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BUBER UMANESIMO EBRAICO

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ISBN 978-88-7018-

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Martin Buber

Umanesimo Ebraico

a cura di

FRANCESCO FERRARI

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Il curatore desidera ringraziare Sophia Maddalena Fazio per la preziosa colla-borazione nella stesura delle traduzioni dei testi del presente volume. Nel cin-quantesimo anniversario della scomparsa del pensatore, desidera altresì dedica-re la curatela della presente antologia ai compagni della Martin-Buber-Gesell-schaft, con i quali la memoria del filosofo vive, non solo nella lettera, ma anzi-tutto nello spirito.

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INTRODUZIONE

Umanesimo e antiumanesimo nel nostro tempo. Attualità del pensiero di Martin Buber

a cinquant’anni dalla morte

Cinquant’anni fa, il 13 giugno 1965, ci lasciava MartinBuber. Quale modo migliore di onorare la sua figura in unasimile ricorrenza, se non quello di mostrare quanto il suo pen-siero sia vivo, e sempre e di nuovo forte sia la sua attualità?Quale plesso di temi individuare, quale chiave ermeneuticareperire a tal fine? Il curatore del presente volume ha scelto unsintagma coniato da Buber medesimo, e da questi proposto a piùriprese, di volta in volta rielaborato, come un tema con varia-zioni orchestrato progressivamente nel suo iter di vita e di pen-siero, un sintagma che, nondimeno, racchiude una polarità, cheognora avrebbe accompagnato il filosofo lungo tale percorso:Umanesimo ebraico.

La figura di Martin Buber è entrata nei manuali di storiadella filosofia sotto almeno due etichette: “pensiero dialogico”e “filosofia ebraica del Novecento”. E sebbene rubricazionisimili siano tanto inevitabili quanto depauperanti, per lui comeper qualunque pensatore, resta vero come questi avesse compre-so il carattere più profondo, specifico e originario dell’esistenzaumana nell’evento del dare e ricevere la parola, tanto tra uomoe uomo quanto tra l’uomo e il divino, e proprio in un tale carat-tere “parlato” vide la dimensione più profonda e peculiare dellaScrittura. Per quanto l’uomo fu sempre il termine ultimo delfilosofare buberiano, il suo pensiero non fu mai antropocentri-co. Con la formulazione di un “a priori della relazione” nellepagine di Ich und Du (1923) egli comprese la dimensione del-l’incontro e della ricettività come fondamentali per l’essere

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SOSTITUIRE CON Ma per
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umano. Tale apertura originaria alla relazione trovò espressionein una concezione della realtà come coappartenenza, e nellacomunità solidale (nel presente volume, si vedano testi comeDrei Sätze eines religiösen Sozialismus, 1928; Bemerkungen zurGemeinschaftsidee, 1931) il luogo della sua auspicata realizza-zione. Laddove il problema di Buber fu sempre quello dell’uo-mo, il tentativo di offrirvi una risposta avrebbe assunto, nei sag-gi qui raccolti (e non solo), le sembianze di un vero e proprioHumanismus.

Nella sua originaria apertura all’alterità, l’uomo entra inrelazione con il totalmente Altro: ma il totalmente Altro è altempo stesso, in Buber, il totalmente Presente. L’incontro con ildivino, nella pienezza dell’ora terrena, fu vissuto e interpretatodal filosofo all’interno di un traditum, quello dell’ebraismo, manella libertà dello spirito, e non nella passiva osservanza di una“religione”. Il modo in cui Buber lesse e visse la mistica chassi-dica, la Scrittura e il sionismo ce ne offrono la testimonianza. Laprima fu apprezzata dal filosofo, fin dai primi anni della suagiovinezza, come la possibilità di una religiosità della relazione,che si attesta nel rendere ogni legame con la creazione un gestosacrale. La seconda valse invece per lui come la testimonianzadi una serie di eventi d’incontro tra l’umano e il divino nel cor-so della storia, eventi in cui l’uomo esperisce il ricevere la paro-la, e apprende, nel rispondere, il valore della responsabilità. Ilterzo, quindi, fu fatto proprio da Buber lungo i binari di un sio-nismo culturale antitetico a quello di Herzl, che lo porterà quin-di, a quasi mezzo secolo di distanza, a posizioni recisamente cri-tiche nei confronti dello Stato di Israele.

Pensatore atipico e soprattutto atopico, figura complessa enon di rado contradditoria, Buber fu testimone del più breve epiù crudele dei secoli. In prima persona, o mediante le vicendedi amici e prossimi più cari, lo attraversò, conoscendo le sedu-zioni estetizzanti dell’impero asburgico fin de siècle e i sommo-vimenti rivoluzionari alla caduta della Germania guglielmina, ifebbrili fermenti della Repubblica di Weimar e i giorni senzaluce del totalitarismo nazionalsocialista, il Secondo conflittomondiale e la Shoah, la nascita dello Stato di Israele e il pren-

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dere forma della cosiddetta Guerra fredda. Con il temperamen-to del genuino uomo della conoscenza, Buber vide avanguardieartistiche e rivolgimenti politici senza precedenti, ma fu postosoprattutto di fronte a orrori per i quali non esistevano parole, emen che meno categorie storiografico-filosofiche. Egli assistet-te al tracciarsi, e quindi al compiersi, della parabola che avreb-be condotto dalla Morte di Dio alla Morte dell’uomo – da lui invero già presagita fin dagli anni Venti, come attesta esemplar-mente la conferenza Monologisches und dialogisches Leben.Un’incrollabile fede nell’umanità, un doloroso amore della vitae dell’essere umano lo avrebbero sempre accompagnato e soste-nuto nel suo difficile itinerario. Questa fede ha un nome, confe-ritole da Buber medesimo: Umanesimo ebraico. Umanesimonon significa qui, si badi bene, coltivare le belle lettere in unaconcezione erudita o salottiera del sapere. Implica invece, oggicome nei cinquanta, settanta, ormai quasi novant’anni che ciseparano dagli scritti qui presentati, imparare a distinguere l’u-mano dall’inumano. Come Buber avrebbe riconosciuto in occa-sione del conferimento del Premio della pace dei librai tedeschi,attraverso il discorso Das echte Gespräch und die Möglichkeitendes Friedens (1953), un fronte attraversa le visioni del mondo,le ideologie e gli schieramenti su cui s’arroccano gli uomini nelcorso della storia, e, tanto nel momento in cui prendeva la paro-la Buber quanto oggi, deve essere riconosciuto: è il fronte checontrappone l’Homo Humanus all’Homo Contrahumanus. Que-sto è il vero luogo di uno scontro il cui epicentro è stato invece,con fatale errore, rinvenuto sempre e di nuovo nella diversitàculturale, religiosa, ideologica. La vera battaglia non è tra Über-menschen (di fatto: Widermenschen) e Untermenschen (comecredeva l’ideologia nazionalsocialista), né tra americani e sovie-tici, né ancora, oggi, quella tra l’Occidente cristiano e l’Orientemusulmano. Il vero conflitto contrappone piuttosto Umanesimoe Antiumanesimo.

Torniamo al sintagma Umanesimo ebraico. Come ricono-sce Buber medesimo in apertura dell’omonimo saggio del 1941,esso è strettamente relato con quel Rinascimento ebraico (Jüdi-sche Renaissance, 1901) che costituiva la parola d’ordine del

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suo attivismo cultursionista nei primissimi anni del secolo. Larinascita dell’uomo, che costituì il principio fondamentale perl’autoaffermazione dell’Età moderna, veniva qui auspicata daBuber come una rinascita dell’ebraismo sita aldilà dei naziona-lismi e degli interessi di partito. Concretamente, questo signifi-cava la riscoperta e l’appropriazione dell’identità ebraica, anzi-tutto mediante una serie di iniziative pedagogiche e culturali. Lavalorizzazione della poesia, dell’arte visiva e del teatro ebraicosi resero visibili con la fondazione di una casa editrice ebraica(lo Jüdischer Verlag, con sede a Berlino); un periodico comeDer Jude, diretto da Buber stesso, diede voce all’ebraismo tede-sco negli anni del Primo conflitto mondiale e della Repubblicadi Weimar; l’Università ebraica di Gerusalemme fu fondata nel1918 grazie a un’iniziativa intrapresa da Buber, Chaim Weiz-mann e Berthold Feiwel fin dal 1902. A questo seguirà l’impe-gno di Buber nell’educazione degli ebrei tedeschi adulti, attra-verso un’istituzione come il Freies Jüdisches Lehrhaus di Fran-coforte sul Meno – presso il quale, oltre a tenere numerosi inter-venti su temi biblici e chassidici, egli presenterà le lezioni Reli-gion als Gegenwart (gennaio-marzo 1922), cellula originaria diIch und Du – causa che Buber propugnerà nonostante l’imporsidel regime nazionalsocialista, guidando con grande lucidità ecoraggio la Mittelstelle für jüdische Erwachsenenbildung(1934-1938), con una libertà d’azione e d’espressione semprepiù ristretta (si veda Die Mächtigkeit des Geistes, discorso del1934 al quale seguì, per il filosofo, il divieto di parlare in pub-blico), consapevole che la fine della simbiosi tedesca-ebraicaera stata decretata e la catastrofe ormai imminente (come sievince da Das Ende der deutsch-jüdischen Symbiose, 1939).

In un simile contesto, il filosofo ridefinì il suo pensierocome un Umanesimo biblico (Biblischer Humanismus, 1933).Buber, che da quasi dieci anni si dedicava a una nuova versionetedesca della Scrittura, avviata in cooperazione con l’amicoFranz Rosenzweig, era sempre più convinto del carattere decisi-vo del confronto tra l’uomo del suo tempo e la Bibbia ebraica.In uno scritto come Der Mensch von heute und die jüdischeBibel, con il quale il pensatore viennese apriva il volume Die

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Schrift und ihre Verdeutschung (1936), la Bibbia non si limitavaa offrire ammonimenti, valori e insegnamenti fondamentali percontrapporsi a un’umanità in crisi in quanto sempre più mono-logica (come emerge già dalla conferenza Monologisches unddialogisches Leben, 1928), ma costituiva altresì il pilastroincrollabile su cui edificare la propria resistenza spirituale din-nanzi all’antiumanesimo dell’hitlerismo. Dalla ridefinizione edall’ampliamento delle prospettive già tracciate in BiblischerHumanismus, in seguito alla migrazione in Eretz Israel, il pen-siero buberiano si attestava quindi proprio come un Umanesimoebraico (Hebräischer Humanismus, 1941). Sempre e di nuovo,la riscoperta e la coltivazione dell’humanitas presente nell’uo-mo erano al centro delle preoccupazioni di Buber, non per un’a-stratta e compiaciuta fruizione della Kultur, ma come rispostaeffettiva al paventato trionfo dell’Homo Contrahumanus creatodall’ideologia del Terzo Reich. L’humanitas che è alla base del-l’Umanesimo ebraico vive nell’affermare l’unità dell’esistenzaumana sotto una guida divina che dà e riceve la parola, esige egiudica, distinguendo in maniera netta e risoluta tra la verità e lamenzogna, così come tra la giustizia e l’ingiustizia. Il Dio dellaBibbia ebraica vuole che l’uomo diventi autenticamente “uomo”non solo in singole manifestazioni, come accade presso tutti ipopoli, bensì nell’ordinamento di vita del suo stesso popolo, cheassume pertanto le connotazioni di una comunità di fede, cuicorrisponde la cosiddetta elezione di Israele, da un lato, e ladestituzione di ogni autorità terrena che oblii l’adagio di Leviti-co 25,23 “mia è la terra e voi siete forestieri presso di me”, dal-l’altro. L’esito coerente dell’Umanesimo ebraico buberiano èallora, come si evince parimenti da un testo come Die Mäch-tigkeit des Geistes, l’anarchismo teocratico.

Gli orrori della Seconda guerra mondiale e della Shoah, ilrischio concreto di una distruzione del pianeta attraverso labomba atomica, lo strapotere della tecnica in una società di mas-sa sempre più anonima, corroboravano in Buber – e non solo: sipensi a L’existentialisme est un humanisme di Jean Paul Sartre(1945) oppure a Über Bedingungen und Möglichkeiten einesneuen Humanismus di Karl Jaspers (1949), per non parlare del-

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la Universal Declaration of Human Rights dell’ONU (1948) –la convinzione dell’urgenza di un nuovo Umanesimo. Questa siriverberava chiaramente in testi buberiani come Hoffnung fürdiese Stunde (1952) e Das echte Gespräch und die Möglichkei-ten des Friedens (1953), e trovava espressione definitiva neldiscorso di ringraziamento tenuto dal filosofo in occasione delconferimento del premio Erasmus: ancora una volta Buber ritor-nava sul termine “Umanesimo”, e sarebbe stato a un Umanesi-mo della fede (Gläubiger Humanismus, 1963) che avrebbe affi-dato quello che, di fatto, costituisce il suo testamento spirituale.

Nei cinque decenni che ci separano dalla scomparsa delfilosofo, un coro via via più folto ha proclamato l’uomo comeantiquato, e una supposta condizione postmoderna ci ha persua-si a tratti di essere approdati a un mondo postumano, dove simu-lacri mediatici, protesi virtuali e avatar digitali avrebbero persi-no ucciso la realtà. Ma aldilà di siffatte arditezze teoretiche, checolgono nondimeno tratti veritieri del nostro tempo, negli ulti-missimi anni, per non dire mesi, assistiamo invece, con copiosainsistenza, alla barbarica messa a morte di vite umane, e a unnuovo fare ricorso al cavallo di Troia della guerra in nome di undio. Tutto questo attesta come in un crepuscolo dove idoli eideali paiono essersi dileguati, dove i grandi racconti novecen-teschi, compreso quello capitalista, hanno mostrato di aver fal-lito, c’è un estremo baluardo a cui potersi appellare: proprioquello dell’Umanesimo. Laddove il dialogo si prosciuga in unoscambio di monologhi reciproci, aggressivi e sovente insinceri,in cui la sfiducia esistenziale tra uomo e uomo e la paura paio-no l’unica risposta, e vengono scaltramente coltivate da retoriprivi di scrupoli, solamente la capacità di scorgere l’umano die-tro ogni uomo e ogni gruppo di uomini, di cogliere una comunehumanitas trascendentale e trasversale, dimorante in ogni uomoaldilà degli schieramenti del qui e ora, solamente un nuovoaffermarsi dell’Homo Humanus potrà offrire al tempo presente,probabilmente più Contrahumanus che postumano, una ragio-nevole speranza e una sicura base da cui potranno prendereavvio durevoli e solidi processi di riconciliazione. Processi,anzi, percorsi di riconciliazione che, tanto con il popolo tedesco

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a pochi anni di distanza della Shoah, quanto con quello palesti-nese all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele,costituiscono ancora oggi il banco di prova più impegnativo el’impresa (non solo teoretica) più elevata dell’Umanesimoebraico di Martin Buber.

Francesco Ferrari

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L’UOMO DI OGGI E LA BIBBIA EBRAICA1

1. La Bibbia, i libri, così si chiama un libro, un libro compo-sto da molti libri. Ma in verità è un solo libro. Un tema fonda-mentale unisce tutte queste storie e canti, sentenze e profezie, iltema dell’incontro di una schiera di uomini con Colui che nonha nome, al quale essa, esperendo di ricevere la sua parola e ini-ziando a dialogare con lui, osò dare un nome; il tema del loroincontro nella storia, nel corso di eventi terreni. Queste storie, inmodo manifesto o indicando oltre sé, sono resoconti di incontri.Questi canti lamentano l’esclusione dalla grazia dell’incontro,implorano che essa possa ripetersi, ringraziano per tale dono.Queste profezie esortano l’uomo che ha smarrito la via a ritor-nare al luogo dell’incontro e promettono che il legame spezzato

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1. Come apprendiamo da Buber medesimo, il testo risale a una serie dilezioni del 1926. Una prima stesura scritta dello stesso risale però al 1928: inti-tolato Der heutige Mensch und die biblische Geschichte (Vortrag vom 17. Juni1928 in Zürich), non fu mai pubblicato da Buber, e si legge ora in M. BUBER,Schriften zur Bibelübersetzung, Güterlsloher Verlagshaus, Güterlsloh 2012, pp.158-166. Otto anni più tardi, sotto il titolo Der heutige Mensch und die Bibel, loscritto fu pubblicato in Jüdische Rundschau, 5, 17.1.1936, pp. 5-6, limitatamen-te alla prima metà del testo qui presentato (tale versione è stata tradotta dal cura-tore del presente volume e pubblicata in D. VENTURELLI (a cura di), Verità, espe-rienza religiosa e filosofia, Il Melangolo, Genova 2013, pp. 11-25). Ampliato diuna seconda parte di marcato carattere esegetico, il testo, sotto il titolo Der Mensch von heute und die jüdische Bibel, assunse la forma definitiva nel volu-me M. BUBER, F. ROSENZWEIG, Die Schrift und ihre Verdeutschung, Schocken,Berlin 1936, pp. 13-45. A tale versione si attiene la presente traduzione italiana.

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sarà riannodato. Se vi sono nel libro grida di dubbio, è il dubbioche è il destino dell’uomo, il quale, dopo la vicinanza, ha vogliadi provare la lontananza e impara da essa ciò che solo essa puòinsegnare. Se vi sono canti d’amore nella Bibbia, non dobbiamovedervi una tarda reinterpretazione, bensì la comprensione, svi-luppatasi insieme al divenire della coscienza “biblica”, che nel-la profondità dell’amore umano si dischiude l’amore di Dio peril suo mondo.

Questo libro, da quando esiste, si rivolge a una generazio-ne dopo l’altra. Conflitto e riconciliazione si verificano nell’in-contro tra ogni generazione e il libro. Le generazioni non sonoaffatto sempre pronte ad ascoltarlo e a obbedirgli, spesso se nescandalizzano e vi si ribellano, ma sempre se ne occupano vital-mente, gli si oppongono nello spazio della realtà. Così anche ilno, dove è stato detto no, ha finito per essere una conferma del-la rivendicazione che qui s’avvicina agli uomini, – essi testimo-niano a favore del libro perfino quando gli si rifiutano.

Accade diversamente con l’uomo di oggi, e con questointendo l’uomo “spirituale” del nostro tempo, l’uomo che repu-ta importante che vi siano beni e valori spirituali e che ammetteo perfino spiega che la loro realtà è legata alla loro realizzazio-ne da parte nostra. Quest’uomo però, se fosse interrogato fino apenetrarne la più intima verità, fin dove non accade per lo più diinterrogarlo, dovrebbe ammettere che per lui questo suo senti-mento della forza vincolante dello spirito è solo – una questio-ne spirituale. L’incapacità dello spirito di legare (Die Unver-bindlichkeit des Geistes) è il contrassegno del nostro tempo. Siproclamano i diritti dello spirito, si formulano le sue leggi, maentrano solamente nei libri e nelle discussioni, e non nella vita;fluttuano nell’aria sopra le nostre teste, non camminano in mez-zo a noi sulla terra; tutto appartiene allo spirito, tranne la quoti-dianità vissuta. È la stessa cosa se domina un falso idealismoche lascia inarcare sulla vita la volta dell’azzurra campana delcielo, alla cui edificante veduta, che non comporta alcun vinco-lo, ci si ristora della dura terra, o un altrettanto falso realismo,che considera lo spirito solamente come funzione della vita,sciogliendo la sua incondizionatezza in nient’altro che una serie

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di condizioni psicologiche, sociologiche e così via – è sempreun falso rapporto tra i due a subentrare in luogo del loro legame,del loro sposalizio. Certamente alcuni uomini del nostro tempohanno riconosciuto gli effetti disgreganti di questa separazionedi due realtà interdipendenti – una disgregazione che deve affer-rare strati sempre più profondi, fino a che lo spirito, privato deltutto della sua potenza, è ridotto a servo volenteroso e compia-cente di qualunque potere dòmini il mondo. Gli uomini di cuisto parlando hanno riflettuto su come si possa porre rimedio allarovina, e si sono appellati alla religione come alla forza che solasarebbe ancora capace di portare in auge una nuova alleanza tralo spirito e il mondo. Ma ciò che oggi si chiama“religione” nonvi riuscirà mai. La “religione” è oggi lei stessa cosa dello spiri-to separato, una delle sue sezioni; una sezione certamente privi-legiata della sovrastruttura della vita, una camera particolar-mente suggestiva nei vani più alti. Ma essa non è l’intero cheabbraccia la vita e non può neanche diventarlo muovendo daquesta sua condizione presente; essa non può condurre gli uomi-ni all’unità perché è lei stessa caduta nella scissione, si è lei stes-sa adattata a questa duplicità dell’esistenza. Prima di poter agi-re sull’uomo d’oggi, dovrebbe tornare lei stessa alla realtà. Lareligione è stata realtà sempre solo quando era libera dal timo-re, quando essa si faceva carico dell’intera concretezza, nonrifiutava nulla come appartenente a un’altra giurisdizione,incarnava lo spirito e consacrava la quotidianità. Il più grandedocumento di una tale realtà è però la Scrittura, il cosiddettoAntico Testamento. Due aspetti – che sono nondimeno correlati– lo differenziano dai grandi libri delle religioni mondiali. Il pri-mo è che l’evento e la parola sono qui senz’altro in mezzo alpopolo, alla storia, al mondo. Ciò che accade, non accade in unospazio vuoto tra Dio e il singolo. Attraverso il singolo, la parolagiunge al popolo, che deve udirla e realizzarla. Ciò che accade,non sovrasta la storia del popolo; non è nient’altro che il misterodella storia del popolo reso manifesto. Ma proprio per questo ilpopolo è contrapposto alla nazione che è fine a se stessa, all’e-goismo dei gruppi, al “respiro della storia mondiale”. Esso deveistituire la comunità di quelli che gli appartengono come model-

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lo di una comunità di molti e diversissimi popoli; la continuitàstorica nella “discendenza” e nella “terra” è legata alla “benedi-zione”2 e la benedizione alla missione. Il sacro penetra nella sto-ria senza privarla dei suoi diritti. Il secondo aspetto è che nellaBibbia parla una legge che ha valore per la vita naturale dell’uo-mo. Il cibarsi di carne e il sacrificio di vittime animali sono col-legati tra loro; la purezza matrimoniale è santificata ogni mese;l’uomo è accettato com’è, nella sua impulsività e passionalità, eincluso nella santificazione affinché non degeneri. Il desiderio dipossedere una terra non è condannato, non si ordina di rinun-ciarvi, ma il vero proprietario della terra è Dio e l’uomo soltan-to un “forestiero” presso di lui; e il proprietario istituisce la rit-micità del risarcimento del possesso, affinché la crescente dise-guaglianza non spezzi il senso della comunità. Il sacro penetra lanatura senza violarla. Lo spirito vivente vuole infondersi e desta-re la vita; vuole che spirito e vita si trovino l’un l’altro; che lo spi-rito prenda forma nella vita, che la vita si chiarifichi mediante lospirito; lo spirito vivente vuole che la creazione si compia da sé.L’Antico Testamento vuole essere la testimonianza di questavolontà e del servizio offerto allo spirito legato alla vita. Se lo siconcepisce come “letteratura religiosa”, appartenente a qualchesezione dello spirito separato, allora lo si nega e tanto vale pri-varsene. Ma se lo si concepisce come l’orma d’una realtà cheabbraccia la vita, allora lo si comprende e uno ne è preso. Mal’uomo di oggi, nella sua peculiarità, ne è a stento ancora capa-ce. Se ancora, in generale, egli “prende interesse” alla Scrittura,è proprio un interesse “religioso” – e per lo più neanche questo,bensì un interesse “storico-religioso” o uno “storico-culturale”, ouno “estetico” e così via, in ogni caso un interesse dello spiritoseparato, suddiviso in domìni autonomi. Egli non si pone più,come le generazioni precedenti, davanti alla parola biblica perudirla, egli non confronta più la sua vita con la parola; rinserra laparola in uno dei tanti compartimenti profani e se ne dà pace.

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2. Genesi 12,7 e seguenti.

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Così facendo paralizza la potenza che, tra tutto ciò che esiste,sarebbe sommamente in grado di salvarlo3.

2. Prima ch’io mostri più chiaramente la capacità della Scrit-tura di costituire una guida per l’uomo d’oggi e lo provi in alcu-ni esempi, dev’essere affrontata la questione fondamentale chepone in questo caso chiunque rifletta: e se quest’uomo e se noiriuscissimo a metterci interamente davanti a questo intero librodi cui stai parlando, non mancherebbe anche allora il requisitoindispensabile a una vera ricezione? Potremmo in questo casocredere al libro? Potremmo crederlo? Possiamo fare qualcosa dipiù di credere che un tempo sia stato creduto così, come il libromanifesta e racconta?

La sicurezza nella fede non è accessibile e non può essereresa accessibile all’uomo d’oggi. Se egli prende la cosa sul serio,lo sa e non deve affatto ingannarsi. Ma la possibilità di aprirsialla fede non gli è negata. Anch’egli può, proprio se prende dav-vero sul serio la cosa, aprirsi a questo libro e farsi colpire dai suoiraggi, laddove essi vogliano colpirlo; può senza nozioni precon-cette e senza riserve offrirsi e farsi mettere alla prova; può acco-gliere, accogliere con tutte le sue forze e attendere che cosa gliaccadrà, vedere se germoglia in lui, attraverso questo o quell’a-spetto del libro, una nuova sincerità. A tal fine deve certo riceve-re la Scrittura come se non la conoscesse ancora; come se eglinon l’avesse ricevuta a scuola e non l’avesse da allora davantinella parvenza di certezze “religiose” e “scientifiche”; come senon avesse mai fatto, nel corso della vita, nessuna esperienzad’ogni specie di proposizioni e di concetti illusori che s’appog-giano all’autorità della Scrittura; rinnovato, egli deve compariredavanti al libro diventato a sua volta nuovo, non deve nasconde-re nulla di sé, lasciare che accada tra il libro e lui tutto quello chepuò accadere. Egli non sa quale sentenza e quale immagine lo

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3. N.d.A. Questo è stato detto nel 1926. Il fatto che da allora la Scrittu-ra sia diventata più volte di nuovo motivo di scandalo, mi sembra il primo pas-so per prenderla nuovamente sul serio.

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toccherà e lo rinnoverà, da dove lo spirito soffierà ed entrerà inlui per incarnarsi di nuovo nella sua vita; ma è aperto. Non cre-de né si rifiuta di credere a nulla a priori. Legge ad alta voce ciòche gli sta di fronte; ascolta la parola che pronuncia e questa loraggiunge, nulla è compromesso, il fiume del tempo scorre e,proprio nel suo oggi, egli stesso diventa un vaso accogliente.

3. Per capire bene di che cosa si tratta, dobbiamo avere pre-sente quanto sia ampio il baratro che si è aperto tra la Scritturae l’uomo d’oggi.

La rivendicazione con cui la Scrittura si è rivolta e tuttorasi rivolge alle generazioni è di essere riconosciuta come il docu-mento originario della vera storia del mondo, ossia di quella sto-ria nella quale il mondo ha un’origine e una mèta. Essa vuoleche la persona umana inserisca la propria vita nell’alveo di que-sta storia vera, di modo che io trovi nell’origine del mondo lamia origine e nella sua mèta la mia mèta. Ma come punto cen-trale tra l’origine e la mèta la Scrittura non pone qualcosa che èaccaduto una volta, bensì – un centro mobile, ruotante, fluttuan-te – l’istante (Augenblick) in cui io, il lettore, l’uditore, l’essereumano, percepisco attraverso essa la voce che parla fin dall’ori-gine volgendosi alla mèta: questo mio istante eterno, mortale.La creazione è l’origine, la redenzione è la mèta, ma la rivela-zione non è un punto databile, consolidato, che riposa tra esse;il centro non è la rivelazione del Sinai, bensì il fatto che essa siarecepita, cosa che può sempre di nuovo accadere. Per questomotivo un salmo o una profezia non è meno Torah, istruzione,del racconto dell’esodo dall’Egitto. La storia del popolo – fattadi accettazione e rifiuto al tempo stesso – mostra la storia del-l’umanità, ma ciò che nel salmo e nella profezia si manifesta neldialogo più silenzioso rinvia al mio mistero.

La Scrittura è il documento della storia di un mondo cheoscilla tra creazione e redenzione, un mondo che nella sua sto-ria incontra la rivelazione – una rivelazione che mi accade se iosono presente: a partire da questa considerazione, noi compren-diamo la resistenza che l’uomo d’oggi le oppone, come una resi-stenza al suo essere.

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L’uomo d’oggi si rapporta alla storia in due modi. O all’in-segna del libertinaggio, accettandola e partecipando al corsomutevole degli eventi, al su e giù delle lotte di potenza, come aun caos, a una promiscuità di accadimenti: gesta ed estinzione dipopoli, conquiste e perdite, trionfi e miserie, – come un ingra-naggio in sé insensato al quale proprio soltanto lui, l’uomo, puòconferire di tanto in tanto una parvenza infondata e instabile disenso. Oppure si rapporta alla storia dogmaticamente, stabilendoleggi dei decorsi storici e calcolando in anticipo svolgimentifuturi, come se le “grandi linee” fossero già da qualche partetracciate su un rotolo che solo dovesse srotolarsi, come se la sto-ria non fosse la progressione vivente del tempo che divienecostantemente di decisione in decisione, tempo nel quale si river-sano impetuosamente il mio tempo e la mia decisione, ma fosseuno spazio rigido, sussistente, ineluttabile. Ambedue questi modidisconoscono il destino! Il destino non è né caso né fatalità; nonqualcosa che accade accidentalmente e non qualcosa che è pri-ma; secondo la visione biblica è destino la segreta reciprocitàdell’attimo vissuto, lo scontrarsi del di qua e del di là, il terminedi tutto il tempo nell’istante di volta in volta presente. Allorché siè consapevoli dell’origine e della mèta non c’è alcun ingranag-gio; si è sorretti da un senso che non avremmo potuto immagi-nare; ma lo si riceve non per formularlo, bensì per viverlo; edesso è vissuto nella paurosa e magnifica pienezza di decisionedell’istante; dell’istante storico che è in realtà dappertutto unistante biografico, di te e di me non meno che di Alessandro e diCesare; ma di te in quanto è l’istante del tuo incontro.

L’uomo d’oggi non conosce un inizio – la storia gli scrosciaaddosso a partire dal tempo cosmico privo di storia. E non cono-sce una fine – la storia lo consuma e incenerisce in un tempocosmico ugualmente privo di storia. E che razza d’episodio vio-lento e folle è diventato questo star qui tramezzo! L’uomo nonconosce più un’origine e una mèta perché non vuole più cono-scere il centro al quale lui stesso dovrebbe concedersi, per cono-scerlo. Solo a partire dal carattere di presente (Gegenwärtigkeit)della rivelazione la creazione e la redenzione sono vere. L’uomod’oggi s’oppone alla Scrittura perché non è in grado di tener

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testa alla rivelazione. Tenere testa alla rivelazione significasostenere la pienezza di decisione dell’istante, significa rispon-dere dell’istante: esserne responsabile. L’uomo d’oggi s’opponealla Scrittura perché non accetta più la responsabilità. Crede diessere assai ardito, ma in realtà evita accuratamente l’unico veroosare, quello della responsabilità.

4. La comprensione della realtà biblica comincia con ladistinzione di creazione, rivelazione e redenzione4. Il cristiane-simo s’allontanò da questa comprensione e con ciò dal terrenodell’Antico Testamento allorché, nella sua prima teologia, lasciòconfluire in Cristo l’essenziale della rivelazione e l’essenzialedella redenzione, e fu solo una rigorosa consequenzialità seMarcione svalutò la creazione, retrocessa al rango di mera pre-messa, facendone l’opera abborracciata di un altro dio, un diosubordinato. Ma con ciò era abbandonata l’essenza del tempolegata all’essenza del nostro spirito, il tempo nel quale sono ori-ginariamente differenziati l’essere stato, l’accadere e il doverdivenire – ordinamenti temporali che in quelle distinzioni bibli-che crescono fino alla loro fioritura sensibile. La fedele distin-zione dei tre accadimenti, non come ipostasi o forme di manife-stazione di Dio, ma come stadi, azioni ed eventi nel suo com-mercio col mondo, e di certo anche come atteggiamenti fonda-mentali nel suo movimento verso di esso, è quindi l’indispensa-bile portale che conduce alla realtà biblica, alla Bibbia comerealtà: benché tale distinzione non debba essere enfatizzata finoa diventare separazione. Se la rivelazione, la creazione e laredenzione si presentano allo sguardo biblico in certo qualmodo raccolte una nel centro, la seconda all’“inizio” e la terzaalla “fine”, la verità vivente è però la loro compresenza attuale,il fatto che “Dio rinnova ogni giorno l’opera della creazione”,ma anche anticipa ogni giorno l’opera della fine. Senza dubbiola creazione e la redenzione sono vere solo a partire dal presen-

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4. N.d.A. È il grande merito de La stella della redenzione di FranzRosenzweig aver presentato di nuovo al nostro tempo questa distinzione.

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te della rivelazione, ma che cosa sono la creazione e la reden-zione non potrei mai capirlo, se non fossero entrambi eventi chemi accadono.

Da questo fatto deve prendere le mosse la ricorrente que-stione se e come possa essere superato il baratro tra l’uomod’oggi e la Scrittura. Noi avevamo risposto alla questione delpoter-credere dell’uomo di oggi, affermando che gli è negata, èvero, la certezza della fede, ma non anche l’apertura alla fede.Non si frappone però a questo suo possibile aprirsi l’estraneitànei confronti di quei tre ordinamenti biblici? La realtà dellacreazione non s’è dissolta per lui nell’“evoluzione”, quella del-la rivelazione nell’“inconscio” e quella della redenzione nel per-seguimento di scopi sociali o nazionali?

Si deve percepire pienamente la pesante realtà di questaestraneità, allora soltanto si può tentare di mostrare che ciònonostante esiste un accesso, l’accesso alla Scrittura.

E di nuovo dobbiamo cominciare con il punto centrale.Che cosa può voler dire per noi che Dio, avvolto nel fuoco,

discese tra il rombo del tuono e il suono del corno sulla monta-gna ardente come una fornace e parlò al popolo? Può significa-re, credo, una di queste tre cose. O è una metafora per esprimereun processo “spirituale”; ma se la storia biblica non è il ricordodi un evento, bensì metafora e allegoria, allora essa non è più sto-ria biblica, e non merita migliore destino di quello di essere con-segnata alla considerazione storico-culturale, estetica, o a unqualunque altro tipo di considerazione propria dell’uomo moder-no. Oppure è il resoconto di un accadimento “soprannaturale”che spezza la connessione comprensibile dell’accadere che noichiamiamo naturale con l’irruzione dell’incomprensibile; maallora l’uomo d’oggi che decidesse d’accettare la Bibbia, a menodi cadere nell’indolente accoglimento di qualcosa cui non crederealmente, dovrebbe compiere un sacrificio che spezzerebbe irri-mediabilmente in due la sua vita; non avrebbe dunque accettatola Bibbia in quella interezza che include e abbraccia la vita, ben-sì una religione separata dalla vita. O infine si tratta della tracciaverbale di un evento naturale, ossia di un evento accaduto nelmondo sensibile comune agli uomini e inserito nelle sue connes-

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sioni. La schiera che lo sperimentò, lo sperimentò su di sé comerivelazione di Dio e lo custodì nella memoria delle generazioni,memoria accesa d’entusiasmo e figurativa, ma non arbitraria;un’esperienza di tal fatta non è un autoinganno di quella schiera;è quello che essa vede, quello che essa percepisce e riconoscecon la sua ragione, poiché gli eventi naturali sono i portatori del-la rivelazione, e la rivelazione è accaduta dove il testimone del-l’evento, tenendogli testa, ha esperito questo contenuto rivelati-vo, ascoltato quello che la voce, che parla in questo evento, vole-va dire proprio a lui, al testimone, nel suo modo di essere, nellasua vita, nel suo senso del dovere. Ora, solo se la cosa sta in que-sti termini, anche l’uomo d’oggi può trovare l’accesso alla rive-lazione biblica, tornando sì a essa, ma senza rinnegare la realtà.E io credo che la cosa stia proprio così.

Noi facciamo talvolta esperienza di un piccolo evento che èdella stessa specie del grande e può perciò aprirci l’accesso aesso. Ci accade di notare all’improvviso di possedere un sapereche non c’era fino a un momento prima e che niente ci facevapresagire che sorgesse in noi. La spiegazione mediante il famo-so inconscio, che scaturisce dalla diffusa superstizione che lacara anima faccia tutto da sé, non significa in fondo nient’altroche questo: ciò di cui fai esperienza come di qualcosa che ti ècapitato, era già da sempre presente in te, ossia, era là dove c’ètutto e non si è consapevoli di nulla. Una simile spiegazione è unespediente utile all’orientamento psicologico, ma fallimentare secerco realmente di basarmi su di essa. No, ciò che mi è accadu-to era proprio d’incontrare l’alterità, l’essere afferrato dall’altro.Nietzsche lo ha espresso nella maniera più onesta: “si prende,non si chiede chi dà”. Ma a me sembra che massimamenteimportante sia proprio sapere, nel momento di prendere, chequalcuno dà. Chi prende quel che gli è dato, e non esperisce ildonare del donatore, non riceve davvero, e il dono si trasforma infurto. Ma se sperimentiamo il donare, allora scopriamo che larivelazione è. E percorriamo la via sulla quale la nostra vita e lavita del mondo diventa per noi manifesta come un linguaggiocifrato, la via dell’accesso. Su di essa incontreremo il grandeevento che è della stessa specie del nostro piccolo evento.

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A partire dalla percezione della rivelazione, diventano per-cepibili la creazione e la redenzione. Comincio ad accorgermiche quando m’interrogo sulla mia origine e la mia mèta, chiedodi un altro da me e di un altro dal mondo; e appunto così inizioa riconoscere l’origine e la mèta del mondo.

Che cosa può significare per noi che Dio ha creato il mon-do in sei giorni? Certamente non che Egli lo abbia creato nellesei età del mondo e che “creare” non significhi qui in fondonient’altro che divenire, come vengono escogitando quantivogliono stabilire l’accesso alla Bibbia accordandola alle vedu-te correnti delle scienze fisiche. Ma neanche può esserci utilel’interpretazione mistica, per la quale gli atti della creazione nonsignificano atti creativi, bensì emanazioni; corrisponde all’es-senza della mistica la sua ripugnanza alla credenza che Dioabbia assunto per amor nostro la forma di servo, della personaagente; ma se la persona di Dio e la sua attività sono sottratti allaBibbia, essa non ha più alcun valore e i concetti intuitivi di unsistema eracliteo o di uno platonico sarebbero di gran lunga pre-feribili ai principi da homunculus dell’emanazione che com-paiono in siffatta interpretazione. Che cosa dunque può signifi-care per noi? Non si può in questo caso pensare alla traccia ver-bale dell’evento, perché non c’era nessun testimone. L’accessoalla storia biblica della creazione è così interdetto a quanti nonpossono credere che tale storia sia la pura “parola di Dio”? Ildetto della tradizionale esegesi ebraica5 per il quale la Torah par-la la lingua delle creature umane implica una serietà più profon-da di quanto comunemente si pensi; bisogna comprenderlo nelsenso che l’indicibile può essere detto solo se è espresso, comequi, nella lingua degli uomini. La storia biblica della creazioneè un legittimo balbettio. L’uomo non può che balbettare quandocolloca ciò che conosce dell’universo in una successione tem-porale di comandi e “opere” dell’officina divina, ma solo que-sto balbettio ha potuto soddisfare il compito di esprimere ilmistero di come il tempo scaturisca dall’eternità e il mondo pro-

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5. Talmud Babilonese, Berakhot 31b.

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venga da ciò che non è mondo, mentre ogni tentativo di unacosmogonia “scientifica” di esprimere concettualmente cometutto sia nato è destinato inesorabilmente a fallire.

Ora, se l’accesso alla realtà della rivelazione si dischiudeall’uomo d’oggi nel fatto che la nostra vita è l’essere destinataridella parola, dove si dischiude invece l’accesso alla realtà dellacreazione? Non riesce, partendo dalla propria vita, di trovarlocon la stessa immediatezza dell’accesso alla rivelazione – questolo possiamo trovare immediatamente appunto perché, comeabbiamo visto, ogni attimo vissuto può essere il centro. Nondi-meno dobbiamo trovarlo: perché ogni uomo sa di essere un chedi singolare e di unico. Se fosse possibile per un uomo fare uninventario psico-fisico della sua persona, in modo tale da risol-verla in una somma di proprietà, se fosse inoltre possibile, perlui, seguire a ritroso, dal punto di vista storico-genetico, ciascu-na di queste proprietà e tutte le loro combinazioni, fino ai più ele-mentari esseri viventi – il risultato sarebbe un’analisi geneticasenza alcuna lacuna di questo individuo, la sua completa deriva-zione e riduzione, e allora resterebbe ancora, intatta, la persona,quest’essere di una volta sola, incomparabile, unico, del cui vol-to non vi è mai stato l’eguale, la cui voce non è mai stata udita, icui gesti mai visti, questo corpo animato, non derivato, non deri-vabile, in tutto e per tutto qui e non altrove che qui. Al terminedella sua vana fatica, decidendosi a formulare ancora una voltala domanda: “da dove?”, quest’uomo troverebbe, in ultima anali-si, se stesso come creatura. Poiché ogni uomo è unico, a ogninascita il primo uomo entra nel mondo. Conformemente alla vitae con infantile candore sperimentiamo, ciascuno cercando a ten-toni la propria origine, che l’origine, che la creazione è.

E venendo al terzo, ultimo e più difficile punto: che cosa puòvoler dire per noi che negli “ultimi giorni” si compirà una libera-zione e una redenzione del mondo così perfetta da poterla parago-nare a una nuova creazione del cielo e della terra? Anche questavolta l’annunzio non deve essere né riferito all’al di là: il discorsoverte su questo nostro mondo, sulla sua purificazione in vista del“regno”, sul compimento della creazione, non sul suo superamen-to per amore di un altro mondo; ma neanche immiserito: la vali-

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dità della promessa non concerne un ordinamento più giusto, ben-sì la “giustizia”, non un’umanità più amichevole, bensì la “pace”.Ciò che noi udiamo è anche in questo caso un legittimo balbettio;il profeta catturato dalla Parola può parlare solo la lingua dell’uo-mo; può pertanto capire solo da che cosa e da quale luogo deveessere liberato, non a che scopo e per andar dove. Ma l’uomod’oggi? Ciò che qui egli ascolta non sarà per lui la cosa più estra-nea appunto perché è la più vicina alla sua abissale nostalgia?Rimugina sul cambiamento, ma non conosce trasformazione inte-riore; spera che le cose miglioreranno, se non già domani, di sicu-ro dopodomani, ma non è affatto capace d’immaginarsi che laverità deve una volta venire; è del tutto versato in sviluppi e con-quiste, ma non concepisce né che una potenza voglia redimere luie il mondo dalla contraddizione, né che si esiga proprio da lui di“convertirsi” con tutto il suo essere, per amore di questo volere eper fare a esso ritorno. Come possiamo mediare tra quest’uomo eil messaggio biblico? Dov’è qui il ponte?

Questa è la cosa più difficile di tutte. L’attimo vissuto hacondotto in modo immediato a essere consapevoli della rivela-zione, la riflessione sulla nascita a essere in modo mediato con-sapevoli della creazione. Ma nella vita personale di ciascuno dinoi l’essenza della redenzione sarà davvero assaporata solo allafine della nostra vita. E tuttavia anche qui c’è un accesso. Èoscuro e silenzioso e non si può indicarlo altrimenti che preten-dendo che chi ascolta si ricordi delle proprie ora più oscure e piùsilenziose. Intendo quelle ore vicine alle profondità più abissali,in cui uno si trova sulla trepidante soglia che può spalancarsi alprossimo istante, ed è strano che non si sia ancora aperta, con-segnandoci alla distruzione, alla follia, alla macchinazione del“suicidio”. Ma ecco, qualcosa come una mano ti sfiora, ti si por-ge, vuol essere afferrata – ah, quale immenso coraggio ci vuoleper afferrarla e farsi trarre da essa fuori dalla tenebra! È laredenzione. Capiamo correttamente ciò che ci è qui accadutod’esperire: il fatto che “il nostro redentore vive”6, che vuole

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6. Giobbe 19,18.

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redimerci, ma tramite la nostra accettazione della sua redenzio-ne nella conversione del nostro essere.

Ho parlato di accesso. Tutto questo non è ancora lo star benpiantati nella realtà biblica. Ma è l’accesso a essa e l’inizio.

5. Su cosa si basa la forza guida della Scrittura per l’uomo dioggi?

La sua difficoltà vera e propria – tutto dipende dal nostrointuire la difficoltà preponderante, e dal nostro comprenderequella percepibile, a partire da quella nascosta – é, per così dire,l’accreditata distinzione tra spirito e vita. La moderna filosofiadella vita – che confonde lo spirito imbevuto di vita con l’intel-letto isolato, finendo così col degradarlo, e capovolge il rappor-to tra lo spirito che genera e la vita che riceve, invertendo le con-dizioni originarie, elevando la vita all’illusione della sua sovra-nità e spingendola alla follia – ha irrigidito concettualmentequesta difficoltà, bloccato la riflessione su di sé, e intralciatopesantemente ogni tentativo di salvezza. Insegnando il sacrosposalizio dello spirito e della vita, l’“Antico Testamento” rifiu-ta tanto ogni riduzione in schiavitù della vita allo spirito, quan-to ogni piegarsi dello spirito alla vita, e nondimeno ha ancora,qui e ora, la forza di aiutare l’uomo moderno nella sua peculia-re difficoltà.

Conformemente alla concretezza della Bibbia, voglioesporre di quale tipo sia questo aiuto attraverso tre esempi con-creti7. Tutti e tre sono estrapolati dall’intrecciarsi tra la storiadella creazione e quella della rivelazione. In questo modo pos-sono servire al tempo stesso da indicazione su come sia da leg-gere la Bibbia: in presenza vitale. Laddove la struttura dei suo-

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7. N.d.A. Nella serie di conferenze da me tenute, ho considerato comeesempio anche il Tetragramma sulla base di Esodo 3,12-14. A questo propositoposso fare riferimento, adesso, allo scritto Der Ewige di Rosenzweig e alla sualettera a Goldner nella sua edizione originale in Die Schrift und ihre Verdeut-schung così come a un passo in esso ristampato tratto dal mio libro KönigtumGottes.

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ni, le parole, la successione delle parole in diverse parti di uncapoverso, o di diversi capoversi in libri diversi si ripetono inmodo sensato, in una connessione comprensibile, sostenendosi,chiarendosi, integrandosi a vicenda, si può sentire quella reite-razione che la Bibbia insegna. L’insegnamento biblico spessonon espone quanto di più elevato esso costituisca, ma lascia chesi mostri – non attraverso crittografia e allegoria, bensì conquella significativa reiterazione, che ogni lettore-uditore (Hörle-ser) non prevenuto può riconoscere di passo in passo.

I tre intrecci che intendo sono: quello tra il Ruach dellacreazione e quello della rivelazione; quello tra la creazione delmondo e il sorgere della tenda della rivelazione; quello tra loSabbat della festa di Dio dopo la creazione e il comandamentodello Sabbat della rivelazione.

Nel secondo versetto della Bibbia si dice del Ruach di Dio(Ruach Gottes) o del divino Ruach (Gottes-Ruach) che esso,secondo la traduzione di Lutero, avrebbe “fluttuato”(geschwebt) al cospetto dell’acqua non ancora divisa in flussidel cielo e flussi della terra; ma che tipo di fluttuazione sia inte-sa lo veniamo a sapere, se mai lo veniamo a sapere,8 dall’unicopasso della Bibbia in cui il raro verbo ricompare nella stessa for-ma: “come un’aquila che desta la sua nidiata, fluttua sopra i suoipiccini, spiega le sue ali, li prende e li porta sulle penne”9. Dio,che prende Israele dal centro dei popoli e lo porta nella terrapromessa, è qui paragonato all’aquila, che sbattendo legger-mente le ali fluttua al di sopra del suo nido per incitarlo, vale adire per stanare i piccoli, appena pronti per volare, a spiccare ilvolo, salvo poi però, dispiegando interamente le sue ali, affer-

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8. N.d.A. Seguendo il significato del termine in siriaco e in ebraico cosìcome l’esegesi del cristianesimo antico, avevamo tradotto il termine come “gra-vare” (brüten); nella rielaborazione della Logenausgabe, non ancora uscita inlibreria (N.d.C. Per tale edizione, cfr. M. BUBER e F. ROSENZWEIG (a cura di), Diefünf Bücher der Weisung, Lambert Schneider, Berlin 1930) si è optato per il piùesatto, ma ancora insoddisfacente “dispiegarsi” (spreiten), pensato come verbointransitivo.

9. Deuteronomio 32,11.

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rarne uno e portarlo sulla propria ala10. Possiamo supporre chel’acqua corrisponda qui al nido e le creature (della maggior partedelle quali è detto che debbano “pullulare” nell’acqua) che Diochiama all’essere corrispondano ai piccoli. Ma come dobbiamointendere il Ruach? Che si parli di esso e non di Dio stesso si capi-sce dal fatto che qui, a differenza che nel canto di Mosè, sia vera-mente enunciato il dispiegamento delle ali. Ma cosa significa quiRuach? Fin dal principio le opinioni si dividono, se sia da inten-dersi un “vento” (Wind) nel senso di un vento di Dio (Wind Got-tes) oppure, soggetto al suo potere, di un cosiddetto “vento divi-no” (Gotteswind); oppure se sia inteso lo “spirito” (Geist), siacome lo spirito di Dio (der Geist Gottes) o uno spirito di Dio (einGeist Gottes), e Lutero, agitando sempre e di nuovo tale questio-ne, ha risposto prima “vento” e dopo “spirito”. Alla base dientrambe le interpretazioni vi è la concezione per cui ci si dovreb-be decidere per una di esse. Ma le cose non stanno così. Il signi-ficato dinamico del Ruach, solo a partire dal quale si può com-prendere il passo biblico, considerato anche da critici radicali del-le fonti come “molto antico” (Gunkel)11, “molto arcaico“ (Prock-sch)12, è: il sussurrare (das Hauchen), il soffiare (das Wehen), ilmugghiare (das Brausen). Come tale, e non solo come vento, maanche come spirito, appare all’uomo paleobiblico (frühbiblisch);piuttosto, a partire dall’Uno si separano l’uno dall’altro un sensonaturale e uno spirituale. Ma qui, dove il Ruach appare per la pri-ma volta, non appare nella separazione di uno dall’altro, bensìnell’essere l’uno nell’altro di entrambi. Ruach elohim, la manife-stazione sussurrante, soffiante, mugghiante non è né naturale néspirituale, ma tutte e due in uno: è il sussurro creatore, che fa esse-re entrambi, natura e spirito. La Bibbia non pensa qui in modo les-sicale, bensì in modo elementare, e vuole che il suo lettore pensicome lei: che il movimento proveniente da Dio, che è prima diogni differenziazione, incontri il cuore in ascolto in modo indiffe-

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10. Cfr. Esodo 19,4.11. Hermann Gunkel (1862-1932), teologo e biblista tedesco.12. Otto Procksch (1874-1947), teologo e biblista tedesco.

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renziato. Sta qui al suo inizio come un grande, non formulato,solo implicitamente pronunciato, latente teologumeno: Dio non èda considerarsi né come un che di naturale né come un che di spi-rituale, non è natura, ma nemmeno spirito, ed entrambi hanno inlui la loro origine13. Ma anche più tardi, dove i due significati deltermine sono separati solo apparentemente, la Bibbia vuole sem-pre e di nuovo – in un “realismo ingenuo”, nel quale tutti gli idea-lismi devono immergersi per poter rinascere – far risuonare l’u-nità dinamica originaria, quell’accadere derivato da Dio, cheirrompe nel cielo come una tempesta, consacrando le creature ter-restri. Quell’intenzione della Bibbia si mostra però di gran lungapiù insistente nella parte della storia della rivelazione in cui unprocedere spirituale e uno naturale del Ruach stanno uniti, l’unoaccanto all’altro: nel racconto di Numeri 4,11. In esso, Dio “met-te da parte” del Ruach, che da lui scende su Mosè, per la sua pre-ghiera – e poiché quest’ultimo non sarebbe stato in grado di tenertesta da solo al popolo riottoso – e lo suddivide e lo distribuisceagli “anziani”. Ma quando qualcuno si lamenta con Mosè diquanti, colti dal Ruach al di fuori dell’adunanza, si atteggerebbe-ro per l’appunto come se ne fossero stati presi, Mosè, proprio lui,che prima, a causa del suo insostenibile popolo ha desiderato lamorte, respinge la protesta con le parole: “oh, fossero pure tuttiprofeti nel popolo del SIGNORE, e volesse il SIGNORE metteresu di loro il suo Ruach!”14. E quasi immediatamente, immediata-mente – perché solo in maniera immediata diventa percettibilecosa dice qui la Bibbia – inizia il racconto di come il desiderio dipunire proprio questo popolo fu esaudito: “un Ruach si levò, perordine del SIGNORE, e portò delle quaglie dalla parte del

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13. N.d.A. Spinoza, per il quale il pensiero e l’estensione sono solo duedegli infiniti attributi di Dio a noi accessibili, ha qui perfezionato l’intuizionedell’Antico Testamento che, al contrario della pneumatizzazione di Paolo e diGiovanni, equivale nei suoi effetti a una spiritualizzazione.

14. Numeri 11,29. Nella versione di Buber e Rosenzweig: “wer gäbs, allSEIN Volk wären Künder, daß ER seinen Geistbraus über sie gäbe!“, cui segueuna nota in cui Buber specifica come la ripetizione del verbo „geben“ è pecu-liare dell’autentico stile della reiterazione biblica.

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mare”15. Il suo Ruach: il suo spirito; un Ruach: il vento. Ma cosìnon va bene, anche nella traduzione bisogna percepire come l’a-zione spirituale e l’azione naturale di Dio siano legate l’una all’al-tra; questo deve essere chiamato “il mugghio del suo spirito ”, “ilmugghio del vento”.

Perché deve essere chiamato in tale modo? Perché il termi-ne tedesco “spirito” (Geist), già al tempo di Lutero, che dovevascegliere tra vento e spirito, aveva perso la sua concretezza ori-ginaria e consistenza sensibile di un tempo, come del restoanche Ruach, Pneuma, Spiritus, “un mugghiare e un sussurrarecontemporaneamente”16 che ricorda la “schiuma”, che oggi con-tinua a esistere solo in forma grezza, come quando i marinai diLubecca chiamano “spirito” un certo “vento che fischia in modocupo”. Questa concretezza era ancora presente in Lutero, ma luise ne sentiva distante. Nel Salmo 33 egli traduce: “der Himmelist durchs Wort des HERRN gemacht und all sein Heer durchden Geist seines Mundes” (“i cieli furono fatti dalla parola delSIGNORE, e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca”17)e lascia scritto “Geist”; ma nell’undicesimo capitolo d’Isaia,dove aveva scritto “er wird [...] die Gottlosen töten mit dem Geist seiner Lippen” (“con il soffio delle sue labbra farà morirel’empio”18), lo modifica in “mit dem Odem seiner Lippen”(“con un soffio delle sue labbra”), dal momento che, chiara-mente, si tratta qui di un uomo, e quella perdita di concretezzasensibile della parola sarebbe apparsa, dunque, non opportuna.Ciò che si esprime in questa spaccatura di una parola originarianon è solo un processo storico-linguistico, ma anche un proces-so storico-spirituale e storico-vitale, è la scissione iniziale traspirito e vita. Goethe aspira al ritorno all’unità biblica del Ruach, quando dice dello spirito di Dio che esso sarebbe in un

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15. Numeri 11,31.16. N.d.A. Così Rudolf Hildebrand nel suo illuminante articolo “Geist”

nel vocabolario Grimm.17. Salmi 33,6.18. Isaia 11,4.

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terreno libero, come se questo “sfiorasse gli uomini senzamediazioni”; ancora più potente – e in un primo momento, nonmeno vano – Hölderlin, memore dell’antichità biblica ancor piùdi quella greca, annuncia l’affinità di entrambi i significati diRuach, il mistero del “soffiare dello spirito”: “o sorella dellospirito, che come fuoco vive e agisce in noi, aria sacra”.

Occorre considerare come il Ruach di Dio sia nominatosolo all’inizio nella storia della creazione, e come certamentenon siano subordinati a esso i singoli atti del divenire del mondoe neanche la loro totalità, bensì l’indivisa interezza d’intenti del-l’opera della creazione. Nemmeno laddove l’alito divino soffian-do dà forma ad Adamo è nominato il Ruach, sebbene sia il Ruachche si accenda in Adamo come soffio di vita, preformando così,già nella sua creazione, tutta la spiritualizzazione rivelatrice cheaccadrà all’uomo. Entrambi i racconti della creazione, il raccon-to della creazione del mondo e quello della creazione dell’uomo,la saga originaria della natura e la saga originaria della storia, ilracconto che colloca l’uomo, in quanto frutto tardivo, al marginedel cosmo e il racconto che vuole narrare solamente di lui e deisuoi fatti e di quali creature che si riuniscono intorno a lui sappiaegli nominare, entrambi, accostati l’uno all’altro, non come duedocumenti sostanzialmente diversi, bensì come due parti dell’es-sere a noi conosciuto, parte interna e parte esterna, che si com-pletano l’una con l’altra, iniziano da un’azione del Ruach. Nellaprima, in modo materno, il Ruach dispiega le sue ali sulla tota-lità delle cose che devono divenire; nella seconda, innominato emisterioso, penetra in una creatura destinata a un’esistenza stori-ca per partecipare alle sue scelte e condividere le sue decisioni:in essa si lega alla storia della creazione e alla storia della rivela-zione, poiché dove si compie la storia della rivelazione persona-le, sarà il Ruach a penetrare nell’uomo19 e a “rivestirsi” di lui20,trasformandolo così, però, in un “altro uomo”21.

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19. Giudici 14,6-19; 1Samuele 10,6-10; 11,6; 16,13.20. Giudici 6,34.21. 1Samuele 10,6.

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Questo è un messaggio di unità che non ci è stato ancorasottratto.

Mi sono soffermato a lungo su questo primo esempio permostrarvi quale forza guida sia propria di un’unica parola dellaBibbia, se la studiamo seriamente e ci affidiamo a lei.

Adesso possono essere capiti in modo più facile e veloceanche gli altri due esempi.

Se superiamo le nostre esitazioni (coperte dalle nostreintenzioni) di fronte alla sua scomposizione, e prescindiamo dalmondo creato, noi possiamo presentare il primo dei due raccon-ti della creazione, dal quale anche questi due sono stati tratti, neiseguenti momenti fondamentali, contrassegnati da parole ricor-renti: i “giorni“, che sfociano nel tre volte nominato “settimogiorno”; l’attività di Dio, avvolta dal “creare” (Schaffen), che,per non essere fraintesa in modo demiurgico, viene introdottasempre e di nuovo manifestandosi o come un “parlare” (Spre-chen) o attraverso il “parlare”, e tuttavia, per amor del legamecon l’uomo e per la solennità dello Sabbat, nella cronaca vienechiamata sette volte come un “fare” (Machen), la settima voltanella frase conclusiva con il chiarimento “li aveva creati Dio,facendo” (die machend Gott hatte geschaffen)22, compendiataperò precedentemente per tre volte di seguito nel termine “lavo-ro” (Arbeit), ancora più vicino a ciò che è umano e artigianale;il termine “vedere” (Sehen), ripetuto sette volte, con il quale Diovaluta il suo lavoro e lo riconosce come “buono”; il termine“ciò” (Da), che emerge al settimo giorno completando il “vede-re”, allorché il mondo compiuto si presenta al suo creatore come“molto buono” (“e ciò era molto buono”23) riprendendo peròanche quel “ciò” che introdurrebbe il discorso di Dio appenarisuonato alle sue ultime creature24; il triplice “benedire”(Segnen); e per ultimo il “portare a compimento” (Vollenden),

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22. Genesi 2,3.23. Genesi 1,31.24. N.d.A. Questa importante reiterazione non è stata ancora presa in

considerazione nei libri finora pubblicati della nostra Verdeutschung.

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due volte, la prima in forma passiva, dal punto di vista del crea-to: “erano stati portati a compimento”; poi in forma attiva, dalpunto di vista del creatore, per il quale il portare a compimentociò che è già portato a compimento è ancora in atto: “e Dioportò a compimento…”

Nella storia della rivelazione c’è però un racconto nel qua-le questi sette momenti fondamentali della storia della creazio-ne si ripetono significativamente. È il racconto della costruzio-ne della tenda, della tenda del “presente”, ossia del Dio chediventa presente: della tenda, nella quale Dio si rende di volta involta presente al popolo25.

“Il sesto giorno”26 la nuvola avvolge la montagna su cui“dimora” il manifestarsi della rivelazione di Dio, il Kawod, “vidimora” (einwohnt) – non vi abita, ma vi prende di volta in vol-ta dimora – mentre Mosè sta di fronte alla nuvola. L’opera è com-piuta senza testimoni, nell’oscurità della nuvola, come allora,oltre l’oscurità, fu compiuta senza testimoni: per vederla Mosèviene chiamato nella nuvola “al settimo giorno”27. Quest’opera èil “modello originario” (Urbau)28 della tenda e della sua attrez-zatura. “Vedi di fare ogni cosa secondo il modello originario cheti è stato mostrato sul monte”29: questa parola di Dio, che nell’o-riginale, come avviene spesso con i versi mnemonici della Bib-bia, include una rima, mostra per quale scopo il modello origi-nario creato da Dio sia presentato a Mosè in questo modo, cosic-ché la sua vista (questo significa il riferimento che ritorna di con-tinuo in una nuova forma verbale30) lo pervada e rimanga immu-tabile in lui. Dio non crea qui come quando creò il mondo; solo

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25. Esodo 29,43.26. Esodo 24,16; cfr. Esodo 23,12; 31,17; 35,2. N.d.A. Bisogna conside-

rare che dei tre passi nominati per ultimi, i primi due incorniciano il discorso diDio sulla costruzione della tenda e il terzo introduce il racconto della costruzio-ne della tenda.

27. Esodo 24,16.28. Esodo 25,9.29. Esodo 25,40.30. Esodo 25,9; 25,40; 26,30; 27,8.

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l’immagine originaria (Urbild) si è formata il sesto giorno, e ilpopolo, sotto la guida di Mosè, deve fare la tenda stessa. E lo fa;nella Torah divina il termine “fare” compare cento volte, e nelracconto dell’attuazione più di cento volte, nella prima parte delquale viene associato di continuo al termine “lavoro”. E nonappena ha finito, segue il “vedere” e il “ciò”. Il vedere ciò che èstato fatto non è riportato qui da Dio, bensì da Mosè, il mediato-re che aveva trasmesso la visione del modello originario al popo-lo costruttore, e che al “ciò” non poté far seguire quel “era mol-to buono” come nella storia della creazione: questo non può spet-tare all’opera umana, nonostante abbia riprodotto l’opera di Dio,ma può seguire solo la constatazione che sia stato seguito il pre-cetto: “e Mosè vide tutto il lavoro; ed ecco, essi lo avevano ese-guito come il SIGNORE aveva ordinato; lo avevano eseguito aquel modo”31. E ora deve avvenire anche la “benedizione”:“Mosè li benedisse”. Ma anche il doppio “portare a compimen-to” non può mancare; è posto qui in modo tale che quello in for-ma passiva concluda il lavoro del popolo, mentre quello in formaattiva concluda la costruzione attraverso Mosè: “così fu portato acompimento il lavoro della dimora, la tenda del presente” e“Mosè portò a compimento il lavoro”32.

Dio fa un mondo e vi pone gli uomini al suo interno; maegli mostra solo la tenda, nella quale egli vuole dimorare tra diloro, “nel mezzo delle loro impurità”33: questa devono costruir-la essi stessi. La rivelazione è storia, il suo mistero rivelato; e seil moto originario è una massima solitaria che riceve una rispo-sta solamente dal silenzioso divenire delle cose, allora la storiaè un dialogo. L’uomo impara a costruire; ma la sua mano nonviene guidata. Come la creazione del mondo è una rivelazioneoriginaria, così il mistero della creazione raggiunge la nuvoladella rivelazione; ma qui l’uomo viene chiamato a diventare “ilcompagno di Dio all’opera della creazione” (una sentenza tal-

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31. Esodo 39,43.32. Esodo 39,32 e seguenti.33. Levitico 16,16.

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mudica, ma un concetto biblico). Non può però nemmeno resta-re inosservato che i costruttori in particolare, in quanto portato-ri dello spirito, vengano incaricati da Dio: non il singolo allora,ma la comunità appare come chi lavora alla costruzione.

Al “settimo giorno”, dal momento che il cielo e la terrasono stati portati a compimento, Dio festeggia “tutto il lavoroche ha fatto”34 e benedice e consacra il giorno del “festeggiare”(Feiern), il giorno dello Sabbat. Tra i sette espliciti comanda-menti dello Sabbat35 ne emergono due, che sono legati tra loroin una maniera caratteristica, peculiare della Bibbia: attraversoun verbo molto raro che, a eccezione di un solo altro passo,compare solo in questi due versetti, e significa qualcosa comeprendere fiato (verschnaufen), prendere un respiro (eratmen).Una volta figura come predicato di “figlio della serva”36 e distraniero: “lavora sei giorni e fa tutto il tuo lavoro, ma il settimoè giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare inesso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia,né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bue o il tuo asino, eprenda fiato il figlio della serva e lo straniero”37. La secondavolta si tratta del comandamento dello Sabbat che segue alladescrizione della tenda di Dio e precede la consegna delle tavo-le38: viene espresso lo stesso “prendere fiato” dello Sabbat del-la creazione di Dio, che in tale occasione viene pronunciatocome diritto dell’uomo che lavora in modo non libero o nonautonomo: “i figli di Israele quindi dovranno osservare lo Sab-bat, lo celebreranno di generazione in generazione, come unpatto perenne. Esso è un segno perenne tra me e i figli d’Israe-le; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli e la terra, e il set-timo giorno festeggiò e prese fiato”39. Una tale ripetizione di un

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34. Genesi 2,2.35. Esodo 20; 23; 31; 34; 35; Levitico 23; Deuteronomio 5.36. Esodo 23,12.37. Esodo 20,9-10.38. Esodo 31,14 e seguenti.39. Esodo 31,16-18.

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termine raro in due passi legati l’uno all’altro non è casuale,anzi: in questo modo si stringe una relazione tra entrambi, cosic-ché leggendone uno bisogna pensare all’altro. Il legame che sistringe tra un fondamento “sociale” e uno “religioso” delcomandamento deve far venire in mente il riposo di Dio allarivendicazione dell’uomo dipendente, e il riferimento al Dio chefesteggia deve ridestare l’immaginazione dello schiavo strema-to dal lavoro; poiché ogni uomo deve saper imitare Dio (“per-correre la sua via”40). Non sono affatto due fondamenti diversi,bensì uno solo: Dio e “l’oppresso e il bisognoso”41 vanno insie-me perché egli non ama le posizioni di potere intermedie, bensìegli vive “nel luogo eccelso e santo” “e con gli oppressi e gliumili di spirito”42. Questo grezzo antropomorfismo può suscita-re contrarietà (talvolta nella trascrizione si è attenuato il primopasso distruggendone così il contesto), ma è una contrarietàfeconda per la realtà di fede. Sì, anche con lo Sabbat dell’anima-le, questo si lega a Dio; perché, come la frase del riprendere fia-to collega il comandamento del ventitreesimo capitolo a quellodel trentunesimo, la frase del riposo del bue e dell’asino vienecollegata al comandamento dello Sabbat nel decalogo, dove, conlo stesso verbo, sconosciuto alla storia della creazione, viene det-to di Dio, che egli, al settimo giorno “si riposò”. Senza osare sup-porre che l’intenzione della Bibbia si estenda ulteriormente, siricordi comunque che, nella storia della Bibbia, Dio discendedue volte nella figura del suo “messaggero” al cospetto di unacreatura oppressa, e le parla, oppure discute con l’oppressore; eche una volta era una serva egizia43 e l’altra un’asina44 a esserestata maltrattata.

Il mondo di fede biblico non è una religione superiore, incui si può prendere ristoro dalla malvissuta quotidianità. Il mon-

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40. Salmi 128,1.41. Salmi 74,21.42. Isaia 57,15.43. Genesi 16,9 e seguenti.44. Numeri 22,32.

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do di fede biblico significa rendere giustizia al cielo sulla terra,e in nessun altro luogo. Non ci si può rivolgere a Dio se primanon ci si è rivolti alla responsabilità nei confronti della propriaquotidianità. Chi sopisce il proprio cuore che lo ammonisce conil pensiero che ciò che è intorno a noi sarebbe appunto “desti-no” precipita nella lontananza da Dio.

L’esempio del Ruachmostra la forza guida della Bibbia perl’uomo di oggi, mostra che all’origine della separazione diàmbiti tra lo spirito e la vita naturale vi siano la menzogna el’empietà; l’esempio della tenda mostra che l’uomo stesso devecostruire la casa del Santo o altrimenti questa non sarà costrui-ta; l’esempio dello Sabbat mostra che il rapporto dell’uomo conil suo prossimo, dipendente in maniera destinale da lui, è il luo-go della sua prova e della sua ricerca della salvezza.

6. Non è in gioco un “ritorno alla Bibbia”. Ora è per noi ingioco la ripresa, con tutto il nostro essere intessuto nel tempo,d’una vita unitaria e biblicamente autentica, la materia inaffer-rabile di questa ora storica, senza nulla detrarvi, carichi nell’a-nima di tutto il peso della nostra tarda multiformità; è in giocola capacità di fronteggiare le situazioni odierne rispondendonedialogicamente nella fiduciosa apertura alla fede biblica.

Ci riferiamo a un libro? Ci riferiamo alla voce. Pensiamo didover imparare a leggere? Pensiamo di dover imparare ad ascol-tare. Non c’è altro ritorno se non quello della conversione(Umkehr), che ci fa ruotare attorno al proprio asse fino a cheincappiamo non su di un tratto già percorso della nostra via, masulla via dove è da udire la voce! Vogliamo percorrerla finoall’essere-parlato (Gesprochenheit), fino all’essere parlato(Gesprochenwerden) della parola.

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VITA MONOLOGICA E VITA DIALOGICA1

[1] Con questa antitesi tra vita monologica e vita dialogicanon intendo fare riferimento a qualcosa che, nella storia o nellapresente società, potrebbe essere localizzato in modo tale che iopossa dirvi che, in questa o in quell’epoca, questa è la vitamonologica, quella la vita dialogica. Questo non è così facile damostrare, né storicamente, né sociologicamente, né ancora psi-cologicamente. Attraverso il nostro mondo di oggi, con cui ho ache fare (anche ogni riferimento storico che vi farò si collega aesso), procede il fronte che, nella serietà della sua attualità,costituisce il campo di battaglia tra la vita monologica e quelladialogica. Esso procede in modo trasversale, attraversando tuttele visioni del mondo, tutte le formazioni spirituali, e, prima ditutto, attraverso l’anima, l’anima personale dell’uomo. Il “luo-go” della battaglia vera e propria, della decisione, della vera epropria vittoria, della vera decisione storica è la persona. Io nonposso, a causa di quella complicazione cui ho fatto cenno,esporvi in maniera sistematica come, nel corso della storia, la

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1. È qui offerta la traduzione italiana di una conferenza tenuta da Mar-tin Buber a Zurigo il 13 giugno 1928, mai pubblicata dal filosofo, e di cui hocurato l’edizione tedesca menzionata nella nota editoriale del presente volume.Il testo si basa sul dattiloscritto redatto dal teologo Josef Maria Nielen (e i nume-ri da me riportati tra parentesi quadra corrispondono alla successione delle car-telle del medesimo), conservato presso l’Ernst Michel Archiv della Goethe Uni-versität Frankfurt. Ringrazio il Prof. Dr. Bernhard Casper e il Dr. ChristophMichel per la loro indispensabile collaborazione.

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vita monologica e quella dialogica s’incrocino di volta in voltal’una con l’altra. Io posso darvi qui solamente alcune indicazio-ni, e vi prego, pertanto, di accoglierle nella loro asistematicità,e, nel senso più letterale della parola, proprio come indicazioni.E qualora mi riesca, additerò col mio indice che cos’è, in cosaconsiste, ciò con cui ho a che fare, di modo che, per voi, sarà piùfacile vederlo.

[2] E se noi dobbiamo tracciare una separazione, parlerò diquella separazione che è necessaria per distinguere, nella suarealtà, qualcosa che è qui.

Vita monologica e vita dialogica. Forse posso avvicinarvi atutto questo indicandovi, prima di tutto, qualcosa che sta acca-dendo in questo momento tra di noi, proprio mentre io parlo avoi e voi mi ascoltate. Questo può accadere in due modi: si puòparlare come se quei determinati uomini non ci fossero affatto,come se quei determinati destini umani non ci fossero affatto,parlando così a vanvera, al di sopra di quelle teste, e di fatto, sol-tanto con se stessi. Ma si può anche, allorché li si vede per la pri-ma volta, parlare a quei determinati uomini, rivolgendovisi vera-mente, da persona a persona, in questo determinato momento. Elo stesso vale per l’ascolto. Si può ascoltare un’opinione con ildesiderio di inserirla in qualche modo nella propria, cosicchéessa, nel suo concreto comparirci di fronte, nel suo essere per-cepita ed esperita, diventi vera. È quindi possibile un incontrarereale, con le proprie orecchie, che, inizia realmente, allora, conquesto essere di fronte. Entrambe sono possibili. La prima èl’opzione monologica, la seconda quella dialogica.

Diventa ancora più chiaro, se questa situazione alquantoinnaturale (la percepisco sempre così, quando qualcuno, solo,parla a così tante persone che ascoltano in silenzio) si trasformain una discussione. Questo è un miserabile concetto. Infatti,ognuno vi finisce non in virtù di qualcosa che ha vissuto in luifino a quel momento, come la verità o la ricerca, e di cui sareb-be comunemente dotato, comportandosi di conseguenza; al con-trario, questo accade nel momento in cui uno dei due porta consé il suo sapere, reso affilato [3] come qualcosa da declamare inun combattimento, senza fare realmente esperienza di chi gli sta

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di fronte (das Gegenüber). Decisivo è che accada il primo piut-tosto che il secondo allorché gli uomini parlano l’uno con l’altro.

Entrambi appartengono, quindi, alla situazione dialogica:prima di tutto il rendere presenza (Vergegenwärtigung) dell’al-tro essere con cui si ha a che fare. Non basta, pertanto, guarda-re l’altro negli occhi; al contrario, il vero e proprio rendere pre-senza consiste nel fatto che, sebbene si rimanga al proprio posto,e si rimanga se stessi, anche dall’altra parte, si è in grado diaccettare l’altro nel suo essere-così. È qualcosa che purtroppoaccade raramente; eppure, è così semplice. Semplicemente, nonsi deve stare al proprio posto in maniera rigida, godendosi lapropria corazza; al contrario, si deve percepire come esista, vivae si renda presente la vita di qualcuno che ci sta di fronte, si devepercepire che cosa accada in questa situazione comune conquell’anima che vive di fronte a noi. È così semplice che temodi essere frainteso.

Prendete il semplice rivolgersi (sich Hinwenden): non losembrerebbe affatto, però è qualcosa di veramente grande edegno di nota. Quando mi rivolgo a un uomo, scegliendo pro-prio quello a partire dall’infinità delle possibilità di direzione, emi rivolgo al volto di un uomo, parlando e vivendo insieme aquell’uomo, accade, proprio allora, qualcosa di incomparabile.Qualcosa, addirittura, prima ancora che questi, analogamente,mi risponda; vediamo persino, prima che la reciprocità sia ope-rante in un certo qual modo, che accade qualcosa: che qui c’èdirezione, relazione (Beziehung). Intendo dire che il sistema dicoordinate del mondo si trasforma: al posto delle infinite possi-bilità sorge lo stretto ponte costituito dall’Io e dal Tu. Io ho scel-to. E aggiungete che se [4] viene destata la reciprocità (Gegen-seitigkeit), se si fa avanti il miracolo per cui lo stesso accadeall’altro uomo, rendere presenza e rivolgersi, allora è proprioquesto il motivo per cui questo mondo dell’uomo esiste. E quan-to di più alto noi possiamo afferrare, il rivolgersi al SenzaNome, aldilà di tutte le esperienze verso chi possiamo chiamareproprio Tu, è appunto il portare a compimento questo, che noipossiamo esperire in modo così semplice in ogni istante dauomo a uomo, quando noi entriamo nella situazione dialogica.

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Potrebbe quindi essere una buona idea se ora io risalissi almonologico nel senso più stretto. Che cos’è veramente? Forse visembrerà una metafora. Che tipo di significato possiede ilmonologo all’interno del dramma? Nell’antica tragedia greca,in quella delle origini, il monologo è qualcosa di anomalo.Ricorre assai raramente, e in due situazioni determinate e speci-fiche: la prima è quella della follia. Colui che è stato privato del-la comunità (Gemeinschaft) per la sua condizione, colui che èstato privato della possibilità del legame con la comunità, ècolui al quale è attribuito il parlare con se stesso (Edipo). L’altraè quella della più profonda solitudine, la solitudine del Prome-teo incatenato, all’inizio, prima che il coro delle Oceanine gli siavvicini. Qui egli parla a se stesso, forse anche al Tu SenzaNome. Questa è la solitudine dell’uomo scomunicato, che nellasua solitudine non ha ancora un Tu. Così è nella tragedia classi-ca vera e propria: solitudine in quest’ultimo senso più forte,come nel caso di Prometeo nella tragedia di Eschilo, oppure,nella follia, come nel caso di Edipo in Sofocle. Accade diversa-mente, [5] in seguito, nella tragedia barocca di Euripide. Qui èpresente il monologo come forma che interrompe il dialogo. Inun primo momento le persone parlano le une con le altre, quin-di parla una o l’altra, in separata sede. Questo curioso sviluppodipende dal rendersi fittizio del dialogo. Il mostruoso sviluppodel dramma greco si fece largo proprio nel breve tempo di que-ste tre vite. In Euripide non si rivolgerà più la parola in quellaserietà peculiare della tragedia antica. Questo si evince chiara-mente laddove venga rivolta la parola agli dei. Il poeta sa chenon si può rivolgere la parola a Zeus in modo adeguato: “Chiun-que Tu sia, qualunque il Tuo giusto nome sia… Noi non sappia-mo quale sia il tuo giusto nome”2. Così era ai primordi della tra-gedia. Non è più così in Euripide, dove è la regina a fare la note-vole invocazione: “Chiunque tu sia, Zeus, o Ananke, o spirito

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2. Eschilo, Agamennone, vv. 160ss.

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dei mortali, spirito dell’umanità, io Ti invoco”3. Il paradosso diquesta situazione è che un essere umano invoca, nell’estremanecessità, lo spirito dell’umanità, la pura finzione. A questo cor-risponde l’inserirsi del monologo come mezzo tecnico.

E per quanto riguarda il dialogo filosofico? Il dialogo rea-le è quello platonico. Esso si compie nella realtà. Socrate harealmente a che fare con questi uomini con cui parla; egli nonusa gli uomini. La sua ironia non significa mai che egli si pon-ga al di sopra delle persone; al contrario, con essa affronta lasituazione. Socrate ha veramente a che fare con questo giovane,che egli ama, e che desidererebbe formare. Si tratta sempre diqualcosa che va da persona a persona. I due interlocutori nonsono mai semplici portatori di un nome o di una visione delmondo.

[6] In seguito, nel modo più chiaro in Epitteto, voi potetevedere un dialogo interamente fittizio, attraverso figure chesono solo frutto del pensiero, e che non rappresentano nessunapersona. Nessuno intende minimamente l’altro nella realtà; nonè nessun Tu per l’altro. Non sono neppure maschere, sono solonomi. A questo corrisponde il fatto che Epitteto ci consegni perla prima volta la massima “parla con te stesso”4, la massima piùcontraria al divino che io conosca. Che capiti a qualcuno didover parlare con se stesso, bene. Ma che lo si insegni è il piùgrande paradosso, il più contrario alla vita che io conosca. Que-sto non dovrebbe significare infatti “occupati di te stesso”,oppure “conosci te stesso”, o anche “percepisci te stesso”, oancora “percepisci la Tua realtà come uomo vivente”. Questosarebbe il contrario di ogni occuparsi di sé, così come il contra-rio di ogni monologo sarebbe la percezione di sé. Questa massi-ma contraria alla vita è strettamente connessa con l’artificiositàdel suo dialogo. Che per questo è presente in Epitteto, come for-ma autorizzata del dialogo con se stesso. Sulle tracce di Epitte-

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3. Euripide, Le troiane, vv. 884ss.4. Epitteto, Diatribe, III, 14, 1.

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to, Marco Aurelio scriverà più tardi del dialogo con se stesso diSocrate, compreso come esercizio.

Platone ha interpretato il pensiero come dialogo con sestesso. Questo è qualcosa che dobbiamo prendere sul serio. Checosa significa questo in Platone? Di cosa si tratta? Pensare? Sì,il pensare accade nella vita reale dell’uomo; che l’uomo per-venga, come si dice a ragione, nel bel mezzo di ciò che è viven-te, nella pienezza in sé, e nel contempo, per così dire, afferri,raccolga, cerchi di prendere, di valutare, ciò che gli è accaduto,ciò di cui ha fatto esperienza, ciò che ha avuto luogo tra lui e lealtre creature viventi – deve far riflettere. Gli appartiene: senza,la vita non potrebbe rinnovarsi di volta in volta. Questa [7] pau-sa pertanto, questo peculiare atto di fermarsi e di tirarsi fuoridalla vita, è, in questo senso, anche un dialogo con se stesso. Iomi appello a tutti voi, nel mostrarvi come questo sia il pensierofecondo, il pensiero i cui frutti conoscerete certamente all’inter-no della vita, che si trasforma nel lavoro della vita, nelle proprieopere, nella propria professione, nella vita all’interno dellafamiglia. Questo è il pensiero reale. E sarebbe questo anche, intutto e per tutto, dialogo con se stesso? Lo è solo in un sensoesteriore. No, mi sembra che nel pensare reale il Tu non manchi.Non è occuparsi di se stesso da parte dell’uomo; io vorrei direche il Tu diventa, a partire da ciò che è visibile, qualcosa di invi-sibile. A partire da ciò che ha nome, qualcosa che non ha nome.Il Tu si pone, nel pensare nel suo presente, in un modo che nonpuò essere descritto. Si può solo fare appello al ricordo che l’uo-mo ha del pensare reale. Il pensare reale non è libero dal Tu.Solamente, si eleva dalla vivente reciprocità, dal commercio(Verkehr) con questa e con quella persona portatrice di un nome.Questo è il significato di questo dialogo con se stesso. Così misembra che stiano le cose circa questa obiezione a Platone.

Volgo il mio sguardo dall’Antichità all’Età moderna. Tra-lascio il Medioevo cristiano, che fu la vera e propria epoca deldialogo. Dove si mostra per la prima volta l’uomo monologicoin quanto tale, l’uomo monologico nella sua nudità? Dove lo tro-viamo nel dramma? Si tratta di Amleto. Egli è un uomo mono-logico, e i suoi dialoghi sono solo monologhi travestiti da dialo-

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go. Mentre Amleto parla con l’altro, parla in realtà solo con sestesso. Per la prima volta di fronte all’immane destino, egli sioccupa in realtà solo di se stesso.

[8] Questa persona diventa possibile per la prima volta apartire dal Rinascimento, dove per la prima volta il dialogo si èreso del tutto fittizio. Il dialogo, dove esso si presenta in quantotale, è fittizio e astratto. Il dramma è la fuga da quella finzionedella vita. Ma la vita monologica cattura qui l’enorme figura diAmleto. Amleto è incapace di dialogo. In questo senso è l’uomomoderno per eccellenza. Questa peculiare lettura di Amleto miè diventata chiara nel modo più nitido allorché egli non uccideil re in preghiera, e cerca di convincere se stesso che non loavrebbe ucciso perché quel pregare proteggerebbe la sua anima.Il singolare turbarsi di Amleto di fronte a questo pregare misembra essere qualcosa che forse non è stato ancora riconosciu-to. Che uomo è Amleto allorché si trova di fronte a sé il re cheprega? È un uomo che non sa pregare, che non sa rivolgersi allarealtà né sa dire Tu, così come non sa rivolgere la parola a coleiche ama in quanto colui che la ama. Il suo discorso d’amore èun monologo. Egli si sta occupando di se stesso allorché inapparenza si sta occupando dell’amata. Amleto non è stato sol-tanto creato in modo geniale; egli è l’uomo monologico in quan-to genio, in maniera esemplare.

Ho già fatto cenno a cosa conduca al nucleo del problema:il Tu umano e quello divino, il fatto di dire Tu a un essere uma-no e a Dio si coappartengono. Il fatto che noi possiamo dire Tua un essere umano che amiamo (questo è probabilmente il poterdire Tu nel modo più facile) è la garanzia, il pegno, per così dire,che noi possiamo legittimamente dire Tu anche a Dio, e che noipossiamo legittimamente, forse, solo dire Tu a Dio, mentre nonci è consentito parlare di Dio; parlare di Dio è, infatti, qualcosadi fittizio, proprio come [9] parlare della persona che si ama.Non si può parlare di un essere umano che si ama come di unasomma di qualità, e allo stesso modo non si può parlare di Diocome di una somma di qualità innalzate nella trascendenza.Questi due fatti si coappartengono. Ed entrambi si presentano inun modo che io non saprei descrivere. La vita dialogica si pre-

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senta nella sua purezza in entrambi. Il rivolgersi al viso umanopiù fidato di tutti e l’immane rivolgersi a Dio nell’oscura infi-nità del mondo significano il rivolgersi e il poter dire Tu, inentrambi i casi. Questo poter dire Tu a Dio toglie il respiro (ècosì, se si comprende realmente ciò di cui si tratta), ed è tuttaviasolamente il compimento di ciò che fa l’uomo allorché dice Tunell’amore, intendendo proprio quell’essere che gli è di fronte,senza godere se stesso nell’altro, né assaporare se stesso nelcommercio con l’altro. Al contrario, egli si riferisce a quest’al-tro nella realtà, nel suo essere così, nel suo essere-altro (Anders-sein). Questo esperire una situazione comune da parte dell’uo-mo e della donna, tale che io esperisco la situazione dell’amoreanche dal punto di vista della donna, rimanendo tuttavia qui,mentre sto vivendo tutto questo, questo vivere l’uno di fronteall’altro nella verità, questo presente dialogico, tutto questoaccomuna l’amore tra gli esseri umani, l’amore concreto (nonintendo l’amore per l’umanità, in cui l’amore concreto può tut-tavia sfociare al suo apice), e l’amore di Dio.

***

Vorrei rendere più chiaro che cosa significhi la situazionedialogica in rapporto al divino attraverso alcuni esempi trattidalla storia. Non intendo con questo qualcosa di cultuale, nonqualcosa che accompagna, fianco a fianco, la vita vissuta, [10]bensì la modalità, la modalità possibile dell’intera vita, dellaquotidianità. Questo diventa massimamente chiaro se voi pensa-te a quei tempi della prima antichità, in cui le grandi culture deiBabilonesi e degli Egizi stavano l’una di fronte all’altra. La cul-tura babilonese si fonda su una concezione di fede nella poten-za del destino, la potenza conoscibile delle stelle. Lo spazio incui l’uomo è posto è conoscibile secondo il destino: io conoscola potenza delle stelle, da cui sono circondato, e la conoscocome qualcuno che, in virtù di questo sapere, può impadronirsidi questa potenza; che può diventare, quindi, padrone del desti-no e delle stelle. Questo è il senso della gnosi babilonese origi-naria. L’uomo può impadronirsi di questa potenza del destino

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attraverso il sapere. Dall’altro lato vi sono gli Egizi. L’interoessere dell’uomo si rivolge al fatto, all’aspaziale, al puro fattodel tempo, che, tra tutti, è la sola temporalità pura – alla mortecorporale. Questo non avviene tuttavia in un modo per cui l’uo-mo probo si volge alla sua morte, dal momento che egli è pron-to a esperirla quando sarà il suo tempo. Non se ne fa minima-mente carico prima, non è preparato di fronte a essa, nemmenocon la fantasia anticipatrice, e nondimeno è pronto. Egli vi hadimestichezza, senza tutta la rassicurazione che proviene da uncerto quale sapere, ma con la sua capacità immaginativa. Losguardo egizio nei confronti della morte è diametralmente oppo-sto rispetto a quello babilonese. È la rassicurazione che si rece-pisce nel modo più potente. La potente arte egizia, i cui sovrani,erigendola per durare nei secoli, non innalzeranno mai più nien-te di simile, produsse sarcofagi per quella rassicurazione costi-tuita da un sosia dell’anima. Ed è quell’altra anima che scende,dopo la morte, nel mondo sotterraneo; essa è munita di formuledi scongiuro, che le daranno potenza contro i demoni; [11] chele daranno il potere di essere pronta di fronte a ciò che ci siaspetta dopo la morte. Sentenza di un mago egizio: se tu nonagirai secondo il mio volere, allora ti manderò in rovina il tuocielo. Si tratta quindi di essere muniti della potenza recepita: quivera cultura, e là scienza e arte. E tanto la gnosi babilonesequanto la magia egizia sono del tutto adialogiche. Immanicostruzioni del monologismo. Un’immane copertura di tutti glisforzi dell’anima umana che trema per un poter-dire-Tu: coper-tura, soffocamento.

Per quanto sia così, si percepisce come in una cultura o nel-l’altra un’anima tenti di emergere. Nell’epos babilonese di Gil-gamesh accade che al re muoia un amico. E che egli si trovi,quindi, al cospetto delle spoglie dell’amico, come se fosse difronte alla morte. In quel momento egli avverte che cosa signi-fichi che un uomo si trovi di fronte a qualcosa nei cui confrontinon può essere rassicurato, attraverso nessun sapere né fede sul-l’impadronirsi del destino. La gnosi babilonese ha qui la sua fal-la. Egli è in presenza della morte. E proprio adesso si apre allatrasformazione che ha di fronte a sé in maniera propriamente

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dialogica. Per questo motivo egli si rifugia nel fondamento del-la vita nella cultura egizia, ovvero, nella domanda intorno allamorte.

E si prenda, viceversa, il re egizio Amenofi IV, che riformòla religione5. In realtà il dio del Sole, al quale egli rivolge il suopregare, non è affatto nuovo, malgrado il nuovo nome. Ma nuo-vo è il fatto che egli gli rivolga la parola in verità, come primamai in Egitto (in un documento tramandato) era stata rivolta laparola a un dio. Nel modo in cui egli prega, in realtà, [12] sirivolge al dio dicendogli Tu, e con questo egli va dal mondo egi-zio a quello delle stelle, cosicché il nucleo di vita dialogica sitrova proprio all’interno di quell’immane cultura monologica.Le culture sono perlopiù enormi coperture, soffocamenti di quelnucleo di vita dialogica.

Ed è proprio in quell’avvenimento limitato a quella schie-ra di uomini, in quel fatto, che quella schiera diventa un popolo,che esperisce, proprio in quel momento, qualcosa che fino aquel momento apparentemente nessuna schiera di uomini avevamai esperito: da quei monti esperisce, infatti, che gli viene rivol-ta la parola, ed esperisce che è necessario che questa schiera diuomini risponda. Nient’altro. Non si è sviluppata una cultura apartire da questo. Solo un libro. Un solo sapere: quello per cui èdecisivo se noi rispondiamo o no. E naturalmente a questo segueun rifiuto: il non stare nel discorso, la falsificazione del discor-so, la falsificazione nella grande falsificazione umana: il popo-lo di Israele. Ma nell’immane autoinganno del popolo di Israe-le il dialogo reale avviene sempre e di nuovo.

Non si tratta con questo di fare ciò che le parole del discor-so qua e là indicano. La vita dialogica vera e propria, nel modoin cui viene qui intesa, è il nome di ciò che noi chiamiamo sto-

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5. La possibilità di rintracciare un monoteismo in fieri nella figura diAmenofi IV è stata recentemente posta da Jan Assmann a fondazione dellacosiddetta Mosaische Unterscheidung (2003), i cui esiti radicali erano già trac-ciati in Moses der Ägypter (1998). Entrambi i volumi sono stati tradotti in ita-liano per i tipi di Adelphi.

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ria, ovvero, la storia che accade; essa, che viene incontro a noi,genere umano, viene pronunciata per noi. Si tratta che noirispondiamo a ciò che ci viene incontro, che a noi viene detto,con ciò che facciamo. Questo infatti costituisce l’azione realedell’uomo: stare nel discorso, rispondere. Ciò che viene incon-tro all’uomo di volta in volta è quella porzione di mondo che gliè stata affidata, di cui egli deve adesso rispondere, di cui eglideve essere responsabile.

***

[13] Questo rispondere ed essere responsabile (Antwortenund Verantworten) è la storia che accade, la via che procedeattraverso la caduta verso la redenzione, che costituisce unavolontà di rispondere anche nel rifiuto. In questo sentire ciò checonta è la risposta. Rispondere, quindi, con il rifiuto. Perchéanche nel rifiuto vi è di volta in volta il nucleo di un tentativo.Che cos’è allora il quantum satis di quanto facciamo? Che l’uo-mo produca questo balbettio, che si può chiamare, nel miglioredei casi, la sua azione. Questo tentare, il rispondere in questomodo, è la via umana, questo agire tra l’uomo e ciò che non èuomo.

Con quello che dico non intendo né la religione né la mora-le, le quali sono realmente capaci di ostacolare il volto del Tu.Niente è capace di ostacolare il volto del Tu come la religione ela morale. Si possiedono informazioni intorno a Dio, e non sideve stare in attesa che egli si palesi in una forma non prevista.Oppure, si possiedono informazioni sulle norme etiche e si èrassicurati. Ma qui, dove le norme cadono a pezzi, dove in veritàio non so più nulla, perché io non posso prevedere nulla, quiaccade la decisione. Io sono qui, dove mi si palesa il Male, ciòche si oppone alla morale, come qualcosa che mi reclama, comequalcosa che ha bisogno di me, come qualcosa da amare.

Poiché la religione e la morale diventano sistemi di fuga difronte alla vita dialogica, vengono di volta in volta fatti queigrandi tentativi di restaurazione, di nuove fondazioni, di rifor-me. Sono comprensibili; ma non creano la vita dialogica. Que-

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sta avviene qui, dove si stabilisce la pura parola, il semplice enon preventivato essere di fronte; ciò che era in origine, il rista-bilirsi del presente.

[14] Quando i profeti si rivolgono contro i culti sacrificali,intendono con questo che l’imposizione delle mani sul sacrificionon può essere intesa, in ultima istanza, come una sostituzione,così come Mosè pose le sue mani sulla testa di Giosuè facendo-ne il suo successore; questo è un gesto solamente cultuale.

E allora, in questo mondo monologico, in che cosa vi è, incosa sopravvive attualmente la vita dialogica? Su cosa possiamoancora edificarla? Che cosa ci rimane? Io credo che ci siano duecose che procedono attraverso i tempi, e che testimoniano in unmondo così monologico ciò che è vivente, questa sostanza orga-nica: la prima è l’urlo dell’uomo solo. L’uomo che da qualcheparte nella notte, nel silenzio della sua stanza, emette un urlo dal-la sua miseria, e forse nemmeno rivolto a Dio. Forse la parolaDio gli è odiosa, cosicché egli può portarla alla bocca meno dichiunque altro, e il suo urlo s’innalza in lui inconsapevolmente;e rivolto a chi, se non a chi è il Tu? Quest’urlo dalle estremeprofondità della necessità, anche se quest’uomo non lo sa, è già,di fatto, un rivolgersi, e come un rivolgersi viene accolto. Questaè una garanzia della vita dialogica, che permane. E la seconda,diventata oggi qualcosa di veramente raro, è il reale dialogo d’a-more. In un’epoca in cui l’erotico è divenuto così comune, il rea-le dialogo d’amore e d’amicizia, l’incontrare l’altro, lo scioglier-si della lingua, il primo saluto da creatura a creatura, il nuovo ini-zio, la creazione, tutto questo è diventato quasi qualcosa di lette-rario. Io ritengo [15] che questa sia un’altra garanzia, anche senascosta ed effimera. Una terza non la conosco.

L’autentico rivolgersi è diventato per l’uomo di oggi incre-dibilmente più difficile, anzitutto per via dell’occuparsi di sé.Ho parlato con alcuni uomini che sono all’interno di una reli-gione tramandata; e se mi riusciva di entrare in un dialogo aper-to con loro, e potevo chiedere loro come stavano le cose riguar-do la loro vita personale, allora quasi tutti mi confessavanocome il semplice rivolgersi fosse diventato loro incredibilmentedifficile, perché era necessario occuparsi dell’Io, del proprio

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essere. Questa è la difficile problematica, questo è l’ostacolovero e proprio. Un ostacolo così difficile che io non so davverocome possa essere superato. Posso solo indicare questo: occor-re prendere profonda coscienza di sé, coscienza di quest’ostaco-lo che è sito dentro di noi.

Permettetemi di prendere una via traversa. È ciò che puòessere mostrato attraverso la filosofia; essa, infatti, contribuiscea questo ripiegamento della vita. Ogni pensiero realmente pensa-to proviene dal farsene carico da parte della persona concreta.Ma ogni filosofia si compie come un progressivo allontanamen-to da questo farsi carico. Questa è una sua necessità. Ma è davedere come ciò influisca su questa via. Accade da lì una ratifi-ca del monologo, attraverso il chiudersi dei sistemi. È il caso delDeus sive natura di Spinoza: il Dio cui non può essere rivolta laparola, di cui, nel suo passo più sublime, Spinoza afferma cheesso ami se stesso nelle creature6. Quell’immediato essere difronte viene qui [16] tradito; il fatto che noi siamo creature è pernoi, infatti, la possibilità di amare Dio. E non è che Dio ama sestesso in noi per questo, per il fatto che noi percepiamo e inten-diamo Dio in noi. Un contemporaneo di Spinoza che allora erauscito dal mondo, Pascal, fuggì con forza da quel mondo mono-teistico7. Così deve essere compreso quanto egli scrisse. OppureKant, dove Dio viene postulato dalla ragione pratica, con tuttociò che ne consegue. Quindi Kierkegaard, che fuggì con la stes-sa forza di Pascal. Ma la condizione di Kierkegaard è molto piùdifficile di quella di Pascal. Rimergere diventa sempre più diffi-cile; la consistenza del mondo monologico diventa sempre piùcompatta. Qui potrebbe forse essere ricordata una massima, cheè un esempio tragico a riguardo, di come si può fuggire da que-sto mondo monologico e celebrarlo tuttavia dal suo stesso inter-no: è la massima di Nietzsche intorno al deserto che cresce8.

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6. B. SPINOZA, Etica, V, proposizione XXXVI.7. Ipotizzo che Buber intendesse “monologico”.8. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, IV, capitolo Tra figlie del

deserto.

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Tutto ciò che si chiama “visione del mondo” va nella stes-sa direzione. Così anche lo psicologismo di Amiel, che spiega-va come il paesaggio sia uno stato d’animo. Indubbiamente èanche questo. Ma ciò che è importante per noi, è che noi stiamodi fronte a esso, è che noi prendiamo questa cima di albero sopradi noi come qualcosa di naturale. Noi non siamo essa, ma ci èdato di esperire il vivere di fronte a essa. Tutte quelle scioc-chezze riguardanti la cosiddetta esperienza – si è parlato persi-no della cosiddetta ”esperienza religiosa” – dove quindi il sensodell’essere di fronte viene incluso nell’anima, è un immane [17]autoimprigionarsi dell’anima, che viene ulteriormente alimenta-to attraverso la psicanalisi. Irretito in questo occuparsi di sé,l’uomo danneggia se stesso in ciò per cui egli esiste. La malat-tia vera e propria non è in lui, ma tra lui e il mondo – e non solo:dove tutto viene risolto, per non dire dissolto, in processi tecni-ci: e dove l’uomo non ha ingresso, dove non s’inserisce, dovenon è pronto, l’uomo tramonta. Questo psicologismo e questotecnicismo, questo libertinismo, questa frettolosità, tutto questoè monologo senza speranza. Da questo dipende questa cecità alTu, dominante oggi tra gli uomini, e prima di tutto, forse, tra ipiù giovani. Quando un essere umano ha a che fare con un altroessere umano, non lo contempla come quest’unica, singola,incomparabile persona, bensì inserisce quel qualcuno che miparla adesso in una certa quale condizionatezza psicologica,oppure lo politicizza. Mi viene detto qualcosa: lo riconduco ainteressi di classe o a complessi psicologici, il che mi risparmiadi entrare in questa situazione e di rispondere con la mia essen-za. Anche questo è un grandioso sistema di fuga9.

Quasi tutto ciò che indica un tempo più libero e migliore, èstato toccato e ridipinto da questo monologismo. Interroghia-moci, per esempio, intorno alla problematica del matrimonio.Non è vero che la problematica del matrimonio sussiste in que-sto, che due esseri, con maggiore o minore indipendenza, siano

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9. Simili tesi saranno riproposte in Hoffnung für diese Stunde, scrittoanch’esso presente in questo volume.

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indifferenti l’uno nei confronti dell’altro, ma piuttosto che essinon siano più in grado di dirsi Tu l’uno con l’altro. Non sono piùgrado di rivolgersi l’uno all’altro: questa è la loro problematica.Ovvero, la problematica della relazione: manca tristementequalcosa, e precisamente il [18] dialogo autentico tra le genera-zioni. Che la generazione più vecchia parli, e lasci parlare quel-la più giovane, in un pieno rendersi presenza! Questo signifi-cherebbe anzitutto relazione. E l’immane questione sociale: nonsi tratta di cambiare forma di governo, cosicché cambi la situa-zione di una classe sociale, ma che la massa perda il suo carat-tere di massa. Se la sociazione è già accaduta in una certa qua-le forma, che cosa ne consegue? Con questo, è accaduto qual-cosa per la vita dialogica nella Russia sovietica? Non è così chenoi intendiamo di poter dividere tra l’adesso e il dopo, per cui visarebbe un “dopo”, dove tutto verrà da sé, e un “adesso” che vie-ne esecrato. Se tutto questo non viene realizzato adesso, queltanto che basta per quello che ognuno di noi può fare, allora nonverrà mai realizzato. Ogni politica che intende l’imposizione inluogo della realizzazione è un sistema di fuga. Ogni movimentoriformatore, ogni tirarsi fuori dell’ingresso nella situazione con-creta, è solo apparenza monologica. Ma la vita dialogica puòessere realizzata nella misura in cui ognuno di noi sta là dove sitrova, nel suo luogo naturale: soddisfatta questa condizione, essapuò trovare il proprio dispiegamento.

Se quindi bisogna ancora muoversi lungo questa distruzione,si tratterà allora di una conversione: non di un ritorno a un puntoche è già stato, bensì di una svolta, che ci condurrà oltre tutto que-sto, a partire dal nostro coinvolgimento, là dove noi non siamoancora in grado di guardare, ma dove siamo già in grado di arri-vare. [19] E io credo questo: che il cammino attraverso questamostruosa dissoluzione monologica del mondo umano conduca,attraverso queste tenebre, attraverso questo abisso, a un nuovoautentico dire Tu, a un nuovo rendere presenza della creatura difronte a Dio nella risposta e nella responsabilità. C’è un luogo del-la reale decisione storica, e questo luogo è la persona: non è l’es-sere umano, non è l’astrattezza dell’essere umano. Si tratta di que-sto, di quello, e di quest’altro ancora: della persona reale.

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TRE TESI PER UN SOCIALISMO RELIGIOSO

Di una serie di tesi che non deve essere intesa come un pro-gramma, bensì come una confessione, comunico in questa sedele prime tre, e le dedico a Leonhard Ragaz, apponendo la suasentenza: “Ogni socialismo, i cui confini sono più ristretti diDio e l’uomo, è per noi troppo limitato”.

1. Il socialismo religioso non può significare un intreccio direligione e socialismo in cui le due parti costitutive possono tro-vare se non la propria soddisfazione, almeno la loro vita, indi-pendentemente l’una dall’altra. Non può significare neppureche le due abbiano siglato un contratto per congiungere le loroautonomie in un comune essere e operare. Il socialismo religio-so, piuttosto, può solo significare che religione e socialismosono destinati l’una all’altro per essenza, e che l’una ha bisognodell’alleanza con l’altro per adempiere e portare a compimentola propria essenza. La Religio, ovvero il legame (Verbundenheit)dell’essere umano con Dio, può ottenere la sua piena realtà sola-mente volendo una comunità (Gemeinschaft) del genere umano:solo in essa Dio può preparare il suo regno1. Una Socialitas,

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1. N.d.A. Per rendere più chiaro cosa intendo e cosa non intendo conqueste parole, riporto le prime battute della quarta tesi, non pubblicata per inte-ra in questa sede: “È inammissibile equiparare la realizzazione del socialismocon il regno di Dio: essi differiscono come l’azione umana e la grazia. È tutta-via parimenti inammissibile separare la realizzazione del socialismo dal regnodi Dio: essi si coappartengono come l’azione umana e la grazia”.

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ovvero un divenire cooperativo (Genossenschaftwerden) dell’u-manità, un diventare compagno dell’uomo per un altro uomo,non può crescere altrimenti che a partire da una relazione comu-ne con il centro divino, sebbene questo sia sempre e ancora sen-za nome. Il legame con Dio e la comunità delle creature si coap-partengono. La religione senza il socialismo è spirito privo dicorpo, e quindi spirito non vero. Il socialismo senza la religioneè corpo privo di spirito, e quindi corpo non vero. Il socialismosenza la religione, però, non ode la chiamata divina, non offreuna replica, eppure capita che risponda. La religione senza ilsocialismo ode la chiamata, ma non risponde.

2. Tutte le forme, le istituzioni e le associazioni “religio-se” sono autentiche o fittizie a seconda che servano comeespressione, come forma e come portatrici di una Religio reale,ovvero di un reale legame della persona umana con Dio, oppu-re esistono meramente a fianco di essa, o ancora rappresentanouna copertura di una vera e propria fuga dalla Religio reale, laquale comprende invece, in quanto tale, la risposta e responsa-bilità dell’essere umano nel qui e ora. Allo stesso modo, tutte letendenze, i programmi e i partiti “socialisti” sono autentici o fit-tizi a seconda che servano come forza, destinazione e strumen-to di un’autentica Socialitas, di un autentico divenire cooperati-vo dell’umanità, oppure che esistano meramente a fianco diessa, o ancora rappresentino una copertura di una vera e propriafuga dalla Socialitas reale, la quale comprende invece, in quan-to tale, l’immediato vivere l’uno con e per l’altro degli uomininel qui e ora. Al momento presente, le forme, le istituzioni e leassociazioni religiose vigenti sono cadute nella finzione, cosìcome le tendenze, i programmi e i partiti socialisti non ne sonoancora usciti. Nel suo campo d’azione, un’apparenza lotta oggicontro un’altra apparenza. Ma in un avvenire ancora celato illoro incontro sta per accadere.

3. Il luogo in cui religione e socialismo possono incon-trarsi nella verità è la concretezza della vita personale. Come lareligione nella sua verità non è insegnamento di fede e prescri-

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zione di culto, bensì stare e resistere nell’abisso della reale rela-zione reciproca con il mistero di Dio, così il socialismo nella suaverità non è dottrina e tattica, bensì stare e resistere nell’abissodella reale relazione reciproca con il mistero dell’uomo. Nellostesso modo in cui è presuntuoso “credere” a qualcosa senzavivere, anche inadeguatamente, quanto si crede, è presuntuosovoler “imporre” qualcosa senza vivere, anche inadeguatamente,ciò che si vuole imporre. Nello stesso modo in cui il “lì” vienemeno se non si rischia il “qui”, deve venire meno il “dopo” sel’“ora” non è messo alla prova. La religione deve sapere che è laquotidianità che la devozione consacra o sconsacra. E il sociali-smo deve sapere che la decisione se una meta raggiunta sia simi-le o dissimile rispetto a quella un tempo prefissata dipende daquanto il mezzo fosse simile o dissimile rispetto alla meta pre-fissata, mediante il quale essa è stata raggiunta. Il socialismoreligioso significa che l’essere umano, nella concretezza dellasua vita personale, prende sul serio il fatto fondamentale di talevita: il fatto che Dio è, che il mondo è, e che lui, questa perso-na umana, è di fronte a Dio ed è nel mondo.

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ANNOTAZIONI SULL’IDEA DI COMUNITÀ

L’ambiguità dei concetti impiegati è più grande qui chealtrove. Si dice, per esempio, che il socialismo sia il passaggiodel controllo del potere discrezionale sui mezzi di produzionedalle mani dell’imprenditore a quelle della collettività; ma tuttodipende da cosa s’intende per collettività. Se essa è ciò che sia-mo soliti chiamare Stato, ossia, un’istituzione in cui una massaessenzialmente disarticolata lascia che i suoi affari siano guida-ti da una cosiddetta rappresentanza, essa sarà la prima a mutarein una società socialista, in cui i lavoratori si sentiranno rappre-sentati dai detentori del potere discrezionale. Ma che cos’è larappresentanza? Questo farsi rappresentare su vasta scala non èforse, alla fin fine, l’errore più grave della società moderna? Ein una società “socialista” non accadrà forse che il farsi rappre-sentare in economia non si aggiungerà al farsi rappresentare inpolitica, cosicché predominerà, anzitutto, un essere-rappresen-tato pressoché illimitato, e con questo, un accumulo di poterecentrale pressoché illimitato? Più un gruppo umano si fa rap-presentare nella determinazione dei suoi interessi comuni e piùdall’esterno, meno comunità esiste in esso, e più povera diventala comunità. Poiché la comunità – non la comunità primitiva, maquella che è possibile e accessibile per noi, uomini di oggi – pro-clama se stessa anzitutto nella gestione attiva e comune di ciòche è comune, e senza di ciò non può sussistere.

La speranza originaria di tutta la storia è rivolta a unacomunità autentica del genere umano, il cui carattere è da inten-dersi come risolutamente comunitario. Una comunità che non

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s’istituisce da una reale vita comunitaria di piccoli e grandigruppi, che vivono oppure operano assieme, e dalle loro rela-zioni reciproche, sarebbe una comunità fittizia, simulata, unamenzogna planetaria. Tutto dipende, allora, se la collettività,nelle cui mani passa il controllo discrezionale sui mezzi di pro-duzione, renda possibile e supporti, nelle sue strutture e nei suoistabilimenti, una reale vita comunitaria di gruppi molteplici,cosicché quei gruppi diventino i veri e propri soggetti del pro-cesso di produzione; cosicché la massa, nel suo articolarsi, enelle sue articolazioni (le varie “comuni”) sia forte quanto lacomune economia dell’umanità lo permette; cosicché il lasciar-si rappresentare centralistico arrivi solamente laddove il nuovoordine imperiosamente lo richieda. La questione destinale nonprende la forma di un aut-aut fondamentale: è la questione diuna linea di demarcazione legittima, da tracciare sempre e dinuovo, di un sistema molteplice di innumerevoli linee di demar-cazione tra i domìni che è necessario centralizzare e quelli cheè necessario liberare, tra la quantità di governo e la quantità diautonomia, tra la legge dell’unitarietà e la rivendicazione dellacomunità. L’incessante esame dell’attuale stato delle cose qualerivendicazione della comunità in luogo della costante violenzaesercitata dal potere centrale, la vigilanza di volta in volta sulla“verità del limite”, che muta sempre al mutare delle condizionistoriche, sarebbe il compito della coscienza spirituale dell’uma-nità, un’istanza inaudita, l’affidabile rappresentanza di un’ideavivente. Il “guardiano” di Platone attende qui una nuova formadi manifestazione.

Dico rappresentante dell’idea: non un principio rigido, mala forma vivente, che vuole essere forgiata adesso nella materiadi questo momento concreto. Neanche la comunità può diventa-re principio; anch’essa deve, quando appare, deve fare frontenon tanto a un concetto quanto a una situazione. La realizzazio-ne dell’idea della comunità, come la realizzazione di ogni idea,non esiste una volta per sempre e con valore generale, ma sem-pre e solo come una risposta dell’istante a una domanda dell’i-stante.

Proprio per questo, per il suo significato esistenziale, ogni

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sentimentalismo, ogni esagerazione ed entusiasmo devono esse-re tenuti lontani dal nostro pensare alla comunità. La comunitànon è mai un umore, e anche dove è un sentimento, è sempre unsentimento di una costituzione. La comunità è la costituzioneinteriore di una vita comune che conosce e comprende il rendi-conto parsimonioso, la casualità avversa, la preoccupazione cheimprovvisamente assale. È la comunità dei bisogni, e, partendoda questo, comunità dello spirito; comunità degli sforzi, e solopartendo da questo, comunità di salvezza. Anche quella comu-nità che chiama lo spirito “suo Signore” e chiama la sua pro-messa “salvezza”, la comunità “religiosa”, è comunità solo seserve il suo Signore in una realtà non selezionata, non elevata,semplice. Una realtà che non è stata scelta, ma che piuttosto gliè stata consegnata, è comunità solo quando, attraverso il gine-praio di questo momento storico privo di direzione, prepara ilsentiero per la sua promessa. Certo, non si tratta di “opere”, madell’operato della fede. Una comunità di fede è vera solo se èuna comunità di lavoro1.

L’autentica essenza della comunità deve essere trovata nelfatto, manifesto o nascosto, che essa possieda un centro. Il verosorgere della comunità deve essere compreso attraverso il solofatto che i suoi membri possiedano una relazione comune alcentro, superiore a tutte le altre: il cerchio è tracciato dai raggi,non dai punti della circonferenza. E non è possibile riconoscerel’originarietà del centro se non nella sua trasparenza all’internodel divino. Ma più il centro si presenta in modo terrestre, crea-turale e vincolante, più vero e trasparente esso è. Il “sociale”appartiene a tale centro. Non come una sua partizione, bensìcome il mondo dell’attestazione al quale la verità del centro simanifesta. Ai primi cristiani non bastò la comunità che eraaccanto al mondo o aldilà di esso, e così essi andarono nel deser-to per non avere altra comunità al di fuori di quella con Dio, e

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1. Questa osservazione di Buber varrà a maggior ragione allorché ilfilosofo volgerà il proprio sguardo al nascente Stato di Israele, come si evincedalla seconda metà del testo Umanesimo ebraico, presente in questo volume.

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nessun mondo che li disturbasse più. Ma fu loro mostrato comeDio non desideri che l’uomo sia solo con lui; e dalla santa inca-pacità della solitudine crebbe l’ordine della fratellanza. France-sco infine, oltrepassando l’àmbito di Benedetto, strinse un lega-me con le creature.

Una comunità non ha affatto bisogno, però, di essere “fon-data”. Nel momento in cui il destino della storia ha posto unaschiera di uomini in uno spazio comune di natura e di vita, que-sto era lo spazio per lo sviluppo di un’autentica comune; e al suocentro non era necessario nessun altare di una divinità cittadina,poiché gli abitanti si sapevano uniti all’Innominabile, e grazie aesso. Vi era un vivente e sempre rinnovato essere l’uno con l’al-tro, e occorreva dispiegarlo nell’immediatezza di tutte le rela-zioni. Gli affari comuni venivano discussi e decisi in comune,nel più felice dei casi senza ricorrere a rappresentanti, ma nelleriunioni nella piazza del mercato, e il legame esperito nella sfe-ra pubblica si irradiava in ogni contatto personale. Il pericolodell’isolamento poteva incombere: lo spirito, che prosperava quicome in nessun altro luogo, lo scongiurò, e rese visibile al popo-lo, all’umanità, al cosmo, la sua ampia finestra in un muro stret-to. Mi si obietterà che questo era vero allora, e che oggi è impos-sibile. La città moderna non ha un’agora, e l’uomo modernonon ha tempo per quelle discussioni da cui i suoi rappresentan-ti scelti possono sollevarlo. Un concreto essere l’uno con l’altroè ormai distrutto dall’obbligo della quantità e dalla forma del-l’organizzazione. La vita diurna e l’anima sono sanamente sepa-rate: il lavoro, il tempo libero e lo sport connettono le une conle altre più persone che la politica. Tali legami sono però imper-sonali: si coltivano gli stessi interessi e si seguono le stesse ten-denze, ma non c’è interesse per “l’immediatezza”. La colletti-vità non è un intimo stare insieme, ma una grande unione poli-tica ed economica di forze, infeconda per il gioco romanticodell’immaginazione, ma che si sperimenta in cifre, e si esprimein azioni ed effetti, a cui l’individuo può appartenere senza inti-mità, ma nella consapevolezza del suo contributo energetico. Difronte a un tale inarrestabile sviluppo, i “legami” devono dis-solversi. Esiste ancora la famiglia, comunità domestica che, a

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dire il vero, sembra esigere e garantire un modo di vivere insie-me, ma o anch’essa uscirà dalla crisi in cui è entrata, diventan-do un’unione strumentale, o sparirà.

Di fronte a questo miscuglio di constatazioni esatte e diconclusioni sbagliate io mi pronuncio per la rinascita dellacomunità. Rinascita, non restaurazione. La comunità non è darestaurare, per quanto mi sembri che ogni respiro di vicinanzacollaborativa in un condominio, ogni ondata di un caldo came-ratismo nei momenti di pausa in una fabbrica ultrarazionalizza-ta significhi una crescita del carattere comunitario del mondo;ma per quanto talvolta una proba comunità di un villaggio miappaghi più di un parlamento, la comunità non può essererestaurata. Se però una rinascita della comunità avviene dalleacque e dallo spirito di un’imminente trasformazione dellasocietà, mi sembra allora che tutto ciò debba essere determinan-te per la sorte del genere umano. Un’essenza comune organica(solo questo si addice a un’umanità così formata e articolata)non si edificherà mai partendo da individui, ma solamente dal-le piccole e dalle minuscole comunità: un popolo è una comu-nità nella misura in cui tiene assieme ciò che è comune. Se lafamiglia non riemergerà purificata e rinnovata dalla crisi cheoggi si manifesta come una rovina, anche lo Stato finirà conl’essere solo un apparato alimentato dai corpi delle generazioni.La comunità che in tale maniera potrebbe essere rinnovata esi-ste solo come un residuo. Quando parlo di una rinascita, nonpenso a una continuità, bensì a un cambiamento nella situazio-ne mondiale. Queste nuove comunità si potrebbero anche chia-mare “nuove cooperative”, intendendo il soggetto di un’econo-mia trasformata, il collettivo nelle cui mani deve passare il con-trollo discrezionale sui mezzi di produzione. Ancora una volta:tutto dipende se esse sono e saranno pronte.

Quanta autonomia economica e politica si dovrà loro con-cedere (esse saranno necessariamente unità politiche ed econo-miche al tempo stesso) è una questione tecnica che si deve por-re, e a cui dovremo rispondere sempre e di nuovo; ma nel porretale questione, e nel risponderle, occorre una conoscenza sovra-tecnica, per cui la potenza esteriore di una comunità dipende

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dalla sua potenza interiore. La relazione tra centralismo e decen-tramento è un problema che, come è stato detto, deve essereaffrontato, come tutto ciò che concerne il rapporto di un’ideacon la realtà, con il grande tatto dello spirito, con l’instancabilebilancia della giusta misura. Centralizzazione, ma solamentequanto è necessario, secondo le condizioni del tempo e del luo-go; se l’istanza che è esortata a tracciare e a ritracciare le lineedi demarcazione rimarrà desta nella coscienza, la divisione trala base e la sommità della piramide del potere sarà del tutto dif-ferente da quella di oggi, anche negli Stati che si qualificanocome comunisti, ovvero: che tendono alla comunità. Un sistemadi rappresentanza dovrà esistere anche nella forma di societàche ho in mente; ma non si presenterà, come quello di oggi,come un’apparente rappresentanza di amorfe masse di elettori,bensì come rappresentanza del lavoro effettivo delle comunitàeconomiche. I rappresentati non saranno legati con i loro rap-presentanti (come oggi) da vuote astrazioni, attraverso la fra-seologia di un programma di partito, ma concretamente, attra-verso una comune attività ed esperienza.

Ma la cosa più essenziale deve essere la continuazione delprocesso di formazione della comunità nel reciproco rapportar-si delle diverse comunità. Solo una comunità di comunità potràessere chiamata un’entità comune.

Lo schizzo di quest’immagine, che ho qui tracciato fretto-losamente, vuole essere messa agli atti del “socialismo utopi-co”, finché la tempesta non irromperà. Come non credo nella“gestazione” di una nuova forma di cui parla Marx, non credoneppure alla “partenogenesi” dalla roccaforte della rivoluzionedi cui parla Bakunin. Ma credo nell’incontro tra immagine esorte nell’ora plasmatrice.

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LA POTENZA DELLO SPIRITO

Discorso tenuto al Lehrhaus di Francoforte

Il conte Hermann Keyserling ha recentemente caratterizzatola situazione presente della vita dei popoli, affermando come untipo insidioso di uomini si stia sostituendo al tipo di uomo capacedi essere alla guida. A questo corrisponderebbe il fatto per cui lamaggior parte dell’umanità sarebbe diventata spiritualmentepassiva. Questa passività, però, avrebbe origine in una rivolta delleforze non-spirituali o telluriche, come egli le chiama; io preferiscochiamarle “forze elementari”. Il fondamento della nostra civiliz -zazione sarebbe stato troppo limitato, il numero delle capacità edegli impulsi umani in esso compresi troppo ristretto, e dalmomento che proprio quelle forze sarebbero state trascurate, nesarebbe seguita quella reazione che si manifesta in una tendenzamolto forte alla ripaganizzazione, in un ripristino del paganesimo.L’antichità pagana sarebbe stata, appunto, l’ultima epoca culturalein Europa nella quale l’uomo avrebbe accettato e legittimato sestesso nell’interezza del suo essere. Perché non dovremmo d’orain avanti, domanda Keyserling, tendere a una nuova integrazionedi tutte le forze vitali nella nostra coscienza, perché nondovremmo tentare di compiere una nuova sintesi, nella quales’inserirebbe tutta la vitalità del nostro essere, proprio come feceil mondo antico al suo apice di comprensione? Sì, egli presume,questa nuova cultura potrebbe persino essere superiore a quellaantica, dato che la nostra comprensione delle cose e dei lororapporti sarebbe diventata più esatta e più profonda.

Vi ho riportato l’opinione di un contemporaneo riflessivo,

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dal momento che in essa si mostra una connessione caratteristicadi entrambe le cose, ovvero uno sguardo reale sull’attuale statodelle cose che, però, si lega a una finalità sbagliata, e, nelcontempo, a una conoscenza sbagliata delle cause. Non si puòdavvero ambire a una sintesi, allorché si valuta una certa epocapassata. Nella realtà storica non esiste produzione a partire dalpensiero. Certamente esiste un effetto, una potenza dello spiritonella storia, ma solo involontariamente. Quel programma di unafinalità dimostra la sua questionabilità già nell’attributo di“nuova” cultura. Di volta in volta ci sono cose nuove, ma nonsono quelle che come tali erano state annunciate. Il “grandenuovo” non si annuncia mai come qualcosa di nuovo. Ma adessoè più che mai questionabile l’annuncio di un nuovo paganesimo,che già udiamo in alcuni luoghi1. È non capire il senso deldivenire della storia dello spirito supporre che basti richiamarsia un’epoca per afferrare il materiale o il modello del “nuovo”. Intal modo, mai si riacquisterà qualcosa, da quel che si è sviluppatoed è diventato involontariamente, mai si riacquisterà lo splendoredel paganesimo erigendolo a scopo; al contrario, ciò che si tienetra le mani sarà sempre e solo il negativo, non del paganesimo,che è originario, e proprio per questo irripetibile, bensì solamentedi quanto in esso non è ancora cristianesimo.

Con ciò, vi è ancora una domanda residua circa la potenzadell’elementare nel nostro tempo, e questa è certamente ladomanda fondamentale di questo momento: esiste un’altrapotenza dello spirito in questo momento storico, una potenzadello spirito ancora viva e superiore alle forze elementari chedominano il presente? Oppure, nel corso della storia, ilsignificato e la funzione dello spirito sono cambiati a tal puntoche lo spirito non può più essere il signore delle forze elementarie deve abdicare? Certamente, lo spirito è stato spesso assalito,

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1. Buber intende qui il regime nazionalsocialista, leggendolo come formadi neopaganesimo avente nelle “forze elementari” di “sangue” e “popolo” (ilriferimento a esse è expressis verbis verso la fine del presente testo) e nellasottomissione e venerazione incondizionata del Führer i suoi tratti salienti.

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Maiuscolo -> Signore
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nel corso della storia, da quelle forze che dal basso spingevanoverso l’alto, ma persisteva nelle sue rivendicazioni, e accadevasempre e di nuovo che esso potesse imporsi sui ribelli, eimprimere il segno della sua potenza. Ma esiste ancora questapotenza dello spirito, o no?

Se partiamo da questa domanda, dobbiamo innanzituttorisolvere un equivoco. Ciò che qui s’intende come “spirito” non èqualcosa che sarebbe sorto gradualmente nella storia del genereumano. Lo spirito non è una tarda fioritura sull’albero dell’uomo,bensì è ciò che costituisce l’uomo in quanto tale. Il fatto chel’uomo sia un’entità che non può essere compresa solo attraversole circostanze naturali, ma che l’uomo, la sua humanitas, esistacome categoria dell’essere, ha il suo fondamento nella coscienzadell’humanitas, e solo questo è ciò che a ragione chiamiamo“spirito”. Lo spirito non è allora una facoltà dell’uomo accantoalle altre, bensì la sua peculiare interezza – che fa dell’uomol’uomo – divenuta coscienza, interezza nella quale sono incluse eunite tutte le sue capacità, le sue forze, le sue caratteristiche, i suoiimpulsi. Se questo è un pensare, allora è un pensare con l’interocorpo – l’uomo spirituale pensa anche con le punta delle dita2.L’esistenza spirituale non è nient’altro che l’esistenza umana, nellamisura in cui l’uomo possegga l’autentica interezza consapevoledell’humanitas, che non è il prodotto di uno sviluppo, ma si trovainvece nell’origine dell’uomo, sviluppandosi però in modopersonale. Oggigiorno si parla però di spirito in un sensocompletamente diverso: con questa parola si indica, obliando odisprezzando il suo grande passato da est verso ovest, quellacomponente umana che, sulla base della sua essenza, è estranea a(e detesta) ogni interezza: l’intelletto isolato3. Da alcuni secoli,isolato da quell’interezza, ma desideroso di potere su tutto l’uomo,sempre più autonomo e bramoso, tale intelletto cerca di governare

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2. La nozione di spirito proposta da Buber è qui ampiamente debitricedella sua interpretazione del chassidismo.

3. Il carattere onniabbracciante dello spirito (Geist) è qui contrappostoda Buber a un esangue intelletto (Verstand).

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il tutto, dall’alto al basso, al posto dello spirito detronizzato, masenza poter penetrare capillarmente in quella vitalità organica,come lo spirito sarebbe invece capace di fare. La rivolta delle“forze telluriche” non è diretta contro lo spirito, il signoreoriginario, bensì contro quell’usurpatore dalle sembianze diomuncolo. Ma non questo intelletto, bensì solo l’interezza dellospirito dell’humanitas è capace di imporsi, di volta in volta, sulleforze e sugli impulsi elementari: non di domarle, come si domanole belve, ma di imporsi su di esse, come uno scultore che siimpone sulla materia dandole forma. Solamente dallo spiritodell’interezza la vita della persona e del genere umano giungonoa un ordine sensato e a una forma.

Il rapporto dello spirito nei confronti delle forze e degliimpulsi elementari non deve essere compreso nel puro pensiero,ma solamente nell’effetto dello spirito sulla vita. Lo spirito però,che non si accontenta del pensiero, ma influisce su tutta la vita,si manifesta, in qualunque modo si nomini (o venga nominato),come la forza della fede (Glaubenskraft). All’interno del recintodell’anima della persona, lo spirito si manifesta come il coraggioe l’amore propri della fede. Con la forza della fede, nel coraggioe nell’amore, lo spirito agisce nel mondo. Qui è la sua potenzache può dominare sugli elementi, poiché li conosce dal principioe sa a cosa vanno incontro. Da un’epoca storica a un’altra, èpossibile che lo spirito venga scacciato ed esiliato, ma essomantiene la sua potenza: sempre e di nuovo, attraverso lo spirito,attraverso il coraggio e l’amore della fede, il vero accade nellastoria in modo inatteso e improvviso. Il celarsi dello spirito è alservizio del suo rivelarsi.

Emerge da qui qualcosa d’importanza fondamentale, che sicontrappone al pensiero da cui sono partito. Nel corso della storianon ci sono, come questo pensiero suppone, due tipi di rapportidello spirito alle forze elementari, il primo che comparenell’antichità, come il coinvolgimento di tutte le forze dell’uomonella sua esistenza e nell’espressione di essa, e il secondo, percui il superamento delle forze elementari può crescere fino allaloro repressione, bensì tre. Il primo è la trasfigurazione delleforze elementari in quanto tali: possiamo definirlo come il

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maiuscolo -> Signore
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paganesimo nella vita dei popoli. Il secondo è il superamentodelle forze elementari, come esso compare nel modo più fortenel cristianesimo. Il terzo, invece, è la consacrazione delle forzeelementari: non la loro trasfigurazione né il loro superamento,bensì il loro ingresso nel sacro, nel contesto del sacro e, conquesto, la loro trasformazione. Nella storia dell’Occidente, lamanifestazione più chiara di questo terzo tipo di rapporto èl’ebraismo.

L’ebraismo viene frainteso da due posizioni. Il cristianesimolo fonde con il paganesimo, in quanto sarebbe altrettantoincapace di superare questo mondo e di cogliere una superioritàsita aldilà di esso; il paganesimo (in riferimento al momentopresente, il “neopaganesimo”) invece, fonde l’ebraismo con ilcristianesimo, perché negherebbe le grandi forze vitali, e glimancherebbe il senso per il mistero della realtà. Entrambi questimodi di vedere non colgono l’essenza dell’ebraismo. Questodiventa chiaro se osserviamo una accanto all’altra le tre formedella potenza dello spirito nel loro rapporto con l’elementare.Certamente, attraverso questa marcata distinzione non può essereresa piena giustizia agli intrecci storici; piuttosto, deve emergerenell’ambito del paganesimo e del cristianesimo la problematicitànel loro relazionarsi con l’elementare, senza che queste figureconcrete tratte dalla storia possano essere identificate con questesemplificazioni.

Nel paganesimo le forze elementari in quanto tali vengonotrasfigurate, hanno un valore sacro, vengono sacralizzate, ma nonvengono trasformate. Lo spirito non le include in un sacro eternoe incondizionato, che non discende né dalla natura né dall’uomo.Il sacro inerente alla loro trasfigurazione, il loro rango divino nonregge, dal momento che non possono attingere all’infinito dallospirito che le nutre. Quel sacro si sfoglia come la doratura di unquadro, e tutti i tentativi di una doratura successiva, di ellenismo,fallirono. La realtà pagana si spezza inevitabilmente in uno spiritoestraneo al mondo e in un mondo estraneo allo spirito. L’antichitàclassica non è altro che lo splendido sogno (o l’ebbrezza) diun’esistenza sacra per natura. La tragedia greca costituisce ilprogressivo risveglio da questo sogno (o ebbrezza) e la filosofia

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greca il tentativo sempre più vano di un recupero di ciò che stasvanendo. Nel mondo antico l’uomo non si cura, come inveceafferma Keyserling, del suo essere nella sua completezza, mas’innalza al di sopra del suo conflitto effettivo e irrisolvibile aun’inaudita genialità figurativa; conflitto che, con il venire menodella forza figurativa, implacabilmente avanza e annuncia ladisperazione di un’epoca. Questo è il momento in cui ilcristianesimo, nel frattempo cresciuto, prende il potere e istituisceun nuovo rapporto con le forze elementari.

Il cristianesimo – con il quale non intendo l’insegnamentodi Gesù – porta a compimento la desacralizzazione delle forzeelementari. Affinché questo sia chiaro, è necessario distingueretra forze elementari e impulsi elementari. Chiamo forzeelementari le forze naturali che, nel tempo delle origini e neltempo della storia, costituiscono il modo di essere, lecaratteristiche e le attitudini dell’uomo. Gli esempi più noti aquesto riguardo sono le forze elementari “sangue” e “terra”.Evitando di accettarle nella propria sacralità, il cristianesimoporta a compimento la desacralizzazione negativa di queste forzeelementari. Ma simultaneamente porta a compimento ladesacralizzazione positiva degli impulsi elementari. A differenzadelle forze elementari, che edificano la vita in modo oggettivo, gliimpulsi elementari fanno sì che l’esistenza umana si sviluppi inmodo soggettivo, ma si rifletta in un nucleo comune, in parteaffine e in parte diverso da tutti gli altri esseri viventi; questaesistenza umana soggettiva la conosciamo nella fame, nellasessualità, nel desiderio di potere. Il cristianesimo li desacralizzapositivamente, sottomettendoli a una sacralità completamentediversa. La più grande espressione di questa sottomissione è laparola paolina della “legge del peccato, che è nelle mie membra”4

e che, contraddicendo la “legge della mia mente”, tesse il corpodella morte. Il mondo antico si era frantumato in uno spiritoestraneo al mondo e in un mondo estraneo allo spirito. Qui, inquesta doppia legge paolina, essi dimorano uno accanto all’altro.

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4. Romani 7,23.

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Lo spirito è sacro, il mondo è profano. Anche laddove ilcristianesimo accetta la sacralità della vita naturale, come nelsacramento del matrimonio, non è consacrata la corporeitàdell’uomo medesimo: essa è solamente sottomessa al sacro.L’ideale ascetico non era di certo vincolante per tutti; lo è statainvece l’immagine del buon cristiano, e quest’immagine haforgiato in modo decisivo il cristianesimo occidentale. Sorse undualismo fondamentale dell’essere: il mondo e lo spirito sonosoggetti a due leggi diverse, l’uomo a partire da sé non può nulla,può solamente fare affidamento all’altro, alla redenzione, chedall’aldilà è entrata fisicamente nel suo spazio. Comeconseguenza di questo dualismo fondamentale si sviluppa undualismo effettivo tra la vita umana come viene pensata e la vitaumana come viene vissuta, che si esterna nel grido di alcunigrandi fedeli: in alto una meravigliosa cupola, con magnificicolori dorati che ricopre la vita con la sua volta, consolando esaziando lo sguardo, in basso la vita effettiva, dove potente e,persino venerato, per quanto profano nella sua profondità piùintima, l’elementare comanda.

Ribadisco, ho offerto una presentazione necessariamenteunilaterale, semplificata. Accanto a quanto ho sopra menzionato,vi è nel cristianesimo qualcosa di essenzialmente diverso: non èciò che scaturì in esso da un’antichità che stava cadendo a pezzi,quanto dalla tradizione della fede originaria biblica. Entrambiperò, lo spirito interamente cristiano come quello totalmentepagano, sono il vero spirito, che istituisce un rapporto vincolantecon le forze elementari. Tutto ciò muta radicalmente negli ultimisecoli, in cui non domina più lo spirito, bensì quell’intellettoisolato e usurpatore che prende a controllare l’elementaredespiritualizzando l’essere. Quella rivolta delle forze elementaridipende in verità solo da lui, che certamente spesso siautoinganna e combatte lo spirito anziché il suo oppressore.

L’ebraismo può essere riconosciuto nel suo significatostorico-spirituale solamente considerandolo nel suo essereconnesso con gli antichi sistemi reali dell’Oriente, come quelloche, al loro interno, s’intreccia con la struttura e l’essenza deipopoli occidentali in modo mediato, dimorandovi però in modo

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immediato. Dicesi sistema reale, a differenza di tutti gli altrisistemi solamente ideali, quell’unità fondamentale di una grandecomunità, attraverso la quale tutti gli àmbiti della vita sociale,familiare e personale, ciò che concerne lo Stato, l’economia, lacultura fanno riferimento a un solo principio originario, che nonderiva da nessuno di loro, ma che compenetra ognuno di loro,conferendo senso a ognuno di loro – un principio originario, chenon ricopre il carattere del popolo, ma che rimane a essotrascendente, donandogli fondamento e anima. L’ebraismo si ètenuto separato da questi sistemi reali dell’Asia, la cuidissoluzione è già in atto o è prossima, e si è preservato,attraverso il suo isolarsi occidentale dalla grande epocadell’Oriente, certamente non indenne, ma ancora incontaminato.In esso, nell’ebraismo, lo spirito non è nient’altro che quellapotenza che sacralizza il mondo. In qualche luogo esso non èqualcosa d’indipendente e d’autarchico, ma è ciò che lega e ciòche esiste nel legame. Sì, ci si può rivolgere all’ebraismo comeal legame in quanto tale, il legame di questa comunità umana conla propria origine, un legame con Dio, che non è semplicementequi qualcosa di stabile, sicuro, posto dentro l’uomo, bensìqualcosa che diviene di volta in volta, che scorre, che si riversa,che si sedimenta: l’accadere dell’essere legato a Dio dell’uomo.Questo spirito vuole trovare la sua realtà, per la quale discendesugli uomini: per la consacrazione del mondo. L’essere reale delmondo viene qui compreso e accettato con estrema serietà comeun essere creato. Il mondo è stato creato, il mondo non èun’immagine riflessa, non è un’apparenza, non è un gioco, ilmondo non è qualcosa da superare: è realtà creata, ma una realtàcreata per la sua consacrazione. Tutte le creature in quanto talisono bisognose della consacrazione e sono idonee allaconsacrazione: tutta la corporeità creata, tutti gli impulsi creati,tutte le forze elementari create. La corporeità riceve ilcompimento del senso del suo essere stata creata attraverso laconsacrazione. Il senso, che dalla creazione è stato posto negliuomini e nel mondo, viene compiuto attraverso la consacrazione.Il mondo non è dunque trasfigurato, ma non viene nemmenosuperato dallo spirito. Lo spirito abbraccia un mondo sacro,

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godendo ciò che è sacro, e non fluttua sopra un mondo profano,atteggiandosi a ciò che è sacro, ma opera la consacrazione e ilmondo viene consacrato.

Nel sistema reale dell’ebraismo, nella sua esistenza di fede, leforze elementari vengono consacrate in una connessione sacraoriginaria. Così, il sangue e la terra vengono consacrati attraversola promessa fatta ad Abramo di diventare “una benedizione”5. Il”seme” e la “terra” verranno promessi6, ma solamente affinché nelgenere umano, disperso nella confusione delle lingue7 e divisonelle “isole delle nazioni”8, un nuovo popolo “segua la sua via,agendo con verità e giustizia”9 nella sua terra, cominciando così acostruire una nuova umanità. Popolo e terra appaiono nell’Israelebiblico come le forze elementari che ricevono la loro consacrazionedallo scopo della creazione di Dio. Però, non vengono detti sacri,e nemmeno il sacro si allontana da loro, ma vengono recepiti econsacrati dal sacro medesimo. Così vengono consacrati anche gliimpulsi elementari, e quelli sacrali diventano sacramentali: la fame(trasformata nella macellazione e nella preparazione rituale dellevivande, ancora oggi esistente) nella consacrazione del sacrificio,nel quale ogni consumo di carne animale si lega a un’offertapresentata a Dio, il cui senso originario è che l’uomo stesso siadebitore a Dio, e che egli possa estinguere tale debito soloattraverso l’animale; il sesso (ancora oggi esistente nella suapurezza) nella consacrazione del legame nella circoncisione, nelquale la procreazione trova conferma e si trasforma in una sacravocazione; il desiderio di potere (ancora oggi esistente solamentenella speranza messianica) nel sacramento dell’unzione del re, nelquale il detentore del potere, in qualità di luogotenente di Dio,riceve da lui l’incarico di fondare un regno di giustizia10. La

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5. Genesi 12,2.6. Genesi 13,15 e seguenti.7. Genesi 11,8 e seguenti.8. Genesi 10,5.9. Genesi 18,19.10. 2Samuele 23,3 e seguenti.

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Evidenziato
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Nota
2 -> Tondo (NOTA BENE: solamente il 2; Samuele rimane in italico)
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santificazione trasforma gli impulsi, mettendoli di fronte allaresponsabilità nei confronti del sacro. Questa concezione assurgea insegnamento nella dottrina di jezer hara, della “illusorietà delmale”, del cosiddetto impulso malvagio, ovvero: della passione.Anche l’impulso malvagio appartiene alla creazione, è stato creatoda Dio negli uomini come la forza senza la quale nessun’opera,nemmeno nessun’opera sacra, può aver luogo. Occorre che l’uomo,l’uomo capace di scegliere, conferisca l’intera decisione delladirezione all’intera forza della passione; ma anche questo è solol’inizio di un movimento il cui compimento non è più affar suo.Nella consacrazione viene accolto, confermato e portato acompimento l’uomo nella sua interezza. Questa è la veraintegrazione dell’uomo.

Alla domanda sulla potenza dello spirito in questa epocastorica non spetta a noi offrire una risposta generale e valida in ogniluogo e circostanza. Ma spetta a noi darci una particolare risposta,valida per noi. Spetta a noi ricordarci della potenza dello spiritonell’ebraismo, con la quale il nostro sistema reale, e in esso le forzeelementari, è stato consacrato e inserito nella grande connessionedel sacro: la sacralità di Dio e la consacrazione di lui e per lui. Lanostra esistenza di fede non conosce nessun altro spirito che esercitiil suo potere sulle forze elementari, essendo tale spirito l’agenteche le consacra. Questo spirito potrà esercitare il suo potere, nelsuo àmbito delle forze elementari, solo se configura una nuovaimpostazione della vita che sia in grado di resistere anche in epochestoriche nelle quali, attraverso le sue forze e i suoi impulsi,l’elementare domina in modo incontrastato.

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LA FINE DELLA SIMBIOSI TEDESCA-EBRAICA

Il tratto distintivo più accentuato nella storia del Galuth èla completa insicurezza. Certo, in nessun momento, in nessunpopolo della storia vige una completa sicurezza: il trovarsi l’u-no contro l’altro di popoli e Stati nel corso della storia com-prende la possibilità di una rovina in ogni momento, ma la sta-bilità prevale. Tempi esposti a costanti sconvolgimenti sonoseguiti da tempi di sviluppo pacifico, e, per quanto ogni cosa siamessa in discussione nei giorni del dolore, il legame tra la mag-gior parte del popolo e la sua terra rimane intatto. Nella nostrastoria del Galuth, invece, ogni condizione in apparenza stabile edurevole porta in sé il germe della disgregazione e della distru-zione. Non esiste nessuna funzione, che noi esercitiamo nell’e-conomia o nella cultura di un popolo, che sia tanto importanteda non potersi rivelare da un giorno all’altro superflua, perfinoinutile e sgradevole; ogni trattato d’alleanza nella storia, chesecondo la nostra convinzione sussiste tra noi e un “popolo ospi-tante”, è in verità, come si racconta dei trattati di Federico ilGrande, scritto su un foglio che porta in scrittura invisibile lanota sic stantibus rebus, valido, quindi, solamente finché tuttorimane così com’è. Noi ricadiamo però ogni volta nell’illusioneche il valore di tale trattato sia definitivo, un’illusione che certonon si può semplicemente liquidare con il termine dispregiativo“assimilazione”. Accanto all’adattamento esteriore c’è sempre,infatti, il fenomeno di un autentico, accresciuto legame con laterra e la cultura – una sintesi in sé problematica, e tuttavia esi-stenziale, che si estende fino alla profondità della nostra esi-

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stenza – la cui fine ha il carattere della lacerazione di una con-nessione organica. Il caso più notevole e significativo di questotipo è stato quello sviluppo dell’ebraismo tedesco a partire dal-la sua emancipazione, che adesso, tramite un intervento delpopolo ospitante, o per meglio dire dello Stato ospitante, ha tro-vato la sua conclusione – un intervento che indubbiamente, nel-l’accuratezza della sua opera di annientamento, nella sua folliacalcolata si presenta in maniera alquanto singolare nella storiadell’umanità occidentale nel XX secolo cristiano.

Io dico: è stato il caso più notevole e significativo. Poichéla simbiosi dell’essenza tedesca e di quella ebraica, come io l’hovissuta nei quattro decenni che ho trascorso in Germania, è sta-ta dal periodo spagnolo la prima e l’unica che ha ricevuto lamassima attestazione che la storia può conferire: l’attestazioneattraverso la fecondità. Ci sono due tipi di incontri tra due ele-menti di popoli tra loro estranei: o uno, in cui entrambi sonoestranei l’uno all’altro in modo negativo, e non agiscono l’unosull’altro, non stringono un legame l’uno con altro, rimanendorigidamente separati l’uno accanto all’altro finché il più debolefisicamente soccombe; o un altro, in cui entrambi sono estraneil’uno all’altro in modo positivo, e in tutta la loro estraneità nel-la loro essenza l’uno si appoggia sull’altro, rivolgendosi l’unoall’altro, allontanandosi l’uno dall’altro, cosicché emerge unàmbito comune, nel quale ha luogo il loro contatto fecondo, ecresce un’opera culturale che senza questo incontro sarebberimasta incompiuta.

La cultura greca-ebraica aveva prodotto solamente figure eopere isolate, e solo sul piano filosofico; la cultura spagnola-ebraica era ricca e molteplice, ma per quanto concerne la suaorigine e il suo sviluppo decisivo era araba-ebraica, ed era sortaquindi non dall’incontro tra due popoli estranei, bensì tra duepopoli imparentati. La breve produttività dell’incontro tedesco-ebraico, che si annunciava già quando Goethe venne catturatodallo spirito di Spinoza, anzi: già quando Lutero venne cattura-to dallo spirito della Bibbia ebraica, ma la cui fioritura duròmezzo secolo a malapena, era autentica e genuina. Certo, daparte degli ebrei ci fu anche un’assunzione avventata e inauten-

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tica dei valori e delle forme tedesche, così come ci fu un’in-fluenza illegittima e indissolubile degli ebrei sulla vita e la cul-tura tedesca, ma tutto ciò rimase, pur nel suo carattere appari-scente, sporadico e periferico. In profondità, la partecipazioneebraica all’economia, alla società, alla scienza e all’arte tedescafu costruttiva e formativa. Non esiste àmbito dell’esistenza tede-sca in questa epoca in cui uomini ebrei non abbiano contribuitoin maniera eminente: valutando, ordinando, interpretando, inse-gnando, dando forma. Questa non era un’esistenza parassitaria;l’humanitas dell’ebreo venne dispiegata nella sua interezza, eportò i suoi frutti. Ma ancora più profondamente che nei contri-buti individuali, la simbiosi si attesta nella peculiare coopera-zione tra lo spirito tedesco e quello ebraico. Quando una poesiatedesca, come quella di Stefan George, si realizza nell’operastorica e di scienza della cultura della gioventù ebraica, quandoun pensiero ebraico, come quello di Edmund Husserl, si river-bera nei fondamenti metodologici di diversi rami del sapereattraverso i suoi allievi tedeschi, in tutti questi casi non vediamonon solo un completamento, ma si mostra una vera fecondazio-ne. Io stesso ho esperito sempre e di nuovo come, nel contattointellettuale con importanti uomini tedeschi, irrompesse dalprofondo, inaspettatamente, qualcosa di condiviso, e diventasseparola e segno tra di noi.

È nell’ambito di una tale realtà che è da capire come alcu-ni eccellenti uomini ebrei si fossero votati alla germanicità sen-za alcuna riserva. In tutti questi anni, a gran voce e instancabil-mente, io e i miei compagni li abbiamo messi in guardia, maquella realtà era, nella maggior parte dei casi, più forte di noi.Chi giudica tutto questo alla leggera non ha capito il caratteretragico del destino del Galuth, non ha capito il sorgere e ladistruzione di una sintesi autentica.

Non voglio parlare qui di quali forze o debolezze abbianoprovocato la catastrofe (Katastrophe), che offre l’immagine,come nessun’altra che l’ha preceduta, della rottura di un legameorganico. Questa catastrofe costituisce una profonda rottura nel-la germanicità medesima, ancora più profonda di quanto oggi sipossa prevedere. Un anno prima del “capovolgimento”, un pen-

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satore tedesco (Paul Tillich) aveva preannunciato l’imminenteminaccia in un suo discorso commemorativo su Hegel: “il prin-cipio ebraico – diceva, intendendo con questa espressione il prin-cipio profetico dello spirito – è diventato il nostro stesso destino,e una ‘secessio judaica’ sarebbe una separazione da noi stessi”1.Oggigiorno, la continuità del divenire spirituale nella germani-cità si è interrotta. Se un giorno verrà rinnovata, si riallaccerànecessariamente a quei valori che furono portati dalla simbiosi, ea quelle opere che da tale simbiosi emersero. Ma per la simbiosimedesima è giunta la fine, ed essa non può ritornare.

Gli ebrei provenienti dalla Germania che hanno trovato lasalvezza qui, in terra ebraica, e quelli che – questa è la nostrasperanza e la nostra attesa – la troveranno, portano in ciò chehanno assorbito e che hanno intrecciato, nel modo più persona-le, con il loro essere ebrei, un importante contributo per lacostruzione della nostra vita e della nostra comunità. Anche ilnostro insediamento è un crogiolo, ma non uno di quelli in cuiminerali americani di diverso genere vengono bruscamente get-tati insieme, bensì uno di quelli in cui leghe diverse vengonoconiate a partire dallo stesso minerale originario. Dal mondo deipopoli, ognuna di esse dona alla patria un altro prezioso bene.Tutto questo deve fondersi insieme in una grande forma di vita.Per noi, il contributo degli ebrei tedeschi deve essere, però, par-ticolarmente prezioso e gradito. Essi ci portano quel nobile ele-mento dell’anima tedesca, compenetratosi della sostanza ebrai-ca, che i loro aguzzini stanno rinnegando e soffocando.

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1 P. TILLICH, Der junge Hegel und das Schicksal Deutschlands, in Id.,Gesammelte Werke, De Gruyter, Stuttgart 1971, Vol. XII, p. 149.

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UMANESIMO EBRAICO

1. All’inizio del secolo, quando una cerchia di giovani allaquale appartenevo iniziò a far notare l’idea di una rinascita delpopolo ebraico e dell’uomo ebreo agli ebrei che vivevano neipaesi di lingua tedesca, noi definimmo l’obiettivo dei nostri sforzicome un Rinascimento ebraico. Non fu per mera casualità chescegliemmo un concetto storico che non era esclusivamentenazionale. È vero che il Rinascimento italiano nel suo primoperiodo aveva in mente un’immagine di rinnovamento delpopulus romanus, di una rigenerazione dell’Italia. Ma c’eraqualcosa d’altro, che già allora mi fu illustrato dal mio maestroWilhelm Dilthey, e quindi, a dieci anni di distanza, e conparticolare chiarezza, da Konrad Burdach, insigne germanistache seguiva il nostro lavoro con calorosa simpatia. Si trattava delpensiero di un’affermazione dell’uomo e della comunità umana,di una rinascita del genere umano dalle proprie ceneri, come lafenice. Noi sentivamo che questa fosse la verità, ed è per questoche utilizzai il termine Rinascimento nel mio primo saggio sutale argomento1. Ma il pieno significato di quel termine da noiconiato, le conseguenze sostanziali e linguistiche che risultanoda tale scelta, tutto questo ci si dischiuse solo gradualmente nelcorso degli ultimi quattro decenni, a partire dal nostro operato

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1. M. BUBER, Jüdische Renaissance, in Ost und West, I/1, Gennaio 1901,col. 7-10, §18. Ora in Id., Frühe jüdische Schriften 1900-1922, GütersloherVerlagshaus, Gütersloh 2007, pp. 143-147.

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medesimo. Questa conoscenza mi aveva indotto già nel 1913,quando discutevo con un gruppo di miei amici il programma perla fondazione di una libera scuola ebraica (la cui fondazionevenne vanificata dallo scoppio della Prima guerra mondiale) adefinire lo spirito che doveva guidare quel programma educativocome un Umanesimo ebraico. E quando nel 1929 tenni undiscorso al congresso sionista, e provai a riassumere in unconcetto ciò che mancava nel nostro sistema educativo inPalestina, chiamai nuovamente quanto è per noi necessario “unUmanesimo ebraico”. Con questo termine non si deve solointendere quello che si suole chiamare un “ginnasio umanistico”,poiché (per questo aggiunsi: “nel senso più reale”) il latino e ilgreco sono sostituiti dall’ebraico. Con queste parole doveva alcontempo essere espresso come quanto avevo in mente nonavesse una dimensione esclusivamente pedagogica, ma che ognielemento pedagogico che conteneva emergesse, come nelfrattempo avevo riconosciuto con maggiore chiarezza, dal veroscopo del movimento di rinascita del popolo ebraico. Desideravorendere chiaro tale obiettivo nella sua essenza allorché dicevo“Umanesimo” anziché “Rinascimento” così come quando dicevo“ebraico” anziché “giudaico”. Quando Hitler prese il potere inGermania, e mi trovai di fronte al compito di armare la nostragioventù nel suo spirito, così da poter resistere all’antispiritohitleriano, chiamai il mio discorso programmatico Umanesimobiblico2, per rendere ancora più chiara la prima metà di taleconcetto. Con questo veniva detto che tra i compiti della Bibbia,quale grande documento della nostra antichità, le spettava quellafunzione decisiva, che nell’Umanesimo europeo era statoassegnato alla letteratura dell’antichità classica. Oggi, ove si trattadi dare il nostro contributo per l’educazione del popolo inPalestina, il quale si sta sviluppando in direzione contraria al suorinnovamento, dobbiamo anzitutto spiegare che cosa intendiamocon questo rinnovamento. Per questo dobbiamo chiarire l’altra

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2. M. BUBER, Biblischer Humanismus, in Der Morgen, IX/4, Ottobre1933, p. 245, §462.

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metà del concetto, con cui non dico soltanto “Umanesimo”, bensìumanità, humanitas, una humanitas ebraica. L’attributo “ebraico”intende impedire il fraintendimento per cui io mi riferirei a unacerta quale umanità (Menschlichkeit) in un senso vago e generico.Con humanitas mi riferisco proprio al valore di un autenticoUmanesimo. Con ciò intendo dire che noi non aspiriamo a unmero movimento spirituale, bensì a una grande realtà di vita.

Se noi ci chiediamo quale sia l’origine di quel concetto dihumanitas su cui si fonda l’Umanesimo, scopriremo che si trattadella fede (Glaube) nell’uomo, la fede per cui, quindi, l’uomo inquanto tale non è soltanto una specie zoologica, ma un essere asé, uno spirito a sé. Questo è vero però se e solo se egli èrealmente un essere umano, vale a dire se realizza nella suaesistenza questo elemento peculiare, impossibile a trovarsi altrovenell’universo. “Se sei un uomo”: così viene rivolta la parola a unapersona nella commedia latina, e in quella greca si dice, ancorapiù energicamente: “che cosa meravigliosa sarebbe l’uomo, sesolo fosse uomo!” All’interno del genere umano in sensobiologico sono quindi numerosi quelli che, nel senso più elevatoe decisivo di tale concetto, risultano inumani (Unmenschen), etuttavia nemmeno a loro è negata l’humanitas. Ma per quantipossono veramente essere chiamati uomini, il pericolo discivolare dell’inumano è sempre in agguato. È stata tramandataa tale proposito una massima di Scipione Africano Minore:“come alla fine di una campagna militare riconsegniamo ilcavallo all’allevatore, così, dopo ogni vittoria politica, dovremmoaffidarci alla disciplina del filosofo per non perdere il legamecon l’humanitas”. Ma che cosa bisogna fare se ciò che è umano(das Menschliche) non solo nel singolo, ma anche in un’interaepoca o in un’intera età del mondo, rischia di sbiadire, quandonon di distruggersi? Occorre rivolgersi a un’epoca dove ciò cheè umano esisteva puro e forte, anche laddove dovette combattereinfinite volte contro l’inumano (sempre che quell’esistenza si siamanifestata nel modo in cui è stata tramandata). Questa misembra essere stata un’importante molla propulsiva per il primoUmanesimo europeo. A questo si deve certamente aggiungere:per il rinnovamento esistenziale dell’umanità noi uniamo le

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Evidenziato
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Nota
italico
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manifestazioni personali di un’umanità nuova e più libera, checogliamo nondimeno nella sua epoca, a quell’umanità che è statatramandata dall’antichità. L’esempio tratto dall’antica letteratura,e quello della nuova vita, danno la forza per lottare contro laminacciosa rovina dell’umano solamente a patto che siano l’unainsieme all’altra. E quelle manifestazioni personali non sono quida interpretare come qualcosa di nuovo, bensì come unrinnovamento dell’antico, come l’annuncio vivente della suaeternità, sebbene sia evidente che qui, partendo da condizionidiverse, sia sorta un’altra forma.

Nell’indagare alcune delle radici dell’Umanesimo nondobbiamo ovviamente perdere di vista il fatto che quella formatramandata di un’antica immagine dell’uomo fosse “linguistica”in un senso specifico. Ovvero: non si sono tramandate soloinformazioni e descrizioni circa l’ideale dell’uomodell’antichità, ma anche alcuni uomini che aspiravano a questoideale, e che avevano conservato, nel loro modo di esprimersi,qualcosa di questa umanità, e se si comprendevanocorrettamente le loro affermazioni, si poteva accedere in modoimmediato a quell’umanità esemplare, più di quanto fossepossibile mediante quelle informazioni e quelle descrizioni. Conciò non intendo in nessun modo riferirmi a quanto quegli uominidissero riguardo se stessi. Il grande uomo che prende la parolanon ha bisogno di fornirci informazioni circa il suo essere perrivelarcelo: il linguaggio assolve tale compito. Qualunque cosaci venga comunicata per suo tramite, il linguaggio stesso èl’espressione e l’accesso. Sì, il linguaggio in sé, la particolaritànella formazione della parola e del periodo, il flusso ritmico deisuoni, tutto questo prende forma attraverso quell’immaginedell’uomo.

L’Umanesimo giunge a quell’immagine dell’uomo,comprendendola come esemplare, attraverso il linguaggio.Questo significa anzitutto che la tradizione letteraria, perun’autentica comprensione umanistica, non sia oggetto diapprezzamento estetico o di apprendimento storico-culturale, oancora di orgoglio patriottico. Essa è tutto questo, ma anchemolto di più. La tradizione letteraria è anzitutto, nel suo senso

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più esatto, autorevole e normativa, dal momento che insegna adistinguere tra l’umano e l’inumano: essa testimonia e mostra chiè l’uomo.

Rimane ancora da discutere il rapporto dell’Umanesimo conl’immagine dell’uomo dell’antichità. Si tratta di una domandaspecificamente moderna, e nondimeno necessaria. Noi cichiediamo: può essere ancora valida un’immagine dell’uomo cheè sorta in condizioni di vita totalmente differenti dalle nostre?Può aiutare alla realizzazione dell’umano in un’epoca cosìessenzialmente diversa? Può essere veramente normativa? Larisposta è sì, se si è in grado di distinguere in essa tra ciò che ètemporalmente condizionato e ciò che è sovratemporale, epertanto valido per tutti i tempi. L’autentico Umanesimo haquindi un duplice compito di fronte all’immagine dell’uomodell’antichità tramandata attraverso il linguaggio: uno ricettivo euno critico. E nessuno dei due può avere né senso né fondamentosenza l’altro.

Umanesimo ebraico significa allora in primo luogo risalirealla tradizione sorta attraverso il linguaggio della nostra antichitàclassica, alla Bibbia ebraica; quindi, a una ricezione della Bibbianon in virtù del suo valore letterario, storico e nazionale (perquanto questo sia certamente importante), bensì del valorenormativo dell’immagine dell’uomo biblica; dunque, affinchétale ricezione corrisponda alle intenzioni della Bibbia, occorredistinguere tra condizionamenti temporali e il sovratemporale;infine, elevare l’immagine dell’uomo così emersa conferendolevalore normativo sulla vita presente, con i suoi specificicondizionamenti, compiti e possibilità, peculiarità che possonoessere realizzate solamente attraverso una simile ricezione.

2. Konrad Burdach ha giustamente fatto riferimento, nel suosaggio sull’origine dell’Umanesimo, a una massima tratta delConvivio di Dante, secondo la quale il più alto desiderio che laNatura avrebbe posto in ogni cosa fin dalla nascita sarebbe quellodi fare ritorno alla propria origine. Concorde, Burdach sostieneche lo scopo dell’Umanesimo consista in un ritorno alfondamento originario dell’umano, non mediante il pensiero

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speculativo, bensì attraverso la trasformazione concreta della vitainteriore nella sua totalità. Questo ritorno al fondamentooriginario del nostro essere, come un concreto trasformarsi dellanostra vita, era anche l’impulso più intimo del movimentosionista. “Ritorno”, tanto oggi quanto allora, naturalmente nonsignificava il ripristino di forme di vita passate – un simile idealeromantico è estraneo al nostro Umanesimo, come a quello diallora – bensì il prendere forma di quel fondamento originario, alquale vogliamo fare ritorno, nella materia di un mondo degliuomini radicalmente cambiato, all’interno delle condizioni cui èsottoposta oggi la nostra esistenza di popolo, con lo sguardorivolto ai compiti che la nostra situazione presente ci impone, inaccordo con le possibilità che ci sono offerte qui e ora. Tenendoconto di questi punti, è possibile parlare di un’affinità tral’essenza dell’Umanesimo europeo e quella dell’Umanesimoebraico. La nostra mèta deve però andare aldilà di quelladell’Umanesimo europeo. Una trasformazione concreta della vitainteriore nella sua totalità può non essere ancora sufficiente pernoi: ciò a cui dobbiamo tendere non dev’essere niente meno cheuna trasformazione concreta dell’intera nostra vita nella suatotalità, tale che il trasformarsi della vita interiore si esprima e sipresenti nel trasformarsi della vita esteriore, della vita dellapersona e della comunità, e anche viceversa, cosicché ilcambiamento della direzione esteriore della vita retroagiscasempre e di nuovo su quella interiore, rinnovandola. L’importanzadi una simile interazione reciproca non è stata ancora riconosciutaa sufficienza dalla teoria sionista. Si è spesso sopravvalutata lapotenza della trasformazione esteriore; ovviamente, però, nonpuò semplicemente trattarsi di una contrapposizione tra la fede ela potenza dello spirito. Si lega all’eternità solamente chi si affidatanto allo spirito quanto alla terra.

Tutto dipende da questo: che la trasformazione della vitascaturisca dal ritorno al fondamento originario del nostro essere.Il sionismo nella sua forma dominante non ha fatto propria questaverità fondamentale. Certamente, ogni sionista capace di fare unariflessione è consapevole che l’essenza ebraica è oggi in gran partedeformata e distorta, e che la nuova vita nel nostro Paese e il nuovo

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legame con la terra e con il lavoro la risaneranno. Ciò di cui peròmoltissimi non sono consapevoli è che le forze sprigionatesiattraverso il rinnovato legame con la terra non sono sufficienti peroperare quella vera trasformazione. A tale legame deve unirsi unapotenza spirituale, ovvero, proprio quel ritorno al fondamentooriginario. Non c’è altra potenza spirituale che possa portarequesto a compimento che non sia lo spirito originario d’Israele, lospirito che ha creato il nostro essere, e di fronte al quale dobbiamoessere sempre e di nuovo responsabili, nella misura in cui il nostroessere abbia resistito al nostro destino. Questo spirito non èscomparso, il suo accesso è sempre e ancora aperto, l’incontrocon lui è ancora garantito, il Libro si trova ancora davanti a noi, ecome il primo giorno la voce parla a partire da questo. Solamente,noi non siamo autorizzati a prescrivere cosa tale voce debba dircie cosa no. Se noi le imponessimo di istruirci solamente intornoalle nostre grandi imprese letterarie, alla nostra magnifica storia,al nostro orgoglioso popolo, la ridurremmo al silenzio. Perchétutto questo non è quanto essa ha da dirci. Quanto essa ha da dirci,e che non si può esperire in nessun altro luogo del mondo con unatale semplice forza, è questo: che esistono la verità e la menzogna,e che il senso e l’esistenza dell’essere umano consistono neldecidere per la verità e contro la menzogna; che esistono lagiustizia e l’ingiustizia, e che la salvezza dell’uomo dipende dalfatto che questi scelga la giustizia e rifiuti l’ingiustizia, e che ladistruzione del nostro essere significhi – se noi distinguiamo trai dòmini dell’esistenza in cui vige la contrapposizione tra la veritàe la menzogna, la giustizia e l’ingiustizia, e dòmini dell’esistenzain cui tali contrapposizioni non sono vigenti, cosicché nella vitaprivata si sarebbe obbligati a dire la verità, ma nella vita pubblicasarebbe invece lecito mentire – che nelle relazioni tra uomo euomo si debba praticare la giustizia, laddove nelle relazioni trapopolo e popolo sarebbe autorizzata, per non dire suggerita,l’ingiustizia. L’humanitas che, oggi come allora, parla da questolibro, è l’unità dell’esistenza umana sotto una guida divina, chedistingue in maniera assoluta tra la verità e la menzogna, cosìcome tra la giustizia e l’ingiustizia, proprio come la parolacreatrice distingueva tra la luce e le tenebre. Certamente, noi non

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siamo in grado di applicare la completa giustizia alla nostra vita;e proprio nelle decisioni della comunità noi siamo sempre e dinuovo costretti, per il mantenimento della medesima, a subireun’ingiustizia. Ma ciò che conta è che, in ogni ora della decisione,noi riconosciamo, con il dispiegamento della nostra più altaresponsabilità e con la forza della coscienza, quanto si esige perla preservazione della comunità, e che noi ci facciamo carico diquesta, e di nient’altro che di questa; e che noi, quindi, nonriconosciamo le esigenze della volontà di potenza come esigenzedella vita. Ciò che conta è che noi non risparmiamo un àmbito, incui il comandamento di Dio non varrebbe, bensì che, quando ilmomento ci costringe ad agire contro il suo comandamento, locomprendiamo come un momento di necessità, sofferenza edoloroso sacrificio. In questo modo, noi non ci prepariamo (o cilasciamo preparare) una buona coscienza, bensì lottiamo coldestino, in timore e tremore, affinché non ci imponga più colpe diquanto è necessario. Questo tremare dell’ago magnetico, chetuttavia indica stabilmente una direzione: questa è l’humanitasbiblica. Gli uomini della Bibbia sono peccatori come noi, ma c’èun peccato che essi non commettono, il nostro peccato originale:essi non osano confinare Dio in uno spazio circoscritto o in unapartizione dell’esistenza, ovvero, nella “religione”. Non siazzardano a tracciare un confine intorno al comando di Dio,dicendogli: “fino a qui è di tua competenza, ma da qui in poi è dicompetenza la scienza, oppure la società, o ancora lo Stato”. Se gliuomini della Bibbia sono obbligati a obbedire agli ordini diun’altra potenza lo fanno, portando e sopportando con tutti i loronervi quel peso che è loro inflitto. Essi non si alleggeriscono ilcuore, né si tirano indietro. L’uomo formatosi nel nostroUmanesimo ebraico e biblico, nel momento della più elevataresponsabilità, si spinge là dove deve andare, non un capello piùin là. Egli resiste a quelle vacue parole patriottiche che annebbianola distanza tra le esigenze della vita e quelle della volontà dipotenza. Egli resiste alle insinuazioni di un falso carattere dipopolo, che è l’opposto di un autentico servizio al popolo. Eglinon si lascia raggirare dal grande imbroglio del modernonazionalegoismo, che è utile al mio popolo3, su cosa sarebbe vero

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e giusto. Egli sa che esiste qualcosa, una decisione precedentesulla verità e sulla menzogna, sulla giustizia e sull’ingiustizia, chesta di fronte all’esistenza del popolo. Egli sa che in estrema istanzail mio popolo non può utilizzare nient’altro che quanto risulta veroe giusto da quella decisione precedente. Se però, nell’ora dellanecessità, deve obbedire non al riconoscimento di questa “estremaistanza”, bensì al grido d’aiuto della vita minacciata, egli peccacome gli uomini della Bibbia e, come quelli, si prostra a terra alcospetto del suo giudice. Questo significa fare ritorno alfondamento originario del nostro essere. La lingua di domani saràauspicabilmente un’altra: la lingua di una possibilità positiva nellacostruzione della nostra intera vita comunitaria, interiore edesteriore.

3. Confronto e contrappongo l’Umanesimo ebraico a quelnazionalismo ebraico per il quale Israele è un popolo come tuttigli altri, e non ha nessun altro compito se non quello diautoconservarsi e autoaffermarsi. Quest’ultimo, sia detto perinciso, non vale per nessun altro popolo. Tanto un uomo quantoun popolo che non volesse nient’altro che la propriaautoconservazione e la propria autoaffermazione non avrebbeinfatti senso e diritto di esistere, e sarebbe pertanto meritevole diandare in rovina.

Con questa contrapposizione da me tracciata tral’Umanesimo ebraico e il nazionalismo di una vuotaautoaffermazione, io voglio dire che è giunto il momento che ilmovimento sionista decida se intenda essere un movimentonazionalegoista o nazionalumanista. Se deciderà per ilnazionalegoismo, gli spetterà presto lo stesso destino di queipopoli vacui, che consiste nell’edificare un nazionalismo privo diun autentico compito sovranazionale. Se invece deciderà perl’Umanesimo ebraico, sarà sempre forte e operante, anche

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3. Significativamente, per quanto sia in preda alla barbarienazionalsocialista, quello tedesco resta sempre per Buber il suo popolo, anchedopo la migrazione del filosofo in Terra santa.

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quando i vacui nazionalismi non avranno più senso né diritto,poiché avrà sempre qualcosa da dire e da offrire all’umanità4.

Israele non è un popolo come gli altri, per quanto irappresentanti di alcune generazioni lo abbiano desiderato.Israele non è un popolo come gli altri, poiché è l’unico popolo almondo a essere, fin dal suo principio, nazione e comunità di fedeal tempo stesso. Nel tempo storico, in cui a partire da diversetribù si sviluppò un popolo, Israele assurse a portatore dellarivelazione. L’alleanza che le tribù strinsero tra di loro, mediantela quale divennero “Israele” ha la forma di un’alleanza in comunecon il Dio “di Israele”. Il grande documento del nostro eroismooriginario, il canto di Debora, esprime la più profonda realtà,allorché il nome di questo Dio si alterna sempre e di nuovo, comeun ritornello, nelle parole finali dei suoi versi, con il nome“Israele”. E quando poi il popolo chiede una dinastia perdiventare come tutti i Gojim5, la Scrittura fa dire all’uomo, cheuna generazione più tardi fonderà realmente quella dinastia,parole che suonano come una compensazione di quel desiderio:“e chi è come il tuo popolo Israele, l’unico popolo (Goj) sullaterra!”6. In queste parole, indipendentemente dall’epoca da cuiprovengono, si esprime la stessa realtà profonda di quelleprecedenti. L’elementare unità di popolo e comunità di fede inIsraele è ciò che, in un esilio che nessun’altra nazione haconosciuto, un esilio che è durato molto più a lungodell’indipendenza, ha tenuto Israele in vita. Chi strappa questolegame, distrugge la vita di Israele.

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4. La contrapposizione è qui tracciata tra il “nazionalegoismo”, chestoricamente si stava realizzando, mentre Buber scriveva, nella Germaniahitleriana, e il “nazionalumanismo”, che il filosofo auspicava come principioguida per un futuro Stato di Israele. Significativamente, egli ammoniva come ilrischio di un nazionalegoismo fosse sempre presente, anche oltre i confinitedeschi. Coerentemente, muovendo da questi principi, le posizioni di Buberdivennero sempre più critiche nei confronti delle politiche dello Stato di Israele.

5. N.d.A. Si tratta dei popoli in senso biologico, ai quali ovviamenteappartiene anche Israele.

6. 1Cronache 17,21.

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Ci si oppone a questa concezione parlando di una“interpretazione teologica” per ridurla a un affare privato eirrilevante per il popolo e a una questione sterile come gliinteressati alla teologia. Questo non è altro che un polemicoartificio. In verità si tratta di una conoscenza storicafondamentale, senza la quale non si può comprendere la realtàstorica di Israele. Si è cercato di porre questa “interpretazioneteologica” in contrapposizione a una “interpretazione religiosa”e di affermare che non avrebbe niente a che fare con l’ebraismodi una serie di uomini illustri, tra i quali possono esseremenzionati Rabbi Akiba (tra i più recenti)7 e niente meno cheMosè (come il più antico). Di tutto questo può essere capace unpolemico entusiasmo! In realtà, tanto un Mosè storico quanto unAkiba storico sono parimenti difficilmente ricostruibili, e nél’uno né l’altro conosce l’unicità di Israele. E se si estirpasse dallabocca di Akiba la parola di quell’“amore particolare”8 di cui Diofa dono a Israele, sarebbe come strappargli il cuore dal corpo. Sesi provasse a cancellare nel racconto della venuta di Israele neldeserto del Sinai il messaggio “voi sarete mia speciale proprietàtra tutti i popoli”9, perderebbe valore l’intero racconto! Io non soda quale ipotesi di critica biblica provengano tali affermazioniintorno a Mosè, a patto che abbiano, in generale, un fondamento:in nessun caso sono fondate sulla vivente Scrittura.

C’è un’altra via assai diffusa per negare il fatto dell’unicitàdi Israele. Si dice che ogni grande popolo consideri se stessocome il popolo eletto; in altre parole, si fa della consapevolezzadella propria peculiarità una funzione del nazionalismo ingenerale. Non credono forse anche i nazionalsocialisti che il

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7. N.d.A. Uno dei primi maestri del Talmud (visse dal 55 al 137 d.C.circa, e morì come martire). La direzione del nazionalismo ebraico che qui ho inmente, fa ricorso proprio a lui, dal momento che Akiba avrebbe visto il messia inBar-Kochba, il capo della rivolta contro Roma (132-135). Ma anche questo erroreè strettamente connesso con la fede di Akiba nel grande compito di fede di Israele.

8. Massime dei Padri III, 18.9. Esodo 19,5.

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popolo tedesco sia il prescelto dalla provvidenza per il dominiodel mondo? Se così fosse, allora noi, proprio attraverso il nostro“tu ci hai scelti” dimostreremmo di essere come tutti gli altripopoli. Ma a questi argomenti superficiali, che hanno il coraggiodi mettere sullo stesso piano la frase “mi rivolgo a voi: ‘figli delDio vivente’”10 con “l’essenza del popolo tedesco risanerà ilmondo”, si contrappone una conoscenza storica fondamentale.Non si tratta del fatto che noi ci sentiamo “scelti” o meno, madel fatto che la nostra esistenza storica è effettivamente unica.Ma nemmeno questo è sufficiente. Anche l’insegnamento intornoalla nostra elezione è, nella sua essenza, del tutto differente dagliinsegnamenti intorno all’elezione degli altri popoli, per quantoquesti insegnamenti ne siano anche ampiamente dipendenti.

Quanto tali popoli hanno ripreso dal nostro insegnamentointorno all’elezione, non è mai stato l’essenziale. L’essenziale,ciò che lo distingue da tutti gli altri, è che questa elezione è senzaombra di dubbio un’elezione che esige. I sogni di un popolo nonhanno assunto qui una veste mistica; grandezza e potenza nonsono qui preannunciate incondizionatamente a un popolo; qui siesige da quel popolo qualcosa di arduo, e la sua intera futuraesistenza dipenderà dal fatto che esso soddisferà o meno quantosi esige. Qui non parla un Dio che il popolo si è creato a suaimmagine e somiglianza, non parla un Dio che s’innalza da unpopolo come la sua sublimazione; egli sta di fronte al suo popoloe gli si contrappone, esige e giudica. E non fa tutto questo in untardo sviluppo profetico, ma fin dal principio; questo non lo potràmai negare nessuna ipotesi di critica biblica. A quanto egli esigedà i nomi di “verità” e “giustizia”. Non le esige solamente peralcuni ambiti della vita, ma per l’intera esistenza dell’uomo e perl’intera esistenza del popolo. Egli vuole che l’uomo e il popolosiano “interamente con lui”11. Israele viene eletto per elevarsidalla legge biologica del potere, che i popoli trasfigurano nelleloro illusioni, alla sfera della verità e della giustizia. Dio vuole

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10. Osea 2,1.11. Deuteronomio 18,13.

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che l’uomo da lui creato diventi veramente uomo, e non solo insingole manifestazioni, come presso tutti i popoli, bensìnell’ordinamento di vita di un popolo, di modo che questo popolotra i popoli mostri, precedendo gli altri, l’ordinamento di vita diun’umanità futura. Israele è eletto per diventare un vero popolodi uomini, ovvero: un popolo di Dio.

L’uomo biblico è l’uomo che sta di fronte a questa elezionee a questo esigere. Egli li accoglie o li rifiuta; li soddisfa, perquanto è in grado di fare, oppure vi si ribella; li trasgredisce e sipente; vi si oppone e si arrende; ma c’è una cosa che non fa: farecome se non esistessero, o come se la loro rivendicazione fosselimitata. L’uomo biblico classico assume questa esigenza digiustizia in tutta la sua carne e in tutto il sangue fino a osare, daAbramo a Giobbe, sollevare obiezioni a Dio. Dio però, che sacome i sentieri della sua giustizia sono incomprensibili per lospirito umano, si allieta dell’uomo che discute così con lui,poiché questi ha assunto l’esigenza della sua giustizia nella suacarne e nel suo sangue. Egli chiama Giobbe il suo servo eAbramo il suo amato. Ha tentato entrambi, ed entrambi hannodiscusso con lui, e superato la tentazione. Questa è l’umanitàebraica.

Il nostro tempo si riserva di separare il popolo ebraico e lacomunità di fede ebraica l’uno dall’altra, due entità fuse assiemefin dal principio, e di fondare ognuna per sé, autonomamente,una nazione come le altre e una religione come le altre. Lanazione ha preso, attraverso lo straordinario lavoro in Palestina,un grande slancio, laddove la religione è bloccata in un profondodeclino, in virtù del quale essa è passata da potenza in grado dideterminare l’intera vita a dominio specifico di cerimonie o diprediche. Ma in questo modo non solo una comunità di fedeebraica non potrà preservarsi, ma nemmeno un popolo ebraico.Non esiste salvezza per noi fino a che noi non diventeremonuovamente Israele, ovvero, un che di unico, un’unità di popoloe di comunità di fede: un popolo rinnovato, una fede rinnovata,una rinnovata unità di entrambi.

Il comune modo di pensare sionista ritiene che nulla sianecessario al di fuori delle condizioni per una normale vita del

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popolo, e che tutto il resto si svilupperà da sé. Questo è un errorefatale. Ovviamente abbiamo bisogno delle condizioni per unanaturale vita del popolo, ma non sono sufficienti, per noi nonsono sufficienti. Non possiamo sostituire quei presupposti eterniper la nostra sopravvivenza con la “normalità”. Se noi volessimoessere solo “normali”, presto non saremmo più per nulla.

I grandi valori che abbiamo creato sono scaturiti dalle nozzedi un popolo e di una fede. Noi non possiamo sostituire questoconnubio con un’unione tecnica di una nazione e di una religionesenza che ne derivi qualcosa di sterile. Aldilà dell’unità edell’unicità di Israele non esiste rinascita dei suoi valori.

Si dirà che si tratti qui di problemi propri solo dello spiritoe della cultura, e non di problemi che riguardano immediatamentela nostra vita; problemi che non sono propri del momentopresente. Ma le cose non stanno così. Non dimentichiamoci cheaspiriamo a entrare a far parte di quella serie di popoli che ha unproprio suolo e un proprio diritto. Molte piccole nazioni sarannoun domani valutate e ritenute troppo deboli. Questo non capiteràcerto a chi porta un grande messaggio a un’umanità in lotta, enon solo a parole, ma anche con la propria vita, capace direalizzare la parola e di mostrare la realizzazione. Del possessodel Libro non potremo certamente vantarci, se siamo stati noistessi ad avere tradito la sua esigenza di giustizia!

Il comune modo di pensare sionista mi ricorda spesso lecelebri parole di Bismarck, per le quali sarebbe stato sufficienteporre il popolo tedesco in sella per farlo cavalcare. Certamentecavalca; ma nell’abisso. Quando sento le nostre voci nazionaliche gridano, e le vedo trottare a cavallo l’una accanto all’altra, midevo chiedere: sanno ancora distinguere il loro sentiero da quelloche conduce dritto negli inferi della storia?

In questo momento storico, il movimento sionista deveprendere una decisione. La sua decisione contribuirà in una certamisura, forse, al nostro destino. Chi sarà al nostro fianco, se undomani verranno chiamati gli autentici rappresentanti dei popoli?Che cosa dirà? A quale realtà si richiamerà?

Noi ebrei tedeschi vogliamo offrire il nostro contributoall’opera di formazione culturale del Paese. Possiamo offrirlo

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secondo la nostra intera tradizione se lo concepiamo all’insegnadi un Umanesimo ebraico. Dobbiamo riconoscere e affermareche la lingua ebraica deve accogliere ed elaborare in sé tutto ilmondo, tutta la profanità. E proprio nel modo in cui accoglierà edelaborerà tutto questo, dovrà mostrare ciò che essa è secondo lasua essenza originaria, e che solo essa può veramente salvare: ilsuo essere ricettrice di quell’esigere e portatrice di quelmessaggio.

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SPERANZA PER QUEST’ORA

Noi chiediamo speranza per quest’ora. Da ciò si evince chenoi che solleviamo tale richiesta non ci limitiamo a percepire ilmomento presente come una delle situazioni più difficili, maanche come un momento che non sembra offrire previsioni perun futuro diverso, luminoso ed elevato. Un simile futuro è ciòche noi designiamo, in senso specifico, come speranza.

La nostra è una richiesta condivisa, e può avere un sensogrande e condiviso, e attendersi una risposta capace di mostrar-le la via, se corrisponde realmente alla grande necessità del-l’uomo in questo momento presente, che noi insieme percepia-mo. Centinaia o migliaia di uomini potrebbero unirsi, ognunoportando con sé le necessità attuali della propria vita e le propriepaure, del tutto personali, nei confronti del mondo e della vita.Ma anche se tali uomini unissero le loro necessità, non ne sca-turirebbe mai una necessità condivisa, che potrebbe invece sor-gere solamente da una richiesta condivisa. Solo se le necessitàpersonali di tutti coloro che innalzano la richiesta dischiudonola grande necessità dell’uomo in questo momento presente,potranno i rigagnoli delle singole necessità, uniti nello stessoflusso, sollevare tale incalzante richiesta.

Ciò che è di essenziale importanza, comunque, è che rico-nosciamo la necessità comune, che diventa per noi percepibile,non solo nelle sue manifestazioni esteriori, bensì nella sua ori-gine e nella sua profondità. Per quanto sia importante che noisoffriamo insieme il dolore odierno dell’uomo, è ancora piùimportante che noi sentiamo assieme da dove venga; solamente

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da lì, dal fondamento, potrà esserci concessa la vera speranza diuna guarigione.

Il mondo dell’uomo è, oggi come allora, diviso tra due fron-ti, ognuno dei quali comprende se stesso come l’incarnazionedella verità e l’altro come l’incarnazione della falsità. È accadu-to spesso nella storia che gruppi di popoli o gruppi religiosi sisiano così radicalmente contrapposti al punto che l’uno negava econdannava l’altro nella sua più intima esistenza. Ma adesso èl’intera popolazione umana del pianeta Terra a essere così suddi-visa, e, salvo poche eccezioni, tale divisione è vista ovunquecome una necessità dell’esistenza in quest’ora del mondo. Chi sifa da parte è sospettato o deriso da ambo le parti. Ogni fazioneha preso possesso della luce del Sole respingendo l’antagonistanella notte, ed esige che tu decida tra il giorno e la notte.

Noi possiamo comprendere l’origine di questa situazionecrudele e grottesca nei suoi tratti più semplici, se ci rendiamoconto di come i tre principi della Rivoluzione francese si sianoseparati gli uni dagli altri. Le astrazioni di libertà e uguaglianzaerano tenute insieme attraverso la più concreta fratellanza. Infat-ti, solo se gli uomini si sentono come fratelli possono condivi-dere un’autentica libertà l’uno dall’altro e un’autentica ugua-glianza l’uno con l’altro. Nel momento in cui la parola d’ordinedella fratellanza fu privata del suo valore di realtà, ognuna delledue poté stabilirsi contro l’altra, allontanandosi sempre di più,così, dalla sua verità, mescolandosi in modo sempre più profon-do con elementi estranei, brama di potere e desiderio di posses-so, gonfiati e usurpatori.

L’uomo è incline più che mai, in un simile stato di cose, avedere il proprio principio nella sua purezza originaria, e quellocontrapposto invece nella sua deteriorazione presente, special-mente se le forze della propaganda hanno corroborato i suoiistinti per potersene servire meglio. L’uomo non si accontentapiù, come nelle epoche precedenti, di tenere il proprio principiocome l’unico vero e quello a esso contrapposto come falso. Èconvinto che la sua fazione abbia ragione e l’altra torto, che a luispetti la conoscenza e la realizzazione di ciò che è giusto, lad-dove il suo avversario maschererebbe soltanto i suoi interessi

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egoistici. Detto in termini moderni: le sue sarebbero idee, quel-le dell’altro ideologie. È questa la fonte che alimenta la sfiduciache regna tra i due schieramenti.

Durante la Prima guerra mondiale mi divenne chiaro ilcompiersi di un processo, che in precedenza avevo solo intravi-sto: la crescente difficoltà del dialogo autentico, e in particolaredel dialogo autentico tra uomini di diverse tipologie e diversimodi di pensare. Il dialogo immediato e senza riserve sta diven-tando sempre più difficile e raro; sempre più impietoso, l’abis-so tra uomo e uomo minaccia di diventare insormontabile. Que-sta, così pensavo trentacinque anni fa, è l’autentica questione dacui dipende il destino dell’umanità. Da allora ho mostrato inces-santemente come il futuro dell’uomo in quanto uomo dipendada una rinascita del dialogo. Per questo motivo ho provato unaprofonda soddisfazione leggendo recentemente le parole con cuiun uomo di rara competenza, Robert Hutchins, formulava l’im-portanza e la possibilità di una civiltà del dialogo: “l’essenzadella civiltà del dialogo è la comunicazione. La civiltà del dia-logo presuppone rispetto reciproco e comprensione, ma non pre-suppone consenso”. E ancora: “non è corretto dire che la civiltàdel dialogo non possa sorgere se l’altro partito non voglia parla-re. Noi dobbiamo trovare il modo di indurlo a parlare”. A talfine, Hutchins suggerisce di mostrare interesse e comprensioneper quello che l’altro ha da dire. A fronte di tutto questo, vi èancora un presupposto essenziale: si tratta di superare la mas-siccia sfiducia nei confronti dell’altro, e anche in noi stessi. Nonintendo con questo la sfiducia originaria, da sempre diretta ver-so gli estranei, verso gli animi inquieti, verso quanti sono prividi una tradizione – la sfiducia del contadino, che vive nella suafattoria isolata, nei confronti del vagabondo che appare improv-visamente al suo cospetto. Intendo la sfiducia universale delnostro tempo. Nulla intralcia così fortemente l’ascesa di unaciviltà del dialogo, infatti, come la potenza demoniaca chegoverna il nostro mondo: il demone della sfiducia fondamenta-le. A cosa serve indurre l’altro a parlare, se poi non diamo fedea quello che dice? L’incontro con lui si compie già all’internodella prospettiva della sua inaffidabilità. E questa prospettiva

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non è ingiustificata, se il suo incontro con me si compie in unaprospettiva siffatta. La sfiducia fondamentale, nel suo manife-starsi, offre alla sfiducia il suo fondamento, e avanti così.

È importante comprendere con chiarezza in che modo laspecifica sfiducia moderna differisca dalla sfiducia precedente,che è apparentemente costitutiva dell’essere umano, e che halasciato la sua impronta in tutte le culture. Ci sono sempre stateinnumerevoli situazioni in cui un uomo, rapportandosi con ilsuo prossimo, viene preso dal dubbio di potersi fidare di questi;ovvero, dal dubbio che l’altro pensi veramente quello che dice,e che intenda agire nel modo che dice; situazioni in cui un uomocrede che i propri interessi vitali siano favoriti dall’altro, nutren-do però il sospetto che questi gli si mostri diversamente da quel-lo che è, e in cui dovrebbe stare in guardia e difendersi, respin-gendo quell’immagine illusoria. Nel nostro tempo si è aggiuntoqualcosa di essenzialmente diverso, in grado di minare conpotenza ancora maggiore i fondamenti dell’esistenza interuma-na. Non si teme più soltanto che l’altro dissimuli volontaria-mente, ma si presuppone addirittura che non possa fare altri-menti. La supposta differenza tra un’opinione e la sua esterna-zione, e tra tale esternazione e l’azione, non è più compresacome intenzionale, ma come una necessità essenziale. L’altro micomunica un aspetto che avrebbe ricavato da un determinatooggetto, ma in realtà io non prendo conoscenza di quanto questimi comunica; per me non è un contributo informativo su quel-l’oggetto da prendere sul serio; prima di tutto, ascolto invece ciòche spinge l’altro a dirmi quanto mi dice, un motivo inconscio,o un cosiddetto “complesso”. Egli esprime un pensiero su unproblema della vita di cui mi occupo, ma io non m’interrogominimamente circa il contenuto di verità di tale esternazione.Presto attenzione solamente a quale interesse del gruppo al qua-le egli appartiene si sia camuffata in questo giudizio apparente-mente così sincero. La sua idea, proprio in quanto idea dell’al-tro, è per me solamente una “ideologia”. Il compito principalenel rapportarmi con il mio prossimo diventa sempre di più, neitermini della psicologia individuale o della sociologia, scopriree smascherare – laddove, nel caso classico, questo non significa

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più, per nulla, una maschera che egli avrebbe indossato peringannarmi, bensì una che si è messo senza saperlo, e che glisarebbe addirittura rimasta impressa, di modo che chi è vera-mente ingannato è la sua coscienza. Innumerevoli sono, natural-mente, le forme intermedie. La sfiducia tra uomo e uomo èdiventata esistenziale attraverso questo atteggiamento fonda-mentale, che ha trovato razionalizzazione scientifica negli inse-gnamenti di Marx e Freud. Questo in un duplice senso: non èposta in questione solamente la sincerità, l’onestà dell’altro,bensì l’interezza della sua esistenza stessa. Non si distrugge,quindi, solamente il dialogo affidabile tra due avversari, aperti osegreti, bensì l’immediatezza dell’essere l’uno con l’altro trauomo e uomo in generale. Scoprire e smascherare è diventatoattualmente il grande sport interumano, e coloro che lo pratica-no non sospettano minimamente dove questo li conduca. Nietz-sche sapeva che cosa stava facendo allorché lodava “l’arte dellasfiducia”1, e tuttavia non sapeva – questo gioco diventa comple-to, infatti, nella misura in cui diventa reciproco, ovvero, a pattoche lo smascheratore medesimo diventi oggetto di smaschera-mento. Si può intravedere da qui una completa e perfetta reci-procità nella sfiducia esistenziale, dove il discorso si rovescia inmutismo e il senso in follia. L’uomo tende ancora ad avereriguardo dell’altro, affinché l’altro lo abbia verso di lui; poiché,se talvolta si accinge a mettersi in questione, potrà comunquefermarsi in tempo. Ma il demonio non si lascia prendere in giro.La sfiducia esistenziale non è più infatti, come quella antica,tale nei confronti del mio prossimo; è piuttosto l’annientamentodella fiducia nell’esistenza in generale. Il fatto che non possia-mo più condurre un dialogo autentico tra uno schieramento el’altro è il sintomo più forte della malattia dell’uomo di oggi.Questa malattia medesima è la sfiducia esistenziale. Ma la

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1. Buber anticipa qui la celebre tesi di Paul Ricoeur, secondo la qualeMarx, Nietzsche e Freud sarebbero i cosiddetti “maestri del sospetto” (cfr. P.RICOEUR, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, inparticolare pp. 46-48).

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distruzione della fiducia nell’esistenza umana è l’avvelenamen-to interiore dell’intero organismo umano da cui proviene talemalattia.

Ogni grande cultura è stata in una certa misura una “civiltàdel dialogo”. La sostanza vitale di tutte non era, come si ritienedi solito, il fatto che vi fossero individui significativi, bensì illoro rapportarsi autentico gli uni con gli altri. L’individuazioneera solamente il presupposto per il dispiegarsi della vita dialogi-ca. Ciò che si chiama lo spirito creativo dell’uomo non è maistato nient’altro che il rivolgersi, il rivolgersi del pensiero o del-l’arte di coloro che sono chiamati a parlare a coloro che sonorealmente capaci e disposti ad ascoltare. Quanto è stato qui con-densato era il dinamismo universale del dialogo. In ogni tempo,naturalmente, vi erano numerosi ostacoli interni e interferenze;chiusura e indisponibilità, maschere e seduzione. Ma laddove ilmiracolo umano di volta in volta fioriva, accadeva che questiostacoli e queste interferenze venivano sempre superati dallapotenza elementare della mutua conferma degli uomini. Unuomo si rivolgeva all’altro come a un’essenza personale unica,inscalfita da tutti quegli errori e quegli intorbidimenti, e riceve-va il rivolgersi a lui dell’altro. Uno percepiva l’altro nel suoessere, in cui sopravvivevano tutte le immagini apparenti, eanche se questi si combattevano l’uno con l’altro, si conferma-vano l’uno con l’altro come quelli che erano. L’uomo vuoleessere confermato dall’uomo come quello che egli è, e autenti-ca conferma c’è solamente nella reciprocità.

Malgrado il progressivo declino del dialogo che contrasse-gna il nostro tempo e la crescita della sfiducia universale a essocollegata, il bisogno degli uomini di essere confermati permane.Ma nella maggior parte dei casi non trova più soddisfazionenaturale. Così, l’uomo s’incammina su uno di due sentieri illu-sori: egli cerca di ottenere tale conferma o da se stesso o da uncollettivo al quale appartiene. Entrambi i tentativi devono falli-re. L’autoconferma di chi non viene confermato da un altro esse-re non regge: questi deve sforzarsi di ristabilirla con una faticasempre più convulsa, per scoprire infine se stesso come ineso-rabilmente abbandonato. Ma anche la conferma attraverso il

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collettivo è pura finizione. Appartiene all’essenza del collettivo,infatti, accettare e impiegare ognuno dei suoi membri come queldeterminato singolo individuo, fatto così e con le sue capacità;senza però saper riconoscere nessuno nel suo proprio essere,ovvero, indipendentemente dalla sua utilizzabilità per il colletti-vo. L’uomo moderno, nella misura in cui ha rinunciato alla reci-procità immediata e personale con i suoi compagni, può soloottenere una conferma illusoria in cambio di quella che ha per-duto. Non esiste altra salvezza, qui, al di fuori del rinnovamen-to della relazione dialogica, ovvero, prima di tutto, attraverso ilsuperamento della sfiducia esistenziale.

Da dove deve iniziare la volontà di questo superamento?Più precisamente, da quale posizione spirituale deve essere spin-to a un’autocritica, d’importanza decisiva, l’uomo per cui, nel-l’entrare in contatto con il suo prossimo, la sfiducia esistenzia-le è diventata una situazione ormai ovvia? Questa è una posi-zione che può essere descritta come la critica della critica. Sitratta di mostrare un errore fondamentale il cui influsso è enor-me su tutte le teorie dello scoprire e dello smascherare. L’essen-za di questo errore è che un elemento nell’esistenza fisica e psi-chica dell’uomo, che in precedenza non era affatto notato(oppure a malapena), è stato adesso scoperto e portato alla luce,identificandolo con la struttura complessiva dell’uomo, anzi cheinserirlo in tale struttura. Un postulato metodologico che guiditutta la conoscenza antropologica nel più ampio senso del ter-mine dovrebbe essere che ogni elemento nuovamente scoperto eportato alla luce debba essere compreso nella sua rilevanza inrelazione ad altri elementi che in una certa misura sono già notie chiari e nella sua interazione con essi. Le questioni decisivedovrebbero essere: che proporzione esiste tra questo elemento egli altri? In che misura e in che modo esso li limita e ne è limi-tato? In quale dinamica dei diversi momenti storici e individua-li-genetici dell’esistenza umana deve essere inserito? Il compitoiniziale della scienza dovrebbe essere di volta in volta quello ditracciare linee di demarcazione circa la validità di tesi cheriguardano quell’elemento nuovamente scoperto o portato allaluce; ovvero, determinare all’interno di quali àmbiti tali tesi

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potrebbero rivendicare di valere. Le teorie dello scoprire e dellosmascherare, tanto quelle sociologiche quanto quella psicologi-che, hanno dimenticato di tracciare queste linee, e hanno di vol-ta in volta ricondotto l’uomo all’elemento da loro mostrato.Prendiamo, per esempio, la teoria dell’ideologia per cui le opi-nioni e i giudizi di un uomo appartenente a una determinataclasse sociale debbano essere indagate essenzialmente come ilprodotto della sua condizione di classe, ovvero, strettamenteconnesse con l’azione della sua classe per l’imporsi dei suoiinteressi. Se il problema della condizione di classe e della suainfluenza fosse formulato in tutta chiarezza, la domanda inizia-le della scienza dovrebbe essere: dal momento che l’uomo èinserito nel suo mondo come in una connessione molteplice disfere d’influenza, dalla sfera cosmica a quella erotica, una dellequali pare che sia il livello sociale, quale peso ha e quale intera-zione sussiste tra l’influsso di classe, nella forma dell’ideologia,e la condizione non-ideologica della persona? Certamente, larisposta a una tale domanda potrebbe spettare, come scopo,anzitutto al pensiero scientifico. Porsi questo scopo, però, sareb-be una condizione preliminare per la correttezza di questo pen-siero. I teorici dell’ideologia, invece, hanno ridotto all’ideologi-co l’uomo che detiene opinioni e formula giudizi. Questa illi-mitata semplificazione ha contribuito in maniera decisiva alprendere forma della sfiducia esistenziale. Se noi vogliamosuperare questa sfiducia, non possiamo però tornare indietro, inun’accettazione acritica delle affermazioni degli uomini. Dob-biamo invece andare avanti, aldilà della nostra situazione pre-sente, ponendo misure e limiti sempre più esatti all’ideologiacritica. Ciò che intendo non è un vago idealismo, bensì un rea-lismo più comprensivo e insistente, un realismo più grande, ilrealismo di una realtà più grande. L’uomo non deve essere sma-scherato, ma deve essere osservato nel suo manifestarsi e nelsuo celarsi (e nella relazione tra i due) con sempre maggiorecompletezza. Noi vogliamo fidarci di lui, non ciecamente, macon gli occhi aperti. Ovvero, vogliamo intuire la sua moltepli-cità e la sua interezza, il suo peculiare modo di essere, senzaalcuna opinione preconcetta a questo o quel riguardo, con l’in-

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tenzione di accoglierlo, di dargli credito e di confermarlo nellamisura in cui ci sia consentito da questa intuizione.

Solo se questo accade, e nella misura in cui accade, potràincominciare un dialogo autentico tra i due schieramenti in cuil’umanità è oggi divisa. Coloro che lo cominceranno, devonoaver superato la sfiducia a priori in se stessi, e devono esserecapaci di riconoscere il loro compagno di dialogo nella realtàdella sua essenza. E questi uomini, chiaramente, non parlerannosoltanto in nome di se stessi. Dietro di loro si potrà intuire lamassa disorganica di coloro che si sentiranno da loro rappresen-tati; questa è una rappresentanza (e un farsi rappresentare) com-pletamente diversa da quella politica: non è legata agli scopi delmomento presente, ma fa appello invece alla libera capacità disguardo di cui saranno provvisti quanti non sono ancora nati.Costoro saranno persone indipendenti, senza alcun potere eccet-to quello dello spirito, che notoriamente oggi ha meno forza chemai. Ma ci sono ore del mondo in cui, nonostante tutto, la poten-za dello spirito è sufficiente per intraprendere la salvezza del-l’uomo. E una tale ora mi sembra che s’avvicini.

I rappresentanti di cui parlo diventeranno consapevoli deiveri bisogni del loro popolo, e saranno pronti a impegnarsi peressi, ma sapranno anche volgersi ai veri bisogni degli altri popo-li, comprendendoli, distinguendo qua e là i veri bisogni da quel-li fittizi. Proprio per questo motivo, opereranno la loro distin-zione con inflessibilità, all’interno di quel cosiddetto conflittod’interessi tra verità e propaganda. Solo quando rimarranno, diquesta presunta massa di contrapposizioni, esclusivamente iconflitti reali tra bisogni reali, la riflessione potrà volgersi a unloro possibile e necessario appianamento. La domanda da cuioccorre procedere sarà questa, apparentemente la più semplicedi tutte, e che presenta invece alcune difficoltà: di cosa ha biso-gno un essere umano, ogni essere umano, per vivere come unessere umano? Affinché il pianeta non esploda, ogni essereumano deve ricevere ciò che gli occorre per vivere in modoautenticamente umano. A partire dai loro schieramenti contrap-posti, coloro che sono presso la potenza dello spirito oserannopensare insieme nei termini dell’intero pianeta.

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Che cosa si dimostrerà più forte in ultima istanza, la fidu-cia condivisa nell’esistenza dell’uomo oppure la sfiducia reci-proca? Anche se si trovassero, come spero, tali rappresentanti, illoro successo dipenderà da quanti ne sono rappresentati, dallaloro sincerità senza riserve, dalla loro buona volontà nemica deiluoghi comuni, dall’impegno coraggioso della loro persona.Solamente su simili basi tali rappresentanti potranno ottenere laforza che gli occorre. La speranza per quest’ora dipende daquanti la nutrono, dipende da noi stessi. Intendo dire: dipende daquanti, tra di noi, sentono nel modo più profondo la malattia del-l’uomo di oggi, e che pronunciano in suo nome la parola senzala quale nessuna guarigione è possibile: io voglio vivere.

La speranza per quest’ora si rivolge a un rinnovamento del-l’immediatezza dialogica tra gli uomini. Ma se guardiamo oltrela necessità pressante, oltre la paura e la preoccupazione di que-sto momento, se vediamo questa necessità in relazione allagrande via dell’uomo, allora riconosceremo che l’immediatezzaè stata danneggiata non solo tra uomo e uomo, ma anche traquell’essere chiamato uomo e il fondamento originario dell’es-sere. Nel nucleo più intimo del conflitto tra la sfiducia e la fidu-cia nei confronti dell’uomo si cela il conflitto tra la sfiducia e lafiducia nei confronti dell’eternità. Se le nostre bocche riusci-ranno a dire veramente Tu, avremmo allora, dopo un lungosilenzio e balbettio, rivolto nuovamente la parola al nostro TuEterno.

La riconciliazione opera la riconciliazione.

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IL DIALOGO AUTENTICO E LE POSSIBILITÀ DELLA PACE

Discorso tenuto in occasione del conferimento del premio della pace dei librai tedeschi

Non posso esprimere la mia gratitudine ai librai tedeschiper l’onorificenza conferitami senza esporre, nel contempo, inche senso io l’abbia accettata, analogamente al Premio Goetheassegnatomi recentemente dall’Università di Amburgo1.

Lo scorso decennio una quantità rilevante di uomini tede-schi – certamente parecchie migliaia – tanto sotto il comandoindiretto del governo del Reich tedesco, quanto sotto il coman-do diretto dei suoi incaricati, ha ucciso milioni di miei concitta-dini e correligionari, con una procedura preparata e condottasistematicamente che non è comparabile a nessuna atrocitàorganizzata che la storia ci consegni a tutt’oggi. Io, uno di quel-li che sono rimasti in vita, ho apparentemente solo la dimensio-ne dell’esistenza umana in comune con quanti hanno preso par-te, con una qualsiasi funzione, a queste operazioni; essi si sonoa tal punto allontanati dalla sfera dell’umano da essere relegatidalla mia immaginazione nella sfera inaccessibile dellamostruosa disumanità (Unmenschlichkeit), cosicché neppurel’odio, e tanto meno un superamento dell’odio, è potuto nasce-re in me. E chi sono io, per potermi permettere in quest’occa-sione di “perdonare”!

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1. In tale occasione Buber terrà il discorso Geltung und Grenze des poli-tischen Prinzips (1951 – in italiano: M. BUBER, Validità e limiti del principiopolitico, in Id., Profezia e politica. Sette saggi, Città Nuova, Roma 1996, pp. 63-75).

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Occorre comportarsi diversamente con il popolo tedesco.Fin dalla mia giovinezza ho preso sommamente sul serio la rea-le esistenza dei popoli, ma nessun momento storico, sia esso delpassato o del presente, mi ha mai offuscato lo sguardo di frontealla concreta molteplicità esistente all’interno di un popolo, chegiunge fino alla contrapposizione, alla sua concreta dialetticainterna, rifiutando ogni concetto livellante che ridurrebbe talepopolo a una totalità fatta in questo e in quel modo, operante inquesto e in quel modo. Quando penso al popolo tedesco neigiorni di Auschwitz e di Treblinka, vedo innanzitutto i tanti chesapevano che quell’orrore stesse avvenendo, e non si opposero.Ma il mio cuore, che conosce la debolezza umana, si rifiuta dicondannare il mio prossimo perché non è stato in grado, supe-rando se stesso, di diventare un martire. Indi compare di frontea me la moltitudine di tutti quelli cui restò sconosciuto ciò cheera nascosto al pubblico tedesco, e che però nulla fecero pervenire a sapere quale realtà corrispondesse alle voci in circola-zione; quando ho in mente questa moltitudine, mi sopravviene ilpensiero della paura, a me ben nota, che la creatura umana sen-te di fronte a una verità che teme di non poter reggere. Infinevedo però coloro con il cui volto, il cui portamento e la cui voceho familiarizzato, attraverso resoconti affidabili, come fosseroamici – i quali si rifiutarono di eseguire o d’inoltrare l’ordinericevuto, e subirono o si dettero la morte. O ancora, quanti ven-nero a sapere cosa stava accadendo e, non potendo intraprende-re nulla per opporvisi, si dettero la morte. Sento questi uominimolto vicini a me, in quella particolare intimità che talvolta ciunisce con i morti, e solo con loro; e allora regna nel mio cuoreun profondo rispetto e amore per questi uomini tedeschi.

Adesso però qualcosa mi costringe a passare dal ricordo alpresente, dove sono attorniato da tutta quella gioventù che è cre-sciuta negli anni immediatamente successivi e non ha preso par-te a quel grande crimine. Questa gioventù, che oggi è certamen-te la vitalità vera e propria del popolo tedesco, mi si mostra inun’enorme dialettica interiore. Il suo nucleo è, in quanto tale,coinvolto in un conflitto interiore, che si svolge per lo più, percosì dire, in modo sotterraneo e solamente di tanto in tanto

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affiora in superficie. Ma questa è solamente una parte, per laprecisione la parte più chiara della grande battaglia interiore cheoggi si combatte in tutti i popoli, nei recessi del cuore di ognipopolo in modo più o meno consapevole, più o meno appassio-natamente. Nel profondo, le armate si ergono per l’ultima batta-glia dell’Homo Humanus contro l’Homo Ccontrahumanus; mail fronte si disgrega in tanti singoli fronti quanti sono i popoli, equanti stanno a un singolo fronte, il più delle volte nulla sannodegli altri singoli fronti. Il crepuscolo copre tuttora la battaglia,dal cui andamento ed esito dipenderà se dal genere umano potràancora, nonostante tutto, formarsi un’umanità. La cosiddettaGuerra fredda tra due giganteschi gruppi di Stati, con tutte lesue azioni secondarie, cela ancora il vero dovere e la vera soli-darietà nella battaglia, la cui linea si sviluppa trasversalmenteattraverso tutti gli Stati e tutti i popoli, indipendentemente dalnome che questi danno al loro regime; ma lo sguardo per larealtà più profonda, per la vera necessità e i veri pericoli, sta cre-scendo. In Germania, soprattutto nella gioventù tedesca, nono-stante la sua profonda lacerazione, ho trovato questo sguardopiù che altrove. Il ricordo dei dodici anni di dominio dell’HomoContrahumanus ha reso qui lo spirito più desto e più coscientedi quanto fosse in precedenza dell’opera che a esso, in quantospirito, è stata affidata.

Manifestazioni come il conferimento del Premio Goetheanseatico e del Premio della Pace dei librai tedeschi a un soprav-vissuto arciebreo devono essere lette in questo senso; anch’essesono momenti nella lotta dello spirito umano contro i demonidel subumano (Untermenschlich) e dell’antiumano (Wider -menschlich). Il sopravvissuto, per il quale vengono celebratequeste manifestazioni, deve assumersi l’eminente dovere di unasolidarietà trasversale rispetto a tali fronti: solidarietà verso tuttii singoli gruppi nell’accesa battaglia per il divenire dell’umanità.Questo è oggi il sommo dovere sulla Terra. Tale ebreo, eletto asimbolo, deve compiere il proprio dovere anche laddove – anzi:proprio laddove l’incancellabile memoria di ciò che è accaduto siopporrebbe. Come egli ha recentemente ringraziato lo spirito diGoethe, che appare vittorioso sopra ogni cosa, oggi ringrazia lo

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Evidenziato
Ferrari_unijena
Nota
Togliere una "c": Contrahumanus
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spirito della pace che, sempre e di nuovo, e oggi come non mai,parla al mondo in libri di lingua tedesca. Il suo ringraziamentosignifica una dichiarazione di solidarietà per la comune battaglia– comune anche ai tedeschi e agli ebrei – contro l’antiumano euna risposta al voto osservato dai combattenti.

***

Ascoltare la voce umana, dove essa risuona senza falsifi-cazioni, e risponderle – questo è quanto è anzitutto necessariooggi. L’infernale frastuono dell’attività del momento presentenon può continuare a coprire la vox humana, l’essenza dell’u-mano diventata voce. Tale voce non deve essere soltanto ascol-tata, bensì deve essere seguita da una risposta che conduca dalmonologo solitario a un crescente dialogo tra i popoli. Affinchéappaia la Grande pace e venga rinnovata la desolata vita sullaTerra, i popoli devono entrare in dialogo attraverso i loro uomi-ni autenticamente umani.

La Grande pace è qualcosa di sostanzialmente diverso dal-l’assenza di guerra.

In un antico affresco nel palazzo comunale di Siena sonoriunite le virtù civiche. Dignitose e consapevoli della lorodignità sono lì sedute le figure femminili, fino ad arrivare a unain mezzo a loro che le supera tutte, non nella sua dignità, bensìnella sua quieta maestà. Tre lettere annunciano il suo nome: pax.Questa è la Grande pace che ho in mente. Il suo nome non signi-fica che, con il suo dominio, qualcosa che si chiamava guerranon esisterà più. Questo sarebbe troppo poco per poter esserecompreso come serenità; il suo nome significa che adesso c’èqualcosa, c’è realmente qualcosa, che è più grande e più poten-te, ancora più grande e più potente della guerra. Le passioniumane si dissolvono nella guerra come l’acqua nel mare, ed essasi mescola con loro, ma nella Grande pace esse dovrebbero dis-solversi come minerali nel fuoco, fuse e trasformate dal fuocostesso, cosicché i popoli costruiscano insieme con una passionepiù impetuosa rispetto a quando, precedentemente, combatteva-no l’uno contro l’altro.

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Il pittore senese ha visto la Grande pace solamente nel suosogno. Non poteva conoscerla dalla realtà storica, dal momentoche non è mai successa. Ciò che nella storia si chiama pace, nonè mai stato altro che una – inquieta o illusoria – pausa tra dueguerre. Ma il genio femminile, che il pittore vide nel suo sogno,è una signora non delle interruzioni, bensì di nuove, più grandigesta.

Possiamo allora nutrire la speranza che il suo volto rimastosconosciuto in tutta la storia fino a oggi riluca su questa nostranuova generazione? Ci siamo così abituati alla condizione delmondo in cui viviamo, che dalla fine della Seconda guerra mon-diale non usiamo nemmeno più la parola “pace”, bensì parliamodi una fase “fredda” di una guerra mondiale proclamata comepermanente! Non è forse una fantasticheria, in una condizioneche non cerca nemmeno di mantenere una parvenza di pace,parlare di una Grande pace mai esistita come di qualcosa rag-giungibile?

È proprio la profondità della crisi che ci permette di spera-re. Questa non è una di quelle malattie della vita dei popoli checonosciamo dal corso della storia, da cui si può giungere a un’a-gevole guarigione; vengono invocate forze originarie per parte-cipare attivamente all’unica vera decisione, quella tra la rovinae la rinascita. Non è stata infatti la guerra ad aver innescato talecrisi, quanto è stata invece essa, la crisi dell’uomo, a causarequesta guerra totale e la vana pace successiva.

La guerra ha da sempre una controparte che quasi mai si èmanifestata in quanto tale, ma che in silenzio compie la sua ope-ra: il linguaggio – il linguaggio portato a compimento, il lin-guaggio del dialogo autentico, nel quale gli uomini si capisconoe si intendono vicendevolmente. Inerisce già all’essenza dellaguerra primitiva che essa inizi dove il linguaggio finisce, ovve-ro dove gli uomini non sono più in grado di dirimere gli oggettidelle loro controversie conversando l’uno con l’altro, né di svol-gere un semplice discorso, fuggendo così entrambi dal linguag-gio, cercando, nell’assenza di linguaggio, di uccidersi l’unocontro l’altro – una presunta decisione, per così dire un giudiziodi Dio; la guerra si impadronisce presto del linguaggio e lo

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asservisce al suo grido di battaglia. Dove però il linguaggio, perquanto possa essere ancora timido, si lascia nuovamente udireda uno schieramento all’altro, la guerra è già messa in dubbio.Alle sue mitragliatrici sarà facile coprire la parola; ma quandola parola è diventata completamente silenziosa e adesso, nelsilenzio, porta l’annuncio ai cuori degli uomini da ambo le par-ti che nessun conflitto umano è realmente risolvibile con i mor-ti, e nemmeno con uccisioni di massa, essa, la parola dell’uomo,ha già iniziato a far tacere le mitragliatrici.

La crisi dell’uomo, che è divenuta manifesta nella nostraepoca, sta in particolare distruggendo, tuttavia, proprio il rap-porto dell’uomo con il linguaggio e il dialogo. L’uomo in crisi èl’uomo che non affida più le sue problematiche al dialogo, per-ché il suo presupposto è andato perduto: la fiducia. Per talemotivo questa antipace (Widerfriede) imbevuta di guerra, cheoggi viene chiamata pace, si è imposta tra gli uomini. Quantofino a ora si è elevato in ogni tempo di pace nella storia, è la vivaparola tra uomo e uomo, che di volta in volta depura la diffe-renza d’interessi e di opinioni, senza degenerare nell’assurditàdel non-più-oltre, nella follia del dover-fare-la-guerra, adesso, laparola viva del dialogo umano, che aveva spiccato il volo primache la follia la soffocasse, sembra, nel mezzo della non-guerra,essere divenuta priva di anima.

I dibattiti dei rappresentati degli Stati che la radio ci riportanon hanno più niente in comune con un dialogo umano: non siparla l’uno con l’altro, bensì a un pubblico senza volto. E anchei congressi e le conferenze, che si tengono in nome della com-prensione tra popoli, sono privi dell’unica sostanza che è in gra-do di innalzare la trattativa al dialogo autentico: l’immediatezzanel rivolgere la parola e nel rispondere. In questo si condensa ilfatto generale per cui gli uomini non vogliono o non sono più ingrado di parlare senza mediazioni l’uno con l’altro. Questo per-ché non hanno più fiducia reciproca e perché ognuno sa chenemmeno l’altro ha più fiducia in lui. Se però qualcuno, in que-sto meccanismo di discorso contradditorio, si fermasse e riflet-tesse, noterebbe allora che, in ogni suo rapporto con chicchessia,a stento sussiste qualcosa che meriti di essere chiamata fiducia.

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E tuttavia, bisogna ripeterlo un’altra volta e un’altra voltaancora, è proprio la profondità della crisi che ci permette di spe-rare. Se solo osassimo contemplare la situazione con quel gran-de realismo che domina col suo sguardo tutte le realtà determi-nabili della vita pubblica, da cui essa sembra essere composta,scorgeremmo anche la realtà più reale di tutte, che la muovesegretamente nel profondo: la latenza della guarigione e dellasalvezza al cospetto dell’imminente rovina. Ciò che non simanifesterebbe mai all’infuori della crisi, la forza di cambiaredirezione, si mette in opera quando chi è preso dalla disperazio-ne, al posto di lasciarsi abbattere, richiama le sue forze origina-rie e porta con esse a compimento la svolta del suo essere. Acca-de così nella vita della persona e in quella del genere umano.Nel profondo, la crisi è una cruda decisione: non un oscillare trail peggioramento e il miglioramento, bensì la decisione tra ladistruzione e il rinnovamento della trama.

La crisi dell’uomo, che ai giorni nostri è diventata ricono-scibile, si annuncia nel modo più chiaro come crisi della fidu-cia, se vogliamo adoperare in modo così enfatizzato questo con-cetto della vita economica. Ci si chiede: fiducia verso chi? Ladomanda tuttavia contiene già una limitazione, che non èammessa in questa sede. È la fiducia per antonomasia, che l’uo-mo di questa epoca ha smarrito. A ciò è strettamente collegatala crisi del linguaggio; poiché posso parlare con qualcuno nelvero senso del termine solamente se posso aspettarmi che la miaparola venga veramente accolta. Per questo motivo, il fatto cheall’uomo di oggi riesca così difficile pregare (si noti bene: nonche gli risulti difficile credere che esista un Dio, bensì rivolger-si a lui) e il fatto che gli riesca così difficile condurre un dialo-go autentico con il suo prossimo sono fatti della stessa circo-stanza. Questa mancanza di fiducia nell’essere, questa incapa-cità di un rapporto con l’altro senza alcuna riserva, mostrano lapiù intima malattia del senso dell’esistenza. Una delle forme dimanifestazione di questa malattia, e la più attuale di tutte, èquella dalla quale sono partito: che non si leva nessuna veraparola tra i due schieramenti.

Può una malattia del genere essere curabile? Io penso di sì,

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e parlo a voi a partire da questa mia fede. Non ho dimostrazio-ni per la mia fede, una fede non è dimostrabile, altrimenti nonsarebbe ciò che è, il grande rischio. Invece che a una dimostra-zione, mi rivolgo alla fede potenziale di ognuno dei miei udito-ri che sia in grado di credere.

Se c’è guarigione, dove può avvenire la cura? Anzi, dovedeve avere inizio la conversione dell’essere, da quelli che aspet-tano le potenze curatrici, le potenze della guarigione dal fondodella crisi?

Che i popoli, che gli uomini dei popoli, non riescano più acondurre un dialogo autentico tra di loro non è solo il fenome-no patologico più attuale, ma è anche quello più urgente darisolvere nel nostro tempo. Nonostante tutto, io penso che inquesto momento i popoli possano entrare in dialogo, in un dia-logo autentico. Un dialogo autentico è quello in cui ogni inter-locutore percepisce, aderisce e approva, anche dove si trova incontrapposizione con l’altro, quello che quest’altro realmenteesistente percepisce; solo così la contrapposizione, che certa-mente non potrà essere eliminata, potrà essere invece umana-mente risolta e condotta al suo superamento.

A dare avvio al dialogo sono naturalmente chiamati coloroi quali combattono oggi, in ogni popolo, la battaglia contro l’an-tiumano. Essi, che costituiscono il grande fronte trasversale del-l’umanità, devono far prendere coscienza, parlando apertamen-te gli uni con gli altri, senza distogliere lo sguardo da ciò chedivide, bensì risoluti a farsene carico insieme.

Contro di loro c’è chi si approfitta della divisione tra popo-li, quanto vi è di antiumano nell’uomo, che è il vero subumano,nemico di un’umanità che vuole diventare tale.

La parola “Satana” significa in ebraico “l’avversario”.Questa è la giusta denominazione dell’antiumano nell’uomo enel genere umano. Non lasciamoci ostacolare dall’elementosatanico nella realizzazione dell’uomo! Liberiamo il linguaggiodalla sua malia! Osiamo, nonostante tutto, avere fiducia!

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UMANESIMO DELLA FEDE

Discorso di ringraziamento tenuto ad Amsterdam in occasione del conferimento del Premio Erasmus

La riconoscenza del mio cuore, che in questo momentovoglio esprimere a Sua Altezza Reale Principe Bernhard e aimembri del comitato del premio, non è una generica gratitudineper avermi conferito un’alta onorificenza: è una riconoscenzamolto particolare, relativa al conferimento di uno specifico pre-mio che è legato al nome di Erasmo. Poiché, se dovessi identi-ficare il mio pensiero fondamentale con un concetto, potrebbeessere solamente il medesimo concetto con il quale identifi-chiamo il pensiero fondamentale di Erasmo: il concetto di unUmanesimo della fede.

Una distinzione si rende tuttavia qui necessaria, ed è unadistinzione fondamentale.

L’Umanesimo della fede di Erasmo costituisce il legame didue principi che nella vita dell’uomo agiscono l’uno accantoall’altro, senza sfiorarsi l’uno con l’altro: l’umanità naturale,nella quale l’uomo è a casa, e che deve solamente sviluppare edispiegare, e la fede, nella quale egli, distaccandosi per così diredall’umano, si innalza verso Dio. Secondo tale Umanesimo del-la fede, queste sono due sfere differenti, nessuna delle qualilimita l’altra nella vita della persona umana; a ognuna delle dueappartengono particolari tempi e particolari àmbiti della vita.

Il pensiero che nel nostro tempo si può definire come Uma-nesimo della fede, e nel quale io mi riconosco, è differente. Quil’umanità e la fede non appaiono come due àmbiti separati,ognuno dei quali si trova sotto un proprio segno e sotto una leg-ge particolare: si compenetrano reciprocamente, agiscono insie-

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me. Sono legati in modo così intimo l’uno all’altro che possia-mo dire: la nostra fede ha la nostra umanità come fondamento,e la nostra umanità ha la nostra fede come fondamento.

Per rendere questo rapporto più chiaro, occorre prendere inconsiderazione una differenza non irrilevante tra il pensiero del-l’Alto Rinascimento, da attribuire a Erasmo, e il pensiero dellanostra epoca. Si tratta della differente considerazione dell’hu-manum, inteso come tratto proprio dell’uomo che lo elevadistinguendolo da tutto il resto della natura, dell’humanum nelsuo senso più positivo, che spetta a noi riconoscere, onorare esviluppare.

Nell’epoca del Rinascimento, come nell’Antichità, è statoripetutamente tentato di definire quella humanitas nel suo sen-so più alto; né però nell’Antichità né nel Rinascimento venivamostrata con sufficiente precisione. Solamente nella nostra epo-ca si è affinato il pensiero intorno all’umano, e l’essenza del-l’humanum è stata riconosciuta dall’uomo con la massima chia-rezza e la massima precisione umanamente possibile. Per quan-to riesca a vedere, sono state date due risposte fondamentali,essenzialmente differenti, alla moderna domanda dell’uomointorno a se stesso, e anche all’humanum che lo contraddistin-gue e che questi deve sviluppare.

La prima risposta, rappresentata da un’importante correntedella filosofia tedesca da Hegel fino a Heidegger, vede nell’uo-mo l’ente nel quale l’essere giunge alla coscienza di se stesso.Conformemente a ciò, vale qui come la più nobile funzione del-l’uomo, come ciò che ne determina l’humanum, la riflessione, lapresa di coscienza di se stesso, attraverso la quale l’uomo com-pie, sempre e di nuovo, per così dire, la presa di coscienza del-l’essere su se stesso. È evidente che se un uomo che intende inquesto modo l’humanum è credente, allora il suo Umanesimo ela sua fede non potranno compenetrarsi reciprocamente; dimo-reranno l’uno accanto all’altro, ma rimarranno due àmbiti diffe-renti. La riflessione sull’essere, intesa come riflessione dell’uo-mo che giunge all’autocoscienza, si riferisce infatti all’essereformalizzato e astratto radicalmente da ogni contenuto; questovuoto essere è certamente il concetto fondamentale di ogni

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metafisica, ma nella vita vissuta della persona umana, nella vitavissuta da ognuno di noi tra la nascita e la morte, non ricorre. Lafede, invece, fa riferimento a Dio, e Dio è presente alla personaumana proprio in quel momento vissuto, nel quale tale personacrede a lui, oppure, espresso più concretamente, nel quale ellaconfida in lui. Egli è presente, e con questo non viene detto:“Dio è” – questo lo condurrebbe dalla vita alla metafisica, ben-sì viene detto: Dio c’è. Nella vita di quella forma umana moder-na di cui sto parlando, non sussistono allora due sfere separate epacificamente una accanto all’altra, come nella vita dell’uomoerasmiano: nel fondo del suo essere, quest’uomo sa che in veritàqueste due sfere si escludono reciprocamente. Un autenticoumanista della fede non può più crescere da un siffatto terreno.

Accade in un modo completamente diverso allorché ladomanda dell’uomo riguardo se stesso e l’humanum, che loinnalza rispetto agli altri esseri viventi sulla Terra distinguendo-lo da tutti loro, ottiene una risposta essenzialmente diversa.

In questa seconda risposta non si tratta del rapporto dellapersona umana con se stessa, se questa scopra nella propriariflessione l’essere che ha raggiunto l’autocoscienza, bensì sitratta del rapporto dell’uomo con tutti gli altri enti. Ciò che quiappare come humanum, come il più grande vantaggio dell’uo-mo rispetto a tutti gli altri esseri viventi conosciuti, è la suacapacità di venire in contatto immediato, di propria iniziativa,con chiunque incontri fisicamente o spiritualmente, rivolgendo-visi con le labbra e col cuore, o anche solo col cuore; non quin-di come l’animale, mosso dalla costrizione delle necessità e deisuoi bisogni, quanto piuttosto dall’abbondanza della sua esi-stenza. A differenza dell’animale, l’essere umano è in grado dicomprendere tutto ciò che incontra lungo il suo cammino dellavita, compreso ciò che nella sua esistenza è al di fuori dei pro-pri interessi. È in grado di entrare in relazione con un Altro esi-stente autonomamente. Conoscendo e riconoscendo di volta involta come un che d’intero l’Altro e gli Altri, egli medesimopuò, di volta in volta, rapportarsi all’Altro come un che d’inte-ro. Come un che d’intero può entrare nelle situazioni comuni,senza annullarsi in esse, poiché percepisce anche la condizione

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specifica e autonoma, non coinvolta in tale situazione, di chi glista di fronte, senza che diventi per questo un mero oggetto del-la sua osservazione. Questo altro essere si eleva, per quel pocoche può costituire all’interno della totalità dell’essere, al disopra dell’incontro – e si trova ciononostante in una relazioneinalterata con la persona umana.

In questa nuova risposta della nostra epoca alla domandasull’humanum si mostra inoltre l’innata attitudine dell’uomo aincontrare altri esseri. Dal momento che, però, sulla base dellanostra esperienza l’uomo è l’unico essere vivente nel quale èriscontrabile questa attitudine, possiamo dire allora che, nellastoria del mondo, è solo grazie all’uomo che l’“incontro” èdiventato possibile, in quanto incontro dell’uno con l’altro.

Non è qualcosa di casuale, ma al contrario di fondamenta-le importanza, che, nella storia della filosofia moderna, fosseroinclini a questa concezione alcuni pensatori religiosi, comeJacobi (seconda metà del XVIII secolo) e Kierkegaard (primametà del XIX secolo) – limitando però la situazione d’incontroalla relazione tra l’uomo e Dio – oppure pensatori come Feuer-bach, contemporaneo di Kierkegaard, che aspirava alla fonda-zione di una nuova fede senza alcun elemento trascendentale.Come Kierkegaard conobbe e riconobbe come decisivo sola-mente l’incontro tra il singolo uomo e Dio, così Feuerbachconobbe e riconobbe solamente l’incontro tra un uomo e l’altro.La visione della relazione tra l’Io e il Tu ha iniziato a esserechiarita come una relazione onnicomprensiva solamente nelnostro tempo.

La conoscenza che il vero humanum e l’esperienza dellafede sono radicati nello stesso terreno dell’incontro è pertanto didecisiva importanza per il problema di un autentico Umanesimodella fede nel nostro tempo. Sì, la fondamentale esperienza difede medesima può essere ritenuta come l’intensificazione piùgrande della realtà dell’incontro. Tutto ciò vale senza dubbio perla vita religiosa tra il mare Arabico e l’oceano Pacifico; sembraperò che anche spingendosi molto più in là, nell’intero genereumano, all’inizio dell’esperienza di fede personale vi sia unincontro con l’incomprensibile, e che tale incontro compaia

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anche all’interno di essa, sempre e di nuovo rafforzato e rinno-vato.

Da qui volgiamo il nostro sguardo a un moderno Umanesi-mo della fede che unisce l’humanum e la fede in modo tale cheessi non dimorino solamente uno accanto all’altro, ma si com-penetrino l’uno con l’altro.

Riguardo al mio uso dell’attributo “moderno”, qualcunopotrebbe adesso obbiettare che proprio nel nostro tempo un taleUmanesimo della fede sia scarsamente percepibile. E in effetti,oggi più che mai può sembrare che prevalga un tipo di essereumano che predilige osservare e utilizzare chi e che cosa trovalungo il proprio cammino, piuttosto che volgervisi con la suaanima e il suo agire. Eppure, proprio oggigiorno, è sorta unapotente educazione a un nuovo e autentico Umanesimo dellafede. Mi riferisco alla crisi del genere umano, minacciato dallarovina. Mi riferisco alla tecnologia senza guida; alla sovranitàillimitata dei mezzi che non hanno più nessuna responsabilità difronte ai fini; mi riferisco al volontario asservimento degliuomini al servizio della scissione atomica. All’interno di ungenere umano ancora proteiforme e in divenire, sempre più per-sone percepiscono che cosa si stia preparando; la loro percezio-ne cresce di giorno in giorno, e la conoscenza della crisi richia-ma in loro la sola controforza che può riuscire a elevare essistessi a “signori” attraverso nuove mete, mete grandi e chiare,imponendosi su tali sediziosi mezzi. Questa controforza è quel-la che io chiamo il nuovo Umanesimo della fede.

Dalla terra di Erasmo saluto gli umanisti della fede, quelligià attivi e quelli che stanno ancora maturando, in tutto il mondo.

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NOTA EDITORIALE

L’UOMO DI OGGI E LA BIBBIA EBRAICADer Mensch von heute und die jüdische Bibel. Aus einer Vortragsfolge –November 1926 (1926), in M. Buber, F. Rosenzweig, Die Schrift und ihreVerdeutschung, Schocken, Berlin 1936, pp. 13-45, §537.

VITA MONOLOGICA E VITA DIALOGICAMonologisches und dialogisches Leben (1928), in Judaica. Beiträge zumVerstehen des Judentums, LXVIII/4 (2012), pp. 400-414.

TRE TESI PER UN SOCIALISMO RELIGIOSO Drei Sätze eines religiösen Sozialismus, in Neue Wege. Blätter für die reli-giöse Arbeit, XXII, 7/8 (1928), pp. 327-329, §363.

ANNOTAZIONI SULL’IDEA DI COMUNITÀ Bemerkungen zur Gemeinschaftsidee, in Kommende Gemeinde, III/2(1931), pp. 19-26, §435.

LA POTENZA DELLO SPIRITO Die Mächtigkeit des Geistes (1934), in M. Buber, Die Stunde und dieErkenntnis. Reden und Aufsätze 1933-1935, Schocken, Berlin 1936, pp. 74-87, §538.

LA FINE DELLA SIMBIOSI TEDESCA-EBRAICA Das Ende der deutsch-jüdischen Symbiose, in Jüdische Welt-Rundschau,I/1, 10.3.1939, p. 5, §602.

UMANESIMO EBRAICOHebräischer Humanismus, in Neue Wege, XXXV/41 (1941), pp. 1-11,§1216.

SPERANZA PER QUEST’ORAHoffnung für diese Stunde, in Merkur, VI/8 (1952), pp. 711-718, §902.

IL DIALOGO AUTENTICO E LE POSSIBILITÀ DELLA PACEDas echte Gespräch und die Möglichkeiten des Friedens, Lambert Schnei-der, Heidelberg 1953, §913.

UMANESIMO DELLA FEDEGläubiger Humanismus, in Mitteilungsblatt, XXXI/50 (1963), p. 5, §1227.

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INDICE

INTRODUZIONE 5

L’UOMO DI OGGI E LA BIBBIA EBRAICA 13

VITA MONOLOGICA E VITA DIALOGICA 39

TRE TESI PER UN SOCIALISMO RELIGIOSO 55

ANNOTAZIONI SULL’IDEA DI COMUNITÀ 59

LA POTENZA DELLO SPIRITO 65

LA FINE DELLA SIMBIOSI TEDESCA-EBRAICA 75

UMANESIMO EBRAICO 79

SPERANZA PER QUEST’ORA 95

IL DIALOGO AUTENTICO E LE POSSIBILITÀ DELLA PACE 105

UMANESIMO DELLA FEDE 113

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Finito di stamparenel mese di Maggio 2015

per i tipi de “il nuovo melangolo”dalla Microart - Recco (Ge)

Impaginazione e impianti:Type&Editing - www.typegenova.it

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