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Note stonate. Appunti sull'antropocentrismo e sullo specismo dell' eti- ca animalista di Matteo Andreozzi 1. Prologo. Se potessimo mangiare un'idea avremmo già fatto la nostra rivolu- zione In questo articolo mi pongo due traguardi. Il primo è fornire chiarimenti teorici e concettuali in riferimento all'antropocentrismo e allo specismo. Il secondo è dotare il lettore di alcuni strumenti argomentativi utili a fronteg- giare le difficoltà che impediscono a molti autori di muovere in direzione di un effettivo superamento di entrambi. Nel perseguire tali obiettivi adotte- una prospettiva metaetica e una metodologia prettamente analitica. Per quanto il contributo che intendo dare al dibattito sia prevalentemente teo- rico, la mia speranza è che facendo luce su alcune questioni tutt'oggi poco chiare all'interno della riflessione cosiddetta "animalista'' o "antispecista" si possano porre i presupposti di una più facile traduzione pratica di un pen- siero alle volte troppo astratto o troppo poco attento alle proprie contraddi- zioni. La coerenza e il rigore argomentativo non sono affatto sufficienti a ga- rantire una modifica radicale del nostro modo di relazionarci con gli animali non-umani. Pur tuttavia essi sono la base su cui poggia ogni etica, compresa quella più rivoluzionaria. Se è certamente vero che un'idea non basta a fare una rivoluzione, è però anche vero che ogni rivoluzione necessita anzitutto di buone idee di partenza. 2. Antropocentrismi. Il triangolo no, non andrebbe considerato Ogni filosofia si articola e si fonda su di un specifico schema concettuale: un insieme di credenze fondamentali da cui si origina un certo modo di vedere se stessi e il mondo (Warren 1990). Uno degli aspetti che in questa prospetti- 65

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oethischen Diskussion,

iuhrkamp, Frankfurt f.amenti di una teoria

Buch I: Der Produ­; (1964), Il capitale.

fovalogos, Aprilia. a cura (1997), voi. 1,

en vergessenen Traum,

Conservation Biology: o:s, Sunderland (MA),

::ambridge University

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Cantoni e F. Fergnani

hics, 25th Anniversary

nd Second Nature Jrom

~7.

ra dell'illuminismo", in

1?", in Krebs A., a cura

'Possible?, Island Press, di G. Bologna (2013),

rje, Beltz Verlag, Wein­o Mondadori, Milano,

Note stonate. Appunti sull'antropocentrismo e sullo specismo dell' eti­ca animalista di Matteo Andreozzi

1. Prologo. Se potessimo mangiare un'idea avremmo già fatto la nostra rivolu­zione

In questo articolo mi pongo due traguardi. Il primo è fornire chiarimenti teorici e concettuali in riferimento all'antropocentrismo e allo specismo. Il secondo è dotare il lettore di alcuni strumenti argomentativi utili a fronteg­giare le difficoltà che impediscono a molti autori di muovere in direzione di un effettivo superamento di entrambi. Nel perseguire tali obiettivi adotte­rò una prospettiva metaetica e una metodologia prettamente analitica. Per quanto il contributo che intendo dare al dibattito sia prevalentemente teo­rico, la mia speranza è che facendo luce su alcune questioni tutt'oggi poco chiare all'interno della riflessione cosiddetta "animalista'' o "antispecista" si possano porre i presupposti di una più facile traduzione pratica di un pen­siero alle volte troppo astratto o troppo poco attento alle proprie contraddi­zioni. La coerenza e il rigore argomentativo non sono affatto sufficienti a ga­rantire una modifica radicale del nostro modo di relazionarci con gli animali non-umani. Pur tuttavia essi sono la base su cui poggia ogni etica, compresa quella più rivoluzionaria. Se è certamente vero che un'idea non basta a fare una rivoluzione, è però anche vero che ogni rivoluzione necessita anzitutto di buone idee di partenza.

2. Antropocentrismi. Il triangolo no, non andrebbe considerato

Ogni filosofia si articola e si fonda su di un specifico schema concettuale: un insieme di credenze fondamentali da cui si origina un certo modo di vedere se stessi e il mondo (Warren 1990). Uno degli aspetti che in questa prospetti-

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va si può dire accomunino, pur nella loro diversità, le più rilevanti posizioni

filosofiche occidentali apparse prima della metà del XX secolo è la tendenza

ad assumere una visione del mondo human-centered, spesso definita con il ter­

mine "antropocentrismo". Secondo numerosi autori vi sarebbe tuttavia oggi

la necessità di abbandonare, rinnegare o superare questa cornice di pensiero,

elaborando nuove forme di riflessione non-, anti- o post-antropocentriche.

Alla luce di certe scoperte scientifiche relativamente recenti, essi sostengono,

l'antropocentrismo dovrebbe infatti essere riconosciuto come privo di fonda­

mento e, perciò, rigettato in quanto irrazionale e spesso disumano pregiudizio

in nostro favore, capace di rivelarsi a noi persino sfavorevole. Discipline quali

soprattutto la biologia e l'etologia ci hanno infatti recentemente mostrato che

esiste una profonda somiglianza tra gli stati mentali, i comportamenti adatti­

vi, i geni e le funzioni vitali di gran parte del regno del vivente. Poiché queste

stesse analogie sono ancora più evidenti all'interno del regno animale (umano

e non-umano) è proprio su simili premesse che si fonda il pensiero animalista

e antispecista. Secondo alcuni esse dovrebbero dunque essere più che sufficien­

ti a difendere la doverosità di rifiutare l'antropocentrismo, approdando così a

un'etica animalista.

A ben guardare, tuttavia, le cose sono un po' più complesse. Il paradigma

antropocentrico ha infatti trovato la sua massima espressione in considera­

zioni di carattere filosofico che hanno posto l'essere umano al centro di al­

meno tre ordini di discorso: l'ontologia, l'epistemologia e l'etica (Marchesini

2009; p. 92). Lo schema concettuale generale dell'antropocentrismo è dun­

que riassumibile in tre tesi essenziali. La prima asserisce che l'essere umano

è, dal punto di vista ontologico, l'unica unità di misura delle cose. La secon­

da sostiene che l'essere umano è, da una prospettiva epistemologica, il solo

misuratore di tutte le cose. La terza afferma che l'essere umano è, sul piano

etico, l'unica entità misurabile in una prospettiva morale. Se a supporto del

nostro dovere di rifiutare questo paradigma di pensiero portiamo soltanto

certe scoperte scientifiche, sono tuttavia soltanto le prime due tesi ad essere

intaccate. Il nostro dovere è dunque un dovere empirico, non morale. Poiché

vi sarebbero sempre meno fatti in grado di supportare e rendere intellegibile

un'ontologia e un'epistemologia capaci di mantenere l'essere umano al pro­

prio centro, siamo empiricamente tenuti (es. dal fatto che c'è della pioggia

sulla finestra si dovrebbe inferire che fuori sta piovendo, mentre non si do-

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APPUNTI SULL' ANTROP

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11MAL STUDIES 7/2014

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APPUNTI SULL'ANTROPOCENTRISMO E SULLO SPECISMO DELL'ETICA ANIMALISTA

vrebbe inferire che fuori è una bella giornata) ad abbandonare, rinnegare o superare le prime due forme di antropocentrismo.

Sostenere che vi sia il dovere empirico di rifiutare l'antropocentrismo on­tologico ed epistemologico, non implica tuttavia anche il dovere morale di non essere eticamente antropocentrici. Tutt'altro che scontata e ammessa, quantomeno dal punto di vista filosofico, è infatti la possibilità di dedurre certi valori propri della riflessione morale a partire da certi fatti attestati dalla scienza. La scienza, da sola, non può in alcun modo influire sull'etica. Poiché le "leggi del mondo" sono diverse dalle "leggi dell'etica", non può dunque es­sere sufficiente fare riferimento alle prime per stravolgere le seconde. Sia ben chiaro: tra le tre tesi antropocentriche esiste un'indubbia interconnessione. Comprendere o mettere in discussione lantropocentrismo è infatti impossi­bile se non si prendono in considerazione tutti e tre gli ambiti che lo contrad­distinguono. Resta pur tuttavia scorretto guardare a queste tesi come a un triangolo di assunzioni necessariamente interdipendenti. Non tutti gli autori intendono infatti l'antropocentrismo come un'unica tesi tripartita composta da tre elementi tra loro concatenati. Alcune volte, è vero, si incontrano ar­gomentazioni antropocentriche molto simili alla seguente: gli esseri umani sono le uniche fonti di una reale esperienza del mondo (epistemologia), e perciò delle entità superiori e privilegiate rispetto a tutte le altre esistenti in natura (ontologia), e quindi anche gli unici pazienti morali (etica). Si tratta, tuttavia, di argomentazioni che supportano e difendono (da possibili attacchi) lantropocentrismo etico, ma solo raramente di argomenti volti a giustificarlo. Molto più spesso, infatti, le tre tesi sono intese come autonome: connesse, ma indipendenti.

È dunque del tutto possibile negare o riformulare solo una o due delle tre tesi, pur restando in una certa qual misura antropocentrici (Andreozzi 2014). È allora anche tutt'altro che insensato sostenere che vi sia il dovere empirico di rifiutare gli assunti ontologici ed epistemologici dell'antropocentrismo, senza con ciò implicare anche il dovere morale di elaborare un'etica non-antropocen­trica. Accettare il fatto che lessere umano non sia il centro ontologico ed episte­mologico del mondo non comporta infatti il dovere di ammettere che egli non sia più anche l'unico paziente morale. È anzi proprio comprendendo che le tre dimensioni - ontologica, epistemologica ed etica - dell'antropocentrismo non andrebbero considerate come un triangolo di assunti concatenati che è possibi­le comprendere appieno o mettere seriamente in discussione quella particolare forma di antropocentrismo etico denominata "specismo".

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3. Specismi. Quel centro di dignità permanente che non ci fa mai cambiare idea sulle cose, sulla gente

Le "leggi del mondo", come si è detto, sono diverse dalle "leggi dell'eticà'. In questo senso, anche riconoscendo che, sul piano ontologico ed epistemologico, non vi è nulla di speciale negli esseri umani, nulla ci vieta di consideraci speciali

dal punto di vista morale. Lo specismo è un tipo di ragionamento portato a supporto di quest'ultima convinzione. Secondo alcuni autori si tratta però di un ragionamento inaccettabile. Poiché l'essere e il dovere sono distinti, non

è facendo riferimento a certi fatti riguardanti il mondo che è filosoficamente legittimo criticare lo specismo: occorre contestualizzare il problema all'interno del discorso morale. Anche l'etica ha infatti le sue leggi, ed è violando queste che lo specismo si rende inammissibile. Se il dovere di rifiutare l' antropocentri­smo ontologico ed epistemologico è un dovere empirico, il dovere di rifiutare quella particolare forma di antropocentrismo etico denominata "specismo" si configura infatti essenzialmente come un dovere logico (es. dal fatto che tutti

gli esseri umani sono mortali e da quello che Socrate è un essere umano, si dovrebbe inferire che Socrate è mortale). A un'attenta analisi, dunque, persino quest'ultimo rifiuto è di per sé incapace di supportare il dovere morale di per­venire a un'etica non-antropocentrica.

Per l'antropocentrismo etico noi abbiamo certamente dei doveri nei con­

.fronti di ciò che non è umano, ma resta largamente improprio parlare anche dei nostri doveri verso ciò che non è umano: i nostri doveri riguardano solo indirettamente il mondo non-umano, e solo nella misura in cui essi sono diretti

a rispettare gli esseri umani. Questa posizione si espone a una domanda non semplice da eludere: in base a quale criterio è lecito sostenere che soltanto gli esseri umani, e non anche altre entità non-umane, sono membri della comuni­

tà morale? Rispondere a questa domanda è tutt'altro che facile. Se si definisce l'umano stabilendo una serie di proprietà o peculiarità molto restrittive, infat­ti, si possono includere nella comunità morale soltanto certi esseri umani. Si escluderebbero dunque molti soggetti che, in quanto al di fuori del paradigma tradizionale di essere umano, sono spesso definiti "casi marginali": i neonati, certi soggetti diversamente abili, i comatosi e, in generale, tutti i soggetti tem­poraneamente o definitivamente privi, o comunque non in pieno possesso, degli attributi che sono soliti caratterizzare lo status di persona. Se, invece, al

fine di includere tra i pazienti morali anche numerosi casi marginali di essere umano, si accoglie il valore di proprietà o peculiarità molto più vaste, quali

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APPUNTI SULL' ANTROPI

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!MAL STUDIES 7/2014

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APPUNTI SULL'ANTROPOCENTRISMO E SULLO SPECISMO DELL'ETICA ANIMALISTA

la sensitività o la cognitività, questi stessi criteri non sono sufficientemente restrittivi per escludere dalla comunità morale molte altre entità non-umane.

Un possibile modo di eludere questo problema è sostenere che l'appartenere alla specie umana sia l'unico criterio, o se non altro il criterio più rilevante, per stabilire se una certa entità è degna di considerazione morale. Una simile con­vinzione, per quanto diffusa, necessita tuttavia di una valida giustificazione eti­ca. Una morale che possa dirsi rigorosa non dovrebbe infatti limitarsi a spiegare perché tale criterio possa essere largamente accettato: dovrebbe impegnarsi a comprendere se possa anche essere moralmente difendibile. È proprio rifletten­

do in questa direzione che ogni etica articolata intorno al criterio dell' apparte­nenza alla specie umana si rivela logicamente inconsistente. A un'attenta analisi essa mostra infatti di adottare un tipo di pregiudizio che, in analogia con altre forme di discriminazione, si fonda su una caratteristica del tutto insufficiente

e affatto necessaria al fine di essere ritenuti degni di considerazione morale. Come precisa Bernard Williams (2006; pp. 150-152), l'ammettere la necessità di dare considerazione morale agli esseri umani solo "in quanto esseri umani" implica che, in tutti i casi di conflitto di interessi tra umani e non-umani, «re­sterebbe soltanto una domanda da porsi: a che lato appartieni?». Una simile domanda sottende tuttavia un ragionamento profondamente discriminante, il cui schema è infatti già stato abbondantemente rifiutato e condannato all'in­terno della filosofia contemporanea. È in quest'ottica che, quando articolata intorno al criterio sopra esposto, ogni etica incapace di estendere la comunità morale oltre la specie umana è secondo autori come Richard Ryder (1975; p. 5) tacciabile di specismo.

Il termine "specismo" è oggi ormai entrato di diritto all'interno dell'Oxford

English Dictionary. Sebbene non sia riducibile all'esclusione dalla comunità morale di ogni forma di entità non-umana, ma sia anzi soltanto un tipo di argomento ("l'appartenenza a una specie") portato a suo supporto, lo specismo ha nel corso degli anni assunto diverse accezioni (Jamieson 2008; pp. 108-111). Una prima forma di specismo, definibile specismo estremo, afferma che tutti e soltanto i membri della specie umana sono pazienti morali, proprio "in quanto essere umani". Il motivo che induce i sostenitori di questa posizione a escludere dalla comunità morale l'intero mondo non-umano è dunque la convinzione che l'appartenenza a una particolare specie sia una qualità moral­mente rilevante (Bernstein 2004; p. 380). Lo specismo estremo, sostiene Tom

Regan (1983; p. 218), «si esprimerebbe dicendo che nessun animale è membro della comunità morale perché nessun animale appartiene alla specie 'giustà,

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ANIMAL STUDIES 7/2014

ossia a quella dell'homo sapiens». Proprio per questi motivi, si tratta della forma di specismo più condannata all'interno del pensiero animalista o antispecista.

Anche accettando l'inconsistenza dello specismo estremo e sostenendo (come fanno alcuni autori) che buoni criteri per stabilire se un'entità è me­ritevole di considerazione morale siano dati dal possesso di certe doti quali la sensitività e la cognitività, resta del tutto possibile rimanere specisti. Se si rifiuta lo specismo estremo, infatti, la principale esigenza non è di opporsi a ogni forma di favoritismo nei confronti degli esseri umani, ma soltanto di rifiutare quella particolare concezione dello specismo secondo cui l'umanità è la sola specie meritevole di considerazione morale. Da ciò consegue l'asso­luta mancanza di necessità di accantonare in toto le intuizioni speciste. Pur accettando l'idea che la comunità morale vada estesa fino a includere tutti i soggetti senzienti (umani e non-umani), è ancora possibile sostenere che gli esseri umani, rispetto a tutti gli altri animali, siano dei pazienti morali speciali. Sarebbe infatti da ritenersi controintuitivo sostenere il contrario, perché così facendo si perverrebbe a esiti normativi supererogatori. Anche ammettendo la possibilità di determinare i diversi livelli in cui la sensitività e la cognitività si esprimono in diversi soggetti, questi stessi criteri possono essere utilizzati come principi di valutazione di una differenza moralmente rilevante solo al di sotto di una certa soglia, superata la quale essi si rivelano intuitivamente inadeguati. Siamo davvero disposti a sostenere che i nostri doveri verso un figlio con un serio ritardo mentale cedono il passo di fronte a quelli che abbiamo verso uno scimpanzé adulto e sano?

È per superare questo genere di problemi che, secondo alcuni autori, occor­re distinguere lo specismo inteso come argomento portato in difesa dell' ammis­sione all'interno della comunità morale da quello utilizzato come criterio per stabilire delle priorità tra i diversi pazienti morali. Ed è questo il caso della se­conda forma di specismo, definibile specismo moderato. In base a esso si è soliti affermare che i membri della specie umana sono dei pazienti morali privilegiati rispetto a tutti gli altri, proprio "in quanto essere umani". Forse sorprenderà, ma è proprio a questa forma di specismo che spesso approdano molte teorie cosiddette "animaliste" o "antispeciste". Lo stesso Regan, ad esempio, afferma (1983; p. 435) che «nessuna persona ragionevole negherebbe che la morte» di un essere umano «costituirebbe una perdita prima facie maggiore, e quindi un danno prima facie più grave» della perdita e del danno che potrebbero derivare dalla morte di un altro animale - quand'anche quest'ultimo fosse in possesso di doti sensitive o cognitive maggiori rispetto al primo.

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APPUNTI SULL'ANTRO

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1MAL STUDIES 7/2014

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APPUNTI SULL'ANTROPOCENTRISMO E SULLO SPECISMO DELL'ETICA ANIMALISTA

Se però il criterio "appartenere a una specie", nel proprio non rispettare le "leggi dell'etica'', è da ritenersi invalido, esso lo è anche in questo secondo caso. Se ciò che si ha il dovere (logico) di rifiutare è quel "in quanto esseri umani", infatti, va rifiutata ogni forma di specismo, a prescindere dalle circostanze in cui questo stesso criterio è adottato. Nemmeno i tentativi più recenti di rivisi­tare ulteriormente lo specismo moderato, fornendone una versione definibile specismo indicale, possono ritenersi esenti da questa critica. Anche estromet­tendo dall'argomentazione ogni riferimento alla specie umana e sostenendo, come fa lo specismo indicale, che per i membri di una determinata specie è del tutto naturale accordare una certa preferenza ai propri conspecifici, "in quanto conspecifici", si afferma un qualcosa di filosoficamente fallace. Da un lato, infatti, le "leggi del mondo" sono distinte dalle "leggi dell'etica'': un comporta­mento naturale non è necessariamente anche un comportamento moralmente giustificabile. Dall'altro, il dovere logico di rifiutare lo specismo non è quel­lo di rifiutare ogni forma di esclusione di entità non-umane dalla comunità morale o di preferenza per gli esseri umani, ma quello di non utilizzare mai il criterio fondato sulla "appartenenza a una specie" in ambito morale. Bisogna anzi ammettere che tale criterio non è né moralmente rilevante né tantomeno eticamente valido.

La principale intuizione che sottostà al dovere logico di rifiutare lo spe­cismo è dunque a tutti gli effetti identica a quella che supporta il rifiuto di fenomeni quali il classismo, il razzismo o il sessismo. Essa è infatti così riassumibile: fatti inerenti l'appartenenza a un certo gruppo (classe, etnia, sesso, specie, ecc.) non hanno alcuna rilevanza per i nostri giudizi morali. Rifiutare lo specismo in ogni sua forma significa dunque abbandonare in toto la convinzione che l'appartenenza a una specie possa permanere quale centro di un'argomentazione volta a difendere una particolare forma di di­gnità morale. Se non si accetta questo presupposto non si può mai davvero modificare la visione specista che gli esseri umani hanno di loro stessi e del mondo naturale. Solo se lo si accetta si può comprendere che, lungi dall' es­sere riducibile al problema dello specismo, la scarsa o nulla considerazione morale data al mondo non-umano è un problema da contestualizzare nel più vasto schema concettuale dell'antropocentrismo etico (Andreozzi 20 l 2a). È solo in quest'ottica, infatti, che si rende possibile muovere oltre ogni dovere empirico e logico di rifiutare l'antropocentrismo e lo specismo, iniziando a parlare del dovere morale di pervenire a un'etica non-antropocentrica (e, quindi, anche non-specista).

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ANIMAL STUDIES 7/2014

4. Antropocentrismo etico. Verranno a chiederci del nostro amore (per noi

stessi)

Una volta ripudiato il primato ontologico ed epistemologico degli esseri umani come empiricamente infondato e ammesso che l'essere membri di una

qualsivoglia collettività è un criterio logicamente fallace per discutere della considerabilità morale di certe entità, ciò che occorre è comprendere fin dove possa o debba essere effettivamente estesa la comunità morale. Sono due i prin­cipali problemi che in questo senso si è costretti ad affrontare. Poiché, anche rifiutando lo specismo, l'etica antropocentrica potrebbe pur sempre essere in grado di dare scarsa o nulla considerazione a molte entità non-umane, il primo obiettivo è comprendere se una simile morale possa ritenersi giustificata. Se co­sì non fosse, infatti, il secondo obiettivo dovrebbe essere quello di individuare dei criteri non-antropocentrici che, indipendentemente da ogni riferimento alla specie e nel rispetto delle "leggi dell' eticà', consentano non soltanto di identificare diversi pazienti morali, ma anche di stabilire delle priorità tra i

nostri doveri verso di essi. Adottando una prospettiva antropocentrica in etica, senza però avvaler­

si dell'argomento specista o appoggiarsi all'antropocentrismo ontologico ed epistemologico, è ancora possibile articolare i nostri doveri morali facendo riferimento a un qualche standard di merito di cui sono soltanto o principal­mente in possesso gli esseri umani. Un simile modo di argomentare, oltre a eludere il problema dello specismo (perché non ricorre al criterio "apparte­nenza a una specie"), non presuppone alcun primato ontologico o epistemo­logico della specie umana. Si tratta, infatti, di individuare una certa proprietà o peculiarità dotata di valore morale che consenta di identificare in tutti i suoi depositari dei pazienti morali, stabilendo eventualmente delle gerarchie tra di essi a seconda del grado in cui essa è da questi posseduta. L'antropocentrismo

si fa dunque antropomorfico, ma non per questo anche specista: esso cerca di individuare ciò che già negli esseri umani (non "in quanto esseri umani") è di valore, per poi verificare l'eventuale esistenza di altri detentori del medesimo

valore. Pur tuttavia, anche questo modo di argomentare si rivela largamente fallace.

Il caso specifico di standard di merito più di frequente utilizzato nelle ar­gomentazioni etiche antropocentriche è lo standard morale (Taylor 1986; pp. 131-133). Esso deriva dalla convinzione ampiamente diffusa che gli esseri umani siano i soli pazienti morali in quanto unici a possedere le qualità che

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APPUNTI SULL' ANTll

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S-IMAL STUDIES 7/2014

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consentono di stabilire le "leggi dell' eticà' (es. libero arbitrio, responsabilità, facoltà di deliberare, facoltà di giudizio, ecc.). La specie umana non sarebbe dunque ontologicamente superiore alle altre: essa, molto più semplicemente, sarebbe l'unica specie morale. In questo senso, le entità non-umane non sareb­bero da considerarsi escluse dalla comunità morale in quanto prive di valore ma, al contrario, sarebbero prive di valore in quanto non in grado di partecipa­re alla comunità morale (Andreozzi 2012b). Il ragionamento, però, non regge un granché. Il fatto che certe entità non partecipino al fondamento della mo­rale non implica infatti necessariamente che l'etica non debba rivolgersi anche verso di loro: i casi marginali ne sono un esempio lampante. È pressoché certo che noi esseri umani ("paradigmatici") siamo le uniche entità naturali capaci di sottoporre la propria condotta a una continua revisione etica, ma nulla ci impedisce di stabilire dei doveri morali verso entità che non sono in grado di

comprendere i motivi del nostro agire o di ricambiare. È possibile individuare altri standard di merito antropocentrici. I..:adozione

della sensitività o della cognitività quali criteri di demarcazione morale, ad esempio, è molto diffusa non soltanto tra i diversi autori di tradizione squisi­tamente antropocentrica (si pensi a Jeremy Bentham o a Immanuel Kant), ma anche all'interno del pensiero animalista o antispecista. Lassunto di partenza di quest'ultima corrente teorica, come si è detto, è la comune convinzione

che sia impossibile individuare una proprietà o peculiarità capace di conferire valore agli esseri umani e al contempo impossibilitata a conferirlo anche ai numerosi animali non-umani. Come ho già mostrato, tuttavia, l'adozione di questa prospettiva, una volta posta a confronto con la necessità di stabilire delle priorità tra i nostri doveri morali, ricade facilmente nello specismo. L alternati­va, infatti, è un controintuitivo e inaccettabile anti-umanismo. Quand'anche, paradossalmente, così non fosse, la scelta di stabilire degli standard antropomor­fici a partire dai quali identificare tutti i pazienti morali si rivela nondimeno fallace proprio in quanto implicitamente antropocentrica.

Lerrata convinzione che fa da sottofondo all'utilizzo di simili standard di merito quali criteri moralmente rilevanti è infatti che sia possibile adottare ciò

che è di valore negli esseri umani - in un modo che è dunque valido per gli umani e agli occhi degli umani - quale metro di valutazione del valore di altre entità (Taylor 1986; pp. 130-131). Sono questi infatti casi di applicazione di uno standard umano a ciò che umano non è, e cioè di utilizzo di qualità rela­

tive al nostro bene (un bene umano) quali criteri idonei a valutare le qualità con cui altre entità possiedono un bene (un bene non-umano). Chi adotta

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un simile punto di vista è vittima di una confusione concettuale, perché tali standard non sono propriamente applicabili a entità diverse rispetto a quelle in cui vengono originariamente identificati. Soltanto gli esseri umani possono infatti essere legittimamente valutati e comparati tra loro in base a standard umani. Non altrettanto legittimo è però trasportare queste tipologie di giudizio a entità che hanno un bene diverso da quello umano e mezzi per raggiunger­lo che sono, di conseguenza, differenti da quelli umani. Ragionevole sarebbe, semmai, giudicare i loro meriti con standard di livello derivati dalle loro capa­cità di perseguire il loro bene: un bene per il quale la sensitività o la cognitività potrebbero anche essere poco o per nulla influenti.

La scelta di molti autori animalisti o antispecisti di tracciare una linea di demarcazione etica prendendo le mosse dal riconoscimento di certe analogie tra gli esseri umani e alcuni animali non-umani sembra essere effettivamente in grado di estendere lo status di paziente morale a tutti i soggetti senzienti. Anche ammettendo che alcuni animali siano dotati di certe capacità che ci consentono di parlare nei loro confronti di interessi simili, se non anche identi­ci, a quelli umani, il principale punto di riferimento in base al quale è possibile attribuire valore a simili interessi resta però comunque l'essere umano. È pres­soché inevitabile che ciò conduca a difendere, quantomeno implicitamente, l'antropocentrismo etico - se non anche lo specismo moderato o indicale. A partire da una simile prospettiva, infatti, difficilmente si può fare a meno di stabilire delle gerarchie tra i pazienti morali, escludendo certe altre entità dalla comunità morale stessa, sulla sola base di premesse squisitamente antropocen­triche. Ne è la prova il fatto che un vasto numero di animali non-umani privi di capacità sensitive e cognitive paragonabili a quelle umane resta in questo modo escluso dalla comunità morale: i mammiferi e i volatili coinvolti dagli standard antropomorfici sono infatti circa il 4% delle specie animali cono­sciute e solo una piccolissima frazione (meno del 2%) degli esemplari totali di animali non-umani.

Se ci si accosta al problema dell'antropocentrismo etico annullando le di­versità presenti tra gli svariati animali non-umani con lo scopo di esaltare le analogie tra essi e gli esseri umani non si fa altro che opporsi alla loro reificazio­ne umanizzandoli. Non si valorizza quindi realmente un'alterità che è parte di un'altra specie posta in relazione con un determinato altro ambiente naturale rispetto al nostro. Più che adoperarsi a raggiungere una reale emancipazione dalla centralità morale degli esseri umani, criteri quali la sensitività e la cogni­tività paiono infatti consentire al massimo di elevare certe entità non-umane

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APPUNTI SULL' ANTRC

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al rango di pazienti morali per semplice assimilazione a qualcosa di origina­riamente umano. È in questo senso che letica animalista si rivela in realtà tra i principali alleati dell'antropocentrismo e dello specismo. Ed è sempre in quest'ottica che i principali argomenti dell'etica antropocentrica, quand'anche non-specista, si rivelano inaccettabili. Il nostro rispetto per gli animali non­umani non dovrebbe infatti fondarsi sulla necessità di trattare essi come esseri umani. Dovrebbe, molto più semplicemente, articolarsi a partire dal dovere morale di trattare essi da esseri umani quali siamo: agenti morali capaci di sottoporre certe irragionevoli forme di condotta nei confronti del mondo non­umano a una serrata revisione etica.

Il vero problema che si è costretti ad affrontare nel tentativo di abbandona­re, rinnegare o superare l'antropocentrismo etico non risiede dunque nel fatto che gli esseri umani siano troppo innamorati di loro stessi - perché, diciamo­celo, potremmo in realtà amarci anche molto di più di così. Ciò che consente ali' antropocentrismo e allo specismo di fare da sfondo anche all'etica animali­sta è che essi conducono ad amare soltanto le facoltà umane. E se qualcuno ci venisse a chiedere il perché di tutto ciò non avremmo risposte che non siano anche dei preconcetti antropocentrici.

5. Epilogo. Escludiamo il cane (ma anche noi stessi)

Alla luce di quanto ho esposto è a mio avviso chiaro che letica animalista, nel proprio cercare di rifiutare ogni forma di antropocentrismo e specismo, si trova di fronte a un problema tutt'altro che facile da risolvere. Ciò che occorre, infatti, è individuare dei criteri non-antropocentrici che, indipendentemente da ogni riferimento alla specie e nel rispetto delle "leggi dell' eticà', consentano non soltanto di identificare diversi pazienti morali, ma anche di stabilire delle priorità tra i nostri doveri verso di essi. La notizia buona è che ogni problema, in linea di principio, ha una soluzione - altrimenti si tratterebbe di un dilem­ma. Tutti i giorni affrontiamo dei problemi e cerchiamo di risolverli: ciò che serve è solo un po' di metodo. In etica, fortunatamente, oltre a quelli che ho già illustrato è possibile adottare diversi altri metodi filosofici di problem-solving. Ciò che vorrei fare, in conclusione di questo articolo, non è però fornire rispo­ste al problema che ho qui descritto, ma dare al lettore alcuni strumenti utili a porre diversamente le domande da esso sollevate. La mia scelta potrebbe forse sembrare ingiusta ma, riprendendo ciò che ho detto nel paragrafo introduttivo,

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sono convinto che per pervenire a un'etica rivoluzionaria non occorra attuare

una rivoluzione in etica: bisogna anzitutto impegnarsi a elaborare buone idee.

In questo senso, si potrebbero anzitutto mantenere separate due differenti questioni in gioco: quella relativa alla necessità di individuare un criterio di demarcazione morale e quella inerente il bisogno di stabilire delle priorità tra i nostri doveri verso i diversi pazienti morali. La prima questione può infatti essere intesa come un problema prevalentemente metaetico relativo al valore morale delle diverse entità da considerarsi in una prospettiva etica ("cosa con­ferisce loro valore?"). La seconda può invece essere inquadrata come una que­

stione squisitamente normativa inerente lo status morale dei differenti pazienti morali ("come dobbiamo comportarci verso di loro?"). Una simile distinzione

è d'altronde generalmente già accettata all'interno dell'etica antropocentrica. Il favorire un conoscente rispetto a un perfetto sconosciuto, così come il favorire proprio figlio rispetto a un altro bambino, non implica dunque che i primi pazienti morali siano di maggior valore rispetto ai secondi. Allo stesso modo, tuttavia, nell'accordare priorità un essere umano rispetto a un'altra entità na­turale, così come nel concederla al proprio animale domestico rispetto ad altri animali non-umani, non richiede necessariamente di stabilire delle gerarchie di valore tra i differenti pazienti morali.

Nel discutere dello status morale, tenendo questo separato dal valore mora­le, ciò che occorre è dunque distinguere l'imparzialità che sarebbe opportuno adottare nel formulare i giudizi morali dall'impersonalità con cui questi stessi giudizi potrebbero essere effettuati (Nagel 1991; pp. 63-74). Se la prima impli­

casse sempre necessariamente la seconda si perverrebbe infatti a un trattamento etico dei diversi pazienti morali che, poiché fondato sull'indifferenza, sarebbe in molti casi giudicato immorale, se non anche incapace di risolvere i nume­rosi possibili conflitti di interessi. Se invece si intende l'imparzialità come di per sé fondata sulla sola equità della considerazione morale, sarebbe non solo possibile, ma anche doveroso accordare a certi pazienti morali un trattamento etico per certi versi privilegiato. In caso contrario, infatti, si effettuerebbero dei giudizi che, in quanto noncuranti delle relazioni esistenti tra agenti e pazienti morali e dei contesti in cui queste stesse si verificano, sarebbero in realtà par­ziali. Ciò che l'imparzialità sembra dunque richiedere non è riservare a tutti i pazienti morali un trattamento uguale, ma trattare ognuno di essi dando uguale considerazione a ciò che in essi possiede valore morale. Con lo scopo di articola­re un modello differenziato dei nostri doveri su di un'imparzialità che consenta alla morale di mantenere la propria universalità, senza implicare né discrimi-

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nazioni arbitrarie né doveri supererogatori, occorre dunque tenere conto delle diverse prospettive da cui è possibile guardare ai rapporti morali che intratte­niamo con il mondo non-umano. Non soltanto il punto di vista egoistico della prima persona (io-noi) adottata dagli agenti morali o quello impersonale della terza persona (egli-essi) ascrivibile a tutti i pazienti morali, ma anche quello relazionale di una seconda. persona che ci consente di parlare di un "tu" e di un "voi", anche in riferimento a entità non-umane.

Per quanto concerne invece il delicato problema relativo al criterio in base al quale sarebbe lecito stabilire chi o cosa possiede valore morale, è possibile

procedere adottando almeno due metodi differenti. Il primo e generalmente più utilizzato metodo consiste nel seguire un procedimento di inclusione: par­tendo da una classe di entità che sono già considerate essere pazienti morali -gli esseri umani - si cerca in questo modo di comprendere fin dove è possibile estendere la comunità morale. Come ho cercato di mostrare, è molto difficile che questo metodo conduca a esiti che non ricadano nelle contraddizioni pro­prie dell'antropocentrismo etico e dello specismo. Il secondo metodo è molto meno utilizzato. Esso consiste nell'adottare un procedimento di esclusione: in

questo senso, e senza alcun preconcetto di partenza, occorrerebbe argomenta­re i motivi per i quali un certa entità non dovrebbe fare parte della comunità morale. Le soluzioni cui si potrebbe pervenire seguendo indistintamente uno dei due metodi dovrebbero essere parimenti valide e giustificabili da una pro­spettiva morale. Se esiste una buona idea a partire dalla quale costruire un'etica che sia davvero rivoluzionaria, allora a questa idea dovremmo potere pervenire seguendo entrambi i metodi: se essi convergessero su un medesimo criterio, infatti, avremmo buone ragioni per credere di essere pervenuti a una valida soluzione del nostro problema. Seguendo il primo metodo, tuttavia, i nostri preconcetti antropocentrici, in quanto fortemente radicati nella tradizione cul­turale occidentale, possono facilmente indurci in errore. Provare a seguire il se­

condo non costerebbe nulla, e potrebbe portaci perfino a comprendere meglio cosa è effettivamente di valore in noi stessi esseri umani. Perché, dunque, non iniziare a escludere noi stessi e il nostro cane dalla comunità morale?

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