Callas - la Repubblica

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DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica il fatto Il mito della “tolleranza zero” GEORGE KELLING, ALEXANDER STILLE e JAMES WILSON la memoria L’ultimo giorno del Papa Re MIRIAM MAFAI l’immagine Cinzano, due secoli e mezzo di spot UGO VOLLI cultura Auden e Isherwood poeti alla guerra FRANCO MARCOALDI LEONETTA BENTIVOGLIO la lettura L’amore secondo Hannah Arendt HANNAH ARENDT e AMBRA SOMASCHINI spettacoli Perry Mason, il fascino della legge GIANRICO CAROFIGLIO e MARIA PIA FUSCO Callas segreta A trent’anni dalla morte solitaria della Divina l’amica e confidente di una vita racconta per la prima volta la sua grande infelicità FOTO BRUNO TOSI MILANO L e intime verità di Maria Callas. Il suo mistero forte e senza fondo. Il divario tra la fragilità della persona e l’imperiosa potenza dell’artista. Difficile comprende- re, esplorare. Maria se n’è andata il 16 settembre del 1977, con una morte solitaria, spettacolare per tri- stezza, nella casa parigina di Rue Georges Mendel, do- ve s’erano consumate le stagioni del declino. È stata la sua voce, segno teatrale e musicale senza confronti, duttile e splendente nella varietà dei colori, e non immune da zone aspre e opache, ad avviare la rinascita del belcanto a metà Novecento. Però in Maria c’è dell’altro: icona tragica e bellezza oltre le mode, non è catalo- gabile come cantante perché appartiene al mito. In questi giorni, con la cadenza del trentennale della morte, la si celebra tra mostre (due visibili alla Scala, al Museo Teatrale e nel Ridotto dei Palchi), concerti, biografie, epistolari ritrovati (quello col marito Gianbat- tista Meneghini è parte del lotto che sarà messo all’asta in dicem- bre da Sotheby’s), trasmissioni radio (dal primo al 19 ottobre alle 20, su Radio3 Suite), dischi e film (il nuovo Callas di Philippe Coly sarà presentato in prima mondiale oggi alla Scala). In tanti provano a scoprire e riscoprire la divina Callas e nessu- no sonda veramente il suo segreto, alimentato dall’inesauribilità di una leggenda fondata non solo sul carisma dell’interprete, ma sugli interrogativi sospesi di un’esistenza ferita dagli inizi: «Maria era bisognosissima di affetto, desiderosa di calore e famiglia, sem- pre in cerca di un alone di difesa», racconta l’amica milanese Gio- vanna Lomazzi, che le fu vicina per molti anni. «C’era in lei un do- lore antico, originato dal suo sofferto rapporto con la madre. Odia- va parlare dell’infanzia, come se vi avesse calato sopra un velo, an- zi una saracinesca. Ma una volta che eravamo insieme a Londra mi disse a un tratto: guarda, mostrandomi un brutto segno su una gamba. Questo è quanto mi ha lasciato una sedia che mi tirò ad- dosso mia madre». Bella signora imponente ed elegante («da giovane avevo le mi- sure sottili di Maria qund’era magra, e lei mi regalò molti dei suoi abiti meravigliosi, tutti firmati Biki»), Giovanna Lomazzi è stata per la Callas una di quelle fidate e discrete presenze indispensabi- li alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se squas- sati da conflitti interni come lo fu Maria. «Avevo vent’anni quando la conobbi, una decina meno di lei, che in seguito avrebbe detto di considerarmi come una sorella minore», riferisce la Lomazzi, og- gi vicepresidente del Teatro Sociale di Como e impegnata nell’A- slico, associazione che riunisce e promuove giovani cantanti. «Ho accompagnato la Callas in tanti viaggi e le sono stata accanto in fa- si diverse della sua vita. La conoscevo bene, mi era legata. E ora de- testo le troppe sedicenti amiche pronte a scrivere sue biografie do- po averla frequentata solo pochi mesi, o i detrattori che la fischia- vano in teatro e oggi non esitano a professarsi suoi cultori. C’è un continuo, incontrollato sfruttamento della sua immagine». (segue nelle pagine successive) CON UN TESTO DI ERIC-EMMANUEL SCHMITT Repubblica Nazionale

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Page 1: Callas - la Repubblica

DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

il fatto

Il mito della “tolleranza zero”GEORGE KELLING, ALEXANDER STILLE e JAMES WILSON

la memoria

L’ultimo giorno del Papa ReMIRIAM MAFAI

l’immagine

Cinzano, due secoli e mezzo di spotUGO VOLLI

cultura

Auden e Isherwood poeti alla guerraFRANCO MARCOALDI

LEONETTA BENTIVOGLIO

la lettura

L’amore secondo Hannah ArendtHANNAH ARENDT e AMBRA SOMASCHINI

spettacoli

Perry Mason, il fascino della leggeGIANRICO CAROFIGLIO e MARIA PIA FUSCO

CallassegretaA trent’annidalla morte solitariadella Divinal’amica e confidentedi una vita raccontaper la prima voltala sua grande infelicità

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MILANO

Le intime verità di Maria Callas. Il suo mistero forte esenza fondo. Il divario tra la fragilità della persona el’imperiosa potenza dell’artista. Difficile comprende-re, esplorare. Maria se n’è andata il 16 settembre del1977, con una morte solitaria, spettacolare per tri-stezza, nella casa parigina di Rue Georges Mendel, do-

ve s’erano consumate le stagioni del declino. È stata la sua voce,segno teatrale e musicale senza confronti, duttile e splendentenella varietà dei colori, e non immune da zone aspre e opache, adavviare la rinascita del belcanto a metà Novecento. Però in Mariac’è dell’altro: icona tragica e bellezza oltre le mode, non è catalo-gabile come cantante perché appartiene al mito. In questi giorni,con la cadenza del trentennale della morte, la si celebra tra mostre(due visibili alla Scala, al Museo Teatrale e nel Ridotto dei Palchi),concerti, biografie, epistolari ritrovati (quello col marito Gianbat-tista Meneghini è parte del lotto che sarà messo all’asta in dicem-bre da Sotheby’s), trasmissioni radio (dal primo al 19 ottobre alle20, su Radio3 Suite), dischi e film (il nuovo Callas di Philippe Colysarà presentato in prima mondiale oggi alla Scala).

In tanti provano a scoprire e riscoprire la divina Callas e nessu-no sonda veramente il suo segreto, alimentato dall’inesauribilitàdi una leggenda fondata non solo sul carisma dell’interprete, masugli interrogativi sospesi di un’esistenza ferita dagli inizi: «Maria

era bisognosissima di affetto, desiderosa di calore e famiglia, sem-pre in cerca di un alone di difesa», racconta l’amica milanese Gio-vanna Lomazzi, che le fu vicina per molti anni. «C’era in lei un do-lore antico, originato dal suo sofferto rapporto con la madre. Odia-va parlare dell’infanzia, come se vi avesse calato sopra un velo, an-zi una saracinesca. Ma una volta che eravamo insieme a Londra midisse a un tratto: guarda, mostrandomi un brutto segno su unagamba. Questo è quanto mi ha lasciato una sedia che mi tirò ad-dosso mia madre».

Bella signora imponente ed elegante («da giovane avevo le mi-sure sottili di Maria qund’era magra, e lei mi regalò molti dei suoiabiti meravigliosi, tutti firmati Biki»), Giovanna Lomazzi è stataper la Callas una di quelle fidate e discrete presenze indispensabi-li alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se squas-sati da conflitti interni come lo fu Maria. «Avevo vent’anni quandola conobbi, una decina meno di lei, che in seguito avrebbe detto diconsiderarmi come una sorella minore», riferisce la Lomazzi, og-gi vicepresidente del Teatro Sociale di Como e impegnata nell’A-slico, associazione che riunisce e promuove giovani cantanti. «Hoaccompagnato la Callas in tanti viaggi e le sono stata accanto in fa-si diverse della sua vita. La conoscevo bene, mi era legata. E ora de-testo le troppe sedicenti amiche pronte a scrivere sue biografie do-po averla frequentata solo pochi mesi, o i detrattori che la fischia-vano in teatro e oggi non esitano a professarsi suoi cultori. C’è uncontinuo, incontrollato sfruttamento della sua immagine».

(segue nelle pagine successive)CON UN TESTO DI ERIC-EMMANUEL SCHMITT

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la copertinaCallas segreta

“Quando la conobbi era grassa, brutta, inelegante,carica di gioielli vistosi. Poi perse cinquanta chili,divenne un’altra persona”, racconta Giovanna Lomazzi,che incontrò la cantante a Milano nel 1952 e le rimasevicina negli anni del trionfo e poi in quelli del declino“Nessun mistero nella sua morte: è stata uccisa dal dolore”

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

Le verità di MariaDivina e infelice

(segue dalla copertina)

Il primo incontro tra Maria e Giovanna avven-ne nel ‘52 al ristorante Biffi Scala, «luogo de-putato di Milano per le cene dopo gli spetta-coli. Vi andavo coi miei genitori che avevanoun amico in comune con Battista Meneghini,all’epoca marito della Callas, più vecchio di

lei di ventotto anni. Un coniuge affettuoso, protetti-vo e solido. In quel periodo Maria cantava Giocondaalla Scala e la vedevamo al Biffi dopo la recita. Gras-sa, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi, fatticon grandi pietre comprate in Brasile. Ci presenta-rono, mi diede una sua foto con dedica, nacque mol-ta simpatia. Io, molto appassionata di musica, ve-neravo l’artista ed ero fiera che mi fosse amica. In-tanto la vedevo cambiare, perdere peso, diventaresempre più sofisticata e bella».

S’è favoleggiato molto sul dimagrimento dellaCallas: qualcuno ha detto che arrivò a ingerire unverme solitario. «Ma quale verme! Semplicementenon mangiava. Mai che toccasse pane, vino, pastao dolci. Sia a pranzo che a cena ordinava solo filet-to o pesce ai ferri con verdura scondita. Perse cin-quanta chili, in pratica si dimezzò. Rispetto alladonna sciatta e gonfia che avevo visto quella primavolta al Biffi divenne un’altra persona». Callascantò moltissimo a Milano negli anni Cinquanta,«e io andavo a tutte le sue prove, e quando non la-vorava la accompagnavo nei negozi,beandomi di tante piccole banalitàfemminili condivise nella quoti-dianità. La seguii a Berlinocon la Scala, poi a New Yorkper tre mesi, quandoandò a cantare al Me-tropolitan. Battistavolle che partissimoin quattro, lui, Maria,io ed un’altra amica.Prese in affitto unmeublé con due ca-mere da letto suPark Avenue, alla79esima. QuandoMaria non era alleprove o alle recitenoi donne andavamonei grandi magazzini,mentre lui si occupavadei contratti».

Ci furono molte altretrasferte “callasiane” perGiovanna, anche durante la fa-se dell’amore con Onassis, periodoche definisce «drammatico e tremen-do». Intanto, col passare de-gli anni, Maria aveva comin-ciato ad avere problemi vo-cali, «con cedimenti forse le-gati al dimagrimento, cheaveva indebolito la musco-latura del diaframma. Peròsi ostinava a non cambiarerepertorio, riproponendosinei suoi cavalli di battagliacome Norma e Tosca, opereormai per lei troppo impe-gnative vocalmente. Le ulti-me Norme a Parigi furonoterribili. Aveva una tale paura di cantare che nonera neanche più brava scenicamente. S’era persa lasua grinta, dileguata l’espressione». La voce l’ab-bandona ma Maria spera di poter cambiare vita,trasformandosi nella signora Onassis: «Passava dauna crociera e da una festa all’altra, senza più stu-diare. Era capace di chiamarmi la mattina e dirmiche voleva andare a Parigi il pomeriggio. Io ero gio-vane e mi divertivo da matti, però capivo che certistrapazzi nuocevano alla sua voce. Ricordo cheuna volta arrivammo ad Anversa e ripartimmo l’in-domani perché non se l’era sentita di cantare».

Con Onassis, hanno scritto in molti, la passionefu sconvolgente: un’ondata di eros rivelatoria a pa-ragone del quieto rapporto col marito-padre Me-neghini. «Credo che quello con Onassis fosse piut-tosto un innamoramento di natura cerebrale. Era-no entrambi greci partiti dal niente e saliti all’api-ce della fama. C’era complicità, una sorta d’intesa.Però Maria era disperata. Sul Christina, il panfilo diOnassis, facemmo una volta una crociera noi tre,solo lei, lui ed io. Stavamo mangiando al bordo del-la piscina dello yacht, e Maria improvvisamentescoppiò a piangere a dirotto, senza motivo. Eromolto scossa, quando stava con Battista non l’ave-vo mai vista così. La verità è che non era fatta perquella vita piena di niente, tra mondanità, naviga-zioni e jet set: si rendeva conto che stava smarren-do la sua identità più autentica. Era nata per esserecantante e lavorare in teatro, regolata dagli orari

dello studio e delle prove. Quegli anni con Onassis,con cui tra l’altro non poteva parlare di musica,perché lui non ne sapeva nulla, scardinarono le suebasi esistenziali».

Giovanna, che definisce l’armatore «di una brut-tezza inavvicinabile», narra che in quel periodoMaria fece la Norma a Epidauro, «e io vidi lo spet-tacolo seduta a fianco di Onassis, il quale non solonon capiva niente dell’opera, ma non seppe nep-pure distinguere la Callas alla sua entrata in scena.La scambiò col mezzosoprano. Poi, finita la recita,salimmo a bordo del Christina per una crociera disogno nel Pireo, restando svegli tutta la notte e ap-prodando ad Atene alle sette del mattino. EppureMaria, regina della festa, sembrava la più infelice».Quando Onassis si sposò con Jackie Kennedy l’u-miliazione fu atroce. «E arrivò il momento disa-stroso in cui Di Stefano le propose di fare un giro diconcerti. S’ingannarono a vicenda, illudendosi dipoter tornare a cantare come un tempo, e latournée fu faticosissima. Non volli assistere a nes-suna di quelle esibizioni. D’altra parte Maria, inquel periodo, non aveva piacere che noi amici diMilano andassimo a sentirla: si rendeva conto deldeclino e non voleva testimoni».

Rievocando l’amica, Giovanna rammenta la suamancanza assoluta di senso del denaro («dopo laseparazione da Battista lasciava mance sproposi-tate nei ristoranti, addirittura somme pari al conto,e quando la rimproveravo mi diceva: devo farlonon per il valore dei soldi, ma per ciò che io sono»).

Soprattutto ricorda la straziante consape-volezza della fine: «Nel ‘59 mi chiese di

accompagnarla a Dallas doveavrebbe dovuto cantare Lucia,

passando per Kansas Citydov’era fissato un suo con-

certo. La vedevo semprepiù insicura e fragile,stanca dei viaggi sul Ch-ristina. Mai un vocaliz-zo, mai una lettura dispartito. Giunte a Kan-sas City mi chiese: co-sa canto stasera? Nonaveva preparato nulla.Le suggerii l’aria d’in-gresso della Lucia, al-

meno l’avrebbe ripas-sata prima di Dallas.

Dopo il concerto volletornare per una settimana

a Montecarlo da Onassis,per poi presentarsi a Dallas il

giorno della prova generale diLucia. Dalla sartoria di Roma non

erano arrivati i costumi, Zeffirelli erafurente. Eppure Maria non batté ciglio.

Quando l’opera andò in sce-na, nel primo atto si adattò aindossare il costume di unacorista, mentre Zeffirelli e ioattaccavamo le perle al co-stume di un’altra corista perarricchire l’atto dello sposa-lizio. Maria non protestòmai: era passiva, non coin-volta. Se fosse accadutoqualche anno prima avreb-be piantato una grana infer-nale, perché era una grandeprofessionista».

La Callas quella sera cantò in modo discutibile,«e alla fine della scena della pazzia mancò i due mibemolle di tradizione, ma riuscì a fare due scalecromatiche discendenti e il pubblico non se ne ac-corse. La applaudirono e le andai incontro in pal-coscenico: era stravolta. Mi disse, cacciandomi lesue unghie lunghe nella carne della mano: la miacarriera finisce qui. In albergo dormivamo nellastessa stanza e la sentii singhiozzare l’intera notte.E fu patetico quando la rividi a Torino, dove andò afare la regia dei Vespri Siciliani. Nello spettacolonon succedeva niente, non trovò alcuna chiave re-gistica. Il fatto è che Maria non poteva fare altro checantare, era questa la sua totale vocazione. Anchecome insegnante non trasmetteva granché, nonera in grado di spiegare la propria arte».

La morte è l’ultimo capitolo dell’oscuro e fascino-so romanzo della Callas: «Nessun mistero, nessunavvelenamento: Maria è morta di dolore», sostieneGiovanna. «Soffriva di pressione bassa, prendevatranquillanti per dormire che le buttavano giù lapressione e la mattina doveva tirarsi su con i tonici.Ma ciò che l’ha uccisa veramente è la sua infelicità.Lei, che dalla vita aveva avuto tutto, nel giro di cin-que anni perse ogni cosa: voce, amori, gloria. Primaera celebre e popolare come Audrey Hepburn o AvaGardner, poi entrava nei ristoranti di Parigi e non lariconosceva quasi più nessuno. Era confusa, deso-lata, priva di riferimenti. È morta perché non avevapiù alcun motivo per stare al mondo».

LEONETTA BENTIVOGLIO

“Con Onassisnon poteva

parlare di musicaperché lui

non ne sapeva nulla”

L’INIZIATIVAÈ in edicola da venerdìcon Repubblica e L’Espressoil secondo dei sei cd delle arie più belle di Maria Callas. Su Repubblica TVlo speciale dedicato alla Divina

I DOCUMENTI

In alto a destra, tre documenti ineditidella carriera di Maria CallasDall’alto: contratto col Teatro Comunaledi Firenze del 5 novembre 1948:è la prima Norma di Maria; contrattocol Teatro La Fenice di Venezia (1947);telegramma dell’Aga Khandel 22 novembre 1958: “Sei più divinache mai”. Saranno tra i moltissimi raricimeli messi all’asta da Sotheby’sa Milano il 12 dicembre a Palazzo Broggi

LE FOTO

Le foto inedite che illustrano la pagina(tranne quella grande al centro)provengono dall’album personaledi Giovanna Lomazzi. Nella colonnadi sinistra: festa di San Giovanni, il 24giugno 1956, a Salice Terme (Pavia)nella villa di famiglia dei LomazziNel tondo a centro paginae nella colonna di destra, vacanzaa Ischia nel luglio 1956: GiovannaLomazzi è sdraiata accanto alla Callasnella penultima foto; nell’ultima, Mariale spalma la crema solare sulla schiena

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

ERIC-EMMANUEL SCHMITT

L’ammirazione dello scrittore francese per la grande soprano

Nella sua voce cantavano anche i silenzi

Quando si parla della Callas, niente è carino, tutto è bel-lo. Passate oltre, cultori di voci angeliche, estimatori ditimbri luminosi e suoni zuccherini! Andate a mettere in

funzione altrove il vostro orecchio edonista che cerca solo vi-brazioni opulente, incantatrici, adulatorie! Qui non trovere-te che passione, furore, sgomento, entusiasmo, humour, so-litudine, estasi e agonia. Ascoltando la Callas proverete tur-bamento, fastidio, disturbo, talvolta vi sentiretestremati, spesso rinvigoriti, ma non vi scontreretemai con la noia né con l’indifferenza.

Maria Callas sembra uscita dritta dritta da una trage-dia greca. La voce non le viene fuori dalla bocca, ma dal-la pancia. Intensa, imperiosa, potente, perentoria, laCallas fa suoi i sentimenti, incarna i drammi. Mai cercadi schivare, mai prova a imbrogliare. Se la cantante re-sta in piedi, l’attrice si rotola per terra.

Siamo tutti d’accordo nel riconoscere alla Callasun’estensione di voce eccezionalmente lunga, la ricor-diamo musicista più che scrupolosa, ma se si parla an-cora di lei non è in quanto fenomeno vocale — ce ne so-no altri — bensì in quanto fenomeno drammatico. Inlei, canto e musicalità si limitano a essere dei presupposti messial servizio del teatro; la Callas è, prima di tutto e in fondo a tutto,un’attrice che recita la situazione, proietta i sentimenti, e per farciò si serve di tutti i mezzi a sua disposizione: usa le parole — di-zione eccezionale — , le frasi musicali, le accelerazioni, i ritardi,colora il proprio timbro, varia il volume della voce, si fonde nel-l’orchestra o decide di tirarsene fuori.

Persino i suoi silenzi hanno un senso: è così completamen-te calata in quello che fa che mi ha sempre dato l’impressio-

ne di essere l’unica cantante che canta anche i silenzi.Le registrazioni non deludono le aspettative. Certo, manca la

sua figura fisica, ma è talmente fonogenica che è come se ci fos-se. Il disco non fa in tempo a iniziare, che la sua voce entra nellastanza e si impadronisce della nostra attenzione. Poche vocihanno altrettanta presenza. È un mistero, la presenza! Che sitratti di una voce o di un corpo, è un dono, una grazia inspiega-

bile... La Callas l’ha ricevuto.Maria Callas ha la capacità di proiettare tutta

un’anima in un suono. Aprendo la bocca, alza il si-pario sul proprio teatro: uno spettacolo dove l’uma-no vive, ama e soffre con intensità. Impossibileascoltarla in sottofondo o come “musica d’arreda-mento”, perché all’istante stesso che attraverso glialtoparlanti irrompe nei nostri salotti vi impone ilsuo clima, le sue tempeste, i suoi uragani. C’è, c’ècompletamente. C’è solo lei.

Io non la ascolto sempre. Non ce la faccio. È trop-po avvincente, troppo possessiva. Certe volte, neisuoi confronti, mi sento come Onassis: non riesco astarle dietro giorno per giorno, ho bisogno di la-

sciarla e di ritrovarla, sento la necessità di incontri distacca-ti, di una certa intermittenza... Però torno sempre da lei.

Traduzione Aberto Bracci Testasecca(© 2007 Edizioni e/o)

Il brano è tratto dal libro “La rivale” (Edizioni e/o, 72 pagine,8 euro) in libreria da domani. Tra i libri di Eric-Emmanuel

Shmitt, pubblicati da e/o, “Monsieur Ibrahim e i fioridel Corano”, “La parte dell’altro”,

“La mia storia con Mozart”, “Quando ero un’opera d’arte”

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il fattoLaw and order

I sindaci delle grandi città italiane, alle prese con i crescentiproblemi della sicurezza, citano sempre più spessocome modello Rudolph Giuliani, che governò New Yorkdal 1994 al 2001, riducendovi drasticamente la criminalitàMa a rivisitare quell’esperienza si scopre che la vera strategiaadottata da “Rudy” non fu quella che oggi si crede...

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

Tolleranza zero, mito metropolitanoALEXANDER STILLE Tendenze nazionali

come l’enormeaumento del numerodi detenuti hannomolta più influenzadelle scelte locali,sostengono gli esperti

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che arrestare gli immigrati che vendo-no profumi nelle piazze ridurrà la per-centuale dei furti e degli omicidi in Ita-lia, è bene distinguere il mito dallarealtà e capire cosa è successo esatta-mente a New York e negli Usa.

Un dibattito serio deve necessaria-mente partire dalla constatazione cheil calo dei reati rientra in un contestopiù ampio in cui New York, le strategiedi polizia e Rudy Giuliani hanno unruolo minore. Stando ai dati del dipar-timento della Giustizia Usa, tra il 1993e il 2001 si è registrato un calo di più del60 per cento dei reati violenti di ognigenere. In quello stesso periodo i furtisono diminuiti del 67 per cento. Lapercentuale delle morti violente è sce-sa a livello nazionale di circa il 40 percento, da dieci su centomila a circa seisu centomila, tornando a livelli chenon si registravano negli Usa dagli an-ni Sessanta.

È chiaro che negli Stati Uniti era in at-to un enorme cambiamento, di dimen-sioni ben superiori ai fatti di New York,dei quali è in gran parte responsabile. Alivello nazionale il 1993, anno in cui fueletto Giuliani, segnò l’apice di inci-denza per molti reati mentre il 2000 e il2001, ultimi anni dell’era Giuliani, neregistrarono il minimo storico. Giulia-ni ebbe quindi la grande fortuna di es-sere sindaco in un periodo di otto anniin cui la criminalità in tutti gli Stati Uni-ti subì uno dei maggiori cali mai regi-

della Northeastern University, «sem-plicemente perché sono diminuiti deldieci per cento i giovani di sesso ma-schile, responsabili della maggior par-te dei reati violenti».

Un altro importante fattore, a giudi-zio di Alfred Blumstein, esimio crimi-nologo della Carnegie Mellon Univer-sity di Pittsburgh, è la devastante diffu-sione del consumo di crack che scon-volse le città americane in quegli anni:«L’aumento degli omicidi registratonegli anni Ottanta era ampiamente im-putabile a giovani armati, in gran parteafroamericani, coinvolti nel mercatodel crack». Il crack, un derivato della co-caina, creava forte dipendenza e i con-sumatori erano particolarmente vio-lenti. I giovani spacciatori erano inva-riabilmente armati e le dispute sul con-trollo del territorio, la droga e il denarosfociavano frequentemente in violen-za. «Nel 1993 iniziarono a diffondersivoci sulla pericolosità del crack e la do-manda crollò. I ragazzi non giravanopiù per strada armati. Si registrò un co-stante calo degli arresti per possesso il-legale di armi. In parte esso fu dovutoall’enorme sviluppo economico deglianni Novanta, che offrì ad alcuni diquesti giovani occupazioni lecite, e inparte allo straordinario numero di car-cerazioni».

Gli anni Settanta e Ottanta — nono-stante una reputazione “lassista” —hanno visto una politica sempre più re-

pressiva. Il numero degli americanidietro le sbarre è passato dai circa 600mila dei primi anni Settanta ai 2,2 mi-lioni odierni, una popolazione pari aquella di una metropoli. «È improbabi-le che impennate e crolli dei tassi di cri-minalità di questa portata siano ricon-ducibili a un unico fattore», dice Fox.«Questo non significa però negare ilruolo di una strategia di ordine pubbli-co intelligente».

George Kelling, criminologo dellaRutgers University, considerato unodei padri delle strategie newyorkesicontro il crimine, afferma che il meritodel maggior calo della criminalità regi-strato a New York rispetto alla maggio-ranza delle altre città continua a essereattribuibile alla strategia di ordine pub-blico adottata. «Se si cerca un fattore Xche spieghi la discrepanza, a mio avvi-so va individuato in una buona gestio-ne dell’ordine pubblico».

Kelling, a suo tempo consulente diWilliam Bratton, nominato sovrinten-dente della polizia di NY City quandoGiuliani divenne sindaco nel 1993, ri-badisce che quanto accaduto a NewYork ha poco o nulla a che fare con la“tolleranza zero”. «Né Giuliani, né il so-vrintendente Bratton, né io abbiamomai usato il termine “tolleranza zero”,dice Kelling. «”Tolleranza zero”, vale adire pugno di ferro per tutti i reati mi-nori ovunque, implica fanatismo. E noisiamo sempre stati convinti che una

strati. Ma facendo della lotta alla crimi-ne il marchio della sua amministrazio-ne, Giuliani poté assumersi il merito diquello che in massima parte si configu-ra come un trend storico nazionale.

Si reputa che tendenze nazionali suvasta scala come l’invecchiamentodella popolazione americana, l’altale-na nel consumo di crack, la riduzionedelle nascite indesiderate tramite l’in-troduzione dell’aborto (stando a unateoria), il triplicarsi del numero di de-tenuti, abbiano pesato di più nel calodei reati rispetto alle strategie di poli-zia. «Il solo sviluppo demografico inci-de per il dieci per cento», dice JamesAlan Fox, professore di criminologia

NEW YORK

Chi ha soggiornato a NewYork tra la fine degli anniOttanta e i primi anni No-vanta, della città ricorderà

forse le notti lacerate dal suono degli al-larmi delle auto, le fiale di crack nei par-chi, le scritte nella metropolitana e i piùdi duemila morti ammazzati ogni an-no. Tornando a quindici anni di distan-za trova una città dall’aspetto radical-mente trasformato: le prostitute e ipeep show sono spariti da Times Squa-re, le metropolitane sono in genere pu-lite e in buono stato, i parchi sono gre-miti a qualunque ora e gli omicidi —nonché la maggioranza degli altri reati— sono calati del 70 per cento, a livellimai registrati dai primi anni Sessanta.

Agli occhi dei visitatori stranieri, NewYork — spesso principale o unica tappadel loro viaggio negli Usa — è un mo-dello allettante di trasformazione so-ciale. Sanno che Rudolph Giuliani è sta-to sindaco per gran parte degli anni No-vanta e suppongono che la radicale tra-sformazione di New York sia da ricon-durre a lui e alla tesi della cosiddetta“tolleranza zero”, un’impressione cheGiuliani, oggi in corsa per le presiden-ziali, non ha fatto nulla per scoraggiare.

Ma prima di fare della “tolleranza ze-ro” un mantra nazionale, pensando

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

In una collettività il disordine e la criminalità sono in genere inestricabilmen-te collegati, in una sorta di spirale ascendente. Psicologi sociali e agenti di po-lizia sono tendenzialmente concordi nell’affermare che se in un palazzo viene

rotto il vetro di una finestra e non si provvede alla riparazione, ben presto tutte lealtre finestre verranno infrante. Questo nei bei quartieri come in quelli degrada-ti. Il fatto che gli atti di vandalismo si verifichino su larga scala in determinate zo-ne non dipende dall’indole degli abitanti. È che una finestra rotta non riparata in-dica incuria, così romperne altre non comporta niente. (Ed è sempre stato un di-vertimento).

Philip Zimbardo, psicologo di Stanford, nel 1969 pubblicò il risultato di alcuni esperi-menti di verifica della “teoria dei vetri rotti”. Fece parcheggiare un’automobile senza tar-ga, col cofano aperto in una strada del Bronx, e un’automobile analoga in una via di Pa-lo Alto, in California. La macchina nel Bronx subì l’assalto dei “vandali” nel giro di dieciminuti. La prima ad arrivare fu una famiglia — madre, padre e un figlio piccolo — che siportarono via il radiatore e la batteria. Tempo ventiquattrore e in pratica tutte le com-ponenti di valore erano state estratte dall’auto. Iniziò poi la demolizione casuale, fine-strini infranti, componenti fatte a pezzi, tappezzeria strappata. I bambini iniziarono adusare l’auto come parco giochi. La maggioranza dei “vandali” adulti erano bianchi benvestiti, dall’aspetto per bene. La macchina a Palo Alto restò intatta per più di una setti-mana. Poi Zimbardo ne fracassò una parte con una mazza da fabbro. Presto i passantilo imitarono. Nel giro di poche ore l’auto era stata ribaltata e completamente distrutta.Di nuovo i “vandali” erano all’apparenza prevalentemente bianchi rispettabili.

I beni incustoditi diventano bersaglio di gente in cerca di svago o di bottino e anchedi persone che normalmente non si sognerebbero di fare cose del genere e che proba-bilmente si considerano ligi alla legge. Date le caratteristiche della collettività del Bronx,la vita anonima, la frequenza di abbandono delle auto, di furti e distruzioni, le espe-rienze passate di incuria e indifferenza, il vandalismo inizia ben prima che nella com-passata Palo Alto, dove la gente sa che i beni privati sono custoditi e che il comporta-mento indisciplinato costa caro. Ma il vandalismo può verificarsi ovunque una voltache le barriere collettive — il senso di rispetto reciproco e i doveri di civiltà — vengonoabbassate da atti interpretabili come segnale di incuria.

La nostra tesi è che il comportamento “trascurato” porta anche alla distruzio-ne degli strumenti di controllo collettivi. La popolazione stabile di un quartierecomposta da famiglie che curano le loro case, badano ai bambini del vicinato, eguardano con sospetto gli estranei indesiderati si può trasformare in pochi annio addirittura in pochi mesi in una giungla spaventosa e inospitale. Una proprietàviene abbandonata, il terreno invaso dalle erbacce, una finestra spaccata. Gliadulti smettono di rimproverare i bambini chiassosi, e i bambini si sentono inco-raggiati a fare ancora più chiasso. Le famiglie traslocano altrove e nel quartiere sitrasferiscono adulti senza legami. Gli adolescenti si radunano davanti al negozioall’angolo. Il commerciante li invita a sloggiare. Rifiutano. Scoppiano risse. Laspazzatura si accumula. La gente inizia a bere davanti al negozio. Col tempo unubriaco si accascia sul marciapiedi e lo lasciano dormire lì. Mendicanti abborda-no i passanti.

A questo punto non è detto che nel quartiere prosperi la criminalità grave o si ve-rifichino violenze sugli estranei, ma molti residenti penseranno che la criminalità,soprattutto il crimine violento, sia in aumento e modificheranno il loro comporta-mento di conseguenza. Limiteranno la frequenza delle uscite in strada e, nel caso, siterranno in disparte, distoglieranno lo sguardo, bocca chiusa e passo spedito. “Nonti impicciare”. Per alcuni residenti questa crescente atomizzazione avrà scarso pe-so, perché il quartiere non è “casa loro” ma “dove abitano”. I loro interessi sono al-trove, sono dei cosmopoliti. Ma conterà moltissimo per la vita di altri che trae signi-ficato e appagamento dai legami con la realtà locale più che con il resto del mondo.Per loro il quartiere cesserà di esistere, fatta eccezione per quel paio di amici affida-bili che faranno in modo di frequentare. Un quartiere simile è vulnerabile all’inva-sione da parte della criminalità.

Traduzione di Emilia Benghi(Da “Broken Windows”, pubblicato sulla rivista “Atlantic Monthly”

del marzo 1982)

La teoria dei vetri rottiIl saggio che ha ispirato la politica dello “sceriffo”

JAMES WILSON e GEORGE KELLING

Il cambiamentopiù importanteintrodottonegli anni Novantadalla polizia di N.Y.City fu il sistema“Compstat”

IN AZIONEQui accanto,un barbone in una viadi New YorkIn basso a sinistra,Rudolph Giulianiquando era sindacodella città. Nelle altrefoto, la poliziadi New York in azione

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valida gestione dell’ordine pubblicoimplica prudenza, senno, e capacità divalutare il contesto».

La “tolleranza zero”, spiega il profes-sor Fox della Northeastern University,«rimanda a una politica di rigida re-pressione su ogni manifestazione diuna problematica. È questo l’uso che sene fa ad esempio nelle scuole, dove conl’intento di stroncare il possesso di ar-mi, rischia la sospensione anche chiporta in classe una pistola giocattolo. Oin aeroporto, dove basta una battutaper essere arrestati con l’accusa di pro-gettare un dirottamento. Questa è la“tolleranza zero”».

La strategia messa in atto a NewYork è un’altra, collegata alla teoriacosiddetta dei “vetri rotti”. In un fa-moso saggio pubblicato nel 1982 (dicui diamo pubblichiamo un estrattoin questa pagina, ndr) il professor Kel-ler e James Wilson sostenevano chevarie forme di turbativa dell’ordinepubblico e di trascuratezza — vetrirotti, marciapiedi sporchi, scritte suimuri, consumo di alcolici in pubblico— erano un segnale di incoraggia-mento per il vandalismo e altre, piùgravi forme di criminalità.

La teoria dei “vetri rotti” si differen-zia fondamentalmente dalla “tolleran-za zero”, dice Kelling, in quanto la pri-ma è estremamente flessibile, mentrela seconda è molto rigida. «Parte del-l’approccio ispirato alla teoria dei “ve-

tri rotti” consisteva nel dare ai poliziot-ti operanti nel quartiere grande discre-zionalità di azione». Agli occhi di unagente l’abitudine di radunarsi in stra-da ad ascoltare musica ad alto volumepoteva rendere più sicuro il quartierefavorendo la coesione sociale, mentrein altri casi poteva apparire pericolosoe antisociale. «Se reprimi costante-mente ogni iniziativa, in certi quartieripoveri ad alta densità di criminalità gliabitanti possono sentirsi perseguitati esi può ottenere l’effetto contrario», di-ce il professor Fox.

Spesso la “tolleranza zero” è statachiamata in causa a sostegno di un pe-sante giro di vite su tutte le forme diconsumo occasionale di droga e dellapolitica di arrestare tutti i consumatoriinvece di incoraggiarli a disintossicar-si. «Nancy Reagan promosse l’idea di“dire no” alla droga e negli anni Ottan-ta furono tagliati tutti i finanziamentiper le terapie disintossicanti aggravan-do notevolmente il problema», diceMichael Massing, autore di un saggiosulla droga dal titolo The Fix (Il buco).

Nel 1990, David Dinkins, predeces-sore di Giuliani nell’incarico di sindacodi New York, nominò Bratton respon-sabile della polizia stradale, cui è affi-data la sicurezza del vasto sistema ditrasporto sotterraneo urbano. Bratton,a sua volta, incaricò il professor Kellingdi applicare la teoria dei “vetri rotti” inquesto problematico settore. «Benché

in termini di criminalità». Ma persino Kelling non esita ad am-

mettere che la politica ispirata alla teo-ria dei “vetri rotti” e persino le strategiedi ordine pubblico in genere rappresen-tano solo un fattore concomitante. Inrealtà la maggioranza delle innovazioniintrodotte durante l’era Bratton-Giulia-ni non aveva nulla a che fare né con lateoria dei “vetri rotti” né con la “tolle-ranza zero”. Il cambiamento più impor-tante apportato da Bratton al Diparti-mento di polizia di New York City consi-ste in un sistema chiamato Compstat,abbreviazione di Computer Statistics. Ildipartimento utilizzava i computer peranalizzare le tendenze della criminalitàin modo da poter concentrare risorse inaree a forte incidenza di reati. I respon-sabili dei commissariati di queste zonedovevano presentare un programmadettagliato di iniziative per affrontare ilproblema. «Il semplice fatto di incarica-re i capitani di polizia di illustrare il pro-prio operato e di ritenerli responsabilidella criminalità nelle zone di compe-tenza potrebbe aver avuto un peso mag-giore dell’uso dei computer».

Mentre esiste unanime consensosull’importanza di una valida strategiadi ordine pubblico, molti criminologidubitano che la teoria dei “vetri rotti” epersino il Compstat abbiano avuto unruolo decisivo nel calo della criminalitàregistrato negli anni Novanta. «I reatihanno subito il calo più drastico nelle

città dove avevano registrato un’im-pennata nel decennio precedente», di-ce il professor Fox. «In criminologia va-le una sorta di legge di gravità di New-ton, quello che sale, scende».

«La tesi secondo cui la strategia ispi-rata alla teoria dei “vetri rotti” ha con-tribuito alla netta diminuzione dei rea-ti nel corso degli anni Novanta è scarsa-mente documentata», scrivono Ber-nard E. Harcourt e Jens Ludwig in unarecente pubblicazione sul fenomeno.«Mantenere il decoro urbano e la quie-te pubblica può avere valide ragioni so-ciali ma non è detto che sia di grandeaiuto per i reati gravi», dice Blumstein.Dall’esperienza newyorkese si possonotrarre degli insegnamenti, ma non sonoquelli normalmente sbandierati. Nonesiste una soluzione unica alla crimina-lità. Le tendenze sociali che si manife-stano su larga scala sono più importan-ti della politica del governo. Le soluzio-ni vecchio stampo, tipo “poliziotti instrada, delinquenti in cella”, possonoinfluire sulla diminuzione dei reati inmisura pari alle soluzioni nuove. Ripa-rare le finestre rotte e sbarazzarsi dellescritte potrà forse rendere più gradevo-le l’aspetto delle città, ma non è dettoche le renda molto più sicure. Delle stra-tegie di ordine pubblico attuate a NewYork (e altrove) alcune meritano di es-sere approfondite, ma la “tolleranza ze-ro” non rientra in quel novero.

Traduzione di Emilia Benghi

nel sistema sotterraneo non si regi-strassero alti livelli di criminalità»,spiega Kelly, «le metropolitane eranosporche, caotiche e inquietanti e il nu-mero dei passeggeri in forte calo». Sot-to Bratton la municipalità di New Yorkdiede avvio a una campagna di lotta suvasta scala alle scritte nella metropoli-tana, acquistando nuove vetture resi-stenti ai graffiti e ripulendole non ap-pena imbrattate. Usarono il pugno diferro anche contro chi entrava nellametropolitana senza biglietto scaval-cando i tornelli. «Scoprimmo che unosu dieci aveva commesso un qualchereato più grave, quindi l’iniziativa eb-be anche un impatto positivo indiretto

Repubblica Nazionale

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«Tra le 10.10 e le 10.15non si spara più sututto il fronte delGianicolo meno chea Porta S.Pancraziodove si combatte

ancora perché qui non è giunto alcunordine di cessare il fuoco. Alle 10.15 ilcapitano Roversi, che sta difendendocon tenacia la postazione al coman-do di due compagnie pontificie, vedearrivare a spron battuto un dragone acavallo diretto verso di lui in una nu-vola di polvere. Il soldato gli conse-gna un biglietto firmato dal coman-dante del settore, dove è scritto: “Al-zi bandiera bianca”. Già, ma doveprenderla, dove recuperare una ban-diera bianca? Nessuno ce l’ha. Rover-si non sa come obbedire a quell’ordi-ne…».

Il dragone a cavallo che arriva inuna nuvola di polvere, una bandierabianca che non si trova… Sembra distare in un film di Monicelli. E inveceno, stiamo nella storia. In una paginaimportante della nostra storia. Sonoinfatti le 10.15 del 20 settembre 1870,e mentre il capitano Roversi si affan-na a cercare qualcosa che assomigliad una bandiera bianca i primi bersa-glieri attraversano di corsa, in unanuvola di polvere e di confusione, labreccia di Porta Pia, ed entrano a Ro-ma finalmente capitale d’Italia.

Antonio Di Pierro ricostruisce conla documentazione e l’intelligenzadello storico unite allo scrupolo delgrande cronista “l’ultimo giorno delPapa Re”. Una giornata che comincianella notte tra il 19 e il 20 settembre,quando le tre divisioni al comandodel generale Cadorna si dispongonofinalmente attorno alle porte dellacittà, e si conclude alla mezzanottesuccessiva, con i romani in festa, gliufficiali piemontesi che occupano ilcaffè Giglio, sul Corso, e lo ribattez-zano Caffè Cavour, Edmondo DeAmicis che, con l’amico Ugo Pesci,riesce a saltare su una “botticella” efarsi portare fino al Colosseo, mentrea S.Pietro, ammassati sulla piazza, glisconfitti cantano in coro l’Inno a Pio

IX. E sulla cupola sventola ancora labandiera bianca.

L’esito dello scontro tra i 50.000piemontesi e i 10.000 uomini al servi-zio del Papa si poteva considerarescontato. Giocava a favore dell’Italianon solo la sproporzione delle forzema soprattutto la favorevole situa-zione internazionale: Napoleone III,gran protettore di Pio IX, è già statosconfitto a Sedan e a Parigi sta per es-sere proclamata la Repubblica. Pio IXnon ha più sostenitori. Ma, nono-stante le condizioni favorevoli sulpiano militare come su quello politi-co, nel campo dei piemontesi domi-nano l’incertezza e la confusione.Non si capisce, come racconta senzaindulgenze Di Pierro, chi comandadavvero, a chi spetta prendere le de-cisioni politiche e quelle logistiche. Ilministro della Guerra pretende di de-cidere da Firenze, sede del governo,la dislocazione delle truppe e l’itine-rario da seguire per arrivare sotto lemura di Roma: se dalla riva sinistradel Tevere, o dalla destra... Il genera-le Cadorna ha sull’argomento le sueopinioni, le prospetta al ministro maalla fine non può che subirne la deci-sione. E, disciplinatamente, glielocomunica. Ma il giorno dopo il mini-stro ci ripensa, cambia la decisionegià presa, convoca il generale a Fi-renze, e quando quello arriva poi nonlo riceve…

Anche qui insomma sembra di sta-re in un film di Monicelli anziché nel-la storia. La verità è che il ministrodella Guerra sta diventando matto eche dunque va sostituito. Intanto ilRe, prima di dare il via all’operazionemilitare, vuole fare un ultimo tentati-vo di composizione diplomatica. DaFirenze parte dunque un autorevo-lissimo messaggero che consegneràal Pontefice una lettera con la qualeVittorio Emanuele «con affetto di fi-glio, con fede di cattolico, con animodi italiano» chiede che le sue truppepossano entrare pacificamente incittà. Il Papa, durissimo, liquida ilmesso del Re con queste parole: «Ionon sono profeta, né figlio di profetama in verità vi dico che non entreretein Roma».

Fallita la composizione diplomati-ca e insediatosi il nuovo ministro del-la Guerra, il piano militare può final-mente partire. Domenica 11 settem-bre dunque le truppe italiane muo-vono verso i confini dello Stato pon-tificio. Ma permane, insanabile, ilcontrasto tra il generale Cadorna e ilnuovo ministro della Guerra: il pro-blema è sempre lo stesso, se si debbaentrare a Roma dalla parte destra delTevere (dove imperversa la malaria)o dalla parte sinistra (dove mancanosufficienti punti di approvvigiona-mento). E quando finalmente l’ar-mata italiana arriva in vista dellacittà, il ministro ordina a Cadorna difermarsi e di mandare un messo a Ro-ma per chiedere il libero ingressodelle truppe, e intanto di predisporreil passaggio del Tevere dalla riva de-stra alla riva sinistra. La missione dipace non ha successo. Ha più succes-so, per fortuna, il passaggio delletruppe dalla riva destra a quella sini-stra del Tevere, su un ponte di barcheall’altezza di Grottarossa. Esaurito ilnuovo tentativo di conciliazione,l’ultima parola passa finalmente aCadorna. È la notte tra il 19 e il 20 set-tembre.

Se grande è la confusione nel cam-po dei piemontesi, non minore è laconfusione in Vaticano. E grandel’incertezza sul da farsi. Bisogneràprevedere una resistenza puramentesimbolica, sufficiente per certificaredi fronte all’Europa che il sommopontefice è stato vittima di una ag-gressione? O invece sarà più oppor-tuno resistere presidiando l’interoStato pontificio? E se fosse meglioconcentrare le esigue truppe pontifi-cie dentro Roma? E anche in Vatica-no non si sa bene chi comanda. Se ilcardinal Antonelli, segretario di Sta-to, o il capo di Stato Maggiore Fortu-

“In verità vi dico chenon entreretein Roma”, rispondePio IX al messoinviato da re Vittorio

nato Rivalta, o il generale HermannKanzler proministro delle armi e co-mandante supremo dell’esercitopontificio. Tutto il mese di agostopasserà dunque, racconta il nostrostorico, tra allarmi, rassicurazioni edecisioni contrastanti. Il clima cam-bia quando si saprà che uno dei ge-nerali piemontesi, posto al comandodei reparti che si stanno formando aOrvieto, si chiama Nino Bixio, un exvolontario garibaldino che ha giàcombattuto contro il Papa, uno deiprotagonisti della Repubblica roma-na del 1849.

Il 6 settembre l’ufficiale Giornale diRoma riporterà dettagliatamente lanotizia della battaglia di Sedan. Finoad allora solo gli ambienti di corte ealcuni gruppi di aristocratici legatialle ambasciate straniere sapevanodella sconfitta di Napoleone III e del-la proclamazione della Repubblica. Il7 settembre il generale Kanzler va acolloquio dal Papa per aggiornarlosulla situazione e subito dopo chia-ma a rapporto tutti gli ufficiali re-sponsabili della difesa di Roma. Il 12settembre su tutte le cantonate vieneaffisso un proclama del generaleKanzler che dichiara lo stato d’asse-dio. Cinque giorni dopo vengonochiuse e protette le porte della città,dalle quali passavano d’abitudineogni mattina all’alba i vetturali cheportavano ai romani vino verdurafrutta e notizie fresche sugli sposta-menti delle truppe piemontesi. Suipalazzi abitati dal corpo diplomaticovengono issate le bandiere dei rispet-tivi Stati. Chi aveva una terrazza invi-tava gli amici a cena, per avvistarecon un binocolo nell’ora del tramon-to le truppe italiane.

Eppure in Vaticano non tutti anco-ra sono convinti dell’imminenza del-l’attacco. «La Roma di certi salotti»,scrive Di Pierro, «ancora fino a pocheore dal 20 settembre era come im-bambolata, quasi non volesse conostinazione guardare la realtà… AlPalazzo della Consulta, i cardinaligiocano alla calabresella quandomancano ormai poche ore all’attac-co».

L’attacco scatterà la mattina del20, all’alba. Per la precisione alle5.15. Ma i primi a sparare, cinque mi-nuti prima, sono gli uomini della fu-cileria papalina. E la prima vittima

la memoriaStato e Chiesa

Il giorno della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870,data cruciale della nostra storia patria, fu segnatodalla massima confusione e incertezza nei due campi,quello sabaudo e quello pontificio. Caos, inazione,divergenze tattiche, ordini che non arrivavanoUn nuovo libro ricostruisce nel dettaglio quelle ore fatali

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L’ultimo giorno del Papa ReMIRIAM MAFAI

IL LIBRO

Mondadori manda nelle libreriemartedì 18 settembre, due giorni primadell’anniversario della brecciadi Porta Pia, L’ultimo giorno del Papa Redi Antonio Di Pierro (288 pagine,18 euro). Di Pierro ha pubblicatonel 2002, sempre per Mondadori,Il sacco di Roma, ricostruzionedella calata dei lanzichenecchi nel 1527

Repubblica Nazionale

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della giornata è un artigliere italiano,il caporale Michele Plazzoli. Poi co-mincia la battaglia. Il fronte princi-pale, racconta il nostro cronista, èquello tra Porta Pia e Porta Salara(l’attuale Porta Pinciana), ma si spa-ra anche ai Tre Archi, sul fronte diPorta S.Giovanni, e più a sud, versoPorta Latina e Porta S.Sebastiano.Sulla riva destra del Tevere il genera-le Nino Bixio sta schierando le suetruppe che dopo aver percorso Viadella Nocetta puntano su S.Pancra-zio e sul Gianicolo. I primi a sparare,anche qui, sono gli artiglieri pontifi-ci. Ma le batterie di Bixio rispondono,colpo su colpo.

Pio IX dalle 5 del mattino è chiusonel suo studio privato. «Non c’è biso-gno che qualcuno gli porti la notiziaufficiale che si è cominciato a com-battere sotto le sue finestre. La catti-va novella viaggia alla velocità delsuono con le cannonate che fannotremare non solo i vetri della suastanza, ma tutte le pareti, il pavimen-to, la sua scrivania. Anche il cuore delSanto Padre è in tumulto. Il generalegaribaldino, nemico dichiarato dellaChiesa di Roma, ha cominciato il suoattacco frontale… Il bombardamen-to acquista una tale intensità e pro-duce un fragore così forte da essereudito distintamente dall’altra partedella città, fino a S.Maria Maggiore…In Vaticano intanto è un via vai frene-tico di prelati, di dignitari, militari,inservienti, impiegati, ambasciato-ri… Le stanze e i punti strategici deipalazzi vaticani brulicano di soldati eufficiali che per compito istituziona-le sono destinati alla difesa della per-sona del pontefice… Intanto si sonofatte le 7 e il papa non sa ancora, do-po quasi due ore di combattimento,qual è il quadro della situazione»

La battaglia infuria attorno a PortaPia, ai Tre Archi, a S.Giovanni, a Por-ta S.Sebastiano, a Villa Pamphili, alCasino dei Quattro Venti. Dovrannopassare ancora alcune ore prima chein Vaticano si decida di alzare ban-diera bianca. Nessuno è sceso incampo per difenderlo. Nemmeno legrandi famiglie. «Il principe Doria,osserva con amarezza il Pontefice, haalzato sul suo palazzo una bandierainglese, nella speranza di essere ri-sparmiato da un eventuale assaltodelle truppe italiane». Alle 9.40, dopo

essersi consultato con il cardinal An-tonelli, Pio IX decide che è giunto ilmomento della resa e ordina di far in-nalzare una bandiera bianca sullacupola di S.Pietro.

Ma naturalmente gli scontri conti-nuano. «Tutta l’area che va da PortaSalara alla Breccia», racconta il no-stro cronista, «è ormai una enormepiazza d’armi, un carnaio, un bruli-care di soldati che avanzano a spin-toni e gomitate, tra urla, imprecazio-ni, spari. La confusione è al massimolivello. La colonna italiana di destra,partita all’assalto della breccia daVilla Albani, si è scontrata con la co-lonna centrale uscita da villa Falza-cappa, diretta verso il medesimoobiettivo… Un numero troppo alto disoldati si è trovato nello stesso mo-mento di fronte all’area della brec-cia… Così lungo le mura, alla destra ealla sinistra del varco aperto a canno-nate, si forma una folla di uomini chepreme, ansiosa di conquistare Roma.Un’occasione d’oro per i pontificiche dagli spalti sparano sul mucchiomietendo vittime su vittime…» .

È un carnaio, ma finalmente gli uo-mini di Cadorna e del Re entrano nel-la città che dovrà essere la capitaled’Italia. Ed è, per questi primi solda-ti italiani una profonda delusione.Dove sono le fontane, le piazze, lestatue, i monumenti di cui hannosentito parlare? Via di Porta Pia è unastrada polverosa di campagna, tra or-ti e vigne, qualche casale diroccato ealte mura e inferriate che nascondo-

no e proteggono le ville. Questa èdunque Roma?

Un giornalista, Vittorio Bersezio,direttore della Gazzetta piemontese,racconta: «Fa impressione vedere ac-cumulati agli angoli delle vie, anchele principali, mucchi enormi di im-mondizie, rottami e tritumi di ognigenere, una miscela di ogni reliquia,d’ogni sconcezza, schifosa alla vista,orribile all’olfatto».

Un altro giornalista, Ugo Pesci, in-viato del Fanfulla di Firenze, segue lafolla entusiasta che, a notte, si è rac-colta su Via del Corso e manifesta perchiedere la liberazione dei detenutipolitici. Alla fine, sfinito, si rifugia nelnuovo Caffè Cavour e qui incontraEdmondo De Amicis, inviato della ri-vista Italia Militare, entrato a Romacon la brigata Bologna. Ormai è not-te, ma nonostante la stanchezza vo-gliono almeno vedere il Colosseo.Riescono a trovare una “botticella”,la tipica carrozza romana. «Il botta-ro», racconta Pesci, «voleva darci perforza delle nozioni archeologichenelle quali la immaginazione supera-va la dottrina. Noi stentavamo a ca-pirlo mentre la botte sobbalzava so-pra le grandi pietre quadrate che la-stricano la Via Sacra. Alla fine abbia-mo visto, in fondo, una gran massanera, enorme, i contorni della qualesi confondevano nella oscurità dellanotte». Non si vedeva altro. Era il Co-losseo.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

LA CRONACA

ORE 3-4Primi allarmidei pontifici:lungo la viaNomentanale truppepiemontesisi dirigonoversola Porta Pia

ORE 15-16La miliziapontificiache presidiavail Campidogliosi arrende. Vieneissato il tricoloree suonatala Marcia realeIntorno è il caos

0RE 17-18A Villa Albanii generali Kanzlere Rivalta firmanola capitolazionedello StatopontificioPer l’Italiafirmano Cadornae Primerano

LA BRECCIAIn basso Carlo Ademollo, La breccia di Porta Pia

(Milano, Museodel Risorgimento / Scala Group)Qui sotto, un ritratto anonimodi Papa Pio IX

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ORE 7-8Pio IX dice messanella cappellaprivata, davantial corpodiplomatico,mentre si odonodistintamentele cannonatedelle truppe di Bixio

ORE 9-10Il Papa ordinache vengainnalzatala bandiera biancasulla cupoladi San PietroI comandantipontifici sonod’accordo

ORE 10-11Romaè conquistata:il bersagliereFederico Cocitoè il primo,alle 10.10,a varcarela breccia apertanelle mura

Il principe Doria abbandona il Vaticanoe issa sul suo palazzola bandiera ingleseper evitare un assalto

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l’immagineStile italiano

La prima bottega-laboratorio dei fratelli Cinzano aprea Torino nel 1757. Il marchio ha resistito e festeggia orail suo primo “quarto di millennio”. Un traguardo legatoalla qualità e alla tradizione, ma anche a una particolaresensibilità per la comunicazione che ne ha fattoun pioniere e un protagonista della storia della pubblicità

Le prime etichetteillustrate nel 1853,la prima inserzionesui giornali nel 1887L’anno dopo il primodi una seriedi splendidi manifestifirmati da Capiello,Dudovich, Crepax...

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

Sono poche le istituzioni eperfino gli Stati che possonovantare un’anzianità di due-centocinquant’anni, cioèun quarto di millennio, diecigenerazioni. A maggior ra-

gione sono rarissime le imprese capacidi arrivare a questo traguardo: sempresoggette come sono a tutti gli imprevistidel mercato, ai mutamenti del gusti edell’economia, alle vicissitudini dellaproprietà, si considerano longeve giàdopo mezzo secolo di vita. L’Italia, checome Stato nel 2011 compirà solo il suocentocinquantesimo anniversario, hauna delle maggiori concentrazionimondiali di aziende storiche, traccia diun percorso di innovazione che è ini-ziato coi Comuni e il Rinascimento. Fraesse arriva quest’anno a festeggiare ilfatidico quarto di millennio una dellemarche più popolari, più autentica-mente italiane e più note nel mondo, laCinzano di Torino.

Era infatti il 6 giugno 1757 quandodue fratelli, Giovanni Giacomo e CarloStefano Cinzano, appartenenti a unafamiglia di vignaioli della collina tori-nese la cui attività è documentata dallametà del Cinquecento, ottennero per laprima volta dalla corte sabauda il di-ploma di maestri distillatori e l’autoriz-zazione ad aprire una bottega labora-torio in via Dora Grossa, oggi via Gari-baldi, proprio nel centro della città adue passi da piazza Castello. Era l’ini-zio di un’avventura industriale digrande successo. I vini e i distilla-ti della famiglia piacevano ai no-bili di una città in piena espan-sione che stava rinnovandosicompletamente sul pianourbanistico ed economico,per diventare il centro diun regno con molte am-bizioni. Nel 1786 i Cin-zano furono nominatifornitori della Real Ca-sa, essendo divenuti imigliori fabbricanti diuna specialità torine-se di vino speziatocon erbe che tutti og-gi conoscono col no-me di vermouth (laparola, a quanto pa-re, viene dal tedescovermud, assenzio).In quel periodo furo-no anche eletti rap-presentanti ufficialidella loro “corpora-zione” o organiz za-zione di categoria, conil compito di stilare i re-golamenti e di control-lare la qualità.

Dopo gli sconvolgi-menti della Rivoluzione

francese, i Cinzano furono incaricatidal re di Sardegna di cercare di emula-re in Piemonte i metodi francesi di fab-bricazione dello champagne, speri-mentandoli nei domini reali di SantoStefano Belbo e Santa Vittoria d’Alba. Èdi qui che ha origine una produzioneitaliana di spumanti radicata fra il terri-torio astigiano e le Langhe, che ancoraha grande successo. A metà dell’Otto-cento incominciava l’espansione all’e-stero del commercio di vini e vermouthdei Cinzano, che arrivò presto in tuttaEuropa, in Sudamerica e perfino inAfrica, teatro delle avventure di un in-credibile personaggio di commessoviaggiatore internazionale, GiuseppeLampiano, che si faceva ritrarre in abi-ti da sceicco o in mezzo alle popolazio-ni tropicali, sempre con una bottiglia inmano. Mentre il successo e la fama delnostro vino erano di là da venire, insie-me a qualche altra casa italiana, comeCampari e Martini, Cinzano stava in-ventando un consumo alcolico e unamerceologia nuova, quella degli aperi-tivi: prodotti più alcolici di un vino nor-male e meno di un distillato,dolci o secchi, da con-sumare da soli om e s c o l a t icon altri

ingredienti in quegli intrugli deliziosiche gli americani avrebbero chiamatococktail.

Al di là dei successi industriali e com-merciali e di un’identità italiana — an-zi torinese — così caratteristica, quelche rende particolarmente interessan-te il compleanno di Cinzano è la suacontinua popolarità, che a sua volta di-pende da una straordinaria sensibilitàche l’azienda ha sempre avuto per lacomunicazione e l’immagine. Le pri-me etichette illustrate e stampate sullabottiglia, con l’immagine delle meda-glie vinte in fiere e concorsi, furonoadottate al posto delle vecchie etichet-te scritte a mano a partire dal 1853: unpasso che oggi nel mondo dei consumiindustriali sembra ovvio ma che sotto-lineava allora l’inizio di un processo ditrasformazione di un’impresa di fami-glia locale e basata sulla vendita direttain ciò che noi oggi conosciamo comeuna marca: un prodotto industriale, diqualità garantita, che chiede la fiduciadei propri clienti sulla base della noto-rietà del suo nome e della sua immagi-

ne, non della conoscenza personale.È un passaggio fondamentale

che la maggior parte delle im-prese europee compie ver-

so la fine del secolo mache Cinzano antici-

pa di parecchidecenni.

I l mo-mento

successivo di questa evoluzione versola marca moderna è la pubblicità. An-che in questo caso a noi sembra del tut-to scontato che un produttore di mercidi largo consumo come spumanti e ver-mouth debba farsi conoscere dai suoiconsumatori usando i mezzi di comu-nicazione; ma la pubblicità sui giorna-li e sulle affissioni arriva abbastanzatardi nella storia industriale europea ein particolare italiana. Cinzano è unodei primi a provarci con un annunciopubblicato su un giornale significativa-mente collocato abbastanza lontanodalla sua base geografica, prova diun’espansione commerciale già avvia-ta. L’8 dicembre 1887, centoventi annifa, usciva sul quotidiano Il Telegrafo diLivorno un annuncio, ovviamente inbianco e nero e senza immagini chepubblicizzava il «Vino Vermouth dellarinomata Casa F. Cinzano».

È l’inizio di un percorso di comuni-cazione che è durato fino a oggi, re-stando negli occhi e nella fantasia diconsumatori non solo italiani. Solo unanno dopo, nel 1888, esce il primo ma-nifesto firmato da Adolf Hohenstein,uno dei fondatori della grafica pubbli-citaria italiana: un dio Pan che suona edanza. I manifesti pubblicitari, splen-didamente illustrati e coloratissimi, fu-rono il mezzo di comunicazione azien-dale principe fino all’avvento della te-levisione, quello in cui investivanomaggiori mezzi e creatività, coinvol-gendo spesso grandi artisti. E Cinzano

UGO VOLLI

Cin Cin, uno spot lungo 250 anni

DONNA CHE BACIA LA BOTTIGLIAG. Magagnoli, 1938

CILINDRO CON BOTTIGLIAG. Magagnoli, 1927

BOTTIGLIE CON BANDIEREL. Cappiello, 1921

LA ZEBRAL. Cappiello, 1910

IL DIO PANA. Hohenstein, 1898

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

li usò con grande ricchezza e abilità. Il-lustratori importanti come LeonettoCapiello, Mario Gross, Marcello Dudo-vich, e molti altri fino ad arrivare a UgoNespolo e Guido Crepax, hanno pro-dotto per Cinzano centinaia di affichesche si possono ora vedere nel museoaziendale di Santa Vittoria d’Alba. Ingenere sono scene allegre, piene di co-lori e di euforia, con una grande figuradi solito femminile, o una coppia, qual-che tralcio di vite o dei grappoli, l’ideadi una festa, il piacere della socialità,un’aria di lusso e di raffinatezza, e l’im-mancabile bottiglia, magari collocatain secondo piano, ma strategicamenteben visibile. Alcuni di questi, come la“Giraffa” di Capiello, sono veri e propricapolavori che hanno oggi un impor-tante mercato antiquario.

Anche gli altri mezzi di comunicazio-ne sono stati usati dalla Cinzano fin dal-l’inizio in maniera sempre molto mo-derna e innovativa. Suo è per esempioil primato di aver usato per la prima vol-ta, a Parigi verso il 1910, la pubblicità lu-minosa col neon. Il mar-chio diffuso in tutto ilmondo con i due campirosso e blu divisi dalladiagonale risale al 1925.

Alla radio, quando questa era il mezzodi comunicazione più moderno, mi-gliaia di annunci ripetevano quel «Cin-cin... Cinzano!» che è rimasto nella tra-dizione nazionale italiana come brin-disi allegro e un po’ infantile. Nel 1949fu prodotta una serie di poster con fotodi Totò costruite secondo uno stile va-

gamente fumettistico o da fotoro-manzo. Un’altra star usata co-

me testimonial è stata RitaPavone che in una serie

di Caroselli degli anniSessanta cantava

«Cin-cin cinzoda /una voglia da

morir». Neglianni Settanta

era invece Joan Collins a cantare «Cin-cin / C’innamoriam».

Secondo una modalità caratteristicadel tempo, Cinzano sponsorizzò ancheun vero e proprio film, girato nel ‘68 conAnthony Quinn, Anna Magnani, VirnaLisi, Giancarlo Giannini. La trama è co-struita sulla rielaborazione fantasticadi un episodio della Resistenza real-mente accaduto: i preziosi depositi dimilioni di bottiglie della Cinzano ne-cessari per la produzione vengono sot-tratti alle razzie dei tedeschi e salvatidalla popolazione di Santa Vittoriad’Alba, nelle Langhe, murando le can-tine. Intorno al salvataggio economicoe politico dell’aperitivo nazionale si in-trecciano episodi romantici e avventu-rosi. A pochi anni dopo, verso l’iniziodegli anni Ottanta, risale una serie dibrevi filmati pubblicitari (oggi direm-mo spot) che ebbero grandissimo suc-cesso internazionale: in ambienti sem-

pre un po’ lussuosi e mondani (un al-bergo alpino, una festa in una casa

elegante, un incontro d’affari conimprenditori giapponesi, la ca-

bina di un aeroplano) si pre-senta un tipo chiacchierone

e un po’ prepotente (Leo-nard Rossiter, interprete

inglese di 2001: Odisseanello spazio, della Pan-tera rosae di Barry Lin-don), che vanta da in-tenditore i meriti delCinzano Bianco, siimpadronisce ma-gari di un bicchierenon suo e lo sor-seggia deliziato,ma poi per unaragione o per l’al-tra finisce per ro-vesciarlo sullacamicetta di setadella sua interlo-cutrice, che èsemp r e J o a nCollins. Airliner,uno di questi fil-mati, è entrato

nella classificadegli spot più fa-

mosi della storiadella pubblicità cu-

rata dalla rivistaBrand Republic.

Il resto è cronaca re-cente. Estinta la fami-

glia, la Cinzano è statacomprata nel 1999 dalla

Campari, storica concor-rente, e insieme a questa

rappresenta oggi nel mondodelle merci una certa immagine

dell’Italia, raffinata e allegra, de-dita al piacere della socialità e capa-

ce di sedurre. I secondi duecentocin-quanta anni sono già iniziati con un’e-dizione limitata di spumante.

IL GRAPPOLOLa donnaadagiatasul grappolo,realizzata nel 1920da Cappiellosintetizza il gustodell’epoca

LE ETICHETTEUna carrellatadi etichetteper i mercatiitaliani ed esteriche ricostruisconola storiadella produzione

DISEGNI E PAROLEManifesti, calendari,bozzetti, schizzi, slogan:nell’archivio Cinzanosi trovano circa 80 miladocumenti, gran partedei quali di tipo iconografico

I TRE CAVALLININ. Edel, 1946

DONNA SOTTO L’OMBRELLONEF. Mosca, 1950

JOLLYP. Monnerat, 1958

GIOVANIG. Crepax, 1967

FA PARTE DI UN UOMOA. Testa, 1972

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Il primo era W. H. Auden, a detta di Brodskij “la più grande mentedel secolo”. Il secondo era Christopher Isherwood, già celebre per il suo“Addio a Berlino”. Nel ’37 due case editrici commissionarono loro un libro

su Cina e Giappone. Partirono armati solo di una macchina fotografica e del loro talentoe si trovarono nel mezzo del conflitto. Scrissero e documentarono tutto quello che viderodando vita a un reportage unico al mondo ora pubblicato in Italia

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Il primo si era equipaggiato come sedovesse partecipare a una spedizio-ne artica: un berretto di lana svizze-ra, un cappotto immenso e informe,ai piedi le usuali «pantofole felpateper lenire i dolori dei calli». Il secon-

do aveva in testa un basco, addosso un ma-glione a collo alto e ai piedi degli stivali daequitazione. Per loro stessa ammissione,sembravano usciti da «uno di quei roman-zi di Jules Verne sulle avventure di strava-ganti esploratori inglesi». I due non eranocerto personaggi qualunque: l’uomo dellepantofole rispondeva al nome di WystanHugh Auden, poeta formidabile, e, a dettadi Josif Brodskij, «la più grande mente delventesimo secolo»; l’uomo degli stivali eraChristopher Isherwood, l’autore di Addio aBerlino e Il signor Norris se ne va.

Nell’estate del 1937 la casa editrice Faberand Faber di Londra e la Random House diNew York avevano commissionato loro un“libro di viaggio” sull’Estremo Oriente:niente di più e niente di meno. Auden eIsherwood avrebbero potuto scegliere lameta e la forma più congeniale per ottem-perare a quel contratto. E tanto la scelta delluogo, quanto il montaggio del volume, ri-sultarono decisamente originali: i due sa-rebbero partiti nel gennaio del‘38 per la Cina, alloranel pieno del conflit-to col Giappone, e alritorno, dopo sei mesi,

avrebbero congegnato un libro (Viaggio inuna guerra), ora ripubblicato da Adelphiper la traduzione di Aurora Ciliberti e LuciaCorradini, nel quale si succedono un grup-po di poesie di Auden sul tema del viaggio,il lungo reportage in prosa di Isherwood, lefotografie di Auden e infine, a chiudere, unasequenza di sonetti dello stesso Auden sul-la guerra.

Insomma, un esemplare unico, che ren-de merito alla magnanima liberalità deglieditori e allo strepitoso talento dei due au-tori. I quali, prima di allora, mai si eranospinti a est di Suez; dunque nulla sapevanodell’immenso territorio cinese e dei suoiabitanti: «Gente arguta e / glabra che comeun cereale ha ereditato queste valli: / il Ta-rim li nutrì; il Tibet fu l’alta rocca protettiva,/ e dove il Fiume Giallo muta corso, appre-sero / a viver bene, per quanto minacciassesovente la rovina».

Tale ignoranza non è affatto celata; alcontrario, viene esplicitamente dichiaratasin dalla premessa, firmata a quattro mani:« N o np a r l a -vamo ilcinese en o n

possedevamo una conoscenza specificadelle questioni estremo-orientali. È quasisuperfluo, dunque, sottolineare che nonpossiamo garantire la precisione di molteaffermazioni contenute in questo libro. Al-cuni dei nostri informatori erano forse inat-tendibili, altri semplicemente cortesi, altriancora possono averci deliberatamentepresi in giro. Ci siamo quindi limitati a regi-strare, nell’interesse del lettore che non siamai stato in Cina, una serie di impressionisu quanto probabilmente avrebbe visto e suquel genere di racconto che probabilmen-te avrebbe udito».

Il fatto però è che per vedere certe cose eudire certi racconti bisogna avere mente ecuore e sensi sempre all’erta; insomma, bi-sogna essere dei veri viaggiatori. Ma primaancora, neanche a dirlo, bisogna essere deigrandi poeti e scrittori per saper riportaresulla pagina scritta esperienze e emozionicon tanta precisione e humour e pietase vi-videzza. Dunque, davvero poco importa seil Viaggio in una guerranon risponderà allecaratteristiche del saggio di orientalistica

scientificamente inappuntabi-le. In cambio, entreremo in unmondo fatto di sapori, odori,suoni, idee e sensazioni permolti versi indimenticabile. Co-munque sempre sorprendente,sempre paradossale.

Comincia Auden, dapprima togliendo laterra sotto l’idea stessa di viaggio («Il viaggioè falso; il falso viaggio realmente una / ma-lattia / sulla falsa isola dove il cuore non puòagire e non soffrirà; / egli indulge alla febbre;è più debole di quanto / pensasse; la sua de-bolezza è reale»), salvo ridargli subito dopopiena legittimità: «E forse la febbre avrà unacura, il vero viaggio / una fine / dove i cuoris’incontrano e sono proprio sinceri: / e lon-tano questo mare che divide / i cuori in mu-tamento, ma è lo stesso, sempre; e va / do-vunque, unendo il falso e il vero, ma nonpuò / soffrire».

Quanto a Isherwood, esordisce affer-mando che «il primo approccio come os-servatore neutrale di un paese colpito dallaguerra è fatalmente simile a un sogno, ir-reale». Non appena però sale sul Tai-Shan,un battello fluviale che da Hong Kong simuove alla volta di Canton,avverte che la musica stacambiando. Lui e Wystan nonsono due ragazzini che giocanoagli indiani. Sono due adulti che,per quanto dilettanti, svolgono lefunzioni di corrispondenti di guerra.Anche se, certo, la sensazione di irrealtànon si è del tutto diradata.

Passa, vicinissima, una cannoniera giap-ponese carica di marinai che si muovonosul ponte lucidando i fucili, e Isherwoodcommenta: «Il loro totale isolamento, suquella letale isoletta d’acciaio, era quasi pa-tetico. Autosegregati nell’odio, come fosse-ro stati vittime di una mortale malattia in-fettiva, se ne stavano reietti e distanti, ripu-

diati dal placido, prospero fiume e dalla pu-ra sanità del cielo. Erano come qualcosacontro natura, qualcosa di perverso, un’a-berrazione. Assorti nelle loro mansioni, cigettarono appena un’occhiata — e questosembrò ancora più strano, più innaturale ditutto. Ecco cos’è la Guerra, pensavo: dueimbarcazioni passano quasi sfiorandosi, enessuno saluta con la mano».

Il Nostro avrà tempo e modo per rivede-re quell’impressione iniziale; quando, conl’amico, uscirà progressivamente dal boz-zolo delle ambasciate, dei ricevimenti ele-ganti della comunità internazionale, degliincontri con i massimi dirigenti cinesi. Del-le cerimonie del tè offerte dai missionari in-glesi e americani in raffinati salotti, con ric-chi piatti di pasticcini sul tavolo e i saggi di

FRANCO MARCOALDI

Guerrainuna

Viaggio

Poeti inviati al fronte orientale

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molto il bel mondo. Hanno un’agenda fittadi impegni e non mancano certo di entra-ture. Ma la guerra vogliono vederla, annu-sarla, toccarla con mano. E così da Cantonsi spostano verso Hankow, attraverso unalinea ferroviaria perennemente bombar-data dai giapponesi («le risaie coprivano idolci pendii delle colline, terrazza dopo ter-razza, come specchi appannati stesi a riflet-tere il cielo») e quando giungono in cittàhanno l’impressione di aver raggiunto la fi-ne del mondo.

Questa è la vera capitale della Cina inguerra. Qui vive ogni genere di persone:Chiang Kai-shek, Agnes Smedley, Chou En-lai, e poi generali, ambasciatori, giornalisti,ufficiali di marina straniera, soldati di ven-tura, spie. «La Storia, ormai stanca di Shan-gai, satura di Barcellona, ha fissato il suo ca-priccioso interesse su Hankow. Ma dove sene sta? Tutti si vantano di averla incontrata,ma nessuno può dimostrarlo. La troveremoal bar del Grand Hotel, a bere whisky con i

giornalisti? È forse ospi-te del Generalissimo, odell’ambasciatore so-vietico? Preferisce ilquartier generale del-l’Ottava armata campa-le, o i consiglieri militaritedeschi? Si accontentadella capanna di un con-ducente di risciò?».

I due frugano in ognianfratto. Hanno l’occhiodello sparviero, il fiuto delcane da caccia. E annotanoogni particolare, ogni fisio-nomia, ogni parola. Monsi-gnor Roots, il vescovo ame-

ricano di Hankow, li invita con tono profe-tico ad abbandonare una lettura contin-gente dei fatti: «Dovete pensare in terminidi cinquecento anni [...] Questo sarà il luo-go di nascita della nuova civiltà mondiale ei cinesi l’hanno capito». Il Generalissimo,che nelle occasioni pubbliche rivela unapresenza sinistra, «la fragile impassibilità diuna fantasma», in privato invece pare gen-tile e timido. Quanto a Chou En-Lai, Audenha la fortuna d’incontrarlo per puro casomentre sta andando a fo-tografare AgnesSmedley. E ov-viamente ilpoeta gli chie-de lumi sullasituazione po-litica interna:quanto più alungo dureràla guerra,tanto più

completa sarà la vittoria della Cina e piùstretta l’intesa tra il Partito comunista e ilKuomintang, risponde Chou En-lai.

Ma via via che si avvicinano al fronte, Au-den e Isherwood paiono concentrare sem-pre più la loro attenzione sul conflitto inquanto tale. E dopo l’ennesima lezione distrategia militare tenuta per loro dall’enne-simo generale, con le immancabili freccet-te a segnalare impeccabili quanto irrealimovimenti di truppe, Isherwood commen-ta: la guerra non è questa cosa qui. «La guer-ra è bombardare un arsenale già sgombera-to, mancare il bersaglio e massacrare qual-che povera vecchietta. La guerra è giacere inuna stalla con una gamba in cancrena. Laguerra è bere acqua calda in una baracca epreoccuparsi per la propria moglie. Laguerra è un pugno di uomini spaventati esperduti sulle montagne, che sparano aqualcosa che si muove nel sottobosco. Laguerra è aspettare un giorno dopo l’altrosenza aver niente da fare; urlare in un te-lefono fuori uso; andare avanti senza dor-mire, senza far sesso, senza lavarsi. La guer-ra è disordinata, inefficiente, oscura e ingran parte affidata al caso».

Al viaggio manca ancora un’ultima, deci-siva tappa: Shangai, mera facciata di unagrande città che non esiste. Chi ha i mezzi,qui può soddisfare ogni desiderio: concor-si ippici, partite di football, film americani.Bordelli, fumerie d’oppio, antiquari egioiellieri. Ma al di fuori della colonia in-ternazionale e della concessionefrancese, si distende un immenso,spaventoso deserto urbanocontrollato dai giapponesi,«formidabili cani da guar-dia».

In ogni baracca deicampi profughi,formata da tre fi-

le di ripiani sotto un tetto di paglia, possonovivere fino a cinquecento individui. Negliospedali sopravvivono con le loro meno-mazioni, dimenticati da tutti, i resti delletruppe che combatterono per difendereShangai. Quanto agli operai, c’è chi sostie-ne che lo sfruttamento dei giapponesi siaancora più cinico e sfrenato di quello deipassati proprietari cinesi.

Anche questa è la guerra; un quartiere«con i garden-party e i night-club, i bagnicaldi e i cocktail, le cantanti e il cuoco del-l’ambasciatore» e tutto attorno un mare diindicibile sofferenza, sulla quale ilpoeta appunta il suo sguardo:«Sì, siamo destinati a soffrire,adesso; il cielo / pulsa comeuna fonte febbrile; il dolore èreale; / brancolanti rifletto-ri rivelano d’un tratto / lepiccole nature che ci faran-no piangere, / che mai pen-sammo potessero davveroesistere, / non lì, dove era-vamo. Ci colgono di sorpre-sa / come brutti ricordi datempi dimenticati, / e, comeuna coscienza, resistono atutti i cannoni».

IL LIBRO

Si intitola Viaggio in una guerra (Adelphi, 246 pagine, 22 euro)e sarà in libreria il 19 settembre. Commissionatoa W. H. Auden e Christopher Isherwood nel 1937, raccogliel’esperienza del poeta e dello scrittore sul fronte della guerratra Cina e Giappone. È un mix tra reportage, riflessionie poesie corredate dalle fotografie scattate dallo stesso AudenTutte le foto di queste pagine, tranne le prime due in alto asinistra e quella grande in basso, sono state scattate da Auden (© 1939 W.H. Auden and Christopher Isherwood renewed1967 by W.H. Auden and Christopher Isherwood© 2007 Adelphi edizioni Spa, Published by arrangementwith Roberto Santachiara Literary Agency)

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Chesterton e le poesie di Kipling sullo scaf-fale: «Il mio cervello cercava di stabilire unnesso tra queste immagini e i suoni prove-nienti dall’esterno: il sibilo del potentebombardiere in picchiata, i tonfi sordi delleesplosioni in lontananza. Cerca di capire,mi dissi, che questi rumori, questi oggettifanno parte di un’unica scena integrata.Svegliati. È tutto perfettamente reale. E, inquel preciso momento, effettivamente misvegliai. In quel momento, all’improvviso,arrivai in Cina».

Paradossalmente è solo allora, soltantoquando risulta chiara la percezione di unpaese in guerra, che quel paese svela fino infondo anche i suoi tratti più ordinari, quoti-diani. Dall’uso pervasivo dei biglietti da vi-sita, senza i quali viaggiare in Cina sarebberisultata un’impresa proibitiva, al fenome-no imperscrutabile del cibo: «Ci fermam-mo a far benzina vicino a un ristorante do-ve cucinavano il bambù in tutte le sue va-rianti — compresi i listelli usati per fare le se-die. Un fenomeno caratteristico di questopaese. Niente è specificamente commesti-bile. Si potrebbe incominciare con lo sgra-nocchiare un cappello o mordere un pezzodi muro; alla stessa stregua, si potrebbe co-struire una capanna con il cibo predispostoper il pranzo. Tutto è tutto».

Sì, Auden e Isherwood frequentano e

SCATTI IN TRINCEANella pagina accanto in alto,Auden e Isherwood;in basso, il giornalistaPeter Fleming e il fotografoRobert Capa. In questa pagina,scene dal frontee personaggi famosicome Chiang Kai-sheke la moglie e Isherwoodfotografato in trinceaIn basso, truppe cinesiin marcia nel 1938

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la letturaFilosofia al femminile

Ha dedicato la vita allo studio del totalitarismoe della politica. Ha scritto un libro fondamentalesulla banalità burocratica del male nazista. È statal’amante di Heidegger. La Arendt ha sempre parlato pocodi se stessa, ma ha scritto moltissimo. Come si leggenei suoi diari ora pubblicati in Italia

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Febbraio 1951uel che siamo e sembriamo,A chi importa.Quel che facciamo e pensiamo

Nessuno se ne indigna.Il cielo è in fiamme,Chiaro il firmamentoSopra l’unioneche non conosce la via.

Giugno 1951I pensieri vengono a me,non sono più un’estranea per loro.Cresco e divento la loro dimoracome un campo coltivato.

Vieni e abitanella buia stanza obliqua del mio cuore,ché la vastità delle onde ancorasi chiude allo spazio.Vieni e cadinei fondi colorati del mio sonno,che ha paura del ripidoabisso del nostro mondo.Vieni e volanella lontana curva della mia nostalgia,che l’incendio divampiall’altezza di una fiamma.Stai e resta.Aspetta che l’arrivo giungainesorabile dal lanciodi un istante.

SopravvivereMa come si vive con i morti? Di’,dov’è il suono che ne tradisce la

presenza,com’è il gesto se, condotti da loro,desideriamo che la prossimità stessa a

noi si neghi?Chi sa il lamento che li allontana da noie tira il velo sullo sguardo vuoto?A che cosa serve rassegnarsi alla loro

assenza,e rivoltail sentimento che impara a so-

pravvivere.Il sentimento rivoltato è come il coltel-

lo rivoltato nel cuore.

Agosto 1951Che fretta hail tempo,non si sofferma,aggiungeanno dopo annoalla sua catena.I capellison presto

bianchi e soffiati via.Ma se iltempo si divideogni annoin notte e giorno,se il cuoresi sofferma — non giocaall’eternitàcol tempo?

Gennaio 1952Ogni solitudine portata con coerenza

sino alla fine sfocia in disperazione e ab-bandono — semplicemente perché nonè possibile gettarsi al collo di se stessi.

Sembra che tutto debba ripetersi. E michiedo che ne sarà di Te fra sette anni. Laprossima tempesta, che soffia già da ogni di-rezione, come se si esercitasse nel soffiare enello spazzare via, Ti risucchierà e Ti farà gi-rare nel vortice, poiché navigando — e an-che nei pericoli della navigazione — hai get-tato tutto di bordo e sei rimasto senza un pe-so tuo? Oppure, per parlare una lingua di-versa e molto più precisa, che non è la mialingua, vuoi veramente fare di Te un “conte-nitore” [...] e condividere l’essenza del con-tenitore, che è il vuoto?

Non respingerlo subito. Se vuoi (devi?)imboccare questa strada, hai soltantoun’opportunità — che ti si possa ancoraincontrare.

La forza diventa potere solo nel mo-mento in cui si allea con altri. La forza chenon può diventare potere, perisce da sé inse stessa.

Maggio 1952Sono solo unaDelle cose,Quelle piccole,Che riuscironoPer esuberanza.Stringimi fra le Tue mani,Che si espandanoOscillantiNella riuscita,Quando hai paura.

Giugno 1952ManchesterFinché abitiamo questa terra, abbiamo

tanto bisogno gli uni degli altri quantoavremo bisogno di Dio nell’ora della mor-te, quando cioè lasceremo la terra.

Ottobre 1952In qualunque modo lo si voglia vedere,

è incontestabile che a Friburgo io mi siarecata (e non caduta) in una trappola. Maè ugualmente incontestabile che Martin[Heidegger], lo sappia o no, si trovi in que-sta trappola, che in essa sia di casa, che ab-bia costruito la sua casa attorno a questatrappola; cosicché si può andare a trovar-lo soltanto se si va a trovarlo nella trappo-la, se si va in trappola. Quindi sono anda-ta a trovarlo nella trappola. Il risultato èche ora lui sta di nuovo seduto da solo nel-la sua trappola.

Maggio 1953L’amore è una potenza e non un senti-

mento. S’impadronisce dei cuori, ma nonnasce dal cuore. L’amore è una potenzadell’universo, nella misura in cui l’univer-so è vivo. Essa è la potenza della vita e negarantisce la continuazione contro lamorte. Per questo l’amore “supera” lamorte. Appena si è impossessato di uncuore, l’amore diventa una potenza edeventualmente una forza.

L’amore brucia, colpisce l’infra, ovve-ro lo spazio-mondo fra gli uomini, comeil fulmine. Questo è possibile soltanto sevi sono due uomini. Se si aggiunge il ter-zo, allora lo spazio si ristabilisce imme-diatamente. Dall’assoluta assenza dimondo (=spazio) degli amanti nasce ilnuovo mondo, simboleggiato dal figlio.In questo nuovo infra, nel nuovo spazio diun mondo che inizia, devono stare ora gliamanti, essi vi appartengono e ne sono re-sponsabili. Proprio questa è però la finedell’amore. Se l’amore persiste, anchequesto nuovo mondo viene distrutto. L’e-ternità dell’amore può esistere soltantonell’assenza di mondo (dunque: «e se Diovorrà, ti amerò anche di più dopo la mor-te» — ma non perché allora io non “vivrò”più e di conseguenza potrò forse esserefedele o qualcosa del genere, ma a condi-zione di continuare a vivere dopo la mor-te e di aver perduto in essa soltanto il mon-do!) o come amore degli “abbandonati”,non a causa dei sentimenti, ma perché,assieme agli amanti, è andata perduta lapossibilità di un nuovo spazio mondano.

Gennaio 1954Amo la terra come in viaggioil luogo straniero,e non diversamente.Così la vita mi tessepiano al suo filoin una trama sconosciuta.All’improvviso,

come il commiato in viaggio,il grande silenzio irrompe nel telaio.

Il cuore è un organo curioso; soltantoquando è spezzato, batte al proprio ritmo;se non si spezza, si pietrifica. La pietra checi cade dal cuore è quasi sempre quella incui il cuore si era quasi trasformato.

Marzo 1955Amor mundi — perché è cosi difficile

amare il mondo?

Una volta che abbiamo iniziato a pen-sare, i pensieri arrivano come le mosche eci succhiano il sangue vitale.

Maggio 1955Dolcezza graveLa dolcezza èall’interno delle nostre mani,quando la superficie siaccomoda alla forma estranea. La dolcezza ènella volta celeste notturna, quando la lontananza siconcede alla terra.La dolcezza ènella tua mano e nella mia,quando la vicinanza bruscamente ci fa prigionieri. La malinconia ènel tuo sguardo e nel mio,quando la gravità ciaccorda uno nell’altro.

Fine 1957Ti vedo soltantocome stavi alla scrivania.Una luce cadeva in pieno sul tuo viso.Il vincolo degli sguardi era così stretto,come se dovesse portare il tuo peso

e il mio.Il legame si è spezzato,e fra noi si è creatonon so quale strano destino,che non si può vedere e che nello sguardonon parla e non tace. La voce trovò e cercòascolto nella poesia.

Natale 1964Un tempo, per corazzarmi contro la va-

nità, l’ambizione e i desideri folli, ho spessogiocato con la morte. Al cospetto della mor-te, della mortalità dei mortali — Vanitas va-nitatum vanitas. Un pensiero assai conso-latorio. Ma oggi, poiché in parte il mondoviene incontro proprio alla mia vanità, ri-compensa la mia ambizione e ogni tanto

Soltanto quandoè spezzato il cuorebatte al proprio ritmoSe non si spezza,si pietrifica

HANNAH ARENDT

L’amore secondo Hannahpotenza senza tenerezza

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

esaudisce i miei folli desideri, mi rendoconto che il gioco con la morte non servepiù. La morte stessa non è più il nostro let-to di morte o d’agonia. Non che io abbiapaura, ma le mie preoccupazioni vanno aldi là della morte, voglio che il mio testa-mento sia in ordine, le mie carte al sicuro,che quel po’ di denaro sia distribuito in mo-do giusto — insomma, quando il mondo cisorride, in fin dei conti siamo subito dispo-sti a provare un interesse estremamente di-sinteressato nei suoi confronti.

Maggio 1965A dire il vero, da quando avevo sette an-

ni, ho sempre pensato a Dio, ma non homai riflettuto su Dio.

Ho desiderato spesso non dover più vi-vere, ma non mi sono mai interrogata sulsenso della vita.

La nostra cognizione del tempo si orien-ta esattamente rispetto al numero di anniche abbiamo vissuto. Più si è giovani, più unanno è lungo, ma anche un’ora o un giorno.Se ho cinque anni, un anno corrisponde aun quinto della mia vita; se ne ho cinquan-ta, è soltanto un cinquantesimo. Ciò cambiasolo quando si diventa vecchi e si inizia acontare partendo dalla morte e non più dal-

la nascita. Allora gli anni diventano di nuo-vo impercettibilmente più lunghi.

Novembre 1968La notte scorsa ho sognato Kurt Blu-

menfeld — per la prima volta in vita mia,credo. Nel sogno, lo incontravo inaspet-tatamente su un bel ponte nel bosco. Si le-vava di bocca il sigaro, per baciarmi. Glidicevo: «Sei veramente tu? Non posso mi-ca farmi baciare da uno sconosciuto». Malo dicevo ridendo. Nel sogno non sapevoche era morto. Mi sono svegliata ridendo.Per la gioia di questo incontro inatteso.

(© 2007 Neri Pozza)

PENSATRICEHannah Arendt in una delle ultime foto prima della morte nel 1975

«La dolcezza è / nella tua manoe nella mia, / quando la vici-nanza bruscamente / ci fa

prigionieri. La malinconia è / nel tuosguardo e nel mio, / quando la gravità ci/ accorda uno nell’altro». HannahArendt intima, privata, sconosciuta alpubblico italiano. Lo stile è scarno, so-brio, essenziale, spesso privo di verbi,un diario filosofico diretto, mai media-to da setacci editoriali. La filosofa della“banalità del male” racconta emozionie sentimenti, mette insieme il suo sé. iDiari (curati da Chantal Marazia, NeriPozza, 688 pagine, 55 euro, in libreriadal 21 settembre) rivelano un mondonuovo fatto di colori («Il colore fa appa-rire l’universo, / i colori separano cosada cosa») di amori («Vieni e abita / nel-la buia stanza obliqua del mio cuore»,«vieni e cadi / nei fondi colorati del miosonno») di dolori («Il mio dolore ha la-vorato un tempo il ciglio a lamenti /contro la giungla del mondo»).

I quaderni, stampati in Germania daPiper, curati da Ursula Lutz e IngeborgNordmann, coprono vent’anni di sto-ria, dal 1959 al ‘73. Un universo a parteche forse si lega di più alla sua scelta dipresentare una tesi di laurea nel ‘29 adHeidelberg sull’amore in Sant’Agosti-no che alla sua vita passata a formulareidee sugli orrori dei totalitarismi.Arendt scrive a mano e nel testo è statofatto uno studio dettagliato per rende-re la sua dinamicità linguistica: le partiin inglese sono in corsivo, le citazionidal greco, dal latino e dal francese sonoriproposte in lingua originale; le cita-zioni dal tedesco e dall’inglese sonostate tradotte. Tutto conservato alDeutsches Literaturarchiv di Marbachtranne il primo taccuino, approdatonella Library of Congress di Washing-ton.

Ventinove quaderni in tutto, ricetta-coli ideali per esprimere pensieri, labo-ratori senza mediazioni, nemmenoquella della macchina da scrivere.Arendt ha avuto due mariti, GunterStern e Heinrich Blucher, e un amante,Martin Heidegger. «Nell’inverno 1924-25 Heidegger tenne un corso magistra-le su Platone e Aristotele — ha spiegatoFranco Volpi — il filosofo trentacin-quenne rimase colpito, come scriverànelle lettere, “da quello sguardo che mirivolgevi mentre parlavo dalla catte-dra”. A fulminarlo furono gli occhi diHannah diciottenne che seguiva consoggezione le sue lezioni».

«L’amore — sostiene la filosofa — èun evento da cui può derivare una sto-ria o un destino. Il matrimonio comeistituzione della società riduce in bri-ciole questo evento, come tutte le isti-tuzioni consumano gli eventi sui qualierano state fondate». Poi ci illumina sulsignificato della poesia: «La poesia con-centra densamente, protegge il nucleodegli avversi sensi. / Il guscio, quandoemerge il nucleo, / mostra al mondo ildenso interno»; del tempo, degli anni:«Un ragazzo e una ragazza / al torrentee nei boschi / prima sono giovani assie-me / poi assieme sono vecchi. / Fuorigiacciono gli anni / e ciò che chiamiamovita / dentro vive l’assieme, / che nonconosce né anni né vita».

«Questi diari sono un’officina delpensiero — osserva Chantal Marazia —Arendt come filosofa dello spazio pub-blico ha sempre tenuto rigorosamenteseparato il suo privato fino al punto didefinire la vita privata una tautologia.Scrive lei stessa: “Ogni vita è privata.Finché viene vissuta, nessuna vita puòtollerare lo spazio pubblico”».

Officina di ideecolori e dolore

Tra vita pubblica e privata

AMBRA SOMASCHINI

PAGINEQui sopra la copertina dei Diari

di Hannah ArendtNell’altra pagina, due fogli originali

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RAYMOND BURRNelle vesti dell’inflessibile e carismatico

Perry Mason vince quasi tuttele sue cause

BARBARA HALEVoluta, si dice, dall’autore del romanzo

Erle Stanley Gardner, interpretala devota e leale segretaria Della Street

WILLIAM HOPPERNel serial presta il volto al fido

investigatore Paul Drakeche completa il terzetto

CONNIE CEZONNel ruolo dell’allegra receptionistGertrude Lade appare raramente

nella serie tv anche se presente nei racconti

WILLIAM TALMANVeste di frequente nella serie

i panni del procuratore distrettualeHamilton Burger

RAY COLLINSÈ l’abile e irascibile investigatore

di polizia Arthur Traggdella squadra omicidi

Nel 1957 l’avvocato nato dalla fantasia di Erle StanleyGardner approdava in tv. La sua umanità, il suo rigoree i suoi “obiezione vostro onore” lo resero universale

Ancora oggi, a cinquant’anni esatti, è l’archetipo dell’eroe che salvagli innocenti, il mattatore sul palcoscenico dell’aula di giustiziaCome spiega uno scrittore di legal thriller che conosce bene quel mondo

Perry

sorta di paradigma di quello che accade sul palco-scenico processuale. Non è — palcoscenico —una parola presa a caso. Nel processo si discute delbene e del male, o quanto meno del giusto e del-l’ingiusto in un contesto — l’udienza — che ri-chiama alla mente i canoni aristotelici di unità diazione, di tempo e di luogo e nel quale si consu-mano conflitti spettacolari. Drammatici spesso,ma a volte anche comici.

Nei paesi di common law si tramandano nume-rosi aneddoti, a volte veri, spesso comunque ve-rosimili, che mostrano la parte grottesca, ridicolao comica del processo. Un uomo era accusato dilesioni personali per aver staccato con un morsoun pezzo di orecchio al suo avversario durante unlitigio. Il pubblico ministero aveva esaminato ilprincipale teste d’accusa, presente al fatto e dun-que toccava al difensore dell’imputato procedereal controesame per cercare di inficiare l’attendi-bilità della deposizione.

Avvocato: «Dunque lei afferma che il mio clien-te ha staccato l’orecchio alla persona offesa?»

Teste: «Sì».Avvocato: «A che distanza dalla colluttazione

si trovava lei?»Teste: «Una ventina di metri, forse anche di

più».Avvocato: «Che ora era, più o meno?»Teste: «Le nove di sera».Avvocato: «Ed eravate nel parcheggio del su-

permercato, all’aperto, esatto?»Teste: «Sì, esatto».Avvocato: «Era ben illuminato?»Teste: «Non molto».Avvocato: «Si può dire che il tutto è accaduto

nella semioscurità?»Teste: «Sì, più o meno. Insomma, non c’era

molta luce».Avvocato: «Quindi mi faccia riepilogare: il fat-

to è accaduto alle nove di sera, in un parcheggiomale illuminato e lei si trovava a più di venti me-tri dal punto specifico in cui si svolgeva l’azione.È esatto?»

Teste: «È esatto».A questo punto — dicono i manuali — il difen-

sore avrebbe dovuto fermarsi. Aveva ottenuto unrisultato utile e durante la discussione avrebbepotuto attaccare l’attendibilità della testimo-nianza, sostenendo con buoni argomenti, che inquelle condizioni (distanza e cattiva illuminazio-ne) non era possibile che il teste avesse visto l’a-zione del morso. Una delle regole fondamentalidella cross examination è quella di non fare una

Il fascino della legge

Mason

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GIANRICO CAROFIGLIO

Il processo è spesso tragedia, a voltecommedia, comunque un affascinantemacchinario spettacolare; per quelloche accade e per le storie che racconta

Le storie di Perry Mason sono uno deipiù classici esempi di narrazione se-riale, non solo nel senso della propo-sizione ripetuta dello stesso perso-naggio (anzi: dello stesso gruppo dipersonaggi, dalla segretaria, all’inve-

stigatore privato, al procuratore distrettuale), maanche e soprattutto nel senso della riproposizio-ne del medesimo, rassicurante schema narrativo.Tutti gli episodi della serie raccontano la stessastoria. Un innocente accusato di un grave delittosi rivolge all’avvocato Perry Mason che ne assumela difesa, affida le necessarie indagini al suo inve-stigatore privato di fiducia e nel corso di spettaco-lari interrogatori riesce a dimostrare al giudice, al-la giuria e anche a un inebetito pubblico ministe-ro, l’innocenza del suo cliente e la colpevolezzadel vero responsabile. Di regola, il principale te-stimone d’accusa.

Nella vita reale, ovviamente, le cose vanno inmodo diverso, ma il successo di Erle Stanley Gard-ner e dei numerosi autori che dopo di lui si sonodedicati alla narrazione giudiziaria ha ragioni si-curamente più complesse della rassicurante ripe-tizione di uno schema e della felice costruzione dipersonaggi accattivanti. Il processo ha unostraordinario fascino narrativo perché è esso stes-so un meccanismo per la produzione di storie eperché ha a che fare con il bisogno di mettere or-dine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti divista sul male e sulla colpa.

Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa, è asuo modo la storia di un processo, e ripercorrernela trama consente di capire molte cose sul fascinodella narrazione giudiziaria e sul carattere illuso-rio delle nostre idee tradizionali sulla verità. In Ra-

shomonsi racconta di un bandito accusato di ave-re assassinato un samurai e di averne violentato lamoglie. I tre protagonisti della vicenda, incluso ilsamurai morto (il cui spirito viene evocato da unamaga) raccontano tre diverse versioni dei fatti,scaricando sugli altri la responsabilità, soprattut-to morale dell’accaduto. Un boscaiolo, testimoneesterno del dramma, racconta a sua volta unaquarta versione, radicalmente diversa da quelladei tre protagonisti.

La storia di Rashomon ci fa riflettere su come ipunti di vista incidano in modo determinante sul-la percezione, sulla narrazione e, in un qualchemodo, sulla creazione stessa della realtà da partedi soggetti diversi. In questo senso costituisce una

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DIFESAALL’ATTACCONella foto grandePerry Masonin azione. L’avvocatonato dalla pennadi E.S. Gardner,è solito difendere clientiaccusati d’omicidioche riesce a farscagionare dopo avertrovato il verocolpevole: ha persosolo tre causein carriera. Nell’altrapagina, Masoninterroga una teste

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domanda di troppo, perché un risultato brillantepotrebbe venire sciupato o addirittura capovolto.In questo caso l’avvocato non si attenne a questaregola fondamentale. Vediamo l’epilogo del con-troesame.

Avvocato: «E lei vuol farci credere che in que-ste condizioni è riuscito a vedere il mio clienteche staccava un piccolo pezzo di orecchio alsuo avversario?»

Teste: «Ma io non l’ho visto mentre lo stacca-va…»

Avvocato: «Allora come fa a sostenere che …»Teste: «…l’ho visto mentre lo sputava subito

dopo».Il processo dunque è spesso tragedia, a volte

anche commedia, comunque un sofisticatomacchinario spettacolare a doppio taglio; perquello che in esso accade e per le storie che inesso si raccontano.

Tutti nel processo, anche se in modi diversi, rac-

contano storie. I testimoni e gli imputati raccon-tano la loro versione di fatti vissuti o percepiti. Ipubblici ministeri, gli avvocati, gli stessi giudici almomento di motivare le loro sentenze, prendonoil materiale grezzo costituito da prove e indizi, lomettono insieme, cercano di dargli struttura esenso in storie che raccontino in modo plausibilei fatti del passato.

Noi tutti costruiamo storie (nei processi ma an-che nella vita) per cercare di mettere ordine nelcaos, per cercare di estrarne una verità accettabi-le. Lo scopo del processo è selezionare, fra le sto-rie proposte dalle parti in competizione, quellamunita del migliore grado di accettabilità. Quellacapace di spiegare tutti i dati di fatto, senza la-sciarne fuori nessuno, secondo un criterio di con-gruenza narrativa. Superando i punti di vista e leprospettive particolari.

Il processo dunque, attraverso la narrazionedi storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione

della verità. Ma “la verità” è un concetto diffici-le da immobilizzare, che custodisce nelle pieghedelle lettere che la compongono, contraddizio-ni e significati nascosti. La locuzione “la verità”può essere anagrammata in “relativa”; ma an-che in “rivelata” e anche, ancora, in “evitarla”.Ognuno può scegliere l’anagramma e il signifi-cato che preferisce.

Per chi crede nel primato della tolleranza e del-l’intelligenza critica è facile scegliere la soluzioneproposta da Norberto Bobbio nella prefazione alTrattato dell’argomentazione di Perelman e Tyte-ca: «La teoria dell’argomentazione rifiuta le anti-tesi troppo nette: mostra che tra la verità assolutadegli invasati (rivelata ndr) e la non verità degliscettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relati-ve ndr) da sottoporsi a continua revisione mercèla tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa chequando gli uomini cessano di credere alle buoneragioni, comincia la violenza».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

SU REPUBBLICA.ITDa oggi onlinedue audiogallerya cura di Repubblica.it,Repubblica TVe La Domenica

di Repubblica realizzateda Matteo Pucciarellie Valentina Clemente

il cast della serie; in media14,5 persone a episodio

3.937

gli episodi andatiin onda negli Stati Uniti

271

i paesi in cui il telefilmè stato trasmesso

58

le stagioni andate in ondadal ’57 al ’66 sulla Cbs

9

Senza Perry Mason 270 innocentisarebbero finiti nella camera agas. Li ha salvati con la dialettica e

la scoperta del vero colpevole, stanatocon l’aiuto dell’infaticabile Paul Drakee le intuizioni di Della Street. Dei 273casi di cui si è occupato — tanti glishow andati in onda dal ‘57 al ‘66 e ri-proposti dalle tv di mezzo pianeta,perfino in Urss e nella Germania del-l’Est, malgrado i complotti comunistidenunciati nella serie — solo tre volteil suo assistito è stato condannato, madue erano davvero colpevoli. A cin-quant’anni dal debutto, Perry Masonresta l’avvocato tv più famoso delmondo, con laurea ad honorem a Ray-mond Burr dall’università di Sacra-mento, sessanta interventi dell’attorenei congressi di categoria e la stellan.6.656 di Hollywood Boulevard.

Nessuna delle serie giudiziariecreate in seguito, da Practice a Law

and Order, ha raggiunto la fama diPerry Mason, forse solo con Ironside,l’avvocato sulla sedia a rotelle in azio-ne dal ‘67 al ‘75, Burr si è avvicinato al-lo stesso successo. Perry Masonera co-struito con una ripetitività rituale.Nella prima mezz’ora c’è un omicidioe la polizia arresta la persona sbaglia-ta, che chiama Perry Mason come di-fensore. La parcella è di cinquemiladollari, ma, generoso e giusto, difende

anche povericristi in cam-bio di pochidollari e tantag r a t i t u d i n e .Nella secondametà al pro-cesso nell’aulagiudiziaria sialternano lesequenze dellaricerca di pro-ve a favore del-l ’ i m p u t a t o ,s p e s s o c o nP a u l D r a k e(William Hop-per) in situa-zioni di alto ri-schio e ancheDella (BarbaraHale), molto dipiù di una se-gretaria, par-tecipa all’in-dagine. Il fina-

le è il più atteso: Mason produce pro-ve talvolta bizzarre — profumi, pap-pagalli, scarpe, oggetti strani — ma in-confutabili e il massimo è quandointerroga un testimone e con doman-de implacabili lo spinge a confessarein aula.

Gli italiani l’hanno scoperto nel fasci-no del bianco e nero sul finire degli an-ni Cinquanta, spesso sul televisore deivicini di casa più abbienti. Mason peròè nato negli anni Trenta, protagonistadi un’ottantina di gialli di Erle StanleyGardner ed era stato interpretato da va-ri attori in almeno cinque film, nessunodi successo. E di scarso successo, dopoanni di teatro e di cinema, era la carrie-ra di Raymond Burr, quando fu scelto.Nei film era stato spesso il cattivo, eralui l’assassino in La finestra sul cortile,ma nel ‘73 fu papa Giovanni XXIII in untelefilm e, secondo le cronache, vennead incontrare il pontefice e si stupì chesapesse tutto di Mason. Fu scelto per losguardo intenso, indagatore, ironico ela bella voce sonora di cui variava le in-tonazioni per pronunciare «obiezione,vostro onore».

Nato in Canada nel 1917 (è morto inCalifornia nel 1993), Burr ha avuto fa-ma e soldi — un milione di dollaril’anno fu un record — ma una vita se-gnata dal dolore. Tre matrimoni fini-ti, due per vedovanza e uno per divor-zio, un figlio morto, una serie di ma-lattie, dal tifo alla malaria. Se non ba-stasse, negli ultimi anni di vita partìuna campagna pettegola sulla suaomosessualità, la ragione per cuiGardner e gli autori della serie aveva-no evitato di creare un legame senti-mentale tra Perry e Della, che puremolti fan avrebbero voluto. Si dicevache i matrimoni fossero tutti un’in-venzione dei pierre in un tempo in cuiHollywood soffriva di omofobia. Mal-grado lo sdegno dei fan che gli chiede-vano di smentire, Burr tacque: nessu-na obiezione.

L’attore inquietoe la serie perfetta

Un successo mai eguagliato

MARIA PIA FUSCO

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SECONDO TEMPORaymond Burr,dopo Perry Mason,interpretò un altro grandepersonaggio tv, RobertIronside, uno specialistalegale in carrozzella. Poitornò al primo, senza mairipeterne il successoiniziale, negli anni Ottanta

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i saporiGermania in tavola

Birra e wurstel

fu solo l’inizio

Per anni la gastronomia tedesca è statasinonimo di pochi, semplici piatti. Oggii cuochi teutonici hanno preso confidenzacon l’alta ristorazione. E l’Oktoberfest,in programma da sabato, è un’altra buonaoccasione per sperimentare

BavareseCucina

LICIA GRANELLO

I litri di birra bevutiall’Oktoberfest

6,2 mln

I wurstel consumati ognianno all’Oktoberfest

380 mila

I visitatori dell’ Oktoberfestlo scorso anno

6,3 mln

In principio furono wurstel e crauti. Quelli ingollati, alle-gramente intrisi di senape e innaffiati di birra, in tutti i lo-cali d’ispirazione teutonica, dalla mirabolante Oktober-fest — madre di tutte le gastro-zingarate, in programmada sabato prossimo al 7 ottobre — alla più modesta bir-reria di Iesolo. Al massimo ci si spingeva ad addentare un

pretzel, i nastri di pane a forma di cuore, a gustare una delle cen-to ricette con le patate — kartoffeln! — protagoniste.Per anni abbiamo pensato che la cucina tedesca — meglio, quel-la del sud della Germania, a noi più vicina e non solo in terminichilometrici — fosse tutta lì, ancorata ai suoi comandamentistrabici che la vogliono invernale nel piatto ed estiva nel bocca-le (mass, in bavarese). Solo gli entusiasti della Foresta Nera —natura forte, incontaminata, residenze deliziose e cene panta-grueliche — favoleggiavano di meravigliosi arrosti, acquavitiprofumate, torte soffici e tentatrici.

È toccato ai grandi chef border-line con l’Italia — a comin-ciare dal talentuoso tirolese Norbert Niederkofler — sdoganarela gastronomia tutta birra&salsicce e portarla in passerella. Perfortuna dei nostri palati, la comunicazione tra cuochi è più ve-loce di Internet. Le virtuose produzioni figlie di uno sterminatoterritorio agricolo-boschivo (quasi l’80 per cento dell’interaGermania) hanno preso rapidamente confidenza con le passe-relle dell’alta ristorazione, e, per ricaduta, con quelle delle no-stre case.

Poi è toccato alla cultura. In primavera, il Teatro stabile di Bo-logna ha portato alcuni supercuochi a far la spesa in presa di-retta, tra pascoli e vigne, per realizzare nel bel chiostro dell’Are-na del Sole le cene estive à côtédella stagione teatrale. È stato unsuccesso continuato, convinto, pieno di richieste curiose e discoperte memorabili. Tra un autografo di Moni Ovadia e unadomanda al console Hartmann, gli spettatori-gourmet hanno

appreso il godimento della trota affumicata, la succosa croc-cantezza del maialino alla brace, la carnale bontà dei bianchiwurst(in tedesco) di Monaco, accompagnati da pani scurissimie gagliardi.

Così, negli ultimi mesi il conto dell’import-export agroali-mentare con l’Italia è andato addirittura in positivo: abbiamoscoperto d’improvviso che per qualità e quantità le carni bovi-ne e suine tedesche sono al primo posto nella classifica delle im-portazioni. Dalla più grande e visitata regione della Germaniainfatti arrivano i maialini da latte che Mauro Uliassi presenta intre goduriose cotture, gli asparagi bianchi preferiti da MarcoFadiga, il manzo che Mario Ferrara rinchiude a cubi in doratacrosta di pane. I distributori della Selecta, abituati a soddisfarerichieste semi-amatoriali per timide quantità di prodotti bava-resi, oggi evadono ordini sempre più polposi e allargati. Meritoanche di filiere molto rigorose, con certificazioni di qualità chesfiorano quelle, per altro molto diffuse, del biologico. Nel “Li-bero Stato della Baviera” — Freistaat Bayern, come recitano icartelli stradali ai confini della regione — il recupero di razze ecolture in via di estinzione rende orgogliosi i rappresentati lo-cali di Slow Food, che hanno fatto dei formaggi a latte crudo edei wurstel senza conservanti (imparagonabili per gusto e dige-ribilità alle scialbe salsiccette gonfie di chimica dei nostri nego-zi) la loro bandiera.

Se avete un residuo di vacanze da regalarvi, organizzate unapuntata nei giorni feriali dell’Oktoberfest (il martedì è dedicatoalle famiglie, con attività ludiche per i più piccoli) per evitare ilsurplus festivo di visitatori, con fermata d’obbligo nei bei nego-zi di delikatessen. Al ritorno dal Theresienwiese (il “Prato di Te-resa”, sede della festa), assaporando un weisswurstcon una bir-ra Munchner vi sentirete pronti per le battaglie d’autunno: qua-si come un protagonista di Sturmtruppen.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

SchwarzwälderKirschtorte Il dolce di ciliegiedella Foresta Nera

è una monumentale,golosa torta a trestrati, realizzatacon una baseMargherita al cacao,alternata a sciroppoe crema aromatizzatiall’acquavite

di ciliegia, fruttifreschi e panna

Si decora con ricciolidi cioccolata

SchrobenhausenSpargelL’asparago bianco carnosoè la gloria di Schrobenhausen,cittadina che ospita un museomonodedicato, l’EuropäischesSpargelmuseum. Si usa comecontorno o in crema, frullatocon acqua di cottura e burro

WeißwurstIl wurstel bianco di Monaco,preparato con carne di vitello,manzo e maiale, va servito caldo– immersione in acqua calda –e rigorosamente gezzuelt,spellato Troneggia nei menùdi colazione e pranzo,accompagnato da senape dolce e pretzel

SpätzleA differenza dei knödel – fatticon pane raffermo, uova e latte– questi gnocchetti, battezzaticol nome di passerotti

(in dialetto svevo) sono a basedi farina, uova e acquaDopo la bollitura, condimentoa base di pane grattugiatospadellato con burro

Sono emiliano, sono cresciuto con l’odoredelle piadine e del ragù, con la pasta fatta incasa. Mi piace la buona cucina, anche se fa-cendo il calciatore devo stare attento all’ali-mentazione. Ma ogni tanto qualche eccezio-ne la faccio. L’impatto con la Germania è sta-

to sorprendente. Soprattutto per l’entusiasmo dellagente. Un po’ meno per la sua cucina, che è molto di-versa dalla nostra. Non mi capita quasi mai di mangia-re specialità bavaresi, però da quando sono a Monacoho scoperto i wurstel. Niente a che vedere con quelli chesi trovano in Italia. Quando ho assaggiato quelli tede-schi ho capito che i nostri sono proprio un’altra cosa. Unpo’ la differenza che c’è tra un bel ragù fatto in casa equello che si compra al supermercato. Se li avete prova-ti tutti e due sapete cosa voglio dire. Insomma, i wurstelmi piacciono. E mi piace la birra. Qui la differenza si no-ta meno, anche in Italia se ne trovano di buone, peròquella tedesca è più buona. La mia piccola esperienzacon le specialità tedesche per il momento finisce qui.Anzi una volta ho assaggiato anche lo stinco e non mi faimpazzire. Insomma, finora la mia Germania è statatanto calcio e poca cucina, ma visto che dovrò stare aMonaco a lungo sono sicuro che piano piano impareròad apprezzare anche qualche altro piatto tipico.

Adesso penserete: ecco, il solito italiano che mangia so-lo spaghetti. Non è così. Non nel mio caso almeno. Io con-

tinuo a mangiare italiano per necessità. In Ger-mania, al contrario di quanto succede in

Italia, le società di calcio non stannotroppo attente all’alimentazione e

lasciano a ognuno di noi la libertàdi gestirsi da solo. E per me è più

facile andare avanti con le mievecchie abitudini alimentariche sperimentare piatti nuo-vi. Tra l’altro a Monaco ci so-no tanti ristoranti italiani ein alcuni si mangia vera-mente bene. E poi io passomolto tempo a casa, percui è normale cucinarepiatti italiani. Quelli disempre. Pasta, carne, pe-

sce, verdure. Soprattuttoquando a Monaco c’è anche

la mia morosa, Marta. Anchelei sta attenta all’alimentazio-

ne, per cui quando siamo insie-me non sgarriamo mai. Se uno fa

il calciatore professionista dopo unpo’ diventa uno stile di vita. E io non

l’ho cambiato, anche se ogni tanto per cu-riosità faccio qualche incursione nella cucina

tedesca. Del resto dopo aver accettato l’offerta del Bayern Mo-

naco mi sono chiesto spesso quale sarebbe stato il mioimpatto con la Germania. Per la prima volta nella miacarriera ero un emigrante del pallone e non sapevo be-ne che cosa mi aspettasse. Facendo il calciatore sonoabbastanza abituato ai cambiamenti, ma questo era uncambiamento radicale. E non riguardava solo il mio la-voro. Anzi, il pallone in tutta questa vicenda era la cosache mi preoccupava meno. Quando sei su un campo dacalcio le differenze non si vedono. Era tutto il resto chemi incuriosiva. Un Paese nuovo, una lingua che non co-noscevo e non conosco (sto prendendo lezioni di tede-sco), uno stile di vita e abitudini diverse e una cucinamolto lontana dalla nostra. Passare dalle tagliatelle aiwurstel non è facile, ma piano piano mi sto abituando.

Testo raccolto da Giuseppe Calabrese

Il mio menù

da centravanti...LUCA TONI

Oktoberfest“O’zapft is!”, laparola che in dialettobavarese identifical’apertura della botte di

birra con il tradizionalecolpo di martello, anche

quest’anno battezzerà l’inizio dell’Oktoberfest, aMonaco da sabato 22 al 7 ottobre. Nata nel 1812per le nozze tra il principe Ludwig e Teresa diSassonia, la festa offre decine qualità di birra. Il

boccale standard da un litro, die Mass,costa 7 euro. Imperdibile la birra

affumicata, rauchbier, prodotta da500 anni nella zona di

Bamberg

Maultaschen Si dice che i sontuosi

ravioli di tradizionesveva siano stati inventati

per ingannare Dio,nascondendo la carne

tra le sfoglie di pastanei giorni di penitenza

La farcitura prevedeanche erbe, formaggio

e verdure. Si servono in tavola conditi

con il burro o in brodo

KirschwasserL’acqua di ciliegie, o semplicemente kirsch,

è l’acquavite-simbolo della tradizione locale,con i frutti protagonisti. Dopo la frantumazione

di polpa e noccioli, si attiva la fermentazionecon zucchero. Alla distillazione,

segue affinamento in piccole botti

HaxenLa tradizionale coscia di maiale o vitello, viene

massaggiata con sale, aglio, pepe e un tritod’erbe prima di essere infornata. Frequenti

spennellature con la birra rendono la superficiecroccante. Il piatto si serve con crauti o gnocchi

(knodel) ben conditi con il sugo di cottura

itinerariPetros Michelidakisè l’espertogiramondodel Cma, Centraledi marketingtedesca perl’agroalimentare

Greco con mogliespagnola, è da pocoapprodato a Milano,fiero del pareggiodell’import-exportmerito della qualitàdi carni e latticini

La “capitale segretadella Germania”, quasiun milione e mezzodi abitanti, affiancaa una colta miscellaneadi cucine del mondole sue trattorie-birrerieipertradizionali,a partire dalla gloriosa

Hofbräuhaus. Nei menù, stinchi di maiale,salsicce e polpettoni

DOVE DORMIREHOTEL ISARTORBaaderstrasse 2Tel. (0049) 089-2163340Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREZUM ALTEN MARKTDreifaltigkeitsplatz 3Tel. (0049) 089-299995Chiuso domenica, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREALOIS DALLMAYR Dienerstrasse 14Tel. (0049) 089-21350

MonacoLa medievaleAugsburg, antica,potente sede di banche e commerci,città natale di BertoltBrecht, fa parte dellaRomantische Strasse, che attraversala Svevia in verticale

Nei locali tradizionali, spätzle e piatti di pesce,serviti con birra di convento

DOVE DORMIREPRINZ LEOPOLD HOTELBürgermeister-Widmeier Strasse 54Tel. (0049) 0821-80770Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDIE ECKEElias-Holl-Platz 2 Tel. (0049) 0821-510600Chiuso domenica, menù da 20 euro

DOVE COMPRARE FEINKOST KAHN (CON CUCINA)Annastrasse 16Tel. (0049) 0821-312031

AugustaSede della fieramondiale del biologico(Biofach), vantaun bellissimomercatino di Natale,con migliaia di visitatoridal mondo. Tra i piattitipici della Franconia,i Rostbratwurst,

mini-wurst cucinati alla griglia, serviti con patatein insalata o crauti

DOVE DORMIREHOTEL DEUTSCHER KAISERKönigstrasse 55Tel. (0049) 0911-242660Camera doppia da 105 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARENASSAUER KELLERKarolinenstrasse 2 Tel. (0049) 0911-225967Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREGÜNTHER STRAUBHauptmarkt 12Tel. (0049) 0911-224950

Norimberga

PretzelI pretiola (premi) eranoelargiti nel 1600dai monaci dell’arcoalpino ai piccoli allievimeritevoli. Impastodi farina, acquae lievito, modellatoe bollito una manciatadi secondi in acquae bicarbonatoAsciugatura, salegrosso e cotturain forno per 20’

Repubblica Nazionale

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le tendenzeCorsi e ricorsi

Lunghissimi, al polso, sportivi o sofisticati, gli storiciaccessori perdono la loro funzione primaria di antifreddoe assumono questo autunno un nuovo ruolo glamourCoprono le maniche di giacche e golfini, fascianole braccia, nascondono le dita: diventano, insomma,compagni inseparabili di giorno e di sera

Il nuovo conformismo imponeguanti a ogni ora del giorno. So-prattutto li impongono gli stilisti,che si sono lanciati in una gara incui tutto, in quei pochi centimetridi pelle, sembra concesso. Mai

più senza è la nuova parola d’ordine. Re-trò o futurista il guanto è il nuovo (nuo-vo?) dettaglio moda soggetto a ogni ca-priccio: nella foggia, nella lunghezza,nel materiale, nel design. E dunque sisalvi chi può nel diluvio di proposte: daquella più classica a quella più osé, ca-povolgendo contesti e abitudini. Il neroguanto di raso alla Gilda, una volta usa-to per andare al Teatro dell’Opera, siporterà di giorno abbinato allo sporti-vissimo abitino di lana con le manichecorte. E il guanto da automobilista, conoblò sul dorso della mano, si esibisce a

sorpresa per la gran sera. I guanti si ar-rampicano su per il braccio a coprire lamanica della giacca e della camicia,hanno enormi chiusure lampo sul dor-so, sono di nappa bicolore profilati intinta a contrasto con schiere di botton-cini primo Novecento. Sono di pelliccia,sono leopardati, di rafia, di pizzo, di lat-tice. Possono essere ornati con penden-ti vari ed eventuali, ciondoli, charms,cuoricini e anche teschi e brillanti Swa-rovski. Possono denudare le dita in stilepunk o addirittura la mano intera diven-tando intriganti polsiere, caricatura delfetish. Proteggere dal freddo è l’ultimodegli optional. Dopo le borse e le scarpe,terreno di confronto creativo ma so-prattutto di margini di guadagno miliar-dari, i guanti ci vengono proposti in que-sta nuova stagione come l’accessorioper eccellenza, il must have, quello cui èimpossibile rinunciare.

Marlene Dietrich portava spesso iguanti anche perché non le piacevanole sue mani. I guanti consentono di oc-cultare unghie non perfette, manicuretrascurate, rughe, macchie. Inoltre, cisoccorrono gli esperti di look, aggiun-gono un tocco di classe al tubino un po’spento, alla semplice camicia bianca,al tailleur non fiammante. E conferi-scono oltre a un’aria très chic anche unalone di mistero e di fascino. Seduco-no. Evocano la “gelida manina”.

Con un semplice gesto il guanto ticonsente di mascherarti. A chi vuoi so-migliare? Alla signora bon ton anni Cin-quanta modello Grace Kelly, con i suoiguantini chiari, bianchi, crema, ghiac-cio? All’esile e sofisticatissima AudreyHepburn di Colazione da Tiffany, para-metro di ogni moderna eleganza? A La-ra Croft, dai corti e operativi guanti inlattice nero? A Jessica Rabbit, che li por-

ta solo viola, e lunghi, naturalmente?Alla “ragazza con guanti” (bianchi, damoschettiere, su un impalpabile abitoda sera) ritratta da Tamara De Lem-picka, che negli anni Venti precorrevala moda di oggi? Nessun accessorio co-me il guanto evoca raffinatezza e insie-me seduzione, nessun capo di abbi-gliamento è in modo così suggestivo eparadossale una promessa di nudo.Non a caso, quando ancora vigevano icanoni dell’eleganza classica, quantopiù lunghi e coprenti erano i guanti, lasera, tanto maggiori erano le porzioninude di spalle e di scollatura offerte aglisguardi. Lo spogliarello più sexy dellastoria del cinema non è forse quello diRita Hayworth in Gilda? Cantando(doppiata) Amado mio, in fondo non sisfila che un guanto. Il resto lo lascia so-gnare. E mai rinuncerebbe ai guanti,nei suoi numeri di strip tease, Dita Von

Teese, la nuo-va reginetta del bur-lesque che infiamma le platee denu-dandosi con le movenze lente e felpatedelle dive di un tempo, cantando den-tro un’enorme coppa di champagne.Molto (astutamente) retrò.

E deliziosamente retrò, riletti oggi,erano i dettami contenuti nei manuali dietichetta e buona creanza, che impone-vano alla vera signora di non uscire maidi casa senza guanti. Nel suo Dizionariodel successo, dell’insuccesso e dei luoghicomuni Irene Brin suggeriva alla donna«di media età, di media situazione, dimedie ambizioni» di possedere nel suoguardaroba «un paio di guanti in pellerobusta, uno in camoscio-e-pelle, uno inraso, e quanti può in capretto lavabile o,economicamente, in satin elastico e pic-ché». Colette Rosselli, in arte Donna Le-tizia, nel suo Saper vivere tesse le lodi dei

Capricci di moda: mai più mani nudeLAURA LAURENZI

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

RAFFINATI MUSTGucci non ha alcun dubbio:i guanti in versione seralecome quelli neri, lunghi,proposti in passerellasono un must irrinunciabileParola di una griffe storica

BASE FRANCESESono audacemente corti,ma indossati di serae con sontuoso collodi pelliccia, i guantiniproposti da GivenchyEleganza francese

PIÙ VIVACITÀMoschino si distingueper vivacità e proponemorbidi guanti lunghi(si possono anche arrotolare)color arancioDa indossare sempre

COME TOPOLINOSembrano proprio uscitida un fumetto di Disneyi guanti Blugirl giallo oropensati per le più giovaniPer sentirsi un po’ comel’eroico Topolino

INVERNO A COLORIColoratissimi, in cinghialee altri tipi di pelle, i guanti

Ferragamo da uomoContro il grigiore dell’inverno

VECCHIE FANTASIEHanno l’inconfondibilemarchio Pucci i guantifantasia ocra-bianco-

marrone beige propostiin coppia con la borsa

Repubblica Nazionale

Page 19: Callas - la Repubblica

«guanti glacés di antilope finissima». Eandando più indietro nel tempo, il

conte d’Orsay, arbitro di eleganza inFrancia e coevo di Lord Brummel,

consigliava al vero gentiluomo diusare sei diverse paia di guanti

al giorno: uno per andare incarrozza, uno per la caccia,

uno per il passeggio, unoper la cena, uno per il tea-

tro e uno per le seratemondane.

Erano già in usopresso gli Egizi, ri-

servati ai Faraoni ecarichi di valore

simbolico. Con-traddistingue-

vano le casteed erano em-blema diprivilegio,

dalla forte carica liturgica. Nel Medioevoil guanto è parte del rito dell’investiturafeudale, un pegno d’amore per la donnacui veniva donato, un segnale di disprez-zo e di sfida a duello se gettato o sbattutoin faccia. Ai tempi dei Borgia i guanti po-tevano essere avvelenati: una semplicestretta di mano impregnava il nemico diuna sostanza tossica fino alla morte. Por-tava guanti bianchi ornati di perle il Pa-pa. Indossa ancora oggi i guanti anchementre mangia la regina Elisabetta du-rante i banchetti di Stato: lo ha fatto pu-re al Quirinale ospite del nostro presi-dente della Repubblica durante il suo ul-timo viaggio ufficiale in Italia.

Ma il guanto è anche un indispensabi-le accessorio nei lavori e nei mestieri.Nell’Odissea Laerte porta i guanti men-tre cura l’orto. Hanno guanti in magliametallica le armature dei cavalieri. Nel1200, con culmine poi nel Rinascimen-

to, la nostra penisola è già rinomata intutto il mondo conosciuto per l’eccel-lenza dei suoi guanti, di ogni tipo. Mo-strarsi a mani nude per secoli è stato se-gno di scarsa educazione. Per uomini edonne, con diversi codici di comporta-mento, i guanti sono stati soprattutto unesercizio di eleganza: anche per chi con-testava le regole. Il più maledetto fra ipoeti, Charles Baudelaire, nemico acer-rimo della borghesia, è ricordato come“il ribelle in guanti rosa”. Fu il Sessantot-to a spazzare via ogni guanto che nonfosse da lavoro, oppure del genere indi-spensabile, meglio se alternativo, controil freddo. Considerato simbolo borghesedi distinzione e dunque di perbenismo ècaduto nell’oblio, tranne rare eccezioni,adottato poi come segnale di ribellioneda alcune tribù metropolitane e gruppirock. Ora il grande rilancio a opera deglistilisti: un vero business.

ESPLOSIVA GILDARita Hayworth nei panni di Gilda,il film di Charles Vidor del 1945La pellicola fece sognare i fandella rossa attrice anche graziealla scena cult in cui lei ballasulle note di Amado mio

‘‘Gustave FlaubertEmma si sfilavale soprascarpe,

si cambiavai guanti, si aggiustavalo scialle e, venti passipiù avanti, scendeva

dalla RondineLa città si stava

svegliando allora...Da Madame Bovary

1856

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

VELLUTO GIALLOPreziosi,

in vellutatocamoscio

giallino, i guantiAnna Molinari

(disponibiliin vari colori)sono perfettida abbinare

ad un rigorosotubino nero

GRANDE FREDDOIn classica lana

come quellidei bambini,

ma lunghi finoall’avambraccio

Ecco i guantiBlumarine

per proteggersidal grande freddodell’inverno 2007

MEGLIO ZEBRATIPalmo in pelle nera

e dorso zebratoeffetto cavallino

Così Trussardi“veste” le mani

delle donne

VITA DA RINGColor crema,

interamente foderatiin morbido cashmere:ecco i guanti da pugile

proposti da Cucinelli

VERVE SPORTIVAProposti da Tod’s, i guantineri in pelle hanno il dorsoscamosciato e una stringa

con bottoncinoPer chi sceglie lo stile sportivo

FUMO DI LONDRAGrigio fumo di Londrae morbidezza impalpabileDior sceglie la versionelunga (e serale) dei guantipiù classici alla Gildaper conquistare le signore

JUST CAVALLIViola intenso. È il coloreche Just Cavlli proponeper sdramatizzaregli eleganti guantiche ben si accompagnanoalle mise da giorno

SEXY ZIPLa lampo che corre lungoil braccio assicura ai guantiin pelle Burberry un’allurealtamente seduttivaPer chi ama la comoditàsenza rinunciare al look

DARK LADYÈ una dark Ladyraffinatissima la donnaFerrè che optaper la versione classicadei guanti, con tubinoe calze in tinta

TOCCO DI LUSSOBicolori, brillanti, in pelle d’agnello cucita a mano,i guanti lunghi firmati Prada sono nati per essereindossati in ogni ora della giornata

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Repubblica Nazionale

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l’incontroBluesmen

PONTREMOLI (Massa-Carrara)

«Io con la tecnologia faccio a pu-gni. Mi hanno regalato un paiodi iPod, ma li ho riciclati», bor-botta Zucchero. «Papà, perché

non li hai dati a me?», strilla Blu, il figlio dinove anni e mezzo, una cascata di ricciolibiondi sul bel viso da putto di Munier.«Amore, ne ho dato uno a Alice l’altro a Ire-ne». «Uffa», sbuffa il piccolo, mentre cercadi scuotere Chico, il randagio che ormai siè adattato al lusso e non ne vuol sapere diabbandonare il cuscino morbido dellapoltrona. Con la compagna FrancescaMozer e il figlio Blu (Alice e Irene, che fa lacantante, le ragazze avute con la primamoglie, hanno ormai superato la maggio-re età), Zucchero ha scelto di vivere in untriangolo di terra abbracciato dalle mon-tagne, «una zona di frontiera» incastratatra Emilia, Liguria e Toscana. Roncocesi, ilpaese natale, è a un’ora di macchina. Nelsuo ranch, il Lunisiana Soul (l’assonanzaLunigiana-Louisiana non poteva sfuggirea un amante del blues), un vecchio mulinosul fiume Verde magnificamente restau-rato, si respira un’aria familiare e allo stes-so tempo internazionale. Per via di quellostudio di registrazione ricavato nel fienile,di quella House of Blues piena di cimeli, diquei laghetti dove starnazzano rumorosa-mente oche canadesi, della foresteria cheha ospitato Bono e Sting, Eric Clapton eBrian May dei Queen. Ma siamo in Italia,non c’è dubbio: si arriva a Pontremoli, co-mune conteso dai duchi di Parma e di To-scana, si attraversa il centro, poi, dopo il ci-mitero, si volta a destra nella stradina dicampagna fiancheggiata da cespugli di ro-smarino e coperta da un pergolato congrappoli caravaggeschi che invocano lavendemmia.

Nella sua piccola New Orleans, oTijuana che dir si voglia, Zucchero si pre-para per i tre concerti sold out all’Arenadi Verona, il 21, 22 e 23 settembre. E perla grande prova americana, il 28 alla Car-negie Hall di New York. Qui il rocker si ri-tempra dagli stress estivi; sulla tavola

spaghetti al pesto, affettati misti, for-maggio alla griglia, verdura e frutta distagione dall’orto di casa. «Lo so, lo so,quello non è il mio habitat, ma quandohai ottanta persone che lavorano per te,devi ben rientrare delle spese», protesta,ripensando all’incidente di Cala di Vol-pe, un mese fa, quando in un locale pervip ha energicamente battibeccato con ilpubblico. «Li ho provocati un po’, permovimentare la serata. “Dài, divertitevianche se siete ricchi, facciamo un po’ dicasino”, insomma tutto nel mio linguag-gio. Non sono uno politically correct, eme ne vanto. Poi c’è stata quella reazio-ne proveniente dal tavolo della Santan-chè: “Comunista, comunista, comuni-sta”, non ci ho visto più. Mi ha consolatoil fatto che la gente di strada, quella dellefeste paesane qui intorno, i vecchietti, mihanno simpaticamente sostenuto: “Haifatto bene Zu a cantargliele a quelli lì”».

Impreca contro il conformismo dila-gante e l’arroganza alimentata dalla liti-giosità dei politici. «“Era il mio cantantepreferito, ora sconsiglio a tutti di compra-re i suoi dischi”, ha detto la Santanchè. Miha messo al bando. Al rogo il rocker!»,sbotta. «Cosa credeva, che fossi un’ostri-ca del suo menù da mille euro? Il rock è perdefinizione una musica “contro”, ma or-mai neutralizzata dal politically correct.Una volta c’erano Guccini e De André chefustigavano la società con le loro canzoni.C’era Gino Paoli che al pubblico dellaBussola gridò borghesi di merda. Io sonouno alla buona, non rinuncio alla miaschiettezza, al linguaggio da osteria. Ma-leducato io? E la televisione allora? Va acagher è un’espressione spontanea, bel-lissima, si usa con affetto anche tra amici.Vai a quel paese non ha la stessa forza. Sache i discografici fecero di tutto per bloc-care l’uscita di “Pippo che cazzo fai”? In-sistevano perché il testo fosse cambiato in“Pippo che cosa fai”. Anche allora mi dis-sero: “Sei un maleducato”».

Non aveva ancora fa forza contrattualeper reagire, l’unico successo era statoDonne, ma riuscì a non cambiare il testo,e quelli, subodorando il tormentone, la-sciarono correre. «La mia gavetta è statainterminabile, ho iniziato a 16 anni, nel1971; suonavo il sax tenore, m’improvvi-savo batterista o chitarrista. Poi un giornoil cantante dell’orchestra non si presentòperché aveva litigato con la fidanzata e micostrinsero a sostituirlo. Eravamo al-l’Alhambra di Sarzana, non lontano daqui. Lì iniziò il mio peregrinare da ungruppo all’altro. Con Sugar & Candies(1977) incidemmo un 45 giri per la Saarche non comprò nessuno (è su eBay, ba-se d’asta 50 euro, ndr). D’estate suonava-mo tutte le sere alla Bussola. Le attrazionierano Fred Bongusto e Peppino di Capri,noi facevamo i tappabuchi fino alle cin-que di mattina. Una consumazione a te-sta, la seconda Bernardini ce la faceva pa-gare. Per sbarcare il lunario cominciai ascrivere canzoni per altri, Bongusto, Mi-chele Pecora, Fiordaliso, Stefano Sani.Ma io restavo nell’ombra. Mi volevanosolo come autore. Non credevano nella

vo B. B. King, mica Mick Jagger. Sono unimpiegato della musica io, entro in studiola mattina alle dieci e ci sto fino all’ora dicena. Non sono di quelli che scrivono lacanzone fulminante in un raptus, allequattro del mattino».

Nessun artista italiano ha mai collabo-rato con tante star del rock e del jazz nellasua carriera. Zucchero ha avvicinato i piùgrandi, e con quasi tutti è riuscito a duet-tare. All’inizio sembrò una smania pro-vinciale. «Qualcuno scrisse, non capiscoperché Miles Davis abbia suonato con lui,gli avrà regalato una Ferrari. Ma se anco-ra non avevo neanche gli occhi per pian-gere! Miles cadde dal cielo. Ero alle Maldi-ve con mia moglie, ci eravamo appena se-parati, cercavamo di rimettere insieme ipezzi. Mimmo D’Alessandro, che era ilpromoter di Davis in Italia, era in macchi-na col trombettista mentre andava il miodisco. Quando arrivò Dune mosse, Milesborbottò: “Chi è questo? Voglio suonarecon lui”. Mimmo mi chiamò alle quattrodel mattino. Manco a dirlo, interruppi lavacanza e il matrimonio andò definitiva-mente a rotoli».

La passione di Adelmo nacque in par-rocchia, i nostri sacerdoti non sapevanoancora che il blues era la musica del dia-volo. «Andavo a fare il chierichetto nellachiesa di Roncocesi, vicino a casa mia,per sdebitarmi col prete, che mi facevausare un organo a due tastiere bellissi-mo, a mantice, dove imparai a suonarele canzoni dei Procol Harum. Nella ca-nonica, dove andavamo a giocare a pal-lone, io e altri tre miei compagni orga-nizzavamo dei minispettacoli. Avevol’età di Blu, e già ero capace di fare le imi-tazioni, la mia specializzazione era Rug-gero Orlando: “Qui Nuova York vi par-la…”. Poi iniziarono gli anni duri, le ba-lere, lo sfruttamento. Il nostro tastieristamorì in un incidente stradale a cinque-cento metri da casa, la notte di Capo-danno. Eravamo malpagati e alla fine inostri sogni andarono in fumo, letteral-mente: nell’incendio doloso di un loca-le perdemmo il nostro impianto nuovodi zecca, luci comprese. Piangemmo co-me vitelli quella notte, avevamo tutte lecambiali ancora da pagare. Durante ilfunerale di Luciano, l’altro giorno, mi ètornata in mente la cooperativa di Ron-cocesi dove facevano ascoltare Verdi ePuccini. Le donne che la domenica mat-tina impastavano cantando arie d’ope-ra, mia nonna Diamante davanti algrammofono e mio nonno Cannella cheandava a teatro d’inverno, con la nebbiae il tabarro, ma non al Regio, non se lopoteva permettere, al circolo o nei tea-trini di paese. Io non capivo, mi piacevail blues, ma quella musica era nell’aria.Modena, Parma, Reggio Emilia… Lì sicresce in mezzo all’opera».

La sera dopo il funerale di Luciano Pa-varotti, Zucchero, Bono, The Edge e le lo-ro signore hanno cenato al Club Europacon Nicoletta Mantovani, ricordando glianni del “Pavarotti & friends”, che ognianno veniva concertato proprio lì. Difronte al primo rifiuto del maestro di can-

mia voce, e soprattutto nella mia faccia.Un giorno, mentre facevo anticamera perparlare col direttore generale, dalla portasemiaperta lo sentii dire: “Mandatelo acasa, tanto questo non andrà da nessunaparte”. Piansi tutta la notte: ero sposato,avevo già una figlia. Devi trovarti un lavo-ro serio, mi dissi, le 150 mila lire delle se-rate non bastano più».

Si giocò l’ultima carta con un viaggio aSan Francisco. Un amico che vendevajeans gli passò un biglietto aereo vintocon un concorso della Levi’s. «Lì mi misialla ricerca di Corrado Rustici, e grazie alui e Narada Michael Walden, che mi feceregistrare gratis nel suo studio, tornai acasa col mio bel nastrino che contenevaanche Donne. Lo mandai a tutte le case di-scografiche usando il nome del mio be-nefattore. Il primo a chiamarmi fu pro-prio quello che mi aveva fatto fuori. Nonaveva capito che ero io». Oggi Adelmo“Zucchero” Fornaciari, 52 anni da com-piere il prossimo 25 settembre, 15 milio-ni di copie vendute nel mondo, ha unabella storia da raccontare: dall’oratorioalla Carnegie Hall. «Non ho mai sognatodi diventare una rockstar. Non avevo po-ster di Elvis o dei Beatles in camera mia.Volevo fare dischi e tournée, essere unonesto musicista a tempo pieno. Invidia-

tare Miserere, Zucchero finse di gettarenel fuoco il nastrino della canzone. «Poil’abbiamo incisa e mi ha ringraziato», ri-corda il cantante, che è stato complicedella conversione pop di Big Luciano.«Era diventato parte della famiglia. Quan-do Nicoletta gli proponeva le liste dei can-tanti da coinvolgere nel progetto, lui chia-mava me, si consigliava. Storpiando tuttii nomi, naturalmente. “Che dici lo faccia-mo venire questo Bubi Bobi Babi… Bavi,come si chiama? David Bowie? Sì, propriolui. Gli dissi: “Dovresti fare You Are SoBeautiful con Joe Cocker”. “Cocker?”“Sì… Boh… Dici? Ma chi è? Dài mandamiun nastrino che sento qualcosa”».

Lo imita talmente bene, spalancando gliocchi e gesticolando come faceva il mae-stro, che riesce anche a somigliargli fisica-mente. «Quanto coraggio mi ha dato Lu-ciano», esclama. «Era umile e dinamico, acasa sua era un continuo fare progetti: dài,vieni qua, che chiamiamo Bono. Con il“Pavarotti & friends” era rinato. Tuttiavrebbero pagato oro per duettare con lui.Bryan Adams mi disse: “Mio padre mi hapreso sul serio come cantante solo quandomi ha visto sul palcoscenico con Pavarot-ti”. Ricordo una cena nel suo appartamen-to a Central Park, lui ai fornelli. Tira fuoridue borse portate dall’Italia zeppe di sughi,spaghetti, salami, i ciccioli di cui andavamatto e il lambrusco. “Non toccare quel sa-lame, s’inizia a mangiare tutti insieme”, or-dinava. Era come stare in una famiglia d’al-tri tempi. Io lo guardavo incredulo: un gi-gante dell’opera lì a scolar la pasta. Che te-nerezza, lo rivedo ancora dopo cena chesonnecchia in poltrona col suo grosso si-garo e un bicchierino di Varnelli. Con Bo-no, abbiamo ricordato quella volta che era-vamo con lui sull’elicottero militare del-l’Onu che ci portava all’inaugurazione del-la scuola musicale di Mostar. A un certopunto s’incomincia a ballare tra le nuvole.Luciano affonda le mani nella borsa. Pen-siamo: cercherà delle pastiglie per il mald’aria. Invece tira fuori una punta di par-migiano: “Questo viene da Reggio!”, escla-ma, e comincia a distribuirne a tutti. Ades-so che Luciano è morto, non farò duetti perun bel po’. Neanche alla Carnegie Hall».

Non ho mai sognatodi diventareuna rockstarNon avevo posterdi Elvis o dei Beatlesin camera miaVolevo essereun onesto musicistaa tempo pieno

Ha venduto 15 milioni di albumin tutto il mondo, ha collaboratocon mostri sacri come Miles Davise Bono, tra pochi giorni suoneràalla Carnegie Hall. Ma pochi sanno

quanta è stata durala sua gavetta,incominciataall’oratorio e passataper sconfitte e umiliazioniLo hanno aiutato il suocarattere spigolosoe quel coraggio che,

dice, gli iniettò l’amico e maestroLuciano Pavarotti. “Adesso che èmorto, non farò duetti per un bel po’”

GIUSEPPE VIDETTI

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007

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