Cacciari -Decrescita e Nonviolenza a Partire Dall Ultimo Libro Di Latouche
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8/7/2019 Cacciari -Decrescita e Nonviolenza a Partire Dall Ultimo Libro Di Latouche
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Per lAnnuario della pace 2008
Decrescita & Nonviolenza
Parafrasando Ekkehart Krippendorff (lautore di:Larte di non essere governati, Fazi,
2003) potremmo dire che cos come: La nonviolenza ovviamente qualcosa di diverso dauna semplice posizione intellettuale generica di pura negazione la a-violenza, cio la
negazione della violenza. Essa pu essere solo lespressione pratica e il comportamento
concreto di una visione positiva e creativa della vita (Azione nonviolenta, dicembre 2007),
allo stesso modo la decrescita qualcosa di molto diverso della semplice negazione della
crescita - la a-crescita, cio la negazione della crescita. Essa deve essere intesa come
lespressione pratica e il comportamento concreto di una visione positiva e creativa della
vita. Esattamente come il termine nonviolenza non ha solo un significato negativo/passivo -
assenza di violenza (Gandhi traduceva in inglese ahimsa con i termini love o carity), cos
la decrescita non intende banalmente evocare un sistema economico estraneo al paradigma
della estrazione di plusvalore, dellaccumulazione dei profitti e della moltiplicazione
industriale delle merci, ma, in positivo, ambisce a rifondare unidea di economia come curadella casa comune, al servizio di una societ in cui i bisogni e i desideri delle persone
possano essere meglio soddisfatti tramite sistemi di produzione e di scambio
qualitativamente diversamente connotati. La decrescita, quindi, ci costringe a
riconcettualizzare lidea di benessere (cos come quella di felicit) ed attigua a quella di
economia solidale, relazionale, dei beni comuni e del bio o eco-regionalismo. La radicalit
del pensiero della decrescita non investe solo le scienze economiche, ma attacca i
fondamenti teorici del moderno progetto di sviluppo occidentale: landro e
lantropocentrismo, il patriarcato e il maschilismo, il dominio del riduzionismo scientista,
le forme gerarchie, competitive e colonialiste del potere.
La decrescita, infatti, nelle intenzioni dei suoi promotori (tra gli autori pi importanti Serge
Latouche, ora in libreria con il Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri,p.135, Euro 9.00), non crescita negativa e nemmeno solo eliminazione del
controproducente e del superfluo. Non una cura di snellimento, ma un cambio di vita.
Non un modo di correggere gli indicatori di sviluppo, depurando il Pil da quelle voci di
spesa (esternalit negative, effetti indesiderati, danneggiamenti, ecc.) che nessuno avrebbe
in cuor suo voluto sostenere, quali i costi di congestione nei trasporti, la depurazione delle
acque e il disinquinamento dei suoli, le cure sanitarie da malattie ambientali, gli interventi
di adattamento ai cambiamenti climatici, lassistenza alle popolazioni colpite da
imprevidenza e da guerre. La decrescita non una questione di misura, ma di cambio dei
paradigmi mentali, oltre che sociali e politici. Essa ci chiede di riuscire ad immaginare di
vivere pi spontaneamente senza dover calcolare il tornaconto del proprio fare. Si tratta diun vero rivolgimento dellidea che attribuisce la felicit allavere. La decrescita la
speranza di poter essere felici proprio perch liberati dallossessione compulsiva
consumistica, dalla bramosia del possesso, dalla vanit egoistica, dalla competizione
permanente, dal lavoro necessitato. La decrescita una freccia di direzione che diamo alla
nostra vita individuale e, allo stesso tempo, un programma costruttivo, una modalit di
azione collettiva, politica. Una ricerca che appare ancora pi urgente oggi a fronte del
palese fallimento delle promesse di benessere universale del liberismo, in presenza degli
effetti negativi della globalizzazione neoliberista sia nelle aree dei paesi poveri, sia in
quelle dei paesi emergenti, sia in quelle dei paesi maturi e opulenti.
Alcuni autori hanno preferito chiamare questa stessa idea di societ con altri termini:
sobriet (Francuccio Gesualdi, fondatore del Centro per un altro modello di sviluppo) osemplicit volontaria, attingendo direttamente a Gandhi. Maurizio Pallante preferisce
aggettivare la decrescita con la parola felice. Altri con gioiosa, serena, sostenibile, equa,
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deliberata, volontaria, democratica (vedi Nicolas Ridoux, La decrescita per tutti, JacaBook, 2008). Rileggiendo Andr Gorz (Capitalismo, socialismo, ecologia, il manifesto
libri, 1992) e Murray Bookchin (Per una societ ecologica, Elutra, 1989), decrescitapotrebbe essere coniugata con ecosocialismo o societ ecologica. Altri termini possono
essere usati, limportante capire cosa si vuole intendere. Comunque aggettivata,
decrescita un termine che continua ad essere ostico e osteggiato. Da fastidio proprioperch rompe modi abitudinari di pensare obbligandoci a guardare le cose da un altro punto
di vista. Ma la decrescita non nemmeno una mera provocazione intellettuale, uno slogan,
una parola bomba gettata l per stupire gli interlocutori, una frase pubblicitaria per creare
sensi di colpa ai borghesi sovra-peso o per shockare una sinistra incapace di uscire da una
logica solo redistributiva. La societ della decrescita immagina unaltra antropologia
umana, parla di comportamenti, atteggiamenti e di stili di vita, esplicita un concetto, una
utopia concreta di cambiamento del modello sociale e un programma politico per la
trasformazione della realt. Una lenta, progressiva modificazione dei valori sociali
predominanti. Scrive Giovanni Salio (Elementi di economia nonviolenta, Quaderni di
Azione nonviolenta n.16, 2001): le teorie economiche dominanti hanno preso come
riferimento una personalit basata sullavidit e sullinvidia, mentre economie alternativedovrebbero riuscire ad allargare lorizzonte del tipo umano ideale passando man mano da
un s strettamente individuale verso un s transpersonale, che abbracci via via una quantit
di esseri viventi () verso una concezione di una famiglia umana allargata nella quale ci
sia posto per tutti. Gandhi infatti pensava a stili di vita generalizzabili, condivisibili da
tutti su scala planetaria: Vivere semplicemente, perch tutti possano semplicemente
vivere.
Rimanendo al parallelismo con la nonviolenza, potremmo dire che cos come la pace non
pu essere concepita semplicemente come assenza di guerra, di violenza fisica direttamente
esercitata, la decrescita non nemmeno solo acquisizione del principio del limite e della
sostenibilit ecologica, calcolo della carring capacity, riduzione della impronta ecologica.
Decrescita non nemmeno (solo) un adattamento necessitato dal collasso ambientale che
gli scienziati annunciano come gi in essere. E nemmeno vuole essere una autodifesa
remissiva alla crisi incipiente; una sorta di accettazione delle incompatibilit del sistema. I
percorsi di rientro nella sostenibilit verranno da soli, spontaneamente, se lumanit
riuscir a far propria unetica del vivere in comunanza tra simili e nella salvaguardia dei
beni comuni naturali. Far pace con il pianeta il titolo del libro di Barry Commoner
giunto in Italia nel 90 (Garzanti) grazie a Giorgio Nebbia e Virginio Bettini. Gi allora
lambientalismo era consapevole che sarebbe stato necessario trovare una guida sociale
alla produzione e alleconomia per trovare un equilibrio possibile tra ecosfera e tecnosfera.
Decrescita e nonviolenza vanno concepiti come pilastri di uno stesso organismo sociale. La
decrescita leconomia della nonviolenza e la nonviolenza attiva il metodo con cui agirele nuove forme economiche della decrescta. Decrescita e nonviolenza vanno coniugate con
lo swadeshi di Gandhi, che si pu tradurre con economia locale autocentrata e
autosostenibile, diremmo oggi, e praticata con lo satygrha, che significa aderirefermamente alla verit
***
La natura autoaccrescitiva del processo di accumulazione nel sistema capitalista , come
scrive Mauro Bonaiuti (Per una politica di decrescita, www.decrescita.it ottobre 2007)determina il funzionamento della metamacchina produttiva termoindustriale, cio
dellintero sistema economico globalizzato. I suoi sistemi di creazione di valore monetariodelle merci e di accumulazione del capitale non sono semplici mezzi tecnici, strumenti
neutri, sistemi di misura (come qualcuno si ostina a farci credere a proposito del Pil o degli
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altri indici di produttivit del lavoro e della finanza), ma il fine stesso dellintero sforzo
produttivo sociale. I mezzi di produzione non sono posti al servizio del lavoro, ma al
contrario il lavoro che diviene strumento dei suoi strumenti (Riccardo Bellofiore,
Rileggere i Grundrisse dopo il Capitale, su Liberazione del 16 luglio 2008). Gli apparati
tecnologici, organizzativi, sociali che il capitale si creato non sono piegabili ad altri scopi
se non a quelli della riproduzione dei valori monetari delle merci, compreso il lavoro.Il lavoro alienato e il consumo imposto non sono orientabili a scopi diversi, usabili a fin di
bene. Esattamente come la democrazia non esportabile e la pace non raggiungibile se
non con mezzi pacifici, cos il lavoro sfruttato non usabile per produrre beni relazionali
utili e la cura dei beni comuni. Il vizio presuntuoso tutto occidentale, machiavellico di
separare la via dalla meta, le modalit dagli obiettivi, le procedure dai risultati, ci condanna
sistematicamente a prendere colossali abbagli. In ogni processo vi sono coerenze interne
che ne determinano lesito; non tutto piegabile da volont esterne; le eterogenesi
ingloriose dei fini di molti processi rivoluzionari del secolo scorso dipendono da questo
fattore. Cos come si potrebbe dire per la scienza e la ecnologia.
La razionalit che la societ del capitale impone ad ogni individuo, famiglia, impresa,
comunit non altro che la massimizzazione del rendimento, del reddito, dei bilanciaziendali, degli indici azionari, del prodotto interno, degli scambi internazionali. Nella
societ capitalistica la quantit fa esattamente la qualit. Separarle impossibile. Per il
capitalismo il pi sempre il meglio: bigger is better. Al massimo si possono abbellire le
quantit con aggettivazioni varie per far apparire gli stocks delle merci immesse nelmercato come ecosostenibili, socialmente utili, umanamente apprezzabili, smaltibili
biologicamente e persino certificabili eticamente, ma sempre a patto che vengano prodotte
e consumate in misura crescente e che vi siano abbastanza utili da reinvestire per allargare
il giro di affari del sistema. Per questo la teoria/pratica della decrescita (la negazione della
regola incrementale, autoaccrescitiva) mira a colpire al cuore il meccanismo economico
fondante di riproduzione capitalistica. Negando la quantit, la decrescita qualifica in modo
totalmente diverso loggetto, rovescia il senso generale dello sforzo sociale collettivo,
evoca modalit di socializzazione, di produzione e di consumo del tutto diverse da quelle
che si istaurano nei rapporti mercantili. La peculiarit della modernit capitalistica ridurre
ogni relazione e processo vitale a cosa morta, a fattore produttivo, monetizzabile e
scambiabile (la natura diventa capitale naturale, la creativit delle persone diventa
risorsa umana, la memoria e la storia accumulate dalle generazioni diventano
giacimento culturale, gli scambi di conoscenze e di esperienze diventanocapitale
sociale, la stessa qualit delle produzioni diventa capitale di reputazione). La decrescita,
invece, restituisce centralit al valore duso delle cose, quindi, gli allunga la vita e le rende
piacevoli. La decrescita umanizza gli scambi restituendo agli interlocutori dignit,
pariteticit, reciprocit. La decrescita impreziosisce le differenze, riconosce il saper fare,ricentralizza leconomia dei sistemi territoriali (cicli corti, tracciabilit delle filiere,
valorizzazione delle condizioni di produzione), aumenta le relazioni conviviali,
disinteressate, riconsegna allindividuo autonomia e libert di scelta. Un progetto capace di
operare uno sganciamento dalle logiche incrementali del mercato, ma anche da quelle
pericolose illusioni tecnocratiche , dirigistiche, di destra e di sinistra. La decrescita attiva,
praticata invece sottrazione consapevole al comando estraneo del capitale;
configurazione di un tessuto di relazioni sociali libere, non eterodirette; scelta di
valorizzazione dei beni comuni e relazionali, della cooperazione e della reciprocit, della
mutualit e della multiculturalit. Insomma la prefigurazione di una societ pi ricca, pi
complessa, pi aperta. Un processo auto-catalitico , direbbero i biologi che studiano la
capacit antientropica insita nella materia di autoorganizzarsi, di trasformarsi da formeprimordiali a forme sempre pi complesse. Un processo sociale, quindi, nientaffatto
conservatore, infarcito di miti premoderni, ma proiettato contro e oltre i palesi fallimenti di
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questa modernizzazione senza futuro e senza equit, contronatura e asociale, distruttiva
delle stesse basi di sostentamento della specie umana. Un progetto politico capace di
promuovere da subito trasformazione e negoziazione; di immaginare una buona societ e
una modalit di organizzazione collettiva che sia gi il buon vivere assieme; una idea di
modernit alla quale valga la pena contribuire personalmente e una etica civile che ridia
senso alla politica. Insomma la decrescita nullaltro chela creazione di: processi diproduzione di coscienza e di idealit dallinterno dellesperienza sociale del lavoro e della
vita e nel corso dellazione diretta delle grandi masse (Pino Ferraris in: Alternative per il
socialismo, 2008).
***
Ha scritto con grande realismo Latouche: Il programma di una politica nazionale di
decrescita si presenta dunque come un paradosso. La realizzazione di prospettive
realistiche e ragionevoli ha poche speranze di potersi concretizzare senza un sovvertimento
totale dellesistente. (p.92). Fino a quando le popolazioni accetteranno di rimanere
imprigionate dentro i parametri delleconomia di mercato, fino a quando gli aumenti di
produttivit non si tradurranno in decrescita dello sforzo di lavoro (riduzione del tempodi lavoro) e non in crescita del prodotto, fino a quando rimarranno plagiate dal ciclo
infernale dei bisogni e del reddito, avranno perfettamente ragione i portavoce bipartisan
delle economie globalizzate a declamare il loro mantra: senza crescita niente sviluppo,
niente benessere, niente welfare, niente redistribuzione dei redditi. Fuori dalla spirale della
crescita ci sarebbe solo deprivazione e miseria. Crescere o morire il loro programma
unico. Infatti, ancora non riusciamo ad immaginare la nostra crescita umana personale se
non sotto forma di accesso e appropriazione di beni e di servizi, di cose e di opportunit
che il mercato ci mette a disposizione. Latouche ama citare Mark Twain: Se luomo
dispone soltanto di un martello, affronta tutti i problemi come fossero chiodi. In altri
termini non sappiamo/possiamo immaginare altro modo di soddisfare i nostri bisogni e i
nostri desideri se non comprandoli al centro commerciale, al parco tematico, allagenzia di
viaggi, al fast food, gi gi per i maschi insoddisfatti, nei luoghi a luci rosse degli stupri
a pagamento.
Quali sono le forze che ci tengono ubbidienti, affascinati, ad un tempo prigionieri e
complici, aderenti volontari e inconsapevoli ingranaggi di logiche estranee e nocive?
Fiumi di parole sono state scritte sulla societ opulenta dei consumatori. Da ultimo
Zygmunt Bauman ha descritto lumanit occidentale come uno sciame inquieto. Prima di
lui Walter Benjamin: Sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto
egoismo dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna societ. Gi Keynes
aveva avanzato una distinzione tra bisogni assoluti (la riproduzione materiale) e relativi;
nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci fa sentire superiori ainostri simili (Esortazioni e profezie, Milano,1968). Oggi diremmo bisogni indotti e benidi status (positional goods), che denotato privilegio, vantaggio, potere. Ancora Ivan Illich
parla dei consumatori come degli intossicati che vivono nellillusione che il nuovo
corrisponda al meglio() Vedono la loro crescita personale sotto forma di una
accumulazione di beni e di servizi prodotti dallindustria() E inevitabile che la societ
di consumo comporti due tipi di schiavi. Gli intossicati e quelli che vorrebbero esserlo (La
covivialit). Lo spirito di emulazione dei modelli percepiti come vincenti funziona da
molla sociale, come ci spiega bene Herv Kempf (Perch i mega-ricchi stanno
distruggendo il pianeta, 2008, Garzanti). I consumi sono sempre socialmente determinati,
oltre i fini di utilit delle merci stesse, seguendo un principio esibizionista. Cos: la
classe dominante che si mantiene al vertice della struttura sociale; stabilisce la scala deivalori, e il suo livello di vita fissa ci che viene considerato onorevole per tutta la societ.
Insomma, la natura competitiva umana anchessa un prodotto storico-culturale, forgiata e
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alimentata dal capitalismo. In questa rincorsa senza fine ed emulazione voluttuaria
inestinguibile, il concetto di saziet sparisce e rimane la condanna allinsoddisfazione e alla
infelicit permanente delluomo consumistico poich la stragrande maggioranza delle
persone non potr mai raggiungere la solvibilit sul mercato acquisita dalla casta dei
mega-ricchi, e con essa il loro stile di vita. Poich Le norme secondo cui la societ
funziona plasmano anche il carattere dei suoi membri - scriveva gi Erich Fromm inAvere o essere? (Oscar Mondatori, 1977) -, la modalit esistenziale prevalente
(condizionata dal rapporto sociale di produzione capitalistico) non pu essere che quella
dellavere, egoistica, egocentrica, individualistica, competitiva.
Se possibile il quadro pu essere ancora peggiore se consideriamo la perversione cui pu
giungere lhomo oeconomicus - consumens lupus. Se egli considera che la sua libertpossa essere realizzata nella sfera dei consumi allora il potere supremo la libert di
sprecare, come aveva visto lantropologo surrealista Georges Bataille. Lo spreco, il lusso,
lazzardo il massimo della goduria, del piacere, del desiderio di onnipotenza,
dellillusione di riuscire a sopravvivere a se stessi e alla propria misera sorte. O, forse, pi
semplicemente, il consumo compulsivo solo lanestetico dellinfelicit, la
compensazione alla mancanza di senso della propria vita, la consolazione per un lavoroinsoddisfacente, il surrogato alla mancanza di relazioni comunitarie, lantidepressivo
tossico alle ansie, allo stress, alla paura, la farmaceutica della felicit (Gilles Lipevetsky,
Una felicit paradossale, Raffaello Cortina editore, 2006).
Massimo Ilardi (Il tramonto dei non luoghi, Molteni 2008), invece, coglie nella asimmetriatra lincontenibile potenza illimitata del desiderio di ogni individuo e le limitazioni
imposte dal mercato una conflittualit permanente, una lotta per lappropriazione che
potrebbe portare alla rottura delle compatibilit macroeconomiche del sistema, quindi a
qualche rottura rivoluzionaria. Dovrebbe cio accadere, per il consumatore massificato di
oggi, ci che avvenne con le rivendicazioni salariali al tempo del fordismo con loperaio
massa. Il livello impressionante di indebitamento delle famiglie americane, la loro
insolvibilit, potrebbe in effetti autorizzare a pensare ad un gigantesco imminente crack
finanziario. Il mercato un ingranaggio rigido; prima o poi chiede di essere saldato (vedi la
crisi dei mutui subprime). Ma, personalmente, mantengo i miei dubbi su quale potrebbe
essere lesito di una tale crisi se non vi sar contemporaneamente una profonda modifica
dei valori sociali condivisi. Un nuovo 29, uno shock depressivo, potrebbe portare ad
esiti drammatici in termini di azzeramento dei diritti, arretramento delle condizioni di vita,
concentrazione dei poteri e autoritarismo politico, se non riuscir ad avanzare una nuova
domanda radicale di senso, di motivazioni e di valori della vita.
***
La prima cosa da fare, quindi, per creare una base sociale al movimento per la decrescita rimettere in moto limmaginazione, liberarci dai condizionamenti culturali. Ma come farlo?
Bastano le prediche? Vi una pedagogia capace di accompagnare il cambiamento?
Bisogna stare attenti di non fare la fine dei profeti di sventura; invece di essere
ricompensati dai loro concittadini per averli avvertiti per tempo dei pericoli incombenti,
solitamente vengono accusati di essere gli attrattori della malasorte. Se le cause delle crisi
non vengono comprese ed elaborate correttamente il rischio che la sofferenza delle
popolazioni esploda in tutte le direzioni, fscile preda di tutti gli imprenditori politici
dellodio e della paura.
La decrescita scelta, mirata, socialmente condivisa lesatto opposto della decrescita
imposta, necessitata, subita, cio, del declino, della recessione, della disoccupazione, della
crisi economica. La prima porta ad esiti di miglioramento della qualit della vita, diridistribuzione dei carichi di lavoro, di migliore uso delle risorse, di maggiore cooperazione
sociale, collaborazione e condivisione tra comunit. La seconda fa gravare sui ceti sociali
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pi deboli i costi della crisi. Anche le catastrofi ambientali portano un segno di classe: c
chi possiede i mezzi (economici, informativi, tecnici, ecc.) per sostenere i costi
delladattamento (ad esempio le creme solari contro le radiazioni solari provocate
dallozono) e chi non li ha. La prima mette in moto processi partecipativi di selezione dei
bisogni (lotta agli sprechi e alla manipolazione pubblicitaria, valorizzazione degli stili di
vita sobri, conservazione dei beni comuni, ecc.) e di autogoverno comunitario dei territori edelle risorse. La seconda apre la strada a governi dispotici e imposizioni autoritarie.
La decrescita quindi deve essere intesa principalmente come rivoluzione culturale,
decolonizzazione delle menti, unutopia, cio una fonte di speranza e un sogno
(sempre da Latouche), battaglia delle idee. Ci che manca per rendere concretamente
praticabile questo percorso una narrazione che renda desiderabile una alternativa di
societ e per la quale valga la pena impegnare le proprie energie individuali. Ma per
mobilitare le energie sociali necessarie a produrre il cambiamento non basta uno sforzo
pedagogico. Non basta usare argomenti logici e razionali. Per scardinare la
irragionevolezza dellattuale modello economico ipercapitalistico e neoliberista si rende
necessario un confronto a viso aperto sul terreno dei valori etici e dei comportamenti
morali. In fondo al cervello di ognuno di noi, per quanto manipolato, allettato e atrofizzatodal consumismo, persiste unidea etica con cui riusciamo a valutare le azioni nostre e degli
altri. Mi riferisco alla legge kantiana che dentro ciascuno di noi, o - a libera scelta - alle
mille altre forme di illuminazione dellanima e della coscienza ben sedimentate dalle
tradizioni culturale storiche e religiose. E soprattutto sul terreno dei principi che decrescita
e nonviolenza (complementari come lo sono lacido nitrico e lacido solforico per la
dinamite!) acquistano la loro forza, mostrano la loro irriducibile alterit, e generano
speranza alliniziativa politica-sociale. La liberazione [scriveva Marco Revelli in Agire la
nonviolenza, Punto Rosso/liberazione 2004] richieder un paziente lavoro sugli e con gli
altri, e su noi stessi. Ci chieder una metamorfosi esistenziale. Un mutamento
antropologico. Ed io non so ancora immaginarne uno diverso da quello descritto da
Fromm: il passaggio dei caratteri dellessere umano da modelli esistenziali dettati dai
principi dellavere a quelli dellessere. O, se preferite, un tipo di Uomo austeramente
anarchico - per dirla con Illich - in un contesto di Anarchia illuminata, in cui ognuno si
governa da se- per dirla con Gandhi.
La palla, quindi, passa alla politica, intesa come attivazione di soggettivit reali e
regolazione delle relazioni tra individui e gruppi sociali. Cos come la nonviolenza parla
delle modalit di esercizio del potere escludendo la possibilit del ricorso alla coartazione,
la decrescita parla alla societ liberandola dal giogo produttivistico, lavoristico, mercantile.
In un contesto politico nonviolento ed economico non vincolato alla crescita, la regolazione
sociale del potere sar libera e condivisa, cos come volontario e solidale sar lo sforzo
produttivo di ciascun individuo e di ciascuna comunit lavorativa. La buona societ e labuona politica devono andare a braccetto. Non c un prima e un dopo, un afflatto etico
individuale prepolitico e unazione collettiva a prescindere dalla morale, ma una catena
che tiene tutto assieme: la ribellione che spinge ogni individuo a sottrarsi da ogni autorit
non condivisa, la voglia di sovvertire i rapporti sociali costrittivi, a partire da quelli
produttivi, il desiderio di costruire spazi pubblici di autogoverno e di autonomia.
Insomma, pu essere giunto il momento da parte dei gruppi di attivisti sociali, locali, della
cooperazione, del mutualismo, della decrescita di rigenerare e rivalutare la politica
riappropriandosene, dissequestrandola (dalle istituzioni statali) e ripubblicizzandola
(sottraendola al monopolio dei partiti). Hilary Wainwright (in Networked politics,
Transform, 2007) e, prima ancora, Danilo Dolci hanno introdotto una distinzione
fondamentale tra due diversi significati del potere: come capacit di trasformazione,potenza creativa , libera, antagonista, criticache in ogni individuo e che condizione di
ogni aspirazione al cambiamento, allempowerment, al protagonismo sociale; oppure, come
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dominio, coercizione, privazione, desocializzazione che si avvale di dispositivi alienanti,
della violenza, della corruzione e dellintimidazione e che comporta unasimmetria tra
coloro che lo detengono e coloro sui quali il potere esercitato. Rimuovere/rinunciare al
potere di potere sugli altri a favore di una piena capacit di
autodeterminazione/autorealizzazione di ogni componente della societ, mi pare, alla fine,
sia il significato ultimo della nonviolenza. Dovremmo quindi pensare per la politica delladecrescita ad una politica oltre il potere (ci viene in aiuto il pensiero femminista, in
particolare Adriana Cavarero), pi precisamente ad una politica contro e oltre il dominio.
Luglio 2008