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Centro Biblico Diocesano

Da ormai due anni la nostra Chiesa ha fatto la scelta di dedicarsi alla lettura del Vangelo domenicale. In questo anno A ci accompagnerà il Vangelo secondo Matteo. Se Marco già indica le tappe essenziali della sequela di Gesù, con le condizioni per seguirlo e i principali ostacoli al cammino dei discepoli, Matteo offre un insegnamento dettagliato sul discepolato del regno, con una particolare attenzione alla formazione dei discepoli, a cui Gesù si presta con speciale dedizione. Quasi a cifra del modello discepolare che Gesù ha perseguito, Matteo sembra mettere al centro la figura dello scriba divenuto discepolo, capace di accedere al tesoro delle Scritture e di estrarne cose nuove e antiche. La lettura di Matteo, che in questo anno liturgico impegna l’intera chiesa, è dunque un’importante occasione per un’autentica formazione al discepolato cristiano, fondato sulla risposta incondizionata all’amore del Signore e sorretto dalla Parola delle Scritture, nelle quali continua a brillare la luce che rischiarò le regioni tenebrose dalle quali il Signore volle iniziare la sua opera di annuncio del regno. Il Centro Biblico offre alla nostra chiesa questo strumento per avere uno sguardo di insieme sull’intero sviluppo del racconto evangelico e per entrare in modo un po’ più approfondito in alcuni testi, che si segnalano in modo particolare nella lettura liturgica. Il sussidio riproduce in parte il lavoro già fatto in occasione della lettura di Matteo nell’anno pastorale 2006-2007. L’introduzione, rielaborata e ampliata rispetto all’edizione precedente, è a cura del sottoscritto, come pure le schede da I a VII e le schede IX, XI e XIV. Don Francesco Bianchini, ha curato le schede VIII, X e XII, già presenti nel precedente sussidio come pure quelle elaborate da don Claudio Francesconi (XIII, XV e XVI). Affidiamo questo lavoro alla bontà paziente ed alla buona volontà di quanti, animati da un sincero amore per la Parola di Dio, desiderano farle spazio nella loro vita, per diventare discepoli un po’ più autentici del Signore e comunità di fratelli nei quali il Egli si compiace (Sal 133). Lucca, 21 settembre 2013, Festa di S. Matteo ap. e ev.

Luca Bassetti

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Lo scriba divenuto discepolo Discepolato e formazione nel vangelo secondo Matteo

Premessa La lettura del Vangelo di Matteo in questo anno liturgico e pastorale può costituire per la nostra Chiesa una grande opportunità, particolarmente in una duplice direzione: quella della formazione al discepolato di Gesù e quella di una rinnovata comprensione dell’identità della Chiesa e delle conversioni e riforme che si richiedono oggi per un’autentica comunità di fede. Circa il primo aspetto è importante notare come Matteo, tra gli evangelisti, dedichi una particolare attenzione agli aspetti formativi del discepolato. Già Marco aveva strutturato il suo vangelo come percorso di fede del discepolo chiamato anzitutto a seguire Gesù per imparare a servirlo e a salire con lui a Gerusalemme (Mc 15,41). Matteo avverte la necessità di integrare la “catechesi narrativa” di Marco con ampie inserzioni didattiche che riguardano aspetti fondamentali del discepolato per il regno: si tratta dei cinque grandi discorsi che gettano luce sulla struttura del discepolato nei suoi fondamenti costitutivi, nelle dinamiche missionarie della sua diffusione esterna, nei delicati processi del suo interno sviluppo, nella sua concreta e storica dimensione ecclesiale e nella sua compiuta realizzazione escatologica. Il Vangelo di Matteo ha dunque, tra gli altri, l’obiettivo di condurre attraverso una sequela incondizionata e sapiente alla piena realizzazione del regno di Dio nella vita dei credenti che accettano di seguire il Cristo e vogliono imparare da lui. Tra le righe del racconto evangelico sembra emergere quella particolare figura discepolare che può essere ricondotta all’immagine esclusivamente matteana dello scriba che diviene discepolo del regno, all’esperto delle Scritture di Israele che si fa piccolo accettando di mettersi alla scuola di Gesù (13,51), rinunciando a farsi chiamare maestro per seguire l’unico Maestro (23,7-8). Il riferimento costante di Matteo alle Scritture spesso citate esplicitamente nella linea di un loro compimento nei gesti e nelle parole di Gesù, sembra confermare tale peculiarità scribale del discepolato matteano. In ordine al secondo aspetto, quello della conversione e riforma ecclesiale, si può facilmente constatare come Matteo sia tra gli scritti neotestamentari che manifestano una maggiore impronta etico-teologica, non semplicemente come pratica del fare, ma nella linea del discernimento in ordine all’autentica conversione del cuore e della condotta, recependo in questo le istanze e lo stile della grande lezione sapienziale dell’Antico Testamento e della tradizione rabbinica di Israele. In un tempo in cui si avverte la necessità e l’urgenza di importanti decisioni ecclesiali per una riforma non soltanto organizzativa, ma spirituale, culturale e vitale delle nostre comunità cristiane, il vangelo secondo Matteo sembra poter offrire l’aiuto e la luce che cerchiamo. L’opera attribuita a Levi, il pubblicano convertito e conquistato dal Regno, rivela infatti una straordinaria sensibilità sapienziale in ordine alla conoscenza della volontà di Dio, cercata con accuratezza scribale nella luce delle Scritture di Israele. A differenza dell’impeto kerygmatico di Marco, con l’irruzione del Regno di Dio nella sua dirompente novità, diversamente dalla discontinuità posta dagli scritti paolini rispetto alla legge antica e alla sua osservanza e, seppure in modo più sfumato, anche dagli scritti lucani, che vedono ormai nella comunità dei discepoli la successione legittima a Israele, l’andamento didascalico di Matteo cerca di approfondire il mistero di una continuità tra il vecchio ed il nuovo, mostrando come Gesù non sia venuto ad abolire, ma a compiere le antiche Scritture (5,17). Matteo si presenta dunque come uno scritto di conciliazione, di più pacato ripensamento della novità cristiana nel solco della grande ed autentica tradizione di Israele, redatto secondo una metodica scribale. Chi lo ha composto si è comportato come i sapienti di Israele: ha cercato nella meditazione e nello studio delle Scritture antiche la luce per riformulare coerentemente la novità

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evangelica; ha consegnato nel suo stesso scritto criteri di discernimento sapienziale della volontà di Dio in Cristo; ha tentato, come scriba divenuto discepolo del Regno, di estrarre dal suo tesoro biblico cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). Questo sussidio cerca di offrire nella sua prima parte una panoramica introduttiva sul Vangelo di Matteo, mentre propone nella seconda parte alcune chiavi di lettura su testi tra i più tipici del primo evangelista. La scelta tanto della presentazione introduttiva quanto dei testi proposti è stata guidata dal duplice intenzionalità sopra indicata: cercare di delineare l’identità del discepolo e gli elementi della suo cammino di formazione e individuare i criteri più decisivi per un’autentica conversione ecclesiale, nel discernimento della volontà di Dio manifestata nei tempi sempre nuovi in riferimento alla luce delle Scritture.

I Parte

Un’introduzione alla lettura del vangelo secondo Matteo

I Vangeli sono scritti di carattere narrativo; raccontano una storia che è essenzialmente un viaggio: il viaggio compiuto dal Figlio di Dio, Parola eterna del Padre, venuto in mezzo a noi per condividere in tutto la nostra umanità, che ha voluto essere in tutto simile a noi, per essere il Dio-con-noi. Marco ha descritto tale venuta come irruzione gratuita e misericordiosa del Regno di Dio che guarisce e salva; Luca ne ha parlato come viaggio di amore che condivide il cammino dell’uomo, come l’Arca dell’Alleanza, che contiene Parola e Pane ed è segno della premura di Dio in mezzo al popolo nel deserto; Giovanni ne ha raccontato come avventura amorosa della Sapienza eterna, che pone la sua tenda in mezzo a noi. Matteo rende testimonianza del Figlio di Dio fatto uomo come dell’Emmanuele, di colui che dall’inizio si fa chiamare il Dio-con-noi (1,23) e che alla fine ancora promette e rassicura di rimanere sempre con noi (28,20), secondo la significativa inclusione che incornicia tutta la narrazione matteana. Le indicazioni che seguono intendono essere una piccola guida, un orientamento minimo per accompagnare il lettore nel viaggio insieme al Dio-con-noi, narrato dall’evangelista Matteo, lasciandosi istruire dall’esperienza costante del suo amore ed imparando a rileggere le Scritture nella luce della misericordia, come scriba sapiente, divenuto discepolo del regno dei cieli (13,51).

1. La struttura letteraria

Un primo orientamento per la lettura viene da uno sguardo d’insieme alla struttura letteraria dell’opera. Una strutturazione coerente rivela infatti non soltanto l’abilità creativa di chi ha scritto, ma è soprattutto indice di una particolare intenzionalità, relativa al messaggio che si vuole trasmettere. Alla possibile struttura letteraria si giunge tramite l’esame di alcuni indici, quali ripetizioni (termini o frasi che ricorrono pressoché uguali e scandiscono ritmicamente il racconto), segnali (variazioni sorprendenti rispetto ad un andamento omogeneo che attirano l’attenzione del lettore, il quale tuttavia non è ancora in grado di stabilirne il senso ed è invitato ad attendere il seguito del racconto), inclusioni cornice (ripetizioni all’inizio e alla fine di una unità con funzione di delimitazione dell’unità stessa), parole chiave (termini o espressioni dotate di una particolare densità di significato, magari assenti nelle fonti utilizzate ed inserite dalla rielaborazione dell’autore stesso). Per un’ipotesi di struttura può essere qui sufficiente limitarsi alla considerazione di alcune inclusioni e di alcune ripetizioni particolarmente significative.

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Oltre alla macro-inclusione già segnalata, tra 1,23 e 28,20, che racchiude tutto il vangelo matteano sotto il segno dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, troviamo altre tre grandi inclusioni. La prima, tra 3,13-4,11 e 27,38-54, pone l’intero racconto evangelico sotto il segno della relazione obbedienziale, tentata e sofferta del Figlio al Padre. La seconda, nell’esatto richiamo verbale tra 4,17 e 16,21, scandisce la narrazione nelle due tappe fondamentali che la segnano cronologicamente e geograficamente: il ministero in Galilea con l’annuncio e l’insegnamento del Regno, e il viaggio a Gerusalemme, con l’annuncio della Pasqua e l’insegnamento della croce. La terza inclusione tra 4,23ss e 9,35,ss., due brani quasi identici che rappresentano forse gli unici sommari del primo vangelo, abbraccia riassumendola tutta la proclamazione del Regno da parte di Gesù in Galilea, nella sua proposta positiva e sostanziale, prima dell’invio dei discepoli e delle contestazioni da parte delle autorità. Tra le ripetizioni se ne trova una particolarmente significativa, a motivo della sua ricorrenza per ben cinque volte, in 7,28; 11,1; 13,53; 19,1; 26,1: essa scandisce il passaggio da una sezione discorsiva ad una sezione narrativa, dal parlare prolungato di Gesù al movimento ed all’azione. Grazie a tale ripetizione risultano evidenti nel Vangelo di Matteo cinque grandi blocchi, comprendenti da uno a tre capitoli, interamente dedicati ad insegnamenti di Gesù, ai quali si alternano sezioni narrative. Questi ed altri indicatori letterari non sono facilmente sovrapponibili, tanto da supportare univocamente un’unica ipotesi di struttura letteraria. Si possono pertanto formulare diverse soluzioni di suddivisione ed articolazione del vangelo matteano. Ci si limita qui a segnalarne due: una essenziale, basata sull’inclusione tra 4,17 e 16,21, che scandisce il racconto evangelico in quattro parti, in base ai suoi riferimenti geografici e cronologici; la seconda, più articolata e condivisa dagli studiosi, basata sulla scansione dei discorsi nella loro alternanza alle sezioni narrative.

Ecco la prima ipotesi di struttura:

I parte Il prologo: il Figlio di Dio nell’umiltà degli inizi (1,1-4,16)

A) Il racconto dell’infanzia (1-2) B) La preparazione al ministero (3,1-4,16) II parte Il ministero in Galilea e l’opera del Figlio (4,17-16,20)

A) L’insegnamento e l’opera di Gesù (4,17-11,30) B) La divisione tra fede ed incredulità (12,1-16,20)

III parte In viaggio verso il compimento: la venuta del Figlio (16,21-25,46)

A) Viaggio a Gerusalemme e annunci della Pasqua (16,21-20,34) B) Ministero a Gerusalemme e insegnamento sulla fine (21,1-25,46) IV parte L’epilogo: il Figlio di Dio nell’umiltà del compimento (26-28)

A) La passione e la morte di croce (26-27) B) La risurrezione di Gesù e il mandato ai discepoli (28)

Questa prima ipotesi mette in evidenza la svolta narrativa di 16,21 quale spartiacque dell’intero Vangelo, che culmina con il riconoscimento dell’identità di Gesù da parte dei discepoli. Siffatta suddivisione ha il vantaggio di articolare la lettura di Matteo sul canovaccio narrativo di Marco, la sua fonte principale, ma non aiuta forse a cogliere il taglio particolare del Vangelo attribuito a Levi rispetto alla sua fonte marciana, che egli tuttavia segue come traccia, e riproduce quasi invariata, soprattutto nella III e IV parte.

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Ecco la seconda ipotesi di struttura: I parte L’annunciatore del Regno: il Figlio di Dio, povero tra i peccatori (1,1-4,22) A) L’origine divina dell’annunciatore, il Figlio piccolo e già perseguitato (1-2) B) L’umile inizio: il Figlio riconosciuto e tentato, solidale coi peccatori (3,1-4,22) II parte Le parole e i segni dell’annuncio del Regno per i poveri (4,23-9,35) A) L’insegnamento sul Regno nelle parole di Gesù per i poveri (4,23-7,29) B) I segni della venuta del Regno nelle opere di Gesù per i peccatori (8,1-9,35) III parte Le reazioni al Regno: mistero dell’incredulità e fede dei piccoli (9,36-12,50)

A) L’insegnamento ai discepoli, poveri per la missione del Regno (9,36-10,42) B) Opposti esiti del Regno: nascosto ai potenti, rivelato ai piccoli (11,1-12,50)

IV parte Le modalità di attuazione del Regno e i criteri del suo discernimento (13-17) A) L’insegnamento sulle modalità di attuazione del Regno (13,1-52) B) La fede umile e audace, criterio distintivo dei figli del Regno (13,53-17,27) V parte I frutti del Regno: la comunione dei piccoli e dei fratelli (18-23) A) L’insegnamento sulla Chiesa-Regno, luogo di misericordia per i piccoli (18) B) Il Regno dei bambini e dei poveri, sottratto all’ipocrisia idolatrica (19-23) VI parte Il compimento del Regno (24-28) A) L’insegnamento sulla fine: discernere i tempi e disporre il cuore (24-25) B) Il compimento del Regno nell’umiliazione e glorificazione del Figlio (26-28)

Questa seconda ipotesi di struttura origina dalle ripetizioni di chiusura dei cinque discorsi e dall’inclusione tra 4,23ss e 9,35ss, che invita a leggere insieme discorso e relativo sviluppo narrativo. Con questa articolazione si evidenzia maggiormente la peculiarità di Matteo, che riassume gli insegnamenti di Gesù in cinque grandi discorsi, alternandoli a testi narrativi che possono essere considerati in certo qual modo come attuativi o esemplificativi degli insegnamenti stessi. La suddivisione così ottenuta, in sei parti, con dodici sottodivisioni, si presenta come sostanzialmente coerente, tanto nell’insieme letterario quanto nello sviluppo tematico-narrativo. Nei titoli indicati per ogni articolazione si è voluto privilegiare, sul versante dell’azione divina, il tema conduttore del Regno dei Cieli, con riferimento all’identità filiale-divina di Colui che lo annuncia e lo realizza, ai contenuti dell’annuncio stesso e alla sua manifestazione nelle parole e nelle opere di Gesù, alle opposte reazioni da esso generate, alle condizioni e criteri della sua crescita e del relativo discernimento, ai frutti della sua realizzazione, alle modalità del suo compimento. Sul versante dei destinatari del Regno, nella loro somiglianza a Colui che lo realizza, si è privilegiato il tema dei poveri, soggetto della prima beatitudine, con tutte le sue varianti relative a peccatori, malati, piccoli, bambini, fratelli dipendenti l’uno dall’altro. Con riferimento a questa seconda ipotesi di struttura, ripercorriamo ora lo sviluppo tematico –narrativo attraverso i cinque grandi discorsi.

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2. La trama narrativa

Come già si è visto dalla prima ipotesi di struttura letteraria, Matteo, nel suo sviluppo narrativo, segue sostanzialmente il canovaccio di Marco, che risulta essere la sua fonte principale. Il confronto sinottico tra gli evangelisti mostra, con evidente chiarezza, come Matteo e Luca abbiano assunto da Marco, forse il primo ad aver scritto un resoconto storico-teologico della vita pubblica di Gesù, lo schema fondamentale del loro racconto, insieme a svariate sequenze narrative. In entrambi è presente tuttavia abbondante materiale, soprattutto detti e discorsi, in parte comune, in parte proprio di ciascuno, che gli studi storico-critici attribuiscono ad altre fonti (in particolare una ipotetica fonte Q, una raccolta di detti di Gesù, per il materiale comune a Matteo e Luca). Matteo organizza tutto questo materiale discorsivo in modo alquanto diverso da Luca, compendiandolo in cinque grandi discorsi di Gesù, mentre, in modo simile a Luca, ma attingendo ad altra fonte, antepone al racconto evangelico una narrazione della nascita e dell’infanzia di Gesù. I primi due capitoli di Matteo, così come Lc 1-2, non hanno un corrispettivo in Marco, il cui racconto inizia con la testimonianza del Battista ed il Battesimo nel Giordano: Luca e Matteo, coi capitoli cosiddetti dell’infanzia, sembrano mossi dalla preoccupazione non solo di riempire un vuoto narrativo, ma di rispondere alle obiezioni circolanti nel loro tempo circa l’origine divina di Gesù; a quanti ritenevano, facendo leva sul vuoto narrativo di Marco che Gesù, da semplice uomo, fosse stato adottato come Figlio di Dio soltanto al Battesimo nel Giordano e mantenuto in tale identità e prerogativa fino a poco prima della sua morte sulla croce (il grido «Dio mio, perché mi hai abbandonato» lo testimonierebbe), Matteo e Luca rispondono coi racconti dell’infanzia in senso anti-adozionista. Ecco il seguito della successione narrativa di Matteo a confronto con quella di Marco. Matteo 3,1-4,22 segue la trama di Marco 1,1-20 nella successione dei fatti riguardanti la predicazione di Giovanni, il battesimo di Gesù, le tentazioni nel deserto, l’annuncio del Regno, la chiamata dei primi discepoli, ma amplia notevolmente, così come Luca, rispetto alla sua fonte. Nell’inclusione tra 4,23ss e 9,35ss, Matteo interrompe la narrazione di Marco, prima con il lungo discorso del monte (5-7), poi con i racconti di guarigione (8-9) per i quali tuttavia attinge da Mc 1,21-2,22 e da Mc 5, ma con una diversa successione, mostrando una chiara volontà di compendiare nella sezione narrativa dei cc 8-9, quanto ha trovato disseminato nel racconto di Marco. Anche quest’opera di compendio, come i cinque discorsi, rivela lo stile e l’intento didascalico di Matteo. Anche al c. 10, nel discorso missionario, Matteo fa opera di compendio, cucendo insieme i testi di Mc 3,13-19 e 6,7-11, riguardanti rispettivamente la designazione-costituzione e l’invio dei Dodici, proseguendo, con riferimento a parte del discorso escatologico di Mc 13,9-13, con l’annuncio delle persecuzioni per i suoi inviati, e chiudendo con un richiamo alla fiducia, alla necessità della rinunzia che abbraccia la croce e all’accoglienza data ai suoi piccoli, dove utilizza alcuni elementi di Mc 8,34-38 e Mc 9,37-50. Al c. 12 Matteo riprende sostanzialmente la narrazione di Mc 2,23-3,35, proseguendo, nel discorso delle parabole al c. 13, con una rielaborazione delle parabole del Regno di Mc 4,1-34, alle quali aggiunge materiale suo proprio. Nell’intera sequenza di 13,53-17,23, Matteo non fa che riprendere, con una successione sostanzialmente uguale, il testo di Mc 6,1-9,32, dal rifiuto dei nazaretani al riconoscimento di Pietro, attraverso la sezione dei pani (i due racconti del pane spezzato per le folle in territorio prima giudaico, poi pagano), e dalla trasfigurazione ai primi due annunci della Pasqua. Già in Marco i due racconti del pane spezzato inglobano, come in Matteo, tutta la riflessione sulle tradizioni giudaiche, sul vero criterio di discernimento tra il puro e l’impuro, con i due significativi episodi della cananea e del lievito dei farisei, che sembrano costituire l’applicazione narrativa delle considerazioni di Gesù circa l’autentica osservanza, tanto in Matteo quanto in Marco. Giunto in corrispondenza del secondo annuncio della Pasqua, laddove Mc 9,33-37 prosegue con l’interrogativo dei discepoli circa il più grande tra loro, e la risposta di Gesù che indica il bambino, Matteo sente la necessità di introdurre una prolungata riflessione sulla comunità cristiana con il discorso ecclesiale del c. 18, sviluppando il riferimento marciano al bambino con l’identificazione dei piccoli e dei fratelli quali membri di una comunità che assolve al compito di essere

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essenzialmente una struttura di misericordia, per la custodia dei piccoli e la correzione ed il perdono del fratello. Terminato il discorso ecclesiale, Matteo 19-20, riprende quasi esattamente la trama di Mc 10: la questione sul ripudio, il rapporto di Gesù coi bambini, la chiamata del ricco, fino al terzo annuncio della Pasqua e alla guarigione del cieco di Gerico (che Matteo, secondo un’abitudine già altrove manifestata raddoppia in due ciechi), reso capace di seguire Gesù a Gerusalemme. In questa sezione che narra l’ultimo tratto del viaggio a Gerusalemme, tanto Matteo quanto Marco evidenziano la piccolezza e la povertà quali condizioni per la sequela, possibile soltanto per grazia, attraverso la guarigione degli occhi della fede (il raddoppiamento dei ciechi in Matteo rafforza forse il valore simbolico dell’episodio, già presente in Marco, come guarigione profonda del discepolo in funzione della sequela). Matteo si limita ad aggiungere, rispetto alla fonte marciana, la parabola degli operai chiamati ad ore diverse, quasi a rafforzare i riferimenti di Marco alla prontezza ed alla gratuità della sequela, in risposta all’iniziativa purissima della grazia. Il racconto prosegue con l’ingresso a Gerusalemme, l’episodio della purificazione del tempio, teatro degli insegnamenti di Gesù e delle dispute con le varie categorie di esponenti religiosi e politici. Matteo 21-22 segue quasi esattamente la scansione di Mc 11-12, limitandosi ad aggiungere le parabole dei due figli chiamati a lavorare e degli invitati al banchetto, entrambe col probabile scopo di rafforzare (insieme alle varianti matteane nella parabola dei vignaioli omicidi), rispetto a Marco, la denuncia ai figli di Israele, soppiantati dai pagani per il loro rifiuto. In corrispondenza di Mc 12,38-40, dove Gesù denuncia l’atteggiamento auto-idolatrico degli scribi, con le loro ostentazioni di bene a nascondere i crimini da essi compiuti, Matteo sente il bisogno di ampliare con una denuncia all’ipocrisia di scribi e farisei, estesa all’intero c. 23, mediante un elenco di «guai», che sembra fare da contrappeso negativo alle beatitudini del c. 5, tanto da non trovare più uno spazio per inserire l’episodio della vedova, che chiudeva la sezione di Marco. Segue, in Mt 24 il discorso escatologico, che ricalca sostanzialmente il testo parallelo di Mc 13, ampliato tuttavia da Matteo con le parabole sulla vigilanza operosa e la scena conclusiva del giudizio finale, al c. 25: tale aggiunta sembra rispecchiare la preoccupazione della generazione di Matteo di giustificare il ritardo della parusia come tempo di attesa paziente in vista delle autentiche disposizioni all’incontro con Signore che ritorna. I capitoli 26-28, con il racconto della passione, morte e risurrezione, sino all’apparizione finale in Galilea, con il mandato missionario universale conferito ai discepoli, non si discostano, se non per lievi differenze redazionali, dai relativi cc. 14-16 di Marco, considerando la sua finale cosiddetta lunga (Mc 16,9-20).

3. Le peculiarità dello sviluppo narrativo di Matteo

Riconsiderando l’intero movimento della narrazione matteana, si possono ora meglio cogliere alcune peculiarità rispetto a Marco. La narrazione di Marco procede più rapida e a tratti nervosa, con una continua successione di fatti e continui cambiamenti di luogo, mentre il racconto di Matteo ha un andamento più lento e pacato, con un tono forse più solenne. Marco ha una preoccupazione di tipo kerygmatico, relativa all’annuncio del Regno di Dio, del quale descrive già dall’inizio l’irruzione nella storia, mentre Matteo si propone la finalità più didascalica di approfondire i contenuti dell’annuncio e di meglio mettere a fuoco l’identità del Regno annunciato. Il Gesù di Matteo ha i tratti prevalenti del maestro che insegna (5,2, ecc.), del rabbi che commenta la Legge alla luce della Profezia (7,12), dello scriba che trae dal suo tesoro la novità del Regno nella luce delle antiche Scritture (13,52). Forse, ancor più che tutto questo, il Gesù matteano è raffigurato come il nuovo Mosè, che non abolisce, ma porta a compimento le antiche Scritture (5,17). Il suo insegnamento si colloca, con significativa inclusione, tra il monte delle beatitudini (5,1), in cui egli dona ai discepoli il suo insegnamento nuovo, ed il monte dell’apparizione da risorto, forse lo stesso monte, in Galilea (28,16), dal quale egli invia i discepoli ad insegnare, a loro volta, quanto hanno imparato da lui. Se Marco è stato indicato dalla tradizione come il Vangelo del catecumeno, per un primo approccio alla persona di Gesù, Matteo è il vangelo del credente nel quale è cresciuta

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l’esigenza di approfondire, nella luce delle Scritture, l’intelligenza del Cristo e dell’insegnamento sul Regno. 3.1 Marco e Matteo a confronto La narrazione di Marco punta allo svelamento progressivo di Gesù, quale messia di Israele e Figlio di Dio, salvatore delle genti. Questo sembra motivare le insistenze di Marco sul segreto, cosiddetto messianico, imposto da Gesù ai suoi interlocutori e l’ordine ai demoni di tacere la sua identità, da essi compresa in modo distorto, giustificando l’intero movimento narrativo come progressivo avvicinarsi del discepolo alla comprensione della piena identità di Gesù, prima quale Cristo d’Israele, alla luce del ministero galilaico (8,37-30), poi come Figlio di Dio, alla luce della morte di croce (15,39). Matteo non ha necessità di riproporre la quasi suspence di tale svelamento progressivo: il lettore, già dai capitoli dell’infanzia, ben conosce l’identità di Gesù, che già Pietro a Cesarea di Filippo confessa in modo pieno (16,13-20). A Matteo interessa forse maggiormente mostrare la conformità della parola e dell’opera di Gesù con le Scritture di Israele, la continuità del suo annuncio ed insegnamento sul Regno con la testimonianza della Legge e dei Profeti. Non a caso il Gesù matteano, pur nell’apertura progressiva alle genti, sembra concentrare le sue attenzioni sulle pecore perdute della casa d’Israele (10,6; 15,24). La narrazione di Marco, dopo l’ouverture della testimonianza di Giovanni, punta direttamente all’oggetto della buona notizia: il Regno di Dio che è ormai giunto. Marco più degli altri descrive con forza l’irruzione della novità del Regno, nella instancabile predicazione di Gesù e nella forza delle guarigioni che, all’inizio del racconto (1,14-3,6), sgorgano dalla misericordia del Signore senza neppure essere richieste, a testimoniare l’assoluta gratuità del Regno veniente. Successivamente Marco mostra gli ostacoli esterni al discepolato (opposizioni familiari ed ambientali) e la necessità della fede persevarante per poterli superare (3,7-6,6). Subito dopo, egli rende conto anche degli ostacoli interiori, del cuore indurito degli stessi discepoli, che necessitano ancora della gratuita pazienza e dedizione di Gesù per una guarigione decisiva e profonda, che li consegni alla piena adesione a lui (6,7-8,30, con le difficili guarigioni simboliche del sordomuto e del cieco di Betsaida). La seconda parte (8,30-16,20), con il cammino della croce, scandito dagli annunci della Pasqua, condurrà il discepolo ad una fede purificata da ogni protagonismo e arrivismo, così da poter riconoscere nella debolezza del crocifisso l’identità del Figlio di Dio (15,39). Marco descrive il cammino del discepolato, con le sue tappe obbligate, in vista di quella fede piena e purificata che sgorga soltanto dal crocifisso. La narrazione di Matteo, con le sue inserzioni e le sue variazioni rispetto alla fonte marciana, sembra animata da un’altra preoccupazione: l’identità di Gesù è già stata dichiarata dall’inizio; si tratta di comprenderla in profondità; si tratta di entrare nel mistero del Regno per parteciparne in pienezza e comprenderne tutti gli aspetti. A tale scopo Matteo procede in modo didattico e pedagogico. Ripercorrendo il vangelo sezione per sezione occorre far emergere i tratti salienti della sua narrazione. Riservando una considerazione a parte per i cinque discorsi teologici si presterà qui attenzione alle sezioni dello sviluppo narrativo. 3.2 L’insegnamento sul regno e i gesti della sua attuazione (4,23-9,38) Come si può vedere dalla suddivisione letteraria proposta, una grande inclusione incornicia la sezione degli insegnamenti sul regno di Dio e la sua attuazione, tra i due sommari tra loro simili di 4,23-25 e 9,35-38. In essi si evidenzia l’efficacia dell’opera di Gesù sulle folle, attratte dalle sue parole di speranza e confortate dai suoi gesti di misericordia. L’intera sezione compresa tra i sommari si suddivide in due parti: il Discorso della montagna e il compendio delle azioni di Gesù verso ammalati e peccatori. Dopo aver annunciato la venuta del Regno al popolo galilaico, immerso nelle tenebre (4,12-17), Gesù procede a rischiarare, con il suo insegnamento, il buio della condizione umana: non c’è miseria che non sia beata, perché la buona notizia è per i poveri, perché il Regno dei Cieli appartiene a loro (5-7). Insieme all’insegnamento si mostrano, in immediata successione, le opere efficaci di Gesù, che instaura il Regno riscattando la condizione dei malati e

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dei peccatori (cc. 8-9, dove guarigione fisica e perdono dei peccati procedono insieme, dove si alternano risanamento del corpo e offerta di misericordia). Nella sua intenzione didascalica Matteo distingue le raccolte dei detti e degli insegnamenti dal racconto di fatti e degli avvenimenti. I primi sono compendiati nei cinque grandi discorsi teologici, alternati alle sezioni di genere narrativo. Dopo il primo grande discorso in cui Gesù, annunciata la venuta del regno, ne descrive modalità di attuazione e condizioni di appartenenza (5-7), Matteo compendia in due capitoli (8-9) una serie di guarigioni compiute da Gesù, a indicare l’efficace presenza del regno, della signoria di Dio, che risolleva l’uomo dalla propria condizione di miseria e di peccato e lo invita alla relazione con sé nel discepolato di Gesù. Considerando più da vicino la sezione dei miracoli nei cc 8-9 si fa ancora evidente l’intento catechetico di Matteo, che compendia diversi cosiddetti miracoli di guarigione che Gesù, stando agli altri Vangeli, avrebbe operato non in immediata successione, ma in tempi e luoghi diversi. Colpisce il fatto che tra questi episodi di guarigione siano collocati anche due racconti di vocazione (8,18-22 e 9,9-13) in due punti narrativamente strategici attorno ai quali ruota l’intera sezione,. Tre guarigioni aprono il capitolo 8: il lebbroso (8,1-4), il servo del centurione (8,5-13), la suocera di Pietro (8,14-17). Il primo rispecchia probabilmente la situazione di morte progressiva in cui si trova l’uomo, con la sua situazione apparentemente irrecuperabile. la supplica accorata e fiduciosa attira la benevolenza del Signore che tocca e risana, assumendo per contatto la situazione di impurità del’uomo. Il secondo mostra l’efficacia decisiva della fede nella Parola di Dio, capace di operare a distanza, senza altro concorso di prestazione, se incontra la fede del povero. Il terzo dice la capacità di Gesù di placare il bruciore febbrile che inutilmente indebolisce l’uomo per restituirgli la capacità di servire con la dovuta calma ed energia. A seguito di questa prima serie, che si chiude con la citazione di Isaia sul servo di YHWH, venuto a prendere su di sé le nostre debolezze (8,17), si trova il primo episodio di vocazione, con le condizioni per la sequela (8,18-22). Non chi si propone autonomamente, ma solo chi il Signore stesso chiama e guarisce è realmente in condizioni di seguirlo. Il discepolato non è opera possibile alla carne e al sangue, ma soltanto alla fede che si lascia guarire nel proprio intimo. Solo per misericordia è possibile entrare nel regno e divenire discepoli: per rimanere tali occorre continuare a confidare in Colui che placa il mare in tempesta (8, 23-27) e che libera dall’agitazione demoniaca (8,28-34). Il racconto del paralitico (9,1-8) dice l’importanza dell’intervento dei fratelli nelle situazioni di blocco non semplicemente fisico o morale (l’incapacità di operare il bene, ma con la volontà di farlo, come dice Paolo in Rm 7,7-25), ma più radicalmente spirituale, in cui depressione e sfiducia scoraggiano dal continuare il cammino. Solo il perdono unilaterale dei peccati, offerto dalla misericordia del Signore, può rialzare da questa terribile paralisi, nella quale ha un ruolo decisivo anche l’iniziativa di sostegno e accompagnamento della comunità di fede, rappresentata dai quattro portatori. A seguito l’episodio della vocazione di Matteo (9,9-13), dove l’invito di Gesù sblocca il pubblicano dalla sua paralisi interiore e lo rende capace di seguirlo. La scoperta del primato della misericordia sul sacrificio apre al discepolo un orizzonte nuovo in cui sono di slancio superati i pesi della legge e la tentazione dell’autogiustificazione. Il nuovo portato da Gesù è sentito come ormai incompatibile col vecchio di una mentalità legalistica di autosufficienza (9,14-17). Gli episodi successivi della figlia di Giairo e dell’emorroissa (9,18-26) insistono sulla potenza della fede nel superare le situazioni di infecondità e di morte che segnano la via del discepolato. Una fanciulla che muore a dodici anni quando si accinge a fiorire la sua capacità generativa e una donna che perde sangue e vita proprio laddove dovrebbe esprimere la sua fecondità. Solo la fede preserva il discepolato dallo scoraggiamento di una morte avvertita a rendere apparentemente vane le proprie fatiche e sterile la propria opera. Due guarigioni simboliche chiudono l’intera sezione: quella dei due ciechi (9,27-31) e quella del muto indemoniato (9,32-35). Con la prima viene forse significata la necessità per il discepolo di ricevere continuamente luce nelle incertezze del cammino, che richiedono la fede di una preghiera accorata, per comprendere la volontà del Signore. Con la seconda si indica il pericolo sempre all’orizzonte dell’indurimento ad opera del demonio che tenta di chiudere il cuore dell’uomo alla Parola di Dio, ripiegandolo su di sé.

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Il capitolo si chiude con un sommario sull’attività di Gesù per la diffusione del regno, che riprende, come già osservato, il sommario di apertura in 4,23, a concludere l’intera sezione del Vangelo, secondo la suddivisione proposta (4,23-9,38), il cui tema complessivo è l’avvento del regno di Dio, nel quale Gesù introduce i discepoli con il suo insegnamento e la sua opera di misericordia e guarigione.

3.3 La reazione al messaggio del regno (10-12) All’insegnamento sul Regno con le parole (5-7) e le opere (8-9), Matteo fa seguire una sezione in cui evidenzia le razioni provocate dal messaggio del Regno. Chi lo ha accolto non può non renderne testimonianza, con la sua condotta povera e affidata, luminosa e salvata, e per questo patisce incomprensione e rifiuto, comincia a vivere le beatitudini (c. 10), mentre emerge con più evidenza (11-12) il mistero di un’incredulità ostile ed aggressiva dinanzi a ciò che resta nascosto ai sapienti e potenti di questo mondo, mentre viene rivelato ai piccoli (11,25-27). Il capitolo 11 è attraversato da una serie di incomprensioni e opposizioni a Gesù. Il Battista dal carcere manda a dirgli se è veramente lui l’atteso di Israele. Egli aveva annunciato il giudizio imminente di Dio, con la scure posta alla radice degli alberi, chiedendo frutti degni della conversione. Il Cristo doveva ai suoi occhi stabilire subito la giustizia di Dio e la vendetta verso ogni opera di male. Non solo la venuta di Gesù non sembra aver cambiato nulla in tal senso: addirittura il giusto che predicava l’avvento del regno è in carcere, prossimo a morire, mentre i malvagi sembrano restare impuniti. La prova della fede espone il Battista al dubbio sulla persona di Gesù e sull’intera sua missione di precursore (11,1-15). Di seguito Gesù denuncia l’indifferenza di quella generazione, simile a bambini svogliati che non reagiscono né al lamento né alla danza, che non si sono lasciati interpellare né dall’austero battezzatore penitente, né dal compagno di tavola dei pubblicani e peccatori (11,16-19). Gesù passa poi al rimprovero per le città alle quali più si è rivolta la sua predicazione e la sua opera e che meno hanno creduto in lui, paragonate a Tiro e Sidone e Sodoma e Gomorra. Con la maledizione posta sui luoghi prediletti della sua opera, Gesù assume direttamente il fallimento della sua missione (11,20-24). La serie delle incomprensioni e dei rifiuti si chiude inspiegabilmente con l’esultanza di Gesù. dal suo fallimento Egli ha compreso l’identità del Padre, povero e incompreso nel suo amore per gli uomini, amore che lo ha reso piccolo nel dono totale di sé. Il Figlio, proprio nella sua umiliazione, sente di essere come il Padre, avverte di conoscerlo veramente come non mai e prova la gioia di rimanere con lui. Per questo Egli è in grado di confortare gli affaticati e gli oppressi, chiamati a imparare dal magistero della sua umiliazione (11,25-30). La sezione narrativa prosegue con due controversie incentrate sul sabato:il fatto delle spighe raccolte tra i campi di grano (12,1-8) e la guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (12,9-14): in entrambi i casi Gesù viene contestato per la sua libertà nei confronti della legge. La dichiarazione della sua Signoria sul sabato è non soltanto segno di un nuovo corso, segnato dalla sua venuta e dall’avvento del regno, ma espressione del primato, già dichiarato dai profeti, della misericordia sul sacrificio, come già a proposito della chiamata di Matteo. La guarigione dell’indemoniato apre un’altra controversia nella quale Gesù stesso è considerato alleato dei demoni. La contestazione su di lui è ormai a tutto campo. L’agire di Dio è ritenuto satanico: il peccato contro lo Spirito Santo è in atto, quale contrasto deliberato e ripetuto all’opera di Dio (12,22-32). L’ombra del dubbio che insistentemente le autorità religiose proiettano su di lui spinge a chiedere un segno chiaro circa l’autenticità della sua azione. Gesù offre il segno paradossale di Giona: proprio la sconfitta del Figlio dell’uomo sarà decisiva per la conversione di un’intera generazione (12,38-42). Davanti alla persistente incredulità Gesù riprende il riferimento all’azione demoniaca mettendo in guardia quell’intera generazione ad affrettarsi a consegnare il suo cuore a Dio e ad aprirlo alla venuta del regno perché non sia abitato dallo spirito maligno che la vuol tenere in suo potere (12,43-45). È sul cuore dell’uomo infatti che Gesù invita ad esercitare il discernimento più decisivo, come a individuare le radici dell’albero che produce frutti cattivi. Il Signore invita i suoi ascoltatori e oppositori a esaminare il loro cuore per cogliere le cause più vere del loro atteggiamento di chiusura

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davanti a Dio. Le parole che essi dicono nei confronti di Gesù rivelano la chiusura del loro cuore, afferrato dallo spirito del male e accecato dall’orgoglio di un’autosufficienza che si nega all’invito di Dio (12,33-37). Se alla prima ondata di opposizioni (cap 11) Gesù risponde benedicendo il Padre e chiamando a sé tutti gli affaticati e oppressi, a questa seconda ondata l’evangelista stesso risponde, secondo il suo stile, con la profezia di Is 42,1-4: il servo del Signore, in cui Dio si compiace concorrerà all’avvento del regno solo con la sua fiduciosa mitezza che lo consegna nelle mani del Padre (12,15-21). La sezione dei contrasti e delle contestazioni si chiude significativamente con l’episodio dei veri parenti di Gesù, in cui si evidenzia ancora l’opposizione tra una relazione a Gesù di presunta conoscenza che viene tuttavia solo dalla carne e dall’apparenza, e che rimane all’esterno della sua vicenda, e quella conoscenza che procede dalla fede sino all’adesione alla sua persona che consente di diventargli familiari, come fratello, sorella e madre (12,46-50). La sezione narrativa di Mt 10-11, nel culmine dell’opposizione al regno annunciato, insegnato e operato da Gesù, coglie il discepolato come vera relazione di familiarità con lui, autentica espressione del regno, che inizia ad attuarsi nella sua piccolezza.

3.4 Il mistero del regno e la sua crescita paziente (13-17) Con le parabole del capitolo 13 Matteo esprime l’insegnamento centrale del suo Vangelo sul segreto della misteriosa crescita del regno, contrastato e ostacolato da opposizioni esterne e da impedimenti interni, che toccano la profondità del cuore di ciascuno; di seguito egli illustra narrativamente la dinamica di tali opposizioni nel cuore dei discepoli, indicando la pazienza della fede come atteggiamento decisivo per rimanere con il Signore e consentire la realizzazione della sua opera. In tal modo Gesù offre, a chi già da tempo lo sta seguendo, le indicazioni essenziali per non scoraggiarsi e non smarrirsi nelle difficoltà, mettendo in evidenza quelle disposizioni interiori che invece consentono di favorire la crescita, sino al compimento di quanto Dio sta nascostamente operando. Perché l’affermarsi del Regno è così difficoltoso ed ostacolato, come già ha mostrato la sezione precedente del Vangelo di Matteo? Nei capitoli 13-17 l’evangelista cerca di dare risposta a tale interrogativo, illustrando le modalità di attuazione del Regno ed indicando gli atteggiamenti che consentono il suo sviluppo e la sua realizzazione. Nel discorso delle parabole (c. 13), Matteo riprende l’insegnamento di Mc 4,1-34, che già poneva sotto il patrocinio della pazienza e della perseveranza la possibilità di attuazione del Regno nella sua pienezza di sviluppo. Egli aggiunge un insegnamento sulla pazienza perseverante non solo riguardo all’attuazione del Regno, ma anche in ordine alla sua piena manifestazione sotto forma di giudizio discriminante del buono e del cattivo (le parabole del grano e della zizzania e della rete gettata nel mare), ed un insegnamento sulla gratuità della scoperta del Regno alla quale risponde la gratuità della scommessa della fede e della ricerca che continua incessantemente (le parabole del tesoro e della perla e dello scriba divenuto discepolo, che continua ad estrarre dal tesoro). Nel discorso delle parabole di Matteo Gesù vuole in qualche modo rassicurare i discepoli sulla normalità delle opposizioni che essi già hanno incontrato, indicando loro la strada della fede perseverante che non solo permane nel discepolato, ma scommette continuamente al rilancio per possedere il vero tesoro del Regno ed attende con fiducia pacificata la manifestazione dei figli del Regno, nella loro separazione dai figli del maligno. I capitoli successivi (14-17) sembrano costituire la rappresentazione narrativa del discorso in parabole. Essi contengono quella che già in Marco è conosciuta come la «sezione dei pani», incorniciata dai due racconti della frazione del pane, il primo in territorio giudaico (14,13-21), il secondo in territorio pagano (15,29-39), con al centro la controversia tra il puro e l’impuro (15,1-20). Già in Marco tale sezione ha funzione di motivare il passaggio da Israele ai pagani alla luce del criterio della fede e della conversione del cuore, per opposizione a regole tutte esteriori e falsamente discriminatorie. Matteo rafforza la lezione di Marco, introducendo, dopo il primo racconto dei pani, il brano di Pietro che tenta invano di camminare sulle acque per la sua poca fede (14,22-36), quasi in opposizione al racconto della cananea, una donna pagana la cui fede umile e audace suscita la meraviglia di Gesù (15,21-28). Alla fine della sezione il racconto della fede di Pietro a Cesarea di Filippo (16,13-28).

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Il movimento narrativo matteano sembra dunque dettato dalla volontà di stabilire nella fede il criterio decisivo di appartenenza a Dio, che sovverte la falsa religiosità farisaica con le sue regole di appartenenza, ed abbatte tutte quelle barriere, erette da principi di osservanza soltanto esteriore, che la presunta fedeltà di Israele alla Legge aveva posto nei confronti degli altri. Gesù qui stabilisce che il confine tra il vero e falso Israele non passa per le tradizioni esterne, che finiscono per diventare precetti di uomini, ma attraversa il cuore, sigillando la rettitudine della sua intenzione di fede davanti a Dio. L’autentico criterio di appartenenza a Dio è la fede umile e audace, pronta e generosa, nella rettitudine dell’intenzione e nella verità del cuore. Tutto questo sviluppo di pensiero confermato, ancora prima dell’episodio di Cesarea, dal cenno al lievito ipocrita dei farisei (16,1-12), esplicita in certo modo i criteri di discernimento della presenza e della crescita del Regno, illustrati attraverso le parabole del capitolo 13. L’intera sezione dei cc. 14-17 ha dunque la funzione di gettare una luce sul racconto delle opposizioni al Regno della sezione precedente (cc. 10-12), facendo emergere il criterio distintivo dell’appartenenza al Regno, in base al quale si approfondisce il solco tra il vero ed il falso Israele, mentre l’opposizione a Gesù diventa irriducibile, l’annuncio della croce si fa più insistente ed i veri discepoli sono finalmente svelati come figli del Regno, secondo la conclusione, tutta matteana, della sezione: il singolare episodio della moneta nel ventre del pesce, con cui Matteo (17,24-27) ribadisce la libertà e la signoria dei figli del Regno, dichiarando la loro esenzione dalla tassa del tempio. Dopo aver illustrato il messaggio del Regno e le opere della sua attuazione, una volta descritte le reazioni alla parola del Regno, dalle quali trarre un insegnamento ulteriore sui criteri per un discernimento della sua reale e dinamica presenza e dell’autentica appartenenza ad esso, Matteo ha posto le basi per il suo insegnamento sui frutti del Regno, su quanto esso genera, in altre parole: sul suo realizzarsi nella comunità ecclesiale, ormai separata, secondo i criteri di discernimento del puro e dell’impuro appena indicati, dall’Israele secondo la carne o, meglio secondo la legge solo esteriormente osservata. 3.5 L’incarnazione del regno nella comunità dei fratelli (18-23) Con il capitolo 18 si apre la sezione più propriamente ecclesiologica del Vangelo di Matteo, composta anch’essa da un insegnamento, il discorso cosiddetto ecclesiale (c. 18) e da un correlativo sviluppo narrativo in cui vengono esemplificativamente ritratti i veri soggetti del Regno (cc. 19-23). In corrispondenza del secondo annuncio della Pasqua, laddove Marco fa seguire l’incomprensione dei discepoli, che si interrogano su chi sia il più grande nel Regno, Matteo avverte l’opportunità di inserire uno sviluppo catechetico sulla comunità cristiana quale segno manifestativo del Regno di Dio. Già Marco pone la figura del bambino come criterio di appartenenza al Regno (Mc 9,33-37); Matteo la elabora (18,1-5) declinandola nel duplice riferimento ai piccoli (18,6-14) e ai fratelli (18,15-35). La prima parte del discorso (18,1-14, che ha come inclusione il termine «piccoli») è incentrata sulla condizione dei piccoli che non devono essere scandalizzati, perché non si perdano (18,1-9) e che devono essere ricercati con cura laddove si perdessero (18,10-14); la seconda parte (18,15-35, costruita sull’inclusione del termine «fratello») è dedicata alle relazioni tra i membri della comunità quali fratelli soggetti a sbagliare, e perciò bisognosi di correzione (18,15-20) o di misericordia disposta a perdonare sempre, senza limite né calcolo alcuno (18,21-35). Nel discorso ecclesiale Matteo identifica dunque il Regno alla concretezza di una comunità di fratelli-piccoli, bisognosi l’uno dell’altro, quale struttura funzionale all’esercizio della misericordia nella ricerca e nella correzione di chi si sbaglia e nel perdono di coloro che peccano, perché nessuno si perda a motivo della sua piccolezza e fragilità. La sezione narrativa che segue (19-23) illustra tale insegnamento ecclesiale. Il Regno costituisce i suoi membri nel bisogno reciproco della misericordia, tanto da ritenere desiderabile ogni situazione in cui la precarietà e la fragilità inducono all’affidamento e al rinsaldarsi dei vincoli comunionali. Viene così proclamata indissolubile l’unione matrimoniale (19,1-9), e frutto esclusivo di pura grazia la vita celibataria (19,10-12); viene indicata come desiderabile la condizione dei bambini (19,13-15) e di coloro che da ricchi si fanno poveri per seguire Gesù (19,16-30); viene dichiarata straordinariamente amabile e vantaggiosa la situazione di coloro che preferiscono l’ultimo posto

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(20,1-16) e che trasformano in primato di servizio ogni loro ambizione al dominio degli altri (20,17-28). Solo una guarigione profonda operata dalla grazia, che apre gli occhi dei discepoli a seguire Gesù sulla via del dono di sé consente di vivere tutto ciò (20,29-34). In opposizione a tale rinnovamento della vita e dei pensieri emergerà la condizione sterile del vecchio Israele che presume di detenere l’accesso al Regno, di coloro che rifiutano di accogliere da piccoli il Re che viene (21,1-11). Essi saranno giudicati sterili ed infruttuosi (21,12-22), mentre il loro pensare sarà dimostrato inconsistente (21,23-22,46) e la loro vita condannata come ipocrisia che uccide la profezia per eludere la conversione (c. 23). Questa sezione narrativa, particolarmente negli episodi di Gerusalemme (cc. 21-23) riprende sotto forma di giudizio ormai definitivo sul vecchio Israele quell’opposizione che già nelle sezioni precedenti emergeva come reazione alla proclamazione del Regno e quale non corrispondenza ai criteri per il suo discernimento. Qui Matteo, specialmente nelle parabole dei due figli (21,28-32, esclusivamente matteana), dei vignaioli omicidi (21,33-46, in comune con Marco, ma con la variante del passaggio del Regno ad un altro popolo) e degli invitati al banchetto (22,1-14, in comune con Luca 14,15-24, ma, diversamente da lui rielaborata in termini escatologici e collocata in un contesto di giudizio) rimarca, rispetto alla prospettiva di Marco, il passaggio del Regno di Dio dall’Israele infruttuoso ad un popolo nuovo capace di portare frutto (21,43).

3.6 Il compimento escatologico del regno (24-28) Anche nell’ultima parte (cc. 24-28) si alternano discorso di insegnamento e narrazione. Al discorso escatologico (cc. 24-25) segue il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù (cc. 26-28). Il c. 24 di Matteo, con la prima parte del discorso escatologico segue sostanzialmente Marco 13: la domanda dei discepoli circa la sorte del tempio (24,1-3), motiva la risposta di Gesù per il quale il destino storico del luogo santo prefigura profeticamente il compimento della storia tutta; in esso Matteo distingue tre fasi: il tempo dell’inizio dei dolori, con la prova e la persecuzione dei discepoli nel loro opporsi ai falsi cristi e ai falsi profeti (24,4-14); il tempo della grande tribolazione, con il sovvertimento menzognero della Parola divina e l’inganno di molti da parte di colui che vorrà addirittura occupare il luogo santo (24,15-25); il giorno della venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo, con l’oscuramento di ogni altra luce perché Egli, unico, si manifesti nella piena verità (24,26-35). Matteo prolunga il breve invito alla vigilanza di Marco con alcuni detti sul giudizio (24,36-44) e con la parabola del servo fidato (24,45-51), materiale tratto da Q, che Luca pone altrove. Il discorso escatologico avrebbe potuto concludersi al c. 24. Matteo avverte tuttavia il bisogno di prolungare il suo insegnamento sulla fine dei tempi indicando dapprima, attraverso due parabole, quali atteggiamenti devono caratterizzare il tempo presente per disporsi all’incontro e all’approvazione del Signore che viene, e concludendo con la grande scena del giudizio finale, in cui, secondo la sua ricorrente preoccupazione, l’evangelista indica il criterio decisivo circa l’esito del giudizio di Dio. Le due parabole delle vergini (25,1-13) e dei talenti (25,14-30) vertono rispettivamente sulla considerazione che certe attenzioni non si possono rimandare e che occorre cogliere l’occasione presente, perché non si dispone del futuro, e sull’invito a rischiare di mettere in gioco generosamente, quanto si è ricevuto dal Signore, scommettendo sulla forza intrinseca al dono stesso. La scena del giudizio finale (25,31-46) conclude il tutto con l’affermazione del criterio unico delle opere di misericordia verso i piccoli, compiute nell’incoscienza della fede. Tenendo conto del fatto che i piccoli sono altrove identificati con i discepoli da lui inviati (10,40-42) o con coloro che credono in lui (18,6), forse qui Matteo afferma come la sorte dei due gruppi in cui l’umanità viene divisa si giochi sull’atteggiamento avuto nei confronti di un terzo gruppo, che resta sullo sfondo, i cui membri Gesù considera come suoi fratelli più piccoli (25,40.45). Il racconto della passione, morte e risurrezione (26-28) sembra incentrato, come già quello di Marco (14-16), sulla scena del processo davanti al sommo sacerdote, in particolare sulla profezia della venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo, che Gesù dichiara ormai compiuta (26,64). Ci si allaccia così alla parte centrale dello stesso discorso escatologico, che descrive in tal modo, citando la profezia di Daniele, il ritorno del Signore (24,30). Con questo significativo richiamo Matteo, sulla scia di Marco, dichiara che con l’evento della croce è iniziata la fine della storia. Colui che

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l’ha inaugurata vive già il compimento di una signoria universale in una costante presenza, quale Emmauele, in mezzo ai suoi, presenza che tuttavia si nasconde dietro l’invio dei discepoli, e signoria che rinuncia ad ogni protagonismo, mediante il posto lasciato ai suoi (28,18-20). Dato uno sguardo generale all’articolazione letteraria e allo sviluppo narrativo, si rende ora necessario, per meglio cogliere le particolarità di Matteo, prestare attenzione a quelle sezioni che più lo caratterizzano rispetto agli altri Vangeli: i racconti dell’infanzia (1-2) e i capitoli dell’introduzione al ministero (3,1-4,22) e i cinque grandi discorsi di insegnamento sul Regno dei Cieli.

4. Il carattere prefigurativo e riassuntivo del Vangelo dell’infanzia (1-2)

Il cosiddetto Vangelo dell’infanzia costituisce l’introduzione all’intero Vangelo di Matteo, con una funzione molteplice. Esso raccorda anzitutto il racconto evangelico con la radice di Israele, con la storia del popolo eletto, ponendosi in continuità con la sue Scritture. D’altro canto funge da introduzione a tutto il Vangelo, offrendo chiavi di lettura e quasi anticipandone l’intero sviluppo teologico-narrativo. Completa inoltre la narrazione di Marco chiarificando, rispetto al suo racconto l’origine divina di Gesù, Figlio di Dio già dal suo concepimento senza opera d’uomo. Il racconto dell’infanzia, nello stile delle storiografie ellenistiche, narra le origini del personaggio, nelle quali si colgono già i semi di una vocazione che fonda e chiarisce gli sviluppi successivi. Esso presenta inoltre una precisa struttura narrativa la cui individuazione favorisce il lettore nel cogliere gli aspetti principali del messaggio 4.1 La molteplice funzione del Vangelo dell’infanzia Rispetto alla concisa narrazione di Marco, Matteo e Luca premettono una sorta di prologo all’intero loro racconto, con alcuni episodi riguardanti la nascita di Gesù e le vicende che immediatamente la precedono e la seguono. Uno degli intenti dell’autore lo si potrebbe definire “apologetico” nei confronti della verità dell’incarnazione, messa in discussione da posizioni gnostiche o adozioniste, che tendevano a spiritualizzare l’umanità del Figlio di Dio dissolvendo la concretezza dell’incarnazione e spingendo a ritenere la vicenda di Gesù come quella di un semplice uomo investito di poteri divini solo in un particolare momento della sua vita. Raccontando le origini l’evangelista precisa l’identità divina del personaggio già dalla sua nascita, riaffermando la verità dell’incarnazione e precisando i corretti presupposti della sua missione salvifica. I racconti dell’infanzia hanno soprattutto un ruolo introduttivo e ricapitolativo dell’intera narrazione evangelica. Essi aprono al lettore la porta di ingresso nel Vangelo. Hanno lo scopo di narrare non solo le origini del personaggio, secondo quella completezza di criteri per una biografia che Marco non contempla e che è invece conforme all’ideale storiografico di autori come Plutarco, ma soprattutto di riassumere in breve, quale anticipazione teologica nella luce della Pasqua, l’intera vicenda narrata nel corpo del Vangelo. I racconti dell’infanzia sono, in sostanza, una sorta di miniatura ad alta densità teologica, cristologica e pasquale dell’intero vangelo. Offrono al lettore una chiave di lettura anticipata del racconto successivo e contribuiscono a suscitare in lui l’attesa di quanto sarà narrato in seguito. D’altra parte essi hanno anche funzione di raccordo con la vicenda di Israele, di collegamento con la radice santa delle promesse ai padri e delle alleanze con i figli del popolo: devono mostrare la continuità della vicenda di Gesù con le scritture e le profezie perché si possa cogliere nel Cristo Signore il compimento delle promesse di Dio e delle attese del popolo. 4.2 Il senso della disposizione degli episodi Matteo si apre come Libro di genesi di Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1) e si chiude con la promessa di Gesù di essere Emmanuele sino alla fine del mondo (28,20). La narrazione di Matteo assume dunque una dimensione cronologica universale, onnicomprensiva, dall’alfa all’omega. I Vangeli dell’infanzia, mediante la genealogia (1,1-17), affondano nelle radici dell’alfa; il racconto della risurrezione apre all’omega del compimento escatologico. Il riferimento al Libro di genesi prosegue

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nel primo brano narrativo che racconta la genesi-nascita di Gesù Cristo (1,18-25). Il passo, che vede protagonista Giuseppe, illuminato dall’angelo portatore della profezia scritturistica, si lega alla genealogia attraverso il termine gancio ghénesis: ne è il naturale prolungamento a giustificare la mutazione del verbo generare dall’attivo al passivo nell’ultimo passaggio, dove Giuseppe è semplicemente indicato come lo sposo di Maria dalla quale è generato (senza il suo intervento) Gesù. La pericope si lega dunque alla genealogia, a illustrare quanto essa già lasciava intuire sulla nascita misteriosa del Cristo da Maria. Lasciando a sé per il suo particolare genere letterario la genealogia, la narrazione evangelica vera e propria si apre con il racconto della gravidanza di Maria e della riflessione di Giuseppe dal turbamento alla luce in 1,18-25. Tale passo apre una sequenza di cinque brani narrativi che mostrano una particolare disposizione strutturale ed hanno ciascuno un riferimento esplicito alla Scrittura: 1. L’annuncio a Giuseppe (1,18-25), con rif. a Is 7,14.

a. La ricerca dei magi (2,1-12), con rif. a Mi 4 e 2Sam 5,2

2. La fuga in Egitto (2,13-25), con rif. a Os 11,1

b. La strage degli innocenti (2,16-18), con rif. a Ger 31,15

3. Il ritorno a Nazareth (2,19-23), con rif. a Is 42,6 e 49,6.

La disposizione evidenzia due blocchi testuali tra loro intrecciati. Il blocco 1.2.3. è incentrato sull’intervento dell’angelo del Signore nei confronti di Giuseppe. Prima gli annuncia la conformità della nascita alle profezie, poi gli comanda di mettere in salvo la famiglia in Egitto, infine lo invita a tornare con la famiglia nella terra di Israele, stabilendosi in Galilea. La disposizione sequenziale all’interno dei singoli episodi del blocco e la stessa: I) descrizione della situazione; II) messaggio dell’angelo come invito ad una missione; III) conformità dell’annuncio angelico alla parola della Scrittura; IV) esecuzione della missione affidata. Il secondo blocco a.b. è incentrato sull’opposizione e presunta rivalità tra due re: Erode e Gesù. I due episodi che lo compongono sono collegati tra loro dalla testimonianza dei magi, accolta con apparenza di favore nel primo episodio, dove Erode si finge adoratore del nuovo re, suscitatrice di reazione violenta nel secondo episodio, dove Erode sparge morte per eliminare il nuovo re, avvertito come rivale. I due episodi tracciano una descrizione dei meccanismi del potere umano che, pur nella sua apparente solidità, si sente continuamente minacciato e, per affermarsi o sopravvivere, si avvale prima della menzogna poi della violenza, laddove la menzogna si rivela insufficiente. L’intreccio dei due blocchi sembra evidenziare la fondamentale opposizione tra il progredire silenzioso e nascosto dell’opera di Dio e l’affermarsi prepotente e irriguardoso del potere umano. I due re hanno una modalità di presenza e di azione diametralmente opposta. L’alternanza narrativa offre una synkrisis (confronto) efficace dei due mondi contrapposti del potere umano e della signoria divina. L’intero Vangelo farà emergere progressivamente tale contrapposizione sino al rifiuto del Dio povero e crocifisso da parte degli esponenti del potere mondano e alla sua accoglienza convertita da parte di coloro che hanno sperimentato e riconosciuto nella loro vita la forza di amore del regno di Dio. L’azione di Erode si dispiega per l’immediatezza di una parola imperativa, che genera menzogna e semina morte; l’agire di Dio percorre invece i sentieri misteriosi del cuore che si apre alla sua Parola, Parola che non si impone in modo diretto e imperativo, ma per la discreta mediazione interiore dell’angelo del Signore e la ricorrente mediazione esterna delle profezie della Scrittura. Il ruolo della Scrittura si rivela decisivo per cogliere il valore ricapitolativo di questi primi capitoli di Matteo.

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4.3 Un micro-racconto ricapitolativo Il riferimento alla Scrittura è particolarmente evidente in tutto il Vangelo di Matteo che, più degli altri, ricorre a numerose citazioni esplicite. Il ricorso alla Scrittura si fa oltremodo intenso e ricorrente nei capitoli dell’infanzia, a scandire il senso di ogni episodio, come si è potuto vedere a proposito della disposizione dei passi e della struttura dell’insieme. Oltre alle citazioni esplicite Matteo ricorre a riferimenti allusivi, con l’utilizzo di una tipologia implicita, modellando la vicenda di Gesù su quella di Mosè, a indicare la partecipazione del Signore, già dalla sua nascita, alla storia di un intero popolo. Come Mosè il bambino Gesù è minacciato dalle disposizioni di morte di un re iniquo che semina dolore innocente: Erode, come il faraone, si macchia del crimine di un’assurda strage che colpisce i piccoli. Un bambino su tutti, l’eletto di Dio per una missione di salvezza, trova miracolosamente scampo per disposizione provvidenziale di Dio. Mentre l’Egitto fu il luogo della morte per i piccoli di Israele, il piccolo Gesù trova invece scampo proprio in Egitto: la sua fuga nel paese della schiavitù e il suo ritorno nella terra di Israele ricapitolano l’intera vicenda di un popolo, liberato dalla peso di una servitù e salvato da un potere iniquo ed oppressivo. Come Mosè Gesù è strumento di salvezza per il popolo fedele: non porta una liberazione politica o sociale, ma interiore, come l’evangelista anticipa nell’atto della imposizione del nome Jehoshua: «Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,21). L’utilizzo tipologico e midrashico della Scrittura da parte di Matteo, pur privilegiando la figura di Mosè e dell’Israele oppresso in Egitto, si riveste di allusioni anche ad altri passaggi fondamentali della vicenda del popolo, come l’esilio babilonese. Il richiamo alla profezia di Geremia 31,15 a proposito del dolore innocente a seguito della strage di Erode richiama infatti anche il dramma dell’esilio che sembrava tagliare ogni radice di speranza per il futuro di un popolo, ormai privato di ogni prospettiva di sopravvivenza. Il ritorno di Giuseppe con Maria e il bambino dall’Egitto può rappresentare, negli intenti di Matteo, una qualche allusione alla speranza post-esilica: il popolo disperso tornerà nella sua terra, ma non alla stessa maniera di prima. Lo stabilirsi della sacra famiglia nella Galilea delle genti sembra indicare una mutazione irreversibile nella vocazione del popolo eletto, chiamato ormai da Dio non alla riaffermazione del suo privilegio identitario, ma all’accettazione di vivere in mezzo alle genti come lievito povero e nascosto di testimonianza dell’amore di Dio. Matteo evidenzia, rispetto agli altri Vangeli, il valore teologico di questo territorio lontano e dimenticato come luogo iniziale della stessa missione di Gesù con il ricorso alla profezia isaiana in 4,15-16: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce» (Is 9,1ss). Se il riferimento a Mosè appare predominante per la forza delle allusioni tipologiche e midrashiche, con non minore evidenza si presenta il richiamo a Davide. La genealogia in particolare insiste sull’origine davidica di Gesù, e il parallelismo di opposizione a Erode evidenzia il carattere del tutto differente della sua regalità. Gesù è il figlio di Davide, ma solo in rapporto a Giuseppe. È l’erede di fatto solo giuridico di una monarchia ormai scomparsa, che si presenta al tempo stesso come l’espressione di un potere alternativo, che ha origine direttamente da Dio e si esercita nella modalità amorevole e discreta del governo divino. Gesù sarà alla maniera di Davide, ma con modalità del tutto nuova, il pastore escatologico, che orienterà il suo ministero alle pecore perdute di Israele (10.6 e 15,24), aprendo al popolo disperso tra le genti della Galilea l’orizzonte della speranza. La dedizione di Gesù ai figli di Israele nel vangelo di Matteo è solo apparentemente esclusiva: la Galilea, scelta da Gesù fin dal suo ritorno dall’Egitto con Maria e Giuseppe, è cifra allusiva di quella missione ad gentes che Gesù assegnerà ai suoi all’inizio del vangelo e che traspare già dalla riconosciuta fede del centurione (8,5ss) e dalla sorprendente e umile tenacia della donna siro-fenicia (15,21ss), davanti alla quale Gesù sembra egli stesso mutare orientamento nella destinazione della sua opera. La rilettura biblica che Matteo offre nel racconto dell’infanzia ha dunque il respiro di una ricapitolazione universale della storia del popolo eletto in Abramo, salvato in Mosè, ristabilito in Davide e aperto a tutte le genti nel nuovo re-pastore che vive in se stesso l’intera vicenda della fede di Abramo, di Mosè e di Davide, portando nella sua carne il dramma e il travaglio della storia di un intero popolo che diventa concreta speranza per tutti i popoli.

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Compresa la funzione dei riferimenti impliciti e allusivi alla Scrittura è utile ora soffermarsi sul valore di alcune citazioni esplicite che segnano questi primi capitoli. 4.4 Il Vangelo dello scriba divenuto discepolo Nel primo dei due blocchi narrativi intrecciati a cui si è fatto sopra riferimento è centrale la figura di Giuseppe ed è ricorrente il richiamo del suo discernimento da un lato alla voce angelica dall’altro alla parola della Scrittura, che trovano luminoso incontro nel suo cuore di persona giusta e retta, credente alla maniera di Abramo. Scoperta la gravidanza di Maria Giuseppe piomba nel dubbio sul da farsi e cerca sinceramente la volontà di Dio. Riflette nel suo cuore, come in atteggiamento di ascolto che si confronta con la parola delle Scritture. Egli cerca di far entrare la luce della Parola di Dio nella sua vita, aprendola all’incontro con le vicende narrate nella Scrittura e con le profezie che le interpretano. Solo quando si lascia andare, come in sogno, all’oblio dei propri ragionamenti e delle proprie valutazioni, gli viene incontro la parola attuale di Dio per la mediazione angelica, ed egli capisce la vicenda che lo coinvolge insieme con Maria nella luce della profezia isaiana. La pace entra nel suo cuore e la sua volontà si risolve all’azione, fiducioso nell’opera di Dio. Anche nel pericolo per la minaccia di Erode Giuseppe, avvertito dalla voce angelica, sembra far ricorso alla parola della Scrittura, che illumina la sua vicenda nella luce del vissuto di Israele ricapitolato nella profezia di Osea 11,1. Così pure alla morte di Erode Giuseppe, al suggerimento dell’angelo, torna nella terra di Israele, lasciandosi orientare dalle profezie alla scelta della Galilea e di Nazareth. In tutti e tre i casi che riguardano Giuseppe ha dunque un ruolo predominante la parola della Scrittura che diviene parola attuale che illumina l’oggi per l’intervento interiore del messaggero celeste. Mediazione esterna della Scrittura accolta, meditata e ruminata e mediazione interiore della voce angelica nel momento in cui si incontrano e si accendono di luce attuale sono gli elementi decisivi del discernimento della volontà di Dio. Giuseppe si configura come scriba di Israele che medita le Scritture (citate addirittura secondo la LXX dove il termine ebraico significante “giovane donna” è tradotto col più radicale “vergine”, a indicare il carattere unico ed esclusivo di quella gravidanza che solo la parola profetica era in grado di rivelare nella sua verità). Giuseppe è l’esempio della figura, cara a Matteo ed esclusiva del suo vangelo, dello scriba divenuto discepolo del regno, capace di estrarre dal suo tesoro il nuovo e l’antico, facendoli incontrare e leggendoli l’uno alla luce dell’altro (Mt 13,51). Anche il cammino dei magi passa attraverso le profezie lette, studiate e confrontate nell’esperienza di una stella luminosa che sorge nel cuore. L’incontro con la luce genera un desiderio di nuovo incontro e nuova luce, che motiva il viaggio di ricerca dei magi. L’oscurità che scende su di loro a Gerusalemme, nel disorientamento che li conduce da Erode, è vinta ancora soltanto dalla parola profetica citata dagli scribi, che invita a lasciare il palazzo per recarsi nella periferia povera e lontana, dove vivono i semplici pastori. L’obbedienza riaccende la stella, la luce interiore che trasforma i pensieri, sino a riconoscere Dio nel bambino. Anche il viaggio dei magi è guidato dalle Scritture, pellegrinaggio esistenziale di scribi stranieri che, legandosi alle Scritture di Israele, diventano anch’essi discepoli del regno dei cieli. Già dai testi dell’infanzia Matteo introduce il suo modello di discepolato: quello dello scriba, ascoltatore attendo delle Scritture e della voce interiore del messaggero divino, che diviene discepolo di Cristo Signore. I tratti del discepolato, pazientemente incentrato sull’ascolto della Parola delle Scritture, così come Matteo lo tratteggia, emergono in modo del tutto particolare nei cinque grandi discorsi di insegnamento sul Regno di Dio.

5. L’insegnamento sul Regno nei cinque discorsi

Dalle considerazioni appena effettuate risulta già evidente come la tematica del Regno sia assolutamente centrale nel Vangelo di Matteo. Già in Marco il Regno di Dio è una realtà centrale, oggetto dell’annuncio di Gesù in parole ed opere, il cui avvento ha inizio nella chiamata al

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discepolato e il cui sviluppo si attua nella sequela. Matteo approfondisce rispetto a Marco la natura e le modalità di realizzazione del Regno, particolarmente attraverso l’insegnamento più diffuso e sistematico, offerto nei cinque discorsi. È necessario tracciarne brevemente la struttura ed individuarne i principali contenuti.

5.1 Il discorso della montagna (cc. 5-7)

All’annuncio del Regno veniente, con cui si apre il ministero di Gesù (4,17), segue subito il primo insegnamento circa la natura e l’identità di questa nuova realtà. Gesù offre questo insegnamento sul monte, alla maniera di Mosè (salita e discesa dal monte in 5,1 e 8,1, ricordano rispettivamente Es 19 e 34), nell’atteggiamento del maestro che siede in cattedra e, secondo l’espressione enfatica e solenne utilizzata, apre la sua bocca (5,1-2). Gli ascoltatori formano due gruppi: i discepoli in primo piano e le folle sullo sfondo. Tutti ascoltano le sue parole. Il discorso sembra articolarsi in tre parti: 5,1-16; 5,17-7,12; 7,13-29. La prima parte, con le Beatitudini, contiene la sostanza della buona notizia del Regno con la sua destinazione ai poveri; la seconda esplicita il messaggio del Regno nei suoi contenuti e nella sua sostanza, indicandone la continuità e insieme la novità rispetto alle antiche Scritture; la terza chiude il tutto, chiedendo agli ascoltatori l’accoglienza delle parole e l’adesione obbedienziale della fede, in vista di una benedizione duratura, e pena l’inconsistenza di un vano operare che costruisce sulla sabbia (7,24-27). Matteo sembra così riproporre la struttura dei discorsi di alleanza, che, dopo la formula introduttiva di proposta libera e amicale e l’enunciazione degli impegni assunti dai contraenti, chiudono con un appello alla libera accoglienza e conseguente fedeltà, elencando benedizioni e corrispettive maledizioni a scongiurare la rottura del patto (Dt 27-28; 30,15-20). La prima parte propone dunque la sostanza di questo nuovo insegnamento, nell’annuncio di una beatitudine per i poveri. Ogni beatitudine, con la sua paradossale struttura, in cui soggetti comunemente giudicati infelici e disgraziati sono proclamati beati, sembra ribadire, nell’insistenza della ripetizione, una coincidenza tra croce e benedizione. Le beatitudini non propongono una linea di condotta etica, ma invitano tutti i poveri e gli oppressi a scoprire con gioia la benedizione legata alla loro condizione di persone che, avendo soltanto Dio dalla loro parte, sono nella sicurezza di essere amati e salvati da lui. A differenza della formulazione lucana in cui esse sembrano indirizzate direttamente ai discepoli (Lc 6,20-23), in Matteo le beatitudini, con l’uso tipologico-sapienziale della terza persona, sono rivolte a tutti. Ai discepoli è indirizzata direttamente soltanto la replica dell’ultima beatitudine, quella dei perseguitati per causa di Cristo. Tutti ascoltano le parole di Gesù, folle e discepoli, ma con un diverso grado di vicinanza a Gesù. Tutti sono destinatari delle beatitudini: folle anonime di poveri e piccoli, che si ritrovano tali senza loro colpa né scelta, e discepoli che hanno volontariamente abbracciato la piccolezza e la povertà per amore di Cristo. Se tuttavia la beatitudine è per tutti, al discepolo è riservato quel destino di esperienza consapevole e motivata della beatitudine, compresa alla luce di Cristo, a cui gli altri non possono pervenire, senza che il discepolo stesso non se ne faccia testimone alla maniera dei profeti: l’ultima beatitudine ha infatti la particolarità di rivolgersi in modo diretto ai discepoli, paragonandoli ai profeti perseguitati prima di loro (Mt 5,11-12). Proprio a motivo del loro ruolo profetico, ai discepoli è riservata la condizione di essere sale della terra e luce del mondo: grazie al risplendere svelato e consapevole del loro vivere in Cristo essi possono condurre gli uomini, spesso afflitti dalla prova, a rendere gloria al Padre che è nei cieli (5,13-16). La seconda parte, la più ampia, è chiaramente suddivisa in tre blocchi, secondo lo stile di Matteo, che ama le composizioni ternarie: 5,17-48; 6,1-18; 6,19-7,12. Il primo blocco commenta i precetti della Legge mostrando come il Regno di Dio non venga ad abolirli, ma ad interiorizzarne l’obbedienza e a radicalizzarne la portata, per una perfezione, alla maniera del Padre celeste, possibile solo per grazia (5,48). Il secondo blocco rafforza il movimento dell’osservanza nella direzione dell’interiorità, invitando a compiere i gesti della devozione religiosa diretti a Dio e agli uomini nel segreto del cuore e nella fuga da ogni esteriorità. Anche qui è evidente il movimento ternario in riferimento alla triade: elemosina, preghiera e digiuno. Il terzo blocco sembra il meno strutturato: contiene detti diversi che possono forse essere ricapitolati nell’affermazione di un

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primato reale dell’opera di Dio, come grazia che tutto precede, in vista di una semplificazione ed essenzializzazione in cui si punta ormai all’unico necessario, come ricapitolazione di tutta la Legge. L’unico tesoro da cercare (6,19-21) e l’unico padrone da servire (6,24), nello sguardo immune da invidie possessive e ottenebranti (6,22-23), da preoccupazioni ansiose e distraenti (6,25-34) e da giudizi laceranti e senza misericordia (7,1-5), si esprimono nell’unica cosa da chiedere (7,7-11) e trovano sintesi nell’unico principio che riassume tutta la Legge e i Profeti (7,12). Il movimento unificante che attraversa questo terzo blocco della seconda parte, ricorda il processo ricapitolativo ed unificante tutta la Legge, nell’unico comandamento dello Shema’, compiuto nel Deuteronomio (dall’insieme dei comandamenti in Dt 5,1-6,3 alla ricapitolazione in Dt 6,4-9). La terza parte chiude, analogamente ai testi del patto di alleanza, con un monito di giudizio che pone davanti agli occhi di chi ascolta, attraverso la metafora della porta stretta, le due vie: la via della perdizione e la via della vita. La prima è larga e seducente, facile da imboccare, la seconda è invece stretta ed angusta, difficile non tanto da imboccare, quanto da trovare (7,13-14: il verbo «trovare», inserito qui da Matteo a differenza del passo parallelo di Lc 13,23-24, sposta l’accento dallo sforzo etico dell’uomo con i suoi tentativi, al senso di una scoperta che si opera nella grazia), dal momento che essa, come il mistero del Regno e della sua gratuità per i poveri, rimane nascosta alla sapienza mondana (11,25-27; 13,10-17.34). Le due vie ribadiscono il principio di discernimento già indicato per cui è preferibile ciò che è piccolo e nascosto, senza apparenza né esteriorità. Il criterio dell’albero e dei frutti lo conferma (7,15-20): i frutti buoni del vero profeta non i richiami suadenti delle sembianze di pecora di cui è rivestito, ma le opere buone del discepolo che vive le beatitudini, visibili a coloro che condividono la sua povertà e piccolezza, perché rendano gloria al Padre dei Cieli (5,16). Similmente non è l’esteriorità di chi compie miracoli nel nome di Cristo, ma il nascondimento di chi fa la sua volontà ad essere criterio del Regno (7,21-23). La metafora delle due case, al termine del discorso ribadisce il tutto, saldando insieme il tema del giudizio con quello della vera saggezza, nel discernimento di una condotta tesa a vivere quanto si è ascoltato (7,24-27). Anche qui torna, se si vuole il riferimento all’esteriorità: non è la rapidità visibile con cui la casa esternamente si erge che Dio approva, ma la pazienza nascosta di scavare lentamente per porre il fondamento sulla roccia. La struttura appena illustrata ha al centro il blocco di 6,1-18, incentrato a sua volta sulla preghiera del Pater. Forse Matteo ha intenzionalmente dato tale centralità alla preghiera del Signore per due motivi: anzitutto il fatto che le sette domande del Pater, tra cui quella sull’avvento del Regno, possono ben riassumere l’insegnamento del monte; inoltre, non secondariamente il fatto che l’insegnamento sul Regno non è una teoria da apprendere, ma una realtà vitale, che ha il suo autentico approdo nella relazione con Dio Padre, cioè nella preghiera.

5.2 Il discorso missionario (c. 10)

Il discorso missionario rivela una struttura bipartita, alla luce del richiamo tra i detti di Gesù in 10,5s e 10,23, dove si limitano i destinatari della missione alle «pecore perdute della casa di Israele», espressione quasi tecnica che indica tutti quegli ebrei dispersi nelle città e villaggi della Galilea come minoranze in un contesto prevalentemente pagano, o coloro che, a motivo della loro condizione fisica, culturale e socio-economica sono spesso discriminati anche dalla religione ufficiale di Israele. La prima parte del discorso (10,1-23) dà istruzioni sulla modalità povera della missione, limitata all’Israele disperso, e sulle conseguenze patite dagli inviati, con la garanzia dell’assistenza dello Spirito operante in loro. La seconda parte (10,24-42) riprende quasi in parallelo diversi elementi della prima, indicando nelle persecuzioni che attendono i missionari il grado di somiglianza con il loro maestro inviante (10,24-25.28-29, che riprende 10,16-20), esortandoli ancora a proclamare apertamente e senza timore la verità del Regno (10,26-27, che riprende 10-5-15) e rassicurandoli ancora sull’assistenza di Dio, nonostante la loro testimonianza provochi l’opposizione, anche dei loro familiari (10,34-39, che ribadisce quanto già detto in 10,21-23). Al centro di tutto il discorso si trova una considerazione capitale, nella quale si offre agli inviati un criterio fondamentale per valutare l’autenticità del loro affidamento: si tratta non del perseguimento

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di un successo o di un consenso generale, ma della somiglianza con il loro maestro, povero, misconosciuto e perseguitato (10,24-25). La missione degli inviati è la stessa missione di Gesù. Tale criterio fondamentale si concretizza nella norma ricapitolativa di non possedere nulla e di non avere mezzi, cercando per sé solo il giusto nutrimento, nell’affidamento alla provvidenza e all’accoglienza dei destinatari e in una condizione di permanente itineranza. Gli inviati vivono la condizione di un radicalismo itinerante, simile alla condizione di vita del Signore. Matteo, a differenza di Luca (9,10; 10,17-20), non offre in successione un riscontro sugli esiti della missione dei discepoli. Forse Matteo non è tanto interessato a rendere conto del dato storico dell’effettiva missione dei discepoli, quanto piuttosto ad offrire un insegnamento di Gesù che divenga manifesto della missione futura della Chiesa. Il radicalismo itinerante, espresso con tanta forza, ha fatto tuttavia ritenere a qualcuno che si trattasse di una presentazione troppo idealizzata della missione, rispondente più al modo di vita dei discepoli al tempo di Gesù, che alle condizioni della Chiesa matteana e, ancor meno, della vita ecclesiale successiva all’epoca di Matteo. Come era composta la comunità di Matteo e come impostava di fatto la sua opera evangelizzatrice? Senza entrare per il momento in aspetti che verranno considerati in relazione al discorso ecclesiale di Mt 18, la conclusione del discorso missionario (10,40-42) getta una prima luce su tale questione. Nel passo conclusivo si fa appello all’accoglienza per i missionari itineranti: chi accoglie loro accoglie Cristo ed ha la stessa ricompensa riservata a loro. Le espressioni utilizzate in 10,41-42 mettono sullo stesso piano il profeta, il giusto ed il piccolo inviato, che potrebbe meritare la qualifica di profeta o giusto, ma che viene semplicemente chiamato discepolo di Cristo. Chi lo accoglie, anche col minimo dell’ospitalità di un bicchiere di acqua fresca, non perderà la sua ricompensa. Tenendo conto del fatto che i discorsi di Matteo sono, come qualcuno ha detto «pronunciati alla finestra», riferiti cioè alla situazione del lettore nel presente, da questa conclusione sembra emergere una duplice conformazione della Chiesa matteana: da un lato i missionari itineranti, coloro che si sono consacrati interamente al servizio della predicazione, hanno lasciato casa, parentele e affetti, ed hanno rinunciato a possedere beni (10,5-15; 19,23-30); dall’altro cristiani sedentari che non vivono tale radicalità e formano le diverse comunità territoriali. È a tali intineranti radicali che è riservata la qualifica di piccoli. A questi piccoli è riservata la rivelazione dei segreti di Dio (11,25-27); essi nella precarietà della loro condizione sono al centro della comunità (18,1-9); sulla loro accoglienza si misura la ricompensa nel presente (10,40-42) e nel futuro (25,40). La loro condizione evangelica è una grazia ritenuta impossibile alla media dei cristiani del tempo di Matteo (19,23-26); neppure loro hanno piena consapevolezza dell’opera di Dio (19,27-30); anche a coloro che, pur non vivendo la stessa radicalità, tuttavia li accolgono nel nome di Cristo è riservata la stessa ricompensa. 5.3 Il discorso delle parabole (c. 13) Il discorso delle parabole e l’intera sezione da questo introdotta, rappresentano un vero e proprio spartiacque nell’economia narrativa di Matteo. Esso infatti, anche letterariamente, occupa un posto centrale nel Vangelo ed introduce una sezione in cui la narrazione ha un punto di svolta, dalla Galilea a Gerusalemme, dal rivelarsi messianico di Gesù al suo progressivo nascondimento, scandito dagli annunci della Pasqua. Già i cc. 11-12 descrivono le reazioni di opposizione all’annuncio e alla venuta del Regno, mentre nei cc. 14-17, nel quadro della disputa tra il puro e l’impuro, incorniciata dalla sezione dei pani, si allarga la forbice del divario tra Gesù e magistero ufficiale di Israele, con un progressivo ritirarsi di Gesù tra i suoi discepoli, sempre più lontano dalle folle. Le parabole del c. 13, illustrando le difficoltà e gli ostacoli della crescita paziente e nascosta del Regno, offrono ai discepoli i criteri per un discernimento dell’opera di Dio e gli strumenti per assecondarla, insieme all’invito a non scoraggiarsi né dubitare per le difficoltà incontrate: esse sono parte dello stesso mistero della manifestazione del Regno. Il discorso si compone di sette parabole, con l’aggiunta del riferimento alla ricerca faticosa dello scriba divenuto discepolo (13,52), che va però considerato come conclusivo di tutto il discorso, nel quale più volte a partire dall’inizio (13,1-3) e in modo trasversale (13,10-17.34-35), si accenna al

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parlare intenzionale di Gesù in parabole e alla relativa difficoltà di comprensione: quanto rimane nascosto alle folle, soltanto i discepoli, che restano vicini a Gesù, permangono nell’ascolto e chiedono spiegazione, possono comprenderlo (13,51). Il discorso può considerarsi diviso in tre parti: la prima (13,1-23) delimitata dalla parabola del seminatore (13,1-9) e dalla relativa spiegazione (13,18-23), che incorniciano il passo centrale sull’intenzionalità del parlare di Gesù in parabole e la relativa difficoltà di comprensione (13,10-17); la seconda (13,24-43) delimitata dalla parabola della zizzania (13,24-30) e dalla relativa spiegazione (13,36-43), che incorniciano le due brevi parabole del granello di senapa (13,31-32) e del lievito (13,33), seguite dalla breve giustificazione scritturistica del parlare di Gesù in parabole (13,34-35); la terza (13,44-52) delimitata dalle correlative parabole sulla ricerca del tesoro (13,44) e della perla (13,45-46) e dello scriba ricercatore del nuovo e dell’antico dal suo tesoro (13,51-52), che incorniciano la parabola della rete gettata nel mare (13,47-50), in cui è evidente lo stesso richiamo al giudizio escatologico di separazione, contenuto nella spiegazione della parabola della zizzania. A tale strutturazione letteraria corrisponde uno sviluppo di pensiero. La prima parte tratta del rapporto soggettivo e personale con la Parola del Regno e le differenti modalità della sua accoglienza; la seconda allarga lo sguardo alla situazione del Regno di Dio nel mondo, dalle incertezze del presente, caratterizzato dalla pazienza dell’attesa, alla certezza della fine, segnata dalla definitività del compimento e del giudizio; la terza fa in certo qual modo sintesi delle due prospettive precedenti, personale e generale, con uno spostamento di accento: non si insiste più sull’energia intrinseca alla Parola del Regno in vista del frutto, ma sulla fatica della ricerca da parte dell’uomo e sulla sua disposizione alla rinuncia per il Regno, tra il «già» di un possesso dinamico del tesoro, che continuamente dischiude il nuovo insieme all’antico, e il «non ancora» di un discernimento totale, di un giudizio definitivo e di un compimento finale pazientemente ed operosamente atteso. La parabola del seminatore, che occupa la prima parte, è una chiave di lettura dell’intero discorso in parabole; essa offre infatti una spiegazione e giustificazione del parlare di Gesù in parabole: la Parola del Regno non può giungere all’uomo con un’immediatezza persuasiva, che sarebbe poco rispettosa della sua libertà e del lento percorso con cui egli giunge alla comprensione e all’assenso, percorso animato soltanto da un continuo e libero rinnovarsi della fiducia in colui che parla, permanendo con le orecchie ad ascoltare (13,9). Se l’interlocutore di Gesù continuerà ad ascoltare avrà anche accesso alla spiegazione delle sue parole, consentendo al seme di portare il frutto della comprensione (13,19.23: per Matteo è proprio la comprensione che fa da discrimine tra il primo e l’ultimo terreno). La comprensione della parabola del seminatore gli darà luce sulle tappe e modalità del percorso della Parola dall’ascolto alla comprensione, offrendogli lo strumento per capire tutte le altre parabole, come sottolinea Marco (4,13). Attraverso la metafora del seme seminato nei quattro terreni si descrivono dunque le vicissitudini della Parola. Essa è portata via dalla strada laddove l’ascoltatore non la comprende (13,19); è bruciata dal sole della tribolazione laddove l’entusiasmo iniziale della scoperta e dell’accoglienza resta deluso dalla prova patita dall’esterno, a motivo della Parola stessa e si viene meno nella fiducia perseverante; è soffocata dalle spine delle tentazioni seducenti, che sorgono dall’interno del cuore, generando ansie che bloccano il flusso della fiducia e dell’abbandono; porta frutto soltanto laddove è non solo ascoltata, ma anche compresa e perciò trattenuta (13,23). Le parabole non vanno considerate alla stregua di meccaniche allegorie, quali automatiche strutture di significazione o fantasiose giustapposizioni all’immagine di un significato per lo più estrinseco. Esse hanno al contrario un punto focale che, individuato, getta una luce su tutti gli altri elementi, da considerare anzitutto nella loro intrinseca correlazione. Solitamente tale fulcro è individuabile in un’affermazione sintetica e quasi lapidaria, spesso conclusiva. Nel caso di questa parabola il punto focale sembra rappresentato dall’affermazione conclusiva di Gesù in 13,9, che va tradotta letteralmente: «Chi ha (participio presente) gli orecchi [ad ascoltare (infinito presente suggerito in molte varianti, conformemente al parallelo di Mc 4.9)], continui ad ascoltare (imperativo presente che in greco ha il valore continuativo di incoraggiamento a proseguire l’azione)». Alle folle, che ricevono un insegnamento cifrato, perché rispettoso della loro libertà nel tragitto verso l’assenso,

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Gesù rinnova il suo invito alla fiducia come disposizione di permanenza nell’ascolto. Solo i discepoli, rimanendo con gli orecchi ad ascoltare, giungono al frutto della comprensione. La parabola del seminatore è così una sorta di metaparabola, che illustra per immagini il funzionamento della «teoria parabolica», offrendo l’elemento decisivo per la comprensione di ogni parabola, cioè di ogni segreto del Regno: permanere nell’ascolto fiducioso e paziente, nel desiderio umile della comprensione, a dispetto di qualunque scoraggiamento da tribolazione o ansia da falsa attrattiva. La Parola feconda saprà tutto ripagare. La parabola della zizzania, con le due piccole metafore incorniciate della senapa e del lievito, della seconda parte, insistono sull’attesa paziente del compimento. La crescita del Regno, infatti, non solo è ostacolata dal seme del maligno, ma resta nascosta agli occhi dell’uomo. Questi deve accettare l’incompiutezza dell’opera di Dio, come realtà vantaggiosa alla crescita stessa. Sradicare subito la zizzania sarebbe pericoloso per il grano, così come misurare gli stadi della crescita della pianta di senapa, sarebbe controproducente, rispetto alla scommessa fiduciosa e abbandonata che l’uomo è invitato a prestare. La parabola della zizzania ha infatti il suo fulcro nella volontà di coesistenza di buono e cattivo fino alla mietitura, mentre quella della senape ha il suo punto focale nella contrapposizione tra l’insignificanza iniziale e lo stupefacente risultato finale, nascondendo agli occhi indiscreti di chi legge le tappe intermedie. Il lettore è così invitato alla pazienza fiduciosa davanti all’insignificanza e all’incompiutezza, contro l’orgoglio controproducente e dannoso dell’immediatezza o della misurabilità del risultato. Le parabole finali, nella terza parte, insistono ancora sull’attesa paziente del compimento del Regno a cui allude l’intervallo tra l’atto di trovare e quello di acquisire effettivamente il tesoro, tra l’atto di discernere il valore della perla e quello di possederla definitivamente, tra l’atto di gettare ed issare la rete e quello di discernere e finalmente possedere i pesci effettivamente buoni. In esse compare tuttavia un elemento nuovo, quello della scommessa nel rischio di lasciare tutto per possedere ciò che vale, della disposizione a privarsi anche di ciò che vale per ciò che è meglio, dei beni per il tesoro, delle altre perle per l’unica perla, dei pesci scadenti per un prodotto finale di migliore qualità. Nel caso del tesoro si illustra il mistero della scoperta iniziale e gratuita del Regno, trovato casualmente nelle occupazioni della vita: essa chiede in risposta la scommessa di lasciare. Nel caso della perla si illustra il fatto della ricerca intenzionale e continuata del Regno da parte di chi l’ha già trovato: essa chiede la disposizione al rilancio della scommessa. Nel caso della rete si illustra l’esito finale della ricerca che solo alla fine è capace di autentico discernimento e definitivo giudizio su quanto ha trovato, nella disposizione ancora alla rinuncia in vista della positività del risultato conclusivo. La metafora dello scriba divenuto discepolo accompagna la dichiarata comprensione dei discepoli. In loro l’insegnamento in parabole sembra avere funzionato: essi hanno continuato ad ascoltare; hanno prestato la fiducia paziente dell’attesa; hanno rinunciato ai loro beni per seguire e conoscere il loro Signore. Tale atteggiamento esprime l’ideale matteano del discepolato: il discepolo che fa la scoperta iniziale e gratuita del Regno è invitato a divenire scriba paziente nella continua ricerca per comprendere; così ogni scriba abituato a scrutare il tesoro delle Scritture, divenuto discepolo non può che proseguire il suo impegno scribale, partendo tuttavia ormai dalla novità del Regno.

5.4 Il discorso ecclesiale (c. 18)

L’intera sezione dei cc. 13-17 racconta di una progressiva opposizione a Gesù da parte dell’Israele ufficiale ed anche di un progressivo ritirarsi di Gesù dalle folle per concentrarsi sempre più sui discepoli. Cresce l’intimità del Signore coi suoi, fino al riconoscimento di Cesarea di Filippo (16,13-20) ed alla condivisione della prospettiva della croce e della glorificazione. La sezione dei pani, con gli autentici criteri del puro e dell’impuro, ha posto ormai i paletti per distinguere la vera e la falsa osservanza e per segnare il passaggio dal vecchio Israele alla nuova comunità dei discepoli. Ecco il momento giusto per inserire un insegnamento sulla comunità cristiana. Matteo ha già designato con il termine ekklêsía la nuova aggregazione costruita da Gesù sulla fede di Pietro nelle parole a lui rivolte a Cesarea (16,18); nel discorso del c. 18 il termine ritorna per designare la costituzione di una struttura sostanzialmente assembleare, che tiene il posto del popolo veterotestamentario (in ebraico Qahal Yhwh, tradotto nel greco dei LXX con ecclêsía).

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Il discorso ecclesiale si può ritenere diviso in due parti: la prima (18,1-14) delimitata dall’inclusione dell’espressione «questi piccoli» (18,6.14); la seconda (18,15-35) incorniciata da un’analoga inclusione dell’espressione «tuo/proprio fratello» (18,15.35). Il termine «piccoli», che altrove Matteo utilizza ad indicare quel tipo particolare di credenti, che hanno intrapreso una via di radicalità evangelica, come i missionari itineranti (10,41-42), qui come anche altrove (11,25-27), non avendo un termine di opposizione, pare indicare tutti i credenti, nella loro condizione di fragilità, ed essere perciò coestensivo al termine «fratelli». Il discorso, che origina dalla richiesta del discepolo su chi sia il più grande nel Regno dei Cieli e muove dall’attenzione attirata da Gesù sul bambino posto in mezzo (18,1-5), descrive perciò una comunità in cui tutti sono fratelli e si trovano nella condizione dei piccoli, affidati l’uno all’altro. Essi sono rivestiti di fragilità e si deve evitare con cura il loro scandalo, ad opera degli eccessi di protagonismo, di capacità o di bravura di qualcuno, che è invitato perciò a farsi piccolo in una sorta di autoriduzione per non recare danno alla comunità (18,6-11). A motivo di tale fragilità sono soggetti a cadere o a smarrirsi e devono pertanto essere ricercati con cura, come la pecora smarrita (18,12-14). La costituzione fraterna della comunità impone a ciascuno di interessarsi della sorte dell’altro, facendosene carico, con la correzione dell’errore (18,15-20) e con una disposizione illimitata al perdono, laddove venga, anche ripetutamente, richiesto (18,21-35). Nello sviluppo del discorso, tra la ricerca degli smarriti e il perdono dei peccatori, occupa una posizione centrale il passo della correzione fraterna. In esso è evidente quello che è stato chiamato il «potere di scomunica» verso l’errante irriducibile. È singolare come tale potere non sia esercitato da una gerarchia (benché Matteo, con il primato riconosciuto da Gesù a Pietro ed il relativo potere delle chiavi a lui concesso, lasci supporre un esercizio anche gerarchico dell’autorità), ma dalla comunità stessa, nella sua forma assembleare, con un primato delle relazioni fraterne tra uguali su qualunque distinzione di compiti, secondo un’idea ricorrente in Matteo (23,8-10). Questo passo sulla correzione fraterna, sino alla possibilità della scomunica può sorprendere, per la tensione che genera con quanto precede e con quanto segue: in un discorso quasi interamente segnato dalla disposizione misericordiosa verso i piccoli che si scandalizzano e si perdono, ed i fratelli che sbagliano e chiedono perdono, sembra fuori posto l’affermazione di una possibile scomunica ed esclusione. Essa è tuttavia volta alla preservazione di un’identità comunitaria e di un’appartenenza che altrimenti verrebbe snaturata, ma che non può mai ritenersi chiusa in se stessa. L’esclusione ha inoltre come fine un eventuale pentimento e reintegro, in un contesto che non potrà mai essere scambiato per una setta di perfetti o un’élite di puri, ma che resta anche al suo interno segnato dalla fragilità del peccato (13,24-43) e dalla necessità della misericordia. L’ultima parola, per Matteo, non è infatti affidata alla scomunica, ma alla preghiera di quel minimo assembleare di due o tre che, avendo fallito il loro tentativo di recupero del fratello, possono confidare di ottenerlo da Dio, accordando le loro preghiere di domanda su quel comune oggetto che le rende infallibili (18,19-20). Il discorso di Matteo18 ritrae dunque la Chiesa come assemblea di uguali che detiene ogni potere, di piccoli da custodire, di fratelli da correggere e perdonare, in una tensione continua tra l’esigenza di purificazione interna e la necessità di convivenza tra peccatori da accogliere: la Chiesa è per Matteo quella struttura fatta per l’esercizio reciproco della misericordia che risponde al disegno originario di Dio di affidare i fratelli l’uno all’altro (Gen 4,9); proprio qui risiede l’esercizio minimale della sua vocazione e missione profetica (Ez 33,1-20).

5.5 Il discorso escatologico (cc. 24-25)

La prima parte del discorso escatologico di Matteo, al c. 24, riprende sostanzialmente il corrispondente insegnamento di Gesù in Mc 13. Il ministero di Gesù a Gerusalemme, tanto nella narrazione di Marco, quanto in quella di Matteo, ha visto un’opposizione delle autorità religiose dell’Israele ufficiale a Gesù sempre più acuta ed irriducibile. Il discorso escatologico rappresenta la giusta conclusione narrativa di una presa di posizione davanti all’annuncio del Regno ed al suo messaggero che diventa ormai giudizio. Matteo rispetto a Marco ha allargato il fossato dell’incomprensione tra Gesù e le autorità con l’introduzione delle invettive del c. 23, che sembrano costituire, nell’economia del suo scritto, il corrispettivo negativo delle beatitudini iniziali. Al discorso

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escatologico marciano Matteo aggiunge le parabole della vigilanza e la scena del giudizio finale del c. 25. L’insieme dell’insegnamento matteano, dopo l’introduzione narrativa di 24,1-3, si può considerare strutturato in quattro parti: 24,4-25: la descrizione della fine di Gerusalemme a cui si sovrappone l’indicazione dei segni della fine della storia; 24,26-35: la venuta del Figlio dell’uomo e la fine di tutte le cose; 24,36-25,30: la non conoscenza del giorno e dell’ora e l’invito alla vigilanza in tre parabole; 25,31-46: la scena del giudizio finale. L’insieme del discorso risponde alla duplice domanda dei discepoli sul quando e sul come della fine, con i relativi segni. Gesù risponde alle due domande in ordine inverso: prima illustra i segni e la modalità del compimento della storia (24,4-35), poi ribadisce che nessuno conosce il quando, donde l’invito alla vigilanza (24,36-25,30). La prima parte (24,4-25) si compone di due momenti narrativi, disposti quasi in parallelo: il primo (24,4-14) offre uno sguardo universale sull’inizio dei dolori, con l’inganno degli anticristi, il dilagare dell’iniquità, il levarsi dell’uno contro l’altro, la persecuzione dei discepoli e l’apostasia di molti. L’invito alla perseveranza e l’assicurazione dell’annunzio del Regno al mondo intero chiudono il quadro con l’affermazione che l’effettiva venuta della fine è legata al compimento della diffusione del Vangelo. Il secondo momento narrativo (24,15-25) non sembra in successione cronologica al primo, che si chiude già con l’annuncio della fine veniente, quanto piuttosto una sua ripresa dal punto di vista della storia di Gerusalemme. Vi si trovano gli stessi riferimenti alla tribolazione generale e alla venuta dei falsi cristi, ma nell’orizzonte più ristretto di Gerusalemme e della Giudea. Pare che qui Matteo riferisca gli avvenimenti da lui conosciuti della guerra giudaica del 70, con l’accenno alla profanazione del tempio da parte dei Romani e l’erezione dell’abominio della desolazione, l’idolo del potere politico profanatore, come già al tempo di Antioco Epifane, secondo il racconto di Dn 9,27-12,13 e di 1Mac 1,54; 6,7. Gli evidenti agganci tra i due momenti narrativi fanno pensare che Matteo abbia letto le modalità della guerra giudaica e della distruzione di Gerusalemme e del tempio, non solo come profezia e annuncio della fine, ma anche quale chiave interpretativa degli avvenimenti finali nella loro successione. La seconda parte (24,26-35) racconta la venuta del Figlio dell’uomo con l’immagine della figura umana sulle nubi del cielo di Daniele 7,13-14, mentre descrive il contesto di tale apparizione con le indicazioni di tenebra ed oscuramento degli astri della profezia di Gioele 3,3-5, ed i suoi effetti come il battersi del petto delle genti, secondo l’allusione alla profezia sul trafitto di Zaccaria 12,10. Da tale accostamento l’evangelista sembra lasciar intendere come la comparsa del Figlio dell’uomo non sia nella modalità di un segno abbagliante che a tutti immediatamente si impone, ma in quella del segno del trafitto (vedi anche Ap 1,7), una figura resa visibile solo dall’oscuramento delle altre luci, dal venir meno di ogni altra certezza a cui l’uomo legava le sue sorti e la fiducia nel suo futuro, come il movimento degli astri, con un velato riferimento alla croce. Se la terra sconvolta suscita timore e preavvisa la fine, ma mantiene alcune certezze stabili, scolpite nell’immutabilità della volta celeste, il cielo sconvolto ed oscurato genera ancor più quello smarrimento totale nel quale il segno del Figlio dell’uomo comincia finalmente ad essere visibile, come invito alla conversione, e compimento della storia, realtà che Matteo coglie anticipatamente nella crocifissione e morte di Gesù (27,45-55). La terza parte (24,36-25,30) risponde alla domanda dei discepoli sul quando della fine, come invito alla vigilanza, atteggiamento rispondente all’attesa di ciò che non è cronologicamente calcolabile. Per indicare l’imprevedibilità della fine, nel suo carattere di evento improvviso, Matteo utilizza la figura di Noè e del diluvio, accompagnata dalle piccole metafore dei due uomini nel campo, delle due donne alla mola e del ladro nella notte. Segue l’invito alla vigilanza espresso attraverso le tre parabole del servo, delle dieci vergini e dei talenti. La prima (24,45-51) è incentrata sulla fedeltà quotidiana alle consegne ricevute, senza pensare che il ritardo giustifichi l’arbitrio di decisioni autonome; la seconda (25,1-13) insiste sulla prudenza che persegue nell’oggi ciò che non è rimandabile, a motivo di un avvenire indisponibile, per la possibilità di una dilazione dei tempi rispetto alle attese, che sottrae all’uomo potere sul suo futuro; la terza (25,14-30) invita alla scommessa nell’oggi sull’efficacia del dono, nella disposizione a perdere quanto si ha in potere, confidando che l’imitazione di Colui che ha già scommesso fiduciosamente sull’uomo, perdendo il diretto possesso del suo avere, conservi il segreto della riuscita e dell’approvazione.

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La quarta parte (25,31-46) contiene la scena del giudizio finale. Non si tratta propriamente di una parabola, ma della visione, pur in termini metaforici (pecore e capri), del giudizio escatologico. Il giudizio di Dio divide due gruppi, destra e sinistra, pecore e capri, benedetti e maledetti. Il criterio del giudizio risiede nella relazione di misericordia, conseguita o mancata, dei due gruppi con un terzo gruppo, sottratto al giudizio e già presso il Figlio dell’uomo glorioso, composto da quei piccoli che il giudice escatologico identifica con sé. Il giudizio coinvolge tutte le genti, discriminandole in base alla loro relazione al Cristo piccolo, povero e bisognoso presente in quei piccoli già presso di lui. Questi vanno forse identificati non solo con quei discepoli itineranti ai quali si accenna in 10,40-42, ma anche con tutti coloro che la vita ha reso, anche inconsapevolmente, somiglianti a loro. I capitoli successivi (26-28), con la narrazione della passione, morte e risurrezione di Gesù sono intimamente legati al discorso escatologico, come suo segno anticipatore, nel quale già si inaugura il tempo della fine.

6. Autore, e contesto geostorico di composizione

Da elementi interni al Vangelo stesso si può ipotizzare che esso abbia avuto origine dopo il 70. La conoscenza di Marco, utilizzato come canovaccio narrativo, con ampie e fedeli riprese, e la conoscenza della catastrofe di Gerusalemme (vedi anche l’allusione in 22,7) collocano con una certa sicurezza l’opera di Matteo dopo la guerra giudaica del 70. La citazione di Matteo in Ignazio di Antiochia e nella Didaché pongono il limite cronologico posteriore non oltre il 90-100, con buona probabilità per gli anni 80 del I secolo. L’opposizione farisaica al Signore e la dura critica di Gesù al blocco delle legalistiche osservanze giudaiche, particolarmente accentuata nel Vangelo di Matteo, fanno anch’esse supporre il contesto storico degli anni 80, quando il conflitto con il giudaismo ufficiale si fa più aspro ed intenso. Il particolare interesse dell’evangelista per la Galilea e l’accenno, solo matteano, della fama di Gesù diffusa sino alla Siria (4,23ss), fanno supporre ad una origine del suo scritto in un contesto siro-palestinese, forse in relazione alla comunità giudeo-cristiana fuggita a Pella dopo il 70 e poi confluita ad Antiochia. La comunità sottesa al Vangelo di Matteo sembra avere una fisionomia giudeo-cristiana e non semplicemente pagana. Gli insegnamenti di Gesù in Matteo suppongono destinatari provenienti da Israele o almeno simpatizzanti per la fede biblica. La Siria ha conosciuto un incontro fecondo e rispettoso tra sinagoga e chiesa ed una convivenza giudeo-cristiana alquanto fruttuosa, cosa che risulterebbe in sintonia con le attenzioni preferenziali di Gesù alle pecore perdute della casa di Israele e con la non discontinuità, nonostante il giudizio sull’Israele incredulo, posta dal primo Vangelo tra Israele e la Chiesa, come sembra confermare la simpatia di Matteo per lo scriba divenuto discepolo (13,52). La almeno triplice allusione a Matteo nelle lettere di Ignazio fa supporre che il Vangelo matteano abbia avuto origine nella comunità antiochena, incontrando molto presto quel riconoscimento ecclesiale che ha deciso della sua canonicità. Scartata ormai l’ipotesi di un Matteo aramaico, l’autore ha scritto direttamente in greco, con molte inflessioni semitizzanti. Al consistente retroterra biblico di Matteo, particolarmente evidente nelle numerose citazioni dirette dell’Antico Testamento, si aggiunge una conoscenza delle tradizioni rabbiniche, come sembrano confermare particolari allusivi del racconto dell’infanzia. Ciò fa pensare ad un autore giudeo-cristiano, forse raffigurato nella metafora dello scriba divenuto discepolo. Le testimonianze, riportate da Eusebio, di Papia (inizio II sec), Ireneo (fine II secolo), Origene (III secolo) e la stessa testimonianza di Girolamo (IV-V secolo) sembrano confermate da tali elementi interni, discordando soltanto per la loro comune affermazione di un originale Matteo aramaico. In esse si riconosce come autore la persona di Levi Matteo, il pubblicano, colui la cui vita fu trasformata dall’incontro con la misericordia di Gesù; colui che avrebbe imparato per diretta esperienza ciò che nel vangelo è ripetutamente ed amorevolmente testimoniato: «Misericordia io voglio e non sacrificio» (cit. di Os 6,6, in Mt 9,13 e 12,7).

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7. Indicazioni bibliografiche

Ecco di seguito alcune utili ed accessibili pubblicazioni di introduzione e commento esegetico, teologico o spirituale a Matteo in lingua italiana:

7.1 Introduzioni e studi

J. RADERMAKERS, Vangelo di Matteo, in AA.VV., Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Borla, Roma 1983, 145-217. E. SCHWEIZER, Matteo e la sua comunità, Paideia, Brescia 1987. J. ZUMSTEIN, Matteo il teologo, Borla, Roma 1991. R.A. MONASTERIO, Il Vangelo secondo Matteo, in R.A. MONASTERIO – A.R. CARMONA, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Paideia, Brescia 1995, 165-236. G. DANIELI, Matteo, Queriniana, Brescia 19983. U. LUZ, La storia di Gesù in Matteo, Paideia, Brescia 2002. É. CUVILLIER, Il Vangelo secondo Matteo, in D. MARGUERAT (ed.), Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2004, 69-88. 7.2 Commenti patristici CROMAZIO DI AQUILEIA, Commento a Matteo, B. Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1990. ILARIO DI POITIERS, Commentario a Matteo, Città Nuova (TPatr 74), Roma 1988. ORIGENE, Commento al vangelo di Matteo, I-III, Città Nuova, Roma 1998-2000. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul Vangelo di Matteo, I-III, Città Nuova, Roma 2003. 7.3 Commentari esegetico-teologici J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, I-II, Paideia (CTNT I/1-2), Brescia 1990-1991. O. DA SPINETOLI, Matteo. Commento al Vangelo della Chiesa, Cittadella, Assisi 19854. R. FABRIS, Matteo, Borla, Roma 19962. E. SCHWEIZER, Il Vangelo secondo Matteo, Paideia (NT 2), Brescia 2001. A. LANCELLOTTI, Matteo, Paoline (NVB 33), Roma 1975 (con ristampe successive). L. SABOURIN, Il Vangelo di Matteo. Teologia ed esegesi, I-II Voll., Paoline, Roma 1976-1977. U. LUZ, Matteo, I-III, Paideia, Brescia 2006-2013. S. GRASSO, Il Vangelo di Matteo. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 2013. B. CORSANI, Matteo. Il vangelo del regno, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998. 7.4 Commenti teologico-pastorali e spirituali W. TRILLING, Vangelo secondo Matteo, I-II Voll., Città Nuova (CSNT 1-2) 2001. J.RADERMAKERS, Lettura pastorale del Vangelo di Matteo, EDB, Bologna 1979. S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Matteo, EDB, Bologna 20012. C. TASSIN, Vangelo di Matteo, Paoline, Cinisello B. 1993. B. MAGGIONI, Il racconto di Matteo, Cittadella, Assisi 1981. C.M. MARTINI, Che cosa dobbiamo fare? Meditazioni sul Vangelo di Matteo, Piemme, Casale M. 1995. A. GRÜN, Gesù, maestro di salvezza. Il Vangelo di Matteo, Queriniana, Brescia 2007. D.J. HARRINGTON, Il Vangelo di Matteo, Elledici, Torino-Leumann 2005. L. MAZZINGHI, S. TAROCCHI, Matteo. Il vangelo del regno dei cieli. Guida per una lettura in comune, EDB, Bologna 1998. I. GARGANO, «Lectio divina» su il Vangelo di Matteo, I-VII, EDB, Bologna 1989-2011. M. GALIZZI, Vangelo secondo Matteo. Commento esegetico-spirituale, Elledici, Torino Leumann 1995. G. BOSCOLO, Vangelo secondo Matteo, EMP, Padova 2013. S. FAUSTI – V. CANELLA, Alla scuola di Matteo. Un Vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2007. J.-L. SKA, Cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). Pagine scelte del Vangelo di Matteo, EDB, Bologna 2004.

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II Parte

Lettura di testi scelti

I. Matteo 1,1-17. Il libro della genesi di Gesù Cristo: la carne e la storia, il peccato e la grazia

Per comprendere il testo L’elenco delle generazioni da Abramo a Gesù, la cosiddetta genealogia, è il portale d’ingresso al vangelo di Matteo. Con questa introduzione, in apparenza arida, Matteo si allinea ad una modalità narrativa assai frequente nel Pentateuco e negli altri libri storici dell’Antico Testamento. Gli elenchi di discendenza avevano una triplice funzione: coprire i vuoti del racconto biblico, intessendo la trama della continuità dell’azione di Dio e del mantenimento delle sue promesse; garantire la legittimità del ruolo di singoli personaggi, facendo emergere la loro autentica origine, specie a fronte di compiti sacerdotali o regali; radicare, infine, l’intero genere umano nella sua comune origine, indicando la diversificazione non come frutto del peccato, ma come volontà originaria di Dio che vede tutti, Israele e i popoli, destinatari di un’unica benedizione. La genealogia di apertura del vangelo di Matteo assolve anch’essa a questa triplice funzione: stabilisce un ponte tra la promessa fatta ad Abramo e tutta l’attesa profetico-messianica dell’AT e l’avvento del Cristo Signore, atteso da Israele e compimento delle divine promesse; colloca Gesù nella discendenza regale dalla tribù di Giuda, indicandone la conformità alla promessa fatta a Davide; riassume, infine, l’intera trama della storia salvifica che, pur iniziando da Abramo, include, nelle donne straniere citate, il coinvolgimento dei popoli pagani nel disegno provvidenziale di Dio, che vede il Cristo figlio dell’intera umanità e portatore di una missione destinata a tutti i popoli, come ribadirà l’apertura missionaria in chiusura del vangelo. Per approfondire L’elenco si snoda in tre momenti, preceduti da un incipit (1,1) che fa da titolo all’intero vangelo e seguiti da una conclusione ricapitolativa, che fa emergere il valore numerico-simbolico dell’intera lista e della sua triplice scansione (1,17). I tre momenti della successione corrispondono ad una precisa periodizzazione della storia in tre epoche: da Abramo a Davide (1,2-6a), da Davide alla deportazione (1,6b-11), dalla deportazione in Babilonia alla nascita di Gesù Cristo (1,12-16). Matteo sembra così tracciare la sua intelligenza della storia salvifica. Essa inizia con la promessa fatta ad Abramo di una paternità estesa non solo ai suoi discendenti secondo la carne, ma numerosa come le stelle del cielo, allargata cioè a tutti coloro che accederanno, mediante la fede, alla filiazione adottiva di Abramo, divenendo anch’essi destinatari delle promesse di Dio. Ha il suo centro nell’edificazione del regno davidico, espressione dell’elezione di Israele a luogo della dimora di Dio, embrione in cui si incarna la sua promessa, sacramento della sua presenza in mezzo ai popoli. Ha il suo compimento nella distruzione dell’Israele storico-istituzionale per farne lievito che pervade la massa dei popoli, trasfondendo in essi il fermento della promessa divina. 1,1 Nell’incipit non compare il termine genealogia, come nell’impropria traduzione italiana, ma la più pregnante espressione Bíblos ghenéseos: «Libro di genesi». Essa potrebbe riferirsi all’intero vangelo matteano, indicando il suo intento di descrivere e fondare la genesi non solo di Gesù, ma dell’intero popolo cristiano nella sua missione alla genti, ribadita a conclusione del vangelo, ponendo in continuità l’intera Chiesa, e i popoli che ne accoglieranno l’annuncio, con la promessa

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fatta ad Abramo. Matteo vuole forse indicare che la più decisiva narrazione dell’opera di Dio in Cristo non è il semplice scritto evangelico, ma la povera carne delle generazioni umane e la trama spesso oscura di una storia intessuta di infedeltà e di peccato, nella quale emerge tuttavia la fedeltà di Dio alle sue promesse. I due nomi di Davide e Abramo, ai quali è rinviata la figliolanza di Gesù, distinguono due fasi essenziali del disegno provvidenziale di Dio: quella del nascondimento dell’opera divina della fede di Abramo e della sua gestazione nell’Israele povero e oppresso dalla schiavitù, sino al suo dimorare libero nella terra della promessa e quella della piena visibilità di un’identità di popolo finalmente partorita e istituzionalizzata nelle strutture politiche e religiose dell’Israele preesilico. Ad esse segue una terza fase, ancora di nascondimento e destrutturazione, nella quale sembra emergere la libertà di Dio, più che la sua fedeltà, sino al nuovo inizio dell’avvento messianico di Gesù, figlio di Davide, portatore di un regno del tutto inatteso per modalità ed estensione, e figlio di Abramo, compimento di quella discendenza innumerevole che, nascosta nelle viscere del Cristo, sarà partorita nella missione universale della Chiesa, comandata alla fine del vangelo. L’espressione iniziale «libro di genesi» sembra richiamare la frase finale del vangelo matteano: «sino alla fine del mondo»: la narrazione evangelica, inizia con la retrospettiva che risale alle origini e si chiude con l’apertura al compimento escatologico, abbracciando in Cristo l’intero movimento della storia 1,2-16 I nomi dell’elenco sono tra loro legati dalla ripetizione del verbo ghennân, «generare», in forma attiva, a significare la potenza generatrice dell’uomo, al quale neppure il peccato sottrae la fecondità della benedizione originaria con l’invito a crescere e moltiplicarsi, e in modalità temporale di aoristo, ad indicare la puntualità storica degli eventi generativi nella loro precisa collocazione cronologica nel passato. Solo nella sua ultima ricorrenza il verbo «generare» è al passivo (1,16b), a indicare la differenza qualitativa e modale di quell’ultima generazione: non «Giuseppe, lo sposo di Maria generò Gesù, chiamato Cristo», ma «Giuseppe fu lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato Cristo». Il cambio della forma verbale, con il complemento che segue immediatamente, indicano la duplice realtà della generazione divina di Gesù (non per intervento di uomo) e della sua vera nascita dalla carne stessa di Maria («dalla quale fu generato» e non «nella quale fu generato»). Il verbo «generare» ha, nella lingua ebraica, tre differenti modalità di coniugazione: indica anzitutto la capacità di partorire propria della madre; può significare inoltre opera della levatrice che favorisce il parto; può esprimere infine la capacità generatrice propria del padre. Nella genealogia di Matteo indica ovviamente l’atto generativo proprio del padre, che porta con sé, quale specificità, la garanzia dell’eredità, e della dono della benedizione. La lunga serie di nomi maschili, a ricostruire la linea paterna della discendenza di Abramo, è interrotta da quattro nomi femminili e chiusa dal nome di Maria, la madre di Gesù. Le quattro donne nominate recano tutte altrettante ombre alla luce della discendenza abramitica e davidica. Tre di esse sono straniere (Tamar e Raab sono cananee, Rut è Moabita e, con buona probabilità, è straniera anche Betsabea, in quanto moglie di Uria l’hittita). La cosa non è di poco conto, se si considera che è proprio la madre ad assicurare al figlio l’appartenenza razziale al popolo ebraico. Le quattro donne straniere rendono in certo modo spuria la discendenza con la contaminazione pagana del sangue. Se l’ebreo tende a vantarsi di quell’ascendente materno che gli assicura l’appartenenza al popolo eletto, il testo vuole forse quasi ironicamente significare indicare il dilatarsi delle promesse divine, sino a coinvolgere anche gli altri popoli, tradizionalmente nemici, a trasformare in storia il disegno di Dio e a dare carne al suo Figlio messia. Almeno due di queste donne si sono prostituite: Tamar, con l’intento legittimo di avere un figlio dopo la sua vedovanza da un parente della famiglia del marito defunto e Raab di Gerico, che nella sua condizione di lavoratrice notturna, sempre vigilante e pronta ad accogliere uomini in casa, ospitò e salvò gli esploratori della terra promessa, ottenendo di avere lei stessa risparmiata la vita. Betsabea, pur non praticando un mestiere da prostituta, fu comunque consenziente all’adulterio progettato dal re e connivente alla sua intenzione di eliminare il marito legittimo, Uria l’hittita. Anche la gentilezza usata da Rut a Booz, nel coricarsi di nascosto con lui, potrebbe essere paragonata ad un’opera di seduzione a regola d’arte con l’intento di trovare una comoda sistemazione per se e la suocera Noemi.

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Le donne della genealogia sembrano dunque assolvere alla funzione di mostrare lo spessore di una storia di salvezza nel suo realismo e nella sua apertura: una storia che porta i segni del peccato e delle contraddizioni umane, ma che è al tempo stesso aperta all’universalità delle nazioni. La quinta donna citata, a chiusura della lista è Maria la madre di Gesù. Il cenno fatto a lei, dopo le quattro donne appena menzionate, sembra suggerire l’apparenza di peccato che dovette assumere agli occhi della gente la sua straordinaria maternità, come mostra il passo successivo, che ha per protagonista Giuseppe (1,18-25). 1,17 La lista dei nomi, nella sua articolazione, porta con sé un denso simbolismo numerico, come rileva il versetto ricapitolativo finale. Il numero quattordici delle generazioni di ogni fase storica richiama la cifra del nome di Davide (d-w-d = 4+6+4 = 14). Il numero quattordici torna in tutte e tre le serie, fino a un totale di 42 generazioni, sei serie di sette. Il numero 6 indica incompiutezza. Solo con il Cristo si apre la settima serie, quella della pienezza vera e propria (come nel ciclo delle sette settimane del compimento pentecostale e giubilare), la serie della Chiesa originata dalla sua missione che porta a compimento l’intero movimento della storia, secondo la tensione universalistica che si manifesta esplicitamente a conclusione del vangelo. Per continuare Gen 1-11: Si vedano le varie genealogie, fino ad Abramo. Gen 38: La storia di Tamar e del suocero Giuda. Rt 1-4: Il racconto di Rut la moabita dalle steppe di Moab alla campagna di Betlemme. Gs 2: L’incontro degli esploratori con Raab la cananea a Gerico. 2Sam 11: La vicenda di Betsabea e l’adulterio con Davide.

II. Matteo 1,18-25. La genesi di Gesù Cristo e il discernimento di Giuseppe

Per comprendere il testo Il brano è collegato alla genealogia introduttiva dal termine ghénesis: l’espressione dell’incipit del vangelo «libro di Genesi di Gesù Cristo», è ripresa in 1,18: «la genesi di Gesù Cristo fu dunque così». L’elenco delle generazioni fa dunque da introduzione ai preliminari della nascita. In 1,18-25 si racconta come effettivamente avvenne la nascita (ghénesis) di Gesù. Le donne nominate nella lista, con le loro ambigue vicende preparano il lettore a cogliere l’opera santa di Dio nascosta sub contrario di un’apparente situazione di peccato: Maria potrebbe attendere un figlio da un altro uomo e Giuseppe è internamente combattuto nella decisione sul da farsi. Il testo sottolinea che la gravidanza di Maria inizia prima che lei e Giuseppe, suo promesso sposo andassero a vivere insieme, a chiarire che il bambino non è figlio di Giuseppe. L’iter matrimoniale passava attraverso due momenti distinti: quello del contratto matrimoniale che avveniva privatamente tra le due famiglie, e impegnava già i due alla fedeltà reciproca, e quello della festa pubblica di matrimonio a cui seguiva l’effettiva coabitazione. Tra il matrimonio semplicemente rato e la coabitazione e consumazione intercorreva un certo tempo, da due-tre mesi ad un massimo di un anno. Il testo indica che la scoperta da parte di Giuseppe della sua sposa già incinta avviene proprio in questo intervallo, tra l’accordo matrimoniale e l’effettiva coabitazione tra gli sposi. Il racconto presenta dunque già dall’inizio la drammaticità della situazione: la sposa avrebbe dovuto essere denunciata per il suo apparente tradimento, con grave rischio per lei; in alternativa Giuseppe avrebbe potuto coprire l’apparente adulterio (già di adulterio infatti si sarebbe trattato secondo la

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legge): con un riconoscimento di paternità da parte sua avrebbe rimesso le cose a posto, ovviando alla illegittimità dell’accaduto. Di fronte all’alternativa Giuseppe non sa che cosa fare e il suo dramma è accresciuto dalla valutazione delle conseguenze della decisione da prendere. Solo l’intervento angelico e la parola delle Scritture alla quale Giuseppe si affida sciolgono la tensione drammatica. Per approfondire 1,18: Solo un versetto per indicare l’inizio della gravidanza di Maria e un solo versetto, a mo’ di inclusione (1,25), anche per indicare il parto di Maria. In questo passo la menzione di Maria e della sua gravidanza fa da semplice cornice: il centro della scena è occupato dal dramma interiore di Giuseppe e dal travaglio del suo discernimento. Il testo nella sua concisione dà tutte le informazioni necessarie a introdurre nel dramma: Maria fu trovata incinta per opera dello Spirito Santo prima della coabitazione. Il verbo all’aoristo passivo (fu trovata) sembra indicare il momento in cui Giuseppe scopre la gravidanza di Maria. L’evangelista pare suggerire il silenzio di Maria sulla vicenda che la riguardava, fino al momento in cui la sua gravidanza diventa evidente e Giuseppe ne viene a conoscenza. Ella non ha voluto forse precorrere i tempi della delicata e traumatica comunicazione e si è affidata al Signore, lasciando a lui di condurre tutta la vicenda al suo sbocco provvidenziale. Il narratore informa il lettore dell’origine della gravidanza: per opera dello Spirito Santo. Chi legge, conoscendo in anticipo rispetto al protagonista Giuseppe la verità dei fatti, può meglio percepire la tensione drammatica che lo attraversa e la difficoltà del discernimento a cui egli è sottoposto e attende la sua reazione. 1,19: Nell’alternativa tra la denuncia con il ripudio e il riconoscimento di paternità Giuseppe sembra orientarsi per un licenziamento della donna senza alcuna risonanza pubblica, al fine di preservarla da scandali. Egli è tormentato dall’alternativa. La legge gli imporrebbe la denuncia pubblica e il ripudio, ma egli non se la sente di danneggiare la sua donna amata, avvertendo forse in lei un’onestà e trasparenza di fondo che gli rende ancor più incomprensibile in fatto accaduto. D’altra parte non gli sembra neppure giusto e onesto riconoscere una paternità che non è sua. Giuseppe tende già nel suo cuore a interpretare la halakah della Legge non in modo letterale, ma secondo lo spirito del precetto dell’amore, e ottiene l’appellativo di giusto, vero discendente di Abele e autentico figlio di Abramo. 1,20: Neppure la decisione a cui sembra orientato lascia tuttavia pacificato l’animo di Giuseppe. Appesantito dai pensieri che si agitano in lui, egli si abbandona ad una sorta di stanchezza, quasi sospendendo il proprio ragionamento e il proprio giudizio. Proprio in tale situazione di debolezza e di rinuncia ad una propria soluzione gli viene incontro l’angelo del Signore. Con l’espressione kath’ónar il testo potrebbe indicare non un vero e proprio sonno di totale passività nel quale accade di sognare, ma qualcosa di paragonabile al sogno: l’apertura ad un ascolto più profondo della Parola di Dio una volta sedimentati e messi a tacere i propri pensieri. Non è la forza della volontà o del ragionamento che ottiene la luce di Dio; questa si concede gratuitamente, come lampo interiore, a chi si abbandona all’apertura del cuore e rimane in attesa del soffio divino. L’angelo anzitutto rassicura e pacifica: «Non temere». Egli non vuole sovvertire o abolire il piano dell’uomo; si limita a modificarlo: la donna deve essere presa come sposa, come era nel progetto di vita dei due, ma con una modalità differente, accettando l’opera di un intervento divino da custodire e far progredire nel tempo. L’angelo svela poi infatti la provenienza divina di quanto è accaduto a Maria: «Ciò che è generato in lei viene dallo Spirito santo». 1,21: Dalla luce della rivelazione angelica Giuseppe apprende poi il senso della sua personale missione: con l’imposizione del nome egli dovrà accettare una paternità con il compito particolare

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di aiutare il bambino a prendere coscienza della missione salvifica significata dal suo nome Jehoshua, salvezza da parte di Dio per quanti sono nel peccato. Il compito di Giuseppe non è solo formale nel garantire una copertura paterna in termini giuridici, ma sostanziale: educare e formare il figlio per la l’opera divina che lo attende. 1,22-23: Matteo riporta a questo punto la sua prima citazione biblica: si tratta di un riferimento al passo di Is 7,14 del quale, con questa particolare modalità di rinvio chiamata “di compimento”, si riconosce la piena realizzazione in ciò che è accaduto. Il testo isaiano è citato non secondo l’ebraico masoretico, ma secondo la traduzione greca dei LXX nella quale, differenza dell’ebraico compare il termine più forte «vergine» (parthénos) in luogo del semplice «donna» (almah), che il profeta riferiva alla moglie del re Acaz. Il testo di Isaia, attraverso la LXX e la sua ripresa matteana guadagna così il suo sensus plenior. Se la profezia originaria era riferita alla moglie del re Acaz, che avrebbe da lui ottenuto un figlio, quale segno di riapertura del futuro in tempo difficile, se il re si fosse fidato di Dio e del suo profeta, l’applicazione matteana, resa possibile dalla LXX trascende totalmente il senso originario, riempiendo l’antica profezia della luce del concepimento verginale: il Signore non dà un semplice segno di apertura del futuro a un re ottuso e caparbio che, nonostante la sua incredulità, avrà un figlio; egli dà un figlio, il suo Figlio ad ogni giusto che, come Giuseppe, si fida di lui. Concede ad ogni credente un futuro di speranza, il suo futuro di salvezza e pienezza. Se Giuseppe chiamerà il figlio Jehoshua (salvezza-di-Dio per chi crede in lui), questo bambino sarà poi riconosciuto come Immanuel (Dio-con-noi). Matteo è il Vangelo del Dio con noi, della presenza permanente di Dio con gli uomini in Gesù, come è annunciato già dall’inizio del Vangelo e come è ricordato alla fine, con l’apertura ad un futuro di speranza da parte del Dio che non abbandona (28,20). 1,24-25: Giuseppe obbedisce alla parola dell’angelo che media la luce stessa delle profezie che egli meditava, facendole interagire con i suoi pensieri e le sue valutazioni, sino a quel silenzio interiore di fede e di abbandono che illumina e pacifica il suo cuore facendolo determinato nella decisione da prendere. Il versetto finale ribadisce a modo di inclusione quando detto all’inizio: Maria partorisce il figlio senza che Giuseppe la conosca, secondo l’uso semitico del verbo conoscere nel senso esperienziale del rapporto personale, che include anche l’atto coniugale Per continuare Gen 12,1ss: La parola rivolta dal Signore ad Abramo il padre dei credenti. Es 3,1ss: La rivelazione di Dio a Mosè dal fuoco del roveto dopo che egli sembra aver rinunciato a compiere in proprio i suoi progetti. Gdc 6,11ss: L’apparizione dell’angelo a Gedeone che nella sua condizione umile riceve una missione di salvezza. Is 7,10-14: Il segno della “donna” dato dal profeta all’incredulo re Acaz, in vista della nascita del bambino chiamato Emmanuele (Dio-con-noi).

III. Matteo 2,1-12. Il cammino dei Magi: le genti attirate al Signore da lontano

Per comprendere il testo Con la scena dei Magi l’orizzonte del racconto si allarga: dall’intimo dramma di una coppia di promessi sposi alla ricerca di uomini provenienti da lontano e rappresentanti dei popoli della terra

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attratti al Dio d’Israele. Al di là del suo probabile fondamento storico, l’episodio dei magi sembra frutto di una rielaborazione midrashica da parte dell’evangelista, a partire da alcuni testi biblici fondamentali, tra loro collegati in modo trasversale a tutte le Scritture d’Israele: Torah, Profeti e Scritti apocalittico sapienziali. Un primo testo, tratto dalla Torah, è uno degli oracoli di Balaam, figlio di Beor (Nm 22-24), nel quale il saggio indovino (una sorta di mago come i personaggi venuti a Gesù) vede da lontano una stella che sorge da Giacobbe e uno scettro che spunta da Israele. Prezzolato per maledire Israele dal re moabita Balak, preoccupato per la venuta in massa degli ebrei nel suo territorio, Balaam riceve da Dio ordine di benedire: il Signore stesso gli pone sulla bocca parole di benedizione al popolo. Il futuro di Israele è caratterizzato da un astro che sorge, dalla luce di un regno veniente, la cui portata luminosa supera del tutto quella della monarchia storica e della casata davidica; un regno che si imporrà sui popoli vicini, Moab compreso, che dovranno assoggettarglisi. Un secondo testo su cui è incentrato il racconto, tratto dai Profeti, è l’oracolo di Michea 5,1-4 che annuncia la venuta del nuovo re messia da Betlemme. Tale figura messianica ha origini remote da Betlemme di Giuda; le sue radici affondano negli umili inizi davidici, dal piccolo capoluogo di Giudea; il suo sviluppo è tuttavia superiore a quello della casa di Davide e della monarchia di Israele, a grandezza universale, con una pacificazione che giungerà agli estremi confini della terra. Un terzo testo, tratto dagli Scritti apocalittico-sapienziali, è la profezia delle settanta settimane in Daniele 9. Se Geremia 25,11-12 e 29,10-11, aveva indicato in settanta anni il tempo fissato per l’esilio babilonese, sino alla restaurazione di Israele, l’oracolo di Dn 9,24-27 fa riferimento ad un arco temporale di settanta settimane. Il veggente Daniele, dopo aver pregato il Signore per la sorte del suo popolo, riceve la visione dell’angelo Gabriele che annuncia i tempi della restaurazione del popolo eletto: settanta settimane Dio ha fissato per la ricostruzione di Gerusalemme e dei suoi dintorni, per il ripristino del sacrificio e per la sua ulteriore cessazione con l’avvento dell’abominio della desolazione, della profanazione del luogo santo e dell’esaltazione dell’idolo. Il compimento della settantesima settimana segnerà il termine stabilito sul devastatore e l’avvento di una nuovo inizio. I magi vedono sorgere la stella: brilla nel loro cuore la luce della parola, che li spinge a intraprendere il viaggio della fede. Essi comprendono che quello è il tempo compiuto per il sorgere della stella da Giacobbe, forse attraverso una rilettura delle settanta settimane di Daniele in collegamento ai settanta anni profetizzati da Geremia per il ritorno dall’esilio. I magi, sapienti e studiosi delle letterature degli altri popoli, incontrata la luce delle Scritture di Israele avrebbero forse compreso il suo linguaggio apocalittico cifrato come rilettura dei settanta anni indicati da Geremia nel senso di settanta settimane di anni, 490 anni, dalla deportazione in Babilonia alla venuta del messia, allo spuntare della stella-scettro da Giacobbe. Attraverso la lettura incrociata delle profezie i magi intuiscono l’avvento della stagione del compimento e muovono verso la terra di Israele. Sarà la profezia di Mi 5,1ss, citata dagli scribi di Erode, a metterli sulla via di Betlemme, dove ritrovano la luce e approdano al riconoscimento del Dio bambino. Il racconto dei magi è dunque frutto, su fondamento storico, di una rielaborazione midrashica dell’evangelista che fa riferimento ad alcuni testi biblici che attraversano tutto il corpo scritturistico di Israele. Attraverso tale riflessione sulle Scritture l’evangelista intende ricollegare l’evento manifestativo di Gesù alla vicenda di Israele, mostrare come anche i popolo lontani siano destinatari delle promesse e presentare le tappe di ogni autentico cammino di fede che approda al riconoscimento del Cristo Signore. Per approfondire 2,1-2: Il termine magi (mágoi) presenta una certa ampiezza di significati, dalla connotazione di personaggi sapienti, cultori delle lettere e della pratica del pensiero, a quella di persone capaci di consiglio o di governo, sino a indicare chi pratica attività anche magiche o occulte, perché in possesso di una sapienza segreta o di conoscenze esoteriche. I personaggi presentati da Matteo

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sembrano caratterizzarsi come persone colte, a conoscenza delle letterature del vicino oriente, che sono entrati in contatto con le Scritture ebraiche e ne sono stati illuminati, iniziando un cammino di ricerca che li ha portati nella terra di Israele. Essi cercano il re di cui hanno visto la stella nel sorgere (il termine anatolé indica sia l’atto sorgivo sia le regioni dell’oriente, dove sorge il sole) re, secondo l’oracolo di Balaam nel Libro dei Numeri. Un’interpretazione della profezia di Daniele nella luce di Geremia li ha convinti che fosse quello il tempo dell’avvento del re annunciato. Trattandosi di un re essi si recano a Gerusalemme, al palazzo di Erode, colui che in quel tempo regnava su Israele: ritengono erroneamente che la regalità espressa dalle profezie abbia a che fare con un potere mondano. Quando tuttavia giungono da Erode non vedono più la stella: la luce delle Scritture non li assiste più e si ritrovano nel bisogno di un aiuto per continuare a cercare. 2,3: Anche Erode pensa all’avvento messianico come ad un regno mondano e comincia a preoccuparsi di un eventuale concorrente: il turbamento attraversa tutta Gerusalemme, meravigliata per la venuta di così importanti personaggi per un evento che nessuno attendeva. 2,4-6: Erode fa ricorso all’autorità religiosa dei sommi sacerdoti e degli scribi per sapere da loro che cosa dicessero in proposito le profezie. La risposta degli scribi è pronta: facendo riferimento a Michea 5,1ss, essi indicano Betlemme, la città del re Davide iniziatore della dinastia regale, come il luogo d’origine dello stesso messia, figlio di Davide: il profeta rinvia all’immagine del re definitivo come pastore del suo popolo, alla maniera di Davide. Con tale riferimento l’evangelista ribadisce la conformità alle profezie di quanto già espresso all’inizio, nella genealogia, che ripercorre la discendenza della casa di Giuda passando per Davide. 2,7-8: Erode mostra interesse per la vicenda del re davidico e chiede con inganno ai magi di informarlo per concorrere anch’egli all’omaggio da rendere al re. L’episodio successivo della strage dei bambini di Betlemme svelerà la malvagità della sua intenzione, che lo rende paragonabile al faraone, con la sua crudeltà nei confronti dei bambini di Israele in Egitto (Es 1-2). Né Erode né la sua corte sono realmente interessati al valore autentico delle profezie. Gli stessi scribi, che le conoscono e sono capaci di dare ai Magi la giusta indicazione, non si lasciano essi stessi convertire alla ricerca sulla via di Betlemme dalla luce della Parola. 2,9-10: Quando i magi si allontanano dalla casa di Erode e da Gerusalemme, verso il piccolo villaggio periferico di Betlemme, allora ritrovano la stella e provano una gioia che la ridondanza dei termini descrive come ineffabile. Il cammino che li allontana dalla grandezza mondana verso la piccolezza di ciò che è conforme all’essere divino fa loro ritrovare la luce delle Scritture. La profezia di Michea, accolta e obbedita, riaccende tutto il senso delle profezie da loro precedentemente accolte, in obbedienza alle quali essi avevano iniziato il cammino. Quella luce di amore che brilla ai loro occhi e riaccende il loro cuore li guida al riconoscimento del re bambino. Si realizza per loro lo svelamento dell’epifania, dell’autentica manifestazione del vero volto di Dio, coronamento di un intero cammino di fede. Il cammino della fede si apre dunque con l’iniziativa di Dio, che fa brillare, attraverso le Scritture credute e accolte, la luce del suo amore nel cuore dell’uomo. Questi si mette allora in viaggio. Alla conversione religiosa iniziale segue una conversione morale, un cambiamento della condotta che continua a cercare il volto di Dio tentando di perseguire ciò che piace a lui. In tale fase del cammino l’uomo è tuttavia ancora animato da un pensare mondano. Dio è per lui grandezza secondo i criteri di questo mondo: è ancora il Dio vincitore che governa secondo i nostri criteri di giustizia e trionfa di quanti noi riteniamo nemici. Una terza decisiva conversione attende il credente: quella dei pensieri, delle categorie e dei criteri di giudizio, che diventano conformi alla sapienza divina espressa nella piccolezza, debolezza e stoltezza della croce, come rivela la povertà del bambino di Betlemme. Lasciandosi alle spalle Erode e la sua crudele astuzia mondana essi ritrovano la luce delle Scritture che li guida a riconoscere la luce divina nella piccolezza del bambino.

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Se l’uomo è dapprima attratto dalla ierofania di un divino che si manifesta in cose miracolistiche e grandiose e comincia poi a conoscere la teofania di un Dio che parla per invitare all’alleanza e alla comunione con sé, solo alla fine del cammino può pervenire, mediante la trasformazione profonda dei suoi pensieri, all’epifania del vero volto di un Dio che si fa povero nel dono di sé. Davanti al bambino, prefigurazione del crocifisso e rivelazione autentica del volto di Dio, si compie l’itinerario di fede dei magi. 2,11: I tesori offerti dai magi, nell’atto tipico dell’adorazione-prostrazione, hanno un valore evidentemente simbolico, diversamente interpretato dalla tradizione cristiana: oro al riconosciuto re, incenso al Dio incontrato, mirra a chi è già nell’atto di donarsi fino alla morte. Il riferimento all’oro e all’incenso sembra mutuato dal Sal 72 in sintonia con Is 60: i popoli venuti da lontano, con cammelli carichi di beni, portano oro e incenso al re messia. Nella leggenda apocrifa cristiana sul testamento di Adamo, basata su tradizioni rabbiniche, si fa riferimento ai tre tesori, oro incenso e mirra che Adamo, cacciato dall’Eden avrebbe ricevuto come pegno del compimento delle promesse di salvezza per l’umanità: quando questi tesori fossero stati offerti a Dio in adorazione autentica, sarebbe giunta la liberazione di Adamo. Tali doni esprimono l’atto di adorazione dell’uomo che riconosce Dio nella sua epifania di povertà e piccolezza e gli tributa l’onore regale e l’adorazione divina dentro la fragile condizione umana fino alla morte accettata per amore. Tali doni esprimono l’atto della fede autentica che, mediante la conversione dei pensieri, accetta l’ossimoro della grandezza divina che si incarna nella piccolezza di amore 2,12: I magi tornano per altra strada. la luce che li ha trasformati nell’intimo e nei pensieri non rende più per loro percorribile la strada primitiva che li condusse al palazzo di Erode. Essi restano ormai nascosti al potere, portando nel cuore il Dio fatto bambino. Per continuare Nm 24,15-19: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro spunta da Israele Is 60: Nazioni numerose verranno a te, Gerusalemme, da lontano, portando oro e incenso Sal 72: A lui tutti i re si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni Dn 9,23-27: Settanta settimane fissate per il compimento delle promesse di Dio Ef 2,11-22: Voi un tempo lontani siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo Mt 28,16-20: Il Vangelo annunciato a tutte le genti

IV. Matteo 3,13-4,17. La rivelazione del Figlio di Dio e gli inizi della sua missione

Per comprendere il testo Secondo la suddivisione proposta nell’Introduzione la sezione 3,1-4,22 costituisce, insieme ai capitoli 1-2, la porta di ingresso all’intero racconto evangelico, ricapitolazione di tutta la vicenda di Gesù, perché il lettore abbia già un anticipo sullo sviluppo della narrazione. Se i capitoli dell’infanzia (1-2) sono rilettura midrashica delle Scritture nella luce della pasqua di Cristo, che rivive già da bambino l’intera vicenda di Israele, con il compito di dare il quadro di riferimento per lo sviluppo di tutto il Vangelo, i due capitoli successivi (3-4) hanno invece una funzione introduttiva alla missione di Gesù: indicano la necessità e la modalità della preparazione del cuore ad accogliere il Signore che viene (la

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predicazione del Battista in 3,1-12); introducono all’identità del Figlio di Dio e al cuore del suo annuncio di salvezza (dalla rivelazione al Giordano alla luce che inizia a brillare nelle tenebre della Galilea delle Genti e attira i primi discepoli del regno in 3,13-4,22). Il testo si compone di tre unità, tra loro strettamente collegate, con la funzione teologico-narrativa di ricollegare ai capitoli dell’infanzia, colmando un salto cronologico trentennale, per far nuovamente emergere l’identità di Gesù in vista della sua missione: Egli è riconosciuto dal Padre come Figlio al Giordano, tentato rispetto al senso della sua figliolanza e alla modalità della sua missione messianica dal demonio nel deserto, e portatore della luminosa notizia del regno nelle tenebre della Galilea delle genti. Per approfondire 3,13: L’episodio del Battesimo al Giordano è la rivelazione di Gesù come vero Figlio del Padre e insieme il manifesto programmatico della sua opera: Egli è venuto per i peccatori; si è fatto solidale con loro nel suo abbassamento sino alla morte, simboleggiata dall’immersione delle acque. Tutto il suo ministero di guarigione, di perdono di offerta della sua vita fino alla croce sarà motivato soltanto da questo: l’amore per i peccatori e la solidarietà con la loro condizione per redimerla nel profondo. Giovanni è l’inventore del gesto battesimale. Israele conosceva già la pratica di bagni di purificazione con la grande diffusione di vasche per abluzione. tale pratica lasciava tuttavia intendere un’idea solo estrinseca del peccato, quasi fosse semplice sporcizia del corpo da rimuovere con il gesto meccanico del lavaggio. In forza di tale pratica ciascuno era tenuto a lavarsi periodicamente, praticando da se stesso l’immersione, con la testa fuori dall’acqua e il gesto di passare le mani lungo il corpo a lavare per la purificazione rituale. Il Battista propone un gesto assai più forte e radicale, mediante il quale si è immersi da un altro nell’acqua corrente dichiarando il proprio peccato sino a scomparire con il capo sott’acqua a indicare l’accettazione del giudizio di Dio, per una morte alla propria condizione di peccatori e la riemersione di speranza in una vita nuova. Il Battista praticava il gesto in acqua corrente in quel punto del Giordano nel quale il popolo entrò con Giosuè nella terra promessa: il penitente si disponeva così a riprendere simbolicamente il cammino di Israele nel deserto della prova e dell’affidamento, pur rimanendo nella terra promessa. Attirato dalla testimonianza del Battista, Gesù si reca al Giordano. 3,14: Gesù vince l’iniziale opposizione del Battista con il desiderio di «compiere ogni giustizia». Egli vuole così colmare la misura della legge che impone l’osservanza del precetto e assegna la sanzione corrispondente, facendo irrompere la gratuità della misericordia di Dio che in Lui si riversa su ogni uomo che crede e che lo segue nelle acque per iniziare una vita nuova. La giustizia di cui Gesù ha fame e sete è la sua volontà di giustificare per la sola fede l’uomo peccatore offrendogli la sua misericordia, così che questi sperimenti la beatitudine del povero a cui appartiene il regno, dell’afflitto che viene consolato. 3,16-17: Alla risalita di Gesù dall’acqua corrisponde dal cielo un movimento di discesa: lo spirito come colomba scende su di lui, epifania dell’amore del Padre che si compiace del Figlio, riconoscendolo somigliante a sé nell’atto di donarsi per amore. Il Figlio adempie ogni giustizia rivelando in sé il volto del Padre. Come il padre si è annientato nel generare il Figlio, al quale ha donato tutta la divinità nel movimento relazionale dello Spirito santo, così il Figlio, imitando il Padre offre tutta la sua vita. Il Figlio è unigenito, perché riceve dal Padre tutta la divinità quale dono radicale, totale e irreversibile. Il Figlio imita tuttavia il Padre e dona lo Spirito di amore ricevuto, per condividerlo con una moltitudine di fratelli, resi in lui figli adottivi, che devono imparare come lui a compiacere il Padre nel dono di sé. La colomba richiama la scena del diluvio: al tempo di Noè essa non trovava dove posarsi, quando le acque ricoprivano la terra. In Gesù essa trova l’umanità nuova, emersa dalle acque nella quale Dio

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può finalmente compiacersi. Le parole della voce celeste sono eco delle Scritture: il Sal 2 (“Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato e io stesso ti darò potere mentre le genti congiurano”) e la profezia di Is 42,1 (“Ecco il mio servo in cui mi compiaccio, a motivo della sua fermezza e della sua mitezza, sul quale ho riposto il mio Spirito perché porti il diritto alle nazioni”). Gesù in preghiera al Giordano sta dunque meditando le Scritture e dal loro accostamento, nell’affidamento della sua vita egli coglie la voce del Padre che lo riconosce e lo incoraggia. 4,1-2: Gesù è gettato dallo Spirito nel deserto. Oltre il Giordano si apre il deserto attraversato dai Padri, dei quali Gesù rivive, nei quaranta giorni, la vicenda provata. Lo stesso spirito che lo ha riempito dell’amore paterno ora lo getta nel deserto. Mistero dell’amore di un Padre che si dà tutto e scompare lasciando il Figlio apparentemente solo ad affrontare la prova. Amore che si dona e impone insieme quel distacco che è espressione di stima per il Figlio e fonte di autonomia per la sua crescita. Il digiuno di Gesù è segno di attesa di un altro pane: la parola del Padre del quale egli protesta il suo bisogno vitale, dichiarando di dipendere più dalle sue parole che dal nutrimento corporale. Il silenzio del Padre lascia spazio alla parola demoniaca della tentazione che tenta di rompere la relazione filiale, spingendo il Figlio ad un’esistenza autonoma incentrata sull’affermazione di sé. La tentazione è formulata in modo triplice: muove dalle esigenze della carne e si introduce nell’intimo con il desiderio di un possesso del divino da piegare alle proprie esigenze, in una progressione che culmina nella richiesta di appartenenza a Satana e di adorazione di lui. 4,3-4: Il tentatore sollecita Gesù a partire dalla carne. Nell’antropologia biblica la carne è la dimensione dell’uomo nel qui ed ora delle sue relazioni con tutto ciò che è alla sua portata spazio-temporale, nel presente delle esigenze legate alla sua dimensione corporea. Attraverso l’impulso della fame il tentatore sollecita Gesù a procurarsi il pane da se stesso, quale Figlio di Dio che tutto può. Mentre da un lato il tentatore fa leva sul potere divino di Gesù perché ottenga ciò che vuole, dall’altro lo spinge all’autonomia dal Padre, perché eserciti il suo potere senza di lui, senza attendersi nulla dalla sua relazione filiale. Gesù si proclama invece dipendente in tutto dalla parola del Padre: citando la Scrittura (Dt 8,3) egli ribadisce la sua dipendenza filiale dal Padre, dal quale continua ad attendere tutto con fiducia, in quella relazione che passa anzitutto attraverso la parola ascoltata, accolta e obbedita. 4,5-7: Vista la sua fiducia totale nel Padre e il suo riferimento alla parola del Padre riconosciuta nelle Scritture, il tentatore invita Gesù ad una fiducia estrema, proprio attraverso il ricorso alla parola delle Scritture. Ricordando il Sal 91,11-12 il diavolo invita Gesù a gettarsi dal pinnacolo del tempio, certo del soccorso di colui che non lascia vacillare, né fa inciampare, ma manda gli angeli a sorreggere quanti si affidano a lui. Con un’altra parola Gesù risponde di non voler tentare il Signore Dio (Dt 6,16), di non volersi approfittare di colui che è buono e soccorre chi è realmente in pericolo. Mettersi in pericolo da soli e poi invocare l’aiuto sarebbe tentare Dio, piegarlo alle proprie esigenze, voler esercitare su di lui un potere, un controllo. Il tentatore spinge Gesù a pretendere un possesso del divino, piegandolo al proprio servizio; lo induce ancora una volta a negare quell’identità filiale che la cui autenticità risiede proprio nella fiducia e nella disposizione alla sua volontà. 4,8-11: Non riuscendo a intaccare la relazione del Figlio con il Padre il tentatore si presenta egli stesso come termine di relazione col Figlio: chiede adorazione e sottomissione in cambio di potere illimitato. Gli propone ancora un’alternativa alla relazione col Padre e la parola delle Scritture: la relazione con lui stesso per godere dei benefici del suo “illimitato” (ma si tratta sempre di menzogna) potere. Il Figlio risponde ancora con la parola delle Scritture. Egli non lascia entrare nel suo cuore, come Eva e Adamo, la parola subdola della tentazione, ma rimane in ascolto della parola di Dio: «Adora il Signore tuo Dio e a lui solo rendi culto» (Dt 6,13).

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Il movimento della tentazione tende a coinvolgere tutto l’uomo, dalle esigenze più immediate della carne ai moti più profondi dello spirito umano. Il meccanismo sembra essere tuttavia sempre il medesimo: far leva sul desiderio per stabilire la logica del possesso su quella dell’attesa e del dono. Il metodo è quello della menzogna, che manipola la Parola di Dio e finisce per sostituirla con i detti fasulli del tentatore. Lo scopo ultimo della tentazione è intaccare e spezzare la relazione filiale, convincendo di autonomia da Dio e invitando a far forza sull’io, senza più nulla attendersi da Lui. Anche in origine il tentatore si presento in modo simile: fece emergere tre caratteristiche del frutto proibito come buono da mangiare (sollecitando la carne), bello da vedere (seducendo gli occhi come fece il demonio mostrando a Gesù i regni della terra, da possedere in cambio di adorazione), desiderabile per acquistare sapienza (invitando così ad afferrare il divino in proprio ponendosi al di sopra di ogni criterio di verità e giustizia). Anche in origine il Satana volle separare la coppia umana da quella relazione di dipendenza non solo creaturale, da Dio, ma sapienziale, attraverso il riconoscimento della luce e bontà del comandamento da custodire e obbedire. Gesù sfuggendo la tentazione è servito dagli angeli a testimoniare il ritorno a quella situazione originaria in cui l’uomo riceveva in dono la vita senza ansia né fatica. Gesù proseguirà la sua missione sfuggendo alla seduzione del messia trionfante e dell’uomo dei miracoli per affidarsi completamente all’azione del Padre. 4,12: Solo dopo l’arresto di Giovanni Gesù inizia la sua missione di annuncio evangelico in Galilea. Egli non vuole sovrapporti al Battista, né entrare in concorrenza con la missione di Giovanni; vede piuttosto nell’impossibilità del battista a proseguire la sua missione l’invito a raccogliere il testimone di un compito da proseguire. 4,13-16: Gesù sceglie la Galilea in obbedienza alla profezia di Isaia 9,1-2 che annuncia la luce sul popolo che cammina nelle tenebre. Inizia dalla regione più periferica, dove molti ebrei vivono una dispersione tra popolazioni in maggioranza pagane. Da costoro, che erano chiamati pecore perdute di Israele, Gesù inizia la sua missione, come più volte ribadirà nello stesso vangelo matteano (10,6; 15,24), privilegiando le categorie più fragili: ammalati, poveri, peccatori. 4,17: Gesù inizia la sua predicazione con un annuncio kerygmatico: «È vicino il regno di Dio». La Signoria di Dio è ormai giunta: Gesù può testimoniarlo per aver sentito la vicinanza del Padre nella sua sottomissione con il battesimo al Giordano e per aver sperimentato la sua guida e il suo governo grazie alla fede nella Parola di Dio nella prova del deserto: Una volta uscito dal deserto, con il conforto del servizio angelico, Egli può affermare con verità che Dio governa tutti coloro che credono in lui, purché si convertano all’accettazione della loro debolezza come luogo dell’intervento misericordioso di Dio. Per continuare Gen 7-8: Il racconto del diluvio e la nuova umanità in cui dio si compiace. Sal 2 e Is 42 e 49: Il Figlio-servo che compie la sua missione messianica da povero che attende da Dio il compimento. Dt 6,13-16 e 8,1-3: La prova di Israele nel deserto e la sua fiducia nell’ascolto della Parola di Dio. Gen 3: La tentazione originaria con la sua triplice seduzione. 1Gv 2,16: La triplice concupiscenza di chi ama il mondo. Mt 27,38-44: La tentazione suprema del Figlio di Dio. Is 9,1ss: La luce per il popolo che camminava nelle tenebre.

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V. Matteo 5,1-16. Il sale, la luce e le buone opere Per comprendere il testo Il testo si articola in tre momenti, strettamente collegati: i vv. 1-2, con l’introduzione a tutto il discorso del monte; i vv. 3-12, con la proclamazione delle beatitudini; i vv. 13-16 con l’indicazione del compito dei discepoli. vv. 1-2. L’introduzione stabilisce un parallelismo tra Gesù e Mosè: anche Gesù insegna ad un popolo, dalla cattedra del monte, con le parole di una nuova alleanza. Gli interlocutori sono divisi in due gruppi: le folle sullo sfondo e i discepoli vicino a lui. vv. 3-12. Ogni affermazione di beatitudine ha tre elementi: la dichiarazione «beati», il soggetto della beatitudine, la motivazione della beatitudine. La struttura è paradossale: la designazione di simili soggetti come beati, ripieni cioè di ogni pienezza di bene, felicità e pace (shalom), contrasta infatti con il senso comune, rivelando una misteriosa identità tra croce e benedizione. Le beatitudini sono otto, con un’inclusione tra la prima e l’ultima, che pongono la motivazione al presente (l’affermazione del possesso attuale del Regno per i poveri e i perseguitati), rispetto all’orientamento futuro delle altre ed un richiamo tra la quarta e l’ottava, incentrate sulla «giustizia», termine caro a Matteo, che indica quella conformità all’essere divino che per il credente si esprime nella libera obbedienza alla volontà di Dio, compresa alla luce delle Scritture. Nelle prime quattro i soggetti appaiono più passivi, rispetto all’operosità più attiva di quelli del secondo gruppo. In tutte le beatitudini la motivazione è comunque espressa da un passivo, indicante l’azione divina: è Dio che svela e realizza la condizione di «beati». A differenza di quelle lucane, le beatitudini di Matteo non sono riferite in modo diretto agli interlocutori, ma a soggetti tipologici, cioè a chiunque si trovi nella situazione indicata, a prescindere dalla sua diretta relazione con Gesù. Solo la nona (5,11-12), che è un raddoppiamento dell’ottava, si riferisce ai discepoli. vv. 13-16. Ai discepoli si riferiscono anche le metafore successive di «sale della terra» e «luce del mondo», che prolungano così il riferimento diretto a loro dell’ultima beatitudine: essi sono poca e piccola cosa, come il sale, ma la testimonianza delle loro opere buone è luce che rivela agli uomini l’identità del Padre, invitandoli alla relazione filiale. Per approfondire Le beatitudini sono un insegnamento in forma rivelativa, in cui non viene tanto creata una nuova realtà, quanto piuttosto riconosciuto e svelato un mistero già in atto: il pieno possesso del Regno per tutti quei soggetti la cui condizione non appare umanamente desiderabile. Le beatitudini sono dunque criterio di discernimento della presenza del Regno. I poveri in spirito sono tutti coloro che non hanno una povertà semplicemente materiale, ma che avvertono anche interiormente precarietà e debolezza, coloro che hanno il cuore ferito e lo spirito affranto (Sal 34,19; 40,18) che vivono perciò in una permanente ed affidata dipendenza da Dio; si tratta degli anawim, di cui Dio stesso direttamente si prende cura, perché hanno soltanto Lui: essi sono già nel possesso del Regno, dal momento che sono già totalmente sotto la signoria di Dio, dalla quale interamente dipendono (Is 61,1ss). Alla categoria dei piangenti o afflitti appartengono tutti coloro che soffrono senza possibilità di autoriscatto, soprattutto coloro che piangono perché patiscono il male o perché soffrono per il male altrui; si tratta in particolare di coloro che piangono perché la Parola di Dio non è osservata (Sal 119,136) ed il male sembra trionfare (Ez 9,4); essi sono coloro che nella prova gridano a Dio, ed Egli li riconosce come suoi (Est 10,3f). I miti sono tutti coloro che evitano il ricorso alla violenza o a qualunque prevaricazione, ma in particolare sono

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quanti si lasciano condurre nell’obbedienza di Abramo a cui è promesso il possesso della terra (Gen 12,1ss; Sal 37,11.22.29), coloro che hanno imparato dal Figlio a non cercare grandezze e possono in lui gustare il riposo sabbatico, liberi da ogni oppressione (Mt 11,28-30; 21,5). Gli affamati di giustizia sono tutti coloro che attendono riscatto per se e per gli altri, ma in particolare coloro che si saziano della legge del Signore (Sir 2,16; Dt 8,3; Mt 4,4) e trovano appagamento nell’abbandonarsi al Figlio (Gv 6,35). Alla categoria dei misericordiosi appartengono tutti coloro che hanno viscere di misericordia verso i fratelli ed operano per non perderli (Mt 18). I puri di cuore sono tutti coloro che, privi di doppiezza e simulazione, si dirigono con semplicità e sollecitudine verso la verità, coloro, in particolare che hanno dato al Signore tutto il loro cuore per non volere che ciò che lui stesso desidera (Sal 15; 24,4). Operatori di pace sono coloro che si adoperano per la riconciliazione (Mt 18,15ss; Eb 12,14ss), in vista di una comunione fraterna in cui tutti possono riconoscersi figli di Dio, senza prevaricazioni. Perseguitati per la giustizia sono quanti antepongono la verità e la rettitudine, l’onestà e la giustizia non solo ad ogni tornaconto personale, ma alla loro stessa vita, disposti anche a perderla (1Pt 3,14). Il raddoppiamento dell’ottava beatitudine nell’affermazione sui discepoli perseguitati attira in particolare l’attenzione su coloro che soffrono a causa di Gesù e del suo Vangelo (Mt 10; 1Pt 4,12-19). La nona beatitudine sembra svelare il senso del doppio destinatario dell’insegnamento di Gesù. Esso è rivolto alle folle, a tutti coloro che ascoltano, indistintamente: dovunque infatti si trovano i soggetti indicati da Gesù come beati. Ma è indirizzato in particolare ai discepoli, per i quali è possibile non soltanto appartenere alle categorie indicate, ma esserne anche consapevoli nella luce di Cristo. I discepoli possono allora diventare testimoni, presso coloro che vivono nelle situazioni espresse dalle beatitudini, della gioia del Regno già posseduto. In questo sembra consistere la loro funzione di sale della terra e luce del mondo: riscattare dal non senso ogni situazione di povertà per farne cogliere in Cristo il valore di benedizione e rendere riconoscibile la presenza del Regno. Per continuare 1 Cor 1-2: Croce e benedizione; la potenza di Dio nella debolezza. 1Pt 2,19-25; 3,13-22; 4,12-5,7: Nelle sofferenze rallegratevi. Ef 2,10: Siamo opera sua, per le buone opere da Lui predisposte perché noi le praticassimo. 1 Pt 2,4-10: Popolo sacerdotale e profetico per testimoniare le Sue opere.

VI. Matteo 5,17-48. La giustizia superiore e la perfezione del Padre

Per comprendere il testo Il testo si articola in due momenti: il primo è introduttivo, di carattere più generale, sul criterio di interpretazione da parte di Gesù della Legge e dei Profeti (vv. 17-20); il secondo rappresenta lo sviluppo applicativo del primo, in cui Gesù interpreta, portandoli a compimento, i precetti fondamentali della Legge, riempiti di intelligenza e spirito profetico (vv. 21-48). vv. 17-20. Gesù non intende contrapporsi a Mosè. Egli è il nuovo Mosè che porta a perfezione la Legge antica, rileggendola alla luce dei Profeti, come si fa nella sinagoga. Egli è il Profeta promesso da Mosè, pari a lui (Dt 18,15-22) e superiore a Lui. Come tale Gesù non intende abolire le parole mosaiche, ma portarle al compimento di realizzazione ed al massimo di intelligenza, riempiendole non solo dello spirito profetico, ma dello stesso Spirito che ha parlato per mezzo dei profeti.

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vv. 21-48. Contengono le cosiddette sei antitesi, quale interpretazione di alcuni precetti mosaici, applicativa del principio enunciato nei vv. precedenti. In realtà non si tratta di antitesi, dal momento che Gesù non si contrappone alla legge mosaica, ma ne offre un’interpretazione compiuta, nella linea di una interiorizzazione e di una radicalizzazione dei comandamenti antichi. In ciascuno degli esempi, infatti Gesù sposta il valore dell’osservanza dall’esteriorità dell’azione all’interiorità dell’intenzione, risalendo dalla materialità dell’atto alla spiritualità del desiderio, dalla visibilità del gesto compiuto alla sua radice nascosta nel cuore dell’uomo. L’autentica osservanza della Legge e, ancor prima, la sua autentica interpretazione non può dunque fermarsi per Gesù alla lettera del precetto, ma deve risalire allo spirito dell’intenzione, in cui esso svela tutte le sue esigenze più interiori e radicali. Tale movimento dall’esteriorità dell’atto all’interiorità del desiderio è già presente nella disposizione del decalogo (gli ultimi precetti sul desiderio in Es 20,17 e Dt 5,21): Gesù non fa che esplicitarlo, facendone il criterio interpretativo di ogni singolo comandamento. I precetti esaminati da Gesù riguardano la seconda tavola mosaica, relativa ai rapporti col prossimo: non uccidere, non commettere adulterio, non spergiurare. Ad essi si aggiunge l’invito alla regolarità nel libello di ripudio, come prolungamento del precetto sull’adulterio e i due precetti finali, più generali e ricapitolativi della seconda tavola, sul taglione e sull’amore del prossimo, che, nel comune riferimento al malvagio oppositore ed al nemico, formano un’inclusione con il non uccidere iniziale, esemplificato dal richiamo ai fratelli in lite e all’avversario portato davanti al giudice. Con tale disposizione Matteo sembra indicare il precetto dell’amore come sintesi di tutta la Torah mosaica, come pure nell’episodio del ricco che lo interroga sui comandamenti (Mt 19,18-19, dove la disposizione matteana, differentemente da Marco, è dal particolare al generale e dall’analitico al ricapitolativo) e del dottore della legge che lo mette alla prova sull’essenzialità dell’osservanza (Mt 22,37-40, dove la formulazione matteana è assolutamente sintetica e aggiuntiva, rispetto a Marco, della dichiarazione ricapitolativa di Legge e Profeti). Tutta la Legge di Mosè si riassume per Matteo nell’indicazione di un amore senza confini, capace di riconciliazione non solo con fratello, ma anche con l’avversario, il malvagio ed il nemico, e trova in esso il suo autentico criterio interpretativo. Per approfondire Matteo offre qui importanti criteri per il discernimento della volontà di Dio, significata nella Legge di alleanza, ma necessitante una continua interpretazione da parte di ogni generazione, di un’intera comunità come di ciascuno dei suoi componenti che desideri seguire il Signore e piacere in tutto a Lui. Un primo criterio fondamentale è il criterio dell’amore, non solo come pienezza e ricapitolazione della Legge, come affermano, pur nella loro differenza, sia Paolo (Rm 13,9-10) che Giacomo (Gc 2,8-13), ma anche come garanzia di una sua interpretazione autentica, che supera le sue esigenze semplicemente etiche, nella gratuità totale della misericordia capace di superare ogni divisione (Mt 5,23-26.38-48) o della scommessa della fede capace di lasciare tutto per Cristo (Mt 19,16-30). Un secondo importante criterio è il criterio della esemplarità dei comandamenti matteani. Essi collegano infatti sempre il principio generale di carattere più formale, all’esempio concreto della sua attuazione materiale, come invito alla scoperta pratica delle sue reali esigenze. In altre parole non si dà per Matteo un approccio semplicemente teorico della Legge che ne stabilisca a priori la portata e l’ambito di applicazione, precedendo nettamente la sua attuazione pratica. È piuttosto la concreta pratica a far scoprire volta per volta la reale portata del principio generale e formale. Così la regola d’oro di Mt 7,12, che ricapitola tutta la Legge e i Profeti non può valere in modo assoluto per se stessa, ma solo se riempita del contenuto materiale dei comandamenti, a loro volta specificati dagli esempi, dei quali essa rappresenta il principio regolatore. Il discernimento per Matteo non si opera a tavolino, ma accettando la continua interazione tra la generalità del precetto e la particolarità degli esempi, cioè nella pratica della condotta concreta. Un terzo importante criterio è il criterio del progresso nella via della giustizia. Non si danno parametri di osservanza e di condotta standardizzati. Il precetto è piuttosto una via di giustizia sulla quale camminare, dal

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minimo del superamento della giustizia degli scribi e dei farisei al massimo del dono della propria vita per la causa del Regno; dal minimo dell’accoglienza dei piccoli che non perde la sua ricompensa (10,40-42) al massimo dell’amore ai nemici che realizza la perfezione alla maniera del Padre celeste (6,43-48). Sarà il giudizio finale (25,31-46) a manifestare quanti saranno rientrati in quel minimo o quanti saranno addirittura capaci della bontà infinita del Padre verso tutti (6,25-33). Un ultimo decisivo criterio è il criterio dell’interiorizzazione-radicalizzazione del precetto, mediante il quale ogni osservanza è sottratta alla semplice esteriorità per essere ricondotta all’intenzione del cuore ed alla sua trasformazione nella quale viene percepito in tutta la sua intensità radicale. Ciò impedisce l’appropriazione semplicemente etica del comandamento da parte del soggetto, sempre tentato di opporre una sua personale giustizia al movimento salvifico della grazia. L’ascoltatore ha così la percezione che quanto gli viene proposto non è una norma etica o idolo moralistico nel quale garantirsi l’irreprensibilità, ma realtà, possibile solo per grazia, di una condotta divinamente trasfigurata, offerta a coloro che tuttavia si spendono per la giustizia. Il discorso della montagna è dunque cammino di perfezione sul quale si deve procedere il più possibile e nel quale scoprono ed ottengono la giustificazione per sola grazia coloro che pure si affannano per la giustizia. Per continuare Mt 3,13-17: Il dono di sé solidale ai peccatori che compiace il Padre e adempie ogni giustizia. Lv 19,1-2.17-18: Amore del prossimo come partecipazione della Santità di Dio. Sal 119 e Dt 26,16-19: Camminare nei precetti del Signore. Gv 13,1-15; 15,9-17: Il comandamento nuovo.

VII. Matteo 6,1-34. Povertà e inevidenza dell’agire secondo Dio Per comprendere il testo Il passo in questione rappresenta la parte centrale del discorso della montagna e può ben suddividersi in due sezioni: i vv. 1-18, costruiti secondo una triplice sequenza in parallelo, dove si indica, quale giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei, la modalità segreta ed inevidente nel compiere la triplice opera di pietà dell’elemosina, della preghiera e del digiuno; i vv. 19-34 nei quali si raccolgono detti diversi, tutti accomunati dall’invito ad un distacco reale dalle ricchezze come condizione di una esistenza non affannata nelle cose materiali, ma dedita alla ricerca del Regno, già posseduto nel cuore e fonte di ogni altro bene. vv. 1-18. Il passo si articola in tre sequenze caratterizzate da un parallelismo e dedicate rispettivamente al modo di vivere l’elemosina (1-4), la preghiera (5-15) e il digiuno (16-18). La modalità accomunante della segretezza del cuore, nel quale soltanto il Padre celeste è capace di vedere e ricompensare, è espressa dal triplice ritornello di 6,4.6.18: «Il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà». Le tre opere pie avevano infatti la funzione di ricondurre l’uomo al senso vero della sua povertà e del suo bisogno di salvezza, ma solo se compiute nell’inevidenza e nell’incoscienza della fede, senza che la destra sappia quello che fa la sinistra (6,3), per non essere strumentalizzate dall’agente, sino a trasformarsi in falsa fiducia di facile meritorietà ed autogiustificazione davanti a Dio ed in fallace fonte di stima ed approvazione davanti agli uomini. L’elemosina, privando del proprio denaro a beneficio di qualcun altro, non solo aveva la funzione di soccorrere il povero, ma anche di consentire al donatore di ridimensionare la propria sicurezza del domani e di comprimere la propria progettualità in eccesso. La preghiera, orientando lo spirito

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dell’uomo alla sua naturale tensione verso l’altezza ed alterità del valore e della giustizia e verità sino addirittura a trascenderle, lo ridimensionava nella coscienza dei suoi limiti ed errori, aprendolo al desiderio fiducioso ed abbandonato della salvezza di Dio, sperimentato come Padre. Il digiuno, limitando le esigenze della carne nel suo bisogno di immediatezza che afferra il possesso dell’oggi, aveva la funzione non già di far conoscere a sé e agli altri la propria forza, cosa che avrebbe solo alimentato la carne stessa, ma piuttosto di far percepire la propria fragilità, aprendola alla richiesta di quel cibo unico per il quale soltanto la vita è degna di essere vissuta (Dt 8,3; Mt 4,4). Le tre opere costituivano così il rimedio alla triplice tentazione (Mt 4,1-11) frutto della triplice concupiscenza da cui l’uomo è affetto (1Gv 2,16), ma solo se vissute nel segreto incosciente della fede, come Gesù afferma. Il centro di questi versetti è occupato dalla preghiera del Pater, che è anche il centro dell’intero discorso della montagna. vv. 19-34. Sembrano sviluppare il contenuto dei vv. precedenti, orientandoli verso la ricerca di una povertà affidata a Dio e liberata da affanni, nella quale soltanto si realizza la ricerca del Regno di Dio ed il possesso in esso di ogni altro bene. I tre detti sul tesoro accumulato nel cielo solo nel distacco da tesori della terra (6,19-21), sull’occhio malato dell’invidia come brama possessiva che offusca la capacità di discernimento del bene (6,22-23) e sul servizio dell’unico padrone, contrapposto alla ricchezza materiale (6,24) sono accomunati dalla denuncia di ogni falsa sicurezza dalla quale l’uomo è tentato di far dipendere la sua vita, rappresentano nette affermazioni di principio che trovano la loro spiegazione nei vv. seguenti. I vv. 25-34 hanno infatti la funzione di motivare le tre affermazioni precedenti, mostrandone l’oggettiva convergenza: si tratta in tutto e per tutto di essere liberi da ogni preoccupazione ed affanno per se stessi e per la propria vita, per poter gustare in pienezza la gioia del Regno, come esperienza viva di una compiuta ed affidata relazione filiale ad un Padre che ha cura non solo dei suoi figli, ma di ogni sua creatura. Per approfondire L’opera buona, secondo Dio, ha per Matteo i tratti necessari del nascondimento e dell’inevidenza. L’uomo è infatti sempre tentato di appropriarsi di ciò che Dio vuole, nel suo amore gratuito, suscitare in lui. L’incoscienza della fede è garanzia di non appropriazione autonoma del dono di Dio, mentre l’esperienza della propria povertà è invito incessante all’affidamento ed alla continua accoglienza del dono stesso. Solo il povero può cercare il Regno di Dio e la sua giustizia (6,33), ricevendo anche il resto in aggiunta, perché soltanto lui lo possiede effettivamente (5,3). Per costui non esiste il domani con le sue inquietudini e pene (6,34), ma soltanto l’oggi dell’affidamento, con la sua provvidenza. Il povero ha già il suo tesoro nel cielo, è liberato dall’idolatria di chi deve affidarsi a false sicurezze e sperimenta la libertà di chi serve con piena dedizione e cuore indiviso un solo padrone. Le opere buone sono classificate secondo una triplice direzione di destinazione e di relazione: verso gli altri, come l’elemosina, verso Dio Padre, come la preghiera, verso se stessi, come il digiuno. L’opera buona verso se stessi consiste sempre in quella capacità di autolimitazione nel presente che, avendo come prototipo il digiuno, frena la brama dell’immediatezza, che cerca il tutto e subito come aumento di sé, aprendo in modo discreto al rispetto degli altri e delle cose, da accogliere più che da possedere e dominare. L’opera buona verso gli altri consiste sempre in quella capacità di limitare la propria progettualità futura, facendo dono oggi, anticipatamente, del proprio domani racchiuso nelle ricchezze o nel tempo che si possiede, come il prototipo dell’elemosina indica: il mio domani diventa per qualcuno possibilità di un oggi. L’opera buona verso Dio consiste nel riconoscerlo Padre, secondo quella relazione filiale di fiducia obbediente e abbandonata che, mentre gli consegna la propria vita come dono, si aspetta tutto da Lui per il proprio oggi e il proprio domani. La preghiera del Pater occupa il centro di tutto il discorso della montagna: tutto l’insegnamento di Gesù ha come vertice la preghiera, ha come oggetto una relazione filiale con il Padre celeste. Al tempo stesso la preghiera del Pater, nelle sue sette domande sintetizza l’intero insegnamento sul Regno: mentre ne chiede la venuta suppone che questa consiste nella

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santificazione del nome divino che i figli portano, nella loro ricerca del volere del Padre, nella richiesta a Lui e nell’offerta reciproca di perdono, nell’affidamento davanti alla tentazione e al maligno. Il sintesi, il Regno richiesto nella preghiera è l’amorevolezza del Padre che i figli sperimentano come pane di nutrimento quotidiano, nel quale il Padre dona loro, giorno per giorno la sua stessa vita. La preghiera del Pater è criterio di discernimento della volontà divina. Per continuare Sal 146 e 147: L’operare generoso di Dio prototipo di ogni opera buona. Lc 12,33; 16,9-15.19-31: Il dono come buon uso delle ricchezze. Gen 18,16-33; 32,23-33; Mt 7,7-11: La preghiera come umiltà e fiducia, povertà e audacia. Is 58; Mt 9,10-17: Il digiuno gradito a Dio. Mt 13,44-46; 19,16-30: Il vero tesoro.

VIII. Mt 7,1-27. La porta stretta, l’albero e i frutti, la casa sulla roccia

Per comprendere il testo Il testo si divide in due parti: i vv. 1-12 con un agglomerato di esortazioni senza un tema omogeneo e i vv. 13-27 che costituiscono la perorazione o conclusione di tutto il Discorso della montagna. vv. 1-12. Il questo passo troviamo l’invito a non giudicare (vv. 1-5), quello enigmatico alla discrezione (v. 6), quello alla fiducia nella preghiera (vv. 7-11) e un detto conclusivo (v. 12). L’invito a non giudicare (vv. 1-5) esorta a non promulgare sentenze contro i fratelli al posto di Dio; così non saremo condannati da Dio, unico giudice di tutti. Se questo è il principio generale, l’evangelista si preoccupa poi di trarne le conseguenze operative. Con l’immagine della pagliuzza e della trave si richiama la prassi della correzione fraterna, così importante per Matteo (cf. anche c. 18). Ciò che è visto di male nel fratello deve anzitutto spingere alla propria conversione; perciò la correzione fraterna, anche quando è necessaria, potrà avvenire solo nel contesto dell’umile riconoscimento del proprio peccato e della sua sproporzione rispetto a quello dell’altro. Il v. 6 risulta di difficile da comprensione. Le «cose sante» e le «perle» sono i tesori del Regno che il discepolo ha ricevuto, mentre i «cani/porci» sono coloro che si mostrano come suoi diretti oppositori. Il vero discepolo non è toccato dalle calunnie, dalle interpretazioni negative sulla sua esperienza cristiana, nella certezza che non esiste paragone tra la perla del Regno e il grugnire e l’abbaiare del mondo. Il passo dei vv. 7-11 è segnato dal verbo «chiedere» ed invita ad una preghiera fiduciosa. È Dio che dà e fa trovare ciò che cerchiamo, è Lui che apre la porta. La piccola parabola del padre e del figlio prepara la conclusione che rende esplicito il richiamo al «Padre celeste», sottinteso nella forma passiva dei verbi delle sentenze precedenti. In questa immagine familiare l’accento del testo viene spostato rispetto ai versetti immediatamente precedenti: dalla certezza dell’esaudimento alla qualità della risposta. Il Padre darà infatti le «cose buone» ai figli, tutto ciò che è veramente per il loro bene, doni che potranno anche non coincidere con l’oggetto preciso della richiesta. Il detto conclusivo del v. 12 rappresenta la regola d’oro, patrimonio etico comune alla cultura orientale e greca. Rispetto al contesto, Matteo volge la norma all’affermativo: è più impegnativo «fare» che «astenersi da». Essa rappresenta la sintesi di ciò che si può dire sulla Legge e i Profeti. La volontà di Dio per l’uomo, rivelata nella Scrittura, si concentra dunque nel principio dell’amore. Il versetto chiude il corpo del Discorso della montagna e prepara, con la sottolineatura del «fare» la conclusione dei vv. 13-27.

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vv. 13-27. Costituiscono la conclusione del Discorso, nella quale si invita il discepolo, che ha ascoltato tutto l’insegnamento di Gesù, ad agire di conseguenza. Per questo sono presentate quattro serie di immagini che indicano due soluzioni opposte, senza possibilità di una via di mezzo: le due porte e le due vie (vv. 13-14), l’albero buono e quello cattivo (vv. 15-20), il dire e il fare (vv. 21-23) e le due case (vv. 24-27). I vv. 13-14, con l’immagine delle due porte e delle due vie, pongono colui che ha udito il Discorso della montagna di fronte a una scelta di campo, senza possibilità di compromessi. Egli deve ricordarsi che le scelte della strada più agevole e della porta più larga non sono automaticamente le più vantaggiose, nella consapevolezza della serietà dell’impegno richiesto nella sequela di Cristo. Nei vv. 15-20 con le immagini dell’albero e di quello cattivo e dei relativi frutti si affronta la questione dei falsi profeti presenti nell’ambiente delle comunità matteane. Il criterio per discernere della loro autenticità non è ciò che dicono, ma ciò che fanno, proprio come l’albero buono si riconosce dai frutti buoni che dà. Nei vv. 21-23 si fornisce il criterio fondamentale dell’agire del discepolo: compiere la volontà del Padre. Egli non verrà giudicato in base alle sue invocazioni liturgiche o alla sua predicazione o agli esorcismi e prodigi compiuti, ma esclusivamente in ragione della conformità alla volontà del Padre, rivelata da Gesù nel Discorso. I vv. 24-27 concludono con la metafora delle due case per sottolineare come non sia sufficiente ascoltare le parole di Gesù, ma sia necessario anche metterle in pratica. Il discepolo saggio e fedele, che mette a fondamento la pratica delle parole del Signore, è assimilato a chi costruisce sulla roccia; mentre la casa fondata sulla sabbia rappresenta colui che ascolta senza pratica e va incontro alla rovina della propria vita. Per approfondire Questo brano di 7,1-27 delinea così un «fare» del discepolo consapevole dei doni di Dio e perciò umile, arrendevole, paziente, non fomentatore di astio. Questo suo agire si riassume nel mettere in pratica l’insegnamento di Gesù, rivelazione della volontà di Dio, e ciò costituisce l’unico criterio che giudica l’autenticità della vita del discepolo. Il discernimento, da parte del discepolo, della volontà del Padre, si dà soltanto nella libertà dall’inganno delle apparenze, dalla vanità del dire senza obbedire e dall’esteriorità del fare senza essere. Per continuare Mt 12,33: L’albero e frutti, il cuore e la bocca. Lc 6,31.37-38.41-44.46-49: Il criterio dell’amore gratuito come somiglianza con Padre. Lc 11,9-13: L’oggetto di ogni autentica preghiera. Lc 13,23-30: La porta stretta.

IX. Matteo 9,1-13. Venuto a chiamare i peccatori: la misericordia anziché il sacrificio

Per comprendere il testo I capitoli 8-9 costituiscono la sezione narrativa, legata al Discorso della montagna (cc 5-7). Lì Gesù ha dato il suo insegnamento sulla natura del regno di Dio e sulla modalità della sua attuazione. Qui Egli opera per la realizzazione del regno, donato ai poveri, con i gesti della guarigione, della

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misericordia e del perdono. La serie dei prodigi operata da Gesù sugli infermi è interrotta da due inserzioni riguardanti le condizioni per un discepolato autentico (8,18-22) e la forza dell’invito di Colui che è venuto a chiamare i peccatori, perché imparino il primato della misericordia sul sacrificio (9,9-13). Tale duplice inserzione sembra rafforzare il valore simbolico degli episodi di guarigione già evidenziato da Marco, e orienta a leggerli come segni dell’intervento di Dio nel cammino del discepolo. Il testo di Mt 9,1-13 consente di cogliere il valore simbolico della guarigione del paralitico: come Matteo egli è messo in grado di alzarsi e di camminare, rispondendo all’invito del Signore. Per approfondire La guarigione fisica del paralitico acquista un valore simbolico per il suo collegamento all’atto della remissione dei peccati e alla chiamata di Matteo. Rispetto ai molti particolari del racconto di Marco (2,1-12) con il raduno in casa e il tetto scoperchiato, l’evangelista Matteo è assai più sobrio: egli procede ad una sorta di concentrazione cristologica sull’azione di Gesù e sulle sue parole, evitando la dispersione del lettore su troppi dettagli. 9,1-3: Presentano a Gesù un paralitico ed Egli lo perdona dai peccati attirandosi l’accusa di bestemmia da parte degli scribi: solo Dio infatti può rimettere i peccati. Gesù con tutta probabilità ha colto la situazione interiore del paralitico come blocco interiore, spirituale provocato da un permanere in situazione di peccato. La paralisi fisica, pur pesante da portare non è la condizione più grave che possa capitare all’uomo: molte persone, inferme fisicamente hanno una grande vivacità interiore che si esprime anche in una vitalità esterna, operativa e relazionale. Esiste anche una paralisi che si potrebbe definire come morale: al desiderio di fare il bene si accompagna la sofferta impotenza a realizzarlo per fragilità, debolezza e incostanza. Tale situazione è ben descritta da Paolo in Rm 7,7-25, dove egli afferma di compiere non il bene che vuole, ma il male che non vuole. Neppure questa paralisi è la più grave: essa infatti non impedisce la perseveranza della preghiera, mantenendo il credente in una relazione umile con il suo Signore, dal quale si attende fiducioso il compimento dell’opera, che egli non è in grado di realizzare con le sue forze. Ben più grave è la paralisi spirituale, quel blocco ancora più interno al cuore dell’uomo che ha perso la fiducia nel signore e si è lasciato andare alla vuota e triste rassegnazione, senza più speranza di cambiamento. Tale paralisi è riconoscibile dalla cessazione della preghiera, dall’interruzione della relazione con il Signore, per cui l’uomo è lasciato in balia di se stesso, alla deriva verso la disperazione e il cinismo. La paralisi spirituale è l’effetto della forza del peccato, rottura di relazione, isolamento generatore di sfiducia, che produce la morte interiore. L’uomo non ha da se stesso via d’uscita da tale situazione, come non è possibile uscire da soli da uno stato di morte: si richiede un intervento esterno e, soprattutto, quell’azione intima e vitale che solo Dio può operare. All’esterno sono di sostegno gli accompagnatori che portano il malato oltre il suo scoraggiamento e la sua impotenza. Nell’intimo deve invece operare la potenza della misericordia che perdona unilateralmente i peccati e restituisce al cuore la capacità di cedere, amare e sperare. Gesù opera il tal senso: individua il male più grave di quell’uomo e rimette i suoi peccati. 9,4-5: Gesù legge anche nel cuore dei suoi avversari e vorrebbe far breccia dentro di loro, vincendo la loro durezza. Con la guarigione fisica di quell’uomo Egli dà loro un segno della sua capacità di perdonare il peccato e del suo desiderio di perdonare anche i loro peccati, rinnovando il loro cuore paralizzato della durezza di un giudizio senza misericordia. 9,6-7: La potenza della parola di Gesù restituisce all’uomo paralitico la guarigione interiore della quale è segno il superamento della paralisi fisica. Solo l’amore di Dio offerto da Gesù ha la capacità di risvegliare il cuore dell’uomo, di infrangerne la durezza perché riacquisti la fiducia e la speranza nella sua capacità di operare il bene.

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9,8: La folla lì presente, a differenza degli scribi coglie l’intervento divino e nel timore rende gloria a Dio per aver dato agli uomini il potere soprannaturale di perdonare i peccati e di rinnovare l’intimo dell’uomo, guarendolo dalla sua paralisi spirituale. 9,9: Gesù vede un uomo seduto. Il pubblicano Matteo, persona in vista per il suo ruolo sociale, è inchiodato al tavolo del suo odioso mestiere. Solo l’invito di Gesù lo fa capace di alzarsi, come aveva fatto il paralitico. L’imperativo «séguimi», nella forma del presente, indica il comando a continuare un’azione già iniziata o a dare effettivo corso ad un’azione che si ha già il desiderio di compiere. Con tale appello Gesù mostra di aver colto il desiderio intimo di Matteo in ordine alla relazione con Gesù, che egli non ha in sé la forza di realizzare senza la parola di invito del Signore alla quale presta la risposta della fede. Alzarsi per seguire è la pronta risposta di Matteo, che mostra così di essere stato trasformato nell’intimo, di essere anch’egli guarito da quella sorta di paralisi che lo tratteneva alle proprie sicurezze. 9,10: Conseguenza di tutto ciò è il desiderio che Matteo ha di offrire ad altre persone nella sua stessa condizione di poter accedere all’esperienza da lui fatta. Egli ha compreso che Gesù non disdegna l’amicizia con i peccatori e invita altre persone come lui a entrare in relazione con Gesù. Tale accesso a Gesù si caratterizza come festa, banchetto di familiarità e gioia anche per un solo peccatore che si converte (Mt 18,12-14). Matteo diventa annunciatore e testimone dell’esperienza di conversione che lo ha coinvolto: con l’invito a mensa egli proclama l’avvento della misericordia. 9,11-12: la reazione dei farisei, come già quella degli scribi nel caso del paralitico, dà modo a Gesù di riformulare il suo annuncio di salvezza per i malati e i peccatori: Egli è il medico venuto appositamente per risanare la malattia dell’uomo. Peccato e malattia sono qui messi in analogia non perché vi sia una correlazione, ma per offrire un’immagine efficace della potenza di Gesù, capace di guarire il cuore dell’uomo. 9,13: Anche questo episodio si conclude, secondo lo stile di Matteo, con una citazione della Scrittura: «Misericordia voglio e non sacrificio» (Os 6,6). Con la frase del profeta Gesù si ricollega alla grande tradizione profetica che subordina l’agire presuntamente meritorio dell’uomo, compreso l’atto cultuale, all’esercizio della misericordia e del perdono che scaturiscono da un cuore esso stesso contrito, a motivo dell’amore sperimentato. Più volte la Scrittura pone tale primato (ed es 1Sam 15,22), dichiarando la preferenza che il Signore accorda al cuore contrito rispetto a qualsiasi offerta cultuale (Sal 51,17-19). La frase di Osea 6,6 è particolarmente cara a Matteo, che la cita anche in un’altra occasione (12,7) a mettere in guardia dal giudizio sull’agire altrui, al quale si è tentati di applicare la legge in modo estrinseco senza comprensione delle situazioni e delle motivazioni. Considerando il fatto che l’evangelista racconta qui la sua stessa conversione e l’inizio del suo cammino di fede, che lo fa anche annunciatore ai fratelli della misericordia di Dio da lui stesso sperimentata, si può forse affermare che la profezia citata è un’importante chiave di lettura dell’intero messaggio evangelico. Per continuare Sal 31: La confessione della colpa libera dalla paralisi interiore Sal 51: Un cuore contrito è sacrificio gradito a Dio 1Sam 15,22ss: L’ascolto della voce del Signore e il permanere in relazione con lui vale più di ogni sacrificio Gv 5,1ss: La guarigione del paralitico alla piscina probatica come segno del potere del Figlio dell’uomo di risuscitare i morti, di far ridonare vita ai cuori. Mt 8,18-22: Non è opera dell’uomo intraprendere il discepolato e perseverare in esso, ma iniziativa gratuita del Signore ed esperienza continua della sua misericordia.

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Mt 12,1-8: Imparare la pratica della misericordia più del sacrificio. Mt 18,12-14 (Lc 15): La festa di Dio per la conversione del peccatore. Gv 21,15-19: L’invito gratuito del Signore alla sequela dopo l’esperienza della misericordia.

X. Mt 10,1-15. Strumenti poveri e affidati dell’opera di Dio

Per comprendere il testo Il brano si può così suddividere: i vv. 1-4 che costituiscono la narrazione iniziale riguardante i soggetti della missione e i vv. 5-15 con le istruzioni relative alla missione. vv. 1-4. In questo passo si assiste alla chiamata dei Dodici, discepoli ed apostoli. Animato dalla tenerezza di Dio e spinto dall’urgenza della messe, Gesù concede ai «suoi dodici discepoli» il suo stesso potere di esorcista e di guaritore (cf. 9,35-38). I Dodici sono «discepoli» perché seguono Gesù loro Maestro, ma diventano «apostoli» perché sono da lui inviati per la missione, in perfetta continuità con quella condotta da lui. Qui si intravede già la Chiesa, fondata sui Dodici, i quali rappresentano perciò l’intero popolo di Dio, ricuperato nelle sue radici ideali (cf. le dodici tribù d’Israele). Nella lista con i nomi degli apostoli spicca al primo posto Pietro, al quale viene così riconosciuto un ruolo primaziale. Nel gruppo dei discepoli di Gesù passano in secondo piano le militanze ideologiche e religiose; così, ad esempio, si trovano insieme, a condividere anche la stessa missione, un collaborazionista dei Romani come «Matteo il pubblicano» e un nazionalista giudeo come «Simone lo zelota». vv. 5-15. Le indicazioni concrete per la missione dei vv. 5-15 riguardano i destinatari (vv. 5-6), il programma (vv. 7-8a), lo stile (vv. 8b-11) e il frutto (vv. 12-15). Nei vv. 5-6 l’ambito della missione degli apostoli è delimitato ad Israele, con l’esclusione dei Samaritani e dei pagani. I destinatari sono gli stessi del Gesù pre-pasquale, Re-Messia di Israele (cf. 15,24). Dopo la sua morte e risurrezione Gesù risorto, costituito Messia e Signore universale, invierà i suoi in tutto il mondo (cf. 28,18-20). Ancora una volta si sottolinea dunque la continuità tra la missione dell’apostolo e quella di Cristo: l’inviato non può che seguire le tracce di colui che lo invia. Il contenuto della missione è presentato nei vv. 7-8a ed è modellato su quella di Gesù, delineata in precedenza da Matteo nei cc. 5-7, per quanto riguarda la dottrina, e nei cc. 8-9. per quanto riguarda la prassi. I discepoli prolungano l’opera di Gesù, un «fare» che non si ferma alla semplice comunicazione verbale, ma diventa servizio efficace, che incide nella vita dei destinatari. Il Regno si rende dunque presente attraverso i segni di liberazione compiuti dagli apostoli. Nei vv. 8b-11 si danno indicazioni su come vada compiuta la missione. Anzitutto viene raccomandato uno stile di gratuità, con la rinuncia a qualsiasi provento dovuto alla loro opera, in quanto gli apostoli agiscono grazie al dono gratuito dei poteri di Gesù (cf. v. 1). Il messaggero deve essere così povero da non avere neppure ciò che sembra indispensabile per il viaggio: i sandali e il bastone. Tutto questo è richiesto per vivere la piena fiducia in Dio, che provvederà adeguatamente al suo «operaio». Si applica dunque il «fare del cuore» del Discorso della montagna a quello missionario (cf. 6,26.34). Il modo di agire gratuito e povero dell’apostolo è già missione. II discepolo divenuto apostolo, privo di ogni sicurezza, è un pellegrino itinerante che vive dell’ospitalità di chi lo accoglie, prestando, però, attenzione alla situazione del posto per scegliere una casa dalla quale potrà meglio irradiare il suo annuncio. Il frutto della missione, evidenziato nei vv. 12-15, è duplice e dipende dagli ascoltatori: quando essa è accolta produce pace, quando è rifiutata comporta giudizio. L’inviato non è messo al riparo dallo scacco e dal rifiuto, egli fa appello alla libertà dell’uomo, per questo il rifiuto del suo annuncio e

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della sua persona è sempre possibile. Il messaggio del Regno è un messaggio di «pace», in quanto salvezza di Dio, che diventa efficace per quelli che ne sono «degni», cioè l’accolgono. La casa e la città che rifiutano l’annuncio si espongono invece ad un giudizio di condanna più severo di quello riservato a Sodoma e Gomorra, luoghi simbolo per eccellenza di tutti i vizi propri del paganesimo.

Per approfondire

Il testo di 10,1-15 presenta il significato e la modalità della missione cristiana. Le indicazioni fornite se, da un lato, sono storicamente condizionate al tempo dell’invio dei Dodici, dall’altro, possono essere riferite, nel loro senso più profondo, alla missione di tutti i successori degli apostoli e dei discepoli. Il messaggero del Vangelo è chiamato da Gesù ed inviato per compiere l’opera di Dio per l’avvento del Regno con la povertà di mezzi, ma con la ricchezza della fiducia in Dio. Egli si farà portatore di una parola che divide, troverà l’accoglienza benevola di alcuni ma anche il rifiuto ostile di altri. In tutto il suo mandato il discepolo-apostolo sperimenterà quindi lo stesso destino del suo Maestro. Un importante criterio di discernimento dell’opera secondo Dio risiede dunque nella condizione povera e affidata dei suoi strumenti umani e nell’esiguità dei mezzi a loro disposizione.

Per continuare Mc 3,16-19; 6,7-9; Lc 6,14-16; 9,2-5; 10,3-12: La chiamata dei discepoli, costituiti nella relazione stabile con Gesù e il loro invio per la missione del Regno.

XI. Matteo 11,25-30. Il mistero rivelato ai piccoli: Gesù maestro degli umiliati e oppressi

Per comprendere il testo Il passo conclude una successione narrativa in cui la persona di Gesù è oggetto di aspre critiche da parte di differenti categorie di uditori e la sua opera è segnata da profonde incomprensioni. La sezione narrativa si apre con il capitolo 11, dopo la conclusione del discorso missionario. Gesù aveva inviato i suoi a portare l’annuncio del regno, con tutte le istruzioni sulla modalità povera e confidente di incontrare i destinatari dell’annuncio. Tra le indicazioni date ai discepoli Gesù aveva già preannunciato le incomprensioni, le chiusure e, addirittura, le persecuzioni che essi avrebbero incontrato sulla loro strada. La sezione narrativa immediatamente successiva mostra già in atto tale incomprensione e rifiuto della persona di Gesù e dell’annuncio del regno in cui egli ha coinvolto i discepoli. La prima reazione viene addirittura dal Giovanni il Battista (11,1-15). Egli manda dal carcere alcuni suoi seguaci a interrogare Gesù sulla sua missione, esprimendo un forte dubbio anche sulla sua persona: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (11,3). Il Battista attraversa la prova della fede: egli che aveva annunciato l’imminenza del giudizio di Dio con la scure posta alla radice degli alberi, si ritrova in carcere a differenza di molti di coloro a cui era destinata la sua severa ammonizione. Si sentiva forse tradito nella fiducia data al Signore e nella scommessa riposta sulle profezie: Colui che avrebbe dovuto intervenire nella storia inaugurando il «giorno della vendetta» si esprime invece con un linguaggio di misericordia e di perdono così generalizzato da rendere quasi indifferente l’osservanza della legge di Dio rispetto alla salvezza. Gesù rimanda i messaggeri consegnando loro in tutta risposta la profezia di Is 35,4-6 (11,5), dalla quale è stato

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tuttavia rimosso il riferimento alla «vendetta del nostro Dio» (Is 35,4). Gesù invita il Battista a pazientare, senza scandalizzarsi di lui, confidando che la vendetta del Signore non conviene a nessuno e che il compimento del suo giudizio è ritardato solo per consentire a tutti l’esperienza della misericordia. Partiti i messaggeri Gesù rimprovera di indifferenza tutta la sua generazione, paragonata a bambini svogliati, che non rispondono all’invito né del gioco né del lamento: essi non si sono piegati né alla parola penitenziale del Battista né all’annuncio gioioso del regno portato da Gesù (11,16-19). Di seguito il Signore si scaglia contro le città nelle quali ha maggiormente predicato e operato e che sono rimaste del tutto indifferenti alla sua missione: Corazin, Betsaida e soprattutto la sua Cafarnao. Il giudizio di Dio dunque ci sarà, ancora più duro di quello pronunciato dal Battista, ma solo per coloro che avranno rifiutato la sua parola di misericordia: saranno precipitati agli inferi, come Sodoma e Gomorra (11,20-24). Altre incomprensioni attraversano il capitolo 12: dalle due contestazioni sul sabato (12,1-8; 12,9-14) all’accusa di agire nel nome di Beelzebul, il capo dei demoni (12,22-37), sino alla richiesta di un segno da parte degli scribi, espressione di un generazione perversa e adultera che, nella sua chiusura e mancanza di fede chiede un segno, mostrandosi peggiore della Ninive convertita dalla predicazione di Giona (12,38-45). L’intera sezione narrativa si chiude con la richiesta dei parenti di Gesù, anch’essi increduli, che rimangono fuori dalla relazione con lui riservata a chi si fa discepolo (12,46-50). La sezione narrativa di Mt 11-12 registra dunque una generale incomprensione della persona e della missione di Gesù, con differenti gradazioni di atteggiamento che vanno dal dubbio all’aperta opposizione. Nel registrare un sostanziale fallimento della sua opera, con momenti di aperta denuncia ed espressione di amarezza, nel cuore della narrazione Gesù inspiegabilmente esulta rivolgendosi al Padre (11,25-30). Per approfondire Il passo di 11,25-30 si divide in due parti: si apre con l’esultanza di Gesù che si rivolge al Padre (25-27) e si chiude con l’appello di Gesù a tutti coloro che partecipano della sua umiliazione, perché possano partecipare anche alla sua consolazione e alla sua gioia (28-30). 11,25-26: I sapienti e gli intelligenti di questo mondo non hanno potuto conoscere il cuore di Dio; sono rimasti all’oscuro dei suoi segreti. L’accesso alla vita intima di Dio non è consentito alla sapienza umana né ad un sentire secondo la carne. Nella prosperità del successo l’uomo si chiude nella sua fallace sufficienza e non è in grado di comprendere ciò che è secondo Dio (Sal 49). Paolo coglie la netta opposizione tra la sapienza di questo mondo, incentrata sull’io che vuole accrescere se stesso, e la sapienza divina manifestata dal crocifisso che si dona per amore: ciò che è stoltezza e debolezza per il mondo è agli occhi di Dio sapienza e potenza (1Cor 1-2). Più avanti Gesù riprende il riferimento ai piccoli, ai bambini ai quali soltanto è consentito l’accesso al regno di Dio (19,13-15). È piccolo chi ha lasciato tutto per rispondere all’amore del Signore, accettando di confidare solo in lui e perdendo ogni preoccupazione di autoaffermazione e di autosalvezza (19,16-30). L’affidamento del bambino e del piccolo rivela la somiglianza più grande con il Dio che tutto si dona: il Padre si fa silenzio per generare il Figlio-Parola, mentre questi nasconde il proprio io per farsi pura e trasparente rivelazione del Padre. 11,27: Solo il Figlio che tutto ha ricevuto dal Padre e nulla possiede di suo, conosce realmente il Padre. Egli lo vede continuamente donarsi per dare vita al Figlio stesso. Il Figlio, nella povertà del suo ricevere tutto, conosce il Padre, oltre la veste più esteriore dell’onnipotenza, come povertà che si dona totalmente.

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11,28-30: Gesù invita a sé tutti coloro che sono affaticati e oppressi: si tratta forse in particolare di quanti portano il peso della fedeltà a Dio, restando con fatica sotto il giogo della Legge. Essa diviene un peso nella logica dell’osservanza imposta dai farisei, che poggia esclusivamente sulle capacità dell’io. Solo chi impara a confidare nel Signore, accettando la sua debolezza può sentirsi sollevato ed entrare nel riposo di Dio. Gesù si propone come maestro, capace di insegnare, ma solo a quanto sono povero e oppressi. Egli chiede a tutti costoro di imparare dalla sua umiliazione. il Signore non si propone come maestro per le sue doti di guaritore o uomo dei miracoli, né per la sua conoscenza delle Scritture e della volontà di Dio, in concorrenza con gli scribi e i farisei. Non è nemmeno a partire dalla sua umiltà intesa come virtù da acquisire (come la traduzione italiana «mire e umile di cuore» sembrerebbe lasciar intendere) che Gesù pretende di insegnare. Egli ritiene di poter insegnare a partire dalla sua umiliazione (sembra la traduzione più appropriata del termine tapeínôsis), dal disprezzo e dal rifiuto di coloro a cui si è rivolto, che gli ha fatto scoprire il vero volto del Padre, così nascosto e incompreso. Se la logica dell’osservanza farisaica è competitiva e carica l’uomo di doveri e prestazioni, per i quali egli tende a collocarsi sopra gli altri o ad assumere atteggiamenti di forzata esteriorità (23,1ss), il giogo imposto da Gesù è leggero e soave, perché chiede all’uomo di accettare la sua debolezza come affidamento pacificato a Colui che trasforma i cuori e li fa capaci di vivere la Legge nell’incoscienza della fede, senza che la destra sappia ciò che fa la sinistra (Mt 6,3). Per continuare Sal 49: La prosperità acceca, illude di bastare a se stessi, strutturandosi come sapienza fallace 1Cor 1-2: Paolo contrappone la sapienza mondana alla sapienza divina, nascosta e crocifissa Mt 23: Sull’esteriorità della sapienza mondana di scribi e farisei Sir 51,13-30: il sapiente invita alla ricerca della vera sapienza, sottoponendosi al giogo della sua istruzione con la docilità di chi ha bisogno di imparare. Mt 5,3ss: Ai poveri e miti è donato il regno di Dio che solo i piccoli possiedono (19,13-30).

XII. Mt 13,1-43: Il compiersi dell’opera di Dio nella fede paziente

Per comprendere il testo

Il testo di 13,1-43, tratto dal Discorso in parabole, può essere così strutturato: cornice redazionale (vv. 1-3a); parabola del seminatore (vv. 3b-9); teoria delle parabole (vv. 10-17); spiegazione del seminatore (vv. 18-23); parabola della zizzania (vv. 24-30); parabole del chicco di senapa e del lievito (vv. 31-33); prima conclusione (vv. 34-35); spiegazione della zizzania (vv. 36-43). vv. 1-3a. Nell’introduzione del Discorso è presentato il protagonista, Gesù, e i destinatari, la folla, in un rapporto definito visualmente dalla loro rispettiva posizione: Gesù sta «seduto», nell’atto d’insegnare, su una barca, mentre la folla che accorre attorno a lui sta «ritta», per ascoltare, sulla spiaggia. Agli ascoltatori Gesù parla in parabole, con un linguaggio che attraverso enigmi e simboli introduce in un mistero, quello che per l’evangelista Matteo è il mistero del Regno. vv. 3b-9. La parabola del seminatore presenta un uomo che va a gettare il seme senza preoccuparsi di scegliere il terreno. Così una parte del seme viene subito divorata dagli uccelli, un’altra non mette radici e si secca, un’altra ancora cresce bene ma è poi soffocata dalle spine. Soltanto una parte della semente cade sul terreno buono e produce un buon raccolto. Si ha una situazione di contrasto tra il fallimento di una maggioranza e la riuscita di una minoranza, ma il Regno dei cieli si afferma

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malgrado ogni resistenza e il frutto da aspettare, malgrado tutto, è grande. Inoltre, dal momento che alla fine si fa appello all’ascolto, si può identificare il «gettare il seme» con la Parola proclamata, mentre la sorte della Parola, accolta o rifiutata risiede nella corrispondente modalità dell’ascolto. vv. 10-17. Il passo costituisce un intermezzo nel quale Gesù spiega ai discepoli il perché del suo linguaggio parabolico con il quale insegna alla folla. Si opera in questo modo una netta separazione tra i discepoli e la folla. I discepoli hanno uno statuto privilegiato in quanto destinatari, per iniziativa divina, dei «misteri del Regno dei cieli». Essi sono coloro che hanno accolto in Gesù e nella sua parola questa misteriosa rivelazione della signoria di Dio e, trovando in lui il senso delle loro vite, vivranno della sovrabbondanza di tale senso. Per questo essi partecipano già all’epoca messianica e, di conseguenza, possono essere dichiarati da subito «beati». Sull’altro fronte sta la folla, che non ha accesso diretto ai misteri del Regno. Ad essa Gesù parla in parabole perché attraverso questo linguaggio per immagini sia manifesta la cecità e sordità spirituale (già prevista dal profeta Isaia), di quanto prestano solo un ascolto occasionale, fuori dal discepolato, nella speranza che alcuni siano attirati a Lui ed entrino nella sua cerchia. Infatti solo chi dà piena fiducia a Gesù si può decidere per il Regno e comprendere il mistero della sua paradossale piccolezza, che sarà pienamente rivelato nella morte e risurrezione di Cristo. vv. 18-23. La spiegazione della parabola del seminatore è una raccolta di quattro brevi allegorie che spostano l’attenzione dal destino del seme, come avveniva nella parabola stessa, alla qualità dei terreni. In base al primo terreno, l’ascoltatore riceve la «parola del Regno», quella di Gesù che annuncia e instaura il Regno, senza ritenersi interessato ad essa e non la comprende. Il secondo terreno richiama invece colui che, non essendo ben radicato nel Signore, di fronte alla più lieve delle persecuzioni, soccombe. Nella situazione del terzo terreno si trova l’uomo che, preso dalle preoccupazioni materiali, non riesce a portare frutto nella sequela di Cristo. L’ascoltatore ideale, rappresentato dal terreno buono, è infine colui che sperimenta una comprensione della parola di Gesù non soltanto intellettuale, ma esistenziale, capace di maturare nel cuore e portare ad un agire che dà frutto secondo la misura di ciascuno. vv. 24-30. Viene qui narrata la parabola della zizzania, segnata dal contrasto tra la semina del seme buono, operata dal padrone del campo e quella del seme cattivo, fatta dal suo nemico. La contrapposizione prosegue nel dialogo tra proprietario e servi sull’origine e destino del grano e della zizzania. Alla proposta di sradicare la zizzania si oppone il padrone con la sua decisione di aspettare la mietitura per separare e raccogliere il grano. Il Regno di Dio si manifesta così quale realtà contrastata, circondata e assalita dal maligno: esso tuttavia si affermerà. Dio non distrugge già il male, perciò nel corso della storia umana i discepoli devono coltivare una paziente fiducia, accettare che anche nella comunità il bene e il male si trovino mescolati ed attendere il giudizio ultimo che non spetta a loro. vv. 31-33. Le parabole del chicco di senapa e del lievito si basano sul contrasto tra l’inizio piccolo ed insignificante e un momento finale eccezionalmente grande. Malgrado la piccolezza del chicco di senapa e l’inapparenza del lievito, che lo rappresentano, il Regno di Dio viene infallibilmente e questo avvenimento è oggetto di stupore e di sorpresa. vv. 34-35. Costituiscono una prima conclusione, in cui Matteo cita il Salmo 78 per spiegare l’uso delle parabole. Esse rivelano il piano di Dio nascosto sin dalle origini del mondo e Gesù stesso, Figlio di Dio, nel quale il Regno si attua attraverso la croce e la risurrezione. vv. 36-43. Con la spiegazione della parabola della zizzania, concessa ai soli discepoli, si passa, rispetto ai vv. 24-30, dalla parabola alla allegoria e dall’invito alla pazienza all’esortazione a confidare nel giudizio finale. Il figlio dell’uomo, Gesù stesso, semina il mondo con i «figli del

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regno», contrapposti ai «figli del male». Questa divisione è annuncio della separazione e del giudizio finali, per questo il discepolo, già da oggi, deve operare la buon scelta. Per approfondire Il brano di 13,1-43 propone il «fare» del discernimento, che consiste nel distinguere il Regno di Dio da ciò che non lo è, e decidersi per esso già da ora. Il Discorso in parabole mette di fronte ad una decisione personale per o contro il Signore, ma diventa anche fonte di discernimento per una Chiesa che si trova a sperimentare la divisione, interna ed esterna ad essa, tra coloro che accolgono e quelli che rifiutano la parola di Gesù. L’avvento di Dio è ostacolato, non solo dalle prove esterne, ma anche dal cuore dell’uomo interiormente indurito per la sua mancanza di affidamento alle promesse di Dio. Nella continuità di un ascolto in cui accoglie la Parola seminata e nella pazienza perseverante con la quale custodisce il mistero dell’opera divina che cresce in lui, il discepolo ha il segreto del compimento, che consegue il frutto sperato.

Per continuare

Mc 4,1-20.30-34; Lc 8,4-15; 13,18-21: Il mistero del Regno ostacolato dall’incredulità e accolto e fatto fruttificare nella pazienza della fede perseverante.

XIII. Mt 13,44-52: Lo scriba-discepolo: scommessa e rinuncia per il Regno. Per comprendere il testo Questi versetti costituiscono la parte terminale del Discorso in parabole (13,1-54), il terzo grande insegnamento di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Il mistero del «Regno dei cieli» è l’oggetto centrale del discorso in parabole: un mistero che viene svelato a coloro che, intenti ad ascoltare Gesù, perseverano nell’ascolto facendosi così discepoli. Il brano si compone di tre sequenze: i vv. 44-46 con le due parabole del tesoro e della perla, i vv. 47-50 con la parabola della rete gettata nel mare, i vv. 51-52, con il riferimento conclusivo allo scriba divenuto discepolo del Regno. vv. 44-46. Le prime due parabole esclusive di Matteo, sono costruite con un marcato parallelismo ed assai simili nel contenuto: da una parte un tesoro trovato per caso, dall’altra una perla preziosa trovata da un esperto ricercatore. La prima parabola evidenzia il fatto che il tesoro del Regno si lascia trovare una prima volta del tutto gratuitamente a chi non lo sta direttamente cercando. Il contadino che lavora il suo campo non sta certamente cercando il tesoro, ma lo rinviene in modo pressoché fortunoso, ne riconosce subito la preziosità, ma deve tenerlo nascosto: potrà conseguirne pieno e sicuro possesso solo dopo aver comprato il campo a prezzo di totale rinuncia ai suoi averi. Il Regno è qui rivelato da Gesù come dono gratuito di Dio agli uomini, a tutti gli uomini. Un dono così prezioso da costituire la fortuna di tutti coloro che, riconoscendolo si dispongono ad accoglierlo, ad ogni costo. La decisione dell’uomo avviene nella gioia: non si sottolinea la tristezza per quanto si perde ma l’entusiasmo nel liberarsi di tutto per non farsi sfuggire l’occasione della vita, per la quale veramente merita rischiare tutto per tutto. La seconda parabola si sposta nello scenario del ricco mercante, esperto ricercatore e trafficante di perle preziose. Alla casualità provvidenziale del rinvenimento del tesoro, si oppone qui l’intenzionalità di una ricerca da parte di chi ha già fatto la scoperta di ciò che vale, ed è divenuto

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capace di distinguere ciò che è vile da ciò che è prezioso. Il mercante scommette al rilancio, disposto a perdere le perle già trovate per quella più preziosa che non vuol lasciarsi sfuggire. In entrambe le parabole si sottolinea la comune disposizione alla rinuncia di ciò che vale poco, per possedere ciò che è veramente prezioso. Esse riguardano non principalmente il discernimento della preziosità del Regno, ma la pronta determinazione ad acquistarlo ad ogni costo, sempre disposti a scommettere al rilancio. Colui che indugiasse nella decisione o rinunciasse a vendere quello che ha per paura di scommettere sul valore del Regno, sarebbe realmente stolto. vv. 47-50. La parabola della rete, nel contesto del capitolo 13, fa coppia con la parabola della zizzania: anch’essa infatti si riferisce al giudizio finale dove avverrà un discernimento una separazione tra buoni e cattivi. Se nella parabola della zizzania l’accento era posto sulla mescolanza e sulla coesistenza dei giusti con i malvagi, in quella della rete la sottolineatura è posta sulla loro separazione nel giorno del giudizio universale. C’è un tempo per la pesca, in mare aperto, ed un tempo per la scelta del pescato, sulla riva. L’intervallo temporale tra pesca e selezione è la condizione di possibilità per «decidersi» per il Regno. vv 51-52. Presentano l’immagine, cara a Matteo, dello scriba di Israele divenuto discepolo di Cristo. Concreto ricercatore del Regno è il Sapiente, disposto a rinunciare a qualunque cosa pur di dedicare il proprio tempo ad investigare le Scritture per incontrare la Sapienza e stringere con Lei una relazione personale. Questi è capace di confrontare le parole della Scritture per farne emergere in Cristo il significato compiuto per la sua vita. Egli estrae dal tesoro della Scrittura la novità del Regno, compresa alla luce delle promesse antiche.

Per approfondire Alla luce di queste parole di Gesù, il discepolo è chiamato ad essere come uno scriba fattosi discepolo. Nello scoprire il tesoro che è Cristo, nell’accettare di seguirlo egli dà pienezza di compimento alla sua vita. È come un padrone di casa che trae dalla dispensa il nuovo e l’antico. Non si può ottenere e comprendere il compimento se non si accolgono le promesse fatte, come è stolto non aprirsi alla novità del regno anche se per acquistarlo è necessario vendere quanto si aveva. Vendere tutto, privarsi di ogni certezza, di ogni ricchezza rassicurante è la condizione necessaria per guadagnare infinitamente di più. Saggio è colui che intuisce il guadagno e non indugia nel decidersi per il Regno. Il discernimento del Regno è all’inizio un fiuto intuitivo del tesoro del Regno, che diventa, nella continua scommessa del lasciare, vera saggezza esperienziale, capace di distinguere ciò che è prezioso. La Chiesa è chiamata a vivere l’esperienza dello scriba fattosi discepolo: essa invita tutti a fissare lo sguardo sul Cristo ed indica ad ogni uomo la preziosità della relazione con Lui. Questa relazione è la vera e propria fortuna, antica nella sua novità e nuova nella sua radice antica. Un autentico spirito di riforma non può che radicarsi in questo discernimento: Cristo e la nostra amicizia con lui, per il quale è ben giusto vendere tutto al fine di conquistarlo sono l’autentico oggetto della nostra ricerca e delle nostre attenzioni? Quali ostacoli impediscono o intralciano il discernimento del tesoro e della perla e ritardano la decisione del conseguimento? Per continuare 1Re 3,5-12; Sal 119,65-80: Domandare la Sapienza concessa solo come dono dall’alto. Pr 1-4; 8-9: Gli inviti della Sapienza e la disciplina per ottenerla. Mt 9,9; Lc 19,1-10: Decidersi per il Regno come risposta all’appello della misericordia. Ger 15,19 ; Mt 15,1-20; Fil 3,1-4,1: Discernere ciò che è vile e ciò che è prezioso.

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XIV. Matteo 16,13-20 Il Figlio del Dio vivente rivelato dal Padre

Per comprendere il testo La pericope della confessione di fede di Pietro si inserisce in un segmento narrativo che riporta ancora opposizioni da parte dei farisei e sadducei, che chiedono un segno dal cielo (16,1-4). Anche i discepoli sembrano lasciarsi contaminare dal lievito dei farisei e sadducei, mostrando un cuore indurito, poco disponibile alla scommessa dell’affidamento (16,5-12). La sezione cosiddetta dei pani, immediatamente precedente (14,13-15,39), rivela l’attenzione di Gesù per i Giudei e per i Pagani, tutti destinatari della sua carità che si offre come pane spezzato e vita donata. Gesù fa saltare ogni schema di presunta appartenenza a Dio fondata sui criteri solo esteriori di chi confida nell’apparenza per affermare che la vera appartenenza a Dio passa per la conversione del cuore (15,1-20). L’incontro con la cananea contribuisce ad aprire Gesù alla missione ai pagani, riconoscendo loro una fede autentica. Il ministero di Gesù si sposta sensibilmente dall’esclusivo orientamento alle pecore perdute di Israele ad un paganesimo che la fede manifesta come discendenza di Abramo. Il travaglio di Gesù è profondo: Egli mette in discussione gli orientamenti fondamentali della sua missione e intravede la croce come meta di tutto il suo viaggio (16,21-28). Tra le opposizioni dei Giudei e l’apertura dei pagani Gesù sembra mettere in discussione la sua opera e il senso vero della sua identità messianica. Ciò che le folle pensano di lui alla fine si rivela fallace: egli interroga i discepoli a cercare conforto nella loro parola di riconoscimento. Per approfondire Chiamando i discepoli in disparte, nella lontana regione di Cesarea di Filippo, Gesù si rivolge ai discepoli chiedendo loro di esprimersi sulla sua identità e sulle loro aspettative riguardo a lui. 16,13-14: La domanda di Gesù si indirizza anzitutto all’opinione della gente, per la quale il Figlio dell’uomo è Elia o Geremia o, addirittura, il Battista redivivo. Tale era anche l’opinione di Erode che aveva fatto uccidere il Battista e, al sentire di Gesù, lo temeva risuscitato (14,1-2). L’opinione comune coglie l’identità messianica di Gesù nella linea di un certo messianismo: quello espresso dai principali profeti di Israele: Gesù è ai loro occhi non il messia regale-davidico, ma l’uomo della parola venuto a rivelare la via di Dio. 16,15-16: I discepoli sono interpellati direttamente. Gesù non si accontenta di risposte generiche e anonime, che riportano l’opinione comune: egli desidera essere riconosciuto dai suoi amici. Forse ancor più egli sembra cercare conforto e luce nella loro risposta, in un momento di grande travaglio interiore. Non ha più udito la voce del Padre, come al Giordano e forse ha visto allontanarsi il conforto della sua presenza. In un momento di solitudine interiore, in attesa della voce di rivelazione e riconoscimento paterno sul monte della trasfigurazione (Mt 17,1-13), Gesù sembra cercare nel riconoscimento dei suoi amici una luce sulla sua stessa identità. Pietro lo riconosce «Figlio del Dio vivente». 16,17: Gesù sembra udire nuovamente, attraverso le parole di Pietro, la voce del Padre che gli si rivolge in uno slancio di compiacimento paterno. Proprio quel Gesù che è disprezzato e rifiutato dal popolo dei Giudei è riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio. In tale riconoscimento Gesù sembra cogliere la tenerezza del Padre, che si compiace dell’abbassarsi del Figlio, come al Giordano (3,13-17), sino all’umiliazione del rifiuto da parte degli uomini. L’affermazione capitale di Pietro non procede da un’intuizione frutto della carne e del sangue, ma dal Padre stesso che opera in lui: riconoscendo il Figlio Pietro, per somiglianza, fa anch’egli esperienza di una generazione interiore da Dio.

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16,18-20: In risposta Gesù riconosce Pietro come roccia, sostegno affidabile sul quale può essere edificata la nuova comunità dei credenti. Gesù si è sentito intimamente confermato da Pietro, tanto da udire in lui la voce del Padre; egli a sua volta conferma Pietro nel suo ruolo di fondamento solido alla fede dei credenti. Se Pietro continuerà a guardare al Cristo e riconoscerlo Figlio di Dio nella sua umiliazione; se Pietro non cesserà di guardare al crocifisso come rivelazione piena di Dio, allora egli potrà affidabilmente sostenere la fede dei discepoli contro ogni assalto demoniaco. Nulla possono le porte degli inferi dinanzi all’umile riconoscimento della debolezza come luogo della presenza di Dio. A Pietro è affidato il potere di sciogliere e legare, il potere di aprire e chiudere l’accesso al regno nella misura in cui egli guarderà al Cristo, riconosciuto Dio nella sua debolezza crocifissa e nel suo apparente fallimento umano. L’accesso al regno passa da questo riconoscimento in cui l’uomo si fa piccolo e rinuncia alla vana sapienza della carne e del sangue. Per continuare Gv 2,13-22: Gesù, alla maniera di Geremia (Ger 26,14-15), offre il suo corpo in potere degli uomini quale segno che Dio parla e agisce in lui. 2Re 2,1-18: Elia è rapito al cielo come ad annunciare la promessa di un suo ritorno. Egli è atteso nel tempo finale per preparare i cuori all’accoglienza del messia di Dio (Ml 3,23-24). Lo stesso Giovanni Battista è riconosciuto l’Elia del tempo finale (Mt 3,1-12; 17,10-13; Lc 1,17). Mt 26,33-35.69-75: Pietro confida nelle sue forze e coglie tutta la sua debolezza: tradisce e rinnega il suo Signore e si lascia ricondurre al pentimento dalla memoria delle sue parole. Gv 21,15-19: Pietro, riabilitato da Gesù, esprime di nuovo quel riconoscimento e proposito di amore che lo condurrà a seguirlo sino al dono della vita.

XV. Mt 18,1-35. Il discernimento dell’opera di misericordia per i piccoli e i fratelli

Per comprendere il testo Il capitolo 18 contiene il quarto Discorso di Gesù nel Vangelo secondo Matteo, incentrato sull’esperienza di vita comunitaria a cui i discepoli sono chiamati: è il Discorso ecclesiale. In esso sono ravvisabili due sezioni: i vv. 1-14, incorniciati dal riferimento inclusivo al termine «piccoli», ed i vv. 15-35, racchiusi in analoga inclusione dal termine «fratelli». Il riferimento ai piccoli è trasversale a tutta la prima sezione, mentre quello al rapporto tra fratelli domina la seconda sezione. Ciascuna di esse si chiude con una parabola. vv. 1-14. Il Discorso prende avvio dalla domanda dei discepoli su chi sia il più grande nel Regno dei cieli. La risposta di Gesù, con il riferimento al bambino, ribalta totalmente i loro pensieri mondani (vv. 1-5). I piccoli sono al centro della comunità: si deve evitare di scandalizzarli operando una costante diminuzione di sé (vv. 6-9); si deve inoltre ricercare con cura il piccolo che si perde, lasciando indietro tutto il resto (vv. 10-14). vv. 15-35. Riguardano il modo di vivere la fraternità come correzione del fratello (vv. 15-20) e come capacità di perdonarlo senza porre limiti o condizioni, alla maniera del Padre celeste (vv. 21-35). La correzione del fratello deve procedere con discrezione e gradualità, coinvolgendo dapprima due o tre, poi l’intera assemblea (ekklesia). Questa, se non ascoltata, può arrivare alla misura estrema dell’esclusione, perché il fratello si ravveda. La preghiera di due o tre, riuniti nel nome di

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Cristo, può tuttavia scongiurare questo estremo rimedio, ottenendo presso Dio quanto era fallito nel precedente tentativo. Il perdono del fratello non ha limiti né condizioni. È gratuito come il perdono del Padre celeste, che resta tuttavia condizionato alla misericordia verso il fratello. Se non si ha misericordia verso il proprio fratello, non è tanto il Padre che ritira il suo perdono, quanto piuttosto il debitore che dimostra di non averlo realmente accolto. Entrambe le parti si chiudono con un riferimento al Padre celeste, mentre al centro di tutto il capitolo spicca il v. 20: «Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Questa frase segna anche il centro tematico del Vangelo di Matteo, riecheggiando l’espressione Dio-con-noi», che riprende la grande inclusione di tutto il Vangelo. All’inizio Gesù è annunciato come l’Emmanuele, il «Dio-con-noi» (1,23), e alla fine Egli conferma tale verità con la sua promessa solenne: «Ecco, io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (28,20). Qui in posizione centrale nel Vangelo, Gesù dice: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Gesù sta in mezzo. Per la concezione biblica è Dio che sta in mezzo al suo popolo. Gesù, il «Dio-con-noi» vive in mezzo ad una comunità di piccoli e fratelli: piccoli nei rapporti col mondo e fratelli nei fra di loro.

Per approfondire

Il comandamento fondamentale dell’amore fa da collante per le due parti del discorso: il discepolo di Gesù, cosciente della sua inadeguatezza, indigenza e piccolezza, è aperto e attento ai fratelli che sono nella debolezza e rischiano di perdersi. L’aiuto e l’amore fraterno si esprime così anche nella correzione dei fratelli che sbagliano e nella costante disponibilità al perdono. Ora la capacità del perdono e la sapienza nel correggere il fratello scaturisce da un discernimento. Discernere la propria vita ponendola nel segno della sottomissione alla Parola di luce. Alla luce della parola si comprendere di essere amati in quanto peccatori perdonati. Dalla gioia e dalla gratitudine dello scoprirsi amati e perdonati dal Signore, scaturisce la capacità e la possibilità del perdono e della correzione fraterni. Un autentico spirito di apertura al Regno nella sua realizzazione ecclesiale conduce il discepolo a sottomettere con fiducia la propria vita al Signore e alla luce della sua parola: questo significa essere piccoli come bambini. Il piccolo fatto discepolo è colui che si lascia fare dal Signore. Questa è la via sulla quale egli incontra la misericordia di Dio, che lo sorprende ricolmandolo di una gratitudine immensa. Ma è anche la via che lo conduce verso i fratelli, nell’attenzione alle loro debolezze. La Chiesa è dunque per Matteo una struttura che consente ai piccoli di camminare insieme senza perdersi, come fratelli che vigilano l’uno sull’altro. Essa realizza il progetto autentico dell’umanità originaria che fallì in principio per l’invidia tra fratelli e che il Signore Dio tentò di ricostruire, affidando il popolo alle premure dei profeti sentinelle. Nella Chiesa matteana tutti sono costituiti profeti-sentinelle gli uni per gli altri, mediante una reciproca e misericordiosa vigilanza, frutto dell’esperienza della bontà del Padre davanti alle debolezze di ciascuno. Per continuare Mt 19,13-15: I piccoli a cui appartiene il Regno dei cieli. Sal 133: È bello che i fratelli vivano insieme. Gen 4,9; Ez 33,7-9: Custodi del fratello. Mt 7,1-5; Lc 6,36-38; Ef 4,20-32: La gratuità della misericordia. Mt 5,23-26; 6,14s: La riconciliazione con il fratello. Rm 13,8-10: L’amore del prossimo come primo comandamento.

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XVI. Mt 25,14-30. L’opera del Regno come scommessa coraggiosa sul dono di Dio.

Per comprendere il testo Questa parabola fa parte dell’ultimo discorso di Gesù in Mt, il più esteso dopo quello della montagna. Il clima nel quale si ambientano questi insegnamenti di Gesù è di grande tensione. Strettamente collegato con la precedente requisitoria di Gesù contro gli scribi e i farisei (c. 23), questo suo discorso non si rivolge più indistintamente alla folla ma ai discepoli, invitati a vigilare e a perseverare nelle tribolazioni, per essere trovati pronti alla venuta del Signore nella pienezza del tempo. La parabola dei talenti insieme a quella del servo costituito amministratore e a quella delle dieci vergini, forma come una trilogia che introduce e prepara la visione del giudizio finale (25,31-46). Ogni parabola ha un punto focale dal quale scaturisce la luce necessaria per la comprensione, e questa dei talenti lo ha probabilmente nel comando dato ai servi di utilizzare il denaro loro affidato, o almeno di depositarlo presso banchieri affinché frutti negli interessi. Il primo servo riceve cinque talenti e li impiega secondo la parola del padrone e così il secondo, che ne aveva ricevuti due. Il terzo servo, invece, che ne riceve uno, ha paura e non lo impegna come gli aveva detto il padrone, ma fa una buca e lo sotterra. Egli ha ricevuto meno degli altri, ma non ha comunque ricevuto poco: un talento equivale infatti a seimila denari, la paga di seimila giornate lavorative. Dei talenti affidati si dice inoltre che rappresentano tutte le sostanze del padrone (lett. «tutta la sua vita»): il padrone dimostra una assoluta fiducia nei suoi servi, mettendo nelle loro mani tutto ciò che possiede. I primi due servi al ritorno del padrone, senza aver fatto nessuna fatica gli consegnano i talenti duplicati. Essi hanno fatto una cosa sola: hanno ascoltato il comando ricevuto e sono stati disposti a rischiare una perdita nell’investimento, convinti della forza intrinseca al dono ricevuto, che da se stesso raddoppia (cinque ne danno cinque, due ne danno altri due), purché l’uomo accetti la scommessa dell’investimento-affidamento. Per il terzo servo le cose sono diverse. Egli non ha obbedito e ciò nonostante è quello che ha faticato più degli altri: ha fatto una buca, ha seppellito il talento, poi lo avrà certamente sorvegliato con apprensione, per paura che glielo rubassero. Questo servo alla fine accusa il padrone di essere spietato. Il tenore delle sue rimostranze è del tipo: «Io ho avuto paura di te perché sei duro. Sono più giusto di te eccoti il tuo, lasciami in pace perché io non pretendo niente da te mentre tu pretendi il doppio da me: sei disonesto». Al contrario, il padrone si è dimostrato altamente generoso e assolutamente fiducioso nell’opera dei servi, l’ultimo dei quali non ha capito la generosità fiduciosa del dono e la forza fruttificante che avrebbe dispiegato la sua risposta generosa e fiduciosa nell’investimento. Per approfondire L’azione della grazia e del dono di Dio funziona esattamente come il denaro, che dispiega la sua forza soltanto nel movimento che si innesca nel rischio di lasciare e nell’accettazione di un intervallo di pura perdita tra l’atto della cessione e quello della riscossione. Il tempo che resta sino al ritorno del Signore è tempo di scommessa generosa e fiduciosa nel dono di Dio, nella forza dello Spirito Santo che Egli ha lasciato come suo unico bene («tutta la sua vita»). La Chiesa, comunità dei discepoli, deve scommettere sui talenti ricevuti in custodia dal suo Signore, donandoli in pura perdita, con generosità, confidando nella forza del dono stesso, che solo la fiducia dell’uomo rende operante. È realmente sapiente colui che vive una reale e fattiva sottomissione alla parola del Signore che chiede di impiegare-donare il patrimonio affidato. L’obbedienza a questo comando non è mortificante né opprimente, ma capace di realizzare l’ingresso nella gioia vera. Una chiesa che si

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fa sopraffare dalla paura resta immobile e, così facendo, si crea una falsa immagine del suo Signore ed ostacola l’attuazione della sua opera di salvezza. Per continuare Sal 112: Beato l’uomo che trova gioia nei comandamenti di Dio. Gen 3,1ss; 4,1-16; Sap 2,23ss: Il possesso e l’invidia ostacolano il movimento del dono. Mt 19,16-30; 22,34-40: La scommessa fiduciosa di colui che lascia per amore. Rm 12,1-21: La fruttificazione del dono di Dio nella comunità dei credenti.

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Appunti ________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

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