. Io però ritenevo che se solo fossevenuta con noi, se solo si fosse ritrovata faccia a facciacon lui, loro due da soli, si sarebbe accorta di avere torto;avrebbe capito che loro due erano più forti insieme chenon divisi; che si era lasciata fuorviare e che le posizionipolitiche di mio padre erano le stesse su cui, tanti anniprima, il loro padre aveva edificato la nazione, e che leistessa aveva difeso prima di andare al potere. Credevodavvero che tutto ciò potesse accadere. Ma lei nonrichiamò. Lo feci io, quella sera, più volte, a cominciaredalle sei del pomeriggio. Alla fine, attorno all’ora di cena,Wadi prese la mia chiamata e disse: «Mi spiace, Fati, nonposso venire». «Perché?». Avevo già cominciato apiangere, ma mi mordevo il labbro perché lei non se neaccorgesse. «La direzione del penitenziario non mi hadato il permesso», fu la sua risposta. «Ma tu sei il primoministro!» gridai. «Sì, è vero. Eppure non me l’hannodato.» La conversazione era finita. Ormai non potevo più

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dato.» La conversazione era finita. Ormai non potevo piùnegare le sue colpe. Era coinvolta anche lei. Anzi, eraproprio lei a dirigere lo show.

Andavamo a Landhi per vedere papà una volta lasettimana. Ricordo che la visita cadeva in un giornoinfrasettimanale, mercoledì o giovedì. Ci volevanoquarantacinque minuti per arrivare là dalla mia scuola, cheera vicina al Jinnah Airport. La visita cominciava alle sediciin punto; se c’era traffico o eravamo in ritardo per qualcheragione, il tempo cominciava a essere calcolato anchesenza di noi. E non ci concedevano mai un minuto in piùdei quarantacinque previsti.

Le prime volte io chiesi, supplicai addirittura di poterrestare con papà ancora qualche minuto. Lui non l’avrebbemai fatto. Sapeva che il suo secondino, Durrani, che con luiera sempre stato gentile e accomodante, avrebbe perso ilposto se avessero scoperto che faceva dei favoritismiproprio con Murtaza Bhutto. Per questo fui io achiederglielo. «Potremmo restare ancora un altro minuto,per favore?» Il secondino chinò la testa, non stava a luisoddisfare la mia richiesta, e la scrollò da una parte edall’altra senza guardarmi negli occhi. Non era colpa sua,lo sapevo, eppure non potevo fare a meno di chiedere.Che male avrebbero fatto altri sessanta secondi? In queimomenti ricordavo altri minuti chiesti e altre teste scrollate,quelli di cui parla Wadi nel suo libro laddove racconta diessere stata strappata via dalle braccia del padre, Zulfikar,che stava vivendo i suoi ultimi giorni nella prigione diRawalpindi. Possibile che non se ne ricordasse? Spessomi capitava di stare sveglia a pensare fino a tardi: perché

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mi capitava di stare sveglia a pensare fino a tardi: perchéaveva deciso di punirci nello stesso identico modo in cuiera stata punita già lei?

Mi sembrava insopportabile avere solo quarantacinqueminuti la settimana per stare con papà. Mamma giura che iminuti fossero solo quaranta, ma io non me ne ricordo.Forse, oggi, quei cinque minuti extra mi sembrano unagran generosità, e preferisco pensare che ci fossero. Altelefono non potevamo parlargli - i cellulari non esistevanoancora, e comunque, se fossero esistiti, non gli avrebberopermesso di tenerne uno. Fino a sette anni ero cresciutanell’esclusivo possesso di mio padre, e non sopportavo dinon poter condividere con lui le mie giornate, di non averlovicino a ridere delle mie battute o a controllarmi i compiti.Era troppo, per l’undicenne che ero allora.

Così gli scrissi una lettera sulla mia infantile carta dalettere, di quelle stampate su carta Day-Glo e tutte piene diarcobaleni e unicorni. «Per papà: SOLO PER I TUOIOCCHI», scrissi sulla busta. Seguivano due pagine pienedi gemiti e lamenti. Non era giusto che mamma potessevederlo in tribunale mentre io ero a scuola, protestavo. Emi offrivo, magnanimamente, di saltare le lezioni nei giorniin cui veniva convocato in tribunale o partecipava allesessioni dell’Assemblea del Sind, indette sempre dimattina e in giorni infrasettimanali. Lui mi rispose subito.Sul retro di una semplice busta bianca c’era scritto: «APapy, da papà». E nell’angolo in alto a destra: «PRIVATOE CONFIDENZIALE», con tutte maiuscole sottolineate; e inquello in basso a sinistra: «SOLO PER I TUOI OCCHI»,sempre sottolineato.

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«Cara Fatima (frustrata) Bhutto», cominciava la lettera,facendomi subito ridere.

Piccola mia, leggo la tua lettera e sonosolidale con la tua protesta. Avresti tutti idiritti di vedermi e di stare con me tutto iltempo che vuoi. Sai che niente può farmi piùpiacere del vederti, dello stare con te e deltenerti fra le braccia. Ma è proprio perché tivoglio bene che desidero farti avere lamigliore formazione possibile. Sei unaragazzina brillante, e un giorno diventeraifamosa per qualcosa di tuo. Ma ciò non saràpossibile senza una buona preparazionescolastica. Tuo nonno diceva sempre che auna persona si può togliere tutto - case,soldi, gioielli - ma non ciò che ha dentro latesta. È quello il tesoro più sicuro… Se lacorte dovesse riunirsi di sabato, sarei piùche felice di vederti anche in tribunale.Quando sarò libero dalla cella in cui Wadi miha fatto rinchiudere, io e te torneremo aessere inseparabili. Fino ad allora, e persempre, ti voglio bene e ti adoro più diquanto tu possa immaginare. Con tantoamore. Papà.

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P.S.: Papy, come ben sai da quando erimolto più piccola di adesso, hai sempreavuto un talento naturale per la poesia. ADamasco ho ancora una poesia deliziosa (edivertente) che scrivesti due o tre anni fa sumamma. E anche quella che mi hai letto direcente (durante la tua ultima, esclusivavisita) era molto bella. Te ne mando unaanch’io, parla di Wadi e di Joe il Viscido:

Inky, Pinky, Paro Suo marito è un somaro Insieme saccheggiano il paese Suo marito è un calamaro Inky, Pinky, Paro

Da quel momento in poi, incoraggiata dalla lettera di miopadre e dai suoi sforzi per farmi ridere e per indurmi avedere anche il lato meno buio di quella nostra strana vita,non abbandonai l’abitudine di contare i minuti chemancavano al suo rilascio, ma decisi di ricavare sempre ilmassimo dal poco tempo che ci era concesso passareinsieme.

Ben presto gli incontri in prigione divennero una parteassolutamente normale del nostro bizzarro modo di vivere.

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Arrivavamo al penitenziario sempre molto nervose e cisedevamo ad aspettare nella vuota stanzetta di cemento,triste e con le pareti non dipinte, ma fresca nell’opprimentecalore di Karachi; poi aprivamo i pacchetti con le cose damangiare che avevamo portato per condividerle con papà.In genere mamma e Zulfi avevano già mangiato qualcosadi leggero per tenersi ancora un po’ di posto per quelpasto in più; io invece preferivo affamarmi a scuola perpoter pranzare dopo le quattro insieme a papà.

Ci sedevamo su sedie di legno che ci sarebberosembrate scomodissime se non fossimo state tantoeccitate di trovarci lì, e imbandivamo piatti e vivande su untavolo rettangolare coperto da una tovaglia di plastica daicolori sgargianti nell’ansiosa attesa di veder comparirepapà. Zulfi ed io ci mettevamo in piedi davanti alla finestrae restavamo lì impalati finché non lo vedevamoattraversare, scortato dalle guardie, il polveroso cortiledella prigione; a questo punto schizzavamo fuori percorrergli incontro. Il secondino di papà ci sorrideva semprequando ci vedeva, e accarezzava teneramente Zulfi sullatesta.

Spesso mio fratello stava seduto sulle ginocchia di papàper tutta la durata della visita, e quando parlava ottenevasempre la sua totale attenzione; a quasi quattro anni eragià un ragazzino intelligente e chiacchierone. A volte papàci chiedeva di portargli del tè del Kashmir. Di solito nonbeveva né tè né caffè, ma gli piaceva il chai del Kashmir,uno strano beverone a base di tè rosa coagulato einsaporito con spezie e pistacchi. Io non davo troppa

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importanza alla cosa, allora, ma ne bevevo comunque unatazza. Oggi non posso più farlo. Mi ricorda troppo queifamosi quarantacinque minuti. Quarantacinque minuti per iquali, oggi, potrei anche uccidere.

Il compleanno di Zulfikar Ali Bhutto è il 5 gennaio, e apartire dalla sua morte è sempre stato celebrato nell’anticocimitero di famiglia di Garhi Khuda Bux, vicino a Larkana.Nel 1994, il 5 gennaio cadde nel secondo mese diprigionia di Murtaza, il quale aveva visto suo padre perl’ultima volta nel 1977, quando lui e Shahnawaz erano statimandati in esilio. Mio padre non era mai stato sulla tombadi Zulfikar per offrirgli le tradizionali preghiere islamiche deidefunti. Così scrisse al ministro degli Interni del Sind perchiedergli tre giorni di libertà sulla parola in modo da poterandare a Larkana per onorare il genetliaco di suo padre epregare sulla sua tomba. La richiesta fu subito respinta.Una cosa era ottenere un giorno di libertà sulla parola perl’Eid: tutti festeggiano l’Eid. Ma c’erano solo duediscendenti di Zulfikar Ali Bhutto, in Pakistan, chepotessero celebrare il 5 gennaio.

Mamma e Joonam e un gruppo di sostenitori di Murtazaandarono dunque a Larkana al posto suo, e fu subitochiaro che il governo di Benazir avrebbe sfruttato l’assenzadi Murtaza per dare una grande dimostrazione di forza. ALarkana, per l’occasione, furono mobilitati circa diecimilapoliziotti in borghese.

Murtaza reagì con una collera tremenda. «Non

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permetteremo agli assassini di Zulfikar Ali Bhutto dipartecipare al suo mazaar», disse. Parole con cui tagliavafuori praticamente l’intera dirigenza del PPP di Benazir,tutti membri del suo comitato centrale tranne cinque, equasi tutti i consiglieri della sua cerchia ristretta. «Nonentrerete a Larkana!» li minacciò Murtaza, e aggiunse chequalsiasi tentativo il governo avesse messo in atto perintimidire o bloccare i suoi attivisti in quella giornatasarebbe stato notato e non dimenticato. Mentre lo diceva,però, Larkana era già stata messa sottosopra dalla poliziae molti dei suoi sostenitori più in vista, fra cui alcuni excompagni di Bhutto padre, erano stati arrestati con inutilipretesti affinché non potessero mobilitarsi e scendere instrada.

«Ad Al Murtaza, la nostra casa di famiglia, eravamo intantissimi. Dieci persone si erano sistemate in una dellestanze degli ospiti, molti attivisti provenienti da tutto il Sinde dal Punjab erano venuti e si erano messi a dormire doveavevano trovato posto. E dire che Joonam era ammalata,aveva la febbre e un brutto raffreddore», ricorda mammaripensando ai preparativi per la giornata del 5 gennaio.«Tutti erano in ansia per la reazione ostile del governo, emolti suggerirono che, la mattina dopo, sarebbe statomeglio andare al mazaar molto presto. “Dobbiamo andarcipresto”, continuavano a ripetere, ma io non la pensavocome loro. Ascoltatemi, dicevo, siamo arrivati fin qui.Adesso ci siamo. Abbiamo ottenuto ciò che volevamo. Manessuno mi dava retta.»5 Nessuno poteva immaginare

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cosa sarebbe successo di lì a poco.Il mattino del 5 gennaio 1994 la polizia, capeggiata da

un ufficiale di stanza a Karachi che si chiamava WajidDurrani, obbedendo agli ordini del primo ministro isolò conun cordone di uomini tutta Al Murtaza. La casa di famigliadei Bhutto era tagliata fuori dal mondo. Lo stato erafermamente deciso a non lasciarne uscire nessuno,nemmeno la vedova di Zulfikar nonché madre del primoministro, alla quale non era mai stato impedito di recarsisulla tomba del marito nemmeno dalla giunta del generaleZia. La polizia inoltre aveva ordine di non lasciar entrare incasa altri simpatizzanti. Mamma sospira profondamenteprima di andare avanti: «C’era una gran folla di attivisti cheavanzava verso la casa per unirsi alla processione cheavrebbe dovuto accompagnarci al mazaar. La polizia lafermò. Da dietro i cancelli della casa, gli attivisti che eranostati chiusi dentro cominciarono a gridare degli slogan. Lapolizia era stretta fra due ali di folla. Alle undici circa delmattino gli agenti aprirono il fuoco contro entrambi igruppi».

Mamma era in casa quando udì la sparatoria. Con leic’era un cugino di Murtaza per parte di padre, noto con ilnomignolo di «Poncho». Joonam, che stava riposando incamera sua, si precipitò fuori e varcò i cancelli per cercaredi fermare la polizia. Gli agenti avevano sparato senzaessere stati provocati. Le forze dell’ordine circondavano lacasa e la isolavano da tutto. Gli attivisti che cercavano diraggiungere Al Murtaza erano bloccati sulla strada, in unasorta di limbo. Nessuno era armato: avevano solo

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manifesti e striscioni, slogan e fotografie. E comunquel’assedio non sarebbe nemmeno dovuto cominciare.

Joonam dunque era fuori, in strada, e gridava, e cercavadi convincere i poliziotti a non sparare sulla folla, ma quellinon deponevano le armi. Anzi, continuavano a sparare; e aquel punto girarono la canna dei fucili verso di lei e verso icancelli della casa, aperti, e fecero fuoco. «La mancaronodi un soffio», racconta mamma, ancora scossa al ricordodi quegli avvenimenti. «Due ragazzi, due operai, rimaserouccisi quel mattino. Uno di loro proprio perché si eramesso davanti a Joonam per proteggerla, e fu raggiuntoda un colpo d’arma da fuoco […] che avrebbe dovutouccidere lei…» La voce di mamma si affievolisce e tace.

Vari attivisti furono feriti. Ma la polizia, guidata da WajidDurrani, si rifiutò di allargare le file per far passare i feritidiretti all’ospedale. Poi arrivò un elicottero Edhi Trust, diproprietà di una delle più grandi associazioni caritatevolidel Pakistan, per portarli in volo verso la salvezza -l’ospedale di Larkana è a meno di cinque minuti dimacchina dalla nostra casa. Ma la polizia gli impedì diatterrare. L’uomo che aveva difeso Joonam morì sullastrada, davanti ad Al Murtaza. Avrebbe potuto salvarsi, sefosse stato curato in tempo.

Joonam era fuori di sé. Nessuno aveva mai sparato sullacasa di Bhutto: nemmeno sotto la dittatura di Ayub Khan,nemmeno sotto la legge marziale di Yahya Khan,nemmeno sotto la repressione di Zia ul Haq. Nusrat Bhuttoera stata imprigionata, si era vista negare il diritto a ungiusto processo ed era stata addirittura picchiata, ma

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nessuno le aveva mai sparato. Parlò con i media, con laBBC, con giornalisti indiani e pachistani presenti sul posto.Al «New York Times» disse che solo due giorni primaBenazir si era offerta di accompagnarla al mazaar, tanto citeneva a che si facesse vedere con lei e non con isostenitori di Murtaza. «E poi ha mandato i suoi a spararee a tirare lacrimogeni. »6 E ancora, con rabbia: «Mia figliaparla sempre di democrazia, ma è diventata una piccoladittatrice. Non la perdonerò mai».7

«Scese la notte e la casa era ancora circondata»,ricorda mamma. «Ci avevano tolto la corrente elettrica.Sapevamo che ascoltavano tutto ciò che ci dicevamo, cosìper tutta la notte parlammo bisbigliando. La vigilia del 5 ciavevano sentito dire che saremmo andati al mazaar nelleprime ore del mattino, e al risveglio eravamo circondati.Non avevamo né il telefono né la luce elettrica, non c’eraabbastanza cibo per nutrire tutte le persone intrappolatedentro e fuori dai cancelli, e come se non bastasse era unanotte gelida nel bel mezzo dell’inverno di Larkana.»

Nel frattempo dall’altra parte della strada, allo stadio diLarkana, il PPP celebrava la nascita di Zulfikar Ali Bhutto.La musica andava a tutto volume, la gente ballava e simangiava gratis. Benazir era là a festeggiare la suadimostrazione di forza, e ci rimase anche quando, di làdalla strada, altri due uomini - due ragazzi con gravi feriteda arma da fuoco - avevano perso la vita. I feriti eranonumerosissimi. «Una cosa indecente», commentamamma, triste, quando le chiedo della festa organizzata da

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Benazir. «Dimostrò totale mancanza di solidarietà, dimaturità politica, di compassione. Festeggiavano mentrequalche ora prima c’era stato un massacro.»

Zulfi e io eravamo rimasti a Karachi. E a quel punto nonpotevamo più raggiungere né i nostri genitori né la nonna.Ci avevano lasciati indietro perché potessimo parteciparealla festa di compleanno di un cugino, ma noi ci eravamorifiutati di andarci. I cugini si erano arrabbiati con me; glistavo rovinando la festa, mi comportavo da ipocrita, nonero divertente. Andate pure senza di noi, dissi io, ignaraancora delle dimensioni di quel che era successo. Dellagente veniva uccisa, mio padre era in prigione. Non misipiede nell’albergo in cui si svolgeva la festa e non cimandai nemmeno Zulfi. Quel giorno ci mettemmo dellefasce nere al braccio. Zulfi era ancora piccolo, e io lo tenniin braccio quasi tutto il tempo mentre sedevamo in ufficio inattesa di notizie.

Il mattino dopo, a Larkana, mamma si svegliò e vide chei cordoni della polizia non erano stati tolti. «Joonam chiamòBenazir, la quale si trovava a Naudero e le chiese:“Quando la smetterai di ammazzare la gente?”. Eraarrabbiatissima. Benazir rispose: “Quella gente stavasparando contro di noi”, intendendo la polizia. Una pura esemplice falsità. “Erano agenti della RAW”, sibilò Benazircontro sua madre, e buttò giù il telefono.» L’idea che degliagenti della RAW - cioè del controspionaggio indiano - sifossero infiltrati in Al Murtaza sarebbe sembrata assurda achiunque non fosse il primo ministro, che fece in modo chela stampa desse ampio spazio alla sua teoria del

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complotto. La polizia era stata mandata a sparare sullacasa, sulla madre e sui sostenitori di Murtaza perché tuttequelle persone stavano proteggendo/aiutando/lavorandocome agenti segreti della RAW. «Mir trovò le accuse disua sorella del tutto prive di logica e di razionalità,assolutamente incredibili», ricorda mamma. «Le disse:“Ma davvero? Agenti della RAW? E come avrebbero fattoquesti agenti della RAW a superare il meravigliososistema di sicurezza del primo ministro e a penetrare nelpaese? Come avrebbero fatto delle spie indiane ascavalcare l’osceno apparato di sicurezza dispiegato aLarkana?”. Era una cosa davvero troppo assurda.»

In una dichiarazione al «New York Times» dopo gliscontri di Larkana, Joonam si sarebbe espressa con unacollera ancora più aspra: «Racconta un sacco di frottole,mia figlia […] È diventata davvero paranoica riguardo asuo fratello».8

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CAPITOLO 19La primavera del 1994 trascorse lentamente. Una volta

la settimana andavamo a trovare papà alla prigione diLandhi, e per il resto cercavamo di costruirci una vita nellanostra nuova casa. Il 70 di Clifton Road sembravadisabitato da anni; le stanze puzzavano di muffa, ed eranousate più come magazzino che per viverci: quaderni esoprammobili-omaggio, residuo delle varie funzioni digoverno ricoperte da generazioni di Bhutto, riempivanocassetti e credenze; i mobili erano sciupati per mancanzadi cure, e nell’insieme ci sentivamo come ospiti nellanostra stessa casa.

Mamma e io, nate entrambe d’estate, nel segno deiGemelli, trascorremmo il giorno del nostro compleanno inun’aula di tribunale a sentirci dire che l’udienza per lalibertà su cauzione di papà era stata rimandata o annullataperché la pubblica accusa non si era fatta vedere. Lascuola era finita, erano cominciate le vacanze estive e noidue, sole in quella grande casa, ci aggiravamo da unastanza all’altra senza niente da fare e nessun posto doveandare. Così, quando una mattina di giugno mamma entròin camera mia come una furia, diedi per scontato chefosse arrabbiata per qualcosa che avevo fatto. O che lacasa avesse preso fuoco.

Mamma accese tutte le luci - non c’erano finestre nellastanza che era stata di mia zia: Benazir le aveva fattechiudere con delle assi. «Alzati! Alzati alzati!» gridò. Mi

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misi a sedere sul letto senza capire se dovevo spaventarmio no e, ancora mezzo addormentata, mi domandai cosadiavolo poteva essere successo. «L’hanno rilasciato!»ululò mamma. Solo in quel momento compresi che il tonodella sua voce era felice ed eccitato. «Papà ha ottenuto lalibertà su cauzione! Sta venendo a casa!»

I processi principali contro papà erano sei - tutti peraccuse che comprendevano il tradimento e la sedizione, eche comportavano quindi la pena di morte. Nell’interaKarachi regnava la massima confusione sul numero di casiche il regime di Zia aveva montato contro i fratelli Bhutto.Qualche giornalista sosteneva addirittura che il totale delleaccuse mosse contro Murtaza e Shahnawaz fossesuperiore alle oltre novanta di cui eravamo a conoscenzanoi, e che la giunta ne aveva depositate un totale di 178.

Murtaza aveva già ottenuto la libertà provvisoria sucauzione per molti di tali processi, ma ce n’era uno per ilquale continuavano a tenerlo in prigione. Qualche tempoprima i suoi avvocati avevano chiesto la scarcerazioneanche per questa ultima accusa, ma il governo regionaledel Sind aveva fatto chiare pressioni sul giudice chepresiedeva la corte, Ali Ahmed Junejo, affinché la rifiutassee tenesse Murtaza in carcere. «Con questo caso io farò lastoria», aveva dichiarato il giudice. Parole che mi eranosembrate di malaugurio. Ho perfettamente in mente ilgiorno in cui papà me le riferì, e ricordo di aver pensatoche in questo modo il magistrato minacciava dicondannare papà, di mandarlo sulla forca. Alle mieorecchie di dodicenne la sua dichiarazione suonava come

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un cupo presagio.All’epoca si disse che il 5 giugno, mentre stava per

leggere la decisione in merito alla libertà provvisoria dipapà, Junejo fu ripetutamente interrotto da un impiegatodel tribunale che continuava a passargli dei bigliettini in cuilo si informava di una telefonata urgentissima che loattendeva in ufficio. Ma lui ignorò i messaggi, andò avanticon la procedura e lesse l’ordinanza che concedeva aMurtaza la libertà provvisoria.

Quel che invece non è affatto una voce di corridoio è cheil giorno dopo il governo sollevò Junejo dall’incarico. Piùtardi il magistrato avrebbe detto a chiare lettere che erastata proprio la concessione della libertà su cauzione aMurtaza Bhutto a costargli il posto, ma lui aveva fatto solo ilsuo dovere e giustizia era fatta.

Quel giorno però papà non tornò a casa. Mamma e io loaspettammo dalla mattina alla sera, ma nessun segnostava a indicare che fosse stato davvero rilasciato dallaprigione di Landhi. Evidentemente c’era qualcosa che nonandava: i documenti per il rilascio dovevano essere prontientro un’ora - massimo due - ma la scadenza era passatae nessuno sapeva niente sulle ragioni di quell’ulterioreritardo. A un certo punto Joonam prese il telefono e chiamòBenazir. Mamma e io eravamo in camera sua insieme a leimentre telefonava. «Perché non avete ancora rilasciatoMir?» chiese Joonam, con voce tesa e affaticata per ilnervosismo. «Perché ci sono delle altre accuse a suocarico», rispose il primo ministro. Non sembrava in vena dichiacchiere. Benazir non disse da dove fossero spuntate le

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nuove accuse, non spiegò come mai il faldone ISI«scomparso» fosse stato improvvisamente ritrovato, nésembrò particolarmente addolorata all’idea che suo fratellodovesse restare in carcere ancora un po’.

Era meschino, terribilmente meschino quel che Wadistava facendo. Mi faceva male lo stomaco. Nonostante glieventi del 5 gennaio non riuscivo a credere che potesseessere tanto crudele, tanto avvelenata dal miope desideriodi mantenersi al potere.

Quando finalmente l’ordine di rilascio fu firmato (il giornodopo, a quasi ventiquattro ore dalla concessione dellalibertà su cauzione) ci dissero che Benazir aveva ricevutouna telefonata da parte di un militare, uno con abbastanzamostrine da dare ordini perfino al primo ministro. «Lasmetta, lei lo sta trasformando in un eroe», aveva dettol’alto ufficiale. «Lo lasci subito andare.» Non so cos’altroavesse aggiunto, ma evidentemente le sue parole avevanofatto vacillare Benazir. E il 6 giugno papà ricevette idocumenti per il rilascio.

Mamma e io fummo prese da una grande agitazione,ricominciammo a metterci in ghingheri e a pulire eriordinare la casa. Papà non metteva piede al 70 di CliftonRoad da diciassette anni. Ma ci era nato; lui e la casaavevano la stessa età. Mi ricordo che quando tornavo dallevacanze invernali a Karachi e papà ci veniva a prendereall’aeroporto, per tutta la strada fino a Mezzeh miinterrogava sulle condizioni della casa. «E quel quadro, è

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ancora spaventoso?» (Parlava di un’opera d’arte modernaraffigurante un Cristo crocifisso conservata nella bibliotecadi Zulfikar; e sì, lo era.) «E quel tappeto cinese, è semprein salotto? E com’è il giardino? Di quale sfumatura di violasono le bouganville?» Per il loro ricongiungimento, tuttodoveva essere perfetto.

La notizia del rilascio di papà fu data dalla BBC. Ilnotiziario mostrava delle donne di Lyari che ballavano inmezzo alla strada festeggiando il verdetto della corte.Finalmente era confermato. Murtaza Bhutto era libero.Dalla casa di Benazir, invece, non arrivò nemmeno unatelefonata di congratulazioni. A un certo punto, dopopranzo, ci informarono che papà era uscito da Landhi.Joonam era andata a prenderlo per riportarlo a casa. Unagigantesca folla di sostenitori lo accompagnò nel tragittofra la prigione e la casa di suo padre. Papà avrebbe potutometterci meno di due ore, ma in realtà arrivò solo dopo lamezzanotte.

Mamma, Zulfi e io eravamo sulla soglia del 70 di CliftonRoad quando sentimmo le grida e tutti i rumori di unagioiosa folla in avvicinamento. Mamma e io ci tenevamostrette l’una all’altra, e Zulfi era in braccio a mamma. Era ilmomento che avevamo sognato da quando eravamotornati a Karachi.

Papà fu portato di peso oltre i cancelli da una folla chegridava slogan e piangeva, consapevole dell’importanza diquel momento - l’unico figlio maschio sopravvissuto diZulfikar Ali Bhutto, finalmente libero, faceva il suocommovente ingresso nella casa paterna. Papà indossava

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uno shalwar kameez bianco, tutto spiegazzato e chiazzatodi sudore per il gran caldo estivo. Fra i capelli aveva deipetali di rosa rossi. Era stanco, ma raggiante. Sulla portadi casa lo abbracciammo, e io mi alzai in punta di piedi perbaciargli il viso. Aveva un buon odore, come sempre; lasolita Gray Flannel profumava la sua pelle olivastra.

Papà entrò dunque nella casa da cui era partito poco piùche ragazzo, a ventitré anni. Ora che vi faceva ritorno neaveva quasi quaranta. Mamma, Joonam e io lasciammoche percorresse il corridoio da solo - doveva avere il cuorecosì pesante di nostalgia e di ogni sorta di emozioni daaver bisogno di un momento tutto per sé. Stava tornando auna vita che altri gli avevano trasformato con la violenza,ma il cui scenario era rimasto immutato. Be’, quasi: a uncerto punto papà arrivò alle brutte porte scorrevoli di vetroche Joonam e Benazir avevano fatto mettere fra l’ingressoe il corridoio negli anni Ottanta, quando erano statecostrette agli arresti domiciliari.

«E queste, cosa ci fanno qui?» chiese papà, voltandosiverso di noi con la faccia stravolta dall’orrore. Le porte divetro furono rimosse il mattino seguente.

Il primo viaggio che papà fece qualche giorno dopo ilsuo rilascio fu a Larkana, per pregare sulla tomba delpadre e del fratello. L’idea era di andarci in macchina -sono trecento chilometri in tutto - fermandosi in unaquarantina di villaggi e città per incontrare i suoi seguaci etenere comizi. Un viaggio piuttosto lungo e faticoso, ma

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emozionante; sciupato solo dai frequenti tentativi da partedel governo di rallentare e tormentare in tutti i modi sia luisia le altre persone con cui attraversava la parte interna delSind.

«Lungo tutta la superstrada da Karachi a Jamshoro lagente aspettava nella terribile calura di giugno nellasperanza di scorgere Mir Murtaza Bhutto anche solo per unistante», riporta un giornale locale. «A Jamshoro, la stradache dalla piazza della dogana porta al passaggio a livelloera così affollata che il corteo d’automobili di Bhutto haimpiegato due ore a percorrere una distanza chesolitamente non richiede più di cinque minuti.»1

In quella città Murtaza fu temerario, e alzò il tiro delle suecritiche contro il governo: «Mia sorella Benazir e il partitodello shahid, (martire) Bhutto sono assediati da una mafiadi delinquenti, ladri e agenti di Zia. Ma noi li butteremo fuoridal partito a calci», promise. «Siamo noi, il vero partitodello shahid.» La carovana di papà attraversò città piccolee grandi, accolta ovunque da grandi folle. «Sono rimastodavvero allibito quando, in un piccolo villaggio come Kakar,nel distretto di Dadu, che non ha più di duemila abitanti intutto, ho visto una folla di almeno diecimila persone che loaspettavano», pare abbia detto un giornalista sindhi cheseguiva l’evento.23

Ma il benvenuto di Larkana fu il migliore di tutti. «È stataun’accoglienza principesca», riportò la stampa. Tutto ilbacino elettorale di Murtaza era in fibrillazione per la notiziadel suo imminente arrivo. «Di solito qui la gente va a

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dormire alle nove o alle dieci, soprattutto con questo caldoasfissiante», scrisse un giornalista. «Una cosa del generesi è vista solo due volte prima d’ora: quando la salma diBhutto fu portata a Garhi Khuda Bux, dopo l’esecuzione, equando Benazir tornò da Londra, nel 1986.»4

Quando la carovana di Murtaza raggiunse il confine dellacittà, lasciando le polverose strade dell’interno del Sind perentrare nel lussureggiante paesaggio agricolo di Larkana,dappertutto si sentì gridare: «Chamki haider ji talwar, aayoBhutto jo pagdar», la spada dell’hazrat (santo) Ali scintilla,il successore di Bhutto è arrivato,5 e «Aya aya, Murtazaaya», è arrivato, Murtaza è arrivato, e sulle auto cadde unapioggia di petali.

Anche Suhail, finalmente tornato in Pakistan eimpegnato a lottare contro le accuse che la dittatura avevatrovato il modo di formulare anche contro di lui per la suafedeltà ai fratelli Bhutto, accompagnò Murtaza alla tomba difamiglia di Garhi Khuda Bux. «Mir andò subito sulla tombadi tuo nonno e recitò per lui la fateha. Sparse petali di rosae per un po’ rimase lì, vicino alla sepoltura di suo padre.Per lui fu un momento di intensa commozione. Poi andò apregare sulla tomba di Shah, e vedendola rimase ferito esconvolto. Diversamente da quella di Zulfikar, che era stataricoperta di marmo, la sepoltura di suo fratello era piatta,rasoterra. Era sciatta e trascurata, coperta di polvere esudiciume e circondata da mattoni nudi che non eranonemmeno stati piantati nella terra con la dovutaaccuratezza. Per contro il palco che Benazir si era fatta

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costruire davanti al mazaar per le sue adunanze e i suoicomizi era costruito con cura, quasi sofisticato. Mir ne fuscandalizzato.

«Fu una tale pena vederlo sulla tomba di fratello. Avevagli occhi pieni di lacrime, e dovette trattenersi per nonpiangere.» Suhail conosceva bene entrambi i fratelli. Eral’amico del cuore di Murtaza, al quale era più vicino peretà, ma aveva sempre considerato Shah come un fratellominore. Con rabbia, un sentimento che non è frequentesentirgli esprimere, riprende a raccontare: «Lei avevausurpato la terra di Shah, si era presa la sua casa diNaudero, invece di lasciarla a sua figlia Sassi, e si erapresentata alle elezioni per il seggio NA 207, quello cheZulfikar aveva destinato al suo secondogenito maschio».«Ma allora», domando io, «non le sarebbe convenuto dipiù tenere in ordine il luogo della sua sepoltura?» Suhail sistringe nelle spalle. «Papà chiamò immediatamente ildirettore del mazaar - un vecchio che si occupava dellecose pratiche - e gli disse di sistemare subito la tombadello shahid, e che quando fosse tornato si aspettava divedere che Shah riposava in un luogo decente.» Efinalmente così fu fatto, dopo nove anni che Shah erasepolto a Garhi Khuda Bux.

Conclusa la commovente visita al mazaar di famiglia,Murtaza rimase per tutto il resto del giorno ad Al Murtazaper ricevere le condoglianze per suo padre e suo fratello.Nel Sind le condoglianze vengono sempre fattescrupolosamente, non importa quanti anni siano passati

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dalla morte; e ora che finalmente Murtaza era tornato amicie conoscenti accorsero da tutta la provincia e anche oltre -da Quetta, nel Belucistan, da Gujranwala, nel Punjab, e daGilgit, nella Provincia della Frontiera - per vederlo erendergli omaggio.

Ormai Benazir e la sua cricca erano con le spalle almuro. La minaccia rappresentata da Murtaza potevaessere gestibile fintanto che lui era dietro le sbarre, e lagente non poteva entrare in contatto con il suo fascino econ la sua abilità oratoria. Ma adesso che era liberonessuno poteva più fermarlo. Il governo fece di tutto percreargli dei problemi. Ai magistrati fu ordinato ditrattenergli il passaporto affinché non potesse lasciare ilpaese, una sorta di contrappasso per essere tornatodall’esilio. Lo costringevano a correre continuamente da unestremo del Pakistan all’altro per presentarsi in tribunale eassistere ai processi montati contro di lui nelle varieprovince, e i suoi sostenitori venivano ancora perseguitati,arrestati e picchiati.

A Karachi i suoi spostamenti erano controllati dai servizisegreti, che tenevano davanti al 70 di Clifton Road unascassata auto beige con gli interni di pelle marrone e glimandavano dietro un paio di agenti ovunque andasse. Maniente poteva sconfiggere il suo senso dell’umorismo: unavolta, mentre andavamo a un matrimonio, ci perdemmo:papà fermò l’auto degli agenti e chiese indicazioni proprioa loro.

Viaggiava per tutto il Pakistan. La gente volevaincontrarlo, sentirlo parlare, vedere se in lui si poteva

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riporre una qualche speranza o se era solo l’ennesimoproprietario terriero dell’élite feudale privo di legami politicicon le masse. Murtaza parlava apertamente e concoraggio contro il governo, i suoi pessimi risultati inmateria d’economia, le sue posizioni a favore dellaviolenza bruta nella difesa dell’ordine. La gente lo stava adascoltare. Sembrava fosse l’unico uomo politico adattaccare lo status quo invece di mettersi in fila per entrarea farne parte.

Incapace di rispondere alle critiche politiche espresseda Murtaza contro il suo governo, Benazir decise digiocare la carta del sesso o della sorella femmina,trasformando il politico in personale e le questioni diprincipio in questioni da nulla. In un’intervista al «New YorkTimes», subito dopo la sparatoria contro la casa di suofratello a Larkana, nel rispondere all’accusa secondo cuiera stata proprio lei a ordinare alla polizia di assediareillegalmente la casa sparando perfino contro sua madre,dichiarò sprezzante: «Dopo la morte di mio padre sapevoche sarebbe arrivato il giorno in cui, come in tutte lefamiglie feudali, anche nella mia si sarebbe cercato dimettere sotto chiave la figlia per lasciare campo libero alfiglio». 6 E ancora più imbronciata aggiunse che era stata«la paura del pregiudizio maschile a spingerla almatrimonio». Si era sposata «per avere una casa»,disse.7 Vale la pena sottolineare che le famiglie feudaliintenzionate a mettere sotto chiave le figlie di solito non lemandano a Radcliffe e a Oxford.

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Quando gli fu chiesto cosa ne pensasse di questapresunta clausola di genere, Murtaza rispose in modomolto diretto: «Io non ho mai chiesto di diventarepresidente del partito o ministro capo del Sind (comeafferma Benazir). Mi sono limitato a chiedere che nelpartito si svolgessero libere elezioni, a tutti i livelli. Lesembra una richiesta tanto irragionevole?».8

Mi addolora molto scrivere di ciò che fece mia zia inquesto periodo. Dopo la sparatoria del 5 gennaio le tolsi laparola e il saluto. Non volevo più avere nulla a che fare conlei; ero scossa e assolutamente scandalizzata dai suoicomportamenti. Vivevamo in una città le cui stradeandavano in rovina, sempre allagate di lurida acquapiovana nella stagione dei monsoni perché non c’eranemmeno il più rudimentale sistema fognario: eppure lacorruzione del governo di Benazir era evidente, era sottogli occhi di tutti. Ero molto delusa. Un paio di volte, controla mia volontà, mi portarono a farle visita. Dovetti farmifotografare insieme a lei. Una volta mi costrinsero apranzare con lei allo Sheraton, ci andai con mia nonnaJoonam, che era come lacerata fra i suoi figli maggiori:subito ci raggiunse un esercito di reporter per scattaredelle foto. «La faida interna alla famiglia Bhutto è unafinta», strillarono i quotidiani del giorno dopo, e la foto chemi ritraeva insieme a mia zia avrebbe dovuto dimostrarlo.

Nei primi mesi dopo il nostro ritorno ero stata varie voltea casa di Wadi, a Karachi, con la nonna, quando tuttisembravano impegnati a fingere che la situazione fosse

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del tutto normale e che non ci fosse niente di strano nel farvisita a una zia che aveva appena fatto incarcerare tuopadre. Una volta eravamo sedute nella stanza da letto diWadi, lei sul letto e noi attorno a lei. Joonam era a disagio.Anche lei faceva del suo meglio per reggere la commedia,ma in realtà era molto addolorata per come il governoaveva affrontato la questione del ritorno di papà. Non lefaceva nessun piacere constatare che i suoi figli silasciavano mettere l’uno contro l’altro con tanta facilità.«Non mi piace vedervi litigare», disse a un certo punto aWadi. «Non è una cosa positiva per l’eredità spirituale divostro padre.» Allora Zardari, che fino a quel momento nonaveva detto una parola, sbottò in tono sprezzante: «Comese ci fosse un’eredità spirituale!». E all’improvviso la suapresenza sembrò riempire tutta la stanza.

Ci zittimmo di colpo, anche Wadi. Nessuno aveva maiosato parlare di Zulfikar a quel modo, con quella mancanzadi rispetto, con quella volgarità. Non nella nostra famiglia,perlomeno; mai. Joonam sembrava sotto shock, masoprattutto era profondamente ferita.

Tornata a casa, raccontai a mamma ciò che avevosentito. Lei imprecò in arabo. Non sapevo come dirlo apapà, quindi non gli dissi niente. E comunque non avevacerto bisogno di altre cartucce contro sua sorella.

Quando parlava ai comizi o rilasciava un’intervista,spesso papà si riferiva a Zardari definendolo chor, ladro.Fu lui a inventare l’espressione «Asif Baba and thechalees chor», Asif Babà e i quaranta ladroni, che ebbemoltissimo successo (e che tuttora fa parte della vulgata, ci

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moltissimo successo (e che tuttora fa parte della vulgata, citengo a sottolineare con orgoglio). Quando uscì dalcarcere, ritrovandosi infinitamente più esposto, quandocominciava a parlare così, Joonam gli dava una gomitatanelle costole: «Smettila, ti prego!» lo supplicava. «Sonotiranni, ti faranno del male.»

«È fuor di dubbio che begum sahiba stessedecisamente dalla parte di Mir», racconta Suhail duranteuna cena a Karachi. «E non devi dimenticare che dopol’arresto di ZAB, nel 1977, Nusrat era diventata l’anima delPPP. In quel momento Zia aveva tutto l’interesse aspaccare il partito, e tua nonna giocò un ruolo moltoimportante nel tenerlo insieme. Teneva comizi dal cassonedi un camion, guidava manifestazioni in tutto il paese,veniva picchiata e arrestata dalla polizia: era la forza vitaledel PPP in quei giorni bui. Ciononostante, non appena Mirtornò in patria Benazir estromise sua madre perfinodall’incarico prettamente onorario che le aveva lasciato. Equesto perché temeva che potesse cercare di capovolgerela sua decisione accogliendo Mir nel partito.»

«Non la capisco proprio, la mia famiglia», dico a Suhail.«Sei sicuro che fossero guerrieri del Rajput? Perché avolte sembrano piuttosto bestie selvagge.» Suhail faschioccare la lingua e scoppia a ridere. «Lo so, è strano,ma bisogna anche dire che tua nonna non abbandonò maiuno dei suoi figli per l’altro: teneva sinceramente aentrambi. Il suo desiderio più forte, però, era che anche Miravesse una chance di realizzare il proprio destino, comel’aveva avuta Benazir; e ciò la metteva in una posizione

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molto difficile nei confronti di quest’ultima.»9Quando non accettai più i suoi inviti e trovai il modo di

non lasciarmi costringere a vederla, Wadi cercò dicorrompermi. Un giorno, ricordo che stavo per finire lasesta classe, ero appena tornata a casa da scuola quandomi sentii dire che Benazir aveva urgente bisogno diparlarmi. «Fa’ le valigie, Fati», disse Wadi, tutta eccitata,quando la richiamai. «Ti porto con me in Sudafrica perassistere alla festa per l’elezione di Nelson Mandela.Partiamo fra un’ora.» Sapeva che Mandela era uno deimiei eroi, e che sarei morta pur di poterlo conoscere.Niente a che vedere con un pranzo allo Sheraton, dovevaaver pensato: stavolta non potrà tirarsi indietro. Invece lofeci, anche se avrei tanto desiderato andare. Papà eraancora in carcere. «Non verrò con te in nessun postofintanto che terrai in prigione mio padre», le dissi. Siarrabbiò moltissimo. Io ero la prima nipotina della famiglia,e mio padre mi trattava come una piccola adulta: riuscivoquasi sempre a fare di testa mia, e sentivo di avere il dirittodi dire quel che pensavo. Lo feci sempre più spesso,allontanandomi ulteriormente da mia zia. Più scrivo di lei, epiù passa il tempo, più Benazir mi diventa incomprensibile.

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CAPITOLO 20Mio padre dedicò il resto del 1994 a viaggiare per il

Pakistan. Visitò le montagne del Belucistan, il Waziristan elo Swat, attraversò il Punjab e il cuore della nazione, il Sind.In agosto, a Lahore, si scagliò contro i tentativi da parte delgoverno di sovvertire l’ordine giudiziario licenziando imagistrati che avevano emesso sentenze contrarie alla suavolontà e spostando giudici qualificati in tribunali d’ordineinferiore per creare posti vacanti a cui destinare membridel PPP e altre persone scelte dal potere politico. Attaccòle limitazioni imposte alla libertà di stampa: le tipografieappartenenti ai giornali, soprattutto quelli più letti, cioèquelli in dialetto, venivano chiuse se gli articoli pubblicatiavevano toni troppo aspri nei confronti del governo. ALahore parlò anche del caso di Amir Mateen, il giornalistadi un quotidiano locale che per via dei suoi articoli erastato aggredito e picchiato da «assalitori sconosciuti».

A Karachi, Murtaza si rivolse alla Federazione dellecamere di commercio e dell’industria attaccandoduramente la corruzione che allignava nelle file governative:«I reati economici devono essere rilevati in manieraefficace e contrastati con il pugno di ferro […] Rapina esaccheggio sono all’ordine del giorno, eppure nessunoviene mai chiamato a renderne conto».1 E qualche mesedopo, ancora nel Punjab, reduce da un lungo viaggio cheaveva dovuto fare per presenziare all’udienza di uno deiprocessi montatura che il governo gli aveva intentato,

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stroncò i trattati internazionali che il governo stava siglandocon una serie di paesi esteri definendoli macchinazionifraudolente basate solo su sostanziose tangenti. Il«Frontier Post» scrisse che Murtaza, estremamentefrustrato, aveva spiegato che, nonostante i 4 miliardi didollari di provenienza statunitense e i 7 miliardi entrati daHong Kong e destinati al settore energetico del Pakistan, ilcosto unitario dell’energia per i consumatori pachistanisarebbe stato comunque «fra i 6 e i 6,5 centesimi perunità, laddove la media internazionale è di 3-3,5 centesimi.I consumatori devono pagare l’elettricità a un prezzodoppio rispetto a quello che viene pagato negli altripaesi».2

In dicembre l’ingordigia della corruzione statale provocòl’ennesima crisi: ancora una volta il Sind fu travolto daidisordini a matrice etnica. La popolazione di etnia muhajir,che parla urdu, diversamente dal resto della popolazionedella provincia che parla sindhi, fu colpita da un uragano diviolenza. Il Muhajir Quami Movement (MQM), allora unpartito etnico di stampo parafascista, cominciò aorganizzare sommosse e a incitare alla violenza comereazione al trattamento che il governo riservava allapopolazione di lingua urdu, in maggioranza a Karachi. Fuun conflitto orribile, che aveva radici nel primo governo diBenazir.

All’Assemblea del Sind fu proprio Murtaza, che era dietnia sindhi, a sollevare la questione della crescenteconflittualità etnica che stava insanguinando la capitale:

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«Un momento il primo ministro ci racconta che leturbolenze hanno riguardato solo undici stazioni di poliziasu ottanta, e il momento dopo ci dice che “a Karachi è incorso una mini-insurrezione nonché una guerriglia”. Ilgoverno è confuso e poco consapevole della gravità dellasituazione. Il marito del primo ministro ha parlatodell’uccisione di molte persone come se neppure sitrattasse di esseri umani quando ha detto che “in un mesesono state uccise solo centocinquanta persone”». Eprecisò che quella di proteggere la vita e la proprietà deicittadini era la responsabilità prima e basilare di qualsiasiforma di governo.

Come pensiamo di poter restaurare la leggee l’ordine quando i nostri giovani laureatidevono supplicare in ginocchio per avereanche il più umiliante dei lavori? Se noneliminiamo la piaga della disoccupazione,come potrà esserci la pace? Mentre nelprezzo del riso, della farina, del ghee, dellozucchero e di altri generi di base si verificaun aumento ingiustificato anche del 150 percento, come possiamo aspettarci che lasituazione torni alla normalità? […] Lostipendio del presidente e del primo ministroè stato aumentato a spese dei generi diprima necessità destinati ai lavoratori, che

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sono lasciati a gemere sotto una crescita deiprezzi senza precedenti.3

Quanto a lui, ogni mese papà consegnava il suostipendio da deputato alla fondazione Edhi. Non losapemmo se non solo dopo il suo assassinio.

Quando Murtaza cominciò ad attaccare la politica delgoverno contro l’etnia muhajir e per i crescenti problemid’ordine pubblico a Karachi, il regime non perse tempo ericominciò ad accusarlo di essere un «terrorista». E permeglio diffondere la paranoia disse che aveva in mente dimettersi in società con Altaf Hussain, capo dell’MQM,scappato da Karachi quando era sembrato probabile chela sua terribile brutalità e il suo stile da banda di strada lofacessero finire in carcere per il resto della sua vita. OggiHussain vive in Inghilterra come cittadino inglese, edall’estero gioca ancora un ruolo attivo nella politicapachistana.

Murtaza però non aveva alcuna affinità politica con l’M-QM. Deplorava il terrorismo settario e, più in generale,l’uso della violenza che facevano parte delle tattiche diquesto gruppo. Se aveva fatto sentire la sua voceall’Assemblea del Sind non era tanto per via di un suo flirtcon l’MQM, quanto per difendere la comunità muhajir dilingua urdu, che era un gruppo etnico e linguistico, e nonl’MQM, che è un partito politico.

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Quando il governo ebbe raccontato alla stampa unmucchio di fandonie tese a screditare Murtaza definendoloun simpatizzante del terrorismo, lui rispose con il suo tipicostile satirico. Leggiamo dal «Friday Times», un settimanalepubblicato a Lahore:

Egregio signore, non è mia abitudinecommentare le notizie d’attualità attraverso le«lettere al direttore», né è mia responsabilitàparlare in difesa dell’MQM. Ma mi sentotenuto a fare un’eccezione per l’articolo diAdnan Adil intitolato I Cobra di Altafcolpiscono a Liaqatabad. Ho incontratoAdnan Adil una sola volta, e, sbagliando, l’hoscambiato per un essere umano normale eragionevole. Ma dopo questa storia del«Cobra» (laddove «storia» è un delicatoeufemismo) ho concepito seri dubbi inproposito. Cito dall’articolo: «A quanto parepossiedono (Altaf e l’MQM) anche un piccolocarro armato - e apprendiamo che l’MQMgode del sostegno di Al Zulfikar,l’organizzazione di Murtaza Bhutto, che lorifornisce di armi. Fonti ufficiali affermanoche di recente camion carichi di armi hannoraggiunto il 70 di Clifton Road».

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Ora è una pratica normale, per le canagliedel ministro capo Abdullah Shah, far rapire ivisitatori che vanno e vengono dal 70 diClifton Road per sottoporli a crudeli torture inluoghi segreti. (Otto giorni fa hanno rapito ilmio segretario personale, con tanto di auto eautista, proprio davanti a casa mia. Solo ierisiamo riusciti a scoprire che i due uominierano detenuti presso la centrale CIA4 diSaddar. Entrambi, autista e segretario,erano praticamente in fin di vita.)

Come sia possibile che camion carichi diarmi riescano a varcare la doppia rete dicontrollo che una dozzina di agenzieprovinciali e federali ha teso tutt’attorno al 70di Clifton Road, lo lasciamo alla fervidaimmaginazione del signor Adil. Ma sul resto,per amore della posterità, vorrei dire le cosecome stanno. Effettivamente una serad’estate Altaf Hussain e io ci incontrammosul limitare di una foresta e ci sedemmo aparlare all’ombra di un grande banano. Mir ePir [termine urdu che significa misticoreligioso, qui usato a indicare la devozionedei militanti dell’MQM verso il loro capo]erano di umore malinconico. Ne nacque laseguente conversazione:

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Altaf: Tu ti batti per i diritti dei sindhi e io perquelli dei muhajir. Perché non collaboriamo?

Murtaza: Ok. Capisco la tua logica.

A: Vedi, nel distretto centrale le cose sistanno facendo arroventate. Gli RPG non cibastano più. Abbiamo bisogno di carriarmati.

M: Stai parlando con l’uomo giusto. Ne hoparecchi nella cantina del 70 di Clifton Road.Sono l’ultimo ritrovato dell’hightech, siguidano con una mano sola. Dove possofarteli avere, in una bella confezione regalo,affinché tu possa intensificare in modoefficace la tua agenda politica sciovinista afavore dei muhajir?

A: No, no. Non li voglio, i tuoi carri armati. Voifeudatari sindhi abitate in case grandi, congrandi cantine. Io vengo dalla classe media,ho una casa modesta. Ne voglio di piùpiccoli. M: Pensa piccolo, accontentati delpiccolo. Ma devi capirmi, qui non posso fareniente per te. Non tratto carri armati modelloSuzuki. Ne ho solo modello Grandi Battaglie.

A: Bene allora, niente carri armati piccoli. E

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aerei da combattimento, ne hai?

M: Hai premuto ancora una volta il tastogiusto, Altaf (non per nulla ti chiamano Pir). Ingarage ho una dozzina di F-16. Sono a tuadisposizione.

A: Non so proprio perché ti definiscano unterrorista. A volte sembra che tu non abbia lapiù pallida idea di come funzioni questomestiere. Gli F-16 sono del tutto inefficacinelle aree urbane. Ciò di cui avrei davverobisogno sono dei B52 per i bombardamentia tappeto.

M: Ecco, ehm, effettivamente sì, avrei un B52parcheggiato sul tetto del 70 di Clifton Road.Ma è l’unico che ho, e davvero non possodartelo. Potrei prestartelo un paio di mesi,ma a patto che non lo usi per radere al suoloLarkana.

A: Promesso. Parola di scout.

M: Ah, un’altra cosa: ricordati di non farparola a Adnan Adil di quello che ci siamodetti.

A: Puoi scommetterci. Ma anch’io voglioporre una piccola condizione: tu prometti di

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lasciarmi provare il sottomarino apropulsione nucleare che tieni davanti al tuobungalow sulla spiaggia di Hawksbay e ionon ne parlerò ad anima viva. Giurin giuretto.

Sinceramente, il vostro

Mir Murtaza Bhutto

Karachi

Verso la fine dell’anno, comunque, l’aggressione delgoverno contro i muhajir si fece ancora più violenta, eKarachi divenne il centro della sanguinosa guerra condottadallo stato contro l’opposizione politica dell’MQM. Questeviolenze, perpetrate durante il secondo mandato diBenazir, hanno radici nel suo primo premierato. L’MQMera stato creato negli anni Ottanta dalla stessa giunta delgenerale Zia nel tentativo di spezzare la forza del PPP nelSind. Nonostante le sue dubbie origini, però, il partito eracresciuto fino a raggiungere una certa forza politica grazieal convinto sostegno della classe media della capitale chesi era stretta attorno alle sue convinzioni secolari, etniche eantifeudali (ma molto filoindustriali e vicine all’oligarchia).

Poi, nel 1988, Benazir aveva formato una coalizione coni suoi ex nemici varando il suo primo governo proprio conl’aiuto dell’MQM. Un’alleanza, questa fra primo ministro e

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MQM, alquanto scomoda per lei e continuamente rimessain discussione dagli scontri fra muhajir e sindhi nellacapitale. Alla fine, l’incapacità di Benazir di mettere finealle violenze e il suo rifiuto di ammettere qualsiasiresponsabilità in esse avevano portato alla fuoriuscitadell’MQM dalla coalizione.

Benazir era stata sollevata dall’incarico poco dopo larottura con l’MQM, e si era fatta l’idea che fosse statoproprio quel partito a pugnalarla alle spalle. E forse nonaveva tutti i torti. Con le elezioni del 1990, che portarono alpotere quella che allora era la nemesi di Benazir, Sharif,l’MQM ricomparve dalla parte dei nuovi vincitori, pronto arecitare ancora una volta il ruolo del volonteroso alleato.

Ma nel 1993, ormai, esso non aveva più alcun ruoloistituzionale. Era ancora il secondo partito per numero dieletti all’Assemblea del Sind, ma anche a livello localeaveva dovuto lasciare il passo a una serie di governi«prendere o lasciare» proprio perché non aveva ministeriné influenza a livello nazionale.5 A questo punto, per nonperdere del tutto la propria forza, l’MQM decise ditrasformarsi da partito di governo in partito di lotta e lanciòun movimento armato con base a Karachi al fine diriprendersi con la forza la sua influenza a livello popolare emantenere la presa sulla città. Benazir, che già inprecedenza si era sentita osteggiata dall’MQM, colsel’occasione per combattere con maggiore efficacia ilpartito che l’aveva tradita. Disponibilissima a giocaresporco.

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Invece di incaricare il potere giudiziario di perseguire ireati politici e criminali commessi dall’MQM, infatti, decisedi scavalcare i tribunali e ordinò al suo ministro degliInterni, il generale Naserullah Babar, di dargli una bellalezione. E Babar, uomo di grande crudeltà e con loscheconnivenze in Afghanistan, del quale si diceva fosse cosìpotente da parlare dei taliban come dei «miei ragazzi»,lanciò contro l’MQM e contro i muhajir di Karachi unattacco talmente brutale che nemmeno il suo nome,«Operazione pulizia» rende pienamente giustizia al livellodi violenza raggiunto dallo stato.

Ben presto le forze dell’ordine di Karachi, soprattuttopolizia e squadroni di ranger d’élite, divennero una forzaincontrollabile. Chiunque non si allineasse alle sceltepolitiche del governo locale a guida PPP veniva definito«terrorista» o criminale. L’MQM fu inquadratosemplicemente come un partito di terroristi, e tutti i muhajircome «sostenitori di Altaf». Il quale era indubbiamente unuomo dal passato criminale, ma non era certo l’unico - o ilpiù credibile - rappresentante della comunità muhajir. Il piùscellerato dei metodi impiegati durante l’Operazionepulizia furono i famosi «scontri con la polizia», ossiaomicidi extra giudiziari camuffati da sparatorie. Anchel’assassinio, la tortura, le mutilazioni e il ricatto erano moltopopolari presso le forze dell’ordine di Karachi incaricate di«ripulire» la città.

Le violenze perpetrate durante l’Operazione puliziafurono così estreme da paralizzare completamente la cittàper i due anni in cui essa fu ufficialmente in vigore. Le

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scuole furono chiuse, alcuni quartieri divennero off-limits el’economia si contrasse al punto che «la fuga di capitalidovuta alle violenze fu di 102 miliardi di rupie solo nei primitre mesi del 1995».6 Né prima né dopo di allora Karachi èmai stata così paralizzata da un raptus di violenza del tuttocasuale e arbitrario né tanto abilmente messa in ginocchiodal potere incontrollato dello stato e della polizia.

Ricordo che Zulfi e io restavamo chiusi in casa persettimane intere perché la nostra scuola era stata chiusa acausa della violenza dilagante in città. Quando poi le cosesi calmavano un po’ e noi bambini potevamo tornare inclasse, ci toccava recuperare il tempo perduto andando ascuola anche di sabato e di domenica e aggiungendominuti supplementari al normale orario scolastico.

Una volta, mentre correvo verso l’aula in cui MadameHadi, una francofona che insegnava nella mia scuola damolti anni, dava lezioni di francese agli studenti di ottavaclasse, mi stavo giusto chiedendo come avrei fatto agiustificarmi per non aver fatto i compiti, che la sera primami erano completamente usciti di mente, quandodall’esterno sentii venire un rumore di spari. Il cigolio dellescarpe da tennis sui pavimenti di cemento della KAS, laKarachi American School, il mormorio degli studenti cheandavano a lezione, il rumore metallico dei lucchetti che siaprivano e si chiudevano - ogni suono sparì attorno a noi,cancellato dalle esplosioni.

La KAS era un scuola stile campus, senza muri interni.Gli spari potevano venire da qualsiasi punto. Tutti noi,

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studenti delle medie e delle superiori, restammo comepietrificati. Poi un ragazzo della decima classe, un tipo altoe dinoccolato che all’epoca mi piaceva abbastanza, gridò:«A terra! Tutti a terra, subito!».

Io però non volevo che gli altri vedessero che avevopaura, e men che meno quello studente della decimaclasse; così mi presi tutto il tempo che mi serviva peraccucciarmi con nonchalance sulla soglia dell’aula diMadame Hadi. Gli spari sembravano venire da oltre icancelli della scuola, i colpi erano sporadici. Restammosdraiati sul freddo pavimento per una quindicina di minuti,poi cessarono del tutto. Finii con tutta calma i compiti difrancese sul pavimento, cercando scioccamente dimostrarmi indifferente e insensibile agli spari; ma le manimi tremavano.

Quel pomeriggio, mentre mangiavamo al lungo tavolo dapranzo del 70 di Clifton Road, raccontai a papà cos’erasuccesso a scuola. Lui non gradì affatto la parte in cui a)non avevo fatto i compiti di francese e b) avevo finto diessere fredda e indifferente al rumore degli spari.

La scuola non era dunque perfettamente sicura, maalmeno era aperta e funzionava di nuovo. In un momentoprecedente dell’anno ero restata a casa per tre settimaneconsecutive per colpa delle sparatorie e delle sommosseche si stavano verificando in città. «Ascoltami bene, nonintendo perdere altri giorni di scuola», avevo avvisatopapà, sfoggiando tutta la fermezza possibile; mi eroannoiata a morte, in casa senza niente da fare, per quelletre lunghe settimane. Precedentemente lui aveva già

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mandato mamma, Zulfi e me a Damasco per una parte deltrimestre scolastico (cosa che mi aveva segretamenteriempita di gioia, perché mi aveva permesso di ritrovare lemie ex compagne) perché Karachi era diventata troppopericolosa. Okay, disse papà, e così dici che non vuoiperdere altri giorni di scuola? Non preoccuparti, qualcosami inventerò.

Il mattino dopo la nostra auto aveva dei giubbottiantiproiettile attaccati col nastro adesivo ai finestriniposteriori: papà aveva trasformato la vecchia Mercedes diJoonam in un veicolo blindato fatto in casa. Fui colta da unaccesso di rabbia: «Come faccio ad andare a scuola conla macchina così conciata? Tutti rideranno di me!». Inrealtà non mi rendevo conto di quanto fosse pericolosa lanostra vita. Semplicemente pensavo che non potesseroessere vere, tutte quelle minacce. Tanta malvagità non puòesistere, dico bene? Papà replicò che avrebbe tolto igiubbotti dai finestrini solo se ne avessi indossato uno.«Ma anche se lo mettessi, la testa mi rimarrebbeesposta!» mi lamentai. Forse ero solo una marmocchiache si credeva chissà chi, ma quel che è certo è che nonvolevo morire. Raggiungemmo un accordo bizzarro: a volteindossavo il giubbotto antiproiettile, a volte lo lasciavoappeso al finestrino. Nessuno rise di me. Anzi, i compagnicorsero a domandarmi quanto kevlar c’era nei giubbotti eche tipo di impatto potevano reggere i finestrini cosìagghindati.

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A un anno dall’inizio dell’Operazione pulizia l’«HeraldMagazine», un periodico che, essendo scritto in inglese,era meno soggetto alla censura rispetto alle riviste in urdu,più diffusamente lette, pubblicò un’approfondita e acutaindagine sulla violenza genocida che il primo ministroaveva scatenato a Karachi. Il reportage era lungo tredicipagine e pieno di resoconti dettagliati di «scontri con lapolizia» che un emerito e rispettato giornalistainvestigativo, Ghulam Hasnain, con il suo collaboratoreHasan Zaidi, esaminava con cura e approfonditamente aprescindere dalla versione ufficiale.

Quel numero della rivista, che aveva in copertina unaraccapricciante fotografia del presunto terrorista NaeemSharri dell’MQM, massacrato dalla polizia, si concentravasulla fase corrente dell’operazione proprio mentre essaentrava nel suo secondo anno.

L’«Herald Magazine» rivelava ai suoi lettori che, nelcorso di un seminario politico tenutosi a Karachi, a Benazirera stato chiesto di giustificare «l’evidente politicagovernativa di eliminare i sospetti “terroristi” giustiziandolisenza processo». Per tutta risposta il primo ministro aveva«lodato gli eroici sforzi messi in campo dalle forzedell’ordine e respinto le accuse di uccisioni extragiudiziarie, sostenendo che delle oltre duemila personeuccise l’anno scorso [1995] solo cinquantacinque erano“terroristi” del “gruppo di Altaf”, uccisi in veri scontri a fuococon i ranger o con la polizia». «Non avrebbe potuto averepiù torto di così», commenta l’articolo.7 La logica confusa

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del primo ministro e il suo fervido elogio dell’operazionerendono perfettamente chiaro il ruolo da lei giocato: eraconsapevole di ciò che stava accadendo sul terreno.Sapeva che Babar aveva trasformato Karachi in un campodi battaglia.

Nel 1994 ben 1113 persone erano state uccise in quellache l’«Herald Magazine» definì una «scia di sangue» cheaveva trasformato la capitale del Pakistan in «una vera epropria città di morte».8 Karachi bruciava. La polizia agivacon il massimo dell’impunità, uccidendo spudoratamentetutti quelli che si mettevano sulla sua strada. Nessunoveniva mai arrestato - o almeno non nei termini della legge:nessuno si prendeva la briga di richiedere l’emissione diun mandato prima di un arresto, e le persone catturatedalle forze dell’ordine non arrivavano quasi mai davanti aun giudice.

Alcuni funzionari di grado elevato del governo cheaccettarono di parlare anonimamente con l’«Herald» inmerito alla decisione dello stato di colpire i suoi nemicitramite l’assassinio mirato invece che attraverso l’azionelegale, ripeterono a pappagallo la linea ufficiale delgoverno. «Guardi cosa è successo quando abbiamocercato di fare giustizia attraverso i tribunali», disse unufficiale di polizia ad Hasnain e Zaidi. «Un tempo sì che liarrestavamo, i terroristi, ma poi i giudici li lasciavanoandare.» Un altro poliziotto importante difese l’Operazionepulizia argomentando che gli assassinii extra giudiziarierano «il modo più efficiente in termini di rapporto costi-

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benefici per combattere il crimine».9In pubblico, ovviamente, «si tende a negare nel modo più

deciso l’esistenza di una politica del genere, in quantoequivarrebbe ad accusare lo stato di omicidiopremeditato». 10 Inoltre, ammettendo che il suo modusoperandi era quello di sparare sugli avversari politici,l’esecutivo avrebbe «espresso apertamente il suofondamentale disprezzo per il sistema giudiziario che,almeno in teoria, dovrebbe controbilanciare gli altri poteridello stato».11

Anche Naserullah Babar, il generale dell’esercito inpensione che guidava l’operazione, parlò con i giornalistidell’ «Herald» attaccandoli per il modo in cui trattavanol’argomento: «Non capisco proprio perché dovete tirarecontinuamente in ballo persone che, comunque, hannocompiuto anch’esse un gran numero di omicidi», disse.«Ciascuno degli uomini rimasti uccisi negli scontri a fuocoaveva alle spalle una storia di assassinii.»12

Questi «scontri» erano elaborate macchinazioni dellapolizia che seguivano un po’ sempre lo stesso schema: lapolizia o i ranger dichiaravano di essere accorsi nel puntoX al fine di arrestare il terrorista Y, che inevitabilmente«aveva aperto il fuoco» sugli agenti costringendoli adammazzarlo sul posto invece di arrestarlo. Val la penanotare che il più delle volte il «terrorista» moriva per uncolpo di pistola molto preciso, quasi sempre alla testa o alpetto. Mai che fosse colpito alla schiena, per esempio,

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cosa che avrebbe dato maggiore credibilitàall’affermazione secondo cui stava cercando di scappare odi sottrarsi all’arresto. Spesso i cadaveri presentavanonumerose ferite d’arma da fuoco, evidenti segni di tortura,ossa rotte e altri indizi del fatto che gli aggressori avevanoinfierito su di essi. Quanto ai testimoni, a parte gli agentidel drappello di polizia non si trovava mai nessunodisposto a testimoniare che c’era stata davvero unasparatoria. Sugli ufficiali di polizia coinvolti negli «scontri»non è mai stata aperta alcuna indagine, né a livello internoné a livello di giustizia pubblica, nessuno ha mai provato adaccusarli di un uso eccessivo della forza - in tutto ci furonosolo venti indagini interne su scontri a fuoco o decessi didetenuti affidati alla forza pubblica, e i risultati non furonoresi pubblici13 - e comunque nessuno fu punito per le sueazioni.14

Nel 1995 il totale dei morti ammazzati nella capitale eraaumentato considerevolmente: nell’ambito dell’Operazionepulizia erano state uccise 2095 persone.15 L’«Herald»pubblica un elenco di persone uccise dalle varie agenzieaddette all’applicazione della legge fra il luglio del 1995,inizio ufficiale dell’operazione, e il marzo del 1996. Unconteggio impressionante. Le esecuzioni si susseguonoquasi ogni giorno, a volte con più di un omicidio al giorno.Le vittime, tutti uomini, sono elencate con nome e cognomequando noti, altrimenti con espressioni come «sconosciuto(presunto bandito)» o «così e cosà (MQM)» .16 A parte un

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piccolo numero di presunti rapinatori e ladri d’auto, l’elencoufficiale confermato dalla polizia è compostoesclusivamente da membri dell’MQM. Come sempre, fra ilnumero delle persone che compongono l’elenco dellapolizia e quello dei cadaveri effettivamente ritrovati ci sonovariazioni anche rilevanti.

Il primo ministro e il generale Babar, impegnaticom’erano a cercare la comprensione e la solidarietà deicittadini rivangando le cattive azioni di cui gli uccisi sierano macchiati e giurando che la città sarebbe stata unposto migliore senza di loro, non sembravano coglierel’ambiguità della posizione etica in cui lo stato veniva atrovarsi. «È facile essere idealisti quando non ci costaniente», spiega il generale Babar nella sua intervista. «Maquando la cosa ci riguarda direttamente i nostri valoricambiano completamente.»17

Hasnain e Zaidi si spingono fino ad andare all’obitorioper vedere le salme con i propri occhi. Scoprono così che«forme estreme di tortura» sono state applicate a moltedelle vittime: «detenuti bruciati con le sigarette e conbacchette di ferro, picchiati, tagliati con rasoi, con le carniscavate e le ossa spezzate». I corpi mutilati, a loro dire,erano «piuttosto la norma che l’eccezione».18 L’indaginedei due giornalisti spiega dettagliatamente fino a che puntola polizia stava arrivando nella violazione dei dettami dellalegge: l’Operazione pulizia altro non era che un assassiniodi massa ratificato dallo stato. Ormai qualsiasi azione dellapolizia, anche la più efferata e illegale, poteva essere

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giustificata in quanto «politicamente necessaria».Le forze dell’ordine di Karachi restavano dunque

impunite per tutti i loro delitti. Gli squadroni d’élite deiranger godevano di una libertà d’azione ancora più grande,e non avevano alcuna reazione da parte della legge.Quando prendevano qualcuno, non dipendendo da unaspecifica stazione o da una centrale come nel caso dellapolizia, i ranger non erano obbligati a tenerne una memoriascritta. «Anche la polizia, naturalmente, procede spesso adarresti illegali», scrivono i giornalisti dell’ «Herald», «maper il mero fatto che una thana [stazione di polizia] è unluogo pubblico, almeno in teoria, non dovrebbe esseredifficile rintracciare le persone arrestate e il più delle volte -se non le ha uccise subito - nel giro di tre o quattro giorni lapolizia arriva ad ammettere di averle arrestate. Le sedi deiranger, invece, sono considerate alla stregua di edificiimportanti per la “sicurezza nazionale” e sono vietati alpubblico.»19

Secondo la legge, i ranger non avrebbero potutonemmeno effettuare arresti - il loro compito era solo quellodi mantenere l’ordine. Tasleemul Hasan Farooqui, exconsigliere dell’MQM, secondo l’indagine dell’«Herald» è«uno dei pochi fortunati» usciti vivi dalle mani dei ranger.«Lo scaricarono in un centro commerciale della BufferZone: era stato torturato con bacchette di ferro arroventateinfilate nell’orecchio e frustato con lame di coltello sullaschiena e sull’interno delle cosce».20 Farooqui non avevaun passato criminale, e contro di lui non furono sollevate

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accuse di «terrorismo». Era un semplice attivista politico.Quando fu rilasciato se ne andò per sempre da Karachiinsieme alla sua famiglia. Nessun ranger finì mai sottoaccusa per il ruolo avuto nelle sue detenzione e tortura.

Hasnain e Zaidi videro poi un medico del JinnahHospital, uno dei due principali pronto soccorso di Karachidi cui si sapeva che trattavano i casi della polizia, eseguirequattro autopsie in venticinque minuti.21 I referti postmortem delle persone uccise dalla polizia erano compilati«con poco riguardo per i fatti». Spesso il corpo dellavittima veniva portato in una struttura sanitaria solo dopoore dalla morte, quando ormai la decomposizione erainiziata e ogni prova medico-legale era andata distrutta. Ilpiù delle volte nessuno realizzava degli esami medici comesi deve: «Di solito gli MLO (funzionari medico legali) silimitavano a fare un’incisione sul petto e a richiuderlasubito per dare l’impressione che tutti gli esami postmortem fossero stati eseguiti».22 Un’orribile fotografiaaccompagna le affermazioni degli autori.

Scavando ancora più a fondo nel ruolo svolto dallacomunità medica, i giornalisti dell’ «Herald» scoprironoanche altri fatti inquietanti: dei cinquantacinque MLO edegli otto assistenti chirurghi in forza alla polizia di Karachiall’epoca dell’Operazione pulizia, nemmeno uno aveva unaqualche preparazione in patologia forense - requisitoessenziale per dei medici che vogliano effettuare le analisipost mortem.23 I nove medici del dipartimento di salute delSind che avevano studiato patologia forense, e che quindi

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sarebbero stati qualificati per realizzare autopsie neisanguinosi anni Novanta, non avevano abbastanzasafarish, appoggi politici, per ottenere un ben remuneratoposto da MLO. Inoltre, l’unico laboratorio medico forenseesistente all’epoca a Karachi - con uno staff di più di centopersone - non aveva in organico un solo esperto didiscipline forensi.24

Prima che l’Operazione pulizia fosse dichiaratacompletata con successo, quasi tremila personesarebbero rimaste uccise nelle strade di Karachi.Ovviamente stiamo parlando dei dati ufficiali - quelli relativialle sacche portacadavere con scritto sopra un nome,quelli dei corpi che avevano parenti in grado di identificarlie desiderosi di riaverli per dar loro una degna sepoltura.Ma probabilmente ce ne sono molti altri: vittime senzanome, mai reclamate, della guerra condotta dallo statocontro i suoi stessi cittadini. Varie persone mi hanno dettoche in alcune zone di Karachi, come Korangi e posti delgenere, i cadaveri erano lasciati marcire all’aria apertaaffinché servissero da monito.

È la faccia insanguinata di Naeem Sharri a illustrare lacopertina del numero di «Herald» dedicato all’Operazionepulizia. Nel momento in cui la rivista andò in stampa, sitrattava dell’ultima e più famosa vittima della violenza distato. Sharri era un ricercato, una delle figure più temutedell’MQM; fra gli altri crimini era accusato di numerosiomicidi, e sulla sua testa pendeva una taglia da cinquemilioni di rupie. L’11 marzo 1996 lui e un suo compagno

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erano rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia. Iranger responsabili dell’operazione affermavano che i dueavevano opposto resistenza all’arresto e aperto il fuococontro di loro - spiegazione standard - obbligandoli adifendersi, e che il risultato era stata una battaglia a esitomortale in cui ben quattro ranger erano rimasti feriti.Nell’ambito della loro indagine, però, i giornalisti dell’«Herald» scoprirono una realtà ben più sinistra. I ranger,scrivono Hasnain e Zaidi, erano stati colpiti «dalle lorostesse pallottole ad alto potenziale rimbalzate sui muricircostanti», mentre Sharri e il suo amico erano stati uccisipremeditatamente.25 Nessuna prova dimostrava la tesidei ranger che ci fosse stato uno scontro a fuoco, mentredalle fotografie del corpo di Sharri risultava che la pelle delpetto e delle braccia gli era stata bruciata e la carne di tuttala parte sinistra del corpo strappata dalle ossa. Eraevidente che non poteva essere morto in seguito a unasemplice sparatoria.

Sharri e i suoi erano, da ogni punto di vista, delinquentiincalliti e spietati criminali. Questo punto non è indiscussione. Ma anche i delinquenti incalliti hanno il dirittofondamentale a un processo giusto, e meritano di potersidifendere davanti a un tribunale. Gli amici di mia zia e isuoi accoliti mi hanno attaccato quando ho scrittodell’Operazione pulizia su alcuni giornali pachistani, tirandofuori anche la questione del lugubre primato di Benazir inviolazioni dei diritti umani. «Tu non puoi saperlo», mi hannodetto in tono condiscendente, «ma quegli uomini erano dei

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mostri.» «Dovremmo farlo anche nello Swat, adesso»,hanno insistito. «C’è bisogno di altre Operazioni pulizia.»Credo sia proprio ciò che il governo sta facendo.

«Un’importante organizzazione per i diritti umani affermadi aver ricevuto “informazioni credibili su numerosi omicidiextra giudiziari e rappresaglie perpetuati dalle forzedell’ordine”», riporta la BBC; e aggiunge che ventiduecorpi sono stati trovati sepolti nella valle del Surat, con iquali il totale delle morti inspiegabili nel solo mese diagosto del 2009 arriverebbe a centocinquanta26. Alcunicadaveri avevano gli occhi bendati, altri erano legati. LaCommissione per i diritti umani in Pakistan ha chiesto allostato di aprire un’inchiesta sugli omicidi nello Swat, ma finoa oggi nessuno ha fatto niente.27

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CAPITOLO 21Questa è la Karachi della mia gioventù. La città che

amavamo e temevamo a un tempo. Nell’inverno del 1994facemmo esperienza piena e diretta della brutalità delleforze di polizia di Karachi per la prima volta; ma nonsarebbe certo stata l’ultima.

Accadde all’improvviso, alla fine di dicembre. Latemperatura, a Karachi, era scesa di qualche grado. Unadolce brezza arrivava fino a noi dal Mare Arabico, unicoindizio del cambio di stagione in un inverno altrimentitiepido e temperato. Joonam stava tornando dal tribunalespeciale di Karachi, dove continuavano le sessioni delprocesso contro Murtaza. Spesso doveva presentarsi luistesso davanti al giudice, o la libertà su cauzione glisarebbe stata revocata, ma altre volte era sufficiente cheandassero i suoi avvocati; in questi casi Joonam liaccompagnava, per assicurarsi che andasse tutto bene.Quella volta con lei c’era Ali Hingoro, uno dei principalisostenitori di papà e importante attivista del PPP nelladifficile fase seguita all’arresto di Zulfikar. Era stato proprioAli a dirigere la campagna elettorale di papà insieme aJoonam e a mamma; era un irriducibile membro dellavecchia guardia.

L’auto di Joonam si allontanò dal tribunale e imboccò lastrada principale, dopo di che fu fermata da unacamionetta della polizia. Gli agenti corsero verso lavecchia Mercedes marrone, spalancarono la portiera,

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afferrarono Ali per le braccia e lo trascinarono fuori. Poi loportarono via, senza mostrargli alcun mandato d’arresto esenza informarlo delle accuse mosse contro di lui. Disserosolo che era in arresto per ordine del ministro capoAbdullah Shah. Non era certo la prima volta che ifedelissimi di mio padre venivano perseguitati su mandatodel primo ministro; qualche tempo prima Murtaza stessoaveva accennato a varie vicende nella sua peraltrodivertentissima lettera pubblicata sul «Friday Times».

Joonam scese dall’auto e cercò di aiutare il suo amico.Si mise fra gli agenti che tenevano stretto Ali e la loro unitàmobile e chiese di vedere i documenti relativi all’arresto.«Non abbiamo alcun documento» le rispose bruscamenteun poliziotto, «abbiamo solo degli ordini.» Del tuttoillegalmente - cioè senza mandato - Ali fu portato allaprigione centrale di Karachi. Joonam non lo avrebbe piùrivisto vivo.

Ali Hingoro aveva dedicato tutta la vita al PPP e allafamiglia Bhutto. Cresciuto nel Sind, era stato un ragazzinosportivo che portava sempre a casa dei trofei conquistatisul campo da calcio. Ben presto però la politica si eraimpadronita completamente di lui, e Ali aveva cominciato aportare a casa riconoscimenti d’altro tipo. Era entratonell’MRD subito dopo l’esecuzione di Zulfikar - giàentusiasta del manifesto politico del PPP e deciso aopporsi strenuamente alla giunta militare, Ali divennepresto uno degli attivisti di base più impegnati delmovimento. Per lui, ricorda suo fratello Usman, Nusratteneva sempre aperti i cancelli del 70 di Clifton Road - non

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quelli del 71, dove c’era l’ufficio; quelli di casa - e così purela porta della dépendance del pianoterra, da lui spessousata come ufficio.1

Nel 1986, quando Benazir tornò a Karachi, fu Ali aorganizzare il massiccio raduno di popolo che andò a darlela bentornata al Jinnah Airport. Un mare di centinaia dimigliaia di persone che l’accompagnò fino a Lyari, lacomunità d’origine di Ali, dove parlò alla folla sul cassonedi un camion che Ali aveva allestito secondo le suerichieste di sicurezza. Lui le rimase accanto per tutto iltempo, per assicurarsi di persona che non le accadesseniente di male. «Yeh mera subse acha bhai hai», disse leiquel giorno alla folla in tripudio. Disse: «Yeh Ali bhai hai»,questo è il mio fratello preferito. «Il mio fratello preferito èAli bhai» (titolo onorifico che si dà ai fratelli).

In prigione, la salute di Ali cominciò subito a deteriorarsi.La sua famiglia è tuttora convinta che subisse ogni giornola tortura. Era in buona salute al momento dell’arresto,dicono i suoi, ma dopo qualche settimana di carcerecominciò a deperire. Usman è convinto che loavvelenassero: l’allora sovrintendente della prigionecentrale di Karachi era amico intimo di Asif Zardari. Lafamiglia Hingoro ha sempre incolpato l’attuale presidente ela sua prima moglie di quanto è accaduto ad Ali. Il quale fupicchiato e umiliato per costringerlo a firmare delle falseconfessioni da cui risultava che Murtaza era implicato in

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questo o in quell’altro complotto terroristico, e a teneredelle conferenze stampa per denunciare mio padre e poisepararsi platealmente da lui. Ma si rifiutò sempre.Rispose sempre di no.

«Mi r baba gli suggerì di obbedire, di fare come glidicevano», ricorda Usman. «Gli fece pervenire deimessaggi: “Fa’ come ti dicono. Denunciami, convoca laconferenza stampa. La tua vita è troppo preziosa per noi,non vogliamo perderla”.» Ma Ali continuò a rispondere dino.

L’allora giudice capo del Sind, Nasir Aslam Zahid, unmagistrato molto rispettato che oggi lavora presso ilcarcere femminile e quello minorile di Karachi, quando ilcaso del suo arresto illegale e delle sue terribili condizionidi prigionia fu portato all’attenzione della sua corte ordinòche Ali Hingoro fosse rilasciato. Il giudice Aslam Zahid eraarrivato alla conclusione che fosse bekasool, innocente.Dopo di che, naturalmente, il caso gli fu tolto e fu affidato aun altro giudice. «Continuammo a batterci affinché Alifosse rilasciato per ragioni di salute», racconta Usman. Poiaggiunge, abbassando la voce: «Invano».23

Papà era fuori di sé. Era stato lui l’unico esponentepolitico non muhajir a condannare gli omicidi extragiudiziari che il governo stava perpetuando nel Sind.Sapeva a cosa andava incontro Ali, e ne era terrorizzato.Scrisse urgentemente a un certo numero di giudici,chiedendo loro di considerare l’illegalità dell’arresto e delladetenzione di Ali. Contattò Amnesty International e spedì

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informazioni ad altri gruppi per la difesa dei diritti umani,citando anche le accuse di tortura formulate dalla famigliadi Ali.

Il 26 marzo papà gli scrisse una lettera: «Sei un ragazzocoraggioso e onesto. Per me non c’è alcuna differenza frate e mio fratello Shahnawaz. Allah è il giudice ultimo, tuttinoi otterremo giustizia alla sua corte. Anche i tuoi aguzzinidovranno affrontarla». La lettera è firmata «Tuo fratello,Murtaza Bhutto».4 Prima di morire Ali fu trasferito alreparto detenuti dell’ospedale Jinnah, dove gli fu detto chese Murtaza Bhutto osava farsi vedere da quelle partil’avrebbero rispedito dritto in galera a tirare le cuoia nellasua cella.

Poi, finalmente, lo portarono all’Agha Khan Hospital,dove le attrezzature mediche erano migliori. Siccome eraormai in fin di vita, mandò a dire a Murtaza che potevaandare da lui. Papà lo fece il 27 aprile, ammantato dal buiodella notte. La nostra auto varcò un cancello secondariodell’ospedale, con papà sdraiato sul sedile posteriore.Entrò quindi nel reparto da una porta di servizio e senzafare rumore salì le scale fino al letto di morte di Ali. Usmangli era rimasto accanto per tutto il tempo. «Li lasciai soli»,ricorda. «Ali era praticamente in coma, non riusciva quasia parlare, ma dal vetro vedemmo che si sforzava di direqualcosa a Mir baba. Piangevano tutti e due.»5 Papàrimase con Ali per più di un’ora.

Ali morì alle sei e mezzo del mattino successivo.«Sempre aspettando Mir baba, aggiunge Usman. Quel

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giorno avevamo organizzato di andare alla spiaggia diHawksbay, a un’ora di strada dal 70 di Clifton Road:mamma e papà avevano organizzato un pranzo per alcunidiplomatici con i quali avevano fatto amicizia - fra cui ilconsole olandese e quello inglese - e ci stavamopreparando per uscire quando arrivò la notizia. Papà entròin camera fortemente scosso. «Quei bastardi l’hannoammazzato», disse a mamma. Il suo unico delitto era statoquello di non voler denunciare Murtaza Bhutto. Tutto qui:questo, in fin dei conti, gli era costato la vita.

Salimmo in macchina, tutti meno Zulfi che restò a casaperché era ancora troppo piccolo per assistere a unfunerale, e andammo dritti a Lyari, a casa della famiglia diAli. Papà andò nella stanza degli uomini, io e mamma inquella delle donne. Ricordo che la madre di Ali era sedutaper terra, teneva in grembo una striscia di tessuto bianco epiangeva. «Hanno ucciso mio figlio», ripeteva all’infinito,stringendo quel tessuto fra le braccia. Quando le andammopiù vicino, vidi che era il corpo di Ali avvolto nel suo kaffandi tela funebre che stava stringendo. Era la prima volta chevedevo un morto da vicino. Ma la seconda volta nonavrebbe tardato ad arrivare.

In tutto il Pakistan il senso della marea stava cambiando.Le voci sulla sanguinosa Operazione pulizia sidiffondevano anche molto lontano da Karachi, creando iltimore di una guerra civile e della secessione della capitaledal resto del Sind: era l’MQM a minacciarlo. In questo

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modo il Pakistan sarebbe stato tagliato fuori dalla suaprincipale arteria economica e commerciale. Ma non fusolamente la violenza a minare le fondamenta del secondogoverno di Benazir: anche le notizie relative alla corruzionepersonale della coppia presidenziale stavano venendopian piano in superficie. Alla fine, secondo alcune stime,sarebbe risultato che durante il loro secondo mandato idue avevano illegalmente intascato fra i due e i tre miliardidi dollari sottratti alle finanze del paese.

Nel suo importantissimo articolo intitolato La Casa delpeculato il giornalista del «New York Times» John Burnsdenuncia la corruzione degli Zardari che, fra l’altro,avevano comprato in Inghilterra una grande tenuta, SurreyPalace, per una cifra approssimativa di 4 milioni di dollari.Più tardi i due avrebbero negato di possederla, anche sele autorità britanniche avrebbero rimandato in Pakistan varioggetti provenienti proprio da quella casa, per esempiodei piatti con incisioni per cui si riconoscevano come regalifatti agli Zardari.6 Quando poi un tribunale inglese pubblicòun avviso per dire che la casa era in vendita e che iproventi sarebbero stati restituiti all’erario del Pakistan,Zardari chiese che quei soldi fossero consegnati a lui inquanto legittimo proprietario dell’immobile.

Nel 1994-1995, secondo Burns, Zardari aveva speso piùdi mezzo milione di dollari solo da Bulgari e Cartier.7 Ma loshopping non era tutto: i due prendevano anche tangenti ericavavano utili personali da affari governativi d’alto livello.Nel 1995 un impresario militare francese firmò un contratto

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per cui avrebbe pagato a Zardari e a un suo socio labellezza di 200 milioni di dollari per un jet dacombattimento da un miliardo di dollari che non fu maiconsegnato.8

Durante un viaggio di stato in Siria effettuato nel corsodel primo mandato di Benazir, mentre noi eravamo ancorain esilio a Damasco, Zardari arrivò al punto di chiedere apapà di facilitargli un affare che gli avevano proposto inMedio Oriente in cambio di una fetta della torta. Papà ne funauseato; il marito di sua sorella non gli era mai piaciuto.La sua corruzione e gli aneddoti relativi ai suoi eccessi gliarrivavano spesso all’orecchio, e lo feriva l’idea che unuomo del genere potesse usare il nome e la memoria diZulfikar per rubare milioni a investitori di mezzo mondo. Masoprattutto lo irritava che Zardari, del tutto incapace dicogliere il significato dell’eredità politica e spirituale diZulfikar Ali Bhutto, potesse essere così corrotto da pensareche il figlio di un martire, in esilio da più di dieci anni, chemai era sceso a compromessi riguardo alle proprie idee,potesse mettersi a saltellare come un cagnolino all’idea diuna percentuale su uno dei suoi sporchi affari. «Noi non lefacciamo, queste cose», gli aveva risposto, furibondo.

Un’altra volta, poche settimane dopo che Benazir ebbegiurato da primo ministro per la seconda volta, il suobanchiere svizzero creò una compagnia off-shore, laCapricorn Trading, che aveva in Zardari il suo principaleproprietario. «Nove mesi dopo», racconta l’articolo diBurns, «presso gli uffici della Citibank di Dubai fu aperto un

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conto corrente a nome della Capricorn Trading. Il giornostesso, da una distinta relativa a questo conto risulta undeposito di 5 milioni di dollari versati dalla ARY, unacompagnia commerciale di Dubai che trattava metallipreziosi. » Due settimane dopo la ARY, allora abbastanzanota per la produzione di banali ciondoli d’oro a forma dicuore, depositò sullo stesso conto un secondo pagamentoda 5 milioni di dollari.9

Le accuse di corruzione si accumulavano. Zardari firmòun contratto per l’acquisto di una certa quantità di trattoripolacchi a fronte di una cospicua bustarella, dopo di checomprò delle proprietà immobiliari in Spagna. Poi siglò unaccordo «Oil for Food» con l’Iraq di Saddam Hussain incambio di una mazzetta da 2 milioni di dollari. Secondoun’indagine di Owen Bennet Jones della BBC, andata inonda nell’ottobre del 2007, una compagnia di coperturacon base negli Emirati Arabi Uniti, la Petroline FZC - chevedeva Benazir nel ruolo di presidente o di direttore(insieme a un suo nipote e a uno dei suoi principaliconsulenti politici), a seconda delle fonti, tra cui alcunidocumenti con la firma di Benazir e una fotocopia del suopassaporto («Occupazione: ex primo ministro») cheBennet Jones afferma di aver visto nel corso delle sueindagini - fu coinvolta nello scandalo internazionale «Oil forFood». Un comitato d’inchiesta indipendente voluto dalleNazioni Unite e affidato alla guida di Paul Volker, ex capodella Federal Reserve, scoprì che la Petroline avevaottenuto un contratto per 145 milioni di dollari di petrolio

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iracheno dopo che una tangente da 2 milioni di dollari erastata pagata al regime di Saddam.10

L’ex addetto stampa di Benazir, Hussain Haqqani,diceva del suo capo: «Non era più in grado di distinguerefra i Bhutto e il Pakistan […] Nella sua mente il Pakistanera lei, ed è proprio per questo che poteva fare quel chepiù le piaceva».11 Oggi, ironia della sorte, questo stessoHaqqani è ambasciatore di Zardari a Washington.

Ma il caso che finì con l’abbattere il regime degli Zardariè quello della SGS/Cotecna: un tribunale svizzero li accusòdi aver ricevuto una mazzetta di 15 milioni di dollari incambio della concessione di un contratto per l’esazionedei dazi doganali dovuti allo stato a una compagniasvizzera. L’indagine svolta nel 2007 dalla BBC, seguivaanche il processo che portò alla sentenza di condanna.

A un certo punto dell’estate del 1997, mentre Zardari sitrovava in carcere per la seconda volta per un nuovo rounddi condanne per corruzione e omicidio, Benazir andò aLondra a fare shopping e in una gioielleria di Bond Streetcomprò una parure di zaffiri e diamanti che costava labellezza di 190.000 dollari. Un anno dopo il girocollo, laparte più preziosa della parure, fu sequestrato da unmagistrato svizzero, Daniel Devaud, che fece subito partirele indagini per stabilire la provenienza dei soldi usati percomprare quei gioielli; indagini che comportarono ilreperimento di migliaia di pagine di documenti bancari,ricevute e altri elementi cartacei. Dopo sei anni diapprofondite ricerche, il giudice svizzero dichiarò Benazir e

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suo marito colpevoli di riciclaggio di denaro sporco e diaver riscosso tangenti nel periodo in cui lei era primoministro; una fetta di quelle tangenti prendeva regolarmentela strada della gioielleria di Bond Street, con i suoi prezziesorbitanti. Devaud stabilì che Benazir e Zardari eranoentrambi colpevoli di corruzione; Benazir infatti controllavail conto corrente bancario usato per comprare i gioielli,mentre condivideva al 50 per cento con suo marito quellousato per incassare le tangenti. Il verdetto emesso daDevaud nel 2003 è durissimo: «Benazir Bhutto eraconsapevole di agire in modo penalmente perseguibilequando abusava del proprio ruolo al fine di ottenere per séstessa e per suo marito elevate somme di denaronell’interesse della loro famiglia e a spese dellaRepubblica Islamica del Pakistan».12 Né la corte svizzerasi limitò a condannare Benazir e Zardari: con loro cadderoanche un certo numero di avvocati, qualche amico econoscente e, cosa più sconvolgente di tutte, addiritturaNusrat, che condivideva con la figlia alcuni conti correnti findai giorni della dittatura di Zia, quando per necessitàavevano l’una le procure dell’altra. Gli Zardari furonocondannati a restituire circa 11,9 milioni di dollari algoverno del Pakistan, a cedere allo stato la collana diBond Street e a trascorrere centottanta giorni in prigione.

I due lanciarono un appello in propria difesa, ma ormai ildanno alla loro reputazione era fatto. Nel 2007 le trattativecondotte da Benazir con il dittatore Musharraf hannoportato all’approvazione della cosiddetta Ordinanza di

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riconciliazione nazionale, che passava un colpo di spugnasu vent’anni di procedimenti per corruzione contro politici,burocrati e banchieri e insabbiava definitivamente il casoSGS/Cotecna. Intervistata, lei rispose alle accuse che levenivano mosse dicendo: «Voglio dire, cosa significanoparole come povero e ricco? A pensarci bene sono forsericca, io, secondo gli standard europei? Possiedo forse unmiliardo di dollari, o anche solo cento milioni di dollari, oanche la metà di questa cifra? No, io non ho così tantisoldi. Ma se intendete dire che sono ricca nel sensonormale della parola, ebbene sì, lo sono».13 Nel 2009Zardari, nominato presidente, ha dichiarato di possedereun patrimonio personale di 1,8 miliardi di dollari. Parte deiquali rubati da lui e da sua moglie alle casse del Pakistan.

Il governo di Benazir aveva pesantemente fatto entrare lapolitica nel potere giudiziario, riempiendo i tribunali digiudici vicini al partito e licenziando quelli che emettevanosentenze sfavorevoli allo stato. Lei inoltre era statadenunciata per la sua abitudine di creare «scuolefantasma»: nuove scuole venivano aperte con fondi donatidalle ONG o dai governi di ricche nazioni estere, esponentidel PPP andavano a tagliare nastri inaugurando lacentesima scuola del programma, ma nessuno si prendevala briga di equipaggiare quelle scuole con banchi, libri,insegnanti o, per quel che conta, alunni. L’incompetenzadilagava, e il popolo del Pakistan cominciava ad averneabbastanza.

Dopo un anno passato a viaggiare per tutto il paese, a

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parlare ai circoli della stampa, a rispondere in parlamentoai suoi detrattori e a scrivere regolarmente su quotidiani eperiodici in urdu e in inglese, Murtaza aveva dimostrato atutti di essere un nuovo tipo di politico, fatto di una pastadel tutto diversa. Lui non era tornato nel paese dando perscontato che, dopo sedici anni di esilio, il mantello deiBhutto fosse lì ad aspettare solo lui. Era tornato comemembro eletto di un’assemblea di provincia, primo piolodella scala della politica, consapevole di dover dimostraremolte cose alla sua gente prima di poter andare oltre.

Osservando il suo lavoro, e vedendo con sempremaggior chiarezza che il secondo governo di Benazir eraormai fallito, la gente cominciò a rivolgersi a lui - anchequelli che inizialmente l’avevano liquidato come privo diesperienza politica e non abbastanza collaudato. Il 4 aprile,anniversario della morte di Zulfikar, un editorialista scrisse:«Definire Benazir erede manifesta di Bhutto sarebbe ilmassimo dell’assurdità. È Mir Murtaza, al di là di ognidubbio possibile, l’unico erede manifesto… [ma] è lei adaver ereditato il ruolo politico del padre. Ora la domanda è:cosa ne ha fatto, di quel retaggio?».14 La conclusione erauna condanna esplicita, che riecheggiava i sentimentiespressi sui giornali e nei salotti di tutto il paese.

Papà dedicò l’inverno del 1994 a stendere undocumento di presentazione del suo programma politico,che conteneva anche i rimedi da lui proposti per i malipolitici che avevano portato il PPP all’autodistruzione. Undocumento che divenne una sorta di impresa familiare.

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Avendo finalmente papà a casa con noi per lunghiperiodi di tempo, e sempre intento a lavorare su quel testo,ci stringemmo gli uni agli altri come una vera famiglia eapprezzammo profondamente il tempo che ci era datovivere insieme. Quando papà scriveva, ci sedevamo conlui nel salotto al pianoterra. Sprofondato nella sua solitapoltrona verde, lui scriveva le sue riflessioni a mano mentreZulfi, che a quattro anni era già un piccolo artista,disegnava e io me ne stavo accoccolata sul divano azzurroa leggere. Quando il documento fu finito, mamma e papàpresero l’abitudine di sedersi insieme al computer perpassarlo in bella copia. Il testo, intitolato Una nuovadirezione: riforme per il PPP e per la società pachistana,fu stampato alla fine del 1994 e sarebbe servito comemanifesto politico per il partito che papà stava per fondare.

La prefazione, scritta un mese prima dell’uscita delmanifesto, è appassionata e ardente.

Lo slogan dello shahid Bhutto era: «Roti,kapra aur makan» (cibo, vestiti e casa)»; malo slogan della corrottissima e indecentecricca che si è impadronita del partitoassumendone il pieno controllo sembraessere piuttosto «rapina, saccheggio efurto» […] Essi usano il potere politico non aservizio del popolo, ma per dispensare favoria pochi eletti, per godersi la grandeur nei

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a pochi eletti, per godersi la grandeur neicorridoi del potere a spese dei contribuenti,per utilizzare la polizia come un esercitoprivato contro gli oppositori che osano levareuna voce di dissenso e soprattutto perarricchirsi indebitamente.

La sua speranza, scrive, è quella di

riallineare il corso del Partito del popolo con itratti salienti dell’ideologia dello shahidBhutto […] Anche senza darsi l’obiettivo dialterare o diluire gli ideali dello shahidBhutto, bisogna rendere i suoi punti di vistaconformi ai valori e ai parametri dellacontemporaneità. È perfettamente possibilelavorare all’interno di una certa cornice diidee tenendo conto dei tempi che cambiano,ma sempre restando fedeli allo spirito dellaconcezione originaria. Tale sarà il miosforzo.

Una nuova direzione tocca poi tutti i temi affrontati daMurtaza dopo il suo rientro in Pakistan: redistribuzione del

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potere e decentralizzazione dello stato, ordine pubblico nelSind, agricoltura, salute, scuola, politica estera, sollievoalla povertà e molti altri.

Quando ricevette le prime bozze a stampa del suomanifesto, papà me ne diede una copia e mi chiese dileggerlo e di appuntarmi le mie riflessioni. Mancavano seimesi al mio tredicesimo compleanno: qualche tempoprima avevo letto della sentenza emessa dalla cortesuprema degli Stati Uniti nel processo Roe contro Wade, emi sembrava che nel mondo moderno niente fosse piùminacciato del diritto delle donne alla maternitàconsapevole. Così dissi a papà che nel suo documentoavrebbero dovuto trovare posto anche il diritto all’aborto el’accesso gratuito ai contraccettivi.

Suggerii inoltre l’inserimento di un capitolo su quella cheallora era l’altra mia causa d’elezione, l’AIDS,sull’atteggiamento da tenere con i malati e sulle possibilitàdi cura. Avevo appena finito di leggere un romanzomoraleggiante per adolescenti, di quelli che comincianocon una ragazza che si diverte a un concerto rock efiniscono con lei che muore di AIDS, sola e spaventata.Papà ascoltò con attenzione le mie osservazioni. Nediscutemmo una sera in salotto, rosicchiando carote ecetrioli salati, e lui appuntò i miei pensieri sulla sua copiadel documento. Era un padre progressista ma ancorapiuttosto vecchio stile, nel senso che era molto rigidoriguardo all’idea che sua figlia potesse avere unfidanzatino o uscire con i ragazzi; eppure mi ascoltò serioe concentrato, senza andare nel panico all’evidente

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constatazione che la sua figlioletta dodicenne siinteressava di aborto e AIDS.

Il 15 marzo 1995 le strade limitrofe a casa nostra furonoaperte al pubblico. Venne gente da ogni angolo del paese- dal Belucistan e dalla Provincia della Frontiera di Nord-Ovest, dalle zone interne del Sind e dal Punjab - perun’assemblea di simpatizzanti destinata a durare duegiorni. Si discusse di tutti i temi trattati nella Nuovadirezione , ed emersero opinioni su quale forma dovesseavere il nuovo partito e su quali aggiunte bisognasse fareal suo manifesto politico. Alla fine fu ufficialmente varato ilPartito del popolo del Pakistan (shahid Bhutto). Papà nonera più un candidato indipendente.

Murtaza propagandò il suo nuovo partito con grandepassione, e continuò a viaggiare per il paese attaccandonei suoi discorsi gli eccessi del regime. Nel novembre del1995, a Larkana, convocò una conferenza stampa sullasituazione dell’ordine pubblico a Karachi, e disse cosedurissime contro l’Operazione pulizia. «La polizia va arotoli, ormai fa parte di un sottobosco criminale», disse. «Èbizzarro che al giorno d’oggi la polizia di frontiera [un ramodelle forze dell’ordine] possa isolare interi quartieri percatturare un solo terrorista - è evidente che così facendo ilgoverno otterrà solo di far nascere altri terroristi.»15

Spesso Joonam lo accompagnava nei suoi viaggi, eanche lei parlava apertamente contro la politica di suafiglia. Ne aveva tutte le ragioni: alcuni conti bancari intestatianche a lei, aperti anni prima insieme a Benazir, erano

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stati usati per stornare illecitamente fondi statali, facendocomparire il suo nome fra quelli dei beneficiari dellacorruzione della coppia presidenziale. «Temo che quandoil suo governo arriverà al capolinea», aveva detto una voltaa un intervistatore, «Benazir dovrà rendere conto di tuttociò.» Quel che non poteva immaginare era che il suostesso nome sarebbe stato trascinato nel fango; lo capìsolo quando ormai era troppo tardi. Joonam era moltodelusa e si sentiva tradita per il fatto che sua figliaintascava bustarelle a spese della nazione; ma il primoministro era pur sempre sua figlia. E pur criticando lapolitica sua e di Zardari, mia nonna non chiuse maidefinitivamente la porta in faccia alla sua primogenita.

Nel frattempo la carriera politica di papà stavadecollando. Ormai non era più il politico inesperto che, atorto o a ragione, la gente aveva visto in lui all’inizio, subitodopo il suo ritorno in patria. Era diventato una forza con cuibisognava fare i conti, e tutti lo avevano capito.

Mamma, Zulfi e io partimmo per le vacanze estive conl’intenzione di andare a trovare amici e parenti a Damascoe in Libano, e mentre eravamo lontani, come al solito, papàe io ci scambiammo qualche lettera. Poi, a causa dellaviolenza che devastava più che mai Karachi, fu deciso chesaremmo rimasti ancora un po’ a Damasco. Era troppoincerta, per noi, la situazione in Pakistan, disse papà, e cichiese di fermarci in Siria un po’ più a lungo. In una delleultime lettere che ricevetti prima del nostro ritorno aKarachi, nell’inverno del 1995, scrive:

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Come sai, facendo politica in questo paesecapita che qualcuno voglia assolutamentepresentarti indovini, «sant’uomini» e così via.Io stesso ne ho conosciuti parecchi. Personeche si aspettano da me che le interroghi sulmio futuro politico, sulle mie prospettive dipotere e cose del genere. Ma io, che credofermamente in Dio, nel destino e nelle miecapacità, mi rifiuto di farlo. Le interrogo,invece, su te e Zulfi (non perché non credanelle vostre capacità). Ultimamente mi ècapitato di parlare con uno di questi«sant’uomini» che mi ha consigliato di tenertisempre con me. Ha detto che anche sedovessi raggiungere una posizione di poteredovrei fare in modo di averti sempre al miofianco e ascoltare i tuoi consigli e i tuoi puntidi vista. Immagino che ciò significhi addiouniversità. Dovrò incatenarti alla miascrivania in qualsiasi ufficio mi capiterà dilavorare.

Gli avevo mandato alcune foto che avevo ritrovato e checi ritraevano ai vecchi tempi dell’esilio, e papà risposeanche alla mia eccitazione per quelle immagini:

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È stata una delizia vedere le dolci foto che mihai mandato di quando eri piccola. Come tiripeto sempre, tu per me resterai sempre lamia piccolina. In questa vita nessuno mi ècaro e prezioso quanto te e Zulfi. Possa Diovegliare su di voi e possiate entrambi viverefino a centocinquanta anni. Vi adoro, vi voglioun bene dell’anima.

Tornammo a Karachi e festeggiammo il Capodanno tuttiinsieme, come una vera famiglia. Quando mi presentai insalotto con un rossetto rosso cupo papà non approvòaffatto: «Non sei un po’ troppo giovane?» mi domandò.Quell’anno avrei compiuto quattordici anni. Ormai erogrande, insistetti.

Per tutto il 1996 papà non fece che dedicarsi al suonuovo partito, parlando con giovani attivisti e membri dellavecchia guardia di tutto il paese nella speranza diconvincerli a salire a bordo. Aveva lavorato notte e giorno efinalmente, a quanto pareva, le cose cominciavano atingersi di speranza.

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CAPITOLO 22Il 20 settembre 1996, alle 19.30 circa, quattro auto

lasciavano Surjani Town, alla periferia di Karachi, diretteverso Clifton Road. In testa al convoglio c’era un pick-up acabina doppia, rosso, con dentro quattro guardie del corpodi Murtaza: Mahmood, Qaisar, Rahim e Sattar. Rahim,ventitré anni, era il più giovane, anche se i tratti marcati e ibaffi lo rendevano più vecchio. Faceva politica da sempre.Quando, molti anni dopo, ho chiesto a suo cugino diparlarmi della sua vita prima della politica, il cugino mi èsembrato sinceramente sconcertato dalla domanda.«Prima della politica?» mi ha chiesto. «C’è sempre stata,la politica.»1 Eppure, giovane com’era, era ancheaffettuoso e allegro, e le persone che aveva attorno lotrovavano sempre di ottima compagnia.

Sattar era stato un ottimo studente, e si era laureato iningegneria presso il college di Khaipur con il massimo deivoti. Anche lui faceva politica da sempre, ma prima non siera mai iscritto ad alcun partito o movimento. Ultimo di unafamiglia molto numerosa, era cresciuto col desiderio didiventare insegnante e per un certo tempo aveva lavoratocome maestro alla scuola primaria del suo villaggio, mapoi non aveva potuto seguire la carriera dei suoi sogni. Nel1995 infatti era stato arrestato dalla polizia, che l’avevatrovato in possesso di alcune copie del manifesto politicodel PPP (SB) e di altri libelli politici. Portato alla prigionecentrale di Hyderabad - senza mandato, senza alcuna

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denuncia formalizzata e senza accuse registrate a suonome - era stato picchiato quotidianamente. Vi era rimastotre mesi, ma senza firmare nessuna «confessione» oripudio del nuovo partito. Come tutti avevano riconosciutodopo il suo rilascio, era stato molto fortunato a uscirne vivo.

Qaisar, che occupava il sedile posteriore del pick-upinsieme a Rahim, ricorda ancora il viaggio di ritorno dallamanifestazione di Surjani Town a Clifton Road: «La poliziaci tenne d’occhio fin dalla jalsa», racconta con voce forte eprofonda. «Alla fine di ogni distretto, l’auto che ci eraappresso si fermava e subito veniva sostituita da un’altrache ci stava aspettando. Ci seguirono in questo modo, informazione, per l’intero tragitto.»2 Già A Surjani Town,quella sera, si era vista una massiccia presenza di polizia.«C’erano tantissimi poliziotti», ricorda Qaisar, e annuiscequando Mahmood valuta che doveva esserci una trentinadi volanti parcheggiate nelle vicinanze dell’area dove siteneva il raduno. «Erano nei fossati, dietro il palco, davantia noi, su entrambi i lati. Oltre alle volanti, poi, c’erano dellegrandi camionette e dei blindati. Ma nessuno ci mise lemani addosso.»

Qualche ora prima di partire per la jalsa, Murtaza avevaparlato con le sue guardie del corpo ed era stato moltochiaro sui pericoli cui andavano incontro: «Ci avevaspiegato che forse saremmo stati arrestati», raccontaQuaisar con voce decisa. «Ci aveva detto di non opporreresistenza. Non abbiate paura, andrà tutto bene, avevadetto. Lasciate che ci portino via. Sono pronto a tornare in

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carcere.» La cartella nera di papà, con dentro i suoi libri, leriviste e la carta per scrivere, era già pronta nella suastanza da letto. Lo era da vari giorni. «Noi gli avevamorisposto che avremmo fatto come voleva lui», dice Quaisar,e per la prima volta avverto un’incrinatura nella sua forte,limpida voce. Per tornare a Clifton Road, Qaisar e Rahimpresero posto nel cassone aperto del pick-up, da dovepotevano tenere d’occhio mio padre che viaggiava nellaseconda auto. «Non faceva altro che ridere e sorridere»,racconta Qaisal. «Parlò per tutto il tempo con Ashiq Jatoi.Sembravano molto allegri.»

La seconda auto della carovana era il Pajero blu diAshiq, l’auto che usava ogni giorno per portare a scuola isuoi figli; come sempre lui era al volante e Murtaza glisedeva accanto. Anche Ashiq aveva preparato una piccolavaligia nel caso la polizia li avesse arrestati. Sul sedileposteriore del Pajero, dietro Murtaza, c’era YarMohammad, il suo guardaspalle personale. Era lui asovrintendere alla sicurezza del capo, pur essendolaureato in Scienze politiche: un lavoro che faceva per purae semplice devozione. Anche Yar Mohammad, come Ashiqe molti altri membri del nuovo partito, negli anni Ottanta erastato attivo nell’MRD e aveva conosciuto le prigioni di Ziaper aver partecipato alle manifestazioni per il ritorno dellademocrazia e contro la giunta militare. Con i suoi trentottoanni era il membro più anziano della scorta di Murtaza. YarMohammad era alto e distinto; spesso portava occhiali dasole molto scuri, modello aviatore, e aveva sei figli. Erasempre ferocemente protettivo nei confronti di mio padre.

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Accanto a lui sedevano Asif Jatoi, autista della famigliaAshiq e originario del loro stesso villaggio ancestrale,Beto, nel Dadu, e Asghar, un domestico di casa nostra chemolte volte seguiva papà nei suoi viaggi occupandosi deipasti. Spesso papà lo prendeva in giro perché, qualunquetempo facesse e qualunque mezzo di trasporto usassero,portava sempre con sé dei thermos di tè bollente. Scherzia parte, papà apprezzava moltissimo le capacitàdomestiche di Asghar e per questo lo portava spesso consé nei suoi viaggi politici.

Una piccola Alto bianca procedeva affiancata all’auto diMurtaza e di Ashiq per proteggerla. Rientrava anch’essanelle misure di sicurezza volute da Yar Mohammad: dentroc’erano alcuni membri del partito che, quella sera, eranostati fra il pubblico di Surjani Town, nonché Sajjad, un altroex attivista dell’MRD di Benazir passato a Murtaza dopo ilsuo ritorno in Pakistan. Sajjad aveva trentacinque anni e,come Yar Mohammad, aveva chiamato Shahnawaz unodei suoi figli in onore di mio zio. Anche lui partecipavavolontariamente alla squadra di sicurezza di papà puressendo stato eletto, qualche tempo prima, segretario allefinanze del partito per la regione del Sind.

L’ultima auto della carovana era una jeep biancaappartenente a un altro membro del partito che quella seraaveva voluto andare con Murtaza. A bordo c’era l’ultimo deicinque guardaspalle di Murtaza, Wajahat: trentacinqueanni, non sposato, con una laurea di secondo grado inScienze politiche. Di tutti gli angeli custodi di papà,Wajahat era quello che somigliava meno a una guardia del

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corpo. Aveva i capelli crespi e portava occhiali dallamontatura spessa, in plastica e metallo. Anche lui, comemolti dei presenti quella sera, veniva da una famiglia diclasse media; suo fratello ricorda che «aveva sempreavuto interesse per il lavoro sociale». Il fratello di Wajahatfa una pausa, poi aggiunge: «Certo, sapevamo che lapolitica gli piaceva, ma scoprimmo fino a che punto vifosse coinvolto solo quando ormai era troppo tardi».3

Quando la carovana arrivò alla rotonda denominata DoTalwar, Due Spade, all’inizio della via principale di Clifton,Murtaza notò che i ranger erano parcheggiati in modo benvisibile vicino al distributore di benzina Caltex e attorno allarotonda stessa.

I lampioni stradali erano spenti, e Clifton Road eraimmersa in un’oscurità silenziosa. Le sentinelle delleambasciate allineate lungo la via, compresi gli alticommissariati italiano, iraniano e inglese, avevano giàricevuto la visita dei ranger o della polizia che avevanoordinato loro di ritirarsi; le garitte erano vuote in modoinquietante.

A Murtaza e agli uomini che stavano tornando al 70 diClifton Road insieme a lui, quel dispiegamento di agentiappostati lungo la strada a bordo di auto e veicoli blindatisi faceva sempre più evidente, man mano cheprocedevano. Quella notte c’erano fra i settanta e i centopoliziotti sul bordo delle strade, intenti a fermare il traffico,appostati fra i rami degli alberi come cecchini. All’altezzadi Clifton Park, a un solo numero civico da casa nostra, una

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volante della polizia si infilò fra il pick-up e l’auto di papà. IlClub degli ufficiali di polizia, sull’altro lato del parco, eracompletamente circondato dagli agenti. Erano dappertutto.

Asif Jatoi si accorse subito che la loro auto era stataseparata dalle altre. «Raste band hogaya, ci avevanobloccato il passo», mi racconta.4 Quella notte, sulla scenache stiamo descrivendo, erano presenti molti dei piùtristemente noti ufficiali di polizia di Karachi, tutti di altolivello. C’erano Shoaib Suddle, esperto di criminologia,famoso per il contributo dato all’Operazione pulizia, eZeeshan Kazmi, noto torturatore della stessa. WajidDurrani, l’uomo che aveva scatenato la sparatoria del 5gennaio davanti ad Al Murtaza, era appostato nellevicinanze della rotonda, e col procedere delle operazioni lasua posizione sarebbe diventata sempre più significativa.Rai Tahir, Shahid Hayat, Shakaib Qureshi, Masood Sharif -all’epoca capo del Federal Intelligence Bureau, alle direttedipendenze dell’ufficio del primo ministro - secondo varitestimoni erano tutti presenti nella via isolata dal traffico,quella notte. Ma se i testimoni ricordano soprattutto la loroopprimente presenza, i sopravvissuti ricordano la lorofaccia. I poliziotti hanno sempre negato di aver fattoqualcosa di male, e si sono dipinti come sfortunate vittimedi una crisi d’ordine pubblico finita male. Più tardiavrebbero dichiarato di essere convenuti sul posto solo perarrestare Murtaza; ma nessuno ha mai prodotto unmandato d’arresto con cui suffragare tale tesi. Sonopassati quattordici anni da quella notte, e ancora nessuno

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di noi ha potuto vedere un mandato d’arresto.Rendendosi conto di ciò che stava accadendo, Murtaza

abbassò il finestrino per parlare con i poliziotti. Mentre lofaceva Yar Mohammad aprì la portiera e saltò giù permettersi fra lui e gli agenti. Murtaza ruotò il busto persporgersi dal finestrino, e alzò una mano: «Non sparate»,disse in urdu alle sue guardie del corpo. Yar Mohammadfece appena in tempo a tradurre in sindhi l’ordine diMurtaza che un’unica pallottola lo colpì in mezzo alla fronte.Cadde a terra e morì all’istante.

Murtaza aprì la portiera e scese dall’auto. Vedendolo, unpoliziotto - i rapporti non sono concordi sulla sua identità -gridò: «Fuoco!», e una raffica di spari esplose nella notte.La polizia sparava selvaggiamente, da tutte le direzioni.Ashiq fu colpito a un braccio. Dal sedile del guidatorevedeva chiaramente che erano circondati.

Non appena i poliziotti aprirono il fuoco, Sajjad si tuffòfuori dalla Alto e corse verso Murtaza per fargli da scudo.Ma mentre cercava di spingerlo dentro l’auto fu colpito asua volta. La pallottola gli trapassò il petto e gli spaccò ilcuore, uccidendolo all’istante. Rahim, il più giovane deiguardaspalle, saltò giù dal pick-up rosso e corse asostituire Sajjad nel fare da scudo a Murtaza col propriocorpo. Ma anche lui fu abbattuto da un cecchino con unsolo colpo alla testa e morì all’istante.

«Facevano il tiro al bersaglio», racconta Qaisar.«Chiunque accorresse per proteggere Mir baba venivacolpito con la massima precisione.» Anche Sattar, che erasul pick-up insieme a Rahim, era stato colpito, ma non era

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morto. L’aveva ferito un’unica pallottola al torace, e giacevain mezzo alla strada, sanguinante. «Sattar era ancoravivo», ricorda Qaisal. «Vedemmo la polizia prenderlo acalci per controllare se fosse morto. Gli salirono sopra conle scarpe. Vedemmo tutto.» Nella nostra cultura non puòesistere insulto peggiore, quando ti mostrano la suola diuna scarpa è come se ti dessero uno schiaffo in faccia; perquesto il fatto che Qaisar mi riveli queste cose, umiliazioniche mai nessuno prima di lui mi ha confidato, mi sconvolgetanto. Sento che la faccia mi si arrossa violentemente dallarabbia e che il cuore mi batte all’impazzata. Perché nonl’ho saputo prima? Perché questi particolari mi sono statitaciuti? Wajahat, l’ultima guardia del corpo della quartaauto, fu colpito alla schiena, anche lui con una solapallottola. Tre dei guardaspalle di papà erano stati uccisisul colpo, due giacevano sanguinanti in mezzo alla strada.Altri membri del suo convoglio erano feriti, alcunigravemente, e gli ultimi rimasti, pur essendo incolumi,erano sotto shock.

Mio padre era stato colpito più volte. Anche al viso, il suobel viso sempre sorridente, e aveva delle ferite superficialial petto e alle braccia. Ma i colpi sparati in quellagrandinata di pallottole non l’avevano ferito gravemente.Era vivo.

Intanto Ashiq, seduto al posto del guidatore, premevaforte il palmo delle mani sul clacson. «Chiamateun’ambulanza! » lo udirono gridare i testimoni. Urlava egridava: «Murtaza Bhutto è ferito! Chiamate aiuto!». Ma ipoliziotti non gli risposero.

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Poi due degli ufficiali presenti sulla scena, Haq NawazSial e Shahid Hayat, devono essersi sparatirispettivamente a un piede e a una gamba. La poliziaintendeva sostenere che c’era stato uno scontro a fuoco,ma non sarebbe suonato vero se ben sette uomini fosserorimasti uccisi - cinque sul colpo e due assassinati in unsecondo tempo - e nessun poliziotto avesse riportato labenché minima ferita. Più tardi, i medici forensi avrebberodimostrato che le ferite di entrambi gli agenti eranoautoinflitte. Tutti gli esami balistici e forensi, inoltre,avrebbero comprovato che non c’era stato fuocoincrociato: le uniche munizioni esplose venivano da armi indotazione alla polizia. Haq Nawaz Sia morì più tardi, incircostanze misteriose. La polizia disse che si erasuicidato, ma le persone che gli erano vicine insistetterosul fatto che l’avevano ucciso. Sulla sua morte non fu maiaperta un’indagine. Shahid Hayat lavora ancora nellapolizia, e tutti gli altri occupano posti d’alto livello inistituzioni dipendenti dal governo.

I feriti, Qaisar, Mahmood, Asif Jatoi, Asghar (colpito a unbraccio), e tutti gli altri, furono messi a faccia in giùsull’asfalto. Secondo Asif Jatoi, erano in tutto otto. «Cifecero mettere faccia a terra sul marciapiedi», racconta. «Ipoliziotti - erano moltissimi, e tutti armati - accesero iriflettori montati su uno dei loro veicoli e setacciarono lastrada per controllare chi era morto e chi no. Poi un’altraauto si staccò da Do Talwar e si mise a controllareanch’essa la zona. Quando videro che era tutto sgombro, ipoliziotti si avvicinarono. Rai Tahir, Shukaib Qureshi e

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Shahid Hayat - a piedi - andarono a controllare i corpi chegiacevano sulla strada e presero a calci con gli stivali imorti per controllare se si muovevano ancora.»

Fino a questo momento Asif Jatoi non era ancora statoferito. Pur essendo seduto accanto ad Asghar, nel retro delPajero blu, era incolume. Ora, Asghar afferma di aversentito mio padre parlare dopo la sparatoria. Lo sentì dire:«Ci hanno beccati, Zardari e Abdullah Shah», il primoministro del Sind, «alla fine ci hanno beccati…». AncheAsif dice di averlo sentito. Personalmente non ho maicreduto a questa storia delle ultime parole di mio padremorente. No, queste non furono le sue ultime parole,almeno per me; ma sicuramente significavano qualcosa diimportante. Che in quel momento lui era ancora in grado diparlare, che stava bene. Che era vivo.

Ashiq scese dall’auto e, tenendosi il braccio con la manonon ferita, cercò ancora soccorso, ma invano. Gridò chebisognava far venire un’ambulanza per i feriti. Dopo un po’,resosi conto che nessuno avrebbe chiamato un medico eche era proprio così che la polizia voleva andassero lecose, tornò vicino all’auto e si chinò su Murtaza.

In due colloqui separati e distinti, sia Qaisar che AsifJatoi mi hanno detto di aver visto i poliziotti avvicinarsi amio padre. «Noi eravamo stesi faccia a terra», haraccontato Qaisar, confermando ciò che altri testimoniavevano dichiarato in tribunale, «e li vedemmo trascinareMi r baba fuori dall’auto. Io notai che aveva gli abiti tuttisporchi di sangue: ma era un uomo forte. Lo vidi scenderedalla macchina senza bisogno di aiuto e mettersi a

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camminare.»Sulla scena dell’assassinio di mio padre c’era anche

Ghulam Hasnain, il giornalista investigativo che avevascritto il libro bianco sull’Operazione pulizia. Era al circolodella stampa quando, udendo dei colpi d’arma da fuoco, siera precipitato fuori e aveva raggiunto di corsa CliftonRoad. «Vedemmo che tuo padre veniva caricato su unacamionetta della polizia», mi racconta quando ci vediamoper parlare, a dodici anni di distanza, dell’omicidio dipapà. «Dentro insieme a lui c’erano due o tre poliziotti, elui sedeva con la schiena diritta e si teneva aggrappato allaparete della camionetta.»5 Hasnain ricorda che c’eranocadaveri sparsi su tutta la strada. «Io portavo sempre conme una borsa di pelle con blocchi per gli appunti emacchine fotografiche», racconta. «Ma non appena mividero, i poliziotti me la strapparono subito dalle mani.» Unaltro giornalista accorso insieme ad Hasnain, però, riuscì anascondere la macchina fotografica e a scattare dinascosto qualche foto mentre la polizia non lo guardava.Hasnain, uno dei giornalisti più rispettati di Karachi,afferma che quella notte i lampioni stradali erano statispenti affinché gli ufficiali di grado inferiore non potesserovedere chi era stato ordinato loro di uccidere. Io non nesono molto convinta. «Shoaib Suddle» uno dei poliziotti «ècriminologo», precisa Hasnain quando gli esprimo i mieidubbi riguardo alla storia dei lampioni. «Tutto deve avereuna sua ragione.»

«A quel punto Mir baba stava ancora bene», racconta

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Asif Jatoi. «Non aveva nemmeno bisogno di appoggiarsiper camminare. I poliziotti», Asif ricorda che c’erano RaiTahir, Shukaib Qureshi e Shahid Hayat, «gli dissero chel’avrebbero portato in ospedale, e lui così andò fiduciosoverso la camionetta. Si sedette nel retro, nella partescoperta, dove c’erano già alcuni poliziotti, poi l’APC siallontanò. Ma, quando fu all’altezza del Do Talwar, si fermò.Sentimmo un unico sparo. E la camionetta si rimise inmoto.»

Fu quest’ultimo sparo a uccidere mio padre. Altrimenti,per quanto ferito, lui sarebbe sopravvissuto. Era ancora ingrado di parlare e di camminare. Ci voleva ben più di unapallottola per uccidere papà, e i poliziotti avevano volutoassicurarsi che l’ultima completasse l’opera. Quell’ultimocolpo, come dimostrò l’autopsia, gli fu sparato a bruciapelonella mascella. Da un uomo in piedi sopra di lui chegiaceva disteso sul fondo della camionetta, comeconfermarono i medici forensi.

Shukaib Qureshi, come tutti i sopravvissuti hannoconfermato parlando con me separatamente nel corso diun anno, portava l’elmetto e il giubbotto antiproiettile. Tuttihanno detto che era il solo a indossare quelle protezioni.Significa che sapeva cosa sarebbe successo. È un puntosignificativo. Insieme a Zardari, Shukaib Qureshi, che perdodici anni si è sottratto alla giustizia, che io sappia èl’unico accusato a essere mai stato prosciolto nel belmezzo di un processo. Scappato dal Pakistan subito dopoil delitto per trasferirsi in Inghilterra - dove ha lavorato comeavvocato dapprima in uno studio privato e poi come

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consulente interno di una multinazionale - Qureshi è tornatoin Pakistan solo quando Zardari ne è diventato presidente,rientrando nel paese come un fuggitivo e latitante che perchissà qual miracolo è sempre riuscito a risparmiarsi ilcarcere. Lui, ovviamente, nega di aver mai avuto a che farecon l’assassinio di mio padre.

Ashiq fu portato via, nessuno sa dove. Non l’abbiamomai saputo. L’abbiamo rivisto solo da morto, ucciso da uncolpo di pistola alla nuca.

Alle 20.30 dunque, poco prima che io chiamassi laresidenza del primo ministro a Islamabad, sia mio padresia Ashiq erano stati portati via e uccisi e Rai Tahir avevaperlustrato un’ultima volta la strada insanguinata. I poliziotti,racconta Asif Jatoi, avevano preso a calci in faccia ilcadavere di Yar Mohammad. Avevano messo gli stivali infaccia a lui e a Qaisar, schiacciandoli a terra estrofinandogli i talloni sulla bocca. Dal momento in cui lapolizia aveva dato inizio all’operazione erano passati circaquaranta minuti.

«Sentimmo una voce dire: “Auw jawano, kam hogaya”,Andiamo, ragazzi, qui abbiamo finito”», racconta Qaisar.«Poi ci bendarono gli occhi e ci caricarono sullecamionette. Non sapevamo dove ci avrebbero portati.»Una pausa. «Quella voce non mi uscirà mai più dalleorecchie», dice Qaisar, chinando la testa. «La udimmo dinuovo nelle celle della tortura in cui la polizia ci rinchiusedopo l’omicidio», aggiunge Mahmood. In realtà, quella incui li portarono era la stazione di polizia di Clifton Road. Icadaveri erano stati allineati là davanti per l’identificazione.

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Qaisar ricevette l’ordine di identificare i morti, e afferma diaver visto fra gli altri anche il corpo di Ashiq. Nessun altrol’avrebbe più rivisto se non dopo le due del mattino, sei orepiù tardi. Era una delle procedure standard dell’Operazionepulizia: trattenere i corpi, distruggere ogni prova.

La strada davanti casa nostra fu lavata con la canna dainnaffiare; tutto il sangue e i frammenti di vetro furono lavativia. Quando mamma e io uscimmo di casa, attorno alle20.45, cioè quindici minuti dopo, la polizia avevacancellato ogni traccia.

La famiglia della moglie di Ashiq possedeva un centromedico ubicato nella stessa Clifton Road, il Mideast, dovemolti medici di prestigio avevano un ambulatorio in cuivisitavano i loro pazienti non ricoverati. Anche il miopediatra, come molti altri medici che conoscevamo,visitava al Mideast. Era là che ci rifornivamo di disinfettanti,cerotti e altri articoli di pronto soccorso. Il Mideast era unbel centro clinico, ma non certo un vero ospedale con tantodi pronto soccorso. Come d’altra parte dichiarava a chiarelettere un grande cartello affisso alle porte di vetro. Era unaclinica privata, un dispensario, un centro per convalescenti.Ma assolutamente non un pronto soccorso.

Quella sera l’unico figlio di Ashiq, Aneed, era andato alMideast per giocare ai videogiochi insieme ai suoi cugini,perché gli uffici della clinica avevano una connessioneInternet più veloce di quella cui poteva accedere il restodella città. Aneed aveva diciotto anni, e di lì a poco

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sarebbe andato all’estero per frequentare l’università.«Quella sera udii gli spari proprio mentre entravamo alMideast», racconta Aneed, che con il suo metro eottantadue di altezza, la voce profonda e i modi pazienti, èla copia esatta del padre. «Udendo il frastuono dellasparatoria la gente si precipitava fuori dall’ospedale, inpreda al panico. “Cosa sono questi spari?”, dissequalcuno. E io, con nonchalance: “Questa è Karachi amici:si spara un po’ dappertutto”. »6 Una mezz’ora dopo ancheAneed avrebbe avuto ragione di preoccuparsi.

Dopo il colpo mortale alla mascella di mio padre, lacamionetta della polizia avanzò di qualche metro fino alMideast. A Karachi solo due ospedali, il Jinnah e il Civile,accettano feriti da arma da fuoco, perché si tratta di casi incui è coinvolta la polizia e che richiedono tutta unadocumentazione ufficiale. Sono cose che sanno tutti. Ipoliziotti però decisero di portare mio padre al Mideast. Lofecero intenzionalmente. Sapendo che non vi avrebbetrovato le cure mediche di cui aveva bisogno. I poliziottiscaricarono papà davanti all’ospedale, con il shalwarkameez blu notte tutto impregnato di sangue, e se neandarono.

Incuriosito dal gran tumulto giù in strada, Aneed fecequalche domanda e venne a sapere che Murtaza Bhuttoera appena stato lasciato al Mideast in condizioni critiche.Si precipitò verso l’ingresso dell’ospedale, giusto in tempoper vedere che lo caricavano su una barella e lo portavanodentro. Aneed non mi aveva mai detto di essersi trovato al

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Mideast mentre ci arrivava mio padre. Non lo sapevo. Èper questo che tredici anni dopo, quando cominciamo aparlare della notte del suo assassinio e viene fuori questoparticolare, io resto tanto scioccata, ed è sempre perquesto che mentre Aneed racconta le mani mi tremanoforte. Aneed, dunque, era fermo nell’ingresso della clinicaquando vide il viso e il corpo di mio padre completamentericoperti di sangue. «Aveva una gamba distesa sullabarella e l’altra piegata, quasi stesse cercando di tirarsisu», ricorda Aneed, descrivendo la lotta di mio padre fra lavita e la morte.

Aneed e io abbiamo molto punti in comune. Nelle nostrefamiglie siamo considerati tipi tosti e dominatori, e spesso,quando ci ritroviamo tutti insieme, i nostri fratelli silamentano perché dicono che sappiamo parlare solo dipolitica e di film di mafia. Anche per questo non possopiangere davanti a lui. Non voglio mettermi a piangeredavanti ad Aneed, una persona che rispetto e ammiro; manon sapevo che mio padre fosse ancora in sé, quando loportarono al Mideast. Se solo mamma e io fossimoarrivate alla clinica dieci minuti prima l’avremmo trovatoancora cosciente. E lui ci avrebbe viste, avrebbe saputoche eravamo là, con lui. «Sì, quando arrivò era cosciente»,prosegue Aneed. «Mi guardò, i nostri occhi si incontrarono.Lui si teneva la mascella e il collo con la mano e cercava diparlare, ma senza riuscirci. C’era sangue dappertutto.Questo particolare mi colpì molto, perché significava cheera una cosa seria. Sai quel senso di inquietudine che avolte ti prende? Ecco, io ne fui travolto. Vedere Murtaza

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Bhutto, fisicamente tanto grosso e forte, ridotto a quellamaniera…» Aneed menziona il fatto che mio padre portavadei gemelli, e io, nel disperato tentativo di conquistarmi unmomento per riprendere fiato e raccogliere i pensieri, glidico che erano un regalo di mamma. «Poi qualcuno michiese dov’era mio padre», riprende Aneed. «Non losapevo. Sapevo solo che quella sera lui e tuo padredovevano essere insieme, così rintracciai un attivista chelavorava al Mideast e gli domandai cosa avesse sentitodire riguardo alla sparatoria. A un certo punto gli chiesianche se sapeva su quale auto viaggiasse baba - sapevoche ce n’era più d’una, ma non sapevo che erano nellastessa auto. Allora quell’attivista fece un’espressionepreoccupata e disse: “Era tuo padre a portare Mir Murtaza.Erano insieme”. Ma anche in quel momento riuscii apensare che tutto sarebbe andato bene, che in un modo oin un altro sarebbero sopravvissuti entrambi.»

Al telefono mi aveva risposto Asif Zardari. «Ah, aproposito, non lo sai?» disse in tono indifferente. «Hannosparato a tuo padre.» Lasciai cadere la cornetta. Misentivo il corpo tutto intorpidito e freddo, e il cuore mibatteva così forte da sovrastare ogni altro rumore. Mammacorse a riprendere la cornetta. Vedeva la mia faccia, e ilmio colorito era livido. Evidentemente capì che dovevaessere successo qualcosa di terribile, anche se io nonriuscivo a ritrovare la voce per dire una parola né ad alzaregli occhi per guardarla in faccia. Poi gridò. Non ricordo le

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parole che disse. Ero come paralizzata sulla poltrona: lapoltrona verde di papà.

Sarà al braccio, continuavo a ripetermi. Sicuramentel’hanno ferito al braccio; non può essere niente di grave,forse a una gamba. Perché mai Zardari avrebbe dovutocomunicare proprio a me, una ragazzina quattordicenne,che avevano sparato a mio padre se era una cosa seria?Non riuscivo a respirare. Mamma deve aver chiamato idomestici per farsi portare la macchina. Poi mi resi contoche stava correndo verso la porta. Saltai su e la rincorsi.«Tu resta qui!» mi intimò lei. «No!» gridai io di rimando,«io vengo con te!» Zulfi era seduto nell’atrio insieme a Sofi,la baby sitter che si occupava di lui da quando era nato.Vedendoci gridare l’una contro l’altra in fondo al corridoioaccanto, alla porta, Sofi si tirò accanto Zulfi per cercare didistrarlo dalle nostre urla.

«Fati, è pericoloso!» gridò ancora mamma. Ma io nonintendevo permetterle di uscire senza di me. «È miopadre! » risposi, poi l’afferrai per il braccio e me la tiraidietro fino all’auto. Lei non riuscì a fermarmi. Mentre lamacchina si allontanava da casa ci tenemmo abbracciatestrette. La via era pulita e deserta. Ricordo di averguardato dal finestrino, frugando le tenebre alla ricerca diun qualche indizio; ma siccome non si vedeva niente dianormale cercai di calmarmi pensando che qualsiasi cosafosse accaduto non poteva essere niente di serio. Sarà albraccio, continuavo a ripetere a mamma e a me stessa,come un mantra cui avevamo disperatamente bisogno dicredere.

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Nel frattempo la moglie di Ashiq, Badrunissa, era a casacon le tre figlie. Abbastanza lontano perché il frastuonodella sparatoria non le giungesse alle orecchie. «Giornali etelevisioni in urdu continuavano a telefonare chiedendo dimio padre», racconta Sabeen, la maggiore delle figlie diAshiq e Badrunissa. «E quando rispondevo che eraandato a Surjani Town con Murtaza Bhutto, all’altro capodella linea cadeva il silenzio.»7 Un amico di famiglia lechiamò per dire che vicino al 70 di Clifton Road c’era statauna sparatoria, ma siccome parlava con Sabeen, cheallora aveva diciannove anni, minimizzò la portata deglieventi. Sabeen, per natura posata e dignitosa, non perse latesta. Fu solo quando una sua zia, il cui marito era uno deiproprietari del Mideast e si stava recando là - l’avevanochiamato non appena papà era stato portato dentro - letelefonò per dire che Murtaza Bhutto era stato ferito moltogravemente che cominciò a preoccuparsi. «A questo puntoandammo nel panico», ricorda. «Sapevamo che MurtazaBhutto sedeva sempre davanti mentre baba viaggiavaaccanto a lui al posto del conducente. Se tuo padreversava in condizioni critiche, che ne era stato del mio?»

Sabeen e sua madre saltarono dunque in macchina perandare a cercare Ashiq. Prima di uscire Sabeen disse allesorelle più piccole, Anushka e Maheen, di rispondere loroal telefono e di risparmiare le cattive notizie ai nonni - igenitori di Ashiq, che dormivano al piano di sopra.

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«Andammo al Mideast, ma baba non c’era. Alloraraggiungemmo il Jinnah Hospital, pensando che, siccomeera coinvolta anche la polizia, probabilmente erano andatilà. Mamma era troppo scossa per scendere dall’auto, cosìentrai io. Fui io ad andare all’obitorio per chiedere seavevano la salma di mio padre. Mentre andavo versol’obitorio mi si avvicinarono alcuni giornalisti di testate inurdu e mi dissero che no, mio padre non c’era. Ne fuisollevata. Ci credetti. Così tornammo in macchina eriprendemmo le nostre ricerche.»

Sabeen è una donna molto coraggiosa. Nella suafamiglia è stata la prima a studiare in un college estero. Inquesto obiettivo l’ha sempre sostenuta Ashiq, un uomomeravigliosamente progressista consapevole che la figlia,intelligente com’era, nella vita poteva avere ben altro cheuna serie di proposte di matrimonio. Quel settembreSabeen era a casa per le vacanze estive e si stavapreparando a tornare in Inghilterra per il secondo anno digiurisprudenza. Lei e io ci eravamo conosciute qualchesettimana prima, a un raduno politico a Lyari durante ilquale i nostri padri avrebbero preso la parola. Io peròavevo già avuto modo di passare un po’ di tempo con suopadre, e sapevo quanto le volesse bene. Sabeen mi èsempre piaciuta. Ha un modo di fare affettuoso esinceramente amichevole, e poi ha subito fatto amiciziacon Zulfi, che all’epoca dei fatti aveva solo sei anni.Sapevo inoltre che era una ribelle, un’apripista, e anchequesto me la rendeva simpatica.

I l chacha di Sabeen, fratello minore di Ashiq, non

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appena ebbe notizia della sparatoria si affrettò araggiungere Aneed. Nessuno sembrava sapere dovefosse Ashiq o se fosse rimasto ferito. La sua famiglia,impegnata a correre da un ospedale a una stazione dipolizia, sembrava sparita. Anche Nuzhat, moglie di Zahid emedico come suo marito, si diede anima e corpo allaricerca del cognato. Ma nessuno aveva il benché minimoindizio. «A un certo punto», racconta Nuzhat, «i medici delJinnah ci dissero che due persone gravemente ferite eranoarrivate al pronto soccorso, ma poi erano state portate via.Non fecero nomi, non ci diedero altre informazioni a partequesta.»8

«Allora andammo all’Agha Khan Hospital - all’altro capodella città. Era molto lontano, ma eravamo disperate»,prosegue Sabeen. «Amma restò in macchina e io entrainel pronto soccorso, dove chiesi se un certo Ashiq Jatoiera stato ricoverato da loro. C’era una gran confusione, edalle persone allo sportello non riuscivo a ottenere unarisposta chiara. Descrissi loro la costituzione di mio padre,il peso e l’altezza, dissi che indossava uno shalwarkameez nero; ma quella gente non sembrava avere le ideechiare su niente. Nel frattempo mia zia Nuzhat ci avevaraggiunte, e insieme decidemmo di tornare al Mideast pervedere se uno dei nostri parenti che lavoravano là potevadarci qualche informazione. Mentre uscivamo dall’edificioper andare verso la nostra auto vidi una volante dellapolizia parcheggiata vicino all’entrata del pronto soccorso.Mi avvicinai a uno degli agenti che aspettavano vicino alla

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parte posteriore della macchina - non sapevo ancora delcoinvolgimento della polizia - e gli chiesi se per casosapesse dov’era mio padre. Gli dissi come mi chiamavo eprecisai che stavo cercando Ashiq Jatoi, che quella seraera con Mir Murtaza Bhutto. “Credo sia successo qualcosanelle vicinanze del 70 di Clifton Road”, dissi. “Potrebbedirmi dove sono stati portati?” Fui gentile, non avevoragione di non esserlo, ero nervosa e spaventata e volevosolo che qualcuno mi aiutasse. Ma il poliziotto, ricordo cheera giovane e che aveva i baffi, si voltò verso di me eringhiò: “Ah, li abbiamo ammazzati tutti”.» Sabeen si misea urlare. Perse di colpo e completamente la calma cheaveva cercato di mantenere nell’ora abbondante in cui erastata in giro con sua madre. «“Cosa diavolo sta dicendo?”,gridai. “Come osa?” Ma quell’uomo non mosse un dito, nonsi lasciò commuovere. Allora un altro poliziotto, credofosse più anziano, scese dal sedile anteriore, si avvicinò emi chiese perché stessi dando scandalo. Ormai erocompletamente sotto shock. Alcuni automobilisti che,trovandosi a passare di lì, avevano sentito quello che ilprimo poliziotto mi aveva detto, si avvicinarono perprendere le mie difese e riferirono al secondo poliziotto leparole del primo.» Per un po’ Sabeen smette di parlare. Ilsuo respiro si è fatto pesante, ha bisogno di un momentoper riprendersi. Negli ultimi tredici anni lei e io siamo statesempre insieme, praticamente inseparabili, e abbiamoparlato spesso di quella notte. Sabeen è la mia miglioreamica, e ci capita continuamente di tirare in ballo i nostripadri. Ma nessuna delle due ha mai condiviso con l’altra i

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particolari di quella notte; è una cosa che ci fa troppo male.«So che un giorno o l’altro lo incontrerò di nuovo, quelpoliziotto», dice Sabeen, quasi tra sé e sé. «Ricordo conestrema chiarezza la sua faccia.»

Alla fine Nuzhat, la zia di Sabeen, riuscì a convincerla arisalire in macchina. Con quei due stavano solo perdendotempo. Nessuno sapeva con certezza che fine avesse fattoAshiq, e fino a quel momento la sua famiglia non potevaessere sicura che fosse stato ucciso. Tornarono alMideast, con la fastidiosa sensazione che fosse successoqualcosa di terribile e che il primo poliziotto non avessementito. «Se Murtaza Bhutto versava in condizioni critiche,dov’era baba ?» ripete Sabeen. «Loro due stavanosempre insieme.»

Non ricordo come arrivammo al Mideast, né come ciritrovammo nella grande sala postoperatoria in cui avevanomesso papà. Ricordo solo di esservi entrata e di aver vistole sue gambe. Di aver pensato adesso crollo. Mammainvece entrò di corsa e andò dritta verso papà, disteso instato d’incoscienza su un basso lettino d’ospedale.Quando lo vidi rimasi come paralizzata. Ero lì, c’era miopadre tutto coperto di sangue e avrei voluto gridare, manon riuscivo nemmeno ad aprire la bocca. Ero paralizzatadallo shock. Non feci altro che stare lì.

Mamma invece si buttò accanto al lettino di papà ecominciò a parlargli, come se non avesse notato il suoaspetto orribile né il sangue che gli copriva il viso e il petto.

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«Svegliati, Mir! Svegliati!» gridava. Mi avvicinai e miaccovacciai accanto a lui. Gli sfiorai il viso, ma le dita mi sisporcarono di sangue e mi spaventai. Il suo viso eraancora tiepido, il sangue scuro e bagnato. Saltai su eandai nell’angolo più lontano della stanza, dove mi lasciaicadere su una sedia di metallo bianco. Non riuscivo arespirare.

Mamma restò accanto a papà mentre il personale dellaclinica gli collegava un monitor cardiaco e correva qua e làper cercare un chirurgo che potesse operarlo - ma nonc’erano chirurghi di guardia, non ce n’erano mai, alMideast. Ogni tanto qualcuno si intrufolava nella stanza,gente che voleva dare un’occhiata, curiosare, veder morireMurtaza Bhutto. Ebbi un’esplosione di collera contro unadonna, l’odiosa direttrice di una rivista passata alla politica,che si comportava come se avesse comprato un bigliettoper uno spettacolo pubblico. «Cosa ci fa, lei, qui?» gridai.«Qui non siamo a teatro! Se ne vada!» La donna siallontanò da me, ma non andò via. Arrivarono altrepersone, amiche ed estranee. Io non riuscivo aconcentrarmi abbastanza da capire in che modo orribile sifossero messe le cose: com’era possibile che fossimofiniti in un ospedale che non aveva nemmeno un chirurgocapace di salvare la vita a mio padre?

Con noi c’era anche Ghaffar Jatoi, cognato di Ashiq eprincipale proprietario del Mideast. Era venuto subito, nonappena il suo staff l’aveva avvisato. «Non avevo l’autista»,mi racconta quando vado a trovarlo per parlargli di quellanotte. «Così mi misi io stesso al volante. Tutta la zona era

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immersa nell’oscurità più totale. C’erano dei ranger, deipoliziotti, non saprei dire quanti, era troppo buio per vedere- la strada era illuminata solo dai fari della mia auto. Mifermarono e dissero che non potevo passare. Spiegai cheero un medico e che avevo un’emergenza, ma si rifiutaronougualmente di lasciarmi proseguire.»9 Ghaffar dovettetentare altre due o tre strade prima di raggiungerefinalmente il Mideast. Secondo la sua stima, impiegò quasimezz’ora a percorrere i due minuti di strada fra il DoTalwar e il Mideast.

«Mi dissero che tuo padre era molto irrequieto»,racconta Ghaffar, che arrivò al Mideast qualche minutoprima di noi. «Cercava febbrilmente di respirare,annaspava in cerca d’aria, ma invano. I medici non eranoriusciti a infilargli correttamente il tubo endotracheale, cheavrebbe potuto dare aria ai suoi polmoni, perché aveva lagola piena di sangue. Vidi io stesso che aveva una grossalacerazione alla lingua. Gli facemmo la tracheotomia, inmodo da poter infilare il tubo bypassando il blocco di tuttoquel sangue. Ma lui andò in arresto cardiaco e dovemmorianimarlo.»

Fu a questo punto che mamma e io arrivammo alMideast. Mamma si accucciò proprio vicino all’orecchio dipapà e si appallottolò sul pavimento facendosi piccola, inmodo da non intralciare i medici che si muovevanofreneticamente attorno a lui. Dopo di che non si allontanòpiù dal letto di papà nemmeno per un secondo, e gli parlòininterrottamente, supplicandolo di tener duro. Ricordo di

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averla sentita e di aver pensato che anch’io avrei volutoandare vicino a papà e parlargli, ma non ce la facevo. Erosotto shock. Paralizzata dalla paura. Mamma gridava:«Non andartene, Mir! Non morire! Fati e Zulfi hanno ancorabisogno di te! Resta con noi… ti prego, resta con noi!».

Ogni volta che mamma pronunciava il mio nome e quellodi Zulfi, sul monitor che registrava il battito cardiaco dipapà qualcosa si muoveva, linee bianche che saltellavanoattraverso lo schermo. «Ogni volta», ricorda mamma, «ilsuo cuore sembrava battere solo per te e tuo fratello.»

«Murtaza perdeva moltissimo sangue», raccontaGhaffar. Ogni pochi minuti, mentre parliamo nel salotto dicasa sua, mi chiede se sto bene. No che non sto bene. Maho bisogno che mi dica tutto quello che sa. Così glirispondo sempre che sto bene e lo prego di continuare.«Perdeva sangue dal naso, dalla bocca e dalla partelaterale del collo, dove l’aveva raggiunto la pallottola fatale.I principali vasi sanguigni che portano l’ossigeno al cervellodovevano essere stati danneggiati perché perdevaassolutamente troppo sangue. Anche la bocca era piena disangue, che probabilmente gli era sceso anche neipolmoni. Non so quanto ne avesse perso in strada, quellanotte, prima di arrivare al Mideast; non lo sapremo mai. Maaveva urgente bisogno di sangue, perlomeno quindiciunità. Così chiesi a medici e infermieri di donarglielo,perché le nostre scorte non erano sufficienti. Lui peròperdeva sangue molto più in fretta di quanto noiriuscissimo a dargliene.»

Dal mio angolino colsi una confusione di voci e capii che

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papà aveva bisogno di sangue. Qualche tempo prima gliavevo chiesto che gruppo sanguigno avessimo, io e lui.Per me, fu l’unico momento in cui le cose rallentarono unpo’. «Io posso dargli il mio sangue», dissi a uno deimedici. Lui mi chiese quale fosse il mio gruppo sanguigno,e io gli ripetei quello che mi aveva detto papà: «Non lo so,so solo che è uguale al suo». Il sangue era urgente, così miprecipitai giù dalle scale dietro a un medico che giàcorreva lungo i corridoi del Mideast verso la sala prelievi. Ementre correvo insieme a quel medico, con la codadell’occhio vidi Sabeen. «Cosa ci fa qui?» Ricordo diessermi chiesta che cosa ci facesse lì. Non mi eranemmeno passato per l’anticamera del cervello chequalcun altro oltre a papà fosse rimasto ferito.

«Fati! Fati!» gridò Sabeen cercando di bloccarmi. «Haivisto mio padre?» Ma io non mi fermai. Non capivo perchémi stesse chiedendo di suo padre. Scrollai la testa. Nonricordo il resto della conversazione che avemmonell’ingresso della clinica, ma Sabeen sostiene che ledissi: «Abbiamo bisogno di sangue per papà». «Io possodonargliene», rispose lei, «lo faccio subito, ma dimmi: saiqualcosa di mio padre?» Io non le risposi nemmeno. Nelfrattempo ero entrata come una furia nella sala prelievi, miero arrotolata la manica e aspettavo l’ago. Fu la primavolta, quella notte, in cui fui sfiorata dall’idea che forsec’era una possibilità di salvargli la vita. Per la prima volta,mentre il dottore riempiva le trasparenti sacche di plasticacon il mio sangue, la testa mi si schiarì e il mio spirito sirisollevò un poco. Se mi stavano prelevando il sangue

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significava che c’era una speranza. Finalmente stavofacendo qualcosa. Qualcosa di concreto per aiutarlo. Nonappena il medico mi ebbe prelevato tutto il sangue chepoteva senza arrecarmi danni, corsi al primo piano e tornainella sua stanza. Ma papà non era più lì. Molte personeavevano telefonato a chirurghi di loro conoscenza in giroper tutta la città, e finalmente ne erano arrivati abbastanzada avere una qualche speranza di esito positivo - papà erastato portato in sala operatoria proprio mentre io risalivo lescale. Ci accompagnarono in una saletta d’attesa. Papàsarebbe stato bene. Sarebbe sopravvissuto. Lo dissiun’infinità di volte, a mamma, a tutti quelli che man mano cistavano raggiungendo, a chiunque avesse voglia diascoltarmi. Sarebbe andato tutto bene.

Erano le 23 passate, e mamma e io aspettavamopazientemente che qualcuno venisse a darci notizie. Moltepersone ci avevano raggiunto: la saletta foderata dimoquette era affollata, piena all’inverosimile. Qualcunoaveva tirato fuori il rosario musulmano, il tasbee, epregava. Qualcun altro correva avanti e indietro portandobicchieri d’acqua a mamma e a me. Era una vera fortuna,per noi, non essere sole in un momento del genere. Tutti imiei pensieri si concentravano su quando avrei rivistopapà. Lui sarebbe stato bene. Quella notte sarebbe stataqualcosa di cui avremmo parlato negli anni a venire, edopo il fine settimana io sarei tornata a scuola con unastoria straziante da raccontare; ma alla fine tutto sarebbeandato bene. Non lasciai che alcun altro pensiero, chealcuna idea negativa mi entrasse nella testa. Sarebbe finito

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tutto bene.Anche un cugino di papà, che in famiglia chiamavano

Pitu, e il cui fratello era stato ad Al Murtaza con mamma eJoonam il 5 gennaio quando la polizia aveva sparatocontro la casa, era venuto in ospedale e faceva la spola frala saletta d’attesa e i medici, riportando ogni informazionepossibile. Pitu fece sì che la situazione sembrassegestibile, e io cominciai ad attendere i suoi rapportiperiodici con qualcosa di simile alla speranza. Alla finetutto si sarebbe risolto: ascoltavo ciascuno degliaggiornamenti di Pitu con in testa questo mantrasilenzioso.

«In sala operatoria Murtaza ebbe un altro arrestocardiaco», ricorda Ghaffar Jatoi. «Dovemmo aprirgli ilpetto e cercare di rianimarlo con il massaggio cardiaco.Ma quella volta non riuscimmo a riportarlo indietro.»

Pitu entrò nella saletta che era quasi mezzanotte. Nonricordo se lo disse prima a mamma o a tutte e dueinsieme. «Mi dispiace», disse, in lacrime. «Tuo padreentra nella storia», disse. Io non capivo nemmeno di cosastesse parlando. Non volevo capire. «Lui starà bene»,dissi, aggrappandomi al mio mantra. Pitu scrollò la testa.«Mio padre sopravvivrà, l’hai detto tu stesso che stavarispondendo bene», insistetti. Per un momento tutta larabbia che avevo nel cuore, raggiungendo il punto dirottura, si scatenò contro Pitu: «Mi hai mentito», ricordo diaver pensato. Dovevo assolutamente trovare un modo per

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distrarmi; avrei voluto urlare e gridare e litigare con Pitu,qualsiasi cosa pur di non dover registrare la notizia chestava cercando di comunicarmi. «No», disse lui. «Midispiace, Fati, se n’è andato.»

Non so come ci spostammo dalla sala d’attesa a quellaoperatoria. Penso che qualcuno mi abbia retto e sostenutocon forza. Penso sia stata mamma. Papà era disteso sullettino in mezzo alla stanza, con un sottile lenzuolo biancotirato su fino al collo. Attorno al viso gli avevano stretto unabenda di garza bianca per tenergli chiusa la bocca. Gliocchi erano chiusi. Del sangue secco gli si stavacoagulando sul viso, e ne aveva anche fra i capelli. I capellidi papà sempre così perfettamente pettinati, tanto che iostessa glieli vedevo arruffati solo al risveglio. Miinginocchiai sul pavimento accanto a lui. No, non eramorto, non poteva essere vero. Doveva esserci un errore.Lo baciai sul viso, sulle guance, sulle labbra, sul naso, sulmento, un’infinità di volte. Sugli occhi no: secondo unasuperstizione libanese, le persone le cui palpebre abbiamosfiorato con le labbra saranno definitivamente separate danoi. E io non volevo essere separata da papà. Piansilacrime che venivano dalla parte più esacerbata di me, coni polmoni e l’anima che lottavano per trovare l’aria. Avreivoluto essere colta da un blackout, cadere svenuta eriprendere i sensi solo quando tutto ciò fosse finito. Nonavevo potuto dirgli addio, e non accettavo il fatto che miavesse lasciato. Mi bruciava la gola, rabbrividivo in tutto ilcorpo. Il suo viso era diventato freddo. Perché il suo viso siera raffreddato così? Mamma e i medici mi rialzarono dal

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pavimento e mi portarono fuori. Nessuno diceva unaparola. Attorno a me tutti piangevano. A nessuno venivanoin mente parole di consolazione, lo shock era troppoviolento.

Mamma voleva restare alla clinica mentre i mediciprocedevano all’autopsia. Sarebbe tornata a casa piùtardi, con il corpo di papà. Così chiese alla moglie di Pitudi portarmi a casa.

Quando uscimmo dall’ospedale c’erano telecameredappertutto, e i flash delle macchine fotografiche mispararono in faccia la loro luce accecante. Io gemevo daldolore, stringevo gli occhi e avevo la faccia inondata dilacrime. Quel pianto mi faceva male in tutto il corpo. Letelecamere circondarono l’auto, i fotografi rubarono delleimmagini di me in lacrime. Mir Murtaza Bhutto era morto.Lasciai l’ospedale come prova vivente della sua morte.

C’erano ancora poliziotti un po’ dappertutto. Arrivandodavanti a casa vidi che ce n’erano lungo tutta Clifton Road.Sofi aveva messo a letto Zulfi ed era rimasta alzata adaspettarci nell’ingresso a pianoterra. Quando entrai micorse subito incontro, dando per scontato che fossi tornataperché tutto era andato bene. Come stava papà? Dov’era?Mi ci volle un istante per capire che era convinta che fosseancora vivo. L’hanno ucciso. «È morto. L’hanno ucciso,Sofi», dissi. «Se n’è andato.» Mi sembrava di avere labocca piena di sangue.

Sarei dovuta stare sempre con lui. Perché non eroandata con papà anche a Surjani Town? Perché gli avevoobbedito quando mi aveva detto che non potevo? Salii la

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pesante scalinata di legno ed entrai in camera di Zulfi. Leluci erano accese ma lui, profondamente addormentato nelsuo lettino, non sapeva niente. Mi sdraiai accanto a lui,desiderosa di proteggerlo. Sentivo di non poter viveresenza papà. Finalmente capivo quei suoi sussurri dellabuonanotte, ora sapevo cosa intendeva quando diceva chesarebbe morto se mi fosse successo qualcosa di male.Sarei dovuta morire anch’io. Mi sembrava che l’anima mifosse stata strappata in due, come se qualcuno mi avesseestratto il cuore dal petto svuotandomi di tutto ciò che eravivo. Piansi silenziosamente, per non svegliare Zulfi, finchénon ebbi l’impressione che la gola mi si stesse chiudendodel tutto. Poi mi alzai, andai in salotto e sollevai la cornettadel telefono. E cominciai a chiamare tutte le persone checonoscevamo in giro per il mondo per dir loro quello cheera successo.

Sabeen lasciò il Mideast dopo la mezzanotte, quando lanotizia della morte di papà cominciò a filtrare anche fuoridall’ospedale. «Temevamo che si sarebbe scatenato ilcaos», ricorda. «Così decidemmo di tornare a casa perraccogliere un po’ le forze e riprendere le ricerche dipapà.»

Aneed era per strada quando la notizia si diffuse. «Dopola morte di tuo padre», racconta, «e siccome ancora nonsapevamo niente del mio, tutti si preoccuparono ancora dipiù. L’angoscia arrivò al massimo. Zio Ghaffar continuavaa chiedere: “Ma dov’è Ashiq? Come mai non riusciamo a

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trovarlo?”. Non si sapeva.»Al Jinnah Hospital, Zahid e Aneed videro Asghar, il

nostro domestico, ferito a un braccio. «Stava piangendo emi disse, in sindhi: “Prima hanno ucciso mio padre, eadesso hanno ucciso anche il vostro”.» Aneed ricorda diaver digrignato i denti: «Gli dissi di non pensarlanemmeno, una cosa del genere; ma Asghar lo ripeté eaggiunse di aver visto tutto con i suoi occhi. Io alzai la vocee dissi con ancor più decisione di non pensarci nemmeno,ma dopo questa conversazione seppi con certezza chemio padre era morto. » Mentre uscivano dal Jinnah, senzaaver avuto ulteriori informazioni sulla sorte di Ashiq, Aneedaggredì alcuni poliziotti di guardia fuori dall’ospedale. Neafferrò uno: «Siete degli assassini!» gridò, quasi inlacrime, finché Zahid non lo trascinò via cercando dicalmarlo.

Nel frattempo a casa Jatoi i vari membri della famigliaoccupavano ciascuno la sua posizione in salotto, in cucinae nel giardino, cercando di consolarsi l’un l’altro e diraccogliere più informazioni possibile. A un certo puntoSabeen andò a prendere il diario di suo padre, sul qualelui, quel giorno stesso, aveva scritto: «A importare non ètanto ciò che mi accade, quanto come mi comporto mentremi accade. Mente fredda, mani pulite, cuore caldo».

Dopo aver letto quelle inquietanti parole Sabeen sifermò un momento e cercò di rassicurarsi, come avevofatto anch’io, pensando che tutto sarebbe finito bene. Poi,dopo aver trovato il numero di telefono di alcuni amici econtatti politici del padre, cominciò a chiamarli per

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chiedere se sapevano qualcosa di lui. «Un amico difamiglia mi richiamò per dire che aveva sentito da fontiaffidabili che Ashiq Jatoi era stato arrestato; quindi eravivo. » Piena di gioioso sollievo Sabeen mise giù ilricevitore e corse a riferire la buona notizia alla famiglia.Ma l’amico si sbagliava. Gli era stato detto che Asif Jatoi,l’autista di famiglia, era stato arrestato, e pensando chequella notte con Murtaza potesse esserci solo un Jatoi,aveva riferito a Sabeen l’informazione sbagliata. Fu unerrore crudele. Il sollievo di Sabeen fu di breve durata.

Intanto Aneed e Zahid erano tornati al Mideast percontrollare se tutta la loro famiglia fosse andata via e perfare qualche telefonata prima di riprendere le ricerche.Quando al Mideast non ebbero trovato alcuna risposta alleloro domande, si accinsero a tornare per l’ennesima voltaal Jinnah Hospital per setacciare il reparto di prontosoccorso e scoprire se per caso Ashiq era stato portato lì.«Andai a sedermi sul sedile posteriore», racconta Aneed,lentamente. «Non ricordo nemmeno di chi fosse, quell’auto.Chacha Zahid era accanto a me, e uno dei miei cuginisedeva davanti. Mentre l’auto si allontanava dal Mideast,questo cugino si voltò verso di noi e disse: “Mi dispiace, èmorto”.» La telefonata che stava riportando gli Jatoi alJinnah era stata presa dal cugino di Aneed. I tre stavanodavvero andando a cercare Ashiq, ma non al prontosoccorso, all’obitorio. Dopo tante ore di ignare ricerche, latelefonata che avevano temuto era arrivata. Ashiq eramorto.

Quando arrivarono al Jinnah, Aneed e Zahid lo trovarono

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sprofondato nel buio più assoluto: la compagnia elettrica diKarachi aveva tagliato la corrente a interi quartieri dellacapitale. Identificarono il corpo di Ashiq nell’oscurità, easpettarono finché i medici non ebbero effettuatol’autopsia a lume di candela. «Nessuno aveva saputo dovefosse il corpo di Ashiq finché non era arrivatoall’obitorio»,10 commenta Zahid tredici anni dopo. Eranole due del mattino: Ashiq era stato ammazzato con uncolpo alla nuca sei ore prima.

Zahid restò all’ospedale per occuparsi delle pratichenecessarie alla traslazione della salma mentre Aneed tornòa casa. In realtà i due arrivarono a pochi minuti di distanzal’uno dall’altro, e Sabeen sentì il rumore del cancello che siapriva e delle auto che percorrevano il vialetto. «Ero cosìfelice - corsi incontro ad Aneed e a chacha Zahid perdargli subito la buona notizia. “È vivo! È vivo!”, gridavo.“Abbiamo ricevuto una telefonata - è in arresto!” Poi vidichacha Zahid nascondere il viso tra le mani. Stavapiangendo, tremava tutto e mi disse: “Ho appena visto ilsuo corpo, beta, è morto. Se n’è andato”. Qualcuno arrivòdi corsa a sorreggermi. Un attimo dopo vidi tutto nero.»

Circa alle tre del mattino, mentre mamma era ancoraall’ospedale ad aspettare che l’autopsia finisse e che lerestituissero il corpo di papà per riportarlo a casa, alMideast arrivò il primo ministro, che aveva lasciato la suaresidenza di Islamabad per volare a Karachi. Si erafermata un momento a casa sua e subito dopo era andataall’ospedale, a piedi nudi - in segno, dissero alcuni, di

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cordoglio. Era accompagnata da Wajid Durrani, uno degliuomini che quella notte avevano aperto il fuoco (lo si vedementre la saluta in molte fotografie scattate al suo arrivo) eda Shoaib Suddle, un altro di quelli che avevanopartecipato all’assassinio di suo fratello. Anche AbdullahShah, ministro capo del Sind, e un altro ufficiale di poliziacoinvolto nella sparatoria erano con Benazir quando arrivòal Mideast.

Benazir, la mia Wadi, in un’intervista rilasciata qualcheanno dopo e poco prima del suo stesso assassinioavrebbe detto che se Murtaza era morto era stata solocolpa sua. Stravolgendo completamente i dati di fattorelativi alle sue ferite, e saltando di palo in frasca in mododel tutto incoerente, avrebbe affermato che era statocolpito alla schiena dalle sue stesse guardie del corpo, chequelle guardie del corpo avevano aperto il fuoco contro lapolizia e che Murtaza covava un desiderio di morte. Io larividi solo dopo il funerale di papà: ogni volta che cercavadi avvicinarsi ad Al Murtaza, dove si svolgevano leesequie, gli abitanti di Larkana attaccavano la sua autobersagliandola con pietre e scarpe. Nei giorniimmediatamente successivi a quello in cui papà fu sepoltoa Garhi Khuda Bux, lei fece causa a mamma per violazionedell’iddat, una prescrizione islamica arcaica e oscurantistasecondo cui, dopo la morte del marito, le vedovedovrebbero restare chiuse in casa per quaranta giorni equaranta notti, senza vedere nessuno a parte i familiaristretti e senza uscire dalle loro stanze. Mamma, cheall’epoca aveva solo trentaquattro anni, si logorava per il

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dolore e il senso di perdita. Era dimagrita moltissimo, e sistava riducendo al lumicino a forza di seguire i nostriesposti alla polizia e le nostre denunce in tribunale. «Lo saiperché tua zia vuole che io faccia l’iddat?» mi gridò unavolta, in uno dei suoi momenti di rabbia. «Perché cosìnessuno potrà seguire le denunce che abbiamo sportocontro gli uomini che hanno ucciso tuo padre. Così lui saràsparito, e anche il suo omicidio sparirà con lui.» Ladenuncia contro mamma per violazione dell’iddat, in cui lasi accusava di aver disatteso i dettami dell’Islam, fudepositata da un alleato locale di Benazir. Anni dopo(almeno cinque) quell’uomo - la cui denuncia fu poisommariamente archiviata dalla corte - uscì dal PPP diBenazir e andò da mamma per chiederle perdono. Ma laguerra di Benazir contro mia madre e contro la memoria dimio padre non si fermò. All’inizio del nuovo anno, quandomamma entrò nel neonato partito di papà e cominciò aprendere in considerazione la richiesta avanzata dal partitostesso di candidarsi alla sua presidenza e presentarsi alleelezioni, Benazir, ormai spogliata della sua carica e di lì apoco rinnegata dall’elettorato del 1997, che premiò conuna schiacciante maggioranza i suoi avversari di allora, icandidati del PML, rilasciò un’intervista alla famosa eonorata giornalista libanese Giselle Khoury. In questaintervista Wadi definisce mamma «una danzatrice delventre» venuta dalle «zone più arretrate del Libano», eriprende le volgari insinuazioni già fatte alla riunione delprimo Consiglio del Sind secondo cui Murtaza non dormivacon lei e l’aveva sposata solo per avere una domestica che

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con lei e l’aveva sposata solo per avere una domestica chegli tenesse pulita la casa e sorvegliasse i suoi figli.Mamma, così simile a papà per stile e sensodell’umorismo, non perse il suo sangue freddo e,ovviamente in privato, le rispose che «se Benazir sa tantobene cosa succedeva nel letto di Mir, come fa a nonsapere cosa successe davanti a casa sua nella notte del20 settembre?». Dopo l’omicidio di papà non rividi più lamia vecchia Wadi di un tempo. Era sparita per sempre.

Sattar e Wajahat morirono mentre erano sotto lacustodia della polizia, per le molte ferite riportate e noncurate. Tutti i sopravvissuti e i testimoni dell’omicidio eranostati portati via dagli agenti. «Ci portarono alla thana diClifton Road, e là ci interrogarono», racconta Asif Jatoi. Glidomando se videro mai un mandato d’arresto o un giudiceper le indagini preliminari, in un momento qualsiasi dellaloro permanenza in carcere; che durò tre mesi,esattamente fino alla caduta del governo di Benazir. Mirisponde con una risata amara: «Avevano il governo dallaloro parte, che trattamento pensi ci abbiano riservato?».

Sopravvissuti e testimoni, quindi, furono trattenutiarbitrariamente e spostati senza autorizzazione da unastazione di polizia all’altra. Nessuno sapeva più dovefossero. Tutti i nostri tentativi di presentare un «Rapporto diprima informazione», il più basilare dei diritti riconosciuti aqualsiasi cittadino che abbia da esporre una rimostranzalegale, furono bloccati dal governo di Benazir, che ci privò

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di ogni diritto e di ogni giustizia. Fummo costretti arivolgerci alla corte suprema del Sind per vederciriconosciuto anche solo il diritto di presentare un reclamocontro la polizia.

Nel frattempo, però, nessuno impediva alla polizia dipresentare le sue, di denunce: e di fatto furono subitodepositate querele contro tutti i morti e i sopravvissuti in cuili si accusava di aver sparato per primi e di aver aggreditole forze dell’ordine. Era il normale modus operandidell’Operazione pulizia.

In prigione, i sopravvissuti furono tormentati e torturati intutti i modi. «Quella notte, alla thana», racconta Qaisar, «ipoliziotti ci picchiarono e ci dissero: “Abbiamo ucciso ilvostro capo, adesso siamo noi i vostri sahib”.» Rai Tahir,uno degli agenti che avevano sparato, si spinse fino a diread Asif: «I tuoi capi li abbiamo uccisi: adesso cosa pensiche faremo a voi?». I poliziotti inscenavano anche dellefinte esecuzioni, e una delle notti immediatamentesuccessive a quella dell’omicidio arrivarono al punto diprelevare Asif Jatoi dalla sua cella presso la thana diClifton Road, bendarlo e infilarlo in un’auto senza targa.«Mi coprirono gli occhi e mi legarono le mani, dopodichéun sepah, un ufficiale, mi disse: “Il tuo tempo è scaduto.Stanotte ti ammazziamo”.» Lo portarono in giro per unaventina di minuti e infine, ridendo, lo ributtarono nella suacella, sempre bendato e ammanettato.

I sopravvissuti rividero spesso, in prigione, i poliziotti diquella notte. Molti di loro, separatamente l’uno dall’altro, mi

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hanno confessato che Rai Tahir, Wajid Durrani e ShukaibQureshi c’erano quasi sempre. Erano loro a condurre gliinterrogatori, a supervisionare le sedute di tortura - checomprendevano sempre la fustigazione con il sachoo, insindhi, una sorta di spatola fitta di chiodi affilati che strappavia brandelli di pelle e di carne - e ad attuare forme ditormento psicologico come le finte esecuzioni. Asif Jatoimi ha raccontato che una volta un poliziotto di basso grado,di turno alla sorveglianza delle celle, disobbedendo agliordini dei colleghi di non dare né da bere né da mangiareai prigionieri aveva portato loro un po’ d’acqua. «Be’, RaiTahir picchiò personalmente quel sepah e gli disse: “Nonm’importa se anche dovessero morire di sete, a questiuomini non bisogna dare acqua”. Quel secondino però eraun uomo di buon cuore e l’acqua ce la diede ancora, arischio di essere punito ancor più severamente da Tahir.»

Utilizzando i dettagli fornitimi da Asif Jatoi sono riuscitaa rintracciare quel secondino: era un agente sindhi di turnoalle celle nelle ultime ore della notte, e che quindi finiva dilavorare fra le cinque e le otto del mattino. Quandoabbiamo cominciato a parlare, gli ho domandato se nonvoleva che usassi nel libro il suo vero nome. «Aap kemarzi», mi ha risposto: dipende da te, sono nelle tue mani.«Fa’ come è meglio per il tuo lavoro», ha aggiunto. Altrepersone che negli eventi avevano ricoperto posizioni menodelicate della sua mi avevano chiesto di trattarle come fontianonime: ma quel poliziotto no. Ciononostante non farò ilsuo nome. Quell’uomo è ancora un dipendente salariato

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della polizia, lo è stato negli ultimi vent’anni; e quando cisiamo incontrati lui era in compagnia di un figlio ancoragiovane, la cui vita sicuramente dipendeva dal fatto chesuo padre aveva un lavoro fisso. Quando i sopravvissuti,feriti e bendati, arrivarono alla sua thana, lui portò lorodell’acqua, i rimasugli di cibo che riuscì a mettere insiemee qualcosa su cui dormire. «Fu Rai Tahir a picchiarmi perprimo», mi racconta, e mentre parla si torce le mani. «Malo fece anche Zeeshan Kazmi», uno dei poliziotti più brutalidelle squadre speciali addette all’Operazione pulizia, poiucciso nelle strade della capitale, «quando scoprì chequalcuno aveva dato dell’acqua ai testimoni. Si arrabbiòmoltissimo e picchiò un agente del Punjab, il quale glidisse che non era stato lui, che era stata tutta colpa mia. Inquel momento io ero in pausa e stavo mangiando qualcosaa una bancarella chiamata Ali Baba, vicino alla stazione.Zeeshan Kazmi mi mandò a prendere, mi fece bendare eriportare alla thana. Poi mi picchiò, spaccandomi anche identi davanti, e mi domandò perché diavolo avessi volutoaiutare quella gente. “Cosa sono, tuoi padri, forse?” Poi mitolse la pistola e come punizione ulteriore mi sospese dalservizio senza paga.»11

Nessuno dei sopravvissuti fu rilasciato finché il governodi Benazir non cadde, tre mesi dopo l’assassinio di papà.Durante una delle ultime telefonate che le ho fatto, hochiesto a mia zia perché il suo governo avesse fattoarrestare tutti i sopravvissuti, mentre i poliziotti colpevolierano rimasti in libertà - una sommaria indagine interna li

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aveva prosciolti con onore da ogni accusa, ed erano tornatitutti alle loro zone di pattugliamento senza perderenemmeno una giornata di paga. «Tu sei ancora moltogiovane, Fati», mi ha risposto Wadi, inalberandosi subitoalla mia domanda. «Questo non è un film, questo è ilgoverno, e noi abbiamo un nostro modo di fare le cose.» Inrealtà non ha mai risposto alle mie domande.

Qualche giorno dopo l’assassinio di mio padre, AliSonara fu trasferito dal centro di detenzione segreto in cuisi trovava, a Karachi, in una cella di Hyderabad, a tre ore diviaggio da lì. Nessuna accusa precisa era stata formulatacontro di lui, né gli avrebbero contestato niente ancora pervarie settimane. Nessun giudice aveva spiccato unmandato d’arresto o approvato il suo trasferimento fuoriKarachi. Sonara è rimasto prigioniero della polizia fino al2003. Un anno dopo il suo rilascio, a Lyari, sarebbe statoucciso.

La salma di papà fu portata a Larkana con un elicotterodella Edhi Foundation. Mentre il velivolo cercava didecollare da un lotto vuoto a poca distanza dalla JehangirKothari Parade, ed era ancora a mezz’aria, alcuni uominisi aggrapparono alle porte e ai dispositivi per l’atterraggiocercando di impedirgli di prendere quota. A Larkana ilfunerale fu molto intenso, e tutte le città del paesedichiararono tre giorni di lutto. Migliaia di persone, frasostenitori politici e semplici cittadini addolorati, siaffollarono ai cancelli del 70 di Clifton Road per scortaremamma, Zulfi e me fino a un altro elicottero poco lontano,difendendoci dai rischi connessi al percorrere quel tratto di

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strada soli e senza protezione. Molte di quelle personerestarono con noi, e ci tennero d’occhio, per settimane.Saremmo stati così vulnerabili agli attacchi di Benazir,dello stato e della polizia se non fosse stato per le personea noi del tutto estranee che componevano quella folla, eche si impegnarono a proteggerci. Quando atterrammo aLarkana, altre migliaia di persone ci vennero incontro peraccompagnare papà al luogo del suo ultimo riposo, GarhiKhuda Bux. Lo seppellirono avvolto nella bandiera originaledel Partito del popolo. Penso che gli avrebbe fatto piacere.

Joonam tornava da un viaggio all’estero proprio quelgiorno, in tempo per scoprire che un altro dei suoi figli erastato assassinato. Sapendo che soffriva di una lieve formadi Alzheimer, nessuno le aveva ancora detto che il suoadorato primogenito maschio era stato ucciso. Glielodissero solo qualche minuto prima che la sua autoarrivasse ai cancelli del 70 di Clifton Road. Durante ilviaggio in elicottero fino a Larkana si batté il petto come glisciiti quando piangono i loro morti e gemette in modoincontrollabile. Da quel colpo non si è mai più ripresa. Ilgiorno dopo il funerale non fece altro che camminare avantie indietro lungo il corridoio di Al Murtaza chiamando suofiglio: «Dite a Mir di cambiarsi il kaffan, il lenzuolo funebre,è tutto sporco di sangue». Il terzo giorno della vegliaBenazir arrivò ad Al Murtaza in piena notte per sfuggire aicontestatori che avevano già più volte attaccato le sueauto. Disse che voleva solo avere la madre con sé perqualche giorno, e la trascinò via. Non l’avremmo mai piùrivista. A tutt’oggi gli Zardari tengono la mia Joonam

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segregata in una sgargiante villa di Dubai da cui non puòcomunicare con nessuno. Benazir non ci ha mai permessodi rivederla, con l’unica eccezione di una breve visita diquaranta minuti a Islamabad, sei mesi dopo la morte dipapà. Joonam sembrava un fantasma, era pallida esmunta. Le davano delle medicine per non so cosa.Vedendo me e Zulfi scoppiò a piangere - Wadi aveva dettoche l’incontro sarebbe saltato se fosse venuta anchemamma - e noi ci aggrappammo forte a lei quandovennero a dirci che il nostro tempo insieme all’unicomembro della famiglia di papà che ci volesse davverobene, e cui anche noi volessimo bene, era terminato. Daallora non ci è più stato permesso di parlare con la nostranonnina malata, non abbiamo potuto farle visita néprenderci cura di lei, che giorno dopo giorno deperisce,sola, circondata da domestiche, perfetti estranei e membridel clan Zardari. Sanam, la sorella minore di mio padre,dopo la sua morte si è gettata anche lei nella mischiapolitica e ha depositato una causa legale contro Zulfi, cheallora aveva solo nove anni, mamma e me (che ne avevoappena compiuti diciotto) per toglierci il 70 di Clifton Road.Sanam viene in Pakistan solo raramente, per qualchecerimonia ufficiale legata alla presidenza, e in quelleoccasioni non manca mai di rilasciare interviste cheattaccano papà, mamma, mio fratello e me. Mi mancamolto la zietta Sunny che conoscevo da bambina. Anche leiè da parecchio tempo che non si vede.

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Dopo aver arrestato i testimoni dell’assassinio di papà,al posto dei colpevoli, il governo di Benazir ci proibì diformalizzare ogni accusa penale contro i poliziotti coinvoltie istituì invece un tribunale ad hoc - che non avrebbecomunque avuto l’autorità legale di emettere una sentenza- per investigare sulla morte di Murtaza.

«Non era un vero e proprio tribunale, piuttosto unacommissione d’inchiesta», commenta il giudice NasirAslam Zahid, uno dei giudici di quel tribunale nonché exmagistrato della corte suprema del Sind.12 «Il nostrocompito era quello di scoprire chi fosse l’assassino econtro chi si sarebbe potuta avviare una causa penale. Enel nostro rapporto dicemmo chiaramente che iresponsabili dell’omicidio erano i poliziotti.»

Pur non avendo il potere di emettere sentenze, nel suorapporto conclusivo la commissione prese comunquealcune posizioni importanti. Innanzitutto disse chiaramenteche la morte di Murtaza Bhutto era stata un omicidiopremeditato, e che non c’era stato alcuno scontro a fuoconé alcun fuoco incrociato. «Chi aveva spento l’illuminazionestradale?» si domanda il giudice Aslam Zahid. «La polizia,e soprattutto Wajid Durrani, affermò che nessuno di loro siaccorse che i lampioni erano spenti! Ma noi scoprimmoche la cosa era stata organizzata apposta, dato che solouna via, la vostra, era rimasta al buio, e dato che dopo lafine della sparatoria le luci furono riaccese.»

In secondo luogo stabilì che la polizia aveva fatto un usoeccessivo della forza lasciando poi morire i feriti in mezzo

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alla strada. «Indicammo chiaramente nei poliziotti - WajidDurrani, Suddle e i loro colleghi - gli aggressori», continuail giudice Aslam Zahid. «Quando studiammo come prove leferite riportate risultò subito stupefacente che la poliziapotesse sostenere che gli aggressori erano gli uomini diMurtaza Bhutto, dato che tutti loro erano morti mentre fra gliagenti di polizia solo uno, Shahid Hayat, aveva riportatouna ferita alla coscia, autoinflitta, mentre un altro, Sial,aveva una pallottola nel piede. Più tardi, dopo il fatto, ipoliziotti lasciarono tuo padre al Mideast, che come tuttisanno non è un ospedale con dei medici sempre presenti.Ciononostante i poliziotti lo portarono lì e ce lo lasciarono.»

Dopo di allora Shahid Hayat riuscì a ottenere che fossecostituita una commissione medico-legale per esaminarele cicatrici della sua ferita alla coscia e dichiarare che, daipunti che gli furono dati, quella ferita non poteva essereautoinflitta. Ciononostante, anche quella pallottola risultòsparata da una pistola della polizia. Interrogato, un medicoprivato che ebbe modo di esaminare la gamba di Hayatdisse solamente di non poter violare il segreto fra medicoe paziente.

Terzo, la commissione dichiarò che l’ordine diassassinare Murtaza Bhutto doveva essere partito dai piùalti livelli di governo.

La denuncia penale contro Asif Zardari e Abdullah Shahè stata depositata nel 1997. Naturalmente a tutt’oggi èancora ferma in tribunale, anche se l’idea che un giorno lamia famiglia possa ottenere giustizia dalle corti delPakistan, corrotte e ormai completamente manipolate da

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Zardari, non è di quelle in cui io riponga molta fede. Igiudici responsabili del nostro processo sono cambiati piùe più volte - sedici in totale, uno dei quali esoneratoperché, essendo donna, un giudice della corte suprema delPakistan ha pensato che non avrebbe potuto reggere lostress di una causa del genere - e a tutt’oggi accadeancora che gli accusati vengano prosciolti nel bel mezzo diun processo, prima che tutte le prove vengano esaminate,prima che tutti i testimoni siano ascoltati e prima che ognitentativo di ricostruire i fatti con una certa completezzapossa essere portato a termine.

Il giudice Wajihuddin Ahmed, ex membro della cortesuprema del Sind come Aslam Zahid, l’uomo che nel 2007ha coraggiosamente disputato la presidenza dellarepubblica al generale Musharraf, non si prende nemmenoun attimo per riflettere quando gli domando se c’èsperanza, per noi, di ottenere un giorno un processo liberoe giusto. «Sicuramente non oggi», è la sua risposta.13

Il 5 dicembre 2009 la corte suprema di Karachi haassolto tutti i poliziotti accusati dell’assassinio di MirMurtaza Bhutto e di sei dei suoi uomini. Un mese dopo lasentenza l’ex presidente Farooq Leghari - quello chenell’inverno del 1996 licenziò il secondo governo di Benazir- si è presentato alla televisione nazionale per parlaredell’assassinio di mio padre. In questa intervista, mandatain onda da Duniya TV, un popolare canale televisivoprivato, Leghari ha raccontato che una notte tardi, durante ilmandato di sua moglie, Zardari era andato da lui e gli

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aveva detto con molta chiarezza che Murtaza Bhuttoandava eliminato. «O lui o io», pare siano state le sueparole precise. Leghari, che oggi appare molto più fragilee vecchio di quanto non giustifichi la sua età, ha poiaggiunto che Benazir e suo marito, da lui accusati di gravee macroscopica corruzione, erano anche responsabili del«massiccio insabbiamento» che aveva fatto seguito aldelitto. «Quell’uomo ha le mani sporche del sangue diMurtaza», ha detto l’ex presidente. «E solo Allah può diredi quello di quante altre persone.»

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EPILOGOAprile 2009.Nel finire questo libro provo una sensazione strana come

se attorno a me il mondo intero stesse crollando. Nelloscrivere della morte di mio padre avverto uno strano sensodi déjà vu. Perché in questo momento viviamo in unaanaloga situazione di pericolo, proviamo la sensazionetangibile di non essere al sicuro. Sette mesi fa ho fatto levaligie e ho preso l’aereo per andare a far visita a miofratello in un paese straniero.

Per cominciare il suo livello-A, corrispondente alladodicesima classe, Zulfi si era iscritto a una scuola privatanon lontano dalla nostra casa di Karachi. Anche alcuni deisuoi amici si erano iscritti lì. Ragazzi che avevano in mentedi vivere un anno un po’ più rilassato, durante il qualesarebbero stati trattati come studenti di college.Nell’autunno del 2008 Zulfi aveva appena compiuto diciottoanni, ed era perfettamente consapevole di quanto fossediventata precaria la nostra situazione da quando AsifZardari si era autoassolto dall’omicidio di nostro padre.Sapeva che, a causa della storia che c’era stata conl’uomo che si faceva chiamare presidente, nessuno di noiera più al sicuro in patria. Già quando Zardari si eraautoproclamato candidato presidente del PPP

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all’unanimità, avevamo capito che ormai niente e nessunoavrebbe potuto impedirgli di conquistare le vette delpotere. Non poteva più tornare indietro. Contro ogni logica,quell’uomo avrebbe governato il Pakistan. Per questodecidemmo di portare Zulfi fuori dal paese. Era ladecisione cui avevamo cercato di sottrarci, nella speranzache non fosse necessaria, fin da quando Benazir era statauccisa, nel dicembre del 2007. Ma siccome Zulfi era l’unicoerede maschio dei Bhutto ancora in vita non potevamocorrere il rischio di lasciarlo in una posizione vulnerabile. Aparte lui, gli unici Bhutto rimasti eravamo io e Sassi. Quelloin cui viviamo è un paese senza libertà di stampa, senza unsistema giudiziario indipendente - o, per quel che vale,senza un sistema giudiziario e basta. Nessuno puòdifendersi da un governo vendicativo e violento.

Così cominciammo a spedire domande di ammissionein alcuni college di paesi esteri. Affrontammo nuoveamministrazioni, nuove tariffe e nuovi orari. Zulfi sarebbepartito dopo il dodicesimo anniversario della morte dinostro padre. Non sarebbe stato facile per nessuno. Zulfi,di otto anni più giovane di me, era sempre stato il collanteche teneva insieme la nostra piccola famigliola. Mir Ali, ilfratellino piccolo che avevamo adottato quando aveva soloun mese, era l’elemento più allegro e chiassoso. Un annodopo averlo adottato dall’orfanotrofio Edhi di Karachi,mamma disse che proprio lui, il piccolo Miroo, incarnava lasua idea di giustizia. Un concetto che lei non aveva maiidentificato con quello di vendetta. Quando si è versato delsangue puro, diceva, non si può ristabilire l’equilibrio

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versando del sangue sporco, quello degli assassini.L’equilibrio fra ciò che si è perso e ciò che è giusto si puòristabilire solo salvando un’altra vita pura. Mir Ali è unuragano; si viene risucchiati dal suo eterno movimento. Iostessa parlo molto e non rinuncio certo a esprimere le mieopinioni ad alta voce; ma Zulfi, lui non è mai scontato comenoi. Molto più modestamente, lui parla con voce dolce maporta con sé un grosso bastone. Mia madre e io parlavamospesso del sollievo che ci dava l’idea che presto sarebbestato lontano da Karachi, al sicuro in qualche postolontano.

Ma non immaginavamo quanto ci avrebbe devastate ilsilenzio che avrebbe regnato in casa quando quella vocedolce l’avrebbe lasciata. Mamma e io lo avvertiamo ognigiorno, quando mangiamo e non c’è nessuno seduto connoi a finire tutti i pomodori e i cetrioli prima che chiunquealtro si sia servito. Lo avvertiamo quando un amico viene atrovarci e domanda dove sia Zulfi. «Andato», risponde MirAli, e mentre lo dice china la testa. Nessuno di noi avrebbeimmaginato che il vuoto creato dalla sua assenza sisarebbe allargato anche fra di noi, che l’avremmo semprecercato nelle nostre conversazioni e, non trovandolo, cisaremmo ritratti.

Il momento in cui ci trovammo fisicamente più vicini l’unoall’altra, io e Zardari, fu al funerale di Benazir, nel dicembredel 2007.

Ancora una volta si stavano preparando le elezioni. Io

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avevo fatto propaganda di porta in porta a Larkana, lacircoscrizione in cui mamma si presentava candidatacontro tutta la potenza del PPP, cercando di convincere ledonne a uscire di casa per andare a votare. Verso sera mitelefonò mamma: «Benazir è stata ferita. Pare siasuccesso qualcosa durante una manifestazione», mi disse.Immediatamente sentii che il respiro mi rallentava in petto.No. Non di nuovo. Domandai se fosse viva. Credo di sì,rispose mamma. Ripresi a lavorare. Forse quaranta minutidopo uno degli uomini che erano con me, Qadir, unvecchio attivista politico di papà, entrò nella casa che stavovisitando e mi sussurrò all’orecchio: «Bibi, adesso pensoche faremmo meglio a tornare a casa».

Salii in macchina, e non appena le portiere si furonochiuse Qadir si voltò verso di me e disse: «Wadi è statauccisa». Mi resi conto che una porzione del mio cervellodoveva aver registrato le sue parole: Wadi? Erano secoliche non la sentivo chiamare così; io stessa non usavo piùquel nomignolo da anni. Qadir mi fece sedere al centro delsedile posteriore, con un’attivista alla mia destra e uno allamia sinistra, nei posti vicino al finestrino. In un primomomento non capii bene cosa stesse architettando.Riuscivo a pensare solo a Wadi. Quando ci arrivai mi alzaie, schiacciandomi nel poco posto rimasto, tornai asedermi vicino al finestrino. «È una cosa ridicola», dissi aQadir. «Non possono uccidere un’altra Bhutto propriostanotte.»

Tuttavia le mie stesse parole non cessavano dirisuonarmi all’orecchio. Avevo già sentito mio padre

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esprimere una variante dello stesso pensiero: quella gentenon può uccidere un altro Bhutto, non oseranno mai. Cercaidi mettermi in contatto con mamma e con Zulfi, che peròcome me erano in giro per le strade e avevano il telefonostaccato. Cercai di telefonare a Sabeen, che si trovava connoi a Larkana e lavorava ventiquattr’ore su ventiquattrocome agente della campagna elettorale di mamma - unasorta di maggiordomo nel gran giorno, e qualcosa come unmanager organizzativo fino ad allora. Ma anche con lei nonc’era linea. Fu in quel momento che l’idea mi colpì come unpugno in faccia: sì che potevano. Potevano uccidere anchealtri di noi. Ogni dieci anni un membro di questa famiglia,della famiglia ristretta composta dai figli di Zulfikar eNusrat, viene ucciso.

Fui l’ultima ad arrivare ad Al Murtaza: mamma e Zulfi eMir Ali e Sabeen erano già là. Non appena li vidi saltai giùdalla macchina e corsi ad abbracciarli. Fu una cosa strana.Ero triste per la mia famiglia. Ero triste per il mio paese.Ero triste per Zulfikar. Ma la notizia della morte di mia zianon mi colpì con tutta la sua forza se non un paio d’oredopo. Stavo percorrendo i corridoi di casa, riordinando epulendo. Una reazione piuttosto strana per me, incircostanze normali. Avevo già dato una sistemata alla miacamera, controllato quella di Zulfi e riordinato la confusioneche regnava nell’atrio. Attraverso la porta del salotto,rimasta aperta, potevo vedere Sabeen. Lei alzò gli occhiverso di me e corrugò la fronte. «Che cosa stai facendo?»chiese. Io le sorrisi e la salutai con la mano. «Stosistemando casa, per papà.» A questo punto mi si avvicinò

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Zulfi, alto e cupo. «Cosa stai facendo, Fati?» Io loabbracciai e gli diedi qualche leggera pacca sulla spalla.«Non preoccuparti», gli risposi, come una pazza. «D’ora inpoi andrà tutto bene. Papà sta per tornare a casa.» Fu soloquando le parole ebbero lasciato la mia bocca, e quandoebbi visto l’espressione sulla faccia di mio fratello, che iostessa udii ciò che avevo detto. No, papà non sarebbetornato. Niente mai avrebbe potuto restituirmi mio padre.Ebbi un crollo. Piansi per i successivi cinque giorni.Quando rimasi senza più lacrime, avevo pianto per tuttiquanti. Per papà, per il nonno, per Shah, per Joonam e perla mia Wadi, che avevo perso molto prima di quell’inverno.

Vidi Zardari la sera in cui la salma di Benazir fu portatada Rawalpindi, dove era stata uccisa, a Garhi Khuda Bux.Mamma, Zulfi e io percorremmo in auto i quaranta minuti distrada che separano la nostra casa di Larkana daNaudero: dalla casa di Naudero, che un tempo eraappartenuta a Shahnawaz ma poi, dopo la sua morte, erastata sequestrata da Benazir per farne la base operativadella sua carriera politica. Mi ero chiesta se si sarebbefatto vedere; se avrebbe avuto il coraggio di mostrare lafaccia al funerale di un altro Bhutto. Poi mi ero ricordatache era suo marito, e che ovviamente sì, sarebbe statopresente. Ma non pensavo che avrebbe avuto lasfacciataggine di affrontarci, né sapevo quale sarebbestata la mia reazione quando l’avessi visto. Mi sembravache il cuore mi esplodesse per il dolore e la collera - misentivo come spezzata dentro.

Alla fine fu solo un momento. Noi eravamo raggruppati

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vicino alla porta, in attesa dell’arrivo della bara, quandoZardari entrò in casa, molto agitato. Era più basso diquanto non ricordassi. Poco più alto di me, e io non sonoalta. E stava tremando. Qualcuno - avrebbe potuto esserechiunque, c’era talmente tanta gente che premeva sulleporte per entrare - passandogli accanto lo urtò e lui gligridò contro, scosso in tutto il corpo. «Ha paura», pensai.«Non vede l’ora di essere fuori di qui.» La cosa non mi fudi alcun sollievo.

Zulfi decise di partecipare alla sepoltura di Benazir. Eraun membro della famiglia, l’unico maschio ancora vivo.Qualcuno della famiglia doveva pur essere là perseppellirla, disse. Gli altri uomini che avrebbero gravitatoattorno al funerale erano tutti assistenti politici, maneggioni,criminali, piccoli distributori di privilegi e ladri. Nonpossiamo lasciarla seppellire da quella gente, disse. Io mimisi a piangere e cercai di mettergli paura. Non volevo chele stesse vicino, non volevo che scendesse nella fossa dadue metri con Zardari, l’uomo che in molti ritenevanoessere responsabile dell’assassinio di mio padre. Lastessa cosa veniva detta anche in quel frangente, anche diquella morte. «È troppo pericoloso, sei pazzo?» esplosi.Sarebbe una follia, piagnucolai.

Alla fine Zulfi fu più dignitoso, più garbato di quanto avreimai potuto essere io. Fece scendere sottoterra la salma diBenazir, recitò la fateha per lei e poi si recò sulla tomba dinostro padre. Si inchinò e baciò il telo e i vecchi petali dirosa che coprivano la sepoltura. Poi se ne andò. Zulfi fusolo, quel giorno. E aveva solo diciassette anni.

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solo, quel giorno. E aveva solo diciassette anni.Due mesi dopo incontrai una seconda volta Asif Zardari.

Fu dopo che le elezioni del febbraio del 2008 furonotruccate e vinte, dopo la conferenza stampa da lui tenutanel terzo giorno dalla morte di sua moglie, la scadenza piùimportante del lutto islamico, e dopo che ebbefarsescamente cambiato il cognome dei suoi figli daZardari in Bhutto annunciando la sua intenzione didiventare capo del PPP di Benazir e di restare l’ultimo«Bhutto» in sella. Questo secondo incontro fu più lungo delprimo, e ne rimasi scottata; ogni fibra del mio essere e deimiei sentimenti ne fu ferita.

Una troupe cinematografica francese era arrivata aKarachi per realizzare un documentario sulla nostradinastia familiare e io, nel mio nuovo ruolo di pecora nera edi bastian contrario della politica ereditaria, avevo ilcompito di offrire loro un punto di vista non allineato. Latroupe, composta da due donne e dal loro assistentepachistano, mi chiese di accompagnarla nel punto esattoin cui papà era stato ucciso. Ci vogliono solo diecisecondi, a piedi, dalla porta di casa nostra, e inprecedenza l’avevo già mostrato ad alcuni giornalisti. Mifermai nel punto in cui papà era caduto, proprio davanti allastazione di polizia, e mentre parlavo alla telecamera notaiun Pajero bianco fermo al bordo della strada a pochi metrida noi. Dentro c’erano tre uomini, e degli adesivi diBenazir erano attaccati ai finestrini. Smisi di parlare. Eromolto scossa. Mi avvicinai ad Hameed, uno degli uominiche proteggevano Zulfi e me, e gli chiesi di andare all’autoper cercare di capire a chi appartenesse e perché si

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per cercare di capire a chi appartenesse e perché sitrovasse lì. Poi chiesi alle due francesi di concedermi soloun attimo. Ero sconvolta, ma non volevo perdere il controllo;non con due giornaliste tra i piedi, non davanti alletelecamere: ne sarebbe potuta uscire una storia. Hameedparlò con quegli uomini, ed essi scesero dall’auto: cosache mi stupì non poco. Perché non si limitavano adandarsene? Gli sconosciuti alzarono le braccia in un gestoche voleva essere accomodante, ma non si allontanarono.La situazione si stava facendo più drammatica di quantomi aspettassi. Dopo qualche minuto, gli uomini risalirono inmacchina e se ne andarono. «Cos’è successo? Chierano?» Poi domandai ad Hameed in urdu, nella speranzache le giornaliste non si accorgessero che mi tremava lavoce. «È per Zardari», fu la sua risposta. «Si trova alconsolato inglese, vicinissimo a noi. Sono i suoiguardaspalle.» Gli sconosciuti gli avevano detto che nonintendevano darci fastidio, di qui il gesto con le mani, mache avevano l’ordine di tenere sotto controllo tutta la zonaper la sicurezza di Zardari. Hameed gli aveva detto ditenerla d’occhio da qualche altro posto, e loro se n’eranoandati. Un’ironia piuttosto kafkiana.

Ed eccomi lì, nel luogo esatto in cui mio padre era statoassassinato, mentre a pochi metri da me l’uomo che eroconvinta fosse almeno in parte responsabile del suoomicidio veniva ricevuto come un ambasciatore. Sentii chemi si piegavano le ginocchia e dovetti sedermi sul bordodel marciapiede. «Qualcosa non va?» mi domandò unadelle due francesi. «No», borbottai. E ripresi dal punto incui mi ero interrotta, raccontando dell’omicidio di mio

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padre e accompagnandole passo passo negli eventi cosìcome si erano svolti. Poi vidi un’altra auto, di un modellodiverso, ma sempre bianca. Hameed mi venne vicino e sichinò su di me. «È Shahid Hayat. Guida il drappello dipoliziotti che si occupano della sicurezza di Asif aKarachi», mi sussurrò. Shahid Hayat era uno degli agentipresenti sulla scena del delitto in quella famosa notte,quello che si era sparato da solo nella coscia, uno di quelliche noi accusavamo dell’omicidio di papà e che si erasempre dichiarato innocente. Eccoli lì, dunque, ancora unavolta insieme. Alla luce del giorno, liberi di andare su e giùper Clifton Road proprio sotto i miei occhi. All’improvvisotutte quelle minacce che mi erano sembrate tanto remotemi diventarono chiarissime, e terribilmente vicine. Eravamoin pericolo. Mi raddrizzai e ripresi a parlare. Parlailentamente, per costringere tutti a restare sul posto più alungo. Dissi alle due registe francesi quello che stavasuccedendo. Non mi sarei mossa da lì. Passarono i minuti,un quarto d’ora, mezz’ora. Ormai non avevo più niente dadire. Ripercorsi i pochi metri che mi separavano da casa,scossa fino in fondo all’anima.

Quella paura, quella palpabile, ovvia paura mi rimasedentro. Ci ripensai quella notte, quando tornai in cameramia e mi misi a scrivere. Ci ripensai quando il telefonosquillava, quando qualcuno mi mandava una e-mail. Poi lasensazione di essere costantemente spiata diminuì un po’e io mi abituai all’idea che le cose erano cambiate. Chedovevamo stare sulla difensiva, che, ancora una volta,avevamo dei nemici agli alti livelli.

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In aprile, due mesi dopo quel giorno, ero a Larkana perassistere al ventinovesimo anniversario della morte di miononno. Asif e il PPP di Benazir avevano deciso dicelebrare la ricorrenza non il 4, che sarebbe stato il giornogiusto, ma la sera prima. La loro idea era quella di montaredelle tende e di portare la gente sul posto con degliautobus. La loro adunanza pubblica cominciò poco primadella mezzanotte, e gli organizzatori fecero sì che l’enormeaffluenza dei partecipanti, soprattutto stranieri e non gentedel posto, fosse visibile anche al buio.

Il 2 sera eravamo seduti a cena tutti insieme: la miafamiglia, gli amici di famiglia, il nostro avvocato Omar e ildottor Jatoi, vecchio amico di papà e fedele membro delpartito. A un certo punto io buttai là un commento sul fattoche non intendevo andare al mazaar di Garhi Khuda Bux.Non ci ero più stata dopo il funerale di Benazir, e da allorail culto della sua personalità poteva solo essere aumentato.Non ero pronta a vedere la tomba di mio padre trasformatain un luna park. Mamma annuì alle mie parole e disse: «Sì,penso che forse faresti meglio a non venire». Mi bloccai ametà frase. «Perché?» domandai. «È forse peggioratoulteriormente, è diventato ancora più kitsch? Ci sonoancora più venditori ambulanti con le bancarelle di roba damangiare?» «No», disse mamma scrollando la testa.C’erano forse più manifesti con il ritratto di mia zia? Io liavevo sempre strappati: quella era una tomba, non unsantuario, e alcune cose, alcuni posti, non possonodiventare terreno di campagna elettorale. Mamma disse:«Sì, ci sono dei manifesti, ma non ritraggono Benazir». «E

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«Sì, ci sono dei manifesti, ma non ritraggono Benazir». «Eallora chi?» dissi io, posando la forchetta. «Ci sono deimanifesti con l’immagine di quell’uomo», disse mamma,chinandosi verso di me e prendendomi la mano per attutireil colpo. Stentavo a credere alle mie orecchie. Deimanifesti con la sua immagine? Con l’immagine diZardari? «Anche vicino alla tomba di mio padre?» dissi,con voce tremante e con le lacrime che mi scorrevanolungo le guance. Mamma non rispose. Omar si alzò dallasedia e venne verso di me. Ma io non volevo essereaiutata a riprendermi, non volevo essere abbracciata.Balzai su dalla sedia e corsi fuori. «Portami la macchina»,dissi a qualcuno, non ricordo chi fosse. Stavo piangendo adirotto. Mamma e Omar mi rincorsero per cercare diconvincermi a tornare in casa. Ero sconvolta, dissero,cercarono di convincermi a rientrare, ne avremmo parlatoinsieme. Ma io mi rifiutai. Salii in macchina. Il dottor Jatoi esua figlia Jia, vent’anni, pur non sapendo cosa intendessifare, saltarono dentro con me. Il mazaar era in programmaper il giorno dopo, quando ci sarebbe stata anche lachiassosa festa nazionale del PPP. Sarebbe venuto ancheil primo ministro Gilani. Zardari vi avrebbe fatto una dellesue ormai rare apparizioni pubbliche: il meglio delle sueenergie lo conservava per i viaggi all’estero. A un annodalla sua elezione alla presidenza uno studioso localecalcolava che Richard Holbrooke, inviato speciale delleNazioni Unite nell’area oggi lugubremente chiamata «Af-Pak», aveva trascorso in Pakistan più giorni del presidentestesso. Migliaia di agenti, fra poliziotti e ranger, erano stati

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chiamati in città per proteggere la vita di tutti i VIP chesarebbero stati presenti.

L’autista si avviò in direzione di Garhi. «Bibi», mi disse,cercando di sovrastare il rumore dei miei singhiozzi,«perché non ci andiamo anche noi domani? Non è unabuona idea farlo adesso.» Ma io stavo piangendo cosìforte da non riuscire quasi a parlare. «Portamici o ci vadoa piedi!» lo minacciai. Funziona sempre. Era ovvio che nonpotevo andarci a piedi, il mazaar è troppo lontano, lestrade non sono illuminate e io ho un pessimo sensodell’orientamento. Ma ero molto arrabbiata e il mio blufffunzionò.

Mamma telefonò al dottor Jatoi: «Tornate subito indietroo chiamo un taxi e vi raggiungo», fu il contro-bluff dimamma. «Vieni pure», le risposi. Io di certo non intendevotornare. Tutti temevano che volessi strappare i manifesti,fare una scenata e mettere nei guai qualcun altro. Ma non èquesto che avevo in mente. Io volevo solo vedere ciò chetutta Larkana vedeva già da un pezzo, ciò che la genteaveva guardato e lasciato accadere per la paura e per lasua ossequiosa obbedienza al potere. Jia mi passava deifazzolettini di carta; da qualche minuto aveva smesso dicercare di soffiarmi il naso perché le allontanavo sempre lamano. Parlare non potevo, mi limitavo a cercaredisperatamente un po’ d’aria fra un singhiozzo e l’altro. Leimi accarezzava una mano, provando a consolarmi.Arrivando al cimitero fummo fermati da un posto di blocco.Non c’erano mai stati posti di blocco sulla strada per Garhiprima di allora: era un altro segno della nuova

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amministrazione Zardari. Due uomini in borghese siavvicinarono al finestrino della nostra auto e ci chiesero chifossimo. «Sono la figlia dello shahid», risposi io. L’uomo ciriconobbe e ci lasciò passare. Davanti al mazaar, per lasicurezza di Asif, erano stati collocati dei metal detector.Una rampa avrebbe permesso di entrare nel cimitero inmacchina: era troppo pericoloso, per lui, smontaredall’auto e camminare. Avrebbe parcheggiato fra le tombe,per poter pregare. Andai su quella di mio padre. Ormaiavevo smesso di piangere. Tutto attorno alla sepolturac’erano manifesti con la foto di Asif Zardari, dei suoi figli edi sua sorella, siasi waris di Benazir secondo il suo«testamento», cioè sua erede politica. La donna aveva ilnaso rincagnato e portava il velo, ed era evidente checercava di somigliare il più possibile a Benazir. Chiesi chele porte del mazaar fossero chiuse, poi tolsi i manifestidegli Zardari che circondavano le tombe di mio padre e dimio zio. Mi scusai con papà e me ne andai. Non feci quasiin tempo a risalire in macchina che tre camionette dellapolizia ci raggiunsero e ci circondarono. Una discendentedei Bhutto, una dei due rimasti, una figlia del morto li avevaspaventati abbastanza da costringerli a chiedere rinforziper valutare meglio la minaccia. Oggi, a qualche mese dalsecondo anniversario della morte di Benazir, il governo diAsif Zardari, che mendica da donatori internazionalimiliardi di dollari in aiuti allo sviluppo del suo paese, hainvestito circa 400 milioni di rupie nella zardarificazione diGarhi Khuda Bux. I metal detector, almeno quattro,

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vengono messi in funzione solo per la sua sicurezza,sull’ingresso principale è stata inchiodata una tavola con lenorme di comportamento per i visitatori, scritte in un cattivoinglese e pare che nelle vicinanze siano stati costruiti bendue alberghi per ospitare i devoti - sia stranieri che locali -del culto dei Bhutto, su cui poggiano le fondamenta delpotere.

È questa l’eredità che Benazir ha lasciato al Pakistan.Questa la cultura saprofita che lei ha creato e di cui si ènutrita. Consanguineità, genetica, una politica dinasticabasata sul chi è chi - a questo si riduce la sua figura. Èquesto sistema corrotto e pericolosamente semplificatoche permette a suo marito di governare un paese dicentottanta milioni di abitanti solo perché ha avuto legamisufficientemente stretti con quei morti, con quei cadaveriche chiedono - e ottengono - tanti voti di solidarietà.

Una delle quattro cause per omicidio che pendono sullatesta di Zardari, e che risalgono alla fase della suacampagna elettorale per la presidenza della repubblica, èquella per l’assassinio del giudice Nizam, che all’epocaricopriva l’incarico di presidente dell’Associazione forensedell’alta corte e che fu ucciso davanti casa sua tre mesiprima di papà.

Il giudice Nizam aveva aperto un fascicolo su unatrattativa immobiliare legata al nome di Zardari: unappezzamento di terra di grande valore venduto tramitealcuni prestanome senza nessuna asta. Nella difesa

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dell’interesse pubblico il giudice Nizam ottenneun’ordinanza per bloccare tale vendita e cominciò aprepararsi per lo scontro che ci sarebbe stato in tribunale;a quanto dice suo fratello Noor Ahmed, Nizam era pronto aportare il caso fino alla corte suprema.1

Il 10 giugno 1996, attorno alle due del pomeriggio, ilgiudice stava tornando a casa per pranzo. Suo figlioNadeem era andato a prenderlo in ufficio, come spessoaccadeva quando l’autista di famiglia non era disponibile,e i due facevano la strada insieme. Nadeen era appenatornato a Karachi dopo essersi laureato presso un collegeestero. Mentre si avvicinavano ai cancelli, due uomini inmotorino li avevano raggiunti e affiancati. Uno dei dueaveva cominciato a gesticolare verso di loro. Nadeen, cheera alla guida, si era fermato e aveva abbassato ilfinestrino. Dopo di che i due uomini avevano sparatonell’auto, uccidendo il giudice e suo figlio.

Il frastuono della sparatoria aveva riempito di sgomentogli altri membri della famiglia, che, dentro casa,aspettavano solo loro per mettersi a tavola. Era stato ilcognato del giudice il primo a precipitarsi fuori, nonappena si erano uditi i colpi d’arma da fuoco. Ma quandoera arrivato alla macchina i due sul motorino si erano giàdileguati. Il giudice e suo figlio erano morti. Nadeem avevaventicinque anni, ed era fidanzato soltanto da un mese.

Quando ho incontrato Noor Ahmed, il fratello del giudiceNizam, il solito meccanismo si era già messo in moto -Zardari era stato magicamente assolto da due accuse di

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omicidio. La terza causa, quella di cui si era occupatoNizam, era stata archiviata, e Zardari era stato dichiaratoinnocente. L’ultima causa era la nostra, quella perl’assassinio di papà. Noor Ahmed è un uomo anziano. Ciincontriamo un venerdì, dopo le preghiere: lui indossa iltradizionale shalwar kameez bianco e un copricapo biancoda preghiera. Mentre parliamo sua moglie ci serve il tè coni pasticcini. Accanto alla sua poltrona c’è una foto delfratello, il giudice Nizam: i due si somigliano molto,entrambi hanno gli occhi segnati e i capelli bianchi. Glidomando se pensa di poter mai ottenere giustizia. Convoce dolce mi risponde: «Ne dubito». È stato moltocoraggioso ad accettare di incontrarmi e di parlareapertamente con me del caso di suo fratello. Quando loringrazio, per tutta risposta comincia a raccontarmi di unavolta in cui incontrò mio padre, al Karachi Boat Club, dopola morte del giudice Nizam. «Murtaza si avvicinò al miotavolo e mi strinse la mano, mi fece le condoglianze edisse: “La stessa gente è ormai sulle mie tracce”.» Eraproprio sicuro, gli ho chiesto, che ci fosse Zardari dietrol’assassinio di suo fratello? «L’ho scoperto solo dopo lasua morte», risponde lui, passando dall’inglese all’urdu eviceversa, «ma tutti i giudici e tutti gli avvocati sapevanocon assoluta certezza che il delitto era stato pianificato emesso in atto da Asif Zardari.» Mentre pronuncia quelnome, Zardari, il suo corpo è scosso da un tremito. «Losanno perfino le casalinghe, che dietro c’era Zardari»,ripete, alzando un po’ la voce. Non posso fare a meno disentirmi preoccupata per lui. Preoccupata per le

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conseguenze che tanta sincerità potrebbe arrecargli in unclima pericoloso come quello attuale. Ma lui non ha pauradi parlare, non ne ha oggi e sicuramente non ne avevaallora. «L’unica cosa che feci, il secondo giorno dopo il suoassassinio», riprende Noor Ahmed dopo un po’, «fuquesta: Hakim Zardari, il padre di Asif, venne a farmi lecondoglianze. E mi disse: “Com’è potuta succedere unacosa del genere?”. Nel mio cuore, che in quel momentostava sanguinando, io mi dicevo: lo sanno tutti che è stato iltuo larka, il tuo ragazzo, a farmi questo. E lo dissi anche alui. E lui mi rispose forse? No. Rimase zitto. Cosa avrebbepotuto dire?» A questo punto sua moglie, che finora èrimasta seduta in silenzio accanto a me, cerca di spezzarela tensione che è calata sulla stanza. Sia io sia NoorAhmed ormai abbiamo ceduto all’emozione, così lei siintromette per dire: «Somigli molto a Benazir, mia cara».Non sapendo bene cos’altro fare, io scoppio a ridere.Avvertendo il mio imbarazzo, e per consolarmi un po’, leiaggiunge: «È tutto nelle mani di Dio». A questo punto NoorAhmed, che finora è rimasto seduto fermo, con le manielegantemente raccolte in grembo, getta in fuori il palmo diuna mano come per battere l’aria: «Adesso cosa c’entraquesta storia di Dio?» dice, quasi fra sé e sé. «Ma se tuttala sua famiglia è stata ammazzata!» Sulla porta, mentre loringrazio per il suo tempo e per aver accettato di vedermi edi parlare con me in un momento in cui molti troverebberopiù prudente non farlo, Noor Ahmed sorride e mi domanda:«Qual è la faida, beti, di scrivere questo tuo libro?». Cosane ricavi, mi chiede; e intanto mi chiama figlia. «Memoria»

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ne ricavi, mi chiede; e intanto mi chiama figlia. «Memoria»gli rispondo.

Il giorno in cui Zardari è stato assolto dall’omicidio di miopadre io ero in giro per il mondo. Mi avevano incaricata diandare a Cuba per realizzare un servizio sul passato e sulpresente della rivoluzione alla vigilia del cinquantesimoanniversario dell’avvento al potere di Castro. Ma mel’aspettavo. Anche quando era stato incarcerato perquattro omicidi e una miriade di altri reati, Zardari avevapassato ben poco tempo in cella - un medico l’avevadichiarato affetto da una gravissima, letale patologiacardiaca e lui si era fatto trasferire in una lussuosa suitepresso l’ospedale privato di un suo amico a Karachi.L’amico dottore era poi stato ricompensato con il ministerodel Petrolio non appena il suo compare, miracolosamenteguarito da tutti i gravi problemi di cuore, era asceso allaprima carica del paese.

A Cuba avevo visitato scuole e ospedali, avevoincontrato alti funzionari della rivoluzione e viaggiato pertutto il paese. Per molto tempo non avevo avuto accessoalla posta elettronica. Mi ero scollegata intenzionalmentedal Pakistan. Finché un pomeriggio, a L’Avana, nonricevetti una telefonata. Era aprile, e il clima era umido etropicale. Ero in albergo, seduta sul letto, davanti a unbalcone affacciato su Calle Obispo, cercavo di rinfrescarmiun po’ dopo un pomeriggio passato a camminare lungo ilMalecón da un ministero all’altro. Era Hameed chechiamava da casa. «Mi dispiace, baba», disse. Non c’erabisogno di aggiungere altro. Zardari era riuscito a

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scavalcare le normali procedure legali per farsi assolveredall’omicidio di mio padre. Non aveva senso nemmenoricorrere in appello: quell’uomo sarebbe diventatopresidente della repubblica per vie legali o illegali. Eratipico del suo modo di operare: la giustizia era sempre laprima vittima.

Il 20 settembre 2008, dodicesimo anniversario dellamorte di papà, Asif Zardari ha giurato come presidente delPakistan. La cerimonia ufficiale avrebbe dovuto essere ilgiorno prima, il 19, ma poi il presidente l’ha fatta spostareaffinché il suo grande giorno coincidesse con sabato, ilbarsi di papà. Mentre era in piedi davanti al parlamento,che l’aveva votato per quella carica pressochéall’unanimità (nello stesso modo altamente democratico incui era stato eletto «presidente» il generale Musharraf), aun certo punto del suo discorso ha fatto una pausa e hachiesto un minuto di silenzio per onorare l’anniversariodella morte di suo cognato. Il sangue mi si è gelato nellevene. Era come se ci stesse prendendo platealmente ingiro. Eppure, questo episodio non è niente in confronto aciò che sarebbe venuto dopo. In occasione della primafesta nazionale del Pakistan che Zardari ha celebratocome presidente; infatti, quell’uomo ignobile ha volutorendere onore a Shoaib Suddle, uno degli ufficiali di poliziapresenti sulla scena del delitto la notte in cui mio padre fuucciso. A questo personaggio è stata conferita la Hilal-e-Imtiaz, una medaglia nazionale concessa in

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riconoscimento dei servigi resi al popolo. Subito dopoShoaib Suddle è stato promosso capo del FederalInvestigation Bureau.

L’MQM pare si sia dimenticato dell’Operazione pulizia eoggi è un entusiastico partner di coalizione nel governoZardari. Aftaf Hussain, tuttora residente a Londra, e Zardarisono diventati ottimi amici, e spesso posano per i fotografistringendosi la mano o tenendosi abbracciati.

Nell’estate del 2009 l’Assemblea del Sind, guidata dalpresidente Nisar Khuro, nel bel mezzo della guerracondotta dallo stato contro lo Swat e i TerritoriSettentrionali, che ha fatto quasi tre milioni di profughi e disenza casa, ha voluto onorare la morte della pop starMichael Jackson con un minuto di silenzio. Nemmeno unaparola invece (o quantomeno non sottolineata con unminuto di silenzio) per le molte persone uccise dai droniamericani e dalle bombe pachistane in quei territori.

Nel frattempo l’Assemblea nazionale ha sfruttato ilperiodo estivo per approvare, nel silenzio generale, unprogetto di legge denominato «Cyber Crimini», in base alquale «parodiare», «fare la satira» o «uccidere ilpersonaggio« del presidente è diventato un reato punibilecon la galera - da sei mesi a quattordici anni (riservati alleparodie particolarmente riuscite e divertenti, immagino).

È stata una dura prova, per me, scrivere questo librosulla mia famiglia. Attraverso lettere e quaderni di appunti,fotografie e interviste, il processo della scrittura me li ha

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aperti restituendomi tutti i miei fantasmi, integri e completi.Ma ora, proprio in virtù di tutto ciò che so di loro, devochiuderli fuori. Devo prendere congedo da loro e togliermidalla loro ombra, dalla loro gloria, dai loro errori e dalle loroviolente, straordinarie esistenze. Uno solo non riescoancora a lasciarmelo alle spalle: papà. Ho cominciatoquesto libro con l’intenzione di rappacificarmi con lui, dionorare finalmente l’ultima promessa che gli ho fatto -quella di raccontare la sua storia - per poi dirgli finalmenteaddio. Ma non ci sono riuscita. Soprattutto lui è diventatoper me vivo e intero, un essere umano normale con tutti isuoi difetti, diverso dall’essere immortale che ho veneratoda bambina e poi negli anni della crescita. Le sue scelte,notevoli o pericolose che fossero, onorevoli o folli, nonerano le mie, ma io le ho vissute. Poi, dopo la sua morte,ho condiviso i miei giorni con un ritratto parziale di miopadre nel quale lui era unicamente un morto assassinato -celebrando per lui delle veglie funebri ogni giorno, nei mieipensieri, in ogni mio passo, durante i miei viaggi, nei mieimomenti pubblici, aprendo gli occhi su di lui ogni mattina echiudendolo fuori per dormire la notte. In questi quattordicianni avevo dimenticato che un tempo è stato vivo e, per unbreve istante, solo mio. Oggi torna a sembrarmiparticolarmente vivo. È un pensiero troppo dolce perscacciarlo, quindi rimando l’idea di un addio definitivoancora per un poco.

In mezzo a tutta questa follia, a tutti questi fantasmi e airicordi dei tempi passati, a volte mi sembra che il mondoattorno a me stia andando in pezzi, si stia sfaldando.

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Talvolta, quando è notte fonda, come ora, sento il mio pettogonfiarsi di un’angoscia familiare. In questi momenti pensoche nel mio cuore non ci sia più posto per il Pakistan. Misembra di non poterlo più amare. Devo allontanarmeneperché qualcosa almeno riacquisti il suo senso; quandosono qui, niente sembra averne. Ma poi le ore trascorronoe, mentre mi preparo per andare a letto e la luce filtra nellastanza attraverso la finestra, sento cantare degli storni. Ecapisco che non potrò mai andarmene.

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RINGRAZIAMENTIMolti membri fondatori del Partito del popolo del

Pakistan ed ex membri di gabinetto hanno accettato diparlare con me apertamente e in tutta sincerità. Con leseguenti persone sono in debito per l’acutezza con cuihanno analizzato la presidenza e l’intera carriera politica diZulfikar Ali Bhutto: Abdul Waheed Katpar, MirajMohammad Khan, Ghulam Hussain, Aftab Sherpao eMubashir Hasan, un vero tesoro nazionale fra gli uomini.Mumtaz Bhutto e Ashiq Bhutto mi sono stati di grande aiutonel ricostruire la linea del tempo relativa alla storia dellafamiglia Bhutto; grazie a loro e ai loro familiari. Ilahi BuxSoomro, Sherbaz Khan e la signora Mazari mi hannoraccontato gli anni giovanili di Zulfikar Ali Bhutto, mentreYousef Masti Khan e Khair Bux Marri, politici beluci digrande esperienza, mi hanno parlato del Belucistan. Sonomolto grata a tutti loro.

Tre anni fa sono stata in America per rintracciareprofessori e compagni di college di mio padre, e devoringraziare Nancy Sinsabaugh e l’Associazione ex alunni diHarvard per avermi aiutato a contattare tante personedesiderose di darmi una mano. Milbry Polk, BobbyKennedy Jr, Magdalena Guernica Castleman, John Hess,Peter Santin, il defunto Samuel Huntington, William

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Graham, Robert Paarlberg, Gudu Shafi e Bill e AndreaWhite mi hanno aperto la loro casa e la loro memoria: hocon loro un debito di gratitudine per il loro aiuto e la lorogentilezza. Molti altri amici mi hanno aiutato durante il mioviaggio in America: sono grata a tutti loro per lacollaborazione.

Tariq Ali, amico gentile e affabile, è stato per meindispensabile per le sue conoscenze, il suoincoraggiamento e il sostegno che ha voluto darmi. WilliamDalrymple mi ha suggerito l’idea di scrivere questo libroalla vigilia di una tornata elettorale a Larkana: gli sonograta per il suo aiuto e la sua amicizia.

A Karachi, molte persone hanno accettato di parlare conme pur sapendo perfettamente a quali rischi le avrebbeesposte la partecipazione a questo lavoro. Sono grata atutti loro per la fiducia e il coraggio: Bangul Channa,Hameed Baloch, Maulabux, Shahnawaz Baloch, la famigliaHingoro, Maqsood Billoo, Qaisar, Mahmood, Asif Jatoi,Ghulam Hasnain, Bashir Daood, Noor Ahmed Nizam, MalikSarwar Bagh, Ayaz Dayo, Haji Khan Rajpar, Nisar AhmedGhakro, Amer Jokhio, Ramzan e Mushtaq Brohi, AbdulMajid Baloch, Siddiqueth Hidaytullah, giudice Nasir AslamZahid, giudice Wajihuddin Ahmed e Ghaffar Jatoi. Moltialtri non hanno voluto essere nominati, ma senza la lorocollaborazione non avrei mai potuto ricostruire i particolaridella morte di mio padre.

Zahid e Nuzhat Jatoi, Badrunissa, Anushka, Maheen,Aneed e Sabeen Jatoi mi hanno parlato di Ashiq Jatoi edel suo assassinio. Apprezzo profondamente che abbiano

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voluto condividere con me i loro ricordi. Sassi Bhutto, miacugina, mi ha parlato di suo padre Shahnawaz e mi è statadi grande aiuto nel gettare luce sulla sua vita e sulla suamorte. A Parigi, Jacques Vergès e il suo staff mi hannofatto da intermediari e sono stati estremamente gentili conme mentre cercavo di scoprire sempre nuovi dettagli sullamisteriosa morte di Shahnawaz.

In Grecia, Della Rounick mi ha aperto un universo diinformazioni cui non avrei mai avuto accesso senza di lei.Grazie, Della mou, di avermi trovata e di aver volutocondividere con me la tua vita. In Siria, Nashaat Sanadiki ela sua famiglia mi sono stati di grande aiuto e sostegno,come sempre. Shoaib Billoo e RMZ, in Pakistan: grazieper la vostra assistenza e il vostro aiuto. Omar Sial, grandeavvocato ma amico ancora più grande, si merita da partemia moltissimi ringraziamenti per l’aiuto che mi ha dato nelcontrollo dei fatti e nel contatto con le fonti d’informazione.Dennis Dalton, mio professore, mentore e carissimoamico, mi ha sempre ricordato - fra una nota e l’altra ai varicapitoli - l’importanza del viaggio. Grazie a Henry Porterper aver creduto nel libro e per averne letto le prime bozze.E a Suhail Sethi, senza il cui amore non avrei mai scrittoquesto libro, grazie.

Grazie anche a Ellah Alfrey - editor di grande sensibilitàe intuizione. Alla Jonathan Cape, un grandissimoapprezzamento e mille ringraziamenti vanno a DanFranklin, che ha protetto il mio lavoro, il cui istinto è semprestato giusto e preciso e il cui entusiasmo mi ha fattoandare avanti. Moltre grazie anche a Tom Avery e ad

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Amanda Telfer.Alla DGA, Charlotte Knight e Sophie Hoult sono state

inestimabili e mi hanno permesso di annoiarle a morte convaghi e sparsi pensieri riguardanti il libro quando le andavoa trovare. Heather Godwin merita i miei ringraziamenti perl’importante aiuto e l’assistenza che mi ha dato. DavidGodwin, mio agente nonché l’uomo più paziente che ioabbia mai torturato con domande e punti interrogativi ebozze e preoccupazioni, è quello che merita piùringraziamenti in assoluto. Dovrei dedicargli una pagina diringraziamenti tutta per lui.

Allegra Donn e Sophie Hackford mi hanno tenuta inbuona salute, mi hanno fatto ridere e mi hanno fattocambiare umore quando ne avevo più bisogno. Con tantoamore.

A mia madre Ghinwa, a Zulfi, a Mir Ali, a Teta, Lulu,Zeina e Racha. La mia famiglia. Vi amo e vi adoro tutti piùdi quanto saprete mai e più di quanto riuscirò mai a dirvi.Non so come ringraziarvi abbastanza. Ma continuerò aprovarci.

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NOTE

Capitolo 1

1La CIA del Pakistan non ha alcun rapporto con lapericolosa CIA americana. O perlomeno è quanto cidicono. A ogni modo, per una qualche inesplicabileragione burocratica i due organismi portano lo stessonome.2Intervista a Malik Sarwar Bagh, Karachi, 14 maggio2008.

Capitolo 2

1Intervista ad Ashiq Bhutto, Karachi, 6 giugno 2008.2Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli, Milano1974, pp. 240-241.

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3Ivi, p. 238.4Zulfikar Ali Bhutto (ZAB), My Dearest Daughter, p. 8.5Fallaci, Intervista con la storia, cit., p. 241.6Ibidem.7Lettera di ZAB a Murtaza Bhutto. Camp Gilgit, 12maggio 1976. Collezione personale dell’autrice.8Ibidem.9Intervista ad Illahi Bux Soomro, Karachi, 6 giugno 2008.10Z A B , Treaties of Self-Defence and RegionalArrangement, p. 47.11Ibidem.12ZAB, The Islamic Heritage, p. 15.13ZAB, One World, p. 5.14ZAB, The Islamic Heritage, p. 8.15Ivi, p. 7.

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16Ivi, p. 15.17Lettera di ZAB a Murtaza Bhutto. Rawalpindi, 8 maggio1975. Collezione personale dell’autrice.18Lettera di ZAB a Murtaza Bhutto, Camp Gilgit, 12maggio 1976. Collezione personale dell’autrice.19Intervista a Begum Mazari, Karachi, 5 giugno 2008.20Ahmed Shuja Pasha, Pakistan: A Political Profile 1947-1988, p. 181.21ZAB, Reshaping Foreign Policy, nota dei curatori aopera di Hamid Jalal e Khalid Hasan, p. 90.22ZAB, Pakistan-Soviet Oil Agreement, p. 131.23Ivi, p. 6.24ZAB, The Indivisibility of the Human Race, p. 23.25Sanghat Singh, Pakistan’s Foreign Policy: AnAppraisal, p. 91.26ZAB, Regional Cooperation for Development, p. 67.27

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ZAB, Role of Political Parties, p. 176.28Hugh Trevor-Roper, Introduction to New Directions, p. vi.29ZAB, Phases of Foreign Policy, p. 17.30Ivi, p. 15.31Mohammad Ehsan Chaudri, Pakistan and the GreatPowers, Council for Pakistan Studies, 1970, p. 43.32Accordo sulle frontiere fra Cina e Pakistan, firmato aPechino il 2 marzo 1963.33Chaudri, Pakistan and the Great Powers, cit., p. 43.34Ivi, p. 91.35Ivi, p. 95.36«Dawn», 26 marzo 1965.37Rafi Ullah Shehab, 50 Years of Pakistan, p. 406.38Chaudri, Pakistan and the Great Powers, cit., p. 95.39Ivi, p. 38.40

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Ivi, p. 50.41«Daily Telegraph», 13 settembre 1965.42Chaudri, Pakistan and the Great Powers, cit., p. 96.43Ibidem.44Ivi, p. 97.45Ibidem.46Dichiarazione di Tashkent, firmata il 4 gennaio 1966.47Pasha, Pakistan: A Political Profile 1947-1988 , cit., p.209.48Intervista a Miraj Mohammad Khan, Karachi, 12 maggio2008.49B.N. Goswami, Pakistan and China, Allied Publishers,1971, p. 128.50Intervista ad Abdul Waheed Katpar, Karachi, 4 giugno2008.51Partito del popolo del Pakistan, Foundation and Policy,p. 4.

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52Ivi, p. 5.53Ivi, p. 4.54Ivi, p. 6.55Ivi, p. 7.56Ivi, p. 6.57Ivi, p. 14.58Ivi, p. 6.59Ivi, p. 15.60ZAB, Pakistan and the Alliances, p. 50.61ZAB, The Role of Muslim States, p. 78.62Ivi, p. 91.63ZAB, The Imperative of Unity, p. 17.64Ivi, p. 22.65Ibidem.

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66ZAB, Regional Cooperation for Development, p. 67.

Capitolo 3

1«Xtra», marzo 1996. Intervista a Fifi Haroon.2Ibidem.3Ibidem.4Ibidem.5Ibidem.6Ibidem.7Ibidem.8Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 13 agosto 2009.9«Xtra», marzo 1996.10Ibidem.11

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Intervista a Gudu Shafi, Washington DC, 28 aprile 2006.12Khurshid Hyder, The United States and the Indo-Pakistan War of 1971, p. 10.13Ibidem.14Richard F. Nyrop, Beryl Lieff Benderly, Cary CorwinConn, William W. Coer, Melissa J. Cuter e Newton B.Parker, Area Handbook for Pakistan, University ofMichigan Library, 1971, p. 57.15Ibidem.16Intervista a Miraj Mohammad Khan, Karachi, 12 maggio2008.17Manifesto elettorale del PPP, 1970, p. 12.18Ibidem, p. 13.19Nyrop et al., Area Handbook for Pakistan, cit., p. 59.20Ibidem.21Ibidem.22Intervista con Abdul Waheed Katpar, Karachi, 4 giugno

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2008.23Nyrop et al., Area Handbook for Pakistan, cit., p. 59.

Capitolo 4

1Anwar H. Syed, The Discourse and Politics of ZulfikarAli Bhutto, Palgrave Macmillan, 1992, p. 158.2Ibidem.3Fondazione Carnegie per la pace e la non proliferazioneinternazionale,www.ceip.org/programmes/npp/China.h....4Syed, The Discourse and Politics of Zulfikar Ali Bhutto,cit., p. 159.5Zulfikar Ali Bhutto, lettera a Murtaza Bhutto, Rawalpindi,25 ottobre 1973.6Rafi Raza, Zulfikar Ali Bhutto and Pakistan 1967-1977,p. 207.7Ivi, p. 209.

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8Ivi, p. 229.9Ian Talbot, Pakistan: A Modern History , PalgraveMacmillan, 1999, p. 237.10Raza, Zulfikar Ali Bhutto and Pakistan 1967-1977, cit.,p. 235.11Ivi, p. 180.12Ibidem.13Ivi, p. 185.14Ibidem.15Intervista a Khair Bux Marri, Karachi, 11 maggio 2008.16Intervista a Yousef Masti Khan, Karachi, 7 maggio 2008.17Intervista a Miraj Mohammad Khan, Karachi, 12 maggio2008.

Capitolo 5

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1Rafi Raza, Zulfikar Ali Bhutto and Pakistan 1967-1977,p. 187.2Intervista a Abdul Waheed Katpar, Karachi, 4 giugno2008.3Tariq Ali, The Duel, Scribner, 2009, p. 106.4Intervista a Katpar, Karachi, 4 giugno 2008.5Ali, The Duel, cit., p. 109.6Intervista al sindaco Bill White, Houston, Texas, 7maggio 2006.7Intervista a Milbry Polk, New York City, 19 aprile 2006.8Intervista a Peter Santin, Phoenix, Arizona, 5 maggio2006.9Intervista a Magdalena Guernica Castleman, New YorkCity, 18 maggio 2006.10Intervista a Robert Paarlberg, Cambridge,Massachusetts, 26 aprile 2006.11Intervista a William Graham, Cambridge, Massachusetts,25 aprile 2006.

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25 aprile 2006.12Intervista a Samuel Huntington, Cambridge,Massachusetts, 25 aprile 2006.13Intervista a Bobby Kennedy jr., Mount Disco, New York,15 maggio 2006.14Nusrat Bhutto, lettera a Mir Murtaza Bhutto, 18 ottobre1975.

Capitolo 6

1Tariq Ali, The Duel, Scribner, 2009, p. 114.2Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.3Zulfikar Ali Bhutto (ZAB), If I am Asassinated, p. 25.4Intervista con Della Rounick, Atene, 18 agosto 2008.5MMB, lettera a Della Rounick, 6 giugno 1978.6MMB, lettera a Della Rounick, non datata, ottobre 1978.7Intervista a Robert Kennedy Jr., Mount Kisco, New York,

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15 maggio 2006.8Ibidem.9Ibidem.10Ibidem.11Intervista a Milbry Polk, New York City, 19 aprile 2006.12Ibidem.

Capitolo 7

1Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.2Intervista a Della Rounick, Atene, 18 agosto 2008.3Intervista a Della Rounick, Mykonos, 22 agosto 2008.4Intervista a Tariq Ali, Karachi, 26 marzo 2006.5Ibidem.6Stralci da questa conferenza stampa si possono

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ascoltare in www.youtube.com/watch?v=jOg5FyU4p4.7Ibidem.8Intervista a Tariq Ali, Karachi, 26 marzo 2006.9Intervista a Della Rounick, Atene, 19 agosto 2008.10Uno stralcio del discorso di Murtaza si può ascoltare awww.youtube.com/watch?v=jOg5zFyU4P4.11Intervista a Robert Kennedy Jr, Mount Kisco, New York,15 maggio 2006.12Intervista ad Abdul Waheed Katpar, Karachi, 4 giugno2008.13Ibidem.14Intervista a Tariq Qli, Karachi, 26 marzo 2006.15Ibidem.16Ibidem.17Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2006.18Intervista a Tariq Ali, Karachi, 26 marzo 2006.

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19Intervista a Della Rounick, Mykonos, 22 agosto 2008.20Ibidem.21Pubblicato in greco - versione tradotta, non pubblicatacon il titolo A Crumb of God, datami da Della Rounick.22Lettera di MMB a Della Rounick, Kabul, 20 luglio 1979.23Intervista a Della Rounick, Mykonos, 22 agosto 2008.24Intervista a Milbry Polk, New York City, 19 aprile 2006.25Intervista al sindaco Bill White, Houston, Texas, 7maggio 2006.26Intervista a Magdalena Guernica Castleman, New YorkCity, 18 maggio 2006.27Intervista al sindaco Bill White, Houston, Texas, 7maggio 2006.

Capitolo 8

1

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Diario, 27 ottobre 1979.2Diario, 2 novembre 1979.3Diario, 5 dicembre 1979.4Diario, 28 marzo 1980.5Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.6Ibidem.7Ibidem.8Ibidem.9Ibidem.10A Crumb of God, cit.11Ibidem.12Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 8 marzo 2008.13Lettera di MMB a Della, non datata.

Capitolo 9

Page 693: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

1A. Jilani, Advance Towards Democracy: The PakistaniExperienze, Progressive Publishers, 1991, p. 36.2Ibidem.3Comitato avvocati per i diritti umani, 1985, Zia’s Law:Human Rights under Military Rule in Pakistan, p. 76.4Hassan Abbas, Pakistan’s Drift into Extremism: Allah,the Army and America’s War on Terror , M.E. Sharpe,2004, p. 108.5Comitato avvocati per i diritti umani, p. 77.6Z. Niazi, Press in Chains, pubblicazione del Circolodella stampa di Karachi, p. 123.7Ibidem.8Intervista a Siddiqueh Hidayatullah, Karachi, 8 agosto2009.9Niazi, Press in Chains, cit., p. 178.10Ibidem.11

Page 694: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Ivi, p. 179.12«Dawn», 8 luglio 1980.13Niazi, Press in Chains, cit., p. 179.14Ivi, p. 182.15Comitato per i diritti umani di Lahore, p. 80.16Intervista a Mazhar Abbas, Karachi, 11 settembre 2004.17Niazi, Press in Chains, cit., p. 185.18H. Askari Rizvi, The Military and Politics in Pakistan,South Asia Books, 1988, p. 239.19E. Duncan, Breaking the Curfew, Michael Joseph, 1989,p. 70.20S.P. Cohen, The Idea of Pakistan, Brookings Institution,2006, p. 58.21S. Shafqat, Civil-Military Relations in Pakistan: FromZulfikar Ali Bhutto to Benazir Bhutto, Westview Pr,1997, p. 193.22Owen B. Jones, Pakistan, Yale University Press, 2009,

Page 695: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

pp. 16-17.23Ivi, p. 24.24Ivi, p. 26.25Ivi, pp. 31-35.26Ivi, p. pp. 35-38.27Ivi, p. 68.28Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino1993.29Ibidem.30I.H. Malik, State and Civil Society in Pakistan, PalgraveMacmillan, 1997, p. 147.31Asma Jahangir e Hina Jilani, The Hudood Ordinances -A Divine Sanction?, Sang-e-Meel, 2003, p. 23.32Ivi, pp. 85-86.33A.M. Weiss, «Pakistani Women in the 1980s andBeyond», in C. Baxter e S.R. Wasti (a cura di), PakistaniAuthoritarianism in the 1980s, p. 139.

Page 696: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

34Malik, State and Civil Society in Pakistan, cit., p. 148.35Jahangir e Jilani, The Hudood Ordinances, cit., p. 68.36Weiss, «Pakistani Women in the 1980s and Beyond»,cit., p. 144.37Ibidem.38M. Asghar Khan, Generals in Politics: Pakistan 1958-1982, Stosius Inc/Advent Books Division, 1983, p. 159.39R. LaPorte jr, «Urban Groups and the Zia Regime», in C.Baxter (a cura di), Zia’s Pakistan, Westview Press,1985, p. 18.40Ibidem.41Ivi, p. 170.42Ibidem.43Ibidem.44Comitato avvocati per i diritti umani, p. 61.45Ivi, pp. 59-62.

Page 697: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

46LaPorte jr, «Urban Groups and the Zia Regime», cit., p.16.47Jahangir e Jilani, The Hudood Ordinances, cit., p. 67.48J. Dad Khan, Pakistan’s Leadership Challenges, OxfordUniversity Press, USA, 1999, p. 173.49Askari Rizvi, The Military and Politics in Pakistan, cit.,p. 239.50Duncan, Breaking the Curfew, cit., p. 70.

Capitolo 10

1Ian Stephens, lettera a Murtaza Bhutto dell’ 11 aprile1978.2Rapporto tutoriale di Hedley Bull, 17 dicembre 1977.3Memorandum datato 12 ottobre 1978.45Rapporto tutoriale di Hedley Bull, 17 dicembre 1978.

Page 698: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

6Ivi, 17 dicembre 1979.7Ivi, 6 luglio 1980.8Ivi, 17 dicembre 1980.9Intervista a Della Rounick, Mykonos, 22 agosto 2008.10Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 20 dicembre 2008.11Ibidem.12Pubblicato in greco - versione tradotta ma nonpubblicata con il titolo di «Una briciola di Dio» datami daDella Rounick.13Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 28 dicembre 2008.14Intervista a Ghulam Hussain, Islamabad, 21 maggio2008.15Lettera di MMB a Della Rounick, timbro postate diKabul, 25 aprile 1981.

Capitolo 11

Page 699: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

1Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.2Ibidem.3Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 28 dicembre 2008.4Ibidem.5Intervista con Suhail Sethi, Karachi, 29 dicembre 2008.6Ian Talbot, Pakistan, Palgrave Macmillan, 1999, p. 181.7S. Shafqat, Civil-Military Relations in Pakistan: FromZulfikar Ali Bhutto to Benazir Bhutto, Westview Pr,1997, p. 193.8Dad Khan, Pakistan’s Leadership Challenges, cit., p.174.9B. Cloughly, A History of the Pakistan Army: Wars andInsurrections , Oxford University Press, USA, 20063, p.292.10Intervista a Della Rounick, Mykonos, 20 agosto 2008.11Lawrence Ziring, Pakistan in the 20th Century: A

Page 700: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Political History , Oxford University Press Pakistan,2003, p. 483.12Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.13Ibidem.14Ibidem.15Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 28 dicembre 2008.16Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 29 dicembre 2008.17Ibidem.

Capitolo 12

1Intervista a Sassi Bhutto, 21 marzo 2009.2Intervista a Jacques Vergès, Parigi, 2 marzo 2009.

Capitolo 13

Page 701: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

1Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 21 marzo 2008.

Capitolo 14

1Intervista a Ghinwa Bhutto, Karachi, 11 febbraio 2009.2Ian Talbot, Pakistan, Palgrave Macmillan, 1999, p. 284.3Edward Jay Epstein, Who killed Zia?, «Vanity Fair»,settembre 1989.4Ibidem e Tariq Ali, The Duel, Scribner, 2009, p. 131.5Epstein, Who killed Zia?, cit.6Ibidem.7Talbot, Pakistan, cit., p. 284.8Ali, The Duel, cit., pp. 131-132.9Intervista a Ghinwa Bhutto, Karachi, 22 agosto 2009.10Intervista a Sikandar Jatoi, Karachi, 5 agosto 2009.

Page 702: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

11Intervista a Mumtaz Bhutto, Karachi, 4 settembre 2009.12Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 13 agosto 2009.

Capitolo 15

1Ian Talbot, Pakistan, Palgrave Macmillan, 1999, p. 297.2Ibidem.3Ivi, pp. 297-298.4Ivi, p. 297.5Intervista al dottor Ghulam Hussain, Islamabad, 21maggio 2008.6Intervista a Maulabux, Karachi, 10 maggio 2008.7Intervista a Shahnawaz Baloch, Karachi, 10 maggio2008.8Intervista ad Aftab Sherpao, Islamabad, 19 maggio2008.

Page 703: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

9Talbot, Pakistan, cit., p. 294.10Ivi, p. 292.11Ivi, p. 293.12Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 29 dicembre 2008.13Talbot, Pakistan, cit., p. 303.14Ivi, p. 305.15Javed Iqbal, uno dei prigionieri politici rimasti in carcerepiù a lungo di tutto il paese nonché membro del PPP, èrimasto in prigione fino alla caduta del primo governo diBenazir. Iqbal si è poi unito a Murtaza quandoquest’ultimo è tornato in Pakistan, nel 1993, e ha giocatoun ruolo attivo nella creazione del suo partito un anno emezzo prima della sua morte.16Lettera di MMB a Nusrat Bhutto, 21 dicembre 1989.17Owen B. Jones, Pakistan, Yale University Press, 2009,p. 237.18Ali, The Duel, cit., p. 135.19

Page 704: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Talbot, Pakistan, cit., p. 310.

Capitolo 16

1Intervista a Ghulam Hussain, Islamabad, 21 maggio2008.2Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 29 dicembre 2008.3Intervista a Maulabux, Karachi, 14 maggio 2008.4Intervista a Hameed Baloch, Karachi, 14 maggio 2008.5Intervista ad Aftab Sherpao, Islamabad, 19 maggio2008.6Intervista a Maulabux, Karachi, 10 maggio 2008.

Capitolo 17

1Intervista al «The Nation», 16 maggio 1991.2

Page 705: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Intervista al «Daily News», 12 agoto 1993.3«Dawn», 24 agosto 1993.4«Daily Mushriq», 30 ottobre 1993.5«The News», 27 ottobre 1993.6Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 29 dicembre 2008.7Intervista a Hameed Baloch, Karachi, 6 marzo 2009.8Intervista a Maulabux, Karachi, 14 maggio 2008.9Intervista a Shahnawaz Baloch, Karachi, 14 maggio2008.10Intervista a Shahnawaz Baloch, Karachi, 10 maggio2008.11The Lion King, «Vista», 1994, p. 67.12Intervista a Shahnawaz Baloch, Karachi, 10 maggio2008.

Capitolo 18

Page 706: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

1Intervista al «Weekend Post», 10 dicembre 1993.2«Daily Nation», 29 dicembre 1993.3Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 13 agosto 2009.4«Dawn», 15 dicembre 1993.5Intervista a Ghinwa Bhutto, Karachi, 14 febbraio 2009.6Henry Kamm, Karachi Journal: With Blood TiesSurrendered, Blood Divides Bhuttos», «New YorkTimes», 12 gennaio 1994.7Ibidem.8Ibidem.

Capitolo 19

1«Newsline Magazine», Hasan Mujtaba, «From Guns toRoses», giugno 1994, p. 49.2Ibidem.

Page 707: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

3Ibidem.4Ibidem5Ibidem.6Henry Kamm, Bhutto fans the family feud, chargingmother favours son, «New York Times», 14 gennaio1994.7Ibidem.8Non possiamo parlare con gli assassini dello shahidBhutto, intervista condotta da Massoud Ansari per«Newsline Magazine», giugno 1994, p. 51.9Intervista a Suhail Sethi, Karachi, 13 agosto 2009.

Capitolo 20

1«Dawn», 12 agosto 1994.2«Frontier Post», 18 ottobre 19943

Page 708: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

«Dawn», 27 dicembre 1994.4Non la CIA americana, bensì l’autorità pachistana dicontrospionaggio e sicurezza, detta anche, in modo chenon aiuta la comprensione, CIA.5«Newsline Magazine», MQM: Road to Nowhere?,Ghulam Hasnain, maggio 1997, p. 21.6Ian Talbot, Pakistan, Palgrave Macmillan, 1999, p. 343.7Ghulam Hasnain e Hasan Zaidi, The Politics of Murder,«Herald Magazine», marzo 1996, p. 25.8City of Death, edizione speciale di «Herald Magazine»,gennaio 1996.9Ivi, p. 26.10Ibidem.11Ivi, p. 27.12Intervista di Naserullah Babar con Idrees Bakhtiar,«Herald Magazine», marzo 1996, p. 36.13Hasnain e Zaidi, The Politics of Murder, cit., p, 27.14

Page 709: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Ibidem.15City of Death, cit.16Ibidem.17Intervista di Naserullah Babar con Idrees Bakhtiar, cit., p.37.18Hasnain e Zaidi, The Politics of Murder, cit., pp. 30-31.19Ivi, p. 33.20Ibidem.21Ivi, p. 3222Ibidem.23Ivi, p. 33.24Ibidem.25Ghulam Hasnain e Hasan Zaidi, Fact and Fiction,«Herald Magazine», marzo 1996, p. 38.26news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/8230....27

Page 710: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/8219....

Capitolo 21

1Intervista a Usman Hingoro, Karachi, 4 maggio 2008.2Ibidem.3Ibidem.4Lettera di MMB ad Ali Hingoro, Karachi, 26 marzo 1995.5Intervista a Usman Hingoro, Karachi, 4 maggio 2008.6Bennet Jones, Pakistan: Eye of the Storm,Penguin/Viking, 2002, p. 233.7Ibidem.8Ibidem.9John F. Burns, House of Graft: Tracing the BhuttoMillion, «New York Times», 9 gennaio 1998.10Benazir Bhutto: the investigation, BBC, 30 ottobre

Page 711: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

2007.11Jones, Pakistan, cit., p. 233.12Benazir Bhutto: the investigation, cit.13Jones, Pakistan, cit., p. 233.14Rao Rashid, Bhutto’s Legacy: The Other Version, «TheNation», 4 aprile 1995.15«The News», 26 novembre 1995.

Capitolo 22

1Intervista a Ramzan Brohi, Karachi, 14 marzo 2009.2Intervista a Qaisar, Karachi, 15 marzo 2009.3Intervista a Amer Jokhio, Karachi, 14 marzo 2009.4Intervista a Asif Jatoi, Karachi, 6 giugno 2008.5Intervista a Ghulam Hasnain, Karachi, 8 maggio 2008.6

Page 712: Canzoni Di Sangue - Fatima Buttho

Intervista a Aneed Jatoi, Karachi, 10 marzo 2009.7Intervista a Sabeen Jatoi, Karachi, 8 marzo 2009.8Intervista alla dottoressa Nuzhat Jatoi, Karachi, 9 marzo2009.9Intervista al dottor Ghaffar Jatoi, Karachi, 1 maggio2008.10Intervista al dottor Zahid Jatoi, Karachi, 9 marzo 2009.11Intervista, Karachi, 14 maggio 2008.12Intervista a Nasir Aslam Zahid, Karachi, 5 maggio 2008.13Intervista al giudice Wajihuddin Ahmed, Karachi, 6maggio 2008.

Epilogo

1Intervista a Noor Ahmed Nizam, Karachi, 9 maggio2008.

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INDICE DEI NOMIAbbas, MazharAbbassi, MunawarAbdullah Shah GaziAdil, AdnanAftaf, ChaudryAhmed, WajihuddinAitken, JonathanAkhund, IqbalAl Zulfikar (azo)Ali, GhulamAli, HazratAli, ImamAli, TariqAloush, MazenAmin, HafizullahAmin, IdiArafat, YasserAsghar (domestico)Assad, Hafez al-Avari, ByramAvari, DinshawAyub, Khan, generaleAzmuddin

Baba, capitanoBabar, NaserullahBagh, Malik SarwarBaloch, Abdul Majid

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Baloch, HameedBaloch, ShahnawazBhatti, EhsanBhutto, Amed KhanBhutto, Ameer (Shireen)Bhutto, AshiqBhutto, Benazir («Pinky», «Wadi», zia dell’autrice)Bhutto, BhaoBhutto, Doda KhanBhutto, famigliaBhutto, FatimaBhutto, FowziaBhutto, Ghinwa (nata Itaoui, seconda moglie di Mir Murtaza,«Mummy» per l’autrice)Bhutto, Ghulam Mir Murtaza (bisnonno del padre dell’autrice)Bhutto, Ghulam Mir Murtaza (padre dell’autrice)Bhutto, Ilahi BuxBhutto, ImdadBhutto, KhurshidBhutto, MannaBhutto, Mir AliBhutto, MumtazBhutto, Nabi BuxBhutto, Pir BuxBhutto, RaehanaBhutto, Rasool BuxBhutto, SanamBhutto, Sardar Wahid BuxBhutto, SassiBhutto, Shahnawaz, («Sha», zio dell’autrice)Bhutto, SikandarBhutto, sir Shahnawaz (bisnonno dell’autrice)Bhutto, Zulfikar (fratello dell’autrice)Bhutto, Zulfikar Ali (nonno dell’autrice)

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Biswin SadiBose, Sarat ChandraBose, SarmilaBoumédienne, HouariBrohi, RahimBrownmiller, SusanBugti, AkbarBull, HedleyBurns, John

Carter, JimmyCarter, LillianCastleman, Magdalena GuernicaCastro, FidelChanna, MaqboolChe GuevaraChen YiChou En-laiClark, Ramsey

Daood, BashirD’Estaing, GiscardDevaud, DanielDewolf, MrDurrani, TehminaDurrani, Wajid

Epstein, Edward Jay

Faysal, ibn Abd al-AzizFaiz, Faiz AhmedFarooqui, Tasleemul HasanFisk, RobertFlynn, ErrolFoot, Michael

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Ford, GeraldFoucault, Michel

Gabol, NabeelGandhi, IndiraGandhi, RajivGarhi KhairoGarhi Khuda BuxGheddafi, MuammarGilani, Yousef RazaGill, YousefGraham, WilliamGudu (amico di Mir Murtaza Bhutto)Gurdaspuri, Aslam

Hadi, MadameHaqqani, HussainHaroon, MahmoodHasan, GulHasan, MubashirHasnain, GhulamHassan, MashoodHayat, ShahidHidayatullah, SiddiquehHingoro, AliHingoro, famigliaHingoro, UsmanHo Chi MinhHolbrooke, RichardHumphrey, HubertHuntington, SamuelHussain, AltafHussain, famigliaHussain, Ghulam

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Hussain, InayatHussain, SeemaHussein, Saddam

Iqbal, JavedItaoui, Ghinwa vedi Bhutto GhinwaItaoui, Kafia, (teta Kafia)Itaoui, Kholoud (zia Lulu)

Jackson, MichaelJamiat e Ulema IslamiJatoi, AneedJatoi, AnushkaJatoi, AsifJatoi, BadrunissaJatoi, GhaffarJatoi, MaheenJatoi, NuzhatJatoi, SabeenJatoi, SikandarJatoi, ZahidJinnah, AliJinnah, FatimaJohnson, LindonJunejo, Ali AhmedJunejo, KarimdadJunejo, Muhammad KhanJung, Carl

Kalat, principe Mir Ahmed Yar, khan diKamal, BabrakKaramanlis, KostasKasuri, Ahmed RazaKatpar, Abdul WaheedKazmi, Zeeshan

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Kelly, GeorgeKennedy, Jr, BobbyKennedy, John F.Kennedy, TedKhadigaKhalid, LeilaKhalid, SaifullahKhan, Akbar MastiKhan, begum Abad AhmadKhan, Ghulam IshaqKhan, Liaqat AliKhan, Miraj MohammadKhan, PituKhan, PonchoKhan, RoedadKhan, Yakub AliKhan, Yousef MastiKhar, MustafaKhoury, GiselleKhuro, NisarKipling, RudyardKissinger, HenryKorda, AlbertoKryssa (amica di Della Roufogalis)Kundera, Milan

Lamprias, ministro grecoLeninLewis, BernardLumumba, Patrice

Magsi, NadirMahmood (guardia)Mai, Lal, di Liaqatabad

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Majothi, RehmatullahMandela, NelsonMaoMarri, Khair BuxMarx, KarlMateen, AmirMaulabux (Mauli)Mazari, BegumMeer, Khursheed HasanMir Ahmed Yar, principeMirza, IskandarMirza, NaheedMirza, NaseerMitho Jo MikamMujib (Mujibir Rehman) SheikhMujib Rehman, Sheikh MujiburMukti BahiniMusharraf, Pervez

Nabulsi, Dr LemiaNajibullahNajibullah, AnchNajibullah, FatanNaqi, HussainNasser, Gamal AbdelNehruNewens, StanNixon, RichardNizamNizam, NadeenNizam, Noor AhmedNoor AhmedNooristani, JamilNora (amica dell’autrice)

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NoreenNurseli (fidanzata di Shanawaz Bhutto)Nurya (amica dell’autrice)Nusrat

Obama, BarackOnassis, Aristotile

Paarlberg, RobertPapadopoulos, GeorgiosPasvantidis, AnastasiosPasvantidis, NanaPasvantidis, VouPearl, DanielPeterson, Chase N.Pirzada, HafeezPolk, GeorgePolk, MilbryPolk, William

QadirQaisarQuinn, Michael NgQureshi, Shakaib

Rahim (guardaspalle)Rahim, J.A.Rahim, TariqRajpar, SattarRaphel, ArnoldRashdi, MehtabRaza, Dr HalimRehman, AbdurRehman, Akhtar AbdurRehman, Fazlul

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Roufogalis, Della nata PasvantidisRoufogalis, MichaelRussell, Bertrand

Sadat, Anwar al-SajjadSantin, PeterSethi, AliSethi, BilalSethi, KamarSethi, SuhailShah, AbdullahShah, Ghous AliSharif, MasoodSharif, NawazSharri, NaeemShashtri, Lal BahadurSheikh, OmarSherpao, AftabSherpao, HayatShuja ShahSial, Haq NawazSindhi, Obaid UllahSindhi, Sheikh Abdul MajeedSinsabaugh, NancySofi (baby sitter)Sonara, AliSonara, SakinaSoomro, AllahbuxSoomro, Ilahi BuxSoraya KarimbhoyStephens, professor IanSuddle, ShahbaigSuddle, Shoaib

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Sukarno, Achmed

Tahir, RaiTalbot, IanTaraki, Nur MuhammadThatcher, MargaretTikka Khan, generaleTipu, SalamullahTrevor-Roper, Hugh

Vergès, JacquesVittoria, ReginaVolker, Paul

Wajahat JokioWaldheim, KurtWassom, generale Herbert M.Weekend PostWhite, Bill

YahyaYahya Khan, generaleYar MohammadYousef, MohdYouseff Goth

Zahid, Nasir AslamZaidi, HasanZardari, AsifZardari, HakimZayed, SheikhZia ul Haq