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Bollettino delle suore terziarie francescane elisabettine di Padova n. 1 - gennaio/marzo 2012 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. I, comma 2, DCB PADOVA La carne di Dio, dissipa le tenebre degli inferi C Caritate in CHRISTI fiaccola di luce,

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Bollettino delle suore terziarie francescane elisabettine di Padovan. 1 - gennaio/marzo 2012

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editoriale 3nella chiesa La fede: un incontro e una relazione 4 Chino BiscontinDagli esclusi la buona notizia 6Mireya Cabrera e Mercedes Zambrano

spiritualità Il desiderio fra risorse e pericoli 8Ferdinando Montuschi

finestra aperta Essere in relazione o essere connessi? 10Gaetano PiccoloIl sapore delle parole 12Marilena Carrraro

in cammino Riaccendiamo il fuoco in queste ceneri 14a cura delle partecipanti“Voi siete di Cristo” 15a cura delle partecipanti

alle fonti Parola, interiorità e vita di relazione 16a cura della Redazione

accanto a... La forza di seguire una stella 19a cura del Servizio educativo

Rispondere all’Amore? 20Barbara Danesi

Vivere come fratelli: un’arte 21Lina Lago e Emiliana Norbiato

vita elisabettina Nel gennaio pordenonese con il beato Odorico 23Walter Arzaretti

Il “profumo di Cristo” riempie tutta la casa 24a cura di Jessica Roldan MendozaProgetti di aiuto in Egitto 25a cura della Redazione

memoria e gratitudine In memoria di due Vescovi legati alla famiglia elisabettina 26a cura della Redazione

Con cuore di madre 30Annavittoria Tomiet

A servizio dei minori a Badia Polesine 31 Annavittoria Tomiet

nel ricordo Tu sei la roccia della mia salvezza 33Sandrina Codebò

in questo numeroa n n o L X X X I V n. 1 gennaio-marzo2 0 1 2

EditoreIstituto suore terziarie francescane elisabettine di Padovavia Beato Pellegrino, 40 - 35137 Padova tel. 049.8730.660 - 8730.600; fax 049.8730.690e-mail [email protected]

Per offerteccp 158 92 359“Direttore responsabile

Antonio Barbierato

DirezionePaola Furegon

CollaboratoriIlaria Arcidiacono, Sandrina Codebò, Barbara Danesi,

Martina Giacomini, Enrica Martello, Margherita Prado, An-navittoria Tomiet

StampaImprimenda s.n.c. - Limena (PD)

Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 14 del 12 gennaio 2012Spedizione in abbonamento postale

Questo periodico è associato all’Uspi(Unione stampa periodica italiana)

In copertina: Icona della Discesa agli inferi o Anastasis in cui, secondo la tradizione dell’oriente cristiano,viene simbolicamente rappresentato il contenuto centrale dell’evento della morte e risurrezione di Cristo: la vittoria sulla morte e la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato. Il Risorto, splendente di luce, strappa dal sepolcro il primo uomo (Adamo) e la prima donna (Eva) facendoli entrare con sé nella gloria e con loro tutta l’umanità da lui redenta (icona scritta nell’atelier S. Andrée).

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«L a follia d’amore raggiunge le vette in Cristo, nel Dio crocifisso, il cui cuore trafitto lascia intravedere nel foro due abissi: l’abisso del peccato dell’uomo e l’abisso

dell’amore di Dio». Raccogliamo questo messaggio tra i tanti lasciati dal

vescovo monsignor Alfredo Battisti scomparso all’inizio di quest’anno: due abissi nel cuore trafitto di Cristo.

Allontanatosi da Dio per seguire le proprie strade, l’uomo soffre il vuoto e il non senso; perde la direzione della propria vita fino a cadere in una angosciosa disperazione che è una muta invocazione d’amore.

L’abisso del peccato invoca l’abisso dell’amore, due polarità che si richiamano in un abbraccio dove è l’amore a vincere, a ridare dignità e gioia (cf. Lc 15).

È grazia la consapevolezza del peccato, personale e sociale, ed è grazia ancor più grande sperimentare che il proprio peccato è il luogo della manifestazione dell’Amore.

I santi ne hanno fatto speciale esperienza; così è stato per la beata Elisabetta Vendramini.

Umiliata dal peccato per il quale si sente la più spregevole delle creature, si sente abbracciata dal più amoroso dei padri, immersa in un amore infinito. Lo testimoniano i suoi scritti dai quali riprendiamo solo alcune espressioni.

«Oh abissi opposti di misericordia di Dio e di miseria mia! e nondimeno calamite indissolubili! Chi separerà da te, o miseri-cordia, l’abisso di mie miserie? e chi queste mai allontanerà da quella misericordia che Dio ti dimostra? …» (D 1581).

Alle figlie parla per l’abbondanza del cuore, incoraggiando la confidenza, l’abbandono, la corrispondenza.

Scrive ad una novizia: «Ti lascio nel Cuore di Gesù: sia questo il tuo nido, la tua torre di fortezza, il tuo giardino deli-zioso; infiammati in quello di amore e rendi amore per amore» (E 452); a suor Antonia: «Ti lascio nel Cuore di Gesù, a quella scuola apprendi qual sia il vero amore» (E 97); a suor Giuseppina: «Nelle tue mancanze come correrai a quell’abisso immenso di misericordia perché ricopra le tue miserie e così le

distrugga! Figlia, se Dio ci concederà la grazia di ben conoscerci e nel centro della nostra miseria ci mostreremo a Lui, come dire-mo bene: oh quanto si sta bene nel nostro centro!» (E 659).

Alle suore riunite in capitolo: «Dio vi benedica, o mie figlie, con la benedizione la più copiosa, benedizione che ... vi faccia aprire nel cuore del Signore i tesori tutti di misericordia, per ispargerli nei cuori tutti bisognosi» (I 9,5).

Progredendo nella lettura si vede come l’incontro con l’amo-re misericordioso la spinga ad un desiderio infinito di fedeltà e di risposta d’amore fino alla morte. Non martire nel dare la vita, ma martire per il desiderio di una “configurazione” che la renda capace di farsi tutta dono.

E per noi cos’è la quaresima se non questo cammino dall’abisso del peccato verso l’incontro con «l’abbraccio bene-dicente»?

Giunge alla redazione, come dono, la poesia: Ascolta e vedrai

A tutti auguriamo un cammino quaresimale nutrito dalla contemplazione del cuore trafitto dall’amore per entrare, nuovi, nella gioia della risurrezione.

la Redazione

gennaio/marzo 2012

Gli abissi nel Cuore trafitto

editoriale

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Immobile,ai piedi del Crocifisso,

il cuore ascoltal’Amore umile, povero, potente.

Nel silenzioemerge come auroral’abbandono di sé.

Tu sei pastore.La valle oscura solo passaggio;l’l’’l’l’lllll ababaa braccio, l’unione, la visionnnneeeeeeee

sosono il compimentoo

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Negli Atti degli Apostoli Luca riferisce che Paolo e Barnaba, dopo un viaggio apostolico non

privo di momenti drammatici, torna-rono ad Antiochia, da dove avevano ricevuto la missione, e «appena arri-vati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede» (At 14, 27). È da questo versetto che Benedetto XVI ha tratto la bella imma-gine che fa da titolo alla sua Lettera apostolica in forma di motu proprio dell’11 ottobre 2011, con la quale ha indetto l’Anno della fede, che inizierà l’11 ottobre 2012 e terminerà il 24 novembre 2013. La da-ta di chiusura è fissata nella solennità di Cristo Re, la da-ta d’inaugurazione cade nel cinquantesimo anniversario dell’inizio del concilio Vati-cano II, e nel ventesimo della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Sempre per il mese di ottobre del 2012 il Papa ha convocato una Assemblea ge-nerale del Sinodo dei Vescovi, che avrà come tema La nuova evangelizzazione per la tra-smissione della fede cristiana.

Nell’indire questo Anno della fede Benedetto XVI si rifà ad una analoga iniziativa di Paolo VI che, nel 1967, di-ciannovesimo centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo, indisse a sua volta un anno dedicato a riflettere sul grande dono della fede; quell’anno culminò con la Professione di fede del Popolo di Dio il 30 giugno 1968 (testo elaborato dallo stesso Papa).

Per una consapevole adesione

Quale impegno si aspetta il Pa-pa per la celebrazione dell’Anno del-la fede? Lo dichiara egli stesso nel documento citato: «In questa felice ricorrenza, intendo invitare i Confra-telli Vescovi di tutto l’orbe perché si uniscano al Successore di Pietro, nel tempo di grazia spirituale che il Signo-re ci offre, per fare memoria del dono prezioso della fede.

Vorremmo celebrare questo Anno

in maniera degna e feconda. Dovrà intensificarsi la riflessione sulla fe-de per aiutare tutti i credenti in Cri-sto a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Van-gelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo. Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore risorto nelle nostre cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sem-pre. Le comunità religiose come quelle parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo».

I frutti di una rinnovata conversione

E in vista di quali frutti? Ancora una volta con le parole di Benedetto XVI: «L’Anno della fede, in questa prospet-tiva, è un invito ad un’auten-tica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero del-la sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissio-ne dei peccati (cf. At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo ad una nuova vita: «Per mezzo del battesimo siamo stati se-polti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risusci-tato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in

LETTURA DEL MOTU PROPRIO “PORTA FIDEI” (I)

La fede: un incontro e una relazionePer edificare la comunità

di Chino Biscontin1

sacerdote diocesano

Un anno per riscoprire il dono della fede, quale abbandono

fiducioso all‘incontro con Dio e capacità di maturare una degna

condotta di vita.

4 gennaio/marzo 2012

nella chiesa

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una nuova vita» (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purifi-cati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. La «fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita del-l’uomo (cf. Rm 12,2; Col 3,9-10; Ef 4,20-29; 2Cor 5,17)».

Tra verità credute e relazione personale

È indispensabile, parlando di fede, tener conto che essa ha due aspet-ti diversi, strettamente collegati tra di loro e non separabili. La teologia medioevale ne parlava con i termini “fides quae creditur”, per indicare le verità che si credono e si professano

per fede, e “fides qua creditur” per indicare l’atteggiamento personale in cui consiste la fede, e cioè l’abbandono totale e fiducioso all’incontro e alla comunione con Dio. Dei due aspetti, quest’ultimo è il vero fondamento e la sostanza di ciò che chiamiamo la fede, il primo, i contenuti della professione della fede, ne è (o ne dovrebbe essere) la conseguenza.

Mi sia permesso rifarmi a un rac-conto, inventato appositamente.

Susy è una ragazza di diciassette anni. Con la madre ha un rapporto conflittuale e con il padre la sua comu-nicazione si riduce a mugugni e bron-tolamenti. Anche con il fratello, più giovane, gli scontri sono quotidiani. A scuola i professori dicono di lei che è intrattabile, che il suo impegno è sal-tuario e il rendimento insoddisfacente, e che talvolta è anche maleducata. I compagni di classe la giudicano luna-tica e insopportabile, e ritengono che con lei un rapporto di amicizia non sia possibile.

Se chiedete a Susy: “Secondo te, che cosa è la vita?”; risponderà: “Uno schifo”. Se le chiedete: “E la fami-glia?”; “Una gabbia di matti”. E la scuola? “Una noiosa perdita di tem-po”. “E i compagni?”; “Stupidi”.

Il fatto è che Susy si è innamorata di Marco, un compagno di classe, che lei vede bellissimo, simpatico e sensi-bile. Ma Susy si giudica brutta. Ha i capelli ondulati e vorrebbe averli lisci, il suo naso è asimmetrico, il seno trop-po piccolo e sproporzionato, le gambe troppo corte e storte. Così almeno

lei ritiene. Perciò non osa nemmeno sperare che Marco si accorgerà di lei, e tanto meno che prenderà in considera-zione i suoi sentimenti.

Sono passati sei mesi e Susy sem-bra un’altra persona. Con la mamma non solo parla, ma a volte chiede dei consigli e la tratta quasi come un’ami-ca. Ha ripreso a rispondere al papà e persino a sorridergli. Più di qualche volta ha aiutato il fratello più giovane a superare qualche difficoltà nel fare i compiti per casa. Anche a scuola le cose vanno decisamente meglio. Fi-nalmente il rendimento scolastico è buono e continuo, il rapporto con gli insegnanti non solo corretto ma con un paio di essi addirittura caloroso. Con i compagni le cose vanno ancora meglio.

Che cosa è accaduto? Alla fine Marco s’è accorto di due occhioni che lo guardavano in una certa maniera, e ha risposto. Ora Susy e Marco sono insieme, innamorati l’uno dell’altro. E Susy è cambiata. Ed è cambiato anche il suo modo di percepire la realtà. Se le chiedete: “Secondo te, che cosa è la vita?”; risponderà: “Una avventura meravigliosa”. Se le chiedete: “E la fa-miglia?”; “La mia casa, il mio nido, la mia sicurezza”. E la scuola? “Marco!”. E i compagni? “I miei migliori amici”. E non è il caso di chiederlo ma, dopo gli apprezzamenti di Marco, Susy si trova piuttosto carina.

Tutto questo non è avvenuto dopo che Susy ha partecipato a un corso su come cambiare la propria visione del mondo, né perché qualcuno ha continuato a vessarla con prescrizioni riguardanti il comportamento. È una relazione personale che l’ha cambiata interiormente, e ha cambiato di conse-guenza il comportamento e lo sguardo verso se stessa, il mondo, le persone.

La fede: un incontro con Gesù

Questo racconto può essere di aiuto per capire che cosa determina quel rapporto di completa fiducia in Dio, mediato dall’incontro con Gesù, che chiamiamo fede. Il nostro sguardo

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La fede, rapporto di fiducia ion Dio mediato dall’incontro con Gesù.

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6 gennaio/marzo 2012

nella chiesa

Perché una settimana di rifles-sione teologica per la vita con-sacrata?

Molte sono le risposte che ne sono venute. Qualcuno ha usato l’imma-

gine del sabato in attesa della resur-rezione: dopo lo scandalo della croce, della crisi e dell’oscurità, siamo in attesa della primavera pasquale che tarda ad arrivare. Altri hanno parlato di un tempo dell’esilio, altri ancora di un tempo giubilare in cui far memoria del passato e sognare il futuro per celebrare poi l’emerso in comunità. Altri ancora hanno osato chiamarlo un tempo sabbatico simile a quello di Dio che il sesto giorno riposa per dar luogo al meglio della sua creazione: il sesto giorno, infatti, Dio gioisce di quanto è uscito dalle sue mani e condivide la sua gioia con l’umanità.

Le diverse espressioni rinviano al bisogno – di noi religiosi e religiose – di fermarsi, di sedersi per rileggere ciò che è stato con uno sguardo diverso e quindi elaborare qualcosa di nuovo. Tempo di mistica e di contemplazio-ne. Abbiamo bisogno di fermarci: per

VITA CONSACRATA IN ECUADOR

Dagli esc lusi la buona notiziaRiprendere il coraggio dell’annuncio

di Mireya Cabrera e Mercedes Zambrano stfe

Dal 2 al 6 dicembre 2011 si è svolta in Quito (Ecuador) la

terza settimana teologica della vita consacrata dallo stimolante

titolo Inviati ad annunciare la buona notizia del Regno a

partire dagli esclusi. Molti i religiosi e le religiose

presenti.

In sala: convenuti insieme nell’ascolto.Foto di pagina accanto: celebrazione eucaristica, dalle dimensioni missionarie.

1 Don Chino Biscontin, sacerdote della diocesi di Concordia-Pordenone, è docente presso la Facoltà teologica del Triveneto e gli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Portogruaro, Padova e Treviso ed è direttore della rivista "Servizio della Parola". Dirige la Biblioteca, il Museo e l’Archivio storico della sua diocesi.

sulla realtà, la nostra scala di valori, il mondo dei nostri desideri, nulla ri-mane com’era prima, tutto il mondo interiore e il comportamento è sotto-posto a un processo di cambiamento. È questo, in fin dei conti, che inten-deva spiegare san Paolo quando affer-mava che è la fede che “giustifica”: che ci cambia, da “sbagliati” a “giusti”.

Naturalmente la mia storiella ha un limite: quel particolare rapporto con Marco che l’ha cambiata è suo, e solo suo. Il nostro rapporto con Dio, me-diato dal rapporto con Gesù, è aperto a tutti e può, dunque, essere annunciato a tutti. E quando avviene, insieme ad aspetti legati all’irripetibile indi-vidualità di ciascuno, ha anche effetti comuni, che possono essere espressi mediante una dottrina che riassume la visione della realtà che la fede genera, e mediante precetti etici che indicano la traiettoria di vita che ne deriva.

Ne risulta che il servizio reso al-la fede comporta due aspetti: uno fondante e iniziale che è quello di favorire l’incontro con Dio, mediante Gesù, e di farlo maturare in una re-lazione profonda e stabile; uno deri-vato, ma non meno importante, che è quello di condurre coloro che vivono tale relazione ad una piena matura-zione della loro esperienza, mediante la partecipazione alla comune visione di fede e ad una degna condotta di vita. La fede individuale, infatti, non è donata individualisticamente, ma in vista dell’edificazione di un corpo sociale visibile, la comunità dei cri-stiani, la Chiesa, che costituisce la presenza del “Corpo di Cristo” tra gli uomini. È mediante quel Corpo che continua ad essere spalancata agli uomini la “porta della fede”, e cioè l’incontro con Gesù, che “giustifica” e illumina.

(continua)

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noi, per le nostre congregazioni, per la vita religiosa e per la storia che stiamo vivendo.

Riconosciamo di essere come intos-sicati dall’attivismo, dalle mille e più cose da fare, da una febbre beninten-zionata fatta di generosità e di agende piene. Una corrente di superficialità ci inganna e non lascia spazio alla gratui-tà, alla riflessione. Abbiamo bisogno di spazi di ricerca, di interiorità, in cui esprimere le nostre ragioni, domande, dubbi e certezze e allo stesso tempo di interrogare la realtà, tanto rapida e mobile, in cui siamo immerse.

Grazie al contributo della teolo-ga Mariola Lopez Villanueva che ci ha presentato alcune figure bibliche femminili (Agar, Maria Maddalena, Maria di Betania e Marta, la donna ca-nanea, l’emorroissa, la figlia di Giairo, la donna curva, Elisabetta e Maria di Nazareth), ci siamo rese conto ancora una volta di come Dio ha costruito la storia della salvezza attraverso donne, e per di più schiave o sterili.

Ci ha messo nel cuore sorpresa e gioia lo scorgere come Gesù ha ridato dignità e offerto salvezza alle donne da lui incontrate, generando scanda-lo nei suoi contemporanei maschi, fino a rivelare a queste medesime donne i segreti del regno e a renderle destinatarie privilegiate della buona

notizia. Si può così parlare di una sorta di buona complicità fra Gesù e le donne, di sintonia e di mutuo ap-prendimento, anche nell’ascolto della realtà, di Dio e della vita: una serena e feconda integrazione fra maschile e femminile.

Alla luce di queste riflessioni, ci sentiamo così convocate intorno alla mensa in compagnia di Gesù, mensa dove ciascuno offre il proprio pane a tutti e scopriamo il dialogo quale mezzo che rende il mondo più uma-

no, in quanto favorisce i valori della cura, della vicinanza, della pazienza e della benevolenza che conducono alla comunione.

Entusiasmo, vitalità, desiderio di ricerca e voglia di fare nostre le sfide dell’oggi sono l’eredità che ci siamo portate a casa, da condividere con i membri delle comunità cui apparte-niamo e con i fratelli e le sorelle che accostiamo. Con Gesù e come Gesù vogliamo vivere l’eucaristia quale luo-go di relazione e di rivelazione e sta-bilire legami con i poveri e gli esclusi: vivere il vangelo è rompere strutture e schemi mentali, lasciare che Dio baci i nostri sbagli e far festa al banchetto del Regno.

Stralci dal messaggio finale

Vita consacrata! Non temere, sei preziosa ai

miei occhi! Grida di giubilo! Gioisci! Perché Jahvè ti ha consolato e ha misericordia dei suoi afflitti.

Guarda la realtà con uno sguar-do nuovo che accoglie, non giudica e non etichetta persone e situazioni. Guarda il mondo “dalla tenda di Agar”, la schiava, la egiziana, la esi-liata (Gen 21). Con lei contempla la realtà dei volti sofferenti che ti inter-pellano e ti invitano ad uscire da te stessa; volti di bambini abbandonati, di giovani senza direzione, di donne oppresse, di anziani soli, di campe-sinos ammalati a causa della con-taminazione dell’acqua… Prega per poter dire con loro “noi i poveri”.

[…] Non aver paura di mostrarti vulnerabile e fragile. Impara da Gesù l’amore che si fa servizio, che si dona all’altro, che è giustizia e tenerezza e annuncialo con la Chiesa, serva del Regno. Impara a trovare le “benedi-zioni mascherate”, benedizioni di Dio presenti nella debolezza, nella preca-rietà, nella piccolezza, nella banalità e in ciò che sembra impossibile.

[…] Vita consacrata! Non la-sciarti rubare la speranza! Sei di-scepola del Signore….

Impegnati… Lascia la tua paralisi! Alzati e va’

per le strade!La tua è vocazione senza tetto,

andare nel mondo fino a quando la terra sarà una tavola condivisa e l’umanità una famiglia di fratelli.

Non rimanere spettatrice della realtà… Apri brecce nel tuo tetto!

[…] passa dall’imperativo dei successi e dei risultati all’avventura di creare vincoli affettivi e sociali, relazioni in cui ognuno possa dare e ricevere! Diventa creatrice di co-munione con i diversi, camminando disarmata, senza aver paura…

Chiedi la sapienza per entrare nelle case, nelle vite degli altri con qualità di presenza e di tenerezza.

Accogli la grazia della conversio-ne per aprirti alla chiamata sempre nuova del tuo Signore e continuare ad annunciare il Regno a partire dagli esclusi.

… la tua vocazione è insieme semplice e impegnativa perché con lui tutto puoi.

Quito, 6 dicembre 2011 Equipe di Riflessione teologica

della CER (Conferenza Ecuadoria-na Religiosi)

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spiritualità

8 gennaio/marzo 2012

“Sentire” e “decidere”

A questo riguardo sembrano ne-cessarie alcune precisazioni relative particolarmente alla vita affettiva della persona umana. Il “sentire” interiore e la capacità di “decidere” le proprie azioni, pur essendo collegati tra di loro, sono modalità espressive sostan-zialmente diverse e sono governate in modo autonomo. La persona ha una responsabilità anche nei senti-menti (che possono essere educati per rendere sempre più libera e autentica la decisione), ma la responsabilità sul proprio modo di “sentire” è diversa e distinta da quella che porta ad “agi-re” che chiama in causa soprattutto il proprio modo di pensare e di valutare il significato delle azioni da compiere nel rispetto dei valori che ispirano la propria esistenza.

La persona può infatti assumere decisioni conformi o difformi ai propri sentimenti in riferimento a quei valori che ritiene essenziali e irrinunciabi-li. Il collegamento fra i sentimenti, i desideri, i bisogni e le decisioni esiste sempre, ma la decisione sulle azioni da compiere è sempre sotto la piena responsabilità della persona che per tutta la propria esistenza educa se stes-sa sia nell’area del sentire – per sentirsi “libera” nella gestione della propria affettività –, sia nell’area del decidere per sentirsi “libera” nel seguire e rea-lizzare i valori che ispirano le proprie scelte di vita.

Questa distinzione – sia di signi-ficato che di responsabilità – fra de-siderio “sentito” e desiderio “realiz-zato” ci consente di entrare nell’area dell’affettività umana con una visione rasserenante, con una tolleranza verso le proprie emozioni per evitare inutili

Nei dieci comandamenti della leg-ge (Es 20) per ben due volte ri-corre il divieto di desiderare con

l’obbligo di non desiderare la “roba” e la “donna di altri”. In questo contesto il desiderio ha un unico significato – di segno negativo – che unifica l’ambito emotivo del “sentire” con la funzione ben più impegnativa e complessa del decidere e dell’“agire” intenzionale.

L’agire implica infatti un progetto che chiama in causa, oltre al deside-rare, anche il pensare, il giudicare e il decidere azioni da compiere. E questa decisione, costruita con con-sapevolezza e determinazione, incide e modifica il “cuore” della persona prima ancora che si verifichino le condizioni favorevoli per tradurla in comportamenti.

Mentre per le istituzioni sociali e le loro leggi solo le azioni compiute sono considerate trasgressioni, per la vita spirituale – come più volte ricordato nei testi evangelici –- la persona che decide di compiere un’azione proibita «ha già peccato in cuor suo» anche se le circostanze le hanno impedito di realizzarla.

Il desiderio fra risorse e pericoliEducare la propria affettività

di Ferdinando Montuschi1 docente

Abbiamo bisogno di “educare” i desideri per rafforzare quelli che ci aiutano a realizzare pienamente

il nostro progetto di vita. Un cammino che l’autore

ci accompagnerà a compiere nel corso del 2012.

e dannosi sensi di colpa. Io posso facil-mente sentire il desiderio di possedere un gioiello che vedo esposto in una vetrina ma non sono tenuto a sentirmi in colpa per quel desiderio che potreb-be spingermi ad appropriarmene in modo indebito. Mi basta sapere che con la mia volontà posso governare quel desiderio e non sono tenuto ad estirparlo per evitare azioni contrarie ai miei valori: posso però “educare” e orientare quel sentimento-desiderio rafforzando contemporaneamente la mia libertà e volontà sia nel sentire che nell’agire.

Educare i desideri

Da queste ovvie ma utili distinzio-ni possiamo ricavare alcune concrete indicazioni. La prima è che non ab-biamo bisogno di “sentirci in colpa” per i desideri che sentiamo continua-mente emergere dentro di noi: abbia-mo piuttosto bisogno di “educarli” per rafforzare quelli che ci aiutano a realizzare pienamente il nostro pro-getto di vita. In questa prospettiva i desideri da noi coltivati si rafforzeran-no al punto da indebolire quelli che temiamo possano tradursi in azioni indesiderate. In definitiva le energie che impiegheremmo – spesso inutil-mente – nella demolizioni dei desideri devianti e distruttivi possono essere più utilmente investite nel “costruire” e rafforzare i desideri che ci aiutano a realizzare quanto la nostra volontà de-cisionale ritiene importante e priorita-rio. Il grande desiderio di “fare il bene” è dunque la migliore energia per tener lontano la tentazione di “fare il male”.

Un secondo risultato che possiamo ricavare dalla distinzione fra sentire e decidere – oltre a ridimensionare il senso di colpa per ciò che interior-mente sentiamo – porta a diminuire i possibili contrasti fra sentire e pen-sare, fra dovere e piacere, fra men-te e cuore. Quando nell’intimo della persona mettono radici queste inde-bite contrapposizioni si creano infatti inevitabili conflitti, con conseguente spreco di energie e di motivazioni che,

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spiritualità

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Educare il desiderio: finestra spalancata sulla libertà interiore.

a seconda della loro natura, facilitano o ostacolano ogni momento della nostra esistenza.

Ripensare i desideri

Per portare a concretezza queste premesse di carattere generale pos-siamo cominciare ad interrogarci ed a ripensare i nostri desideri con l’intento di coglierne i dinamismi affettivi non sempre consapevoli. Per una educa-zione dei desideri costruttivi può es-sere utile soffermarsi preliminarmente su alcuni atteggiamenti negativi che tendono a minacciare il rapporto che la persona ha sia con se stessa sia con gli altri. La loro identificazione può infatti aiutare ad evitarli.

Nei successivi contributi mi sof-fermerò invece su alcuni specifici de-sideri legittimi, ma anche ambivalenti, quale il desiderio di essere perfetti con le sue contro-indicazione, il desiderio di essere utili agli altri con i suoi rischi nascosti, il desiderio di essere ascoltati, capiti e valorizzati con le sue inevitabili contraddizioni e confusioni soprattut-

to quando non si fa distinzione fra desideri, diritti e pretese. Si tratta di chiarificazioni del più grande e insosti-tuibile desiderio-decisione di amare il prossimo come se stessi che vale per ogni persona, particolarmente per la perso-na che fa una scelta di vita religiosa.

Gli atteggiamenti negativi da evi-tare riguardano i falsi bisogni che si manifestano attraverso tre tipici ruoli relazionali in cui si può facilmente ca-dere: quello di “vittima”, di salvatore” e di “persecutore”. Sono atteggiamenti – accompagnati da relativi comporta-menti – rivolti verso di sé e verso gli altri che è facile identificare poiché, oltre ad essere frutto di un marcato analfabetismo affettivo, sono ripetiti-vi, ostacolano l’intimità, la verità della relazione interpersonale e sono fonte di pericolosi giochi psicologici. Mi limito a segnalare alcuni tratti identificativi che saranno approfonditi nei prossimi contributi più specifici.

La persona “vittima”

La persona che adotta abitualmen-te il ruolo di vittima tende a lamentarsi anziché a chiedere e non accetta aiuto dagli altri in modo da avere sempre un pretesto per potersi ulteriormente lamentare. Questo desiderio non nasce da un bisogno reale ma dal desiderio di aver gli altri sempre a propria di-sposizione. La persona esige un aiuto che potrebbe chiedere a se stessa tra-sformando così i propri desideri in “pretese” accompagnati da rapporti dipendenti e da comportamenti passi-vi. La persona che assume con facilità il ruolo di vittima svaluta dunque, im-propriamente, se stessa enfatizzando l’importanza delle persone che incon-tra per poter così ottenere da loro soddisfazione ai propri inutili desideri, rimanendo sistematicamente delusa.

Altra caratteristica che la persona può presentare sul piano relazionale riguarda il suo non saper chiedere. L’unico modo che conosce, e che le dà la convinzione di stare chiedendo, è il “lamento”: continuo, monotono, lo-gorante. E la risposta ad una domanda

non formulata conduce inevitabilmen-te a malintesi e a delusioni.

Il modo migliore per uscire da que-sto labirinto è sempre quello di aiutare a trasformare i lamenti in richieste chiedendo a chi si lamenta di che cosa ha realmente bisogno e verificando quale aiuto “legittimo” può aver senso “concordare” evitando di assumere il pericoloso ruolo di “salvatore”.

Da “vittima” a “salvatore”…

Il desiderio-bisogno di assumere il ruolo di “salvatore” nasce ancora da una svalutazione di sé, da un cattivo rapporto con se stessi che si tende a compensare attraverso un eccesso di aiuto per gli altri nella illusione, così facendo, di risollevare la propria condizione di inferiorità erroneamen-te considerata tale. L’aiuto improprio dato nel ruolo di “salvatore” non è altro che una forma di egoismo, un modo sbagliato di trovare pace con se stessi che ha come risvolto altrettanto negativo, una svalutazione dell’altro e una sostituzione indebita delle sue capacità. In definitiva, un rapporto improprio e distruttivo.

... a “persecutore”

La persona che ha sperimentato in modo deludente e fallimentare il ruolo di salvatore può rapidamente sentirsi vittima, oppure assumere il ruolo ven-dicativo di “persecutore”. Da questa posizione aggressiva i comportamenti possono assumere una dimensione to-talmente opposta ed è facile preveder-ne gli esiti negativi e perennemente conflittuali sulle relazioni interperso-nali e sociali.

La conoscenza di questi desideri e comportamenti distorti può essere utile per poterli meglio evitare e può inoltre aiutarci a meglio affrontare i desideri ambivalenti che analizzeremo in seguito in modo più specifico.

1 Professore emerito di pedagogia speciale dell’Università “Roma3”, psicologo e psicote-rapeuta, già collaboratore di percorsi formativi nella famiglia elisabettina. Vive a Roma.

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10 gennaio/marzo 2012

Introduzione2 La vita religiosa è sem-

pre uno specchio dei mu-tamenti che avvengono a livello sociale: le comunità religiose sono dei microco-smi, all’interno dei quali le persone portano tutto il ba-gaglio che hanno accumu-lato nella vita precedente, ma anche tutto il materiale che ricevono dai contatti con il mondo esterno.

La comunità religiosa si ritrova così a gestire tutti gli stimoli che at-traverso i suoi membri arrivano al suo interno.

Negli ultimi anni una buona parte di questo ma-teriale è mediato dai nuovi strumenti di comunicazio-ne: cellulari, internet, posta elettronica, social network.

APERTI AL MONDO

ESSERE IN RELAZIONE O ESSERE CONNESSI?VITA RELIGIOSA E NUOVI MEDIA

di Gaetano Piccolo1

sj

I “nuovi mezzi di comunicazione”,

la loro rapida diffusione e l’utilizzo immediato,

rappresentano una questione di carattere

antropologico ed educativo,

tra un più superficiale “essere connessi” e un più profondo

“essere in relazione”.

Si tratta di un mondo con enormi potenzialità, al pun-to che negli ultimi messaggi del Santo Padre per la gior-nata mondiale delle comuni-cazioni sociali, in particolare nel messaggio della XLIII giornata (2009), viene sol-lecitato un impegno dei cri-stiani, in particolare dei gio-vani, nell’evangelizzazione di questo mondo virtuale. Il mondo virtuale diventa così una sorta di “nuove Indie” in cui ripetere le imprese di Francesco Saverio3.

Al di là dei rischi su cui bisogna vigilare, il pro-blema sollevato dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla loro rapida diffusio-ne e dall’immediatezza nel loro utilizzo, è a mio avvi-so soprattutto di carattere antropologico ed educativo, e potrebbe essere riassunto nella distinzione tra un più superficiale “essere connes-si” e un più profondo “es-sere in relazione”. Il rischio è che il superficiale diventi norma e il più profondo di-venti insolito.

Vigilare su questa dif-ferenza diventa vitale per la qualità delle relazioni all’interno della comunità religiosa e nella vita del re-ligioso/a.

Reti ambigue e desideri legittimi

Il messaggio per la XLIII giornata mondiale delle comunicazioni sociali mette in luce un atteggia-mento positivo fin dal titolo:

“Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialo-go, di amicizia”. Quando si parla di nuove tecnologie è inevitabile che il riferimento sia principalmente all’uso di internet, ma in generale lo sviluppo della comunicazio-ne permette una maggiore vicinanza tra le persone e un accesso senza precedenti a una quantità impensabile di informazioni. È possibile mantenere relazioni anche quando ci si trova a notevoli distanze, è possibile condi-videre le proprie opinioni (recentemente, nella crisi del nord Africa, ma anche nelle battaglie politiche in Italia per i referendum, sembra che l’incidenza delle infor-mazioni circolate in rete sia stata determinante), è pos-sibile accedere a documenti e informazioni in maniera molto più veloce rispetto ai tempi richiesti da eventuali spostamenti.

È inevitabile che nella vita religiosa aumenti pro-gressivamente quello che nel mondo laico accade ormai di norma: gran parte della vita si svolge in rete.

E proprio l’immagine della rete può offrire un’oc-casione di riflessione più spirituale.

Parliamo di rete nel-l’ambito della comunicazio-ne per riferirci all’insieme di connessioni, di contatti, di snodi che permettono il passaggio delle informazio-ni. Non è forse casuale l’uso di questo termine, perché la

rete è un’immagine ambi-gua: la rete può essere quella della pesca miracolosa (cf Lc 5 o Gv 21), una rete quindi che diventa immagine posi-tiva della Chiesa, in grado di radunare e raccogliere, ma la rete è anche la trappola in cui si può rimanere im-pigliati. Questa immagine negativa della rete è molto presente nelle descrizio-ni delle vite dei santi (per esempio la descrizione che il Ribadeneira tratteggia del-la conversione di Ignazio di Loyola, descrivendo questo momento come liberazione dai lacci in cui era rimasto impigliato), ma anche nel-l’iconografia, come accade per esempio nella rappre-sentazione del Disinganno che si trova nella Cappella di San Severo a Napoli, pro-gettata nel XVIII secolo, in cui è raffigurato un uomo che cerca di liberarsi dai le-gami (ingannevoli) di una rete4.

L’altro elemento su cui riflettere da un punto di vista spirituale è ciò che spinge verso la rete.

A ben guardare, come anche il Pontefice sottolinea nel messaggio per la LXIII giornata delle comunica-zioni sociali, è il «desiderio fondamentale delle perso-ne di entrare in rapporto le une con le altre» che spin-ge ad andare verso la rete o in generale ad utilizzare strumenti di comunicazioni sempre più efficaci ed im-mediati.

Il desiderio della comu-

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nicazione, che prende spes-so la forma di un desiderio di amicizia, non può esse-re compreso solo alla luce dello sviluppo delle nuove tecnologie. Esso esprime piuttosto un desiderio di re-lazione radicato nella natura umana.

«Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piutto-sto come riflesso della nostra partecipazione al comuni-cativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare del-l’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vo-gliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo ri-spondendo alla chiamata di Dio - una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione»5.

Comunicazione e co-munione sono quindi altri modi per dire che « Dio è amore» (1Gv 4,8). È infatti proprio l’amore la ragione della comunicazio-ne. L’amore non può che generare ed uscire da sé. Dio manifesta il suo amore incarnandosi, cioè uscendo da sé e comunicandosi al-l’umanità.

D’altra parte la comuni-cazione non è solo una ma-nifestazione di Dio, ma è la natura stessa di Dio. Dio è infatti in se stesso comunica-zione: il Padre, il Figlio e lo Spirito sono l’immagine della comunicazione/comunione perfetta nell’unico Dio.

Comunicazione e co-munione hanno infatti la stessa radice: cum-munus, portare insieme uno stesso dono e una stessa respon-sabilità. La comunione è possibile solo dove è attiva una comunicazione. Si tratta sempre di un’unica modalità di stare in relazione, in cui si è partecipi e si condivide la stessa responsabilità, seppur in forme diverse, a partire dalla nostra individualità. La relazione autentica non è quindi la mera connessione ad o con un altro, ma la re-lazione è autentica quando coloro che sono in relazione hanno la percezione di con-dividere uno stesso dono e una stessa responsabilità.

Il desiderio di connes-sione non è quindi una forma semplicemente mo-derna di relazione, ma è l’espressione esteriore di un bisogno più profondo di ciò che è propriamente umano.

È necessario però appro-fittare di questo desiderio

di connessione per aiutare e aiutarci a scoprire un’iden-tità più profonda e più divi-na che è presente in noi.

Il tempo degli indecisi

La questione a cui siamo di fronte in quanto religiosi non è semplicemente se e come usiamo i nuovi me-dia, quanto piuttosto se ci rendiamo conto del tempo in cui viviamo e in cui sia-mo chiamati ad annunciare il Vangelo. La differenza tra due differenti modalità, cioè quella dell’essere connessi o dell’essere in relazione, può dire qualcosa di noi stessi, ma dice ancor di più dello spirito del tempo in cui vi-viamo.

È necessario rendersi conto che questo è il tempo del social network, cioè di luoghi fisicamente inesisten-ti, ma che paradossalmen-te offrono alle persone la possibilità di incontrarsi. Le relazioni che si costruiscono sul web6 hanno caratteri-stiche specifiche che non sono altro che l’espressione di come l’uomo e la donna di oggi preferiscono vivere le relazioni. È in questo sen-so che le relazioni virtuali ci stimolano ad interrogarci sul nostro modo di vivere le relazioni, anche se non sia-mo dei frequentatori assidui del cyberspace7.

L’uomo del social network è connesso con un numero elevato di altri uten-ti nello stesso momento. Può comunicare i propri interes-si, i propri stati d’animo, i propri gusti, a milioni di utenti, i quali a loro volta possono anche interagire, ri-spondere e commentare, ma

tutto questo può avvenire - e di solito avviene - senza che vi sia un reale coinvolgimen-to nelle relazioni8.

Nella comunicazione in rete saltano le regole usua-li della conversazione. Per certi versi il web è molto più simile alle situazioni de-scritte da Carroll in Alice nel paese delle meraviglie che al-le situazioni della vita reale: per esempio si può iniziare e terminare una conversa-zione senza che ci sia quel processo di approccio e di commiato che solitamente una relazione richiede.

In tal senso un criterio che potrebbe aver portato ad incrementare vertigino-samente le relazioni virtuali è l’assenza di fatica e la pos-sibilità di evitare i conflitti nelle relazioni: nella stessa misura in cui si diventa ra-pidamente amici in inter-net, così altrettanto velo-cemente basta un click per porre fine ad una relazione, senza quel faticoso processo che nella vita reale porta a chiudere una relazione.

Paradossalmente accan-to a questa fuga dalla fati-ca, le relazioni sul web sono spesso caratterizzate anche da una forte emotività. Il tipico cybernauta è un sog-getto emotivo che mette al centro della comunicazione i propri interessi ed è guidato nella sua ricerca di connes-sioni dall’individuazione di altri soggetti che abbiano i suoi stessi interessi. Nel mo-mento in cui non ci sono più interessi comuni, la connes-sione finisce.

Questa connessione fon-data solo sul riscontro di un interesse comune, mette in luce la presenza on line9 di personalità narcisiste: questo

Padre Gaetano Piccolo illustra alle capitolari il tema dell’incidenza dei nuovi media nelle relazioni anche nella vita religiosa

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12 gennaio/marzo 2012

narcisismo raggiunge punte parossistiche nella piattafor-ma cosiddetta di Second life10 dove è possibile generare un altro se stesso creando il pro-prio avatar, cioè la propria raffigurazione virtuale.

Un’altra caratteristica dell’utente di internet è il suo operare di solito da solo: virtualmente connesso con milioni di altri utenti, ma fisicamente da solo. Tale differenza induce a riflette-re sui processi di crescita e di maturazione che necessi-tano di un’interazione con altri soggetti (amici, edu-catori, guide, autorità…), un’interazione che forse la massiccia quantità di tem-po dedicata alle connessioni virtuali non è più in grado di garantire.

Nella vita religiosa poi si entra quando la persona ha ancora una notevole mole di lavoro da fare su se stessa a livello psico-affettivo e spi-rituale. È dunque necessa-rio vigilare se i tempi e gli spazi offerti dalle interazio-ni reali sono sufficienti o se vengono progressivamente sostituiti dalle connessioni virtuali11.

Il mondo di internet di-venta rappresentativo anche di quella incapacità sempre più tipica delle nuove ge-nerazioni nel prendere de-cisioni: internet può essere utilizzato infatti anche per crearsi uno spazio di fanta-sia che può diventare uno spazio protettivo, special-mente per difendersi da un mondo che ti incalza con decisioni e scelte da prende-re. Possiamo rispondere ad una telefonata, ad una mail (messaggio di posta elettro-nica) o a un messaggio su Facebook12 se e quando vo-gliamo, senza che l’altro ci incalzi, ma possiamo anche vagare in internet, lascian-doci rapire dalle immagini

e dai contenuti così come se fossimo in salotto a guardare la tv, con la differenza che in salotto potrebbe arriva-re altra gente reale, men-tre davanti al pc (personal computer) sono sicuro di esserci proprio solo io.

Internet consente infat-ti di stabilire connessioni indipendentemente dallo spazio, nel senso che non è necessario abitare lo stesso spazio fisico per entrare in relazione. Il rischio è che questo modello generi una fatica strutturale nel condi-videre lo spazio fisico. Abi-tuandosi a stare in uno spa-zio fisicamente isolato, c’è il rischio che l’altro venga percepito sempre più come “invasore”.

(continua) 1 Gaetano Piccolo, sj, diret-

tore dell’Aloisianum, Centro Eu-ropeo di Formazione filosofica dei Gesuiti che ha sede a Padova. È docente di Logica e di Filosofia della conoscenza.

2 Viene riportato il testo del-l'intervento che p. Piccolo ha te-nuto nel corso dell’incontro pre-capitolare delle suore elisabettine il 20 giugno 2011.

Appuntamento per le parole

Ci fu un tempo, non molti anni fa, in cui i getto-ni telefonici potevano essere usati come moneta. I primi gettoni costavano 50 lire, in seguito 100 e poi 200. Mentre parlavi al telefono all’interno di una cabina

pubblica, li sentivi scen-dere uno alla volta, la loro frequenza dipendeva dall’orario, dal giorno in cui chiamavi e dalla lontananza. Il loro tic-chettio era un monito a non sprecare parole.

Erano pochissime le famiglie che in casa pote-vano godere di una linea

telefonica, cosa frequente invece nelle aziende, nelle istituzioni e nei luoghi pub-blici. Il vicino di casa che per necessità aveva il telefo-

IERI E OGGI

IL SAPORE DELLE PAROLECOMUNICAZIONE O INFLAZIONE?

di Marilena Carraro stfe

Telefono fisso e uso del cellulare: la facilità

di raggiungere e di essere raggiunti rischia di diminuire l'intensità

della relazione.

3 Nel messaggio per la XLIII giornata mondiale delle comunica-zioni sociali si parla di “continente digitale”. Già nel 1990 Giovanni Paolo II parlava dei “media come l’areopago del tempo moderno”, nella Redemptoris Missio.

4 Cf. Prefazione di Massimo Leone in A. SILVESTRI, La luce e la rete. Comunicare la fede nel Web, Effatà, 2010 Torino, 3-6.

4 Messaggio per la XLIII giornata mondiale delle comuni-cazioni sociali.

6 Web: letteralmente rete. È la terza “W” nell’acronimo WWW dall’inglese World Wide Web: Grande Rete Mondiale.

7 Cyberspace: è uno spazio immateriale che mette in comuni-cazione i computer di tutto il mon-do in un’unica rete che permette agli utenti di intergaire tra loro.

8 Cf. M.S. LABRA, La spiri-tualità del network, in «Tredimen-sioni» 3, 2006, 46-54.

9 On line: letteralmente signifi-ca essere in linea, essere connessi.

10 Second life: seconda vita.11 Su questo tema cf. RENÉ

J. MOLENKAMP - LUISA M. SAF-FIOTTI, Dipendenza da cybersesso, in «Tredimensioni» 3, 2006, 188-195.

12 Facebook: si tratta di un sito web di reti sociali ad accesso gratuito (letteralmente: libro delle foto, dagli annuari con le foto di ogni singolo soggetto, in uso in alcuni college statunitensi).

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gennaio/marzo 2012 13

no generalmente era aperto e disponibile a ricevere le chiamate per i vicini.

La telefonata, urgenze a parte, avveniva per “ap-puntamento”. La comu-nicazione partiva con quel “Pronto”, che tutti ancora utilizziamo, a dire la nostra presenza e attenzione verso chi chiede di conversare con noi. Le parole si snodavano misurate, sobrie, essenzia-li, ma non povere o vuote. Queste parole avevano la capacità e il tono di rasse-renare famiglie lontane, di riavvicinare genitori e figli, di rincuorare gli amici. La telefonata in più non era un’abitudine.

Ecco una storia che pre-cede l’avvento dei cellulari:

Io e mio marito comin-ciammo a frequentarci prima dell’ultimo anno di Univer-sità. Io ero a Londra e lui era al nord. Non avevamo i cellulari. Non avevamo le e-mail. Non avevamo neanche i telefoni fissi (terribile ve-ro?). Così… cosa facevamo? Ci scrivevamo lettere e or-ganizzavamo appuntamenti alle cabine telefoniche.

Io avevo il numero di te-lefono di una cabina nel suo campus e lui quello di una cabina vicina al mio appar-tamento. Ad un’ora precisa ogni settimana ci dirigevamo in quella cabina telefonica e cominciavamo ad inserire tutte le nostre monete nel te-lefono in modo alternato1.

L’appuntamento era un rito che avvicinava le anime prima ancora di scambiarsi parole: ma ci vogliono i riti!

«Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vie-ni, per esempio, tutti i po-meriggi, alle quattro, dalle

tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti»2.

Una telefonataallunga la vita

Sono passati vent’anni, ma tutti ricordiamo la pub-blicità Sip-Telecom in cui Massimo Lopez3 nel ruolo di un condannato a morte che, prima di venire fucila-to, chiede di fare un’ultima e interminabile telefonata, che gli salva la vita!

Allora le linee telefoni-che avevano ormai raggiun-to le famiglie, il gettone e la nuova scheda prepagata, leggera e facile da usare, servivano solo se ci si tro-vava fuori casa. Lo scatto telefonico andava giù allo stesso modo, ma la perce-

1 Cf. http://e-blogs.wikio.it, Come ci si organizzava prima dell’avvento dei cellulari.

2 ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY, Il piccolo principe, 1943.

3 Massimo Lopez (1952), attore, comico, doppiatore, can-tante italiano. Lo spot è stato premiato nel 1994 con il Leone d'Oro, il massimo riconoscimento nel mondo della pubblicità.

4 ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY, cit.

zione era diversa e così la fruizione delle parole, pie-ne e vuote, divenne sempre più abbondante.

Negli stessi anni le aziende e le istituzioni si aprirono ad un nuovo mez-zo per comunicare: il te-lefono cellulare. I costi di questo tipo di chiamata, inizialmente esagerati, gra-zie alla concorrenza e alla differenziazione delle tarif-fe si abbassarono.

Molte volte il cellulare veniva “regalato” a chi ave-va accumulato punti-benzi-na, punti al supermercato o altro. Tutte promozioni che garantivano ai rivenditori la fedeltà del cliente e al clien-te di ottenere quel prodotto che altrimenti non avrebbe acquistato. Oggi la maggio-ranza delle persone possiede almeno un cellulare: è una opportunità che si presta ad alcune considerazioni… e ci fa sorridere ricordando la pubblicità citata.

La facilità di raggiun-gere e di essere raggiunti al cellulare rischia di diminui-

re l’intensità della relazione che prende avvio, ancora, con il “Pronto” (o “Hallo”).

Le facilitazioni sui costi, così come la possibilità di avere lo strumento sempre attivo - allentano i freni e le parole… rischiano di in-vaderci violando, talora, i tempi del “privato”.

Perché i giorni non si assomiglino

«Che cos’è un rito?» disse il piccolo principe.

«Anche questa è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ra-gazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meravi-glioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballas-sero in un giorno qualsiasi i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai va-canza»4.

Il breve stralcio non ha bisogno di commenti. Sareb-be bello che almeno qualche appuntamento al telefono fosse un tempo diverso da ogni altro tempo, perché la parola è portatrice di affetti, di senso, di amicizia.

Connessione superficiale o miglioramento della relazione?

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Noi suore latinoamericane di vo-ti perpetui ci siamo date uno spazio di sosta – fatto di pre-

ghiera, di riflessione e di confronto –, sollecitate dal desiderio di “tornare al nostro primo amore” (nella foto sopra: un momento di preghiera). Ci hanno ac-compagnato in questa esperienza suor Lucia Meschi e suor Lourdes Alonso dell'Istituto “Figlie della sapienza”.

L’arricchente esperienza ha riem-pito il nostro cuore di sogni e progetti. Che bello rispolverare il baule (ben custodito!) dei doni che il Signore ci ha regalato!

Che bello far memoria del cammi-no percorso, di come il Signore si è re-so presente nella nostra vita e in quella della nostra famiglia religiosa ora co-me Padre, ora come Fratello, ora come Amico! Nel rileggere la nostra storia, ascoltando e accogliendo sentimenti

FORMAZIONE PERMANENTE IN ECUADOR

Riaccendiamo il fuoco in queste ceneriVerso orizzonti di passione e desiderio

a cura delle partecipanti1

Nei giorni 27–30 dicembre 2011 si è tenuto un incontro di studio

per alcune suore latinoamericane di voti perpetui in una casa di

spiritualità a Cumbayà – Quito. come apertura al differente e chiede un continuo spostamento per far spazio agli altri; la povertà che esprime la relazione di interdipendenza di tutta la creazione e si fa per noi appello a cogliere e manifestare la benedizio-ne del fruire di ciascun bene in una prospettiva di alleanza, di reciprocità e di interdipendenza; la castità come capacità di amare e vivere relazioni giuste che generano fraternità, amore celibe che cerca di vivere relazioni af-fettive che impediscono la dipendenza, l’esclusività, il possesso e l’esclusione e generano, invece, fraternità, amicizia, crescita e maturazione.

Desideriamo continuare a darci spazi formativi simili a questo, ringra-ziando la nostra famiglia religiosa che ci offre tali opportunità.

Ancora: desideriamo essere presen-za di Dio in mezzo al popolo, consape-voli che non siamo arrivate al traguardo e che molto è il cammino da fare.

Abbiamo seminato qualcosa e im-parato qualcos’altro: ora ci rimettia-mo in marcia con gli ideali, la forza e la passione che dimorano nel nostro cuore.

ed emozioni, abbiamo trovato spinte e slanci nuovi per il nostro andare, consapevoli che è necessario passare dalla “sistemazione” alla ricerca, dalla superficialità alla profondità, dall’ego-centrismo al dono di sé, dalla passività alla creatività.

In questo tempo di reciproca co-noscenza e di condivisione ci ha fatto bene anche lo scoprirci nuovamente in sintonia con il carisma dell’istituto cui apparteniamo, ossia il sentirci chiama-te a far conoscere il volto di un Dio che ci ama e che per solo amore ha inviato il suo figlio; a rendere visibile questo volto ai nostri fratelli poveri, ai più bisognosi, riconoscendo che la nostra consacrazione al Signore è un dono per la Chiesa e l’umanità tutta.

Gratitudine e stupore ci hanno fat-to poi compagnia nel rileggere i voti con uno sguardo creativo che lega e mette in relazione i voti medesimi con tutto quanto viviamo: l’obbedienza

1 suor Ondina Blondet, suor Mireya Ca-brera, suor Jackeline Moreira, suor Mónica Pintos, suor Jéssica Roldan, suor Magdalena Zamora, suor Mary Zambrano e suor Merce-des Zambrano.

Il fuoco evoca la bellezza, il mistero e la passione che ci interroga in tutta la vita, che ci fa ricercare la sua luce e il suo significato. Questo fuoco è da risvegliare,

ravvivare e mantenere acceso durante il viaggio.Le persone che si impegnano per gli altri, che lavorano per la giustizia e per

l’integrità della creazione, che sono capaci di spendere la propria vita per gli altri sono persone che pregano, che si lasciano bruciare da Dio… che da questi tempi prolungati alla presenza del Signore traggono forza, umiltà e sapienza.

Mariola Lopez srcj

in cammino

14 gennaio/marzo 2012

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in camm

ino

gennaio/marzo 2012 15

Dal 22 al 28 gennaio 2012 le suore di voti temporanei della delegazione Argentina-Ecuador

si sono ritrovate a Casa Betania (Pablo Podestà – Buenos Aires) per un incontro formativo che ha messo a tema: l’ap-partenenza, vista da varie angolature. Nelle righe che seguono, alcune eco di ciò che ha caratterizzato l’incontro: riflessione sul senso della sequela, de-siderio di stare insieme, di camminare verso una vita sempre più integrata e di costruire fraternità (nella foto in basso, da sinistra: suor Erica De Felice, suor Adriana Alcaraz, suor Monserrate Sarabia, suor Veronica Mendez, suor Valeria Bone, suor Violeta Reina)1.

«Tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,

22-23). Con questa espressione bi-blica abbiamo cominciato il nostro incontro, che fin dalle prime battute ci ha portate a riflettere e a renderci con-sapevoli che attualizziamo la nostra appartenenza, la nostra consacrazione a Dio, nella quotidiana conversione e nel discernimento della volontà di Dio. Il fondamento di tutto ciò è un comune e reciproco appartenere “spi-rituale” che si radica non nei legami di sangue, ma in Cristo Gesù.

Quale appartenenza?

In questo percorso siamo state aiu-tate dalla Parola di Dio, dalla liturgia e dagli interventi di alcuni relatori che ci hanno accompagnato a confrontarci sul nostro appartenere come donne, come

cristiane e come elisabettine e a calarne l’esperienza nella concretezza della vita e delle diverse realtà, in Argentina e in Ecuador, in cui abitiamo e cerchiamo di rendere visibile l’amore con il quale Dio ci ha amato per primo.

Nell’approfondimento psicologico del tema sono risuonate in modo sem-pre più provocatorio alcune domande come: “che cosa significa per me ap-partenere?”, “a chi appartengo?”, “chi mi appartiene?”, “perché apparten-go?”. La riflessione che ne è derivata ha lasciato intuire che ciascuna di noi appartiene a se stessa, a ciascuna ap-partiene il proprio corpo ed è vivendo questa appartenenza a sé che si riesce ad essere per gli altri.

Accanto alle prime domande ne sono riecheggiate delle altre che ci hanno portato a considerare come l’appartenenza si misura attraverso le azioni e a verificare se e come le nostre azioni sono pertinenti all’appartenen-za che professiamo e viviamo. Inoltre, abbiamo valutato se nello “zaino” con il quale abbiamo intrapreso il nostro cammino di sequela ci sono delle cose che appesantiscono il passo e non fa-voriscono l’appartenenza.

Verso il “paese interiore”

Il secondo passo del nostro itinera-rio ci ha guidato verso il nostro “paese interiore”, come è stato definito dalla

relatrice che ha evidenziato come ap-partenere equivalga ad essere liberi, è ritornare al primo amore. Con forza ci ha invitato a ricordare questo primo sì, un sì che esprime l’appartenere in una determinata realtà, che si vive anche come un continuo esodo, dentro allo spazio e al tempo, in un processo di ricerca di senso, di apertura al trascen-dente e alla trasformazione in noi della immagine di Dio Trinità. Un cammi-no che percorriamo con le nostre luci e le nostre ombre, vivendo un atteggia-mento di profonda fiducia.

Appartenenza e testimonianza

Il percorso si è poi aperto a un nuovo orizzonte, quello dell’appar-tenenza alla Chiesa e alla famiglia elisabettina. Segni visibili di cammino con e dentro alla Chiesa sono per noi san Francesco e madre Elisabetta, ma anche i testimoni concreti, martiri della nostra Chiesa latinoamericana. Da loro ci lasciamo interpellare sul modo con il quale facciamo esperienza e testimoniamo Gesù e sull’essenza profonda del nostro essere elisabet-tine oggi e della nostra appartenenza a una famiglia religiosa: l’identità e il carisma come esperienza spirituale fondante della nostra vocazione “emi-nentemente trinitaria”, nella varietà dei doni.

Ci rimane nel cuore la sfida quo-tidiana di essere sorelle e comunità aperte e accoglienti, senza dimenticare l’essenziale del nostro stile di vita.

INCONTRARSI PER RIFLETTERE

«Voi siete di Cristo»Vivere l’appartenenza

a cura delle iuniori della delegazioneArgentina - Ecuador

1 L’incontro, animato e guidato da suor Lucia Meschi e suor Francesca Violato, ha visto gli interventi della dottoressa Ingrid B. de Rivera, psicologa e decano dell’Università del Salvador, e di padre Jorge Pratolongo, missio-nario della Consolata.

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alle fonti

16 gennaio/marzo 2012

Il tema del Capitolo, così come è formulato, si ispira al pensiero di Elisabetta Vendramini: «Se a Dio

piace, mia cara figlia, io amo un amore le cui scintille siano opere, in qualun-que siccità fatte con costanza» (E 24), scrive a Felicita Rubotto.

Se il visibile (opere) esprime solo in scintille l’invisibile (amore), qua-le “vesuvio” di amore è desiderato e perseguito soprattutto da madre Eli-sabetta?

In questo contributo ci soffermia-mo sull’interiorità che esplode in pas-sione apostolica, quasi a dire che dalla sorgente del fuoco interiore dell’amore si sprigionano scintille in direzioni di-verse sul fronte della carità.

In Elisabetta cogliamo il contesto di riferimento per raccoglierne la pro-fondità della spiritualità che la anima quando ne parla: ora sono amorose scintille della misericordia (D 839), ora desiderio ardente di amore (cf. D 1389 e D 2503), ora volontà risoluta di appartenere totalmente al Signore (cf. I 45,3), ora struggente contemplazione dell’incendio d’amore tra il Padre e il Figlio Gesù (cf. D 637).

Interiorità, esteriorità, ulteriorità

Mettendo a tema la voce “interio-rità”, occorre costringerci a stare su una domanda-chiave per intenderci: interiore-interiorità richiama imme-diatamente una polarità che si coniuga con esteriore-esteriorità. Dicotomia o contiguità? Si tratta di dentro-fuori, per cui interiore nel significato di den-tro, intimo… ha come suo contrario esteriore nel significato di percepibile dai sensi, aspetto, apparenza, quasi estraneo alla vita interiore…?

A ben pensarci, riflettendo sulla vita siamo portati a considerare l’este-riorità come facile a comprendersi e l’interiorità come un po’ “misteriosa”. Eppure conosciamo bene l’esperienza del risveglio, dell’improvvisa consape-volezza, della scintilla che scocca, della gioia, dell’attesa…

Riconosciamo che il punto di avvio di queste esperienze non ci appartiene, quasi venisse da altro, o dall’Altro: ha il carattere della imprevedibilità; nel monotono scorrere dei giorni, delle ore, si fa presente, è un improvviso al-largarsi e approfondirsi dell’orizzonte.

Recenti studi in merito stimolano a superare il binomio esteriorità-in-teriorità a favore di un processo più dinamico e senza soluzione di conti-nuità che viene definito “ulteriorità”, come un andare oltre, un cercare senso e spessore nelle cose-persone, negli eventi che stanno a cuore, un allargare l’orizzonte della vita e delle cose per cui attivarsi.

Lo scoccare dell’interesse, il voler esplorare, l’attenzione selettiva che ci rende sensibili alla presenza, accom-

pagnano le esperienze di incontro e di interazione con mondi personali, come fonte inesauribile di informa-zione, che nutre e matura intelligenza ed emotività, che alimenta cuore e desideri, volontà e decisione. La realtà si manifesta dinamica, il qui ed ora nascondono un “ulteriore” che chiede sempre di essere accolto, contemplato, esplorato, pena l’aridità, la monotonia, l’appiattimento, o l’acedia, come la chiamavano i santi…

Parola e vita interiore

È l’amore che ha le caratteristiche di cui sopra ed è l’interiorità che ne è una scintilla, fuoco destinato a espan-dersi, ardere, consumarsi nel desiderio e nel dono: dono ricevuto anzitutto, Parola che ci ha raggiunte. Per noi consacrate è percepire che la nostra storia parte da un Altro che risveglia la nostra consapevolezza: «Dove sei?» (Gen 3,9) e che offre una promessa di intimità: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Dio è amore sorprendente, infinito, struggente, prende l’iniziativa sempre, e per sempre. Anche ora, per ciascuna, e per la famiglia religiosa, e per il mon-do; per chi è smarrito o perduto vanno le sue preferenze, perché è Parola, è Parola incarnata per questo.

Il Capitolo ci propone la sfida di rileggere la nostra storia, i nostri dati, i nostri passi, le nostre attese, come storia sacra, da accostare in modo dinamico, assecondando le domande di senso, in-terrogando il Signore: «… perché ci hai fatto questo?» (Lc 2,48) e assumendoci la

ATTINGENDO ALLE FONTI

Parola, interiorità e vita di relazioneL’invisibile si fa “opera”

a cura della Redazione stfe

Ci piace condividere con il lettori stralcio dell’intervento

di suor Alessandra Fantin ad illuminazione dello Strumento di

lavoro del 29° Capitolo generale, nel corso della celebrazione capitolare a Torreglia (PD).

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gennaio/marzo 2012 17

alle fonti

responsabilità di ascoltarlo: «Parla, per-ché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,10).

«Ascoltatelo»: Interioritàe ascolto

Ascoltare la Parola di Dio attestata dalla Scrittura equivale ad ascoltare Cristo che parla; viverla è vivere il Cri-sto. La Parola è Cristo. Questa verità viene formulata dall’autore della let-tera agli Ebrei all’inizio del suo scritto in questi termini: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).

La Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, il Figlio di Dio (cf. Gv 1,14).

Nell’episodio della Trasfigurazio-ne la voce celeste invita i discepoli presenti ad ascoltare Gesù: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascol-tatelo”» (Mt 17,5). Ascoltare Gesù si-gnifica ascoltare il Padre, perché Gesù non dice altro se non ciò che a sua volta ha udito dal Padre (cf. Gv 15,15).

Non si tratta di un ascoltare fisico né di un semplice coinvolgimento affettivo, è qualcosa di più, come si evince dal fatto che “ascoltare” la sua pa-rola equivale a “rimanere in lui” (Gv 15,10). L’uso di questo verbo, caro al-l’apostolo Giovanni, desi-gna l’unione con Cristo e la partecipazione alla sua vita e, per mezzo di lui, alla vita del Padre (cf. la metafora della vite e dei tralci in Gv 15).

“Stare” sull’interiorità come processo può signifi-

care accogliere nuovamente la Parola: «Per questo io piego le ginocchia

davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito» (cf. Ef 3,12-16)

A Paolo fa eco madre Elisabetta: «Guardatevi dall’essere uno spirito in-quieto, svolazzatore, incostante; ma state bene attente di vestirvi di uno spirito quieto, fisso, raccolto, pacifico nell’interiore ed esteriore, nei moti e nei gesti; né mai divider dovete le ali, cioè i vostri affetti: al cielo una e l’altra alla terra, ma in Dio solo prendete il volo» (I 31,6; D 823; D 1088).

Ri-centrarsi in Gesù, Parola fatta carne

“Stare” sull’interiorità come pro-cesso può significare soprattutto ri-centrarsi su Gesù.

È questa esigenza diffusa un segno della vitalità, della nostalgia che ci abita…, per essere somigliantissime a lui (cf. Strumento di lavoro, 15).

È lasciarsi incontrare, lasciarsi tra-sformare dalla Parola, lasciarsi condur-

re, scegliendo le modalità più adatte alla persona, alla comunità: lettura orante, lettura continua, lettura liturgica, lec-tio divina, shalom, lettura comunitaria, lettura sapienziale sulla storia persona-le, territoriale, mondiale…; privilegiare il contatto assiduo, personale; ascoltare Gesù con cuore ardente; porsi in dialo-go-ascolto, in silenzio, e consentire che il seme marcisca, metta radici, germo-gli e porti frutto (cf. Relazione di madre Margherita p. 66).

Alla scuola di madre Elisabetta, discepola di Gesù, madre e maestra, possiamo sentirci introdotte all’ascolto di Gesù.

Anzitutto, Elisabetta suggerisce di tenere in alta considerazione la Pa-rola di Dio, discernere a cosa conduce, non soffocarla: «Figlia carissima, si deve far conto di tutto ciò che alla virtù ci porta e si renderà stretto conto d’ogni buon pensiero, che dire si può ispirazione e parola di Dio. Perciò, avuta che l’abbiamo, bisogna vedere a che quella ci porta, se al disprezzo di noi, se a corrispondenza, se a umiltà, se a obbedienza; ma, conosciuto che abbiamo la volontà divina ed il no-stro dovere, ci costi ciò che costare ci

possa, bisogna operare per non soffocare l’ispirazione» (E 10); «Mancheranno sì il cielo e la terra, ma non mai la sua divina parola» (E 199; E539)

In secondo luogo bi-sogna accogliere la parola, ricorrervi con fiducia per-ché sapiente, amorosa, in-fallibile: «Perché nei biso-gni non ci portiamo all’in-fallibile parola?» (E 541).

Ancora: fare proprio l’invito a trattenere sovente i detti di Gesù, secondo la via della interiorizzazione, della ruminatio: trattenere la parola, custodirla… co-me Maria: « […] respira coi

Suor Alessandra Fantin (a destra) si intrattiene con le suore capitolari sul tema che illumina Lo strumento di lavoro del 29° capitolo generale (luglio 2011); a sinistra, suor Francapia Ceccotto.

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alle fonti

alle fonti

18 gennaio/marzo 2012

«La messe in cui Dio ci pose – scri-ve a una superiora – è veramente apo-stolica. Delle figlie che c’inviò, non poche paragonare possiamo ai com-pagni da Gesù eletti per fondamentali pietre della sua Chiesa.

Conosce ben Egli, o figlia, di quali soggetti abbisogniamo per il disim-pegno delle nostre obbligazioni e, nell’inviarci le rozze, le goffe e le po-vere, credi tu che a suo tempo non le voglia quali abbisognano essere pel bene delle povere inferme nelle quali è nascosto?Ma assicurati che tu e me ora abbisogniamo di queste sì rozze e goffe per l’acquisto di quella carità che in noi non è ancor della vera; di quella pazienza inseparabile da tal carità ed ancora per la perdita di quella fiducia che abbiamo, abbenché non ci sembri, nei nostri detti, viste e progetti, tutti in vero ai nostri comodi ed amor proprio adattati» (E 324; E 474).

La carità genera pazienza e tolle-ranza.

«Se mirerete continuamente nelle vostre ammalate, la persona stessa di Gesù Cristo non vi riuscirà sicuro gra-voso alcun peso… Difatti, vi ricordo, che, sebbene quelle ammalate sono gente rozza, sono tuttavia tutte occhi per mirare alla maniera con cui tolle-rate le loro miserie, per vedere come vi portate tra voi, se con scambievole amore, se con modesto e grave proce-dere, se state altercando tra voi... Pro-curate insomma di farvi vedere sempre

detti di Gesù Cristo, che t’insegna a salvarci certamente» (E 487).

Oppure ricorrere a lui a seconda della situazione interiore in cui ci ve-niamo a trovare, come stupendamente espresso nella lettera 206 (Epistolario, pp. 292-293).

Elisabetta confessa il suo amore personalissimo per il santo Vangelo: «Presi tosto il libro dei santi Evangeli e mel posi vicino al letto per toccarlo nelle mie tentazioni, sicura che a quel tocco, che inchiesta di resistere lo in-tendea, ne sarei esaudita. Sovente ba-cio per tenerezza e stringo al seno quei detti che dalla sapienza eterna sortiro-no per nostra istruzione» D 1149.

E ci insegna anche a pregare prima di leggere o ascoltare, per in-tendere la Parola: «Oggi alla Messa pregava il Signore, prima del santo vangelo, a darmi lume per intenderlo con particolar lume come a lui piaceva: era quello dei talenti; ma mi fu tosto mostrata la diversità della semente co-sì: abbenché tutto in buona terra get-tato sia il grano, vi sono dei climi che danno più raccolti in un anno; ve ne sono degli altri che ne danno uno, ma è più buono; ve ne sono altri che, come il suddetto, una sola volta all’anno dà il suo frutto, in più abbondanza ma di meno peso e minor qualità» (D 2833).

Ri-centrarsi in Gesù, presente nella comunità e nei fratelli

La Parola è il dono che illumina le relazioni, la comunità e le singole so-relle che la compongono, che motiva e corrobora l’attenzione e la cura frater-na, e può rinnovare la nostra vita, per-ché, anzitutto, la vita fraterna è dono e poi impegno, fatica… (cf. Relazione superiora generale, p. 18).

Sulla vita di relazione madre Elisa-betta è maestra: usare con le persone lo stesso tratto amoroso che Dio usa con noi: «Egli pazienta, oh quanto!» (E 300).

occupate a loro vantaggio, di parlar loro sommessamente, dolcemente e caritatevolmente, rendendovi loro co-me altrettante madri tutte amore e carità» (I 40,4).

«…non vi lasciate per carità sor-prendere, o figlia mia, dal morbo che vi passeggia vicino. Ah! sono scintille che possono scoppiare in grandi incen-di di odi, di vendette, di avversioni e di altre peggiori cose.

«Battagliate, o figlia, nei suoi prin-cipi, passioni sì detestabili; rammen-tatevi che la carità è benigna, senza invidia, paziente, senza gelosie, sen-za contrasti. Volete piacere ed essere amata da Gesù: vi abbisogna la carità, non apparente, ma vera. Gesù vi sia il modello di questa. Per ora vi basti» (E 422).

Carità verso i fratelli tutti.«Io mi sento per Gesù sì amante

ch’io sfogherò il mio amore nel servire, tollerare ed aiutare a norma dei bisogni il caro prossimo mio, figurato e veduto da me per Gesù» (D 1774).

«Nel prossimo adunque la mia immagine si miri: quella del cattivo, deformata da vizi e colpe, si miri e tratti per pulirla, in modo che mostri egli pure l’immagine mia che gli donai e perciò amare si deve ognuno per lodare negli uni Iddio, e per soccorrere gli altri per amor di questa bella, ma dalla colpa coperta, immagine. Con tal consimile lume a quello di ieri, si accrebbe il mio amore per li prossimi, che spero fecondo di opere caritative distinte» (D 2603).

Parola, ascolto e ritorno al “cen-tro”: la Madre ne ha fatto luminosa esperienza lasciandosi progressiva-mente formare dallo Spirito.

La sua vicenda e il suo magistero sono per noi indicazioni di vita: essere donne vere, vale a dire non senza limi-ti, ma profondamente segnate, abitate da una passione che si rinnova perché sensibile alla Bellezza contemplata e sempre più forgiata dall’interiorità.

Approfondimento del materiale del Capitolo nella gioia della fraternità, in Kenya.

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Il periodo natalizio nella Casa “Don Luigi Maran” di Taggì di Sotto è stato per molti la possibilità di

vivere l’attesa del piccolo Gesù con speranza e trepidazione.

Il servizio educativo - attento al benessere di ogni singolo ospite che si esprime anche nelle relazioni e negli affetti, così come nei momenti di sva-go e di festa – ha ideato un laboratorio in cui gli ospiti si sono ritrovati per stare in compagnia e insieme realiz-zare piccoli prodotti cuciti, dipinti e incollati con le proprie mani, esposti poi nel mercatino di Natale (nella foto in basso).

Accanto a questa attività, durante il mese di dicembre, sono stati propo-sti alcuni momenti di riflessione sulle figure del presepe: ogni settimana di avvento, ispirandosi ai personaggi del “pastorello”, del “Re mago”, di Ma-ria e Giuseppe, gli ospiti sono stati accompagnati all’incontro con Gesù vegliando, seguendo la stella e rispon-dendo all’annuncio dell’angelo.

Un momento particolarmente sen-tito è stato quello condiviso con la parrocchia in cui la Casa è inserita: nell’ampia sala delle feste, gli ospiti hanno ricevuto la visita del gruppo della “Bella età” e del parroco. Dopo la celebrazione liturgica particolarmen-

a cura del Servizio educativo

Numerose le occasioni di festa e di condivisione per gli ospiti, suore e laici, di Casa “Maran” in preparazione al Natale 2011.

NATALE 2011 A CASA “DON LUIGI MARAN”

La forza di seguire una stellaEsperienze vitali

accanto a...anziani accant

o a... anzian

i

te curata, gli amici della parrocchia hanno portato i loro auguri offrendo un momento di convivialità con la consegna dei pacchi-dono da parte di Babbo Natale che d’improvviso è comparso tra le persone con le sue ceste. L’atmosfera si è fatta ancora più emozionante con il canto di alcu-ne melodie tradizionali natalizie. La consegna dei doni è poi seguita in tutti i reparti, raggiungendo gli ospiti e le suore allettati.

Ma come non ricordare il concerto – appuntamento oramai consolidato nel tempo – offerto dai ragazzi delle scuole medie di Villafranca? L’incon-tro musicale con gli ospiti della Casa è stato vissuto come un momento di solidarietà e fratellanza per prepararci a vivere meglio la spiritualità e il calore propri del Natale, attraverso l’ascolto di brani che richiamavano la nascita del Redentore. L’iniziativa, realizzata grazie alla disponibilità e alla sensibi-lità dei ragazzi, ha dato l’opportunità di uno scambio di auguri di pace e serenità e di strappare un sorriso a chi versa, tante volte, nella sofferenza e nella solitudine.

Tra le tante testimonianze di vi-cinanza del territorio agli ospiti della struttura ci piace ricordare le istituzio-ni comunali che hanno partecipato alla decorazione della Casa regalandoci due grandi abeti per gli spazi esterni.

Grazie a tutte queste presenze Ca-

sa “Maran” si è sentita una grande famiglia riunita che ha condiviso spazi comuni per vivere insieme i momenti di festa. Anche gli addobbi e le de-corazioni posti nei reparti e frutto del lavoro degli ospiti hanno fatto respi-rare aria di casa, quel calore che sa di focolare domestico.

Un cenno va fatto anche alla colla-borazione con i bambini della scuola dell’infanzia “S. Giuseppe” di Padova per la realizzazione di un orto alimen-tare all’esterno della Casa, progetto che ha creato un legame tra i bambini, le maestre e alcuni ospiti; un legame tale che alcuni ospiti sono stati invitati a partecipare alla recita di Natale degli alunni nella loro scuola. Entusiasmo e grande gioia si sono stampati nei volti soddisfatti e sereni degli ospiti.

Infine due altri concerti. Il primo del coro degli alpini dell’Alta Pado-vana che ha offerto un repertorio di canzoni popolari in vari dialetti (ve-neto, valdostano, friulano e sardo) e canti natalizi, alcuni noti altri meno. Il secondo, del gruppo “Nel tuo nome”, già conosciuto dalle persone della Ca-sa, che ha proposto brani dal carattere spirituale che hanno accompagnato le persone fino all’arrivo della Natività.

Grate di questa ricchezza che ha riempito il cuore a noi, al personale e in special modo agli ospiti della Casa, speriamo di poter continuare ad offrire occasioni di vita e di bene.

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20 gennaio/marzo 2012

accanto a...giovani

CRISTIANI A CONVEGNO

Rispondere all’Amore?La risposta alla chiamata di Dio dono del suo amore

di Barbara Danesi stfe

Insieme, per riprendere consapevolezza che si può

rispondere alla chiamata di Dio solo perché la vocazione è dono della sua grazia.

In questo caldo, fraterno contesto si sono inserite le varie proposte del con-vegno, intitolato “Rispondere all’Amo-re... si può. Le vocazioni, dono della carità di Dio (Deus caritas est, n.17)”.

La Parola, l’Amore e la Grazia

I giorni del convegno sono stati let-teralmente inondati dalla Parola, una parola viva perché intrisa di profumi di umanità. L’intervista- testimonianza di padre Gabriele Ferrari, già superiore generale dei missionari saveriani, che ha dato avvio ai lavori, ha mostrato co-me ogni storia umana, ogni vocazione presenti tempi di pace, di gioia e tempi di crisi, di buio e come anche questi momenti siano occasione per ridire il proprio sì al Signore, il Fedele.

La Parola si è fatta molto vicina poi attraverso l’intensa meditazione della biblista Bruna Costacurta sui testi del Cantico dei Cantici, contenitore vivo

Dal 3 al 5 gennaio 2012, come ogni anno, si sono incontrati a Roma per il Convegno Na-

zionale Vocazioni più di 800 persone, provenienti da oltre 160 diocesi della Chiesa italiana tra sacerdoti, religio-se e religiosi, giovani in formazione, coppie di sposi, laici. Insieme hanno fatto squadra attorno alle sfide che il mondo oggi propone alla pastorale vocazionale.

La presenza di tante persone, espressione di tutte le vocazioni nella Chiesa, ha permesso di respirare un grande senso di comunione, a partire dal quale si può davvero iniziare o continuare a “lavorare in rete”. Lo sentiamo ripetere spesso; è sempre più necessario lavorare insieme non solo perché talvolta vengono meno le forze dei singoli, ma soprattutto perché una è la persona e unico è l’obiettivo della pastorale vocazionale: accompagnare i giovani alla scoperta e all’accoglienza del progetto di amore di Dio. Lavorare insieme non è nemmeno presupposto per avere garanzie di risultati sicuri e veloci, ma permette testimonianza di comunione, fondamentale per ogni proposta cristiana e vocazionale, come ha ricordato don Nico Dal Molin, direttore del Centro Nazionale Voca-zioni (CNV).

di amore divino e amore umano.In sintonia con la lettura del Can-

tico si è posto frère Alois, priore della comunità di Taizé, che ha proposto una lettura attuale e originale della realtà giovanile, a partire dalla sua esperienza di incontro con i molti giovani che fre-quentano la comunità di Taizé. La fatica di credere di molti giovani, la sfiducia nell’umanità che oggi trionfa, le ferite dolorosissime che molti si portano nel cuore non possono arrestare il messag-gio vivo e concreto che Gesù porta an-cora e del quale noi cristiani dobbiamo essere testimoni reali e robusti.

Infine, l’intervento del card. Gian-franco Ravasi, che ha dimostrato co-me, sempre a partire dalla Parola, al-l’origine di ogni vita e di ogni chiamata c’è Dio e la sua presenza, che chiama in causa la responsabilità e la libertà dell’uomo .

Domanda o affermazione?

Il titolo: Rispondere all’Amore... si può è in forma affermativa. Ma ne siamo proprio sicuri? La frase può anche esse-re volta in forma interrogativa. Rispon-dere all’Amore... si può? Durante i giorni più volte è avvenuto questo scambio tra punto fermo e punto interrogativo, arricchendo i contenuti proposti con interessanti e suggestive riflessioni.

Nel messaggio proposto da pa-pa Benedetto XVI, in occasione della prossima Giornata mondiale di pre-ghiera per le vocazioni nella IV do-menica di Pasqua, il 29 aprile 2012, c’è un’affermazione che ritorna come un ritornello: «Tutte le vocazioni sono dono della carità, dell’amore gratuito di Dio», «La fonte di ogni dono perfetto è Dio amore: Deus caritas est». Ciascuno

Momento della preghiera guidata dalla comunità di Taizé.

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gennaio/marzo 2012 21

accanto a...giovaniaccant

o a... giovani

è frutto del pensiero amoroso di Dio. Questo è il mistero e la bellezza di ogni vita umana.

Avere questa consapevolezza signi-fica dare un orientamento particolare alla vita ed è il punto di partenza per fidarsi e affidarsi al Dio Amore che continuamente chiama; è motore per vivere con abbandono insieme a deter-minazione, responsabilità e fedeltà la propria vocazione, perché ben fondati sulla roccia che è Dio e radicati nel suo Amore che precede, aspetta, conduce.

L’urgenza di un annuncio

Il convegno ha affidato questo compito ai partecipanti: è urgente

Spesso le parole che noi usiamo ci sono chiare a livello intellettua-le, ma ben altra cosa è compren-

derle con il cuore, la vita, l’esperienza. “L’arte di vivere come fratelli” può essere uno slogan bello, sappiamo an-che cosa significa ma ben altra cosa è gustarne tutta la ricchezza la bellez-za sperimentata dentro un’esperienza di fraternità dove si condivide vita, preghiera, servizio, ma anche sogni, ricerca, speranze, cosa non facile né scontata.

“Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo imparato l’arte di vivere come fratelli”. È il titolo della proposta offerta ai giovani, in Assisi presso la comunità “Incontro” dal 2 al 5 gennaio 2012 (nella foto). L’ab-

INCONTRO DI GIOVANI AD ASSISI

Vivere come fratelli: un’arteEsperienza di condivisione

a cura di Lina Lago e Emiliana Norbiato stfe

biamo tratto da uno scritto di Martin Luther King. Non arte come abilità, tecnica, come un saper fare, come uno studio fine a se stesso ma arte perché metto in gioco tutta la mia persona e… imparo, imparo sempre, imparo ogni giorno, dalle piccole alle grandi cose,

imparo riconoscendo innanzi tutto in ogni persona dignità, ricchezza, dono; imparo che vivere come fratelli è con-dividere, partecipare, collaborare, ma è pure impegno sacrificio, pazienza.

E questo l’abbiamo vissuto ponen-doci da fratelli in ascolto della Parola

riannunciare la bellezza e la bontà del-l’amore di Dio, è necessario dirlo con forza ai giovani che non riconoscono strade di vita buona sulle quali cam-minare, non sentono la Voce, piena di dolcezza e affetto che li chiama per realizzare sogni di felicità.

Dinanzi al Dio Amore, che non può far altro che amare, di fronte alla certezza che è lui stesso il garante della buona riuscita della vita perché lui ne è l’artefice, ogni paura, ogni incertezza cade e lascia spazio alla fiducia. Cia-scun cristiano adulto sia testimone di questa esperienza e, con la propria vita donata, dica ai molti giovani smarriti di questo tempo «Fidati, rispondere all’amore si può». Affermativo!

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22 gennaio/marzo 2012

accanto a...giovani

di Dio, rivisitando l’esperienza di san Francesco, sostando e pregando nei santuari francescani dove tocchi con mano la potenza della sua grazia quan-do incontra la disponibilità dell’uomo, ma l’abbiamo anche sperimentato, sia pure in modo semplice, con il servizio nella Casa di riposo “Rossi” e all’Isti-tuto “Serafico” (che accoglie persone pluriminorate), in Assisi e con il ser-vizio di chi si è rimboccato le maniche per i lavori in casa.

Una proposta che speriamo abbia messo nel cuore dei giovani un po’ di nostalgia, perché scoprire che la vita ha senso solo se donata e condivisa è davvero un grande dono del Signore.

Ascoltiamo la risonanza di questa esperienza nella testimonianza di Elisa e Loretta, novizie elisabettine.

«Guardiamo a te che sei/ Maestro e Signore,/ chinato a terra stai:/ ci mo-stri che l’amore/ è cingersi il grembiu-le,/ sapersi inginocchiare:/ c’insegni che amare è servire…».

Quando penso a L’arte di vivere come fratelli, mi vengono in mente le parole di questo canto per il Giovedì santo. E se ascolto queste parole, rivedo i preparativi di quei giovani alle prese con i loro servizi: cingersi il grembiule per lavorare in giardino o fare pulizie in casa, chinarsi davanti alla debolezza di un anziano, inginocchiarsi nell’umile servizio richiesto dagli operatori del-l’Istituto “Serafico”.

Dietro a questi gesti abbiamo scoper-to che c’è l’amore: in quelle mani prova-te dalla fatica o tese alla compassione; nello sperimentarsi per la prima volta con la pulizia dei vetri o il lavaggio dei piatti e scoprirsi soddisfatti, scoprirsi desiderosi di rifarlo anche a casa; nel rivalutare piccole attenzioni che fanno spazio all’altro, a chi condivide la pros-simità dell’umanità… Ci sarebbero tutti gli ingredienti per fare un buon corso di educazione domestica o civile, imper-niato sul rispetto e sulla filantropia, se non che questo servire in questi giorni è stato incorniciato dalla preghiera della Chiesa e dalla celebrazione eucaristica: forse niente di nuovo, di straordinario, di appositamente pensato, ma proprio perché così, gratuito e universale. «Re-stituire al Signore Dio altissimo e som-mo tutti i beni e riconoscere che tutti i beni sono suoi e di tutti rendergli grazie, perché procedono tutti da lui» (FF 49) è stata la giusta cornice dove inserire

la bellezza di questi giorni, perché lui, Gesù, il Signore e Maestro, è il primo a farsi servo dei suoi.

È difficile riassumere che cosa ci si porta a casa: forse la sazietà di un banchetto gustoso, forse la semplicità della condivisione, forse tante domande e tanti desideri… ma se il Signore ci ha raggiunti nel luogo del nostro cuore, se ha guardato a noi come un tempo ha guardato a Francesco nella nostra “As-sisi”, di oggi, possiamo star fiduciosi che non mancherà di dare anche a noi, dei “frati” e di dirci cosa fare (FF 116) per vivere come figli.

Elisa Parise

«Adorare: fare oggetto di grandis-simo amore», il dizionario Garzanti lo spiega così.

Quattordici giovani: educatori, re-sponsabili parrocchiali, seminaristi, no-vizie, cappellano e suore, per una notte ci siamo fermati ad adorare.

“Come funziona?”. “Un’ora è insi-stito tanto sull’importanza di avere fra-telli e di fare servizio: lo spaesamento sembrava più che giustificato.

Quella definizione, trovata su un laicissimo Dizionario della lingua ita-liana, mi ha aiutato a riordinare i pensieri: quello che ci è stato chiesto nell’adorazione è stato fare di Dio l’og-getto del nostro grandissimo amore. E l’amore, si sa, ha bisogno di tempo, di silenzio, di solitudine, d’intimità, ha bi-sogno di presenza, di pazienza, l’amore ha bisogno di essere in due.

Forse per non correre il rischio di bastare a noi stessi, per non farci credere che svolgere un servizio comporti un esercizio esclusivamente fisico, quella notte ci è stato chiesto di allenare il nostro cuore ad amare. Per poter portare anche questo agli altri, perché quando le forze non bastano, quando la stanchezza dello stare insieme si fa sentire, quando la mente non ha più buoni motivi per continuare, allora scopriamo cos’è che ci muove e dove troviamo quel pezzetto di vita in più che va ben oltre la nostra che, alle volte, non ci basta.

Loretta Panizzon

accanto a... giovan

iiGiovane in un momento di riflessione.

Condivisione e verifica dell’esperienza.

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vita elisabettin

avita elisabettina

gennaio/marzo 2012 23

MOMENTO DI VITA “TERZIARIA” ALLARGATA

Nel gennaio pordenonese con il beato OdoricoL’onore alla reliquia reso anche dalle suore della città

di Walter Arzaretti1

Onorare i santi incoraggia e accresce

l’impegno a vivere la vita cristiana.

A Pordenone - e a Udine, presso l’arca trecentesca dove ri-

posa il suo corpo - ogni gennaio si ricorda con do-vizia di celebrazioni il beato Odorico, grande missiona-rio francescano, del quale è stata riavviata la causa di canonizzazione. Di lui si parla con ammirazione per l’incredibile viaggio com-piuto nell’Estremo Oriente quasi sette secoli fa.

Particolare attenzione suscita la descrizione, da lui dettata per obbedienza al Superiore nel convento del Santo a Padova (l’Itinera-rium, maggio 1330), di usi e costumi dei popoli dei paesi asiatici che visitò: la Per-sia, l’India, Ceylon, la Thai-landia, la Malesia, le isole dell’attuale Indonesia, delle Filippine, infine il “continen-te” Cina, giacché meta del suo viaggio via terra e mare fu l’attuale Pechino: siamo ai primi del Trecento (!).

Odorico affronterà il viaggio di ritorno attraverso la Via della Seta, passando per il Tibet, l’Afghanistan e

l’Asia Minore, per morire a Udine, nel convento di San Francesco, il 14 gennaio 1331.

Non fu però un viaggia-tore-esploratore: egli partì con l’unico scopo di «fare acquisto di anime», cioè di far conoscere Cristo e il Vangelo della pace e del bene così ben impersonato dai francescani della prima ora: per questo, ovunque arrivò, egli battezzò (si parla di ventimila battesimi da lui amministrati).

Ma va anche ricordata la sua vocazione alla contem-plazione, nella quale visse per diverso tempo in alcuni conventi francescani isolati del Friuli, prima della parten-za per l’Oriente.

L’Odorico “santo” è ri-

saltato nella bella riunione attorno a lui delle suore di Pordenone, città dove si trovano attualmente solo comunità di elisabettine.

Essa ha concluso, do-menica 29 gennaio nella casa di via del Traverso, il programma celebrativo del mese odoriciano (lo avevano iniziato le religiose della città di Udine a inizio gennaio).

Qui l’insigne reliquia, conservata a Villanova di Pordenone (luogo natale del Beato), è stata intronizzata alla fine dei vespri solenni e ha ricevuto le preghiere d’intercessione delle con-sorelle e di laici legati tutti alla spiritualità francescana: erano presenti infatti – ol-tre alle elisabettine delle tre comunità “San Giuseppe”,

“Santa Maria degli Angeli” e “Don Maran” – le comunità “E. Vendramini” e “Sacro Cuore” e pure le suore di Aviano; si sono aggiunti un gruppo dell’Ordine france-scano secolare e le suore Francescane di Cristo Re venute a fare “comunione tra santi”: ricorreva infatti lo stesso giorno la vigilia del-la “memoria” annuale della loro Venerabile suor Sera-fina Gregoris (1873-1935), apostola del dolore a Vene-zia, nativa di Fiume Veneto, paese vicino a Pordenone.

Don Bernardino Del Col, cappellano dell’ospedale civile, ha ben sintetizzato la spiritualità dei santi della terra pordenonese, quasi tutti messisi sulle orme del Poverello d’Assisi (pensia-mo in particolare al beato Marco d’Aviano).

Sempre bello, e gradito ai fedeli, il gesto del “bacio” alla reliquia, mentre al canto dell’inno essa raggiungeva le suore anche nell’infermeria.

Alla fine un dono a tutte le comunità di religiose pre-senti: i libri biografici della Venerabile Serafina (scritto dal compianto don Pierluigi Mascherin, già a noi noto quale parroco di Aviano e vicario per la vita consa-crata in diocesi di Concor-dia-Pordenone) e di “Frate Odorico del Friuli” (scritto dallo storico don Giancarlo Stival e ora rieditato con tavole a colori).

È stato vissuto così un bell’anticipo della Giorna-ta della vita consacrata (2 febbraio): siamo tutti infat-ti “consacrati alla santità”, nostra prima e definitiva vocazione, sull’esempio dei santi che appartengono già totalmente a Dio. Il bea-to Odorico da Pordenone, francescano intrepido, pre-ghi per tutti noi! Alcuni partecipanti alla celebrazione in onore del beato Odorico,

nella cappella della Casa “San Giuseppe” a Pordenone. Al centro don Bernardino Del Col con in mano il prezioso reliquiario.

1 Segretario della Commis-sione Beato Odorico per la cano-nizzazione e il culto, Pordenone.

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PROFESSIONE PERPETUA IN ECUADOR

Il “profumo di Cristo” riempie tutta la casa

a cura di Jéssica Roldán Mendoza stfe

Domenica 12 febbraio 2012 suor Violeta Reina Murillo ha pronunciato il suo sì per sempre al Signore nella famiglia elisabettina, nelle mani della superiora delegata suor Lucia Meschi (nella foto: la firma dell‘atto di professione). La celebrazione, nella chiesa parrocchiale “San Pietro”a Portoviejo, è stata presieduta da monsignor Lorenzo Voltolini, vescovo dell’arcidiocesi di Portoviejo.

Giorno di festa per la famiglia elisabettina: oggi una delle sue

figlie dice il suo sì per sem-pre al Signore.

Il profumo di nardo che la donna di Betania ha sparso sopra Gesù (cf. Gv 12, 1-8) è immagine e simbolo di quell’olio divino e della sua forza vitale di cui si parla nel salmo 45,8: «Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di letizia, più dei tuoi compagni». È l’olio che Dio Padre ha sparso su Violeta che nel proferire il suo sì per sempre nella no-stra famiglia elisabettina si è resa disponibile affinché questo balsamo ‘celeste’ si diffonda e riempia i vasi vuoti della Chiesa oggi. An-che la povertà di cui siamo impastate si fa ricca gra-zie a questo tenero gesto del Signore e gioiosa grida l’abbondanza dell’amore.

E noi ci uniamo all’offer-ta totale di suor Violeta: rin-noviamo con gioia il nostro sì alla persona di Gesù nella famiglia elisabettina, per la Chiesa per l’umanità intera.

Auguriamo a suor Vio-

leta di continuare a spar-gere la fragrante allegria e un amore senza misura e preghiamo perché mai si esaurisca l’olio di una vita offerta e grata per il dono della vocazione.

Accogliamo quanto ha voluto condividere.

Fra millescelta per Gesù

Porsi al seguito di Ge-sù vuol dire affondare nelle

proprie radici, far contatto con le proprie debolezze e riconoscere che comunque siamo chiamate da lui.

Gesù scende per incon-trarci; la sua luce brilla nelle tenebre e illumina le nostre debolezze e la nostra po-vertà. Egli mi ha invitata a condividere la sua stessa vita, ad avere coraggio di ri-spondere alla sua chiamata.

Gli anni trascorsi sono stati per me pieni di espe-rienze indimenticabili che mi hanno coinvolto esisten-zialmente e spiritualmente. Ho sperimentato tempi di lotta e di ricerca, abitata dal desiderio di porre Dio come l’assoluto della mia vita e giungere al momento della scelta definitiva senza infiacchimenti: ad ogni rin-novazione della professione mi proponevo ciò, ma – si sa – la vita è cosa altra e

ogni volta mi sembrava di essere all’inizio.

Aperta a discernere di volta in volta il suo progetto, mi sono proposta di essere donna dal cuore convertito che cerca la volontà del Si-gnore e assume l’avventura di questo amore con tutte le sue implicanze.

È questo amore appas-sionato che mi porta a usare tutti i mezzi per incontrare il Signore nella quotidianità, a lavorare concretamente per trovare il significato ultimo della mia vita e scoprire la gioia del mio essere elisa-bettina.

Mi appartiene anche la consapevolezza che nella misura in cui il mondo si va trasformando anche la nostra “missione” cambia e nuove frontiere si aprono con interrogativi inediti. E qui trova spazio la creatività che si esprime nella capaci-tà di offrire risposte adegua-te: la capacità di accendere altri fuochi, direnne madre Elisabetta Vendramini.

Il mio “fango” – fragile, debole e vulnerabile – è be-nedetto dalla presenza del-lo Spirito Santo che ravviva in me la passione per Dio e il suo regno, che fa ardere il mio cuore di passione apostolica.

Ringrazio il Signore per il dono della vocazione e lo pre-go perché mi sostenga con il suo amore, mi accompagni e mi renda capace di un amore fedele sino alla fine.

suor Violeta Reina Murilo

Il gruppo delle suore elisabettine e dei celebranti: al centro il Vescovo, alla sua destra suor Violeta, alla sua sinistra suor Lucia.

vita elisabettina

24 gennaio/marzo 2012

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SOLIDALI PER SUSCITARE SOLIDARIETÀ

Progetti di aiuto in EgittoAbu Zaabal: un lebbrosario nel deserto

a quaranta chilometri dal CairoÈ un ospedale-villaggio composto da tre “quartieri”, due

riservati agli uomini e uno alle donne; ospita circa 850 ammalati.

Ad esso è connesso un villaggio abitato da 370 famiglie nelle quali almeno uno dei genitori è un ex hanseniano (malato guarito dalla lebbra, chiamata morbo di Hansen dallo scienziato che ha isolato il bacillo) che non ha potuto reinserirsi nel luogo di origine.

La lebbra discrimina, rende l’ammalato un morto civile! Tuttavia si deve riconoscere che l’opinione pubblica è mi-gliorata nel considerare chi è colpito da questa malattia.

Le suore francescane elisabettine sono arrivate ad Abu Zaabal nel 1985.

Esse offrono non solo prestazioni infermieristiche ma si fanno sorelle e madri; sono intermediarie presso chi ammi-nistra il lebbrosario perché ciascun ospite si senta “persona” amata, rispettata, viva con dignità e riacquisti quella auto-nomia che gli permette di costruire una vita serena anche attraverso un lavoro adeguato.

Ad Abu Zaabal cristiani e musulmani convivono serena-mente e si aiutano a vicenda, li unisce la comune speranza di superare i limiti della malattia e, nei più giovani, la volontà di lottare per vincerla così da reinserirsi nella società.

Il lebbrosario è governativo e come tale gode di auto-nomia economica per la... sopravvivenza! ma poiché la vita richiede molto di più le suore stanno favorendo la presenza di volontari egiziani ed europei che portano in dono amicizia, cura e aiuto nella realizzazione di progetti che migliorano l’insieme della struttura.

Progetti per rendere autosufficienti gli ammalati

– una protesi ortopedica: euro 500

favorire reinserimento e autonomia a guarigione avvenutacontributo per comperare:– un asino: euro 200– una mucca: euro 850– una macchina da cucire: euro 250– una pompa per l’acqua: euro 450– per avviare un piccolo negozio: euro 850

Referente in EgittoSuore elisabettine,50/B Rue Abdel Aziz Fahim, app 22Heliopolis - tel 0020.2.63.75.9

Adozioni a distanza: un aiuto ai bambiniL’adozione a distanza è la modalità scelta, dalle suore

elisabettine a Neqada e Tawirat (Qena) e a Maghagha (Minia) - due cittadine dell’Alto Egitto - per favorire la frequenza della scuola materna e primaria da parte di bambini svantaggiati dalle precarie condizioni economi-che della propria famiglia e soprattutto di bambine che normalmente hanno meno possibilità formative.

Normalmente l’“adozione” non comporta uno scam-bio diretto di corrispondenza tra i “genitori italiani” e l’adottato per evitare l’insorgere, nella famiglia di que-st’ultimo, di nuove esigenze di aiuto non controllabili.

La referente in loco si rende garante del corretto uso del denaro inviato e manda periodicamente notizie del bambino/a.

La spesa annua che si deve affrontare è di 160 euro per la scuola materna e 250 euro per la scuola elementa-re: essa non copre tutte le spese, una parte anche piccola e differenziata (commisurata alle possibilità economiche) la sostiene la famiglia perché non si ritiene educativo eso-nerarla completamente; è un beneficio di cui godono tutti i poveri, cristiani e musulmani indiscriminatamente.

Non sono condizionanti i limiti di tempo per i quali ci si può impegnare.

Ovviamente la continuità, pari alla durata del ciclo scolastico prescelto, garantisce meglio l’azione di aiuto. L’adozione è annuale, rinnovabile.

PER CONTRIBUIRE A TUTTI QUESTI PROGETTI si può versare un'offerta direttamente, in contanti - anche a rate

presso la sede di Padova delle suore elisabettine tramite CCP 158 92 359 tramite bonifico bancario presso

Banca Intesa BCI, via E. Filiberto, 12 - 35122 Padova CIN C ABI 03069 CAB 12120 C/C 405430specificando la causale del versamento e non omettendo il proprio indirizzo se si desidera un riscontro.

REFERENTE IN ITALIA PER TUTTI I PROGETTISuore elisabettine Casa generaliziaVia Beato Pellegrino, 40 - 35137 PadovaTel. 049.87.30.660 - fax 049.87.30.690

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memoria e gratitudine Italia

26 gennaio/marzo 2012

Radicato nella chiesa udinese

Un vescovo coraggioso, un vescovo profeta, un vescovo maestro nella cari-tà, un vescovo con i suoi preti, tra la sua gente, sulle macerie del terremoto del 6 maggio 1976, capace di restituire al popolo friulano la sua dignità culturale. Queste le espressioni più ricorrenti sulla stampa nei giorni della scom-parsa di monsignor Alfredo Battisti, avvenuta il primo giorno del 2012.

Nato a Masi in provincia e diocesi di Padova il 17 gennaio 1925, venne ordinato sacerdote nel settembre 1947. Laureato in diritto canonico a Roma nel 1951, nel 1955 ricoprì il ruolo di cancelliere e dal 1967 di vicario genera-le nella diocesi di Padova fino al 1972. In questi anni celebrava anche nella chiesa del Corpus Domini nella nostra Casa Madre e fu punto di riferimento e guida spirituale di molte suore.

Il 13 dicembre 1972 fu eletto ar-civescovo di Udine e consacrato il 25

UNA VITA PER LA CHIESA

In memoria di due Vescovi legati alla famiglia elisabettina

a cura della redazione

Due chiese in lutto: la chiesa di Udine, il 1° gennaio

per la scomparsa quasi improvvisa dell’arcivescovo emerito

monsignor Alfredo Battisti; la chiesa di Treviso il 14 gennaio

per la morte del vescovo emerito monsignor Antonio Mistrorigo.

Ne facciamo memoria raccogliendo gli echi della stampa

locale e nazionale. ma – si afferma nella stampa locale. Battisti è stato un protagonista

della vita e della storia del Friuli non solo sul piano spirituale e pastorale ma anche su quello sociale e culturale; ha fatto della lingua friulana l’elemento essenziale della comunicazione: quella interpersonale e quella ufficiale. As-sieme alle diocesi di Gorizia e Con-cordia-Pordenone, si fece promotore e sostenitore di una azione affinché questa diventasse lingua liturgica. E infatti nel novembre 1997 la Confe-renza episcopale italiana approvò il testo della Bibbia in friulano e la Santa Sede, nel gennaio 2001, il “Lezionari pes domeniis e pes fiestis” (lezionario per le domeniche e le festività) dove, accanto a quelle in italiano, vengono riportate le sequenze della chiesa ma-dre di Aquileia per le grandi festività, tratte dal “Missale Aquileyensis Ec-clesiae”.

Negli anni del terremoto e della ricostruzione monsignor Battisti, as-sieme alla chiesa friulana, prese posi-zioni chiare e forti rispetto al modello di ricostruzione, alle priorità da dare, alla necessità di una rinascita anche culturale, oltre che economica e ma-teriale. Per lui non si trattava di rifare

febbraio 1973 nella cattedrale di Udi-ne dal vescovo Girolamo Bortignon.

Il 28 ottobre 2000 venne accettata dalla S. Sede la sua rinuncia all’arcidio-cesi di Udine e, dopo un breve periodo come amministratore apostolico (fino al 7 gennaio 2001), si ritirò presso il santuario “Madonna Missionaria” di Tricesimo. Anche da arcivescovo emerito continuò ad operare attiva-mente fino agli ultimi mesi.

Ricevette la cittadinanza onoraria della città di Udine nel 2001; il Premio Epifania nel 2005 e la cittadinanza onoraria di Gemona del Friuli il 5 maggio 2006, a trent’anni dal terre-moto.

Morì verso le ore 15 del 1˚ gennaio 2012 all’ospedale d Udine, dove era stato ricoverato il giorno precedente. Il rito funebre si tenne il 4 gennaio nella cattedrale di Udine e fu presieduto dall’arcivescovo di Gorizia monsignor Dino De Antoni, presidente della Conferenza episcopale triveneta, con-celebranti tutti i vescovi del Nord-Est e i capi delle diocesi di Gurt-Klagen-furt, di Lubiana e Capodistria.

Le sue spoglie riposano nella cripta della cattedrale di Udine.

Tornano profetiche oggi le espres-sioni usate da monsignor Alfredo Battisti nel motivare la scelta di es-sere consacrato vescovo nel duomo cattedrale di Udine, lo stesso giorno dell’ingresso in Arcidiocesi: «Desidero che fin dal primo giorno il mio episco-pato sia radicato nella Chiesa udinese: che se il mio essere nato cristiano è av-venuto lontano, questo rinascere come pastore del popolo di Dio, è giusto che avvenga là dove la mia chiamata epi-scopale si realizza come servizio».

Gli anni del suo episcopato sono stati di grande lavoro, non solo dopo il terremoto del 1976, ma anche pri-

Monsignor Battisti in una omelia nella chiesa di Orsaria di Premariacco (UD).

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pazientemente sparso, lungo trentotto anni, in terra friulana: il seme della comunione. Anche quando c’era da pagare un prezzo personale, ha sempre seminato comunione cercando il dia-logo e non la rottura, accostando con animo delicato le persone, rincuoran-do con il suo sorriso umile, vibrando quasi istintivamente per i poveri e i sofferenti».

Il suo testamento spirituale con la gratitudine al Signore, esprime amore per la chiesa e si suoi preti, soprat-tutto per i suoi fratelli laici, lasciando trasparire la sua luminosa fede nella risurrezione di Cristo.

Nella famiglia elisabettina

Sono un po’ lontani i tempi della presenza di monsignor Battisti nella chiesa della nostra Casa Madre, ma il ricordo delle suore che l’hanno cono-sciuto e che da lui sono state guidate spiritualmente, è ancora vivo.

solo le case, ma di ricostruire il Friuli perché il suo volto fosse nuovo, «non stravolto o contraffatto - sono parole sue -, ma capace di riesprimere in forma moderna i grandi valori etnici, culturali, spirituali e morali, che sono il più prezioso patrimonio di questa terra»; per questo incoraggiò il popolo friulano ad assumere in proprio, senza deleghe, la gestione della ricostruzione del Paese.

Con un’azione orientata a formare le coscienze dei cittadini all’impegno sociale e politico, investì se stesso e la sua chiesa nello sforzo di sensibi-lizzazione ai grandi temi della pace e dell’attenzione al bene comune, anche con l’istituzione di una scuola socio-politica. Sul piano culturale a lui va il merito di essersi battuto con tutte le persone interessate per l’istituzione dell’Università di Udine.

Nella pagina di “La Vita Cattoli-ca” del 5 gennaio a lui dedicata, l’ar-ticolista parlando del funerale, dopo l’elencazione delle presenze istituzio-nali, sottolinea che «c’era davvero tutto il Friuli per dare l’addio all’uomo e al sacerdote che, con animo sereno e mano ferma, aveva saputo condurre la nostra terra fuori dall’emergenza del terremoto del ’76. In prima fila i malati, i poveri, i diseredati, gli ultimi. Tutti coloro per i quali Battisti aveva sempre una parola buona e un occhio di riguardo».

Monsignor Dino De Antoni nel-l’omelia ha sottolineato che Dio gli ha dato grande sapienza e prudenza e larghezza di cuore. Monsignor Battisti «Ha vissuto in questa splendida terra friulana la parte più importante della sua vita in un momento ricco di storia, anche travagliata, con grande magna-nimità, con capacità di tenere uniti popoli, tradizioni e culture diverse».

E monsignor Andrea Bruno Maz-zocato, attuale arcivescovo di Udi-ne, ha magistralmente sintetizzato lo spessore del pastore: «Possiamo dire che, al termine del suo pellegrinaggio terreno, monsignor Battisti ha raccolto i frutti del seme più prezioso che ha

Troviamo nel n. 1 di In caritate Christi del 1973 una nota circa la sua elezione a vescovo di Udine, a firma di suor Ida Quaggiotto: «Siamo liete della sua elezione come si gode per “uno di casa nostra”, che abbiamo visto cre-scere accanto a noi per vent’anni inin-terrottamente. L’abbiamo accostato infinite volte, sempre per chiedergli qualcosa: prestazioni del suo mini-stero, consiglio, dottrina… Quante sono le suore che lo hanno accostato così? Anche per tutte loro un ringra-ziamento profondo, che si traduce in preghiera…».

Per tutte, una testimonianza che evidenzia la sua dote di direttore spi-rituale:

L’ho conosciuto nel 1960, quando all’età di quattordici anni, lavoravo alle Cucine popolari di Padova per un discernimento vocazionale sul campo. Mediatrice dell’incontro è stata suor Ausilia Baruffa che avevo conosciuto nel mio paese, Zerman; in un fuggevole scambio circa la mia ricerca, mi ha posto la domanda se avessi un direttore spirituale. Alla mia risposta negativa mi indicò la persona di don Alfredo Battisti che celebrava ogni mattina nella chiesa del Carmine, in città.

Quel primo incontro in confessionale è vivo ancora oggi. “Vorrei farmi suo-ra”, gli dissi. Non ha fatto riflessioni sulla vita religiosa, non mi ha dato consigli, mi ha solo chiesto il nome.

Sebbene fossi molto giovane e un po’ impaurita, ho subito intuito di avere

La bara, con gli elementi essenziali del suo servizio pastorale.

1981: Monsignor Alfredo presiede l’eucaristia del venticinquesimo di professione di alcune suore elisabettine nella chiesa di San Guiuseppe in Casa Madre (foto Agep).

mem

oria e gratitudine

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memoria e gratitudine Italia

28 gennaio/marzo 2012

incontrato un “uomo di Dio”, un sacer-dote che, al solo vederlo, ispirava vene-razione, rispetto, stima, una persona eccezionale. Aveva un carattere dolce, ma deciso, affabile e allo stesso tempo riservato. Il suo tono di voce caldo e pa-cato, il suo sguardo limpido e profondo lasciavano trasparire una intensa vita di comunione con Dio.

Di fronte alla comunicazione del proprio mondo interiore (una esperienza di altre suore di mia conoscenza) aveva un atteggiamento di contemplazione, di ammirazione per le opere meravigliose che lo Spirito santo sapeva operare in profondità.

Ho continuato la direzione spiri-tuale durante i tre anni di servizio alle Cucine, anni di fatica fisica, ma intensi dal punto di vista spirituale che mi hanno introdotto nella affascinante avventura della consacrazione religiosa nella famiglia elisabettina che lui cono-sceva direttamente.

Monsignor Battisti mi ha insegnato l’uso frequente di giaculatorie durante la giornata, così che “il Signore – diceva – sia il suo tormento”. Alla fine dei tre anni, senza altri discernimenti, sono entrata in postulato.

In occasione delle tappe più impor-tanti del percorso formativo – vestizione, prima professione, professione perpetua, sedicesimo di professione – ho sempre avuto modo di incontrarlo. Anche lui godeva con me nel vedermi procedere serena nella vita religiosa.

Insieme alle suore del mio gruppo di professione ho avuto la gioia di averlo presidente della celebrazione del venti-cinquesimo di professione: il suo ritorno in Casa Madre è stato molto festoso, accoglinte e cordiale.

Ho potuto partecipare alla sua or-dinazione episcopale nella cattedrale di Udine, gremita di fedeli della diocesi di Padova e di Udine: della sua omelia mi risuona ancora l’interrogativo: “Avrò io la capacità di amare tutti i miei friulani?”. Io credo che ci sia davvero riuscito! La stampa che ho potuto avere tra mano dopo la sua morte lo sottolinea ampiamente. E ne sono contenta.

suor Amabile Prete

tempo possibile, per non dover rinun-ciare all’udienza generale del merco-ledì. «Non gliel’ha ordinata il Vangelo – gli disse un giorno monsignor Mi-strorigo, che nel 1980 era stato nomi-nato anche assistente al Soglio Ponti-ficio – per cui può rinunciare almeno una volta». «In effetti...» commentò il Papa, che da quella volta prolungò le sue parentesi di riposo. Con un certo humor, in occasione di un compleanno, monsignor Mistrorigo confidava: «Tre cose non mi sarei mai aspettato dalla

vita, di essere nominato vescovo, di poter vivere il Concilio in presa diretta e per tutti i quattro anni della sua celebrazione, di aver ospitato addirittura un Papa in ben sei occasio-ni a Lorenzago».

Monsignor Dino De Antoni così ne tratteggia

la figura di pastore e di maestro nel-l’omelia della messa di esequie da lui presieduta: «Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace. Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola».

Questo cantico che monsignor Mi-strorigo ha ripetuto ogni giorno della sua vita di uomo credente, può sinte-tizzare la sazietà dei giorni che egli ha raggiunto, pervenendo alla soglia dei cento anni. Lunghezza dei giorni che il Signore gli ha riservato, come risorsa di una giustizia morale e di una fede orante, radicata nella Parola. Cento anni che gli hanno permesso di ricon-ciliarsi con la vita e le sue ferite, ma ancor più per riconciliarsi con la pro-spettiva della morte. Cento invidiabili anni, quelli di monsignor Mistrorigo, per contemplare con tutta la forza di un cuore libero e saggio il mistero dell’eternità che ha preso casa nella storia. Una storia lunga, la sua, ricca di un secolo che va da Pio X ad oggi. Un secolo con avvenimenti culturali, politici, economici ed ecclesiali dentro i quali, per circa trentun anni, ha speso la sua esistenza per questa chiesa tarvi-

«Gli hai datolunghi giorni»

Monsignor Antonio Mistrorigo, vescovo emerito di Treviso, è dece-duto nella Casa del Clero in via Scar-pa a Treviso, dove viveva da tem-po, assistito da alcuni sacerdoti e da due suore elisabettine; il prossimo 26 marzo avrebbe compiuto cento anni, settimo tra i vescovi più anziani al mondo. Profondo è stato il cordoglio nella comunità ecclesiale trevigiana per la perdita dell’anziano pastore che ha guidato la diocesi dal 1958 al 1988.

Da alcuni anni monsi-gnor Mistrorigo soffriva, tra l’altro, di problemi re-spiratori che si sono andati via via complicando, ma fino a qualche giorno fa, nonostante gli acciacchi, egli assisteva alla celebrazione eucaristica nella Casa del Clero.

Nato a Chiampo, Vicenza, il 26 marzo 1912, era stato ordinato sacer-dote il 7 luglio del 1935. Eletto vesco-vo di Lucera-Troia (Fg) il 9 marzo del 1955, venne consacrato nella cattedra-le di Vicenza il 25 aprile, assumendo come motto: Sitientes, venite ad aquas (Voi che avete sete, venite a dissetarvi); dopo tre anni, il 25 giugno 1958, è sta-to nominato vescovo di Treviso dove ha fatto l’ingresso il 3 agosto 1958.

Monsignor Mistrorigo (nella foto) rimase alla guida della diocesi tarvisi-na fino al 19 novembre 1988, quando cedette il testimone a monsignor Paolo Magnani; di Treviso divenne vescovo emerito l’11 febbraio 1989.

Il vescovo emerito era particolar-mente legato alla persona di Giovanni Paolo II, il papa che egli ospitò nella residenza montana di Lorenzago (Bel-luno) in più occasioni. Ecco uno tra gli aneddoti che gli piaceva riportare. Inizialmente Wojtyla voleva rimanere nella tenuta di Mirabello il più breve

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sina, arricchendola di doni.Il primo dono fu l’amore alla litur-

gia che sembrò ad alcuni uno sfizio hobbistico, mentre si collegava alle grandi figure di monsignor Rodolfi, di monsignor Dalla Libera e dell’allo-ra arciprete di Schio, monsignor Elia Dalla Costa (divenuto poi vescovo di Padova e in seguito di Firenze e car-dinale - ndr)… Conoscere la liturgia; farla conoscere; parteciparvi; viverla e farla vivere, furono per lui parole chiave della sua opera… in tanti luoghi formativi della chiesa italiana.

Il secondo fu quello legato al rin-novamento conciliare della vita della Chiesa che non poté non trovare anche in lui, in qualche momento, resisten-ze interiori. Il Vaticano Il domandò a molti vescovi una conversione e il cambiamento di stile nella guida pa-storale, che divenne comunionale e si-nodale. Monsignor Mistrorigo, andato al concilio come vescovo tridentino, tornò da Roma a Treviso, dopo l’As-

sise conciliare, cambiato come uomo e come vescovo, forte non più della disciplina ecclesiastica, ma aperto a valorizzare gli apporti che lo Spirito Santo andava suscitando ovunque.

Il terzo fu il suo amore per la vita delle parrocchie e dei presbiteri che curò attraverso l’istituzione del Cen-tro pastorale diocesano, il Congresso eucaristico, i Convegni di Paderno, il sinodo diocesano, l’apertura della missione in Cameroun, la riforma del seminario, le liturgie ecumeniche, i pellegrinaggi in Terra Santa, il Centro di teologia per laici. Pensò anche ad una casa comune per il laici (Casa Toniolo), dotò la diocesi della Casa del clero e la Curia di ambienti dignitosi, il seminario della casa di villeggiatu-ra di Lorenzago. Egli aveva coltivato tutte queste strutture come luoghi di incontro e di vita fraterna.

Ora possiamo affidarlo al Padre, dopo aver ringraziato quanti gli sono rimasti accanto in tutti questi anni, mentre ci immaginiamo di riascoltare la sua voce attraverso le parole del suo testamento spirituale:

Grazie a te, Signore, per gli innu-merevoli benefici a me concessi, anzi-tutto facendomi nascere in una famiglia profondamente cristiana, dove la vita si svolgeva con Te e per Te. Grazie, perché non guardando alla mia meschinità, ma facendone piuttosto strumento della tua operante virtù, mi hai chiamato e asso-ciato vitalmente al tuo ministero di sal-

vezza, ponendomi in mezzo ai fratelli come padre, pastore e guida. Grazie perché nei lunghi anni del mio servizio episcopale Tu sei stato sempre mio ispi-ratore e consolatore sostenendomi con la tua grazia perché non venissi meno alla mia non facile e grave missione. Grazie pure per il dono misterioso delle prove, delle croci e delle lacrime che mi han-no accompagnato nello svolgimento del mio ministero. Le ho accolte nella fede sapendo che la sofferenza è il mezzo da Te prescelto per fecondare le fatiche del munus episcopale».

Gli siamo riconoscenti come Istitu-to per la stima di cui abbiamo goduto presso di lui, per la grande umanità e la sincera cordialità sperimentata nelle interazioni, anche in quelle formali. Si è interessato personalmente con com-petenza agli eventi collegati alla causa di beatificazione della fondatrice, Eli-sabetta Vendramini, e ha presieduto più volte alla elezione della superiora generale durante i capitoli celebrati a Fietta di Paderno del Grappa, nella sua diocesi.

Il Signore lo accolga nella sua pace; lo accolga Maria che egli ha tenera-mente amato, e i santi della chiesa tarvisina che ha onorato nel suo lungo ministero.

Il settimanale diocesano “Vi-ta nostra” riporta con affetto alcune espressioni delle due suore che l’hanno assistito fino alla fine, ritenute mem-bri della famiglia del Vescovo: suor Raffaelina Dal Molin (dal 1960) e suor Placida Pastorello (dal 1996): «Prega-vamo insieme, recitavamo il rosario e la compieta. Era una persona aperta, sempre molto felice di ricevere visite di amici, di sacerdoti e di laici che gli volevano bene. Quando stava bene voleva essere autonomo in alcuni ser-vizi; si faceva da solo il caffè in camera, perché si svegliava molto presto e non voleva disturbarci. Quante volte ci ha chiamato per leggerci qualche articolo che riteneva interessante anche per noi! Ci mancherà, ma siamo certe che prega per tutti noi e per la sua diocesi».

Giovanni Paolo II ospite di monsignor Mistrorigo a Lorenzago, servito da suor Silvinia (la prima da sinistra) Mei e da suor Raffaelina Dal Molin incontra un gruppo di suore capitolari guidate dalla superiora generale, madre Bernardetta Guglielmo (a destra).

Monsignor De Antoni benedice la bara prima del congedo, nel duomo di Treviso.

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memoria e gratitudine Italia

30 gennaio/marzo 2012

Colonia montana a Col Perer(1952-1974)

Una particolare attenzione ai bam-bini predisposti a malattie polmonari portò il professor Alessandro Borghe-rini di Padova a dar vita, nel 1952, ad una colonia permanente di carattere preventoriale. In posizione montana, a poco più di mille metri sul livello del mare e a quattro chilometri dal comu-ne di Arsiè, la struttura si presentava come luogo ideale per rispondere al bisogno. Collaborando già con le suo-re elisabettine a Costigliola di Teolo, divenne quasi naturale per il profes-sore fare richiesta di una comunità anche per il nuovo ambiente. Le suore sarebbero state impegnate nell’assi-stenza dei fanciulli, nella cucina e nel guardaroba.

Con l’autorizzazione del vescovo di Padova, monsignor Girolamo Bor-tignon1, la superiora generale, suor Costanzina Milani2, aderì alla richie-sta ritenendo che anche quel luogo fosse terreno adatto allo sviluppo e alla maturazione del carisma.

Il “nulla osta” per la costituzione della comunità nella parrocchia di Ri-vai a Colperer venne concesso «consi-derato lo scopo altamente caritatevole di una tale opera, in armonia con lo spirito del benemerito Istituto delle Suore T. F. E., dopo aver preso atto della convenzione e a norma dei ca-noni 496 e 497 del Codice di Diritto canonico»3.

La comunità, formata da suor Eu-frasia Lovato, superiora, suor Avelina

Con cuore di madreNella colonia montana a Col Perer di Arsié

cario generale, avverte che a giorni sa-lirà a Col Perer un nuovo cappellano, per l’assistenza spirituale dei fanciulli ricoverati. Ricordando la difficoltà di rapporto tra il cappellano precedente e le suore, fa presente che l’assistenza spirituale e morale dei fanciulli nel-l’Istituto spetta al sacerdote e pertan-to le suore dovranno aiutarlo nella maniera più efficace, tenendo sem-pre verso di lui un atteggiamento di cordiale collaborazione e dipendenza, sostenendolo e favorendolo nelle sue iniziative e nel suo metodo di agire in ciò che spetta alla detta assistenza religiosa …»5.

L’esperienza maturata nel contatto diretto del nuovo cappellano con i fan-ciulli grazie anche alla collaborazione delle suore viene espressa dallo stesso in una lettera inviata alla Superiora generale nel gennaio 1964:

«Sono il Sacerdote di Col Perer – egli scrive – ; ed ho avuto la fortuna di lavorare con le suore elisabettine ed apprezzare il loro lavoro tra i nostri ricoverati. Sono bambini e ragazzi che hanno bisogno di aiuto e di affetto e le suore sono come e, alle volte, più che mamme, ispirate dalla carità france-

Piva, infermiera, suor Francesca Man-druzzato, educatrice, suor Odorica Bortolin per il guardaroba, suor Secon-dilla Scapin e suor Avenanzia Zava per la cucina, fu costituita il 19 giugno.

Nel 1955 vengono chieste alle suo-re altre prestazioni non previste dalle Costituzioni e dalla convenzione: la Superiora generale risponde negativa-mente alla richiesta, anche per motivi di ordine disciplinare, non essendo, le suore, in grado di assumersene l’im-pegno: «… quel poco che possono fare senza mancare alla Regola lo fanno, ma di più no! - dice la Superiora - … I ragazzi vanno sorvegliati, ma non po-tendo far ciò le suore, bisognerà farlo con altro personale…».

L'opera delle suore è apprezzata: lo dice in una lettera del 14 giugno 1958 il parroco di Rivai alla superiora gene-rale, suor Alfonsina Muzzo4.

«Sento il dovere ed il bisogno di dire a Lei tutta la riconoscenza mia personale e della intera parrocchia per la santa e preziosa opera che da anni le sue suore svolgono presso il Pre-ventorio di Col Perer. Posso dirle con la massima sincerità che conosco ed apprezzo altamente il loro diuturno lavoro e sacrificio non solo per il bene dei piccoli loro affidati, ma anche e soprattutto per il buon esempio che ne traggono i villeggianti della zona, la gente di passaggio e coloro che si tro-vano costì per tutta l’estate a custodia degli animali e taglio del fieno».

E ancora, il 27 giugno 1959, alla Superiora generale, dopo un periodo di relazioni difficili:

«Monsignor Giuseppe Pretto, vi-

di Annavittoria Tomiet stfe

L’ultima comunità elisabettina in provincia di Belluno vede le suore

accanto ai minori bisognosi di cure fisiche e psicoaffettive.

Cure infermieristiche e materne in attesa del medico, foto anni Cinquanta (Agep).

Foto di gruppo degli anni Sessanta con il parroco di Rivai (Agep).

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scana e dall’amore di madre Elisabetta Vendramini.

«Tutti qui apprezziamo il lavoro e l’apostolato della vostra benedetta istituzione. Come sacerdote la prego, anzi la scongiuro di non diminuire la forza elisabettina del Col Perer. Viviamo, lavoriamo, ci sacrifichiamo per queste creature di Dio, che hanno tanto bisogno di assistenza materiale e spirituale. Per noi fu un grandissimo dispiacere quando una Suora venne trasferita: perché amava tanto i bam-bini e rendeva lieti i ragazzi con ac-cademie, recite e tanta solennità alle funzioni liturgiche…»6.

Anche le suore parlano della loro esperienza nella Colonia permanente:

«La nostra vita di apostolato è sen-tita; perciò ogni nostro atto ha carat-tere apostolico. Trovandosi però in un Istituto interno, l’apostolato diventa difficile: non sempre la nostra consa-crazione diventa testimonianza di vita. Comunitariamente stiamo facendo un lavoro di intesa sul piano umano e spirituale per dare ai nostri assistiti e a quanti collaborano con noi il tutto della nostra vita…».

In risposta a nuove domande

La presenza a Col Perer durò ventidue anni, dal 1952 al 1974. La

funzione assistenziale del preventorio, infatti, con il miglioramento delle con-dizioni di vita andava perdendo pro-gressivamente di urgenza e il numero degli ospiti si andava assottigliando, mentre la Congregazione era attenta a rispondere al disagio dei minori con altre modalità. Così si giunse alla de-terminazione di ritirare la comunità.

La comunicazione venne data dalla superiora generale, suor Bernardetta Guglielmo7, al professor Borgherini con lettera del 11 ottobre 1973: la comunità sarebbe stata ritirata anche prima del termine dell’anno scolastico appena avviato.

Sfogliando la Cronaca della comu-nità sul punto di lasciare l’opera, nelle ultime pagine si legge:

31.12.1973: la triste notizia della chiusura definitiva dell’opera. L’ango-scia è entrata in tutte noi.

3.1.1974: partenza dei nostri bam-bini per altri Preventori. Mestizia e do-lore indescrivibile in tutti i componenti dell’opera.

4.1.1974: visita della Madre Pro-vinciale e inizio delle partenze per altre destinazioni.

Ora non ci resta che chiudere per sempre i battenti, fiduciose in Dio solo!

Il 10 gennaio, la comunità costitui-ta da suor Edmonda Pajaro, superiora, suor Alice Bergamin, suor Ermilia Bot-taro, Piagregoria Fasoli, suor Domizia Filippetto, suor Giuliangela Pividori, lascia definitivamente Col Perer.

La Superiora generale il 13 feb-braio 1974 ne diede comunicazione al Vescovo di Padova motivando la avve-nuta chiusura della comunità. Conso-lante la risposta del Presule, ulteriore attestato del bene fatto dalle suore elisabettine: «… Prendendo atto della comunicazione in oggetto, il vescovo desidera esprimere la sua paterna rico-noscenza per tutto il bene che le suore elisabettine hanno compiuto in detto Istituto…»8.

1 Vescovo di Padova dal 1949 al 1982; fu richiesto dell'autorizzazione il 5 maggio 1952.

2 Nona superiora generale, dal 1945 al 1957.3 Agep, cartella Col Perer.4 Decima superiora generale, dal 1957 al 1969.5 Agep, Ibidem.6 Agep, Ibidem.7 Undicesima superiora generale, dal 1969

al 1987; Agep, Ibidem.8 Lettera del 28 febbraio 1974, Agep,

Ibidem.

Foto ricordo dei neo-comunicati con le suore, anni Sessanta (Agep).

IN PROVINCIA DI ROVIGO

A servizio dei minori a Badia Polesinedi Annavittoria Tomiet

stfe

Il viaggio attraverso le comunità elisabettine nel Veneto prosegue

con la storia di quelle fondate nel Polesine, terra tra il corso inferiore

dell'Adige e del Po e bagnata dal mare Adriatico.

Istituto ”Caenazzo-Bronzin“(1936-1980)

Dopo cinquant’anni di presenza nel Polesine, la famiglia religiosa trovò ter-reno buono di crescita anche a Badia Polesine: qui la nuova missione portava il nome dell’Istituto “Caenazzo”.

Nell’agosto 1936 le “Figlie della Carità di Santa Giovanna Antida”, presenti al “Caenazzo”, per esigenze della loro istituzione, concludono la

loro presenza. A sostituirle vengono chiamate le elisabettine, già in servizio al Seminario di Rovigo, cosa che facili-ta l’accoglienza della richiesta da parte della superiora generale madre Agnese Noro1 che ritiene quella missione coe-rente con il carisma. Saranno proprio due suore del Seminario che si trasfe-riranno a Badia Polesine insieme alle altre due inviate allo scopo di costituire la nuova comunità a servizio dei minori accolti nella struttura.

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memoria e gratitudine Italia

32 gennaio/marzo 2012

Dalla prima bozza di convenzione, stipulata fra le due parti nell’agosto 1936, si individuano gli uffici nei quali sarebbero state impegnate le suore: «... funzionamento regolare dei servizi di cucina, guardaroba, pulizia dell’Or-fanotrofio, vigilanza sul servizio di Infermeria; funzionamento regolare dell’Asilo Infantile e del Doposcuo-la; provvedere alla cucina dell’Istituto e alle relative provviste, alla provvi-sta dei vestiari… Aiutate poi sempre dal personale di servizio assisteranno completamente i bambini dai tre ai sei anni».

Le suore, guidate dalla superiora suor Emilia Barin, giungono a Badia il 17 agosto 1936, lo stesso giorno della partenza delle “Figlie della Carità”.

Il successivo 7 settembre il Con-siglio di Amministrazione del “Cae-nazzo”, così scrive: «… la ringraziamo ancora una volta del gran dono fattoci accordando a questo Istituto le sue bravissime suore… Le saremo gratis-simi se potesse mandarci, il più presto possibile le altre due suore, perché le persone che attendono attualmente all’Asilo Infantile e al Dopo-Scuola, devono lasciare, con sabato, le dette opere»2.

Con la risposta affermativa la co-munità aumenta subito di numero.

Nel giugno 1939 il Consiglio di

Amministrazione chiede l’invio di una settima suora, a cui «affidare le orfa-nelle accolte in una speciale Sezione Femminile», rivelando apprezzamento per l’opera di carità svolta dalle suore.

Da parte sua la Superiora generale, aderendo alla richiesta, si congratu-la per «l’incremento della benemerita opera» ed esprime la sua riconoscenza per la positiva relazione sul servizio delle suore.

Cammino fecondo, ma faticoso

È del dopoguerra, negli anni Cin-quanta – 23 luglio 1953 –, il rinnovo della prima convenzione, per le mutate condizioni amministrative e sociali.

Alla comunità religiosa, composta ora da dieci suore, vengono affidati la direzione e l’assistenza dell’orfanotro-fio femminile per ragazze dai tre ai di-ciotto anni, dell’orfanotrofio maschile per bambini di età dai tre ai sei anni; dell’asilo infantile frequentato anche da bambini esterni, della scuola ele-mentare privata istituita per gli alunni e le alunne ricoverate nell’Istituto e per gli esterni che volessero frequentarla; del dopo-scuola, della scuola di cucito e di ricamo, il laboratorio di maglieria dove si esercitano alunne interne ed esterne; sono inoltre responsabili del funzionamento regolare dei servizi di

cucina, lavanderia, guardaroba, infer-meria e sorveglianza dei depositi e della dispensa viveri; dell’ordine e del-la pulizia dei locali, degli arredi, della biancheria, degli indumenti di pro-prietà del “Caenazzo”. Davvero una molteplicità di compiti sempre più impegnativi che la comunità riuscirà a reggere solo per qualche anno.

Complessa anche l'evoluzione dell'opera. Infatti il 9 agosto 1956 il Presidente del Consiglio di Ammini-strazione comunica alla superiora gene-rale, madre Costanzina Milani, alcuni cambiamenti significativi a causa di fatti che avevano compromesso il buon andamento dell’opera. Soppressa la se-zione femminile «dopo il ripetersi di inconvenienti che pregiudicano la for-mazione morale degli allievi e stabilita la istituzione di una sezione maschile di ragazzi appartenenti alle prime tre classi elementari…, si desidera affidare al personale religioso femminile, come il più adatto allo scopo, la direzione, l’assistenza e la istruzione dei ragaz-zi di detta nuova sezione; organizzare in modo più tecnico e più funzionale il servizio di guardaroba inserendo in detto ufficio personale adeguato per numero e per competenza; regolare il servizio di deposito e di dispensa dei viveri e conseguente servizio di cucina, introducendo registrazioni e controlli; incrementare l’insegnamento elemen-tare interno delle prime tre classi ele-mentari, assegnando l’istruzione a tre religiose di cui una almeno diplomata».

La Superiora generale, nella sua risposta del 24 agosto 1956, esprime dispiacere «che siano state licenziate le fanciulle», poiché alle religiose è più confacente e adatta l’educazione del-le medesime che quella dei fanciulli. Tuttavia assicura che «le suore si occu-peranno volentieri anche dell’insegna-mento ai maschi, di età fino alla terza elementare. Potranno anche, insieme con una donna di servizio, vigilare in refettorio e in ricreazione gli stessi fanciulli, mai però in altri luoghi». E sottolinea: «Per il buon andamento dell’opera sarebbe opportuno che ci fosse separazione tra le fanciulle ester-ne e i fanciulli interni».

Ingresso dell’Istituto Caenazzo-Bronzin a Badia Polesine (sec XVIII). Le foto del servizio appartengono all’Archivio Fotografico “I. Tardivello” – Museo Civico “A.E. Baruffaldi – Badia Polesine (RO), gentilmente concesse.

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Precisa inoltre: «La disposizione dell’insegnamento e della vigilanza dei fanciulli nei limiti suddetti sarà transitoria, solo per il prossimo anno scolastico. In seguito, se la parte fem-minile resterà ancora esclusa, le suore si occuperanno solo dei servizi genera-li. In quanto ad organizzare in modo più tecnico il servizio di guardaroba, di dispensa e cucina, non ho nulla da opporre»3.

La soluzione dei problemi posti non fu immediata e tanto meno priva di difficoltà per ciascuna delle due parti; il periodo non era infatti tra i più facili, per il crescente venir meno del personale religioso necessario a gestire l’opera e a rispondere alle sempre nuo-ve domande di servizio.

La superiora generale, madre Al-fonsina Muzzo, nel novembre del 1958 comunica all’Amministrazione del Caenazzo il dispiacere di non poter soddisfare alle esigenze espresse in più momenti, pressata su più fronti da bi-sogni nuovi e mancanza di risorse.

Nel luglio 1960 sembra che la pre-senza sia giunta a conclusione: la Su-periora si vede costretta a chiedere al vescovo di Adria, monsignor Guido Maria Mazzocco «il nulla osta al ritiro della comunità religiosa» cui sarebbe seguita la comunicazione all’Ammini-strazione4.

Il dialogo fra le parti porta a trova-re altre soluzioni e le suore rimangono a dirigere l’Istituto, pur tra non poche difficoltà, che vedono frequenti con-tatti epistolari tra il Consiglio generale e il Vescovo di Adria, con l’obiettivo di rispondere al meglio alle sempre più esigenti domande educative5.

Ridimensionamento e conclusione

La decisione che si era potuta rin-viare grazie al notevole impegno delle suore, nel 1976 diventa oggetto di quel ridimensionamento che tocca molte al-tre realtà della Congregazione.

La superiora provinciale della pro-vincia religiosa di Roma, suor Antonia Danieli, il 29 dicembre 1976 la rife-risce al vescovo monsignor Giovanni Mocellini6: «… dopo un periodo di riflessione riprendo il discorso del 23 dicembre u.s., circa il ritiro delle suo-re dall’Istituto “Caenazzo”. So che il problema dispiace, ma vorrei contare sulla sua comprensione, dato che si tratta di una situazione di scarsità di personale religioso che ci costringe a codesta penosa decisione. Comunico pertanto che con il 30 agosto 1977 cesserà il servizio presso l’opera assi-stenziale “Istituto Caenazzo” da parte di quattro delle sette suore ivi operan-ti: suor Adelma Perseghin, superiora, suor Marcella Caccin, educatrice, suor Idelmina Salvagnin e suor Crisostoma (Antonia) Gabban degli uffici generali. Rimarranno per il momento le tre suore che operano nella Scuola Materna e

1 Ottava superiora generale, dal 1923 al 1944. 2 Agep, Cartella Istituto Caenazzo – Ba-

dia Polesine.3 Agep, Ibidem.4 Vescovo della diocesi di Adria dal 1936

al 1968. Tale autorizzazione era necessaria per procedere al ritiro; oggi è sufficiente la sola comunicazione.

5 Tutta la documentazione in Agep, Ibidem.6 Vescovo della diocesi di Adria dal 1969

al 1977.7 Monsignor Giovanni Sartori, vescovo

della diocesi di Adria dal 1977 al 1987. La diocesi di Adria diventa formalmente diocesi di Adria-Rovigo dal 1986.

8 Lettera del 20 giugno 1978, Agep, Ibidem.

voglio sperare che la comunità anche così ridotta, trovi piena collaborazione e fraterna comprensione da parte del Direttore e dell’Amministrazione».

A questa prima comunicazione fa seguito l’intervento del Consiglio gene-rale – anche per l’insistenza del nuovo vescovo, monsignor Sartori7 – che ri-considera «il problema delle suore della Scuola materna “Caenazzo” in Badia Polesine, alla luce della sua [del Vesco-vo] insistenza, carica di forti motivazio-ni pastorali. Ma altrettante e numerose sono le difficoltà della Congregazione in questo momento, per cui solo per non oppormi alla sua chiara volontà di Pastore, comunico che le tre sorelle resteranno nella Scuola Materna finché riusciranno a continuare»8.

Il Vescovo, soddisfatto della de-cisione, quale presidente dell’Istituto “Caenazzo” garantisce di «fare del suo meglio, con tutti i mezzi, perché le tre Suore si trovino a loro agio».

La situazione si rivela comunque precaria, e il ritiro definitivo viene rin-viato di qualche anno.

Nel giugno 1980, superando le re-sistenze dei genitori che ritenevano in-sostituibile la presenza delle suore nella scuola materna, la comunità lascia il “Caenazzo”.

Dopo quarantaquattro anni si con-clude una presenza che ha visto, pur nella precarietà di alcuni momenti a livello istituzionale e relazionale, spen-dersi molte figure elisabettine che han-no dato il meglio di sé a bambini e famiglie.

Bambini ospiti al Caenazzo con le loro educatrici, anni Quaranta-Cinquanta.Foto sopra: lavoro in cucina, anni Sessanta.

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TU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZAdi Sandrina Codebò stfe

suor Clara Bragagnolonata a Loreggia (PD)

l’1 aprile 1923morta a Monselice (PD)

il 7 ottobre 2011

Suor Clara Bragagnolo, nata a Loreggia nell’aprile del 1923, aveva conosciuto fin da piccola, grazie al vici-no convento dei frati minori conventuali di Camposam-piero, il “clima” francesca-no di accoglienza fraterna e di preghiera. Così quando giunse per lei il tempo di individuare dove avrebbe potuto rispondere all’invi-to del Signore Gesù le fu spontaneo rivolgersi a una famiglia francescana: quella delle elisabettine.

Nell’ottobre del 1943 iniziò nella Casa Madre di Padova l’itinerario formativo che la condusse a fare la prima professione religiosa nel maggio del 1946. Suor Clara aveva una natura ge-nerosa e accolse con sem-plicità di servire il Signore come “addetta alla cucina” nel Ricovero di mendicità “S. Lorenzo” a Venezia e nell’ospedale civile di Oder-zo (TV): “sapeva” di servire Gesù nell’ammalato, curan-done i pasti quotidiani. Il servizio in cucina non le impedì di “farsi vicina” alle persone e di comprenderne i bisogni, una vicinanza che maturò in lei la disponibilità, dopo sedici anni di pro-fessione, ad affrontare un corso di studi che l’avrebbe qualificata come infermiera generica. Per dodici anni

prestò il suo servizio nel-l’ospedale “Giustinian” a Ve-nezia; da qui, dopo un breve periodo nella Casa di riposo “Santi Giovanni e Paolo” di Venezia, fu trasferita al poli-clinico “S. Giorgio” di Por-denone dove per dieci anni affiancò la consorella che fungeva da caposala. Nel 1985 ritornò a Oderzo (TV) dove per dieci anni ebbe la responsabilità in un reparto della Casa di riposo; con la stessa mansione operò poi nella Casa di riposo di San Vito al Tagliamento (PN).

Nel maggio del 2001 concluse, per ragioni di età, il servizio accanto alla per-sona anziana ma continuò ad essere generosamente attenta nell’aiutare le sorelle della sua nuova comunità, quella di Monselice (PD); qui si preparò all’incontro definitivo con il Signore.

Suor Clara a ottantotto anni, dopo una breve ma-lattia, è stata accolta per sempre nella luce e nella misericordia di Dio.

Fin da giovane suora si era donata con grande ge-nerosità accogliendo con prontezza le varie obbedien-ze e finché ha potuto ha servito Cristo sofferente nei fratelli ammalati e anziani, trasformando in “scintille di carità” quell’amore che ri-ceveva dal Signore e dalla comunione con le sorelle della comunità.

I suoi ultimi dieci anni li ha vissuti con noi, nella comunità “Beata Elisabetta” di Monselice continuando il servizio di carità, visitando alcuni ammalati - anziani e prestando il suo aiuto a mi-sura del bisogno e delle sue possibilità.

Era dotata di un caratte-re forte e nello stesso tempo timido, amava intrattener-si con le persone offrendo una piacevole compagnia. Per tutti aveva una parola di conforto; invitava a pregare il Signore e a confidare in lui.

La ricordiamo nella sua semplicità e immediatezza, nella sua sincera disponibi-lità verso tutti. Ringraziamo il Signore per quanto ha compiuto nella sua vita, at-traverso i suoi doni e anche attraverso i suoi limiti. Oggi la pensiamo nella pace che solo lui può donare piena-mente.

Comunità “Beata Elisabetta” Monselice

suor Assunta Massignannata a S. Urbano

di Montecchio Maggiore (VI)il 17 novembre 1923

morta a Noventa Vicentina (VI)il 12 ottobre 2011

Suor Assunta, Madda-lena Massignan al fonte battesimale, ha affidato a un breve scritto il racconto della sua scelta di vita, una pagina semplice ma che dice molto del cuore elisa-bettino di questa suora; le testimonianze rese durante il suo funerale lo conferma-no e rivelano la dimensione pubblica della sua vocazio-ne-missione. La ricordiamo lasciando parlare queste voci.

«Tanti anni fa il Signore mi ha chiamata. Gli ho detto il mio “sì”. Ho lasciato la mia casa, i miei genitori, i miei familiari, il mio paese, tante persone alle quali devo la mia riconoscenza.

Sono andata a Padova e lì il Signore, lentamente, mi ha preparata al giorno della prima professione. Nella mia povertà ha operato il suo grande amore. E ora sono contenta di appartenergli!

Libera da tanti condiziona-menti mi è impossibile non essere dono incondizionato e gratuito per gli altri. Se a volte ho poco amato chiedo perdono di cuore a Dio.

Per il bene che, con il suo aiuto, ho compiuto, lo ringrazio e invito tutti a pre-gare con me, perché la sua grazia non sia vana.

Con san Paolo possa anch’io dire al termine della mia vita: “Ho combattuto la buona battaglia, ho com-piuto la corsa …; ora atten-do dalla tua misericordia la corona di giustizia, che tu doni a quanti attendono con amore la tua venuta».

Da uno scritto di suor Assunta

Siamo qui, nel duomo di Noventa Vicentina, a sa-lutare suor Assunta che in questa cittadina è vissuta per trentacinque anni, dedi-candosi all’educazione dei piccoli nella scuola materna e prendendosi cura delle sorelle della comunità come superiora; infine, negli ultimi anni, come volontaria nella Casa di Riposo ha donato conforto umano e sostegno nella fede agli ospiti anziani della Ca’ Arnaldi.

Era nata a S. Urbano di Montecchio Maggiore (VI) il 17 novembre del 1923 e aveva fatto la sua prima professione nella famiglia elisabettina il 3 maggio del 1943.

Per molti anni ha servito il Signore nei più piccoli, dai più abbandonati dell’Istituto degli Esposti di Padova a quelli delle scuole materne di Camporovere (VI), di Bru-gine e di Torre, nei pressi di Padova. Nel 1976 l’obbe-dienza l’ha inviata in questa città, nella comunità della scuola materna di Noventa e di Saline e in quella della Casa di Preghiera. Ha cura-to con passione la liturgia e il canto per le Celebrazioni nelle parrocchie di Noven-ta e Saline, e in quelle di S.Croce e Prà di Botte.

nel ricordo

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TU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZA nel ricordoA ottantasette anni ha ri-

cevuto un’ultima obbedien-za, quella della malattia, che l’ha tenuta in ospedale per quaranta giorni. Qui, anche se aveva vicino tante perso-ne - i suoi familiari, la sorel-la, suor Imelda (suora Save-riana missionaria di Maria), noi suore della sua comuni-tà, il personale ospedaliero che l’ha curata con affetto e competenza, le tante perso-ne di Noventa che venivano a visitarla -, suor Assunta ha vissuto i suoi quaranta giorni di “deserto”. È stato il tempo della prova, quello che anche Gesù ha speri-mentato prima di iniziare la sua missione; per lei è stato il tempo necessario per affi-darsi completamente a lui e riconsegnargli la sua vita.

Noi suore di questa co-munità di Noventa ringra-ziamo il Signore, anche a nome di tante altre suore vissute con lei e che oggi non sono potute essere qui. Suor Assunta è stata per noi sorella umile e saggia e, anche nel tempo della ma-lattia, ci ha dato una grande testimonianza di bontà, di serenità e di fede.

Comunità elisabettina di Noventa Vicentina

… mi unisco a voi in que-sto momento particolare… sono commossa, ho vissuto tanti bei momenti insieme a suor Assunta: resta nel mio cuore la testimonianza della sua fedeltà, allegria e ge-nerosità, come dimenticare quella bella esperienza della comunità di Noventa?

suor Monica Pintos Portoviejo, Ecuador

Te ne sei andata velo-cemente, zia, come veloce correvi con la tua bicicletta.

Tu che non eri mai stan-ca di lavorare, che riuscivi a impegnare tutti con i tuoi lavoretti, le tue canzoncine; che avevi una parola per tutti e sempre qualcosa di nuovo da insegnare!

Grazie, Signore, per zia

Assunta! Non ti chiediamo perché ce l’hai tolta, ma ti ringraziamo per averce-la donata per ottantasette anni!

Grazie per l’ultimo inse-gnamento che ci hai lascia-to: accettare la morte come un passaggio sereno verso la pace eterna.

Bertilla Massignan, nipote

Suor Assunta Massignan ha lasciato un segno incan-cellabile nella parrocchia, nella scuola materna, nella Casa di Riposo “Ca’Arnaldi”.

Tutti gli ospiti e i dipen-denti hanno uno splendido ricordo di questa dolce fi-gura di suora, di cristiana! Con il suo sorriso confor-tava ogni singola persona, insegnava a riflettere sulle vicende umane con sapien-za e donava la sua preghiera per tutti, prediligendo sem-pre i più bisognosi.

La sua fede apostolica ci sarà sempre di esempio e ci aiuterà a continuare l’opera di aiuto verso ogni fratello in situazione di necessità. (…)

Noi tutti siamo grati a questa Madre che, con la sua fede, ha testimoniato il senso della vera vita, religio-sa e spirituale.

Marco Alighiero Marinelli ospite di Ca’ Arnaldi

Nella mia vita suor As-sunta ha avuto un posto importante: assieme a lei ho iniziato il percorso come catechista nella parrocchia di Saline, una esperienza determinante perché mi ha permesso di fare un salto di maturità nella fede e di scoprire il volto di amore di Dio Trinità.

Nel suo servire in par-rocchia durante le celebra-zioni ho visto, oltre alla dedi-zione, tanta umiltà e rispetto per il sacro. Mi ha sempre colpito il suo impegno per gli anziani della Casa di Ri-poso per i quali ha dato le sue forze fino all’ultimo sen-za risparmiarsi, nonostante l’età e gli acciacchi. Mi è

davvero di esempio e di sprone di fronte alle normali fatiche quotidiane. Ora, oltre a pregare per lei, possiamo chiedere il suo aiuto affin-ché accompagni le nostre vite di consacrati a Dio per il servizio dei fratelli

Roberta Barbiero CMV

Suor Assunta, ti vo-gliamo ringraziare per tut-to quello che hai fatto per noi; grazie per i tuoi pre-ziosi insegnamenti, per le tue preghiere, i tuoi canti, i tuoi consigli, le tue parole di consolazione nel dolore, nelle difficoltà, nei momenti difficili della vita.

Anche nei giorni della tua sofferenza, in silenzio ci ascoltavi e sorridendo man-davi a salutare i “Ragazzi” del gruppo “Il vento del-l’Aiuto”, il personale della Casa di riposo, e gli ospiti.

La tua testimonianza sia guida per tutti noi.

Maria Grazia Bissaro

suor Evelia Baronata San Polo di Piave (TV)

il 17 ottobre 1929morta a Padova

il 28 ottobre 2011

Il sorriso di suor Evelia non se ne è andato con lei, rimane impresso in noi che l’abbiamo conosciuta e frequentata per anni, ri-mane a testimoniare la se-renità raggiunta e vissuta quotidianamente Nata a San Polo di Piave (TV) nel 1929, iniziò ventenne, tra le suore elisabettine, l’itinera-rio formativo che l’avrebbe confermata nella sua scelta

di vita. Il 2 ottobre 1951 fece la prima professione religiosa e fu immediata-mente inserita nella comu-nità ospedaliera in servizio presso l’Ospedale civile di Padova dove frequentò la scuola convitto per infer-mieri ed esercitò la sua pro-fessione ininterrottamente fino al 1989. Poi mise la sua esperienza a servizio del-le persone anziane degenti presso l’ospedale geriatrico della stessa città. Casa “S. Chiara” aperta per amma-lati di aids, inizialmente, e divenuta Hospice in questi ultimi anni, la vide figura “minore” per un verso e “in-sostituibile” per un altro.

Ricordare suor Evelia di-venta così alimentare senti-menti di profonda gratitudi-ne. La malattia improvvisa e senza appello, vissuta in una lucida e serena offerta di sé, ci ha ad un tempo im-poverito di una sorella e ar-ricchito per la sua testimo-nianza semplice e profonda che dobbiamo custodire e dalla quale apprendere una lezione di vita.

La testimonianza della sua ultima comunità.

Nata il 17 ottobre 1929 suor Evelia ha vissuto una bella pagina di storia.

Usò sapientemente del tempo che le è stato con-cesso fino allo scorso 28 ottobre 2011.

Suor Evelia è stata don-na che ha accompagnato la fatica dolorosa delle perso-ne che incontrava, guaren-do ferite e dando sollievo. Parliamo dell’opera pazien-te di risanamento interiore nel quotidiano, opera che compiva anzitutto su se stessa, prendendo coscien-za delle proprie fragilità e imparando ad affrontarle con semplicità, con grande serenità e con fiducia.

Nella preghiera a cui ri-correva con fede, sicura di trovare soluzioni per ogni difficoltà, teneva presenti

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TU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZA nel ricordooel ricordo

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tutti: la famiglia religiosa, i propri familiari, i parenti, gli amici, “i vecchi” amici e collaboratori.

Rendeva facilmente gra-zie al Signore, operatore di ogni bene.

Nella “sua” lavanderia ha lavorato con gioia: qui offriva le quotidiane fatiche, le più belle, qui offriva i piccoli sa-crifici per il mondo intero.

Suor Evelia, amante della festa, sapeva cogliere ogni occasione per rallegrare noi, soprattutto nei compleanni di ciascuna, e, nelle feste, gli ospiti di Casa “Santa Chia-ra”: per loro, infaticabile e sempre pronta, contribuiva a creare un clima di benes-sere; con gli operatori quasi giornalmente sapeva trovare motivo di festa.

Ora ci sentiamo più po-vere, ma vogliamo credere che suor Evelia saprà otte-nere dal Padre nuove vo-cazioni elisabettine nuovo vigore perché l’Istituto con-tinui con serenità il cammi-no nella Chiesa».

Le sorelle della comunità “S. Elisabetta”

Cara, nostra Evelia, og-gi per noi, amici tuoi di Casa “S. Chiara”, questo del saluto è un momento impegnativo e difficile, ma la forza e la profondità del-le tue ultime parole: “Sono pronta… Fate festa”, tanto ci commuovono quanto ci nutrono.

Nel tuo servizio amo-revole, umile e instanca-bile, rinnovavi tutti i giorni il tuo “Eccomi” davanti a Dio e ce ne davi l’esempio. Tutte le mattine salutavi la nuova giornata ricordando e pregando il Santo del giorno in refettorio assieme ai ragazzi; eri la suora delle loro colazioni, ma anche l’infermiera appassionata che “curava” la farmacia della casa e la regina della lavanderia… Per diciassette anni.

Amavi molto i fiori e ad

suor Danila Bugnanata a Fratta di Oderzo (TV)

il 5 agosto 1927morta a Taggì di Villafranca (PD)

il 30 ottobre 2011

Assunta Bugna, suor Danila, era nata nell’agosto del 1927 a Fratta di Oderzo (TV). A 19 anni scelse la famiglia delle suore elisa-bettine come luogo, e stile, in cui vivere la risposta alla chiamata del Signore. La frequentazione delle suore operanti a Oderzo e la scel-ta fatta dalla sorella Pierina, suor Arcangela, quattro anni prima, l’avevamo facilitata e accompagnata nel discer-nimento vocazionale. Vis-suto con sereno impegno il periodo della formazione iniziale, il 2 maggio 1949 fece la prima professione religiosa e fu subito inse-rita nel mondo educativo della scuola materna. Per alcuni anni ebbe il compito di assistente e quindi, con-seguito il diploma richiesto, assunse la responsabilità di una sezione. All’insegna-mento affiancò il servizio pastorale nella parrocchia concorrendo ad esprimere l’attenzione educativa del-la chiesa con la cateche-si ai bambini e agli adole-scenti. Suor Danila operò a Noventa Vicentina, nelle parrocchie della immediata periferia di Padova: a Bru-segana, a Voltabarozzo, a S. Ignazio; fu presente anche a Fellette (VI), a Borgoricco e a S. Angelo di Piove in provincia di Padova dove rimase 14 anni. Qui suor Danila visse la sua ultima stagione “attiva” non più impegnata nella scuola, da-

ta l’età ormai avanzata, ma dedita alla “pastorale della consolazione”. Con le sue frequenti visite a persone ammalate, a persone anzia-ne o comunque bisognose, regalò ascolto, compagnia, assistenza spirituale espri-mendo la vitalità apostolica che la animava. Anche per le condizioni di salute, nel 2004 giunse il tempo del ri-tiro e del riposo necessario. Visse una prima esperienza nella Comunità che vive nel monastero “S. Chiara” di Montegrotto Terme (PD), poi nella comunità “Mater Ama-bilis” di Taggì, che le offriva maggior sicurezza per la vi-cinanza dell’infermeria dove passò nell’ottobre del 2006. Qui suor Danila conobbe la fatica del cammino di ab-bandono all’esigente volon-tà di Dio espressa dalla ma-lattia, ma conobbe anche la pace frutto dell’incontro con Signore.

suor Maria Mosaninata a Montecchia di Crosara (VR)

il 14 settembre 1926morta a Taggì di Villafranca (PD)

il 4 novembre 2011

Suor Maria nella sua scelta vocazionale fu ine-vitabilmente contagiata dalla esperienza della so-rella suor Carlangela, dive-nuta elisabettina nel 1937, e dall’esempio delle suore assiduamente frequentate nella parrocchia di Montec-chia di Corsara (VR) dove era nata il 14 settembre del 1926. Nell’autunno del 1948 raggiunse la Casa Madre di Padova è iniziò in postulato l’itinerario for-

ogni nostro compleanno ci regalavi con grazia un fiore che tu chiamavi Amore.

In Casa “S. Chiara”, con i tuoi eleganti travestimen-ti, eri l’attrice delle nostre feste, ma dietro al gioco ci regalavi ogni volta preziose perle di saggezza e ci ricor-davi i veri valori.

Facendoti “bambina” sapevi incantare i bambini delle nostre colleghe… An-che a loro hai donato molto ed essi si ricordano di te.

Oggi, cara suor Evelia, hai raggiunto il Cielo. Ti pensiamo in mezzo ad un bel giardino pieno di fiori che siamo certi sarai subito pronta a curare come facevi con il giardino della nostra casa. Ti pensiamo attorniata dai tanti ospiti della Casa che ti hanno preceduto in cielo, che tu stessa hai as-sistito e che ora ti stanno facendo festa.

Ti pensiamo accanto al Padre, dove di certo con-tinuerai a vegliare su tut-ti noi che proseguiamo il viaggio della vita. Vogliamo ringraziarti dedicandoti l’ul-tima poesia che tu stessa, lo scorso Natale, ci hai de-dicato in una delle indimen-ticabili rappresentazioni.

La BontàNon permettere maiche qualcuno venga a tee vada viasenza essere migliore e più contento.Sii l’espressione della bontà di Dio.Bontà sul tuo voltoe nei tuoi occhi,bontà nel tuo sorrisoe nel tuo saluto.Ai bambini, ai poverie a tutti coloro che soffrononella carne e nello spiritooffri sempre un sorriso gioioso.Da’ loro non solo le tue curema anche il tuo cuore.

Gli operatori di Casa “S. Chiara”

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TU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZA nel ricordo

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mativo che congiuntamente al periodo di noviziato la confermò nella scelta di vi-ta; il 2 maggio 1951 fece la professione religiosa.

Nei primi sette anni espresse il suo servizio alla chiesa come “addetta alla cucina” negli asili infantili di Terranegra, Padova, di Vallenoncello e di Pasiano in provincia di Pordenone. Poi, conseguito il diploma di “infermiera generica”, iniziò una nuova esperienza ac-canto alla persona ammala-ta che caratterizzò, di fatto, tutta la vita di suor Maria. Operò dapprima nel sana-torio “Busonera” in Padova poi nell’ospedale “Giusti-nian” a Venezia.

Da qui passò a Napoli, nella clinica oculistica, quin-di ritornò a Venezia nella Casa di riposo “Santi Gio-vanni e Paolo” da cui fu tra-sferita nella Casa di riposo di Pomponesco (MN).

Nel 1981 iniziò per lei una stagione nuova: fece l’infermiera non più all’in-terno di una struttura ma a domicilio nella parrocchia “S. Domenico” a Crotone; furono nove anni intensi, che prepararono anche la sua presenza a Mazara del Vallo (TP) dove si prese cu-ra della salute dei minori presenti nell’Istituto “Divina Provvidenza”.

Dal 1997, ridotto di mol-to il suo servizio ad extra, suor Maria fu accanto alle sorelle bisognose di atten-zioni infermieristiche prima nella comunità “Mater Lae-titiae” di Roma e poi nella comunità “Beata Elisabetta” di Lido-Venezia. Qui suben-trarono anche per lei alcuni problemi di salute per i quali dovette diminuire gradual-mente l’attività.

Nel 2010 si rese neces-sario il passaggio nell’infer-meria di Taggì di Villafranca dove “portò a compimento”, nell’offerta ultima, l’opera iniziata in lei dal Signore.

La testimonianza della comunità.

Ricordiamo suor Maria come sorella attenta ai biso-gni degli altri, semplice, ac-cogliente, sempre disponi-bile ad aiutare. Era normal-mente serena, una serenità attinta dal suo vissuto con il Signore. Le siamo ricono-scenti per la testimonianza di cui ci ha arricchito.

Comunità “Beata Elisabetta”, Lido di Venezia

suor Antonia Cappellanonata a Miglierina (CZ)

l’1 ottobre 1933morta a Cittadella (PD)

il 18 novembre 2011

Suor Antonia se ne è andata in silenzio come in silenzio ha vissuto la sua lunga esperienza di amma-lata. Era nata nell’ottobre del 1933 a Miglierina (CZ); a Catanzaro frequentò le suo-re elisabettine e riconobbe nella loro vita e missione la risposta alla sua ricerca vocazionale.

Partì per Padova, acco-gliendo generosamente il di-stacco dall’ambiente che le era familiare e iniziò poco più che diciottenne l’itinerario for-mativo che l’avrebbe confer-mata nella scelta di vita.

Fece la prima profes-sione nell’ottobre del 1954 e accolse come un dono il ritorno nella terra d’origi-ne: a Catanzaro per undici anni fu addetta alla cucina nel sanatorio “G. Ciaccio”, poi passò a Roma nell’asilo infantile “Maria Alfonsina”. Vi rimase solo un anno per-ché si ammalò, rendendosi necessario per lei il trasfe-rimento nell’infermeria di Casa Madre.

Sei anni dopo, a causa della ristrutturazione in atto, passò in quella di Taggì, dove rimase. Fino a quando le fu possibile impreziosì le sue giornate facendo piccoli servizi alle consorelle immo-bilizzate a letto. Le visitava e, sempre gentile, si intrat-teneva con loro. La sua vi-ta fu una lunga, generosa, silenziosa esperienza di sofferenza; non si difese… accolse la malattia come la “sua” missione.

Incontrare suor Antonia era un po’ come ricevere un messaggio silenzioso ed eloquente: la vita consacra-ta è un valore in sé, l’essere è il suo fare… Raccogliamo da lei una preziosa conse-gna che ci riporta al valore alto dell’interiorità, del si-lenzio come modalità di fare “gli interessi di Gesù.

suor Rosamabile Zampierinata a Reschigliano

di Campodarsego (PD)l’11 dicembre 1923

morta a Padoval’1 dicembre 2011

Suor Rosamabile ha onorato il suo nome: “ama-bile” nei gesti e nelle parole misurate e umili; la disponi-bilità come tratto pressoché costante, tutti atteggiamenti che facilitavano l’incontro e la collaborazione.

Era nata a Reschigliano di Campodarsego nel di-cembre del 1923 in una fa-miglia numerosa e profonda-mente cristiana, ne è segno tangibile anche l’accoglienza della chiamata alla vita con-sacrata di altre tre sorelle.

In piena guerra mondiale (1941), due anni dopo della sorella suor Pasquina e do-dici prima della sorella più giovane, suor Emiliarosa, raggiunse Casa Madre in Padova per iniziare l’itinera-rio formativo che confermò la sua scelta vocazionale e la preparò alla prima pro-fessione religiosa, avvenu-ta solo il 3 maggio 1947 avendo dovuto sospendere il noviziato per malattia.

Suor Rosamabile non godette mai veramente di buona salute eppure con semplicità e generosità ac-colse una obbedienza che comportava fatica fisica, quella di “addetta alla cu-cina” nell’ospedale civile di Noventa Vicentina e nell’asi-lo infantile di Asolo, poi di “dispensiera” nell’ospedale maggiore di Trieste e quindi nel Seminario vescovile del-la stessa Città.

In quest’ultima sede per sedici anni fu una presenza “materna” accanto ai semi-naristi e ai sacerdoti.

Con semplicità, e sem-pre in spirito di servizio, assunse anche il ruolo di superiora di comunità sia nel seminario di Trieste sia nella Casa di riposo “E. Vendramini” a Orselina di Locarno in Svizzera dove rimase ininterrottamente dal 1973 al 1992.

Da Orselina fu trasferita a Salò dove continuò ad essere una preziosa “col-laboratrice di comunità” sempre pronta a vedere il bisogno, ad aiutare, a dire la parola buona. Quando nel 2000 passò nella comunità “S. Agnese” di Casa Madre, ufficialmente doveva iniziare per lei il tempo del riposo di cui il suo fisico, provato da vari malanni, aveva bisogno; in realtà continuò a “spen-dere” le sue energie nella vigile attenzione alle sorelle; sempre capace di ascolto, di collaborazione, di buona compagnia e di saggi con-sigli, sempre più silenziosa e orante, come attestano

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TU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZA nel ricordooel ricordole sorelle stesse che hanno avuto il dono di condividere con lei parecchi anni di vita.

Amò sempre con tene-rezza la sua famiglia di origi-ne, aveva presente i bisogni personali di ciascuno e per ciascuno pregava con in-tensità.

Nell’aprile del 2010 si rese necessario per lei l’am-biente protetto dell’inferme-ria di Casa Madre dove con-tinuò a testimoniare sereni-tà e gratitudine verso tutti. Accolse l’infermità sempre più invasiva, in modo silen-zioso, senza lamenti, unita al Signore “centro e bene unico” della sua vita.

Se ne è andata, ma ci ha lasciato in preziosa eredità il suo esempio buono.

suor Modestina Ronchesenata a Cavalier di Gorgo al M. (TV)

l’1 agosto 1925morta a Taggì di Villafranca (PD)

il 16 dicembre 2011

Suor Modestina, Annita Ronchese, nacque nell’ago-sto del 1925 nelle vicinanze di Oderzo, un territorio vera-mente generoso di vocazioni per la nostra famiglia religio-sa certamente anche grazie alla numerosa ed esemplare presenza della famiglia eli-sabettina che lei ebbe la possibilità di frequentare fin da giovanissima.

Partì a diciassettenne per Padova dove, quattro anni più tardi, l’avrebbe se-guita la sorella suor Massi-ma. L’itinerario formativo del postulato e del noviziato la confermò nella scelta di vita e il 3 maggio 1945 fece la prima professione religiosa.

Era rispettosa del ruolo delle operatrici, collaborava con loro e sapeva affiancare con competenza i medici. Amava la preghiera e ac-compagnava con premura le ospiti sia all’adorazione sia ad altri momenti particolari.

La sua presenza in co-munità era piuttosto silenzio-sa ma costante, nonostante i disturbi fisici che l’affligge-vano e che ha portato con tanta dignità. Quando la ma-lattia è diventata invalidante ha accolto con serenità il passaggio in casa di riposo a Taggì aiutata dalla sorella suor Massima che l’ha assi-stita con cura e amore fino alla fine, confortata anche dalla presenza delle sorelle dell’infermeria e dalle fre-quenti visite dei parenti.

suor Pierelena Maurizio

suor Gemma Tiepponata a Piombino Dese (PD)

l’1 luglio 1923morta a Padova

il 21 dicembre 2011

Non ancora dicianno-venne Fernanda Tieppo, suor Gemma, aveva chia-ramente deciso della sua vita. Infatti nell’autunno del 1942 lasciò la famiglia e iniziò, nella Casa Madre del-le suore elisabettine, l’iter formativo che, radicandola in Cristo, l’avrebbe aiutata a conoscere e ad assumerne lo stile di vita e la missione propria.

Purificate e rafforzate le motivazioni della scelta, il 3 maggio 1945 fece la prima professione religiosa.

La cura del guardaroba nell’ospedale Isolamento

Da allora suor Modesti-na si dedicò con genero-sità e competenza alla sua missione tutta rivolta all’at-tenzione e cura della per-sona ammalata. La esercitò fino al 1961 nell’ospedale “Giustinian” di Venezia, in seguito nell’ospedale civile “S. Zenone” di Aviano (PN), in quello di Padova e poi di Noventa Vicentina.

Nel 1988 iniziò il suo servizio nel Ricovero “Villa Breda” di Ponte di Brenta e quattro anni dopo passò all’O.P.S.A. di Sarmeola di Rubano (PD) come coordi-natrice di reparto in quella struttura di “carità” pensata e gestita per accogliere e curare i diversamente abili.

Suor Modestina, no-nostante l’età non propria-mente giovane, visse quel servizio, che le chiedeva di coniugare abilità professio-nale e carità, non solo con la consueta generosità ma soprattutto riconoscendolo quale opportunità per espri-mere la sua vocazione eli-sabettina secondo la quale “è suo onore servire i pove-ri di Gesù, suo comodo lo scomodarsi per essi” (Cost. 136).

A ottant’anni accolse e visse serenamente il riposo nella comunità “Regina Pa-cis” di Taggì di Villafranca dove si era ritirata anche la sorella suor Massima, un riposo interrotto dalla ma-lattia per la quale si rese necessario il ricovero nella vicina infermeria dove visse una progressiva invalidità che la portò alla morte.

Ricordo suor Modesti-na come una sorella dedita, per circa dodici anni, alle ospiti del terzo reparto “Im-macolata” dell’OPSA. Le ha assistite con disponibilità e professionalità, le ha amate con cuore di madre e nono-stante il carattere schivo e riservato sapeva trovare con esse una linea di dialogo e di comunicazione semplice ed efficace.

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in Padova fu la sua prima “missione”; suor Gemma era e fu sempre convinta che il lavoro manuale ac-compagnato dalla preghiera e dal “buon esempio”, come si diceva allora, erano buo-ne e sufficienti opportunità per testimoniare Cristo.

Da Padova passò a Lido di Venezia nell’Istituto “E. Vendramini” quindi a Pom-ponesco (MN) nell’ospedale civile - Casa di riposo della cittadina; qui dal 1956 al 1961 ebbe anche il ruolo di superiora della comunità; ruolo che continuò ad ave-re nella Casa di riposo “S. Caterina” di Salò (BS), poi nuovamente a Pomponesco e infine nella comunità in servizio presso la casa di cura “Villa del Sole” a Ca-tanzaro.

Dopo una breve pre-senza ad Assisi, all’Istituto Serafico, nel 1977 ritornò a Pomponesco ancora con l’incarico di superiora della comunità. Da qui passò a Padova nella comunità del postulato e poi a Roma nel-la comunità scolastica “S. Francesco d’Assisi”.

Nel 1990 fu trasferita, come superiora, nella co-munità operante presso il seminario vescovile di Rovi-go; qui ebbe modo di espri-mere la sua attenzione e la cura non solo nei confronti delle sorelle ma anche dei seminaristi e dei sacerdoti in conformità alla bella tra-dizione francescana.

Nel 1995, concluso il mandato di superiora, fu per un breve periodo al-l’Istituto “Regina Mundi” a Cavallino-Venezia, quindi espresse le sue capacità di gentile accoglienza come centralinista in Casa Ma-dre; da qui migrò, secondo il bisogno, nelle comunità di “Santa Maria” al Lido di Venezia, di “S. Francesco” a Roma e in quella di Badia a Settimo (FI).

Dal 2005 alla primavera del 2011 fu una preziosa, serena presenza nella co-

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TI CONOSCEVO PER SENTITO DIRE, ORA I MIEI OCCHI TI VEDONOTU SEI LA ROCCIA DELLA MIA SALVEZZA nel ricordomunità “Bettini” di Ponte di Brenta - Padova. Quando la comunità fu sciolta, passò nella comunità “S. Agnese” di Casa Madre felice di es-sere in una comunità che aveva come compito prima-rio l’adorazione eucaristica.

Fu una esperienza bre-vissima a causa del riacu-tizzarsi della malattia che si pensava vinta con l’in-tervento chirurgico. Visse nell’infermeria quattro mesi intensi, tutta impegnata ad accogliere serenamente il compiersi della volontà del Signore, a ringraziare per quanto di bello e di buono le aveva fatto sperimentare nella sua vita.

Con suor Gemma avevo un rapporto profondamen-te fraterno fatto di stima e di fiducia reciproca. Lei era una persona semplice e sincera; di fronte a qual-che evenienza non chiara o ingiusta, secondo il suo pa-rere, chiedeva spiegazione perché era sensibilissima e anche un po’ permalosa.

Era rispettosa delle per-sone e nell’uso delle cose della comunità. Ebbe a più riprese il compito di supe-riora di comunità: è stata amata e stimata in varie ca-se e si è arricchita di molta esperienza. Ho ammirato in lei la costante disponibilità ad aiutare la comunità e le singole sorelle. Non le sfuggiva nessuna occasione in cui poteva essere utile. Nutriva uno spiccato affetto per tutti i suoi parenti, in modo specialissimo per la sorella Lisetta, tanto soffe-rente, alla quale suggeriva fiducia nel Signore e ricorso alla preghiera. Aveva chiare le esigenze dei voti religiosi, della povertà in particolare: si accontentava e ringrazia-va di tutto. L’aspetto però che mi ha maggiormente edificato in lei è stato il suo spirito di orazione. Pregava sempre: in casa, nei pas-saggi da un luogo all’altro, in ascensore, per strada,

Felice di donarsi al Si-gnore visse come grazia il servizio di cuoca a Padova, nella Casa del clero prima, e presso l’Istituto “Camerini Rossi” poi.

Nell’ottobre del 1944, con semplicità e prontezza accolse l’obbedienza che segnò una svolta significa-tiva nella sua vita: la cura della persona ammalata o comunque sofferente, qua-lificandosi come “infermiera generica”.

Operò nel ricovero di mendicità “S. Lorenzo” di Venezia, nell’infermeria di Casa Madre e dal 1952 al 1972 nell’ospedale civile di Padova.

Da qui passò a prendersi cura degli anziani ospiti nella Casa Serena a Iglesias (Ca-gliari) e dal 1976 per cinque nella casa di riposo “Pastor Bonus” a Lerici facendo da pendolare prima dalla comu-nità di Tellaro, poi di San Te-renzo (La Spezia).

Ritornata a Padova si dedicò agli anziani ospiti di “Casa Famiglia Gidoni”, poi, per un decennio, si dedicò alle sorelle con un servizio sereno nella cucina della comunità “S. Agnese” ope-rante all’OPSA.

Tutte la ricordano con affetto come persona soli-da spiritualmente, che ben integrava vita di preghiera e di servizio amorevole, in-stancabile, discreto, attenta a chi soffre, con semplicità e competenza. Non le fu diffcile quindi passare dal servizio diretto al servizio di suora “orante”.

A ottantaquattro anni, nel 2001, a causa di una sa-lute sempre più cagionevole, accettò il trasferimento nella comunità “Beata Elisabetta” di Monselice dove la sua disponibilità la rese pronta a rendere piccoli servizi alle sorelle. Vi rimase solo quat-tro anni, poi fu necessario l’ambiente protetto dell’in-fermeria di Casa Madre.

Qui, riservata, serena e sempre più sofferente, at-

in autobus… Quando en-trò per la seconda volta in infermeria non era conscia della gravità del suo male, ma con il passare dei giorni capì che la mancanza di forze nelle gambe era un segno premonitore: il Padre la stava chiamando. Allora si dispose ad aderire con serenità alla divina volontà ed affrontò generosamente la sua ultima battaglia: il 21 dicembre il Padre l’accolse quale figlia amata.suor Loredana Zarantonello

suor Rosita Fiornata a Loreggiola (PD)

il 13 giugno 1917morta a Padova

il 22 gennaio 2012

Suor Rosita fu chiama-ta Antonietta alla nascita, certamente in onore del “Santo” essendo nata il 13 giugno del 1917 a Loreg-giola, una località vicino a Camposampiero, luogo da dove partì s. Antonio per ritornare, morente, a Pado-va. Un nome che fu quasi un preannunzio dello spirito francescano che distinse la sua vita e il suo operato.

Nata e cresciuta in una famiglia dalle profonde radi-ci cristiane, la sua vocazione alla vita religiosa fu quasi una “naturale” evoluzione di uno stile di vita dove pre-ghiera e servizio erano ar-moniosamente presenti.

Così, a vent’anni rag-giunse la Casa Madre delle suore francescane elisabet-tine e iniziò l’itinerario della formazione e nell’ottobre del 1939 fece la prima profes-sione religiosa.

la mamma disuor Bertilla Issasuor Donatella Lessiosuor Rosecatherine

Mwangi

la sorella disuor Giannantonia

Cuglianichsuor Bertilla Erenosuor Romana Faggionatosuor Caterina Murersuor Bernardetta e suor Margherita Nebarsuor Piarodolfa Tognonatosuor Letizia Zakisuor Mariagiovanna

Zarantonellosuor Rosalidia Zenere

il fratello disuor Maria Cleofe Cesarosuor Liantonia Gastaldisuor Piamartina e suor Piasandra Gomierosuor Caterina Murersuor Rosanella Randosuor Eliodora Stoccherosuor Giannagnese

Terrazzinsuor Milena Tosetto

due fratelli disuor Costanza Bazzacco.

Ricordiamo fraternamente le sorelle colpite da lutti e

affidiamo al Signore

tese la venuta del Signore, facendo della sua vita una continua preghiera, edi-ficando con la sua parola saggia e pacata chiunque le facesse anche una breve visita.

Presentiamo al Signore con affetto e riconoscenza anche suor Perseveranza Lincetto e suor Annarosa Rizzardo, mancate in que-sti giorni.

Page 40: C in aritate - Elisabettinedissipa le tenebre degli inferi CCaritate in CHRISTI fiaccola di luce, editoriale 3 nella chiesa La fede: un incontro e una relazione 4 Chino Biscontin Dagli

Come cristiani e missionarinon possiamo avere paura;

o forse possiamo, perché la paura viene da sé anche se non la chiami;

forse possiamo avere paurama non possiamo fermarci,

dobbiamo portare avantiil sogno di Dio e il sogno del popolo, che è una società di fratelli e sorelle,

è una terra rispettata, amata e che dà alimento,

bellezza e riposo per tutti.Questa terra è dono di Dio e conquista

dei piccoli che in Lui confidanoe non regalo dei grandi.

Nella terra dei piccoli c’è postoper tutti, anche per i grandi,

ma nella terra dei grandi i piccoli non entrano.

suor Dorothy Stang, missionaria uccisa in Brasile il 12 febbraio 2005

24 marzo 2012 XX giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri