Canzone e poesia - Virgilio.it

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!" Il tema della città nella canzone d'autore (1964-1981)

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Il tema della città

nella canzone d'autore (1964-1981)

Canzone e poesia: analogie e diversità La nostra antologia (B.Panebianco – A.Varani, Orizzonti / Educazione letteraria e comunicazione, Zanichelli, Bologna, 2000) trattando del testo poetico, riserva una brevissima sezione finale alla canzone d'autore (pag. L 8 e segg.), sottintendendo una certa qual parentela, se così si può dire, tra i due generi; naturalmente il legame riguarda in realtà non tanto la canzone in quanto tale, quanto la sua “parte letteraria”, ovvero il suo testo. Dopo aver fatto tesoro di quanto abbiamo letto sull'antologia, è innanzitutto necessario chiarire la questione fondamentale: il testo di una canzone è un testo poetico? “Canzone = poesia + musica”? Nel canto II del Purgatorio Dante riconosce tra le anime l'amico Casella; dopo che i due si sono salutati, quest'ultimo intona un canto: Amor che nella mente mi ragiona (Purgatorio II, 112 e segg); Casella, noto musicista del tempo, aveva musicato questa “poesia” (propriamente una canzone) di Dante. Questo passo della Commedia è fra le più antiche testimonianze dell'uso di musicare un testo poetico. In Italia il Trecento rappresentò un momento importante nell'evoluzione di questo pratica; i musicisti del tempo sperimentavano linee melodiche nuove e sceglievano i testi tra le poesie più raffinate fra quelle dei poeti più noti. Questo “movimento musicale”, nel quale eccelsero i compositori italiani e francesi, fu detto Ars Nova,. Da allora e fino al Seicento, quasi ogni forma metrica venne musicata: ballate, madrigali, piccole odi; il componimento meno usato fu proprio la canzone, quella classica, per la sua struttura solenne ed impegnativa, più adatta alla declamazione e alla meditazione che al canto. Anche senza voler “scomodare” l'antichità classica, è quindi storicamente molto antica la tendenza a fondere insieme un testo poetico preesistente con un accompagnamento musicale; sottolineiamo però che la musica in questo caso ha sempre rivestito un ruolo secondario rispetto al testo, rappresentando una sorta di sovrappiù decorativo. La canzone, nell'accezione moderna del termine, deriva solo in parte dalla tradizione di cui s'è detto e altre sono le sue vere radici: la sua origine è infatti da collocarsi tra la fine del '700 e i primi decenni dell'Ottocento, in Francia. Essa si sviluppò da forme in parte preesistenti, cioè dalla tradizione degli epigrammi e delle canzonette; il clima dell'Illuminismo prima e della Rivoluzione poi favorì il diffondersi di questo nuovo genere musicale particolarmente gradito anche ai ceti più umili. Sullo sviluppo della canzone influì più tardi anche il melodramma; verso la fine del secolo XIX divennero di moda le romanze per pianoforte e voce, vere e proprie canzoni con testi di argomento lirico e sentimentale. La diversità rispetto alla tradizione medievale e rinascimentale consisteva nel fatto che la musica non era più semplice elemento di abbellimento, ma nasceva come componente autonoma e inscindibile dal testo; quest'ultimo rispondeva non più (o almeno non solo) ai meccanismi della composizione poetica, ma piuttosto alle necessità del discorso musicale e della melodia. La canzone era quindi qualcosa di nuovo. Con la nascita della radiofonia essa divenne genere popolare e di gran voga, assumendo le caratteristiche che noi tutti conosciamo. Negli anni Sessanta apparve sulla scena una figura nuova: il cantautore. Fino a quel momento, salvo rare e saltuarie eccezioni, la canzone nasceva dalla collaborazione di un paroliere, di un musicista e di un interprete; il cantautore accentrava in una sola persona queste tre funzioni, saldandole strettamente fra di loro e favorendo una maggior coerenza del risultato e l'espressione di una maggiore varietà di temi e di contenuti. Con i cantautori la canzone, fino ad allora prevalentemente canzone d'amore e sentimentale, toccava argomenti nuovi e copriva, almeno teoricamente, tutto l'universo del sentire umano.

Francesco Guccini, noto cantautore italiano contemporaneo, parlando delle sue canzoni le ha definite: le piccole modeste storie mie / che non si son mai messe addosso il nome di “poesie” (Via Paolo Fabbri 43, dall'album omonimo, EMI 1976); altrove ancora lo stesso autore protesta di non aver mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia (L'avvelenata, ibidem). È dunque chiara in tutti i cantautori la coscienza della sostanziale autonomia dei propri testi rispetto al linguaggio della poesia: il testo di una canzone è oggi qualcosa di diverso e di autonomo, anche se talvolta naturalmente ricorre agli stessi meccanismi espressivi e alle stesse tecniche che sono propri del linguaggio poetico; anche se può talvolta produrre risultati simili e paragonabili a quelli di un componimento poetico. Naturalmente ogni artista ha una sua fisionomia e molto dipende anche da quello che potremmo chiamare il suo “indice di liricità”: un cantautore particolarmente “lirico” è ad esempio Angelo Branduardi; egli ha recentemente pubblicato un album ( L'infinitamente piccolo) nel quale, tra l'altro, ha messo in musica anche parte del canto XI della del Paradiso; anni fa lo stesso artista aveva dedicato un intero album alle liriche di William Butler Yeats. Nella maggior parte dei casi tuttavia i testi delle canzoni d'autore le analogie con il testo poetico, quando ve ne sono, derivano perlopiù dalla necessità di adattare in una certa misura le parole alla musica; i testi delle canzoni possono presentarsi quindi come una sorta di ibrido fra un testo narrativo (del quale spesso condividono le caratteristiche espressive e di contenuto) e un testo poetico (nel senso di un testo in cui accenti, ritmi, rime sono presenti secondo schemi più o meno regolari). Per cogliere appieno questi aspetti, basta leggere i testi di autori come Francesco Guccini o Lucio Dalla, in particolare quelli che si riferiscono alla produzione degli ultimi vent'anni; questa differenziazione fra il testo cantato e il testo recitato è infatti andata accentuandosi con il tempo, soprattutto a partire dagli anni '80. Non essendo possibile approfondire la conoscenza di un fenomeno artistico e di costume tanto vario e complesso, qual è la canzone d'autore, affrontandolo in tutti i suoi aspetti, cercheremo di farlo focalizzando la nostra attenzione attorno a un tema: la città; cercheremo cioè di vedere come i cantautori, a partire dagli anni Sessanta, hanno visto e interpretato la città. Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso hanno visto, soprattutto nel nord del Paese, un notevole, e spesso caotico, sviluppo urbanistico, in particolare attorno alle grandi città con conseguente trasferimento di popolazione dalle campagne e dalla provincia nei centri urbani dove migliori e più numerose erano le opportunità di vita e di lavoro. La città è stata quindi per molti italiani un sogno: quello di una vita finalmente libera dalla miseria e dalla fame, di una vita più dignitosa e sicura per sé e per i propri figli. Non sempre purtroppo il sogno si è avverato: l'urbanizzazione ha spesso messo in evidenza e accentuato le contraddizioni cui una società in rapida crescita non sempre sapeva dare risposte soddisfacenti. Così la città significò per molti nuove povertà, nuove miserie, nuova emarginazione. Tratteremo questi aspetti nella prima sezione: Dal sogno di una vita migliore all'angoscia metropolitana. Ma la città è stata anche per molti il luogo della propria infanzia e giovinezza, il luogo dei ricordi e degli affetti; questi aspetti saranno trattati nella sezione La città: il cuore e la memoria. Da ultimo la città è stata e continua ad essere il luogo simbolico dove le civiltà si incontrano e il presente si fa storia o viene trasfigurato in poesia; questi temi saranno oggetto della terza sezione: La città tra storia, mito e poesia.

Ecco in sintesi l'itinerario del nostro viaggio: 1 – Dal sogno di una vita migliore all'angoscia metropolitana �Adriano Celentano Il ragazzo della via Gluck 1 �Giorgio Gaber Com'è bella la città 3 �Alberto D'Amico Giudeca 4 �Claudio Lolli Hai mai visto una città? 6 2 – La città: il cuore e la memoria �Francesco Guccini Bologna 9 �Lucio Dalla Milano 10 �Caetano Veloso Sampa 11 �Bulat Okudzava ������� �� A��� (Canzone dell'Arbàt) 12

3 – La città tra storia, mito e poesia �Francesco Guccini Bisanzio 14 �New Trolls Vorrei comprare una strada 15

DAL SOGNO DI UNA VITA MIGLIORE ALL'ANGOSCIA METROPOLITANA

Adriano Celentano: Il ragazzo della via Gluck (1966) 1 L'AUTORE - Nato a Milano il 6 gennaio 1938, è stato fin dagli esordi (e, per certi versi, lo è ancora), una figura anomala e contraddittoria del panorama musicale italiano: di fonte a Celentano l'opinione pubblica ancora oggi si divide fra chi lo ritiene un “profeta” geniale e chi invece lo considera poco più di un ciarlatano. La sua prima produzione, che risale alla fine degli anni '50, “volgarizzava” i temi e i modi del primo rock & roll (Ventiquattromilabaci, Il tuo bacio è come un rock, Impazzivo per te); ben presto però Celentano andò conquistando una sua particolare fisionomia, anche per la sua capacità di interpretare i gusti e i sentimenti della gente comune; così, oltre all'amore, prese a cantare temi quali la protesta “beat” (Tre passi avanti); le contraddizioni del mondo moderno (Mondo in mi settima), il degrado ambientale (Un albero di trenta piani), le contraddizioni dell'urbanizzazione (Il ragazzo della via Gluck) la protesta operaia e gli scioperi selvaggi (Chi non lavora non fa l'amore); lo fece naturalmente a modo suo, spesso controcorrente e con toni a volte qualunquistici, ma comunque sempre in maniera originale. Nel 1972 pubblicò l'album I mali del secolo, dedicato per intero a quelli che egli riteneva le contraddizioni della società industriale. Quel che è accaduto dopo il 1972, esula dagli scopi di questo lavoro. LA CANZONE - La via Gluck, oggi fagocitata dal tessuto urbano, apparteneva un tempo alla periferia milanese. La canzone, una sorta di ballata, racconta appunto le vicende di un ragazzo della via Gluck che le circostanze della vita costringono a trasferirsi in città; ma, mentre l'amico - narratore coglie gli aspetti materiali positivi della vicenda ( là troverai le cose che non hai avuto qui; potrai lavarti in casa senza andare giù nel cortile), il protagonista sente il peso della separazione (io qui sono nato e in questa casa ora lascio il mio cuore) e gli aspetti negativi dell'inurbamento (è una fortuna per voi che restate a piedi nudi a giocare nei prati mentre là in centro io respiro il cemento). Il sogno di tornare e di riconquistare il mondo perduto della propria infanzia, si infrange contro la dura realtà del “progresso”: là dove c'era l'erba ora c'è una città; e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà? Questa é la storia di uno di noi anche lui nato per caso in via Gluck in una casa fuori città gente tranquilla che lavorava. Là dove c'era l'erba ora c'è una città

e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà? Questo ragazzo della via Gluck si divertiva a giocare con me ma un giorno disse: - Vado in città e lo diceva mentre piangeva io gli domando: - Amico, non sei contento? vai finalmente a stare in città. Là troverai le cose che non hai avuto qui potrai lavarti in casa senza andar giù nel cortile.

- Mio caro amico, disse, qui sono nato e in questa strada ora lascio il mio cuore. Ma come fai a non capire che è una fortuna per voi che restate a piedi nudi a giocare nei prati mentre là in centro io respiro il cemento. Ma verrà un giorno che ritornerò ancora qui e sentirò l'amico treno che fischia così, "wa wa"!

Passano gli anni, ma otto son lunghi però quel ragazzo ne ha fatta di strada, ma non si scorda la sua prima casa: ora coi soldi lui può comperarla; torna e non trova gli amici che aveva, solo case su case, catrame e cemento. Là dove c'era l'erba ora c'è una città e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà?

Eh no, non so perché perché continuano a costruire le case e non lasciano l'erba, non lasciano l'erba, non lasciano l'erba, non lasciano l'erba, eh no, se andiamo avanti così

chissà come finirà, chissà... _________________ Approfondimenti personali: �Adriano Celentano, L'albero di trenta piani (1972) 2

Canzone del 1972, tratta dall'album omonimo, affronta in particolare i problemi legati alla vita di città (traffico caotico, cementificazione, inquinamento ecc.) contrapponendola ancora una volta

alla vita di campagna; la vena è quella di un ecologismo vagamente qualunquistico, che non affronta le cause del problema, ma si limita a contrapporre all'apocalisse urbana l'idillio della vita rustica.

Giorgio Gaber: Com'è bella la città (1969) 3 L'AUTORE - Nel corso degli anni è stato definito anarchico, oppure filosofo ignorante, ma qualsiasi etichetta risulta assai stretta e mai sufficiente a riassumere la complessa personalità soggettiva e politica di un artista nato nel mondo della canzonetta leggera, conduttore di melensi sabati televisivi, e divenuto poi impegnato cantore dell'uomo del nostro tempo, con le sue speranze, le sue delusioni, i suoi drammi, i suoi problemi.

Giorgio Gaber, per l'anagrafe Gaberscik, è nato a Milano il 25 gennaio 1939. La famiglia, di origini venete, era una delle tante famiglie della piccola borghesia, di quelle che, subito dopo la guerra, sognavano il figlio ragioniere. Ottenuto il diploma, la passione per la musica troncò la carriera universitaria del giovane Gaber: lasciati gli studi, a metà degli anni Sessanta egli debuttò in televisione come conduttore; contemporaneamente la Ricordi gli aveva offerto un contratto discografico.

Erano quelli gli anni in cui il mercato della musica leggera italiano subì un profondo rinnovamento e che videro nascere la prima generazione dei cosiddetti cantautori.

Anche per Gaber, impostosi per la vena leggera e scanzonata, quasi cabarettistica, delle sue canzoni, spesso dedicate a inquadrare con toni oleografici una Milano “minore” ( Porta Romana, Trani a gogò, Ballata del Ceruti, Il Riccardo ecc.), venne il momento della svolta: a Canzonissima ‘69 presentò Com'è bella la città, la prima tra le sue canzoni in cui traspare una nuova sensibilità sociale.

Il 1970 segnò una svolta netta nella carriera del cantautore milanese: il Piccolo Teatro gli offrì la possibilità di allestire un recital: nacque così Il Signor G, il primo di una lunga serie di spettacoli musicali che, alternando canzoni a monologhi, trasportano lo spettatore in una atmosfera che sa di sociale, politica, amore, sofferenza e speranza, il tutto condito con una ironia tutta particolare, in grado non solo di suscitare la risata, ma anche di smuovere le coscienze. Con Il signor G Gaber diventava sferzante e sarcastico nei confronti del perbenismo borghese ( I borghesi son tutti dei porci, più sono grassi e più sono lerci...)e inaugurava la fase dell'impegno: Dialogo tra un impegnato e un non so (1972); Far finta di esser sani (1973); Anche per oggi non si vola (1974); Libertà obbligatoria (1976). Con la fine degli anni Settanta e il cosiddetto “riflusso”, Gaber, pur continuando la propria attività, venne in un certo senso dimenticato; è tornato a farsi sentire negli ultimi anni per “confessare” amaramente quella che egli giudica la sconfitta della propria generazione.

LA CANZONE – Com'è bella la città segna, come s'è detto, il momento di passaggio tra la prima produzione di Giorgio Gaber e la fase dell'impegno: il boom economico è ormai un ricordo, l'autunno caldo e la contestazione giovanile sono una realtà: il mito della città, sogno e meta di tanti italiani, soprattutto meridionali, rivela le sue contraddizioni: il traffico caotico, l'indifferenza e l'anonimato, le tensioni sociali, l'edificazione selvaggia e incontrollata mostrano come non sia tutto oro quello che riluce. La canzone sembra riprendere l'antica fiaba oraziana del topo di città e del topo di campagna; la contrapposizione tra città e campagna era infatti ancora ben viva nella società italiana di quegli anni. Il testo di Gaber, sostenuto da una melodia frizzante e dal ritmo di un valzer leggero, quasi alla francese, si ripropone identico per tre volte; ma se all'inizio domina l'euforia e l'ottimismo, cresce poi il dubbio e la perplessità: la melodia e il canto si fanno meno lineari e spensierati (nella

seconda strofa scompare tra gli attributi della città l'aggettivo allegra); la terza strofa – l'invito iniziale è ormai triste e sconsolato - riprende il medesimo motivo, ma lo lo accelera e quasi lo deforma fino al parossismo, come a significare la caoticità nevrotica e alienante della vita cittadina. Vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna? Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città. Com'è bella la città, com'è grande la città, com'è viva la città, com'è allegra la città! Piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce; con le réclame sempre più grandi, coi magazzini, le scale mobili, coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più! Com'è bella la città, com'è grande la città, com'è viva la città, com'è allegra la città! __________________ Esercizio Proviamo a individuare alcune figure retoriche presenti nel testo motivandone l'uso che l'autore ne fa.

Alberto D'Amico, Giudeca (1969) 4 L'AUTORE - Alberto D'Amico (Venezia, 1943) è autore di molte canzoni in dialetto veneziano; questa è la sua più nota. Appartiene alla vasta schiera di cantautori (Paolo Pietrangeli, Ivan della Mea, Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli, Giovanni Poggiali, Alfredo Bandelli ecc.) nati ed affermatisi sulla scorta delle lotte operaie e studentesche tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Paolo Pietrangeli ha affermato che l'esperienza della canzone politica di protesta è quella di una canzone in sintonia con quanto accadeva, con quanto si sentiva [...] senza bisogno di dischi, di videoclip, di radio: bastava la comunicazione orale. Per quanto strano possa sembrare a un giovane d'oggi, era proprio così: non che non venissero stampati e venduti dischi, ma le canzoni si trasmettevano in modo spontaneo e spesso rapidissimo perché che si potevano accompagnare con la chitarra; venivano così fatte proprie dagli operai e dal movimento studentesco. Furono quindi i giovani a far viaggiare le canzoni cosiddette impegnate, imparandole e cantandole in compagnia. Venivano privilegiate le canzoni che non eludevano i contenuti della politica: non importava che spesso non fossero neppure belle o che fossero musicalmente povere. Dicevano cose importanti e le rendevano ripetibili, forse proprio grazie a quella loro povertà che permetteva a chiunque di intonarle. Ha scritto il critico Gianfranco Manfredi: quella che correva di chitarra in chitarra nelle aule occupate, nelle case, nelle mille eterne riunioni. LA CANZONE – In Italia l'industrializzazione, se da una parte portò con sé benefici economici (ma non per tutti) e progresso, dall'altra provocò il sorgere di gravi problemi sociali: la popolazione operaia, che andava concentrandosi attorno ai grandi poli industriali, doveva fare i conti con l'assenza o l'inadeguatezza delle abitazioni, dei servizi primari (scuole, ospedali ecc.) Nelle vaste e degradate periferie cittadine, si spegneva il sogno di una vita migliore, mentre tutto attorno crescevano i problemi e le difficoltà della vita quotidiana. Giudeca fu composta nel 1969 in occasione della lotta degli abitanti del noto quartiere di Venezia contro l'imprenditore Cipriani, che voleva abbattere le vecchie case della Giudecca e co struirne delle nuove di lusso. I giudecchini, riuniti nel doposcuola occupato dalle vacanze di Natale del 1968 sino a gennaio inoltrato, vennero fatti sgomberare con la forza dalla polizia. In quelle stesse settimane i seicento operai della Junghans, una fabbrica di munizioni, fecero oltre duecento ore di sciopero, mentre i cantieri (Toffolo, Lucchesi e Navali), minacciati di chiusura, scesero anch'essi in lotta contro i licenziamenti. Giudeca nostra abandonada vint'ani de lote e sfrutamento adeso zè rivà el momento de dirghe basta e de cambià. Le scuole cole pantegane, le case sensa gabineto, e quando ti te buti en leto te sogni sempre de lavorà. E chi che lavora se consuma da Heìon alla Junghans ai Cantieri1

1La Hefìon era un'industria tessile, la Junghans una fabbrica di munizioni; i Cantieri sono ovviamente i cantieri navali.

e la pula te fa i oci neri se ti te meti a scioperà. I fioi se ciapa l'epatite in meso al pantan dela Giudeca Cipriani se magna la bisteca e dale case ne vol sfratar. Le contese le faseva el doposcola co' la cipria e coi ciocolatini el pro-Giudeca dei paroni i giudechini el gh'a embrogià. Studenti done e operai gh'avemo ocupà el doposcuola che vegna el prefeto cola pula no se movemo, restemo qua. Giudeca nostra abandonada vint'ani di lote e sfrutamento adesso ghe zè rivà el momento de dirghe basta e de cambià.

Approfondimenti personali: �Gualtiero Bertelli, Ale Case minime (1964) 5

Gualtiero Bertelli, giudecchino di nascita (1944), è una delle figure più in vista della canzone politica degli anni Sessanta e Settanta; fu tra i protagonisti, assieme a D'Amico, del Canzoniere Popolare Veneto.

La canzone, legata ancora una volta alla realtà giudecchina, racconta un episodio di occupazione realmente accaduto alle cosiddette Case minime, abitazioni di una sola stanza costruite durante il fascismo: una famiglia di disperati, da anni alla ricerca di un alloggio, occupa abusivamente una casa resasi libera, nella speranza di trovare finalmente una sistemazione decente; ma è per poco: la legge interviene con la forza e fa sgomberare l'alloggio.

L'altro giorno ale Case minime / i ga lassà libera 'na casa / e fin dale sinque dela matina / ghe gera zente che aspetava // Ghe gera una pare de famegia / co quatro fioi da mantenir, / che da trent'ani vive en sofita / pien de sorsi(topi n.d.r.), de aqua e de sporco. // Ghe ne gera un'altra infinità / co e careghe e i tavoini / che aspetava el momento bon / de romper la porta e ocupar la casa // I le ciama case co un bel coragio / perchè dele case decenti e ga poco /la xe 'na stansa de quatro metri / co un gabineto de quei ala turca. // I e ciama case quei disgrassiai / che ga vissuo per ani da bestie, / che ga ciamà case e sofite, / i magazeni, i sotoscala. // I ga

spetà chieti fin e nove, / dopo al'assalto, come pirati, / su par e finestre e dentro par le scale / 'sta massa enorme de disperai. // Dopo do mesi de 'sta facenda, / za lo savemo par esperienza, / vien senza ciacole la questura, / che li ciapa tuti e li sbate fora.

Claudio Lolli, Hai mai visto una città (1973) 6

L'AUTORE - Claudio Lolli, nato a Bologna nel 1950, è una delle figure più rappresentative della canzone d'autore; egli ha saputo innanzitutto mettere splendidamente in musica - quantunque le canzoni dei suoi primi lavori godano di un'impalcatura sonora semplicissima, spesso solo chitarra e voce – nei quattro o cinque album prodotti negli anni '70, le disillusioni (e la rabbia) di tutta una generazione. Di carattere schivo e molto apprezzato da pubblico e critica colti e militanti, si è affermato come cantore del pessimismo e della disperazione esistenziale. I suoi testi sono sempre “impegnati” nel senso più completo del termine: in lui troviamo la tagliente accusa politico-sociale (Autobiografia industriale, Morire di leva), sincere invettive contro la società borghese (Borghesia), l'attenzione per gli sfruttati e gli esclusi . La fortuna artistica di Claudio Lolli si andò esaurendo alla fine degli anni '70. Dedicatosi all'insegnamento del latino nei licei, ricomparve sul mercato discografico nel 1992 con un album in parte antologico, cui hanno fatto seguito, nel 1997, un nuovo album e una tournée teatrale. Nonostante, come s'è detto, egli rappresenti per molti un modello di cantautore generazionale, Claudio Lolli continua in realtà ad incantare le platee, sempre piene di giovani e giovanissimi che accorrono ai suoi concerti, con la sua disincantata altissima poesia, che continua, senza età, a gettare un'occhiata affilata sul mondo. Alcuni album rappresentativi: Aspettando Godot (1972), Un uomo in crisi (1973), Canzoni di rabbia (1975), Ho visto anche degli zingari felici (1976), Disoccupate le strade dai sogni (1977). LA CANZONE - Hai mai visto una città è una sorta di lunga ballata e fu pubblicata da Lolli nel 1973 sul suo secondo album: Un uomo in crisi. In un susseguirsi di immagini sostenute dalla martellante domanda iniziale (Hai mai visto una città?), con quell' Hai strascicato che pare un lamento, Claudio Lolli, con un linguaggio scarno ed essenziale, ci fa il “suo” ritratto di una città italiana degli anni Settanta; ed è un ritratto di desolazione, di solitudine, di alienazione dove le rare presenze umane sono anonime e stralunate (il solo segno di vita sembra essere l'umanità che affolla le tristi balere di periferia); l'unica nota di colore è l'arancione dell'illuminazione stradale, ma è una luce che dà al cielo un colore anormale; nella metropoli industriale nessuna strada è felice e sicura; vi trionfano invece l'angoscia e la paura. La struttura musicale è semplice e ripetitiva, ma non per questo meno incisiva; voce e chitarra acustica sono sostenute da un arrangiamento discreto ma molto espressivo e perfettamente in grado di commentare il variare delle immagini proposte dal testo. Hai mai visto una città, dove i sogni rimbalzano sulle finestre ed i vetri riflettono vetri in estate e in inverno,

e spalancano gli occhi a cortili quadrati e deserti? Hai mai visto una città, dove si nasce e si muore in un grande ospedale, grattacielo moderno, struttura di tipo aziendale, dove la morte è un fatto statistico del tutto normale? Hai mai visto una città, che respinge i rifiuti della sua vita ricca, negli squallidi prati ai margini dell'abitato, dove di notte l'amore però non sa di peccato? Hai mai visto una città, con le tristi balere di periferia, dove tra una retata e l'altra della polizia, ubriachi e puttane ricercano una compagnia? Se non conosci una città, puoi venire a casa mia, ti darò l'indirizzo di una certa Maria. E sotto i suoi vestiti troverai lo spiacevole senso di assurdità, il freddo intenso, la solitudine di una città. Hai mai visto una città, la dove passa veloce la ferrovia, e i binari si intrecciano ad ogni cavalcavia, e trasportano treni sempre più pieni di gente? Hai mai visto una città, là dove passa veloce la tangenziale, e le luci arancione danno al cielo un colore anormale, e le case allibiscono ad ogni passare di camion? Hai mai visto una città, con il freddo stampato in faccia alla gente, che cammina qua e là con le mani ficcate in tasca, e negli occhi l'attesa di un sole che porti la festa? Hai, mai visto una città, dove tutte le strade vanno in collina, ma alla fine nessuna è una strada felice e sicura ed ognuno rimane da solo con la sua paura? Se non conosci una città, puoi venire a casa mia, ti darò l'indirizzo di una certa Maria. E sotto i suoi vestiti troverai lo spiacevole senso di assurdità, il freddo intenso, la solitudine di una città. ____________________

Esercizi: 1 – Individua le caratteristiche metriche del testo

2 – Metti in evidenza le immagini poetiche che ti sembrano più significative e che, a tuo avviso, meglio si prestano a descrivere l'alienazione e l'angoscia della vita cittadina ___________________

Approfondimenti personali: �Claudio Lolli L'angoscia metropolitana (1972) 7

Tratta dal primo album di Lolli, Aspettando Godot, la canzone interpreta il tema dell'angoscia metropolitana: il disagio sociale si fa esistenziale, trasformandosi in una condizione di vita.

Dentro a un cielo nato grigio, si infilzano le gru / ricoperte dalle case, le colline non si vedon più./ Sulle antenne conficcate nella crosta della terra / corron nuvole frustate, come va un esercito alla guerra/ Rit.: E la voce che mi esce, si disperde tra le case,/ sempre più lontana, se non la conosci, è l'angoscia metropolitana. // Le baracche hanno lanciato, il loro urlo di dolore, / circondando la città, con grosse tenaglie di vergogna./ Ma il rumore delle auto, ha già asfissiato ogni rimorso, / giace morto sul selciato, un bimbo che faceva il muratore. / (Rit.) / Nelle case dei signori, la tristezza ha messo piede,/ dietro gli squallidi amori, l'usura delle corde ormai si vede. Come pere ormai marcite, dal sedere troppo tondo, le fortune ricucite, mostrano i loro vermi al mondo . / (Rit.) /Fai un salto alla stazione, per cercare il tuo treno,/ troverai disperazione, che per venire qui lascia il sereno./ Fai un salto alla partita, troverai mille persone, /che si calciano la vita, fissi dietro un unico pallone./ (Rit.) / La campagna circostante, triste aspetta di morire,/ per le strade quanta gente, è in fila per entrare o per uscire. / Chiude l'ultima serranda, poi la luce dice addio, / la città si raccomanda, la sua sporca anima a dio. /(Rit.)

�Victor Jara Las casitas del Barrio Alto (Le casette dei quartieri alti) 8

Victor Jara (Santiago del Chile 1932 – 1974) è forse il rappresentante più in vista della Nueva Cancion Chilena, conosciuta in Italia soprattutto attraverso l'attività degli Inti Illimani; musicista impegnato politicamente, fu tra gli intellettuali che sostennero il governo di Unidad Popular e il presidente Salvador Allende. Durante i giorni del colpo di stato fascista del settembre 1973, venne arrestato, torturato e trucidato nello stadio di Santiago trasformato in un campo di concentramento.

Las casitas del Barrio Alto,descrivendo con tono ironico e scanzonato i quartieri bene di un'ignota città (Santiago?), quelli abitati dalla piccola borghesia, mette in evidenza la condizione di separazione e di forte disparità sociale di molte città dell'America latina dove, accanto ai quartieri residenziali, sorgevano, e sorgono ancora oggi, baraccopoli e quartieri degradati.

Il riferimento dell'ultima strofa ( juega con bombas y con politica,/ asesina generales / y es un gangster dela sedicion) si riferisce all'assassinio del generale legalista René Schneider da parte del generale reazionario Roberto Viaux.

Las casitas del Barrio Alto / con rejas y antejardín, / una preciosa entrada de autos / esperando un Peugeot. / Hay rosadas, verdecitas, / blanquitas y celestitas, / las casitas del Barrio Alto / todas hechas con resipol. // Y las gentes de las casitas / se sonríen y se visitan. / Van juntitos al supermarket / y todos tienen un televisor. / Hay dentistas, comerciantes, / latifundistas y traficantes, / abogados y rentistas. / Y todos visten polycron, / juegan bridge, toman martini-dry. / Y los niños son rubiecitos / y con otros rubiecitos / van juntitos al colegio high. // Y el hijito de su papi / luego va a la universidad / comenzando su problemática /y la intríngulis social. / Fuman pitillos en Austin mini, / juegan con bombas y con política,/ asesina generales / y es un gangster dela sedición.

Traduzione:

Le casette dei quartieri alti / con cancellate e giardini / una bella entrata per il garage / che aspetta una Peugeot. / Ce ne sono rosa, verdine, / bianchine o azzurrine / le casette dei quartieri alti / tenute insieme con la colla. / E la gente delle casette / si sorride e si fa visita, / vanno insieme al supermarket / e tutti hanno un televisore. / Ci sono dentisti, commercianti, / latifondisti e trafficanti / avvocati e gente che vive di rendita, / e tutti vestono in polycron. / Giocano a bridge, / bevono Martini dry / e i loro bambini sono biondini / e insieme ad altri biondini / frequentano insieme le scuole migliori. / Poi il figlio di papà / va all'università / dove inizia la sua problematica / e la scalata sociale. / Fuma sigarette, va in Austin mini, / gioca con le bombe e la politica / assassina generali / ed è un gangster della sedizione.

(Traduzione F. Galvagni)

LA CITTÀ: IL CUORE E LA MEMORIA

Francesco Guccini, Bologna (1981) 9 L'AUTORE - Francesco Guccini (Modena,1939)è sicuramente uno degli autori più apprezzati del panorama musicale italiano. La sua storia artistica ebbe inizio nella seconda metà degli anni Sessanta come autore di memorabili canzoni per interpreti del beat, per poi intraprendere la carriera di cantautore culminata, negli anni '70, con album assai importanti nell'evoluzione della musica "impegnata" italiana. Anche nelle decadi successive è assai attivo e alla produzione discografica associa quella di scrittore di successo. Alcuni album e brani rappresentativi: L'isola non trovata (1971), Radici (1972), Stanze di vita quotidiana (1974), Via Paolo Fabbri 43 (1976), Amerigo (1978), Album concerto (1979, con i Nomadi), Metropolis (1981), Guccini (1983), Fra la via Emilia e il West (1984), Signora Bovary (1987), ... quasi come Dumas... live (1988), Quello che non... (1990), Parnassius Guccinii (1993), D'amore di morte e di altre sciocchezze (1996), Stagioni (1999). LA CANZONE - Tratta dall'album Metropolis, dedicato per intero al tema della città, Bologna presenta un ritratto personale della città emiliana, fondamentale, assieme a Modena, nella formazione umana e artistica del pavanese. Quello fra Guccini e Bologna è un rapporto (sono parole sue) di amore e disamore (mai odio) dovuti più al cambiamento in noi che non nelle cose stesse. Le immagini sono tutte “matriarcali” e rimandano alle figure femminili del mondo popolare e contadino, tanto caro al nostro cantautore, uno dei pochi che sa coniugare magistralmente l'amore per le proprie radici ai temi della modernità. Così Bologna è di volta in volta una vecchia signora dai fianchi un po' molli, una donna emiliana di zigomo forte, una ricca signora che fu contadina; fonde e unisce queste figure l'immagine di una Bologna Parigi in minore, dove Guccini ha vissuto la sua , si noti l'ossimoro, Bohème confortevole. La tessitura musicale è decisa e robusta; altrettanto si può dire della melodia che trascina la voce in un procedere incalzante. Si noti la tendenza tutta gucciniana a terminare la frase musicale di ogni strofa sulla terza inferiore. Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli, Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale, Bologna la grassa e l'umana già un poco Romagna e in odor di Toscana... Bologna per me provinciale Parigi minore: mercati all'aperto, bistrots, della "rive gauche" l'odore con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l' assenzio cantava ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare. Però che Bohème confortevole giocata fra casa e osterie quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie... Oh quanto eravamo poetici, ma senza pudore e paura e i vecchi "imberiaghi" sembravano la letteratura... Oh quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna

cullati fra i portici cosce di mamma Bologna... Bologna è una donna emiliana di zigomo forte, Bologna capace d'amore, capace di morte, che sa quel che conta e che vale, che sa dov'è il sugo del sale, che calcola il giusto la vita e che sa stare in piedi per quanto colpita... Bologna è una ricca signora che fu contadina: benessere, ville, gioielli... e salami in vetrina, che sa che l'odor di miseria da mandare giù è cosa seria e vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso, perché sa la paura. Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano binomio dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi confusi e legati a migliaia di mondi diversi? Oh quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente, cantando canzoni che è come cantare di niente... Bologna è una strana signora, volgare matrona, Bologna bambina per bene, Bologna "busona", Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto, rimorso per quel che m'hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato... __________________

Esercizio:

1 – Che cosa significa secondo te l'espressione : “col seno sul piano padano e il culo sui colli” ? E l'espressione: “già un poco Romagna e in odor di Toscana”? 2 – Quali sono le immagini che l'autore utilizza per descrivere la città di Bologna? 3 – Che tipo di rapporto intercorre tra l'autore e Bologna? È un rapporto di amore? Di rifiuto? Di nostalgia? Di indifferenza? Motiva la tua risposta individuando nel testo alcuni riferimenti significativi.

Lucio Dalla, Milano (1979) 10 L'AUTORE - Cantautore italiano (Bologna 1943), in origine clarinettista jazz dilettante, si è imposto nel 1971 al Festival di Sanremo con la canzone 4 marzo 1943. Tra i suoi maggiori successi, Piazza Grande (1971), Nuvolari (1976), L'anno che verrà (1977), Com'è profondo il mare (1978, in collaborazione con F. De Gregori), Caruso (1987). Cantante dalla voce roca e dalla marcata intonazione negra, ha iniziato la sua carriera musicando i testi del poeta Roberto Roversi. La robusta musicalità del suo stile è alla base del successo di Lucio Dalla: il giro melodico delle sue ballate è generalmente accattivante, ricco di inventiva; le sue interpretazioni sempre fantasiose, vocalmente ineccepibili; la sua musica rivela una marcata matrice mediterranea e una varietà di ispirazione che raramente si avverte negli altri cantautori italiani; non si dimentichi inoltre che egli è da sempre un grande cultore della musica brasiliana. Dalla inoltre, che, come s'è detto, viene dal jazz e si sente in fondo ancora jazzista, sia quando compone, sia quando canta (è l''unico in Italia capace di cantare “scat”, di improvvisare cioè con sillabe senza senso). LA CANZONE - Si tratta di una canzone a suo modo autobiografica (il motivo ispiratore è simile a quello di Sampa di Caetano Veloso, cfr più oltre) che descrive il primo incontro di Dalla con Milano, la città caotica e frenetica per antonomasia, così diversa dalla sua Bologna. Lui stesso ci racconta: Milano è una città che all'inizio ho odiato e che oggi, dopo averla scoperta, amo profondamente. Il testo presenta in successione una serie di impressioni della metropoli in maniera del tutto casuale, quasi a rappresentare il senso di smarrimento e di incomprensione generato dal primo incontro. Emergono immagini a volte fortemente contrastanti (sotto terra e sulla luna; zucchero e catrame) e a volte crudamente esplicite (Milano che fatica; mi prendi allo stomaco, mi fai morire). Milano vicino all'Europa Milano che banche che cambi Milano gambe aperte Milano che ride si diverte Milano a teatro un « olé » da torero Milano che quando piange piange davvero Milano carabinieri o polizia che ti guardano severi chiudi gli occhi e voli via Milano a portata di mano ti fa una domanda in tedesco e ti risponde siciliano poi Milan e Benfica2 Milano che fatica Milano sempre pronta a Natale che quando passa piange e ci rimane male Milano sguardo maligno di Dio zucchero e catrame Milano ogni volta che mi tocca di venire mi prendi allo stomaco mi fai morire Milano senza fortuna mi porti con tè sotto terra e sulla luna Milano tre milioni e respiro di un polmone solo che come un uccello gli spari lo manchi riprende il volo Milano lontana dal cielo

2L'autore si riferisce all'incontro di calcio Milan-Benfica (1963) che vide per la prima volta una squadra italiana

conquistare quella che allora si chiamava Coppa dei Campioni d'Europa.

tra la vita e la morte continua il tuo mistero.

Caetano Veloso, Sampa (1978) 11 L'AUTORE - Cantautore brasiliano di spicco e sicuramente fra i maggiori artisti oggi sulla scena mondiale, fu negli anni Sessanta tra i fondatori del Tropicalismo, movimento che si affermò nel 1967, quando Gilberto Gil e lo stesso Veloso presentarono al festival della musica di San Paolo rispettivamente le canzoni Domingo no Parque (Domenica al Parco) e Alegria, Alegria. Era il periodo della dittatura militare, caratterizzato dalla censura e da un'aspra repressione. Nel 1968 Geraldo Vandré, compositore della canzone di protesta "pra não dizer que não falei de flores" (perché non si dica che non ho parlato di fiori), fu arrestato, torturato e mandato in esilio. Il Tropicalismo colpì i puristi almeno quanto Bob Dylan sbalordì il suo pubblico il giorno in cui salì sul palcoscenico con una chitarra elettrica. I baiani utilizzavano tutte le caratteristiche musicali del pop-rock, cioè bassi e chitarre elettriche, e si facevano accompagnare da un gruppo vocale chiamato Beat-boys (a quei tempi i Beatles erano gli idoli delle università brasiliane). Era una musica forte, anarchica e irriverente, che fondeva le immagini concrete del Brasile con la cultura internazionale in una sorprendente giustapposizione. Una volta superata la sorpresa iniziale il pubblico brasiliano non solo accettò il Tropicalismo, ma ne fece la propria bandiera.

Nel 1969 il governo militare, allarmato per ciò che stava accadendo, arrestò Caetano e Gil costringendoli ad andare in esilio a Londra. Quando ritornarono in patria, nel 1972, il Tropicalismo era ormai diventato la norma ed ogni gruppo brasiliano usava strumenti elettrici.

Sono passati più di trent'anni dall’avvento del Tropicalismo e tre cantautori di quella generazione, - Caetano Veloso, Gilberto Gil e Chico Buarque - continuano a dominare le scene musicali brasiliane.

LA CANZONE - Sampa è il nomignolo affettuoso con cui i brasiliani chiamano São Paulo, la maggiore città industriale del Brasile: se è possibile una sorta di parallelismo, se Rio de Janeiro è la Roma del Brasile, São Paulo ne è la Milano, mentre Salvador Bahia potrebbe rappresentare la versione sudamericana di Napoli; e Veloso è appunto bahiano. Il suo primo incontro con la città fu duro e traumatico: Sampa è, in un certo senso, un pentimento pubblico: Caetano Veloso chiede scusa alla città per non averne apprezzato il fascino.

Il testo è, come sempre in Veloso, ricco di immagini esuberanti e fantasiose, lessicalmente complesso e visionario, ma sempre intensamente poetico. La musica, dolce e suadente, sa coniugare alla perfezione ritmo e melodia.

Alguma coisa acontece no meu coração Capita qualcosa nel mio cuore que só quando cruza a Ipiranga com a avenida São João là dove l'Ipiranga incrocia la Avenida São João3 é que quando eu cheguei por aqui eu nada entendi è che quando arrivai qui non compresi nulla 3Si tratta di due fra le principali vie di San Paolo.

da dura poesia concreta de tuas esquinas della dura poesia concreta dei tuoi incroci da deselegância discreta de tuas meninas. della ineleganza discreta delle tue ragazze. Ainda não havia para mim Rita Lee, a tua mais completa tradução Ancora non avevo per me, Rita Lee4, la traduzione completa delle tue canzoni Alguma coisa acontece no meu coração Succede qualcosa nel mio cuore Que só quando cruza a Ipiranga e a avenida São João là dove l'Ipiranga incrocia la Avenida São João. Quando eu te encarei frente a frente não vi o meu rosto Quando ti incontrai a quattr'occhi non riconobbi il mio volto Chamei de mau gosto o que vi, de mau gosto o mau gosto Giudicai di cattivo, di pessimo gusto quel che vidi é que Narciso acha feio o que não é espelho perché per Narciso è brutto tutto ciò che non è specchio e a mente apavora o que ainda não é mesmo velho e la mente si spaventa di ciò che ancora non è proprio vecchio nada do que não era antes quando não somos mutantes. nulla di ciò che non era prima quando non siamo mutanti. E foste um difícil começo, afasto o que não conheço, E sei stata un difficile inizio, allontano ciò che non conosco, e quem vem de outro sonho feliz de cidade e chi viene da un altro sogno felice di città aprende depressa a chamar-te de realidade impara in fretta a chiamarti realtà porque és o avesso do avesso do avesso do avesso. perché sei il contrario del contrario del contrario del contrario. Do povo oprimido nas filas, nas vilas favelas Dal popolo oppresso nelle file, nelle cittadine favelas da força da grana que ergue e destrói coisas belas dalla forza del denaro che innalza e distrugge le cose belle da feia fumaça que sobe apagando as estrelas dal fumo schifoso che sale a spegnere le stelle eu vejo surgir teus poetas e campos e espaços io vedo sorgere i tuoi poeti e campi e spazi tuas oficinas de florestas, teus deuses da chuva le tue officine di foreste, le tue divinità della pioggia Panaméricas de áfricas utópicas, túmulo do samba Panameriche di afriche utopiche, tomba del samba mais possível novo quilombo de Zumbi il più nuovo possibile quilombo di Zumbì5 e os novos baianos passeiam na tua garoa e i nuovi baiani passeggiano sotto la tua pioggerella e os novos baianos te podem curtir numa boa. e i nuovi baiani ti possono sentire cosa buona. (Traduzione F. Galvagni)

4Nota cantante rock brasiliana. 5L'espressione, apparentemente senza senso, cita nomi e simboli che testimoniano la molteplicità delle culture del

Brasile, a partire dalle radici africane (africas utopicas, Quilombo), a quelle creole (samba), a quelle indie (Zumbí).

Bulat Salvovic Okudzava, ������� �� A��� (Canzone dell'Arbàt) 12 L'AUTORE - Bulat Salvovic Okudzava nacque a Mosca nel 1924. Scrittore, cantautore, poeta dai toni ora malinconici e rassegnati, ora a ironici e graffianti, spesso attraversati da considerazioni sulla società odierna con le sue irrazionalità e ingiustizie. Ha musicato molti dei suoi versi diventando uno dei cantautori più popolari e famosi dell'URSS. Suo allievo è stato l'insuperato Vladimir Vysotskij. Come prosatore Okudzava ha esordito con In prima linea (1961), romanzo sulla seconda guerra mondiale vista dagli occhi di un liceale passato dai banchi di scuola al fronte. Il successo internazionale giunse con il secondo romanzo, Il povero Avrosimov (1969), storia del processo dei decabristi vissuto attraverso un modesto scrivano, prima contrario ai rivoltosi poi lentamente conquistato dal loro entusiasmo e dalla loro purezza. Ha poi pubblicato L'agente di Tula (1971). LA CANZONE - ������� �� A��� (Canzone dell'Arb�t) � canzone lineare, quasi ovvia; l'autore accompagna con la sola chitarra una melodia semplice ma struggente, cantata con una voce monocorde, pacata, pervasa da una vena dolente; tuttavia, nonostante il tono dimesso, l'esecuzione raggiunge una forza comunicativa notevole. Protagonista è l'Arbàt, una delle strade della vecchia Mosca, strada di gente semplice, di bancarelle, di incontri e passeggiate; e il ritratto di Okudzava ne tratteggia è un ritratto marcatamente poetico, tanto che, con le parole del critico Pietro Zveteremich, potremmo definire non esitò a definire ������� �� A��� “ poesia cantata”. �� ������, �� ��. ���� � ������! Tu scorri come un fiume. Strana definizione! � � ���� �����, �� � ��� � �. L'asfalto è trasparente come l'acqua nel fiume. ��, ���, � � ���, �� — � � �������, Ah, Arbàt, mio Arbàt, tu sei la mia vocazione, �� — � � ��� � , � � ���. Tu sei la mia gioia e la mia miseria. ����� �� �� �, ���� �� �������, I tuoi passanti non sono persone importanti, ������� �����, � ���� �����. Battono i tacchi mentre corrono per le loro faccende. ��, ���, � � ���, �� — � e�� � Ah, Arbàt, mio Arbàt, tu sei la mia religione ! �� ��� �� � � � �� � ��"�. Sotto i miei passi si stende il tuo selciato. #� ����� �� �� � ��� �� ���������, Non saprei guarire dell'amore che ho per te � � ���� �� �� � �� ��� ���. Anche se amassi trentamila altre strade ��, ���, � � ���, �� — � � ������� , Ah, Arbàt, mio Arbàt,Tu sei la mia patria, $�� � � � �% �� � ��� ���!

Non riuscirò mai a percorrerti fino in fondo. (Traduzione F. Galvagni)

Approfondimenti personali:

�Paolo Conte Genova per noi (1975) 13

Paolo Conte (Asti 1937), di professione avvocato, pianista e vibrafonista jazz dilettante, iniziò la sua carriera artistica verso il 1965 scrivendo canzoni, portate poi al successo da altri (A. Celentano, Azzurro; E. Jannacci, Messico e nuvole; B. Lauzi, Genova per noi). A partire dal 1974 ha iniziato a interpretare le proprie canzoni con la sua vena elegante di chansonnier, arricchendola sempre con arrangiamenti di gusto jazzistico. Tra gli album più significativi ricordiamo: Paolo Conte (1975), Un gelato al limon (1979); Paris Milonga (1981); Appunti di viaggio (1982) e i più recenti Parole d'amore scritte a macchina (1990), 900 (1992) e Una faccia in prestito (1995).

Genova per noi è canzone fra le più note del cantautore piemontese: è una sorta di diario di viaggio che raccoglie le impressioni di chi, uomo di terra com'è l'astigiano Paolo Conte, si reca a Genova, città di mare. Il testo è ricco di immagini, intuizioni e impressioni molto originali, sempre a metà strada tra l'assonnata atmosfera provinciale di chi sta in fondo alla campagna e l'esotismo di una città che è un tutt'uno con quella strana creatura che è il mare. Scrive Michele Serra: Genova per noi è una canzone così carica di “genovesitudine” da sembrare incredibile (ma forse inevitabile) che a scriverla sia stato un “forestiero”.

LA CITTÀ TRA STORIA, MITO E POESIA

Francesco Guccini, Bisanzio (1981) 14

L'AUTORE (vedi più sopra l'introduzione a Bologna)

LA CANZONE – Facciamo parlare lo stesso autore: La metafora di Bisanzio Capitale e Impero è affascinante: vive molto dopo la nostra civiltà in pieno Medio Evo, eppure l'occidente barbarico è il futuro, e Bisanzio un morente destinato a finire. Mi sembra Bisanzio come New York oggi, e noi come il vecchio Filemazio, a cavallo di due epoche, un po' nostalgici di un passato che sta scomparendo e incerti e spaventati per un futuro che non possiamo capire.

In questo caso la città non è né la scena su cui si manifestano le contraddizioni del presente, né il luogo della memoria e degli affetti, bensì la trasfigurazione mitica di una condizione che è nello stesso tempo storia e mito e di cui l'autore si serve per proiettare i dubbi, le incertezze, i timori dell'uomo di oggi.

Dal punto di vista musicale risulta sorprendente, nell'alternarsi di “arie” e di “recitativi”, la capacità di riproporre in chiave moderna i modi dell'antico dialogo melodrammatico, tecnica che tradisce anche nella scelta dello strumento espressivo, il dubbio e l'incertezza che animano il testo-racconto della canzone.

Anche questa sera la luna è sorta affogata in un colore troppo rosso e vago, Vespero non si vede, si è offuscata, la punta dello stilo si è spezzata. Che oroscopo puoi trarre questa sera, Mago?

Io Filemazio, protomedico, matematico, astronomo, forse saggio, ridotto come un cieco a brancicare attorno, non ho la conoscenza od il coraggio per fare quest'oroscopo, per divinar responso, e resto qui a aspettare che ritorni giorno

e devo dire, devo dire, che sono forse troppo vecchio per capire, che ho perso la mia mente in chissà quale abuso od ozio, ma stan mutando gli astri nelle notti d'equinozio. O forse io, forse io, ho sottovalutato questo nuovo dio. Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando,

ma è un debole presagio che non dice come e quando...

Me ne andavo l'altra sera, quasi inconsciamente, giù al porto a Bosphoreion là dove si perde la terra dentro al mare fino quasi al niente e poi ritorna terra e non è più occidente: che importa a questo mare essere azzurro o verde?

Sentivo i canti osceni degli avvinazzati, di gente dallo sguardo pitturato e vuoto... ippodromo, bordello e nordici soldati, Romani e Greci urlate: dove siete andati? Sentivo bestemmiare in alamanno e in goto...

Città assurda, città strana di questo imperatore sposo di puttana6, di plebi smisurate, labirinti ed empietà, di barbari che forse sanno già la verità, di filosofi e di etere, sospesa tra due mondi, e tra due ere... Fortuna e età han deciso per un giorno non lontano, o il fato chiederebbe che scegliesse la mia mano, ma...

Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile, segreto e ambiguo come questa vita, Bisanzio è un mito che non mi è consueto, Bisanzio è un sogno che si fa incompleto, Bisanzio forse non è mai esistita e ancora ignoro e un'altra notte è andata, Lucifero è già sorto, e si alza un po' di vento, c'è freddo sulla torre o è l'età mia malata, confondo vita e morte e non so chi è passata... mi copro col mantello il capo e più non sento, e mi addormento, mi addormento, mi addormento...

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Esercizio:

1 – L'autore utilizza la rima? E in che modo? Prova a esplorare il testo e a individuare eventuali schemi metrici. 2 – Quali sono le immagini che l'autore utilizza per descrivere Bisanzio? 3 – Chi rappresenta, secondo te, la figura di Filemazio?

6Procopio di Cesarea racconta che, prima di sposare Giustiniano e di diventare imperatrice, Teodora fosse una ballerina

e una prostituta.

New Trolls, Vorrei comprare una strada (1969) 15

GLI AUTORI – La canzone è scritta a più mani: il testo è di Fabrizio De André, mentre la musica è di tre “Trolls”: Mannerini, Di Palo, De Scalzi.

I New Trolls furono il gruppo ponte tra la cosiddetta era beat (Equipe 84, Corvi, Rokes...) e l'epoca del pop (Banco del Mutuo Soccorso, PFM...); va dunque riconosciuta al gruppo una funzione fondamentale, in quella fase di crescita della musica italiana, grazie soprattutto all'album Senza orario senza bandiera da cui appunto è tratta anche Vorrei comprare una strada.

La storia dei New Trolls come gruppo artisticamente “impegnato”, si ferma con l'album Ut: successivamente, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, il nome “New Trolls” sarà solo un guscio vuoto che le nuove formazioni del gruppo si contenderanno, scissione dopo scissione, a suon di carta bollata in tribunale.

LA CANZONE – La New York di cui William -il protagonista – vuole comperare una strada, non ha nulla ha che vedere con la caotica metropoli americana che tutti conosciamo; ne è piuttosto la trasfigurazione poetica; così quegli aspetti della vita newyorkese che, nel bene e nel male, sono il simbolo di questa città complessa e caleidoscopica (le strade affollate, le insegne pubblicitarie, l'illuminazione esuberante, i grattacieli...), si trasformano in presenze dolci, rassicuranti e protettive. Ne esce l'immagine di una “piccola metropoli” un po' naïf, un po' crepuscolare, quasi un nido in cui stordire le ansie del vivere quotidiano, in cui disinnescare i perché fondamentali dell'esistenza; fino al momento in cui verrà una voce fuori campo ad avvertirci che lo spettacolo è concluso.

Ma in verità un'interpretazione così “disimpegnata” di Vorrei comprare una strada non renderebbe giustizia alla canzone, che va letta e ascoltata nel contesto dell'intero album, all'interno del quale rappresenta soltanto un momento di sosta e di legittimo riposo, prima di riprendere il cammino.

Vorrei comprare una strada nel centro di Nuova York,

la vorrei lunga affollata di gente di ogni età

e tanta luce nei lunghi tubi di vetro colorati.

Una fontana con mille bambini che giocano,

un gatto pigro che guarda assonnato il suo angolo

e voli alti contro i colori dell'arcobaleno

ed al tramonto vorrei sedermi all'ombra di un grattacielo.

Fino a che io sentirò una voce che mi dirà:

- Scusami, William, mi spiace per te ma è la fine...

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Esercizio:

1 – Cerca di capire come l'autore ha organizzato il testo; se è necessario dividilo prima in sequenze. 2 – A tuo avviso, il testo fa pensare a una poesia o a un testo narrativo?