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15 Brueghel, gli artefici del mito fiammingo G ià nella prima metà del Cinquecento la città di Anversa è il nuovo centro economico del mondo occidentale, fulcro dei commerci, delle spedizioni e dei grandi viaggi. Nel 1568 la popolazione supera i centomila abitanti, molte cartine europee la de- finiscono come la “città dei mercati” e Tommaso Moro sceglie di farvi iniziare la sua Utopia. Sempre importante per le manifatture di arazzi, la città consolida la propria fama per le scuole di scultura e architettura. Negli stessi anni nasce e si consolida una classe borghese dinamica e spregiudicata, in cerca di affermazione e ricchezza. Il flusso di denaro moltiplica anche il numero di artigiani e artisti presenti in città e la pit- tura celebra le gesta e le avventure di viaggiatori e mercanti; le loro storie diventano spunto per quadri sempre più apprezzati e diffusi, destinati ad abbellire le case di una committenza colta e attenta alle dinamiche di un mercato nascente. Nello stesso secolo si affermano i primi pittori specialisti di paesaggio, che dipingono montagne dalle forme immaginarie sullo sfondo di un alto orizzonte, utilizzando colori freddi, divisi per fasce cromatiche in successione per ottenere un efficace effetto prospet- tico. Questi artisti portano per la prima volta sulla tela un paesaggio a volo d’uccello, che grazie al punto d’osservazione molto alto crea un senso di irreale immensità e fa apparire le figure umane come minuscoli elementi circondati da montagne ciclopiche. Inizia così un percorso di nuova percezione della realtà, i quadri suscitano stupore e rendono visibile il senso del limite umano di fronte alla potenza degli elementi di un mondo minaccioso, ma al tempo stesso attraente e pieno di fascino. E mentre in Italia il lavoro di Michelangelo, Leonardo e Tiziano porta all’esaltazione ideale dell’uomo con l’enfasi sulle virtù e la tensione verso la santità, espresse da una fisi- cità plastica e perfetta, nei Paesi Bassi, anche per gli effetti della riforma protestante e delle teorie calviniste, l’attenzione si sposta sempre più verso il primato della natura, che inizia la sua trasformazione da semplice sfondo della rappresentazione a soggetto vero e proprio dell’opera d’arte. Pieter Brueghel il Vecchio, il capostipite della famiglia, viaggia in Italia fra il 1552 e il 1556; la prova del suo passaggio si desume anche dalla straordinaria tavola Veduta del porto di Napoli del 1556, nella quale rappresenta il porto in modo molto realistico e con monumenti che rendono identificabile con chiarezza la città. Il quadro, che appartiene alla collezione della Galleria Doria Pamphilj di Roma, è uno degli unici due dipinti di Pieter il Vecchio presenti in Italia, insieme alla Parabola dei ciechi del Museo di Capodimonte di Napoli. Nel suo viaggio viene certamente impressionato più dalla potenza delle montagne inne- vate, delle vallate, delle cime, delle acque e da tutto quanto trova di inconsueto e diverso rispetto al paesaggio pianeggiante dei Paesi Bassi, che non dalla centralità ideale della figura Sergio Gaddi Particolare cat. V.7

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Brueghel, gli artefici del mito fiammingo

Già nella prima metà del Cinquecento la città di Anversa è il nuovo centro economico del mondo occidentale, fulcro dei commerci, delle spedizioni e dei grandi viaggi. Nel 1568 la popolazione supera i centomila abitanti, molte cartine europee la de-

finiscono come la “città dei mercati” e Tommaso Moro sceglie di farvi iniziare la sua Utopia. Sempre importante per le manifatture di arazzi, la città consolida la propria fama per le scuole di scultura e architettura. Negli stessi anni nasce e si consolida una classe borghese dinamica e spregiudicata, in cerca di affermazione e ricchezza.

Il flusso di denaro moltiplica anche il numero di artigiani e artisti presenti in città e la pit-tura celebra le gesta e le avventure di viaggiatori e mercanti; le loro storie diventano spunto per quadri sempre più apprezzati e diffusi, destinati ad abbellire le case di una committenza colta e attenta alle dinamiche di un mercato nascente.

Nello stesso secolo si affermano i primi pittori specialisti di paesaggio, che dipingono montagne dalle forme immaginarie sullo sfondo di un alto orizzonte, utilizzando colori freddi, divisi per fasce cromatiche in successione per ottenere un efficace effetto prospet-tico. Questi artisti portano per la prima volta sulla tela un paesaggio a volo d’uccello, che grazie al punto d’osservazione molto alto crea un senso di irreale immensità e fa apparire le figure umane come minuscoli elementi circondati da montagne ciclopiche. Inizia così un percorso di nuova percezione della realtà, i quadri suscitano stupore e rendono visibile il senso del limite umano di fronte alla potenza degli elementi di un mondo minaccioso, ma al tempo stesso attraente e pieno di fascino.

E mentre in Italia il lavoro di Michelangelo, Leonardo e Tiziano porta all’esaltazione ideale dell’uomo con l’enfasi sulle virtù e la tensione verso la santità, espresse da una fisi-cità plastica e perfetta, nei Paesi Bassi, anche per gli effetti della riforma protestante e delle teorie calviniste, l’attenzione si sposta sempre più verso il primato della natura, che inizia la sua trasformazione da semplice sfondo della rappresentazione a soggetto vero e proprio dell’opera d’arte.

Pieter Brueghel il Vecchio, il capostipite della famiglia, viaggia in Italia fra il 1552 e il 1556; la prova del suo passaggio si desume anche dalla straordinaria tavola Veduta del porto di Napoli del 1556, nella quale rappresenta il porto in modo molto realistico e con monumenti che rendono identificabile con chiarezza la città. Il quadro, che appartiene alla collezione della Galleria Doria Pamphilj di Roma, è uno degli unici due dipinti di Pieter il Vecchio presenti in Italia, insieme alla Parabola dei ciechi del Museo di Capodimonte di Napoli.

Nel suo viaggio viene certamente impressionato più dalla potenza delle montagne inne-vate, delle vallate, delle cime, delle acque e da tutto quanto trova di inconsueto e diverso rispetto al paesaggio pianeggiante dei Paesi Bassi, che non dalla centralità ideale della figura

Sergio Gaddi

Particolare cat. V.7

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Brueghel sa bene che la carnalità e i bisogni elementari sono certamente poco nobili, ma al tempo stesso ne riconosce verità e realtà nella quotidianità di ogni giorno.

Il pittore si guarda attorno e descrive nei dettagli ciò che vede, e nonostante gli eccessi anche volgari dei comportamenti del popolo, mantiene spesso il tono ironico e caricaturale, e anche una certa gioia di vivere. La sua capacità di osservazione e di riproduzione del mon-do reale viene subito ripresa e interpretata dai figli pittori Pieter il Giovane e Jan il Vecchio, che a loro volta la trasmetteranno ai discendenti, pur con esiti qualitativi differenziati, dando vita a una straordinaria tradizione d’arte che si estende per quattro generazioni.

Il primo figlio, Pieter, a differenza del fratello Jan, realizza vere e proprie copie delle ope-re paterne, permettendone la diffusione dello stile tra il pubblico e alimentando le richieste del mercato. La particolare attenzione paterna nei confronti della natura viene invece eredi-tata e sviluppata in modo efficace e personale dal secondo figlio, Jan, anche soprannominato “Jan dei Velluti” per la straordinaria capacità tecnica che lo porta alla perfezione quasi tattile della pittura.

Nonostante possa apparire paradossale, bisogna riconoscere che la fama di Pieter Brue-ghel il Vecchio, accresciuta dopo la sua morte e diventata oggi leggendaria, si deve in parte anche ai numerosi dipinti dei figli, certamente i testimoni più attendibili dei soggetti origi-nali e dello stile geniale del padre-maestro.

A Pieter il Giovane si deve la diffusione dei celebri paesaggi invernali, diventati emblema dell’arte fiamminga, dove la pittura riesce a trasmettere tutta la gamma di sensazioni anche fisiche legate alle temperature rigide e ai paesaggi nordici; i colori freddi e la luce lattiginosa rendono vivi e presenti gli alberi coperti di neve, i tetti imbiancati, la malinconia della natura e i ritmi rallentati delle figure umane nell’aria rarefatta dell’inverno.

Nella Trappola per gli uccelli di Pieter il Giovane la precarietà della vita dei pattinatori sul fiume gelato, la cui lastra di ghiaccio può cedere da un momento all’altro, è simile all’in-consapevolezza degli uccelli che si posano sotto l’apparente riparo di una tavola di legno che invece diventa la trappola mortale, azionata dalla mano del cacciatore attraverso la fune che parte dalla finestra sullo sfondo.

Il tratto moralistico e pedagogico è ancor più esplicito nelle Sette opere di misericordia, che rappresenta le virtù cristiane – nutrire gli affamati, vestire gli ignudi, visitare i malati e i carcerati, seppellire i morti, dare da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini – in un villaggio fiammingo contemporaneo all’artista e non nell’epoca storica del Nuovo Testamento nella quale effettivamente si svolge. Questa tecnica di attualizzazione degli episodi sacri e biblici nella contemporaneità dello spettatore è piuttosto diffusa nella pittura dell’epoca e permet-te una immediata e più facile comprensione del messaggio e dell’insegnamento morale.

Gli artisti della famiglia Brueghel sono narratori di fatti e di storie. Nelle loro opere, come abbiamo osservato, c’è la rappresentazione della realtà e il racconto della vita quotidiana per come effettivamente si svolge; ci sono contadini che per la prima volta diventano soggetto del dipinto mentre sono piegati dalla fatica del vivere, insieme a ubriachi e mendicanti, piuttosto che personaggi presi di spalle e figure anonime che percorrono il loro tratto di esistenza ignari e indifferenti all’osservatore del quadro. Ma insieme alle passioni più umili, c’è al tempo stesso la varietà della vita, l’esplosione dell’allegria e della festa, c’è il gioco del corteggiamento, ci sono i riti matrimoniali e le tradizioni tramandate da generazioni davanti al fuoco o durante un banchetto.

Soprattutto Pieter il Giovane non esprime quindi un giudizio di condanna sull’umanità, ma rivolge la sua attenzione verso la cosiddetta vita bassa, posa uno sguardo indulgente e

umana nell’arte. Sente la forza assoluta della natura e prefigura quell’idea di sublime che Schiller arriverà a teorizzare nel corso dell’Ottocento. E forse non è un caso che proprio dalla sensibilità del romanticismo partirà una rinnovata attenzione critica sull’opera del ma-estro fiammingo.

Rientrato in patria, realizza la maggior parte delle sue opere tra il 1559 e il 1569, negli anni dell’arrivo nei Paesi Bassi del feroce duca d’Alba, mandato dal re di Spagna Filippo II per sedare con la forza l’espansione della dottrina luterana e convertire i protestanti con ogni mezzo. In un pesante clima di tensioni religiose, Brueghel è invece un colto individua-lista, segue la filosofia stoica, conosce le posizioni di Erasmo da Rotterdam e di Tommaso Moro e frequenta il geografo Abraham Ortelius, l’autore del primo atlante del mondo.

Inizia il suo percorso di formazione artistica nella raffinata bottega di Pieter Coecke van Aelst, uno dei pittori più apprezzati dei Paesi Bassi, del quale diventa anche genero sposan-done la figlia Mayken.

Tra i due c’è una profonda differenza di stile, come si nota mettendo a confronto l’opera di Brueghel con il Trittico con Adorazione dei Magi, Annunciazione e Natività di Coecke van Aelst, e infatti Pieter il Vecchio è sostanzialmente il solo, o comunque il più rilevante, tra i pittori che si mantengono estranei al gusto classicheggiante, ovvero al cosiddetto fenomeno di ade-sione alle correnti artistiche italiane.

Entra invece presto in contatto con le visioni fantastiche di Hieronymus Bosch, conside-rato oggi da molti studiosi come il primo surrealista della storia dell’arte.

Brueghel è talmente affascinato da questa pittura visionaria, capace di evocare l’oppo-sizione fra sacro e profano e la lotta tra fede e superstizione, che realizza dipinti e incisioni nello stesso stile, tanto da essere definito come “il secondo Bosch”.

La casa editrice d’arte Aux Quatre Vents di Hieronymus Cock, con la quale collabora inizialmente, chiede all’artista disegni proprio sullo stile di Bosch per realizzare incisioni e stampe, che riscuotono un particolare successo, anche per la facilità di circolazione e di vendita. Ma agli uomini del Cinquecento il mondo immaginario di Bosch non appare affatto come un rebus fantastico. Per loro la stravaganza iconografica dell’artista richiama imme-diatamente alla mente il conflitto tra bene e male e tra virtù e vizio, che mette il mondo in una posizione di costante oscillazione tra la possibilità della salvezza e il rischio dell’inferno. Una chiara dimostrazione di questa tesi si ha nell’opera in mostra, i Sette peccati capitali, nella quale lo spazio pittorico si presenta con una propria sfericità accentuata anche dalla forma leggermente concava della tavola, e con la sovranità del Cristo crocifisso nella fascia alta del dipinto che diventa il riferimento anche visivo della possibilità della redenzione.

Il mondo, nel quale si muovono figure che impersonificano i peccati capitali lussuria, ira, superbia, invidia, accidia, gola e avarizia, è appoggiato su una rupe, ed è in oscillazione tra la possibilità della salvezza e il rischio dell’inferno, dove i demoni e i “grilli” – figure tra l’umano, l’animalesco e il fantasioso – sono pronti ad accoglierlo laddove l’umanità dovesse indulgere al vizio e soccombere di conseguenza al peccato.

Lo sguardo di Brueghel sull’uomo, invece, è meno severo nel giudizio morale, assume una visione più distaccata e oggettiva senza particolari volontà accusatorie o di condanna.

È la visione di un’umanità che segue gli idoli della perdizione, ma che può sempre trova-re un’occasione di salvezza, come nel messaggio del Cristo risorto e trionfante della tavola La resurrezione del 1563. Ma l’aspetto rivoluzionario e innovativo della pittura del maestro fiammingo è la capacità di rappresentazione della normalità della vita umana senza filtri, di analizzarne le vicende senza alcuna grandiosità, ma con una marcata attenzione anche verso gli aspetti più brutali.

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spesso partecipe sulla quotidianità dai risvolti goffi e disarmanti, e proprio per questo pro-fondamente umani. Tale approccio pittorico è anche conseguenza del pensiero stoico, già conosciuto dal capostipite della famiglia, in base al quale l’universo è un edificio di parti-colare bellezza, regolato razionalmente e in modo preciso. Ogni essere vivente ha un ruolo specifico e a ciascuno viene assegnato un posto, compreso l’uomo che deve adattarsi e subire imperturbabile il proprio destino.

Le abitudini e i comportamenti dei contadini, ritratti soprattutto nei momenti di festa come matrimoni e danze, diventano quindi metafora dell’intera esistenza. E anche se le rap-presentazioni della vita rurale venivano intese come satira del mondo contadino, in realtà proprio le classi sociali più umili erano le più adatte a raffigurare con precisione la realtà del mondo nel suo complesso, perché proprio i semplici sono liberi dalla maschera dell’artificio e vivono le pulsioni con genuina spontaneità.

In questa logica, un’opera di particolare interesse è la serie completa delle tavole del Matrimonio contadino di Marten van Cleve. I sei dipinti raffigurano rispettivamente il corteo della sposa, quello dello sposo, la presentazione dei doni, il banchetto di nozze, la benedi-zione del talamo nuziale e la vita matrimoniale, momenti che mostrano numerosi dettagli rivelatori dei comportamenti e dei costumi dell’epoca. A partire dalla postura della sposa, l’unica ad avere i capelli sciolti rispetto alle altre donne che la accompagnano, che invece hanno il capo coperto dal fazzoletto. I capelli sciolti, oltre a essere un simbolo di seduzione che diventa esplicita nel giorno delle nozze, sono al tempo stesso segno di attrazione verso il mistero della procreazione. Momento fondamentale che impone alla sposa un atteggia-mento conseguente di particolare sobrietà e moderazione, facendole assumere una postura adeguata, con occhi bassi e braccia conserte. Si nota come sia nella fase di presentazione dei doni nuziali, sia durante il banchetto di nozze, questa mantiene lo stesso atteggiamento, che assume anche una valenza di difesa dagli sguardi malevoli degli invidiosi che potrebbero in-ficiare la serenità della sua nuova vita. Spesso, in situazioni analoghe, veniva anche posto uno specchio alle spalle della sposa per restituire all’autore l’eventuale sguardo negativo. Infine, nella tavola della benedizione del talamo nuziale la sposa è in lacrime, per la consapevolezza del definitivo abbandono della spensieratezza giovanile e per la perdita dell’innocenza vergi-nale che segna il passaggio alla vita adulta.

Dal raffronto tra la Danza nuziale all’aperto di Pieter il Giovane e l’analoga Danza nuziale di Marten van Cleve, appare evidente come il diverso è più accentuato taglio prospettico della prima opera, con le figure in maggiore evidenza, offra al dipinto una maggiore forza dinamica rispetto al medesimo tema trattato da Van Cleve, che gioca viceversa sull’esplicita carnalità di alcune figure che si abbandonano senza riserve agli istinti più elementari e rozzi. Ancora una volta è evidente la differenza tematica tra la cruda rappresentazione della realtà della pittura fiamminga rispetto alla ricerca della perfezione plastica e ideale del Rinasci-mento italiano.

Jan Brueghel il Giovane, figlio di Jan il Vecchio e nipote del capostipite, si trova in Italia per lo stesso viaggio di formazione che il nonno e il padre fecero prima di lui, quando è costretto a tornare ad Anversa nel 1625 a causa della morte del padre.

Con l’aiuto di Rubens, amico di famiglia, si prende carico della bottega paterna e delle oltre seicento opere, tra disegni e dipinti, lasciate incompiute e che devono solo essere ulti-mate. Jan il Giovane inizia così la sua fortunata carriera, aiutato nell’impresa da una nutrita schiera di pittori amici del padre come Frans Francken, Joos de Momper, Hendrick van Ba-len. L’idea del sorprendente, dell’esotico e del meraviglioso, che fa riferimento alla moda e alla diffusione tra i collezionisti della Wunderkammer (camera delle meraviglie), trova nella

pittura di Jan il Giovane una perfetta rappresentazione, molto in voga nel Seicento e molto apprezzata dalla ricca borghesia mercantile.

Tra i numerosi dipinti presenti in mostra, destano particolare interesse i temi allegorici, tra i quali l’artista si muove perfettamente a proprio agio. Molto diffuse sono le Allegorie dei quattro elementi, dove Vesta, Cerere, Urania e Anfitrite, che rappresentano rispettivamente fuoco, terra, aria e acqua, si muovono in uno schema ispirato dalla filosofia di Empedocle che, nel V secolo a.C., immagina l’universo sulla base dei quattro elementi fondamentali e associa a ciascuno una qualità umana: l’aria alla luce, l’acqua alle emozioni, la terra alla sta-bilità e il fuoco al desiderio. Molti animali esotici come pappagalli, porcellini d’india, tigri e

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David Teniers il Giovane, tra i più grandi narratori del mondo contadino, sposa Anna, sorella di Jan il Giovane.

Altri parenti minori, come Philips Brueghel, si confrontano con uno stile più classicheg-giante e c’è anche chi, come Joseph van Bredael, si firma “jb” per rimandare a Jan Brueghel, del quale è un attento imitatore.

L’ultimo esponente della dinastia è Abraham, che rimane in Italia dopo il tradizionale viaggio, stabilendosi a Napoli, il cui stile si distacca dalla tradizione familiare per diventare materico, meno calcolato e più viscerale.

Ed è significativo che il suo soprannome sia “il Fracassoso”, un aggettivo molto lontano da quel “dei Velluti” che aveva accompagnato il nonno, e che chiude l’epopea della grande famiglia Brueghel prima dei nuovi linguaggi del XVIII secolo.

leoni vengono spesso aggiunti alla composizioni per rendere tangibile il senso di una realtà lontana e meravigliosa al tempo stesso.

Nei due dipinti Allegoria della pace e Allegoria della guerra del 1640, che opportunamen-te vanno osservati insieme, è possibile individuare una pluralità di simboli e di allusioni contrapposte. Se nell’uno Venere e Cupido, in un carro trainato dalle colombe della pace, spargono sul mondo fiori e gioielli come simbolo di armonia e ricchezza, nell’altro Marte e Aletto, furia della guerra, entrano in scena brandendo le fiaccole per accendere gli animi alla battaglia. Mentre da una parte le architetture disegnano uno spazio ordinato dove i con-tadini ballano felici, dall’altra diventano invece le rovine dove gli eserciti si fronteggiano nel combattimento. E ancora, mentre in un dipinto la pace trova il suo apice simbolico in una tavola riccamente imbandita dove i commensali pranzano e amoreggiano al tempo stesso, nell’altro le armi e il fuoco dominano la scena e la guerra diventa protagonista, assumendo il volto tetro dei lutti e della violenza.

Le allegorie rivelano anche le tracce di un pensiero di matrice platonica, e in tal caso si può leggere un riflesso del Rinascimento italiano, che vede nella natura un rimando a una realtà metafisica. Il tratto distintivo è comunque l’attenzione scrupolosa per il particolare e per i dettagli della vegetazione, descritti nel modo minuzioso e quasi ossessivo secondo la tradizione pittorica dei Paesi Bassi. Qui è molto diffuso il genere pittorico dei fiori e delle nature morte, che trasmette anche un messaggio morale racchiuso nell’idea della vanitas, in quanto ogni manifestazione di bellezza, fisica o naturalistica, nonostante il momentaneo splendore, è destinata comunque a finire per lo scorrere inesorabile del tempo.

La moda dei fiori è sostenuta dall’entusiasmo popolare per le nuove specie che arrivano dalle Americhe e dall’Oriente e ben si adatta alle esigenze controriformistiche della Chiesa cattolica, che ha la possibilità di utilizzare le composizioni di fiori sia come immagine sim-bolica dei valori cristiani, sia attribuendo a ogni singola varietà precisi significati allegorici e morali.

Anche l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo, amico intimo di Jan Brueghel dei Velluti, è un fervente estimatore e collezionista di quadri con soggetto floreale.

Vale la pena notare come l’interesse per i fiori sia stato legato anche al fenomeno della “tulipomania”, la prima speculazione borsistica della storia, in cui lo smanioso interesse per i bulbi di tulipano provoca enormi innalzamenti dei prezzi, seguiti, nel 1637, da un crollo improvviso della domanda che produce la prima crisi economica del mondo occi-dentale.

Nel periodo più tardo, dalla seconda metà del Seicento, si sviluppano le nature morte alla maniera fiamminga, dove si celebra il culto per ciò che è raro, pregiato ed esotico secondo i tre principali cardini delle collezioni nobiliari dell’epoca: naturalia, artificialia ed exotica, a seconda che gli oggetti collezionati fossero forme della natura, creazioni dell’abilità umana oppure pezzi provenienti da mondi esotici e lontani.

Sempre nella seconda metà del Seicento, con più di cento anni di attività, la bottega d’ar-te dei Brueghel è già leggendaria, ed è paragonabile alle moderne firme di moda, dove ogni quadro con la firma “brvghel” viene automaticamente considerato un dipinto prestigioso.

Molti altri esponenti della famiglia esercitano il mestiere di famiglia, riproducendo lo stile che ha reso famosa la pittura dei predecessori; Ambrosius Brueghel, fratello di Jan il Giovane, e suo figlio Jan Pieter, continuano a produrre allegorie e nature morte, che vengo-no subito associate dal pubblico allo “stile Brueghel”.

Un’abile politica matrimoniale fa entrare nel circolo familiare anche altri pittori, molto differenti tra loro e spesso autonomi rispetto alle peculiarità stilistiche dei Brueghel.

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Cosa si intende per “stile Brueghel”

“Lo studio dei ‘bruegheliani’ richiederebbe necessariamente un volume a sé e si rivelerebbe anche molto complesso”, così scrivevano nel 1997 Philippe e Françoise Roberts-Jones nella monografia dedicata a Pieter Brueghel il Vec-

chio, geniale fondatore dell’omonima dinastia. Dieci anni prima della coppia di studiosi francesi, la gallerista parigina Monique Parigi aveva tentato una prima ricostruzione della genealogia dei Brueghel esponendo presso la sua Galerie d’Art Saint Honoré sedici opere dei due figli di Pieter e di un nipote. In quella occasione il catalogo della mostra era stato redatto da Klaus Ertz, grande specialista dei Brueghel, di cui è possibile leggere un contri-buto anche nel presente catalogo. Nel 1997 sempre Klaus Ertz aveva pubblicato un volume estremamente esaustivo sui due fratelli Brueghel: Pieter Brueghel der Jüngere und Jan Brueghel der Ältere. Flämische Malerei um 1600. Tradition und Fortschritt, che accompagnava l’omonima mostra tenutasi a Essen, Vienna e Anversa.

L’idea di prendere in considerazione tutta la dinastia dei Brueghel in una mostra senza precedenti, che fosse la più ampia possibile dal punto di vista tematico e artistico, si deve in fin dei conti a Joseph Guttmann. Di casa a New York come ad Anversa, esperto conoscitore dell’arte olandese, amico di studiosi e collezionisti dei grandi maestri, fornito della giusta dose di idealismo, Guttmann ha speso tutte le energie perché la sua intuizione si trasfor-masse in un progetto e questo a sua volta divenisse una realtà concreta. È stato lui lo spirito guida, l’anima di questa esposizione inaugurata a Como nel 2012 che ha poi toccato Tel Aviv, Roma, Breslau, Parigi, Paderborn, Bologna e infine Torino. Solo in certa misura tuttavia si può parlare al riguardo di una mostra itinerante, in quanto in ognuno dei luoghi citati l’e-vento ha assunto connotati diversi, è mutato il contesto della presentazione delle opere, si è posto l’accento su aspetti differenti.

Ma passiamo ora a occuparci più concretamente della famiglia Brueghel. Questo ci porta ad Anversa, una città che fin dagli inizi del XVI secolo aveva assunto una posizione di rilievo in ambito europeo. Fiorente piazza finanziaria e mercantile, la metropoli era anche un vivace centro di scambi culturali e artistici. Qui troviamo la prima attestazione documentaria relativa a Pieter Brueghel il Vecchio: nel 1551 l’artista figura iscritto come libero pittore nel registro della gilda di San Luca, la corporazione dei pittori appunto, alla quale per oltre un secolo apparterranno anche i suoi discendenti. Pieter il Vecchio fu l’iniziatore di quello “stile Brueghel” che le tre generazioni successive faranno proprio, personalizzandolo, trasformandolo e rendendolo popolare attraverso la reiterazione di particolari soluzioni iconografiche, al punto da fare del nome Brueghel quasi un “mar-chio di fabbrica”. A questa dinastia apparterranno non solo figli, nipoti e pronipoti del vecchio Pieter, ma anche i generi Jan van Kessel il Vecchio e David Teniers il Giovane. Molti celebri artisti di Anversa ebbero stretti rapporti, non di rado di collaborazione, con

Andrea Wandschneider

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i Brueghel, tra questi Joos de Momper, Peter Paul Rubens, Lucas van Valckenborch, per citarne solo alcuni.

Il repertorio tematico della nostra mostra è decisamente ampio: dai Sette peccati capitali di Hieronymus Bosch, il grande ispiratore di Pieter Brueghel il Vecchio, ai paesaggi fluviali e alle scene di genere, passando attraverso immagini allegoriche e simboliche per arrivare ai soggetti sacri e mitologici fino alle nature morte con fiori e frutti e ai raffinati disegni di borghi, città e porti. Colpisce l’assenza di ritratti, un genere destinato a conoscere una grande fioritura nella pittura olandese ‒ o più precisamente dell’Olanda settentrionale ‒ del Seicento, ma assai poco rappresentato nell’arte fiamminga coeva, come attesta anche la produzione della famiglia Brueghel e della sua cerchia. Grande assente anche la pittura ar-chitettonica, come le vedute urbane e gli interni delle chiese così magistralmente raffigurati dai maestri olandesi De Lorme, Van Steenwijk, Neefs.

A compensare questa mancanza provvede tuttavia un immaginario figurativo dal caratte-re peculiare e inconfondibile. In pochi centimetri quadrati si assiste a un’esplosione di vita, al vivace affaccendarsi nei villaggi, nei campi, nelle locande, al porto e sulle rive del fiume: sono le attività secolari dell’homo sapiens quelle che si svolgono dinanzi allo spettatore il cui sguardo corre libero su scenari paesaggistici estremamente suggestivi. Dal punto di vista artistico il cosiddetto “stile Brueghel” si lega a due innovazioni fondamentali, riconducibili a Pieter il Vecchio: la considerazione della vita contadina come tema iconografico indipenden-te; la scoperta del paesaggio come unità spaziale. Due aspetti che naturalmente s’intrecciano nella produzione artistica dei bruegheliani.

Già Karel van Mander nel suo celebre Schilder-Boeck (Libro della pittura), pubblicato ad Haarlem nel 1604, riferiva a proposito di Pieter il Vecchio: “Aveva lavorato molto sulle orme di Hieronymus Bosch e dipinse anche numerosi quadri spettrali e scene umoristiche tanto da meritarsi l’appellativo di ‘Pier den Drol’ [Pietro l’ironico]. Lo divertiva osser-vare come i contadini mangiano, bevono, ballano, saltano, fanno festa, insomma vivono i loro momenti di gioia che l’artista attraverso il colore riusciva a rendere con grazia e ironia. Sapeva anche caratterizzare magistralmente […] la natura contadina”. Il passo citato sottolinea in forma quasi programmatica i tratti peculiari dell’arte bruegheliana. Sarebbe certamente erroneo tuttavia vedere in Brueghel una sorta di pittore naïf. La vera rivo-luzione rappresentata dai suoi dipinti del mondo contadino, realizzati a partire dal 1560 circa, risiede non solo nella scelta del soggetto, ma anche e soprattutto nel fatto che per la prima volta in essi l’uomo viene visto in una maniera del tutto particolare, vale a dire nella sua esistenza storica, intendendo per storia non la rappresentazione di circostanze esterne come l’ambiente, la realtà sociale, spirituale, morale di un’epoca, ma la storia come qualità dell’essere. Questo significa ancora che l’uomo non rappresenta più un astratto tipo ideale, e perciò atemporale, come accadeva nell’arte precedente, ma viene concepito storicamente, è una presenza viva che necessariamente presuppone un passato e un futuro. Per la prima volta l’uomo acquista in Brueghel una pienezza dell’essere di cui la dimensione temporale è parte integrante.

Questo aspetto emerge in modo particolarmente evidente in Danza nuziale all’aperto, un soggetto con cui Pieter Brueghel il Giovane, seguendo le orme del padre, si sarebbe misura-to almeno una trentina di volte nel corso della sua carriera artistica. In questa occasione ne abbiamo esposto uno splendido esempio proveniente da una collezione privata americana. Nel dipinto si balla, si beve, si scherza, si suona: ogni figura, ogni scena viene resa con sen-sibilità estrema, ma il tutto risulta nel contempo collegato insieme da una concatenazione temporale che fa da filo conduttore dell’intera rappresentazione. Partendo da sinistra, dal

terreno delimitato da una siepe sullo sfondo, il corteo muove in avanti, si arresta momen-taneamente nella figura di un osservatore attento, prosegue ondeggiando, arriva al centro presso un capannello di uomini riuniti intorno al tavolo della sposa, per dissolversi infine a destra del dipinto. Una figura scorre nell’altra in modo che il nostro sguardo possa seguire questa coreografia per tutta l’ampiezza del quadro.

Il principio figurativo è lo stesso della Danza nuziale di Marten van Cleve, un contem-poraneo di Pieter Brueghel il Vecchio e da questi profondamente influenzato. Anche qui lo sguardo segue uno svolgimento temporale preordinato che interessa ogni coppia danzante, da sinistra in primo piano verso destra, fin sullo sfondo. Ciascun elemento contiene in nuce quanto precede e quanto segue, mentre le pennellate gialle delle vesti creano suggestivi accenti ritmici. All’estrema sinistra sono visibili un suonatore di cornamusa immobile e un gruppetto di bimbi che richiama alla mente l’invito di Cristo “Lasciate che i bambini venga-no a me”. Associato visivamente a questa scena un cane, simbolo di fedeltà. All’estrema de-stra compaiono invece un maiale e un ubriaco in procinto di vomitare, a ricordarci il ruolo che la riflessione moralistica riveste in questa pittura.

Abbiamo la grande fortuna di poter apprezzare altre due opere di Pieter Brueghel il Giovane, Ritorno dalla fiera della Fürstenberg-Stiftung e la Sposa di Pentecoste dell’Anhaltische Gemäldegalerie di Dessau, dove l’artista si misura con un tema, quello della festa paesana, molto apprezzato all’epoca e spesso affrontato nella pittura fiamminga, in particolare pro-prio dai Brueghel. Lo stesso si può dire per i fanciulli che giocano, come attesta l’esemplare di Dessau. In quest’ultimo dipinto si coglie chiaramente la scelta di un principio compositi-vo più datato: il villaggio, formato dalla giustapposizione di singoli edifici, fa da sfondo al pal-coscenico sul quale gli uomini agiscono, e questo a scapito del realismo della resa. Eppure è presente anche qui una concatenazione giocosa di movimenti, una dinamica immanente che la pittura della generazione precedente, quella del Rinascimento per intenderci, ignorava persino nelle scene di grande movimento. Basti citare al riguardo le celebri Coppie di contadi-ni che ballano di Dürer dove l’accento non è posto sullo svolgimento temporale dell’azione, ma l’artista mira piuttosto a rappresentare un paradigma ideale.

Indubbiamente ci troviamo anche di fronte a opere che non sono di così immediata com-prensione. È il caso soprattutto dei dipinti allegorici che racchiudono sentenze e allusioni moraleggianti. Si pensi allo scenario del Martedì grasso di Hieronymus Bosch, così ricco di complessi simboli. Decisamente esplicito invece il linguaggio figurativo degli Adulatori come anche quello della Battaglia per il denaro, una splendida incisione a bulino di Pieter Brueghel il Vecchio. Qui assistiamo a una lotta senza esclusione di colpi tra salvadanai, barili e casseforti che nascondono e proteggono dietro le loro “armature” il prezioso denaro dai quali, una volta forzati, le monete spillano fuori come il sangue da una ferita.

Un’altra grande innovazione artistica legata alla figura di Brueghel il Vecchio riguarda la pittura di paesaggio. La rappresentazione della natura è una costante di tutta la sua produzio-ne e occupa un posto di rilievo anche in quella dei suoi figli, soprattutto Jan il Vecchio, come attesta chiaramente la nostra mostra. Già Karel van Mander rilevava nel suo Schilder-Boeck come Brueghel, durante il viaggio compiuto nelle Alpi tra il 1552 e il 1556, “avesse masti-cato e digerito ogni singolo monte e sasso per poi, una volta tornato a casa, rigettarlo sulla tela, tale era la sua ricerca di un contatto con la natura sia sul piano concreto che artistico”. Nulla di più vero. Grazie agli schizzi eseguiti da Brueghel del suo viaggio in Italia e giunti fino a noi, possiamo ricostruire il soggiorno con relativa esattezza. In questi dipinti tuttavia Brueghel non sembra interessato a una riproduzione fedele della realtà. Si coglie certamente una profonda venerazione per la natura, ma nessuna intenzione di rendere con esattezza il

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paesaggio, né è il caso di parlare di pittoresco. A catturare la nostra attenzione di fronte a questi dipinti di Brueghel e dei suoi discendenti è l’immane presenza dello spazio, l’ubiquità della terra, dell’acqua, dei monti, del cielo. Con Pieter il Vecchio la pittura di paesaggio fiamminga raggiunge un’intensità di cui già si avvertivano i primi sentori nelle opere della generazione precedente (per esempio in Joachim Patinir o Jan van Amstel), ma che ora assume una connotazione diversa e questo grazie a un nuovo senso della sintesi. Che cosa significa tutto ciò?

Una risposta la offre lo splendido dipinto, appartenente alla collezione del barone Luc Bertrand, Paesaggio con la parabola del seminatore, attribuito a Pieter Brueghel il Vecchio e al suo collega Jacob Grimmer. Da un punto di osservazione sopraelevato lo sguardo corre su un paesaggio fluviale, abbracciando in un colpo d’occhio, grazie a una prospettiva aerea, il globo terrestre nella sua interezza. Siamo di fronte a quello che nelle diverse lingue si definisce Weltlandschaft, world landscape, paysage cosmique ovvero un paesaggio universale. Ma attraverso quali espedienti l’artista ottiene questo effetto di grande suggestione? Innan-zitutto il corso del fiume genera una profondità spaziale tale per cui il paesaggio sembra perdersi all’infinito. A seguire, una scelta cromatica che varia nel passaggio dal primo piano allo sfondo: marrone per ciò che è più vicino allo spettatore, verde per ciò che si trova a una distanza intermedia e un tenue grigio-blu per gli elementi in lontananza. A questa partizione dello spazio pittorico contribuiscono anche gli elementi boschivi e i rilievi che fungono da punti di riferimento per orientarsi. Si afferma di fatto una nuova percezione. Tradizionalmente nella pittura di paesaggio, che come genere muoveva allora i primi pas-si, il dipinto era la risultante dell’addizione di singoli elementi: alberi, montagne, fiumi, case. Lo sguardo saltava di motivo in motivo, senza arrivare a una vera visione d’insieme. Da questo mosaico, da questa sorta di puzzle del mondo nasce ora un’immagine unitaria della natura. Ma c’è ancora qualcosa di straordinariamente nuovo: la coesistenza dei vari elementi nello spazio appare l’esito dell’interazione di forze. La terra è come una massa imponente che irrompe sulla superficie pittorica; il fiume con l’impeto delle sue acque di-vide le due sponde, mentre in alto e sullo sfondo l’aria si espande all’infinito, al punto che è possibile avvertire il respiro cosmico anche nei più minuti dettagli. Questa nuova perce-zione della totalità dell’ambiente paesaggistico, questa sintesi straordinaria di onnipresenza e assenza di limiti fa sì che uno scenario esplicitamente legato alla realtà e alla quotidianità (contadini che tornano dal mercato, uomini che vanno a caccia, pescatori lungo le sponde dei fiumi) possa erompere in modo visivamente plausibile in un mondo puramente imma-ginario. In altri termini realtà e fantasia devono intrecciarsi figurativamente perché si possa conseguire una visione della totalità del cosmo. Un esempio particolarmente suggestivo in tal senso lo offre il dipinto Città costiera con ponte ad arco, frutto della collaborazione, allora piuttosto frequente, tra Jan Brueghel il Giovane e Lucas van Valckenborch, uno specialista nella realizzazione di “paesaggi universali”. L’elegante ponte ad arco è ritratto in modo così dettagliato e realistico con i contadini, gli animali e i passanti, che l’osservatore arriva a credere di potersi mescolare alla folla. Ma continuando a lavorare con la fantasia, il presun-to spettatore potrebbe pensare di nuotare nelle acque di quel mare o di solcarlo su una di quelle barche a vela o di attraversare il ponte per raggiungere quella parte della città che si estende sull’altra riva, o di scalare le montagne visibili in lontananza? La risposta è no, perché il tutto, immerso nei toni sublimi di un luminoso blu, ci sfugge. Non a caso il punto di arrivo del ponte resta avvolto nell’indeterminatezza. Dalla realtà comprensibile e acces-sibile non parte alcun sentiero che conduca al tutto cosmico, destinato a rimanere oscuro e intangibile tranne che nella dimensione fantastica.

Questa peculiare interpretazione del paesaggio universale continuerà a caratterizzare la pittura fiamminga ancora fino al XVII secolo. Solo la produzione tarda di Jan Brueghel il Vec-chio e di suo figlio Jan il Giovane segna un affrancamento da questa visione. Saranno allora gli olandesi, tra gli altri, a sviluppare una nuova tipologia di paesaggio fatto di pianure omo-genee che si perdono in lontananza all’orizzonte. E tutto questo proprio in un’epoca in cui molti altri generi pittorici conoscevano la loro massima fioritura, si pensi alle marine, alle vedute, alla pittura d’interni, alla ritrattistica, alla natura morta e alla pittura di genere. Se si considera che nella pittura rinascimentale e ancora nel cosiddetto manierismo di Anversa a dominare sono i soggetti sacri, o al massimo mitologici, questa svolta verso un’iconografia

Particolare cat. VII.5e

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“profana” rappresenta un fenomeno sorprendente. Facile sarebbe cogliervi l’espressione di una visione laica del mondo, di una sacralizzazione dell’arte. Ma non dimentichiamo che ‒ malgrado la Riforma e il calvinismo nell’Olanda del Nord ‒ siamo in pieno barocco, un’età cui fu estranea una visione della terra e del cielo come entità distinte; a caratterizzare quest’epoca fu piuttosto una concezione del mondo come realtà unitaria in cui il divino per-vade l’intero cosmo. È proprio a questa fede nella sostanziale unità di tutti gli esseri viventi che il barocco deve il suo volto peculiare. In altri termini, il mare in tempesta e il mulino sulle rive del fiume, la taverna con i contadini ubriachi e il volto di una donna borghese, la tavola imbandita con il pane e il pesce, il vaso con i tulipani colorati diventano degni di essere rappresentati nel momento in cui, al di là di ogni dubbio o remora morale, rafforzano l’idea di un tutto, di una totalità della creazione, nella quale ogni essere ha il suo posto necessario, logico e di conseguenza predestinato. In tal modo la pittura si appropria del mondo in ogni sua manifestazione.

Ai fini di questo ampliamento straordinario del repertorio iconografico, i Brueghel, so-prattutto Pieter il Vecchio, svolsero un lavoro preparatorio determinante, in particolare nel campo della pittura ispirata al mondo contadino. Tra la terza e la quarta generazione si regi-strano ancora due contributi straordinari: l’uno ‒ come testimonia chiaramente la nostra mostra ‒ nel campo dell’allegoria (allegorie della pace, della guerra, dei quattro elementi, dell’amore, dei cinque peccati…), nel quale gli artisti olandesi avrebbero raggiunto vertici ineguagliati; l’altro nel genere della natura morta con fiori. Stillleben, still life, nature morte, la natura morta non prevede mai per i fiamminghi una tavola imbandita, scorci di cucine, trofei di caccia, composizioni di libri, scheletri e strumenti musicali come è tipico dei colleghi del Nord, ma fa dei bouquet di fiori dall’esuberante varietà il suo soggetto privilegiato.

Fu in particolare Jan Brueghel il Vecchio a dare lustro a questo genere di natura morta, grazie ai suoi splendidi mazzi di fiori destinati a una clientela internazionale e di corte. An-cora oggi i dipinti floreali rappresentano le nature morte più apprezzate e costose. In passato fungevano anche da doni ufficiali: nel 1606 gli Stati generali commissionarono al pittore di corte Jacques de Gheyn, all’Aia, una natura morta con fiori del valore di 1000 fiorini come dono ufficiale per Maria de’ Medici, consorte del re di Francia Enrico IV. La corrispondenza tra Jan Brueghel il Vecchio e i suoi committenti milanesi, l’arcivescovo Federico Borromeo e il mercante d’arte Ercole Bianchi, contiene informazioni preziose sull’apprezzamento ri-servato alle nature morte con fiori e sul modo di lavorare del pittore. Nella scelta dei fiori si puntava sulla bellezza e la rarità, per la resa pittorica invece sulla maggiore cura possibile dei dettagli. Era d’obbligo che i fiori venissero ritratti dal vivo, per questo il pittore doveva recarsi nei giardini durante il periodo della fioritura e non di rado anche intraprendere dei viaggi. Dipingere un bouquet di fiori che sbocciavano in periodi diversi dell’anno faceva sì che il lavoro si protraesse per vari mesi, per questo di solito l’artista eseguiva più quadri contemporaneamente.

Vediamo ora quali sono le caratteristiche fondamentali delle meravigliose nature morte qui esposte. Evitando il più possibile le sovrapposizioni, il pittore fa in modo che ciascun fiore del bouquet sia ben visibile, che emerga con la sua fisionomia chiaramente definita dallo sfondo scuro del dipinto nell’ambito del quale occupa una posizione studiata. Forma e colore contribuiscono a far risaltare l’individualità di ogni singolo fiore cosicché nessuno spicca sugli altri. L’organizzazione della composizione rispecchia uno schema concentrico e simmetrico: più fitto e culminante verso l’alto al centro, il mazzo si apre progressivamente a ventaglio verso i lati dove compare un sottile gioco di ombre. L’attenzione dello spettatore segue obbligatoriamente lo schema secondo cui è stata costruita la composizione: indugia

lungo il piano orizzontale del tavolo sul quale poggia il vaso, si concentra al massimo lungo la verticale, scema leggermente man mano che si sposta verso l’esterno. Vi è qualcosa di araldico nello schema di costruzione di questa natura morta. L’impressione di solennità e di slancio si addice perfettamente alla simmetria e all’equilibrio latenti nella composizione: nel movimento e nella metamorfosi incessante della natura si manifestano insieme l’immobilità e l’eternità di quell’ordine dell’essere che tutto pervade. Ogni fiore con la sua specifica posizione nel dipinto partecipa di questa coesistenza tra uno schema vitale e dinamico e un equilibrio statico. La natura è qui espressione dell’Eterno, dell’Atemporale, e pertanto evocazione dell’ordine divino, del disegno della creazione.

Solo l’arte, cari signori, può raggiungere questi risultati o per dirla con Adorno: “Quello che la natura vorrebbe invano, lo compiono le opere d’arte: esse aprono gli occhi”.

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La famiglia Brueghel

La famiglia Brueghel è una dinastia di artisti molto influenti attivi nei Paesi Bassi meri-dionali tra il XVI e il XVII secolo. Il suo rappresentante più illustre è Pieter Bruegel il Vecchio, detto anche Pieter Brueghel I (1520/25-1569). La sua opera s’interroga

sulla condizione dell’uomo e del mondo in cui vive; le raffigurazioni di paesaggi animati da popolani e le scene di vita contadina si contraddistinguono per una critica sarcastica dei vizi umani. L’artista illustra proverbi e detti popolari in modo realistico, provocatorio e taglien-te, dando vita a un’opera ricca di contenuti morali ma non sempre di facile interpretazione. I suoi dipinti erano per la maggior parte custoditi in collezioni private e pertanto inaccessibili al pubblico, per questo la sua fama è ampiamente riconducibile al figlio Pieter Brueghel il Giovane, il quale assicurò la diffusione delle opere paterne eseguendo copie delle stesse.

Pieter Brueghel il Vecchio si sposò in seconde nozze con Mayken Coecke (1545?-1578) che gli diede tre figli: Pieter Brueghel il Giovane, nato nel 1564 a Bruxelles; Jan Brueghel il Vecchio (detto anche Jan Brueghel I), nato nel 1568 a Bruxelles, noto pittore di soggetti floreali; e la cadetta Mary. In seguito alla perdita della moglie, il pittore si trasferì con la fa-miglia ad Anversa, dove i figli furono cresciuti dalla nonna materna, la pittrice miniaturista Mayken Verhulst Bessemers, che probabilmente insegnò ai nipoti a dipingere.

I documenti d’archivio a disposizione su Pieter Brueghel il Giovane, detto anche Pieter Brueghel II (1564-1637/38), sono molto scarsi. Nel 1584/85 divenne membro della gilda di San Luca come maestro autonomo. Non è certo se studiò con il pittore paesaggista Gillis van Coninxloo, che lasciò Anversa nel 1585 per trasferirsi in Germania. Il 5 novembre 1588 Pieter II sposò Elisabeth Goddelet e da tale unione nacquero sette figli; il primogenito, an-ch’egli di nome Pieter, divenne pittore ed entrò a far parte della gilda di San Luca nel 1608. Pieter II e sua moglie Elisabeth morirono entrambi nell’inverno del 1637/38. Verso il 1600 i dipinti in “stile Brueghel” erano molto in voga e la maggior parte di essi, nonché i migliori, furono eseguiti da Pieter II. Il primo dipinto firmato e datato dall’artista, e pertanto attri-buitogli con certezza, è La strage degli innocenti del 1593, che riprende i temi raffigurati dal padre. Non è chiaro se Pieter II facesse riferimento diretto ai dipinti e ai disegni del padre – la maggior parte delle opere paterne era infatti, come si è detto, inaccessibile in quanto appartenente a collezioni private – o se lavorasse ispirandosi alle copie eseguite da Pieter Balten e Marten van Cleve.

Pieter II si distinse per la sua vasta produzione, ma non eguagliò mai il successo economi-co del fratello Jan. Molto dotato dal punto di vista tecnico, fu particolarmente efficace anche nella semplificazione, forse eccessiva e quasi caricaturale, della pittura di genere. Poteva essere austero, grave, solenne e al tempo stesso sarcastico. Dipinse figure e paesaggi molto particolari nello stile del padre che tuttavia innovò tramite l’elaborazione di un proprio stile

Klaus Ertz

Particolare cat. I.13

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personale; continuò fino al 1616 nella tradizione paterna attraverso la copia delle sue opere, ma nel frattempo ampliò la produzione introducendo nuovi temi. Proverbi olandesi del 1607 (Stedelijk Museum Wuyts-Van Campen en Baron Caroly, Lier) è la sua prima opera ispirata al famoso dipinto paterno oggi custodito negli Staatliche Museen di Berlino.

Nel 1616, ispirandosi a una stampa di Beham oggi perduta (nel 1938 si trovava ancora alla Gemäldegalerie di Augusta), dipinse la sua prima versione di Festa del villaggio, firmata e datata “p. brveghel 1616”. Questo divenne il tema dominante del suo lavoro e lo accompa-gnò fino alla morte. Le sue altre opere dipinte nel 1616 sono ugualmente datate e firmate allo stesso modo oppure con una differenza: le lettere “ve” sono invertite in “ev” e si ha quin-di “p. brevghel 1616”. Non si conosce il motivo di questo cambiamento (forse potrebbe indicare la volontà di distaccarsi dalla produzione del padre, il quale si firmò sempre “brve-gel”). Le opere più famose di Pieter II sono La festa di San Giorgio, Ballo intorno all’albero della cuccagna e Festa del villaggio con spettacolo teatrale; parallelamente, continuò a raffigurare i temi cari al padre, come in uno dei suoi ultimi dipinti: Predicazione di san Giovanni Battista del 1636 (collezione privata, Germania).

Se è possibile definire il padre un moralista visionario, il figlio è sicuramente il cronista del suo tempo, critico e indagatore ma non intransigente; è il narratore dei minimi dettagli e dipinge le scene nel modo in cui realmente si presentano. Non eccelle in talento e non ha la preparazione tecnica del fratello Jan, la sua raffigurazione dello spazio e della prospettiva non è del tutto convincente, e non è chiaro se ciò sia intenzionale oppure no. È molto probabile, ma non documentato, che i fratelli Pieter II e Jan I possedessero parte dell’opera originale del padre Pieter I. Quel che invece è certo è che il dipinto Cristo e l’adultera, oggi conservato alla Courtauld Gallery di Londra, era di proprietà di Jan I alla data della sua morte nel 1625.

Jan Brueghel il Vecchio, detto anche Jan Brueghel I (1568-1625), nacque a Bruxelles ma si formò artisticamente ad Anversa sotto la guida della nonna, del padre e presumibilmente di Pieter Goetkindt. Verso il 1589 intraprese un viaggio in Italia; del suo itinerario si sa poco, e l’apprendistato presso Gillis van Coninxloo a Frankenthal è controverso, poiché già nel 1590 il suo nome compare su una fattura a Napoli. Tra il 1592 e il 1595 soggiornò a Roma, dove incontrò due persone determinanti per la sua futura carriera: il pittore fiammingo Paul Bril, che vi si era stabilito nel 1582, e il cardinale milanese Federico Borromeo. Bril e Jan I erano amici e visitarono insieme la campagna romana, in particolare la cascata dell’Aniene a Tivoli. La frequentazione è documentata da una specifica raffigurazione pittorica che en-trambi dipinsero nel 1595 dallo stesso punto di vista; Bril la intitolò Paesaggio montuoso con il tempio di Tivoli e Jan I Riposo durante la fuga in Egitto e il tempio di Tivoli (collezione privata). A quell’epoca i due artisti si equivalevano sul piano tecnico e pare subissero un’influenza reciproca. A Roma, Jan I incontrò anche l’artista tedesco Hans Rottenhammer, pittore dedi-to alla rappresentazione di figure. La prima testimonianza della loro lunga collaborazione è Riposo durante la fuga in Egitto del 1595, in cui la figura inserita nella composizione fu eseguita da Rottenhammer. La collaborazione continuò anche dopo il rientro di Jan I ad Anversa tramite la spedizione delle opere. Verosimilmente, Jan I, durante il suo soggiorno romano, si mantenne vendendo opere al cardinale Ascanio Colonna. Il 24 aprile 1595 Federico Bor-romeo fu nominato cardinale di Milano e con molta probabilità Jan I si trasferì a Milano pro-prio nello stesso anno. Borromeo fu un influente collezionista delle sue opere e mantenne una costante corrispondenza con l’artista dopo il suo ritorno ad Anversa.

L’importante risultato conseguito da Jan I nella pittura del Cinquecento fu determinato dal graduale passaggio da un secolo all’altro, dal vecchio al nuovo. Nei paesaggi di piccole

dimensioni come Paesaggio boscoso con Abramo e Isacco del 1599 (National Museum of Western Art, Tokyo) abbandonò la composizione tradizionale basata su piani dell’immagine ben defini-ti e conferì maggior rilievo ai primi piani e ai piani intermedi, ottenendo l’effetto visivo di un unico piano. La profondità degli elementi conduce l’osservatore dentro lo spazio pittorico. Le sue visioni dell’inferno, come in Enea e la Sibilla agli inferi del 1600 (Szépmüvészeti Múzeum, Budapest), testimoniano l’influenza della tradizione pittorica fiamminga, tedesca e italiana. Con copie di opere di Pieter I, fra le quali Adorazione, Predicazione di san Giovanni Battista, Cristo e l’adultera, Crocifissione e Danza nuziale, preservò, insieme al fratello Pieter II, l’eredità del padre. La sua opera, come quella del fratello, è priva della nitidezza e del messaggio morale presenti nell’opera del padre; la meticolosa accuratezza e la perfezione tecnica che lo con-traddistinguono gli consentono di creare opere ricche di minuti dettagli come La battaglia di Isso (Musée du Louvre, Parigi), ispirata all’omonimo dipinto di Albrecht Altdorfer.

Nel 1596 Jan I rientrò ad Anversa e nel 1598 dipinse La predicazione di Cristo al porto (Alte Pinakothek, Monaco), il punto più alto del “paesaggio universale”. In quest’opera il tema biblico si rivela un semplice pretesto per esprimere il gusto per il dettaglio dell’artista. Un’imponente raffigurazione del primo piano crea distanza tra l’osservatore e lo spazio pittorico e allo stesso tempo rafforza la composizione. Mentre alcuni pittori continuarono a proporre questo tipo di paesaggio fino al tardo Seicento, Jan I si orientò verso il paesaggio “realistico” e altri generi, e in particolare si dedicò all’esecuzione di nature morte con fiori e raffigurazioni allegoriche. Già nel 1598, Paesaggio con il giovane Tobia (Sammlungen des Fürsten von und zu Liechtenstein, Vienna) evidenzia come il pittore, partendo da un punto della composizione, apra lo spazio pittorico in diverse direzioni. In altri dipinti raffiguranti paesaggi molto più dettagliati, l’osservatore è letteralmente trascinato nello spazio pittorico senza barriere in primo piano. Jan I sviluppò quest’arte del paesaggio, che vede il primato del punto di fuga, in opere come Strada di villaggio con canale del 1609 (collezione privata, Boston) dove lo sguardo dell’osservatore è condotto lungo il canale verso il punto di fuga all’orizzonte. Nel Seicento Jan I ripensò il modo di dipingere il paesaggio, prediligendone lo sviluppo in orizzontale anziché verticale.

Nel 1606 dipinse per il cardinale Borromeo il famoso Mazzo di fiori conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, e più tardi, nel 1615, il Mazzo di fiori della corona impe-riale, la sua prima natura morta con fiori, commissionato a Bruxelles dall’arciduca Alberto (Kunsthistorisches Museum, Vienna). Con questi dipinti l’artista intraprende un nuovo ge-nere pittorico che lo porterà a essere soprannominato “Brueghel dei fiori”. Nel 1618 il figlio Jan II iniziò a lavorare nel suo studio e da allora in poi la sua mano è riconoscibile in alcune opere paterne come Madonna in una ghirlanda di fiori (St. Adriaansmuseum, Geraardsbergen) del 1620 circa.

Nello stesso periodo Jan I iniziò a dedicarsi alle raffigurazioni allegoriche. La prima ope-ra in questo filone è Allegoria degli elementi del 1604 (Kunsthistorisches Museum, Vienna), seguita nel 1618 dal ciclo dell’Allegoria dei sensi commissionato in occasione di una visita ufficiale ad Anversa dell’arciduca Alberto e dell’infanta Isabella e realizzato da un gruppo di dodici pittori tra i più importanti dell’epoca guidato da Jan I; le opere andarono distrutte a causa di un incendio, ma le copie eseguite da Jan Brueghel il Giovane, Frans Francken il Giovane e altri pittori sono ora conservate al Prado. L’interesse dell’epoca era focalizzato sulla raffigurazione delle “allegorie dei sensi”. I sensi venivano rappresentati attraverso scene di genere, spesso intellettualmente profonde e difficili da interpretare.

Jan I eseguì diverse opere in collaborazione con altri pittori come Hendrick van Balen, Hendrick de Clerck, o insieme all’amico Peter Paul Rubens, i quali aggiungevano le figure

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alle sue composizioni di paesaggi. Per le opere di carattere mitologico, in modo particolare per la raffigurazione di nudi, si affidò soprattutto alla mano di Hendrick van Balen, come in Diana e le sue ninfe udite dai satiri del 1620 circa (Staatliche Kunstsammlungen, Dresda). La sua collaborazione con Rubens fu di lunga durata, iniziò nel 1608 con il rientro di Rubens dall’Italia e fu molto produttiva tra il 1616 e il 1618, testimoniata da opere come Ritratto del duca Alberto e Isabella (Museo del Prado, Madrid), Ghirlanda di Monaco (Alte Pinakothek, Monaco) e Ghirlanda del Louvre (Musée du Louvre, Parigi).

Jan I morì di colera il 13 gennaio 1625 e nello stesso anno morirono anche i suoi figli Pie-ter, Elisabeth e Mary. Rubens divenne l’esecutore testamentario dell’artista e iniziò una col-laborazione con Jan II, figlio dell’amico scomparso. Questi aveva infatti avuto altri due figli, nati dal suo primo matrimonio con Isabella de Jode (?-1603): Jan (il Giovane) e Paschasia.

Il primogenito, Jan Brueghel il Giovane, detto anche Jan Brueghel II (1601-1678), nato ad Anversa, iniziò la sua formazione nello studio del padre all’età di dieci anni; trasferitosi successivamente in Italia, rientrò nelle Fiandre quando suo padre morì all’inizio del 1625. Divenne così il capo di una grande famiglia, rilevò lo studio paterno, entrò a far parte della gilda di San Luca e ne divenne il decano nel 1630/31. Si unì in matrimonio con Maria Jans-sens (1620-1668 circa) dalla quale ebbe undici figli.

La popolarità dello “stile Brueghel” raggiunse l’apice dopo la morte del padre e Jan II conseguì un grande successo attraverso la vendita dei dipinti ereditati, completando quelli rimasti incompiuti e producendo nuove creazioni secondo il suo stile personale. Tra tutte le copie, quelle da lui realizzate possono essere considerate le migliori, soprattutto quelle raf-figuranti estesi paesaggi, ma pur imitando l’intensa gamma coloristica del padre non riuscì mai a eguagliarne la maestria. Mentre il lavoro di Jan I rivela una minuziosa, definita, lineare e inestricabile rete di singoli motivi, legati tra loro indissolubilmente come a creare un tes-suto organico, l’insieme creato da Jan II è più frammentato, con la presenza di aree meno omogenee nel tessuto pittorico, soprattutto nei suoi ultimi lavori; i singoli motivi sono se-parati tra loro, non si sovrappongono e creano una sorta di mosaico nel dipinto. È come se l’osservatore guardasse la scena dall’alto. Stilisticamente, le opere tarde di Jan II tendono a un’evidente semplificazione, a una sorta di appiattimento, di impoverimento. Molti suoi dipinti non sono datati e sono firmati in modi diversi; solo in epoca tarda il suo lavoro ripor-ta una firma omogenea. Per questo motivo, gli sono state attribuite molte opere paterne di modesta qualità, con conseguente mancanza di chiarezza riguardo la sua produzione.

Jan II lavorò a stretto contatto con il pittore di figure Hendrick van Balen, fino alla morte di quest’ultimo avvenuta nel 1632, e con Peter Paul Rubens (probabilmente nella seconda metà degli anni venti), entrambi amici di famiglia ed esecutori testamentari di Jan I. Col-laborò anche con Joos de Momper, spesso acquistando i suoi dipinti di paesaggi, ai quali aggiungeva figure per poi rivenderli.

Il lavoro più importante commissionato a Jan II fu il Ciclo di Adamo del 1630/31 per la corte reale francese; nel 1651 eseguì opere anche per la corte austriaca. Lavorò in modo autonomo a Parigi prima di rientrare ad Anversa nel 1657, dove morì nel 1678.

Jan II ebbe undici figli; dei sette maschi, cinque divennero pittori. Il primogenito, Jan Pieter Brueghel (1628-1680 circa), si dedicò al genere floreale. Fu

battezzato il 26 agosto 1628. Probabilmente fu allievo del padre e divenne maestro della gilda di San Luca nel 1645/46. Si trasferì a Liegi, dove collaborò con il pittore di genere sto-rico e di paesaggio Wautier Damery (1614-1678) e con Erasmus Quellinus. Fu coinvolto in

una controversia legale ad Anversa nel 1660-1662; nel 1664 si trasferì a Venezia. La maggior parte delle sue opere sono firmate “J.P. Brueghel” o “Jan Br.”, elemento che in passato creò un certo disorientamento. Il suo stile ha subito gli influssi sia di Jan I sia del pittore di nature morte Jan Davidsz. de Heem.

Il fratello Abraham Brueghel (1631-1697) fu un pittore di paesaggi e nature morte con fiori e frutta. Discepolo del padre Jan II, si trasferì in Italia nel 1649 e lavorò a Messina per il principe siciliano Don Antonio Ruffo, uno dei maggiori collezionisti d’arte del Seicento. Dopo il 1660 lasciò la Sicilia per Roma, sposò un’italiana nel 1666 ed entrò a far parte della Bentvueghels, una società di artisti olandesi e fiamminghi residenti a Roma, e in tale con-testo si dette il nome di “Ryngraaf ” (conte del Reno); nel 1670 divenne membro dell’Ac-

Particolare cat. VI.15

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stro Jan II (maggiore di sedici anni), capofamiglia in seguito alla morte del padre avvenuta nel 1625, e del pittore e amico di famiglia Hendrick van Balen. Principalmente attivo ad Anversa, diventò maestro della gilda di San Luca nel 1645 e ne divenne il decano dal 1653 al 1671. La sua opera, su cui non è stato ancora intrapreso uno studio approfondito, è simile a quella del fratellastro Jan II e del nipote Abraham Brueghel.

Anna Brueghel (morta nel 1656), sposò nel 1637 David Teniers il Giovane, detto David Teniers II (1610-1690). Il famoso figlio del pittore David Tenier il Vecchio e Dymphna de Wilde fu battezzato il 15 dicembre 1610 e nel 1626 fu allievo del padre. Nel 1632/33 divenne maestro della gilda di San Luca e nel 1645/46 ne fu il decano. Teniers collaborò spesso con Rubens, Jacques d’Arthois e Herman Saftleven. Nel 1647 l’arciduca Leopoldo Guglielmo, governatore dei Paesi Bassi spagnoli, commissionò a Teniers alcuni dipinti de-stinati alla sua residenza di Bruxelles. Quattro anni più tardi, nel 1651, lo nominò pittore di corte e conservatore della sua collezione; nel 1655 lo investì della carica di ciambellano. L’anno successivo (1656), l’arciduca lasciò Bruxelles per trasferirsi a Vienna e Teniers fu nominato pittore di corte del nuovo governatore dei Paesi Bassi spagnoli, Giovanni d’Au-stria, fratellastro di Filippo IV. Nel 1663 fondò l’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa, finanziata da Filippo IV.

Teniers fu un pittore prolifico, soprattutto conosciuto per la raffigurazione di scene all’a-ria aperta. Subì l’influenza dello zio Jan I, di Adriaen Brouwer, Cornelius Saftleven e Joos de Momper. La raffigurazione di utensili da cucina inseriti in primo piano nei dipinti di genere pongono l’accento sulla sua familiarità con la pittura olandese. Usò tonalità chiare con pre-valenza di grigi argentei. L’osservazione della natura si accentuò sempre più dopo il 1640. Quando, dopo il 1660, la qualità della sua opera perse vigore, acquisì più importanza la sua bottega che attrasse molti copisti.

cademia di San Luca. Nel 1671 si stabilì a Napoli dove rimase fino alla morte. Inizialmente la pittura di Abraham subì l’influenza dello stile paterno; in Italia si dedicò soprattutto alla raffigurazione di composizioni floreali alla maniera di Daniel Seghers, e collaborò con vari pittori dediti alla rappresentazione di figure. È conosciuto soprattutto per la sua opera tarda: grandi nature morte di frutta e fiori che eseguì negli ultimi trent’anni della sua vita, anni nei quali subì l’influenza di pittori napoletani come Paolo Porpora.

Il terzo figlio di Jan II, Philips Brueghel (1635-dopo il 1662), fu battezzato ad Anversa il 24 dicembre 1635. Divenne maestro della gilda di San Luca nel 1655. Si dedicò alla pittura di nature morte e all’incisione. Nel 1657 suo padre lo mandò a Parigi a lavorare insieme allo zio Jean Valdor il Giovane (1616-1670), incisore e mercante. Dopo tre anni il giovane rientrò ad Anversa dove rimase presumibilmente fino alla morte, ipotizzata nel 1662 poiché è l’ultima data in cui si hanno informazioni su di lui.

Ferdinand Brueghel (1637-1662?) fu battezzato il 3 luglio 1637. Ci sono pervenuti po-chissimi dati a suo riguardo. In un documento del 1662 appare registrato come “pittore”.

Jan Baptist Brueghel (1647-1712) fu battezzato il 26 dicembre 1647. Si dedicò alla pit-tura di nature morte con fiori e frutta. Da giovane si recò in Italia, dove è confermata la sua presenza a Roma nel 1672-1675; fu anch’egli membro della Bentvueghels e dell’Accademia di San Luca. Si autobattezzò “Meleagro”, eroe della mitologia greca. Probabilmente lavorò anche a Napoli. Le uniche opere conosciute che recano la sua firma mettono in risalto l’in-fluenza italiana (collezione privata, Belgio).

Jan Brueghel il Giovane ebbe una sorella, Paschasia, figlia di Jan Brueghel il Vecchio e Isabella de Jode. Paschasia sposò Hieronymus van Kessel (1578-dopo il 1636). Il loro unico figlio, Jan van Kessel I (1626-1679), fu battezzato il 5 o il 26 aprile 1626. I suoi temi favoriti furono i fiori e gli animali e predilesse i dipinti di piccole dimensioni. Nel 1634/35 iniziò a studiare con Simon de Vos (1603-1676), pittore di genere, conosciuto per i suoi dipinti di piccolo formato. Verso il 1644/45 divenne maestro della gilda di San Luca e nel 1646 gli fu richiesto di dipingere copie per lo zio Jan Brueghel il Giovane, il quale influenzò notevolmente la sua pittura. Jan van Kessel I era un eccellente pittore di fiori. Creò allegorie con ghirlande come Madonna col Bambino e sant’Ildefonso con ghirlanda di fiori (1646-1652), oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. Spesso le figure all’interno delle ghirlande di fiori erano dipinte da altri pittori. Nel 1647 sposò Maria van Apshoven, dalla quale ebbe tredici figli. Verso il 1652 lavorava in Spagna per Filippo IV.

Lo stile di Van Kessel I fu influenzato da Jan Fyt (1611-1661), pittore e incisore, dedito soprattutto alla rappresentazione di scene di animali, e dal pittore di nature morte Adriaen van Utrecht (1599-1652). Si specializzò in dipinti di piccole dimensioni con soggetti tratti dalla natura, soprattutto animali, insetti, uccelli e fiori, e allegorie. Raffigurò gli animali con rigore scientifico, come nel piccolo dipinto su rame Maggiolino, scarafaggio, onischi e altri inset-ti con un rametto di primula auricola (Ashmolean Museum, Oxford) databile presumibilmente verso il 1650. Prediligeva i colori brillanti, come il giallo vivace e il rosso; per dipingere gli uccelli usava toni argentei, alla maniera di Jan Fyt. Jan van Kessel I fu ampiamente copiato; molte opere attribuitegli furono dipinte dai membri della sua bottega.

Jan Brueghel il Vecchio e la sua seconda moglie Catharina van Marienberghe (?-1627) ebbe-ro quattro figli: Catharina, Anna, Ambrosius e Clara Eugenia.

Ambrosius Brueghel (1617-1675) si dedicò alla pittura di paesaggi e di nature morte con frutta e fiori. Fu battezzato l’11 agosto 1617. Con molta probabilità, fu allievo del fratella-

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Pieter Brueghel il Vecchio, “un secondo Bosch”

La prima documentazione scritta pervenutaci su Pieter Brueghel il Vecchio risale a Lodovico Guicciardini, scrittore e mercante fiorentino che visse ad Anversa, il quale, nella sua opera Descrittione di tutti i Paesi Bassi, del 1567, citò l’artista due anni pri-

ma della sua morte: “Pietro Brueghel di Breda grande imitatore della scienza, & fantasie di Girolamo Bosco, onde n’ha anche acquistato il sopranome di secondo Girolamo Bosco”1. Con questa frase Guicciardini suscitò il dubbio, non ancora risolto, in merito al luogo di nascita di Brueghel, ma soprattutto diede inizio a una tradizione storiografica ancora dibat-tuta ai giorni nostri. È convinzione ampiamente condivisa che l’opera di Brueghel sia una pittura composita, ricca di apporti intellettuali, iconografici e stilistici. In realtà, il numero di disegni e stampe riconducibili allo stile di Bosch possono essere considerati i seguenti: La tentazione di sant’Antonio (Ashmolean Museum, Oxford) e Il pesce grosso mangia il pesce piccolo (Albertina, Vienna), entrambi del 1556, pubblicati da Hieronymus Cock, rispettivamente nel 1556 e 1557; la serie dei Sette peccati capitali, disegni eseguiti tra il 1556 e il 1558 e pubblicati nel 1558; la stampa Patientia del 1557 (il cui disegno è andato perduto); il Giudizio universale del 1558 (Albertina, Vienna; pubblicato nello stesso anno); Fortitudo (Museum Boi-jmans-Van Beuningen, Rotterdam), datato 1560; La discesa di Cristo nel limbo, probabilmente del 1561 (Albertina, Vienna); La caduta del mago Ermogene del 1564 (Rijksmuseum, Amster-dam), stampata l’anno successivo, e la stampa San Giacomo e il mago Ermogene del 15652. È evidente l’influenza di Bosch nei tre dipinti, che probabilmente costituiscono una serie: La caduta degli angeli ribelli (Musées Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles), Greta la pazza (Mu-seum Mayer van den Bergh, Anversa) e, in misura minore, il Trionfo della morte (Museo del Prado, Madrid). Pur essendo ovviamente importante, questa selezione rappresenta solo una parte dell’attività artistica di Brueghel, pertanto è sconcertante rilevare che nella maggior parte delle fonti letterarie l’artista sia stato definito un imitatore di Bosch.

Nella seconda edizione delle Vite (1568), Giorgio Vasari citò insieme, confondendone i tratti, Bosch e Brueghel quali seguaci di Frans Mostaert3; anche in seguito continuò a scambiare l’uno per l’altro i due artisti, come dimostra l’inserimento di stampe tratte quasi esclusivamente da opere di Brueghel in un elenco di stampe presumibilmente riconduci-bili a Bosch: l’Alchimista, i Sette peccati capitali, il Giudizio universale, L’uomo comune, Il pesce grosso mangia il pesce piccolo, Cucina ricca e Cucina povera4. Dominicus Lampsonius, illustre umanista di Liegi, produsse una serie di monografie molto apprezzate e consultate su artisti fiamminghi: Pictorum aliquot celebrium Germaniae inferioris effigies (Ritratti di alcuni celebrati artisti dei Paesi Bassi, 1572). Di Brueghel scrisse: “Chi è questo nuovo Hieronymus Bosch che con grande maestria, con matita e pennello, è in grado di imitare le esuberanti visioni del maestro, talvolta quasi superandolo? Possa tu, Pieter, crescere nello spirito come nella tua arte, perché nel genere comico del disegno, tuo e del tuo vecchio maestro, sei tenuto in

Maximiliaan P.J. Martens

1 Guicciardini 1567, fol. 99D.2 Concordo con la non attribuzione dell’opera Dannati (Musée du Louvre, Parigi) avanzata da Dirk Bouts; si veda Sellink 2007, n. X12.3 Vasari 1927-1932, vol. 5, p. 70.4 Ibid.

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altissima considerazione ovunque e da tutti, in misura non inferiore a qualsiasi altro artista”5. Si è presunto che Lampsonius, vivendo a Liegi, conoscesse soltanto le stampe di Brueghel6, e che avesse unicamente sentito parlare dei suoi dipinti eseguiti ad Anversa e Bruxelles per collezionisti altolocati. Questa ipotesi denoterebbe quanto la valutazione di Lampsonius fos-se circoscritta poiché limitata al 20 per cento delle stampe preservate7.

Il famoso umanista e geografo Abraham Ortelius, amico personale di Brueghel, che pos-sedeva il dipinto a grisaglia Morte della Vergine (ora sotto la tutela del National Trust, Upton House, Banbury), fu il primo, nella sua opera Album Amicorum del 1573 circa (Pembroke College, Cambridge), a scrivere del pittore approcciandolo da un punto di vista nuovo, considerandolo il miglior pittore del suo tempo, degno di essere preso ad esempio da tut-ti gli altri artisti. Di lui ammirava l’“impeccabile e intelligente” imitazione della natura; e affermava la grandezza di Brueghel nel dipingere tutto ciò che non può essere dipinto. La natura enigmatica di quest’ultima frase spiega perché molti studiosi siano stati riluttanti a esprimersi in merito. È possibile che Ortelius facesse riferimento alla rappresentazione di emozioni e di interpretazioni moralizzanti8 o di altri concetti astratti che Brueghel scompo-neva in ogni forma immaginabile; basti pensare ad esempio alle serie dei Sette peccati capitali. In tal senso, Ortelius, indirettamente, intendeva forse affermare che Brueghel aveva inserito in composizioni coerenti i soggetti tipici dell’opera di Bosch. Inoltre, sebbene Ortelius non facesse diretto riferimento a Bosch, poneva l’accento sul ruolo che la fantasia, l’immagina-zione e l’invenzione avevano nell’opera di Brueghel. Gian Paolo Lomazzo, da parte sua, nel suo Trattato dell’arte de la pittura (1585), citava Brueghel tra i pittori che avevano raffigurato creature mostruose e figure fantastiche; molto probabilmente traendo ispirazione dalle in-formazioni contenute nelle Vite di Vasari9.

Data la quasi totale assenza di testimonianze d’archivio, Karel van Mander è indubbia-mente la più autorevole fonte informativa sulla vita di Brueghel. Anch’egli rilevò l’influenza di Bosch sull’artista: “Si era ispirato spesso alle opere di Jeroon van den Bosch, e dipingeva figure mostruose e caricaturali alla maniera di Bosch, tanto da essere soprannominato ‘Pier den Drol’ [Pietro il Buffo]. Infatti sono pochi i quadri che l’osservatore riesce a contemplare senza ridere, anche la persona più seria non riesce a trattenere almeno un sorriso”10.

Van Mander concludeva il suo scritto con la traduzione dei versi di Lampsonius. Fritz Grossmann, uno dei più autorevoli studiosi di Brueghel, scrisse in merito a tali versi: “De-scrivendo Brueghel come un artista che aveva seguito le orme di Bosch superandolo, anima-to dal suo spirito inventivo (ingeniosa somnia), e ricco d’ironia (ridiculo salisbusque), egli dette l’avvio a un modello interpretativo perpetuato poi da autori successivi”11.

Una ricerca sulla percezione dell’arte tra il XVI e il XVII secolo nei Paesi Bassi ha eviden-ziato l’importanza predominante dell’aspetto umoristico nell’opera di Brueghel e dei suoi successori, ma anche del suo predecessore Hieronymus Bosch12. La raffigurazione di mostri, creature ibride e scene fantastiche veniva considerata fonte d’intrattenimento umoristico, persino nelle opere a tema religioso. Nel caso di Brueghel questa considerazione vale anche a proposito della sua rappresentazione di proverbi e di scene di vita contadina. Questa inter-pretazione può essere accolta come un elemento innovativo per gli osservatori moderni che sono tendenzialmente portati ad attribuire significati simbolici a ogni dettaglio di un’opera.

Un dubbio particolarmente interessante riguardo all’influenza che Bosch ebbe su Brue-ghel sorge in relazione alla stampa Il pesce grosso mangia il pesce piccolo, incisa da Pieter van der Heyden e pubblicata da Hieronymus Cock, realizzata dal disegno con lo stesso titolo con-servato a Vienna (Albertina). Non vi è alcun dubbio sull’attribuzione del disegno poiché lo stesso è datato e firmato “1556 / bruegel”, ma l’incisione reca il nome di Hieronymus Bosch

5 Dominicus Lampsonius, citato in Rotterdam 2001b, p. 11, n. 35.6 Grossmann 1955, pp. 23-24. 7 Ipotesi basata sul più recente catalogo ragionato: Sellink 2007.8 Muylle 1981, p. 332.9 Lomazzo 1585, p. 475.10 Van Mander 1994-1999, vol. 1, p. 190.11 Grossmann 1955, p. 24.12 Gibson 2006; per questo specifico tema nel testo di Van Mander su Brueghel, si veda Muylle 1984, pp. 137-144.

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inghiotte un uomo in primo piano a destra e il rettile che si arrampica sull’albero della nave compaiono entrambe sulla fascia destra del trittico di Bosch Haywain; la sfera trasparente abitata da creature nella nave posta sul dorso di un uomo ricorda la coppia in un simile ambiente raffigurata nel pannello centrale del Giardino delle delizie, e l’arpa che esce da un uovo ricorda l’arpa raffigurata nella scena dell’Inferno del Giardino. La creatura a cavallo di un pesce alla sinistra di Greta la Pazza riappare nel cielo del pannello sinistro del dipinto Le ten-tazioni di sant’Antonio (Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona). “Grilli”, creature ibride con solo la testa e le gambe, sono onnipresenti nelle opere di Bosch. Il Trionfo della morte (Museo del Prado, Madrid) è un’immagine minacciosa che si avvicina per l’atmosfera spaventosa alle scene più raccapriccianti dell’inferno di Bosch; Brueghel sostituì il linguaggio mostruoso con un esercito di scheletri. Nelle sue opere tarde del 1565-1569, abbandonò totalmente la maniera di Bosch23. Come scrisse Lampsonius, Brueghel aveva superato Bosch.

23 Sellink 2007, pp. 23-24.

quale autore. Gli studiosi hanno fornito diverse ipotesi per chiarire questa anomalia. Si è ipotizzato ad esempio che Cock avesse deciso di utilizzare il nome di Bosch come strumento di marketing orientato verso un mercato che vedeva una rinascita della popolarità di Bosch in un momento in cui il nome di Brueghel non era ancora diventato famoso13. Il fatto stesso che Brueghel nella sua opera si fosse ispirato a Bosch, come anche altri pittori di Anversa quali Jan Mandijn e Pieter Huys, indica un rinnovato interesse dell’epoca nei confronti del grande maestro del passato. Tuttavia, questa interpretazione, che cioè Brueghel non fosse stato indicato sulla stampa quale autore perché ancora poco noto, sembra essere contrad-detta dal fatto che fosse citato come autore sia della stampa L’asino a scuola dello stesso anno, sia della stampa Avarizia del 1558, tratta da un disegno del 1556 (British Museum, Londra). Sebbene stampe successive recassero iscrizioni con espliciti riferimenti politici, è improba-bile che Brueghel intendesse mantenere l’anonimato o che Cock volesse tutelarlo al fine di evitargli problemi. Questa ipotesi si basa su una dichiarazione di Karel van Mander secondo la quale Brueghel, sul letto di morte, avrebbe chiesto alla moglie di distruggere alcuni di-segni compromettenti14. Ma, in questo caso, perché Hieronymus Cock avrebbe apposto il proprio nome sulla stampa in qualità di editore? La soluzione più plausibile di questo enigma storico-artistico è che Brueghel avesse eseguito il disegno basandosi su un’opera di Bosch andata perduta15. La chiarezza del suo disegno consentiva una grande precisione nell’esecu-zione del procedimento d’incisione. Oltre a ciò, l’uomo che indica il grande pesce raffigu-rato nella barca e il bambino in primo piano ricordano un gruppo di figure simili presenti in primo piano a sinistra nel pannello centrale del trittico di Bosch Haywain (Museo del Prado, Madrid), mentre una struttura organica sullo sfondo riecheggia soggetti analoghi raffigurati nel trittico Il giardino delle delizie (Museo del Prado, Madrid)16. Il pesce che cammina, il pesce volante e il coltello gigante che squarcia il pesce grande sono tutti soggetti tratti da Bosch17. Tuttavia, l’iconografia raffigurata nel proverbio del pesce grosso che mangia il pesce piccolo era già nota nel 1500-1510 circa, riprodotta su tappezzerie e manoscritti, per cui avrebbe potuto essere familiare anche a Brueghel18.

Tutto ciò ci porta all’ultimo interrogativo cruciale: Brueghel cosa avrebbe potuto cono-scere dell’opera di Bosch quarant’anni dopo la morte di quest’ultimo? La maggior parte dei suoi dipinti, se non addirittura tutti, appartenevano a collezioni di privati e di nobili. L’in-cisione di Alart Duhameel tratta dal Giudizio universale di Bosch è l’unica stampa conservata che potrebbe essere stata conosciuta da Brueghel19. D’altro canto è ben documentato che molte copie e/o opere alla maniera di Bosch, a volte con firma falsa, circolassero sul merca-to20. Un fattore che complica ulteriormente la ricerca di soggetti tipici di Bosch nell’opera di Brueghel è determinato dal fatto che quest’ultimo non li copiò pedissequamente, ma li interpretò esprimendo il proprio stile personale. Un esempio calzante è dato dalla creatura ibrida, alata, simile a un rettile, che sta riempiendo di monete una borsa, raffigurata in pri-mo piano a destra in Avarizia (British Museum, Londra), un disegno della serie dei Sette vizi capitali21. Una simile creatura con doppie ali è posta davanti al cassettone in fondo al letto nel dipinto di Bosch Morte dell’avaro (National Gallery of Art, Washington). Le forbici giganti raffigurate nello stesso disegno – con riferimento alla tosatura delle pecore (ovvero i poveri) – ricordano l’enorme coltello tra le orecchie, un’immaginaria macchina da guerra, presente nel dipinto Inferno del Trittico delle delizie.

Una notevole differenza rispetto a Bosch si può individuare nel dipinto di Pieter Brue-ghel La caduta degli angeli ribelli, definito da uno studioso “il miglior caos ordinato immagina-bile”22. Effettivamente le composizioni di Bosch sono meno strutturate. L’opera di Brueghel a lui più vicina è Greta la pazza del 1561. In questo dipinto, le raffigurazioni del pesce che

13 Sellink 2007, p. 21.14 Van Mander 1994-1999, vol. 1, p. 193.15 Bruxelles 1969, p. 59. 16 M. Royalton-Kisch in Rotterdam 2001b, p. 28. 17 Silver 2006, p. 383.18 Muylle 1985, pp. 129-143. 19 M. Royalton-Kisch in Rotterdam 2001b, pp. 27-28, ill. 28-29.20 Unverfehrt 1980; Sellink 2007, p. 24.21 Per maggiori similitudini tra le serie dei Sette vizi capitali e le opere di Bosch, si veda Silver 2006, p. 384.22 Marijnissen 1988, p. 181.

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Funzioni e obblighi della gilda

Per oltre un secolo gli sforzi degli storici dell’arte e dei collezionisti sono stati volti a individuare in ogni opera d’arte la mano di un singolo autore, senza tenere in minimo conto il tipo di collaborazione tra artisti che caratterizzò la produzione pittorica nelle

Fiandre del Seicento. Per meglio perseguire il nobile scopo di trovare un autore per ogni opera, negli anni sono stati costituiti comitati e commissioni che tuttavia sono stati sciolti l’uno dopo l’altro o considerati inattendibili alla luce delle prove attestanti la collaborazione di molti pittori con apprendisti, discepoli, colleghi e figli, durante tutto quel periodo. Per-tanto queste complesse composizioni rivelano la maestria e il contributo di diverse mani e indicano che molti artisti dell’epoca giudicavano l’inclusione di contributi altrui nelle pro-prie opere come un arricchimento della propria arte.

Questo approccio alle collaborazioni artistiche in pittura si può far risalire direttamente all’istituzione delle gilde di artisti, soprattutto nei Paesi Bassi, all’inizio del Cinquecento. Non molto diversamente dagli attuali sindacati, le gilde furono create principalmente per garantire un controllo sulla qualità delle opere e per monitorare la progressione da appren-dista a maestro pittore attraverso un elaborato sistema di regole e norme. Esistono resoconti dettagliati dei doveri dell’apprendista (dalla preparazione delle tavole lignee alla macinatura e miscelazione dei pigmenti; dall’esecuzione dei bozzetti all’assistenza prestata al maestro pittore nei particolari della composizione) e dell’iter della sua carriera.

Non si ribadirà mai abbastanza l’importanza dello scopo della gilda, che rappresentava anche un’importante misura di sicurezza per i mercanti d’arte e i fruitori, noti come liefheb-bers (estimatori). Un artista che non fosse ammesso alla gilda non beneficiava della protezio-ne che essa garantiva e avrebbe avuto grandi difficoltà ad affermarsi nella propria professio-ne. I ricchi committenti distribuivano incarichi agli artisti tramite le gilde, commissionando opere per le proprie dimore e cappelle private e occasionalmente finanziando opere d’arte pubbliche a maggior lustro del proprio casato.

La natura di questo tipo di comunità artistica dette vita al concetto di scambio e inter-scambio che dominava la cultura artistica del tempo e avviò la pratica delle collaborazioni tra molti importanti artisti dell’epoca. I registri delle gilde confermano che artisti della levatura di Peter Paul Rubens, Antoon van Dyck e Pieter Brueghel il Vecchio (e i suoi discendenti) apposero la propria firma su opere realizzate con l’aiuto di discepoli e apprendisti, che in alcuni casi avrebbero successivamente superato i propri maestri.

Una delle prime città a costituire una gilda fu Anversa. Si tratta della gilda di San Luca (da san Luca evangelista, il santo patrono degli artisti), che risulta citata per la prima volta nel 1382 e tenne meticolose registrazioni dei nomi di artisti e committenti sino alla fine del XVIII secolo. Le registrazioni comprendono annotazioni delle date in cui i pittori era-no diventati maestri, i prezzi pagati per le varie opere, i nomi dei numerosi apprendisti

Nathalie Wiener

Particolare cat. VII.5c

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dei maestri pittori e le date in cui dipinti importanti erano stati commissionati da clienti di rango. Pieter Brueghel il Vecchio è documentato come maestro pittore nella gilda di San Luca ad Anversa nel 1551. Secondo le informazioni degli archivi della gilda era stato apprendista presso Pieter Coecke van Aelst (di cui più tardi sposò la figlia Mayken). La sua produzione conferma il potente influsso esercitato su di lui da Hieronymous Bosch, pittore olandese suo predecessore le cui composizioni originali e immaginifiche segnarono alcune opere di Brueghel quali Greta la pazza del 1561 (Museum Mayer van den Bergh, Anversa). In quest’opera Brueghel sottolinea la vastità dell’avidità umana in un contesto infernale che può essere stato ispirato dalla sezione dedicata all’Avarizia nei famosi Sette peccati capitali di Bosch. Allegorica e bizzarra, con sottesi toni moraleggianti ed edificanti, Greta la pazza è chiaramente derivata dai più importanti lavori di Bosch che produssero un’impressione indelebile sul giovane pittore.

Nell’ultimo periodo, però, lo stile pittorico di Brueghel il Vecchio si staccò nettamente dalla rappresentazione di temi convenzionali e biblici, per concentrarsi sulla vita quotidiana del popolo fiammingo, regalandoci così una rara visione della vita dei suoi contempora-nei. Uno dei più eclatanti esempi di questo cambiamento si ritrova nella Kermesse, nota anche con il titolo di Danza di contadini, del 1567 circa (Kunsthistorisches Museum, Vien-na). L’importanza, sotto il profilo storico-artistico, di questo cambiamento non sarà mai abbastanza sottolineata. Il predominio dell’iconografia religiosa che nei secoli precedenti non lasciava spazio ad altra espressione artistica, certamente non incoraggiava un giovane artista emergente a esplorare il proprio ambiente in cerca di temi da rappresentare o, come in questo caso, da documentare. Sotto questo profilo, Brueghel il Vecchio fu un vero anti-cipatore dei tempi e come tale il suo contributo negli annali della storia dell’arte è davvero incommensurabile.

Purtroppo, solo alcuni esempi dei migliori dipinti di Brueghel sono arrivati fino a noi. Tuttavia, basta osservare il lavoro di alcuni dei suoi contemporanei come Marten van Cleve per immaginare come potevano essere alcune delle sue composizioni andate perdute. Sap-piamo che molti artisti dell’epoca spesso imitavano le opere di pittori famosi e che tali copie venivano considerate esse stesse dei capolavori. In Het Gulden Cabinet, del 1661, una sorta di lessico, Cornelis de Bie sostiene che l’imitazione dei capolavori non è solo auspicabile, ma imperativa, e che rappresenta la risposta al desiderio del popolo fiammingo, avido collezio-nista d’arte, di possedere opere famose. Bernadette van Haute sostiene efficacemente questa tesi nel suo Imitation and Collaboration in Seventeenth-Century Flemish Genre Painting: Decon-structing “Originality” (1997), osservando il travolgente successo di cui godette in vita David Teniers il Giovane (Teniers II), i cui lavori contenevano molti elementi mutuati dall’opera di Adriaen Brouwer, il famoso pittore di genere specializzato nelle figure di popolani fiam-minghi. Van Haute sottolinea efficacemente che nelle Fiandre del XVII secolo il concetto di “copyright”, come lo intendiamo oggi, proprio non esisteva.

Reputato il più importante pittore fiammingo del Cinquecento, Pieter Brueghel il Vec-chio fondò una dinastia che abbracciò diverse generazione di artisti molto dotati, le cui opere sono tuttora ricercate dagli amanti dell’arte. Come indicato nel saggio di Klaus Ertz in questo catalogo, i suoi figli, Pieter Brueghel il Giovane (Pieter II) e Jan Brueghel il Vecchio (Jan I), seguirono la tradizione familiare, nonostante fossero rimasti orfani di padre in gio-vane età. Subirono in diversa misura l’influenza artistica paterna. La strage degli innocenti del 1593 e i Proverbi olandesi del 1607 (Stedelijk Museum Wuyts-Van Campen en Baron Caroly, Lier) di Pieter Brueghel il Giovane chiaramente riflettono aspetti dell’opera del padre. Inol-tre era noto che aveva ultimato molti lavori paterni rimasti incompleti. Sfortunatamente

poco sappiamo di lui, se non che uno dei suoi figli, anch’egli di nome Pieter, era entrato a far parte della gilda nel 1608.

Un’altra importante influenza ebbe sull’opera dei figli di Pieter Brueghel il Vecchio la nonna materna dei ragazzi – Mayken Verhulst Bessemers – una miniaturista che crebbe i ragazzi alla morte della madre, continuando anche a coltivarne il talento di giovani artisti.

Jan I (noto anche come “Brueghel dei Velluti” per la sontuosità delle sue nature morte floreali e dei suoi paesaggi) subì l’influenza di artisti stranieri, fra cui Albrecht Altdorfer, la cui opera gli offrì l’ispirazione per la sua Battaglia di Isso (Musée du Louvre, Parigi). Ciono-nostante non bisogna sottovalutare l’influsso dell’eredità pittorica del padre, che appare ben evidente nella sua Danza nuziale. Il maggior contributo critico di Jan I all’evoluzione della storia dell’arte è rappresentato dal passaggio dalla composizione verticale a quella orizzon-tale, un cambiamento che avrà un impatto enorme sulla successiva generazione di pittori fiamminghi, compreso suo figlio Jan II.

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documenti, raggiunse lo status di maestro pittore della gilda di San Luca nel 1632/33 e fu successivamente insignito del titolo di decano nel 1645/46.

Molte importanti famiglie di artisti produssero diverse generazioni di artisti nel corso dei secoli, ma poche arrivarono alle vette della dinastia Brueghel, che annovera tra i suoi membri molti maestri pittori e numerose opere d’arte che hanno contribuito in modo si-gnificativo e diretto alla nostra comprensione del mondo in cui essi vissero.

Il funzionamento delle gilde durante il Cinquecento e il Seicento, principalmente ad An-versa, spiega molto bene all’osservatore odierno il modo in cui i pittori fiamminghi intera-givano fra di loro, mutuando elementi dalle rispettive opere e, in particolare, il modo in cui collaborarono nella realizzazione delle composizioni più celebrate di quei tempi. L’idea che i pittori concepissero e realizzassero i propri dipinti senza l’aiuto o l’influenza di altri artisti appare semplicemente obsoleta e non tiene conto del modo in cui gli artisti effettivamente vivevano in centri sociali vivi e vibranti come l’Anversa del XVII secolo. Si potrebbe addirit-tura affermare che nessun artista avrebbe ottenuto il grande successo personale raggiunto, né avrebbe potuto contribuire tanto alla storia dell’arte, senza l’influenza e i progressi com-piuti dalla generazione che l’aveva preceduto e dai suoi contemporanei. In effetti, l’intensa collaborazione tra artisti nelle Fiandre del Seicento conferma che l’originalità, intesa come espressione individuale, non era necessaria per l’importanza di un artista nella prospettiva della storia dell’arte. Tale collaborazione veniva incoraggiata non solo per il raggiungimento di una qualità ottimale, ma veniva encomiata anche come strumento per assecondare la for-te richiesta di opere d’arte da parte di insaziabili consumatori, sia nelle Fiandre che altrove. In ultima analisi, gli sforzi odierni di catalogare un artista e di insistere sulla sua capacità di resistere ai contributi di altri artisti rendono un cattivo servizio alla più ampia comprensione di quest’epoca particolarmente vivace della storia dell’arte.

Klaus Ertz sottolinea che i paesaggi di Jan I erano spesso il risultato di intense collabora-zioni con altri maestri, tra cui Hendrick van Balen, Hendrick de Clerck, Joos de Momper e l’amico Peter Paul Rubens, soprattutto per quanto riguardava le figure. Negli anni 1616-1618, Jan I e Rubens collaborarono alla realizzazione di diversi importanti dipinti tra cui il Ritratto del duca Alberto e Isabella (Museo del Prado, Madrid) e Ghirlanda del Louvre (Musée du Louvre, Parigi).

Alla morte di Jan I nel 1625 (falciato dall’epidemia di colera che aveva colpito le Fian-dre), Rubens continuò a collaborare con il figlio dell’amico scomparso, Jan II, che spesso di-pingeva particolari degli sfondi per le composizioni di Rubens o adornava le sue Madonne di ghirlande di fiori; ovviamente questi incarichi rappresentavano un grande onore per Jan II, dato che Rubens all’epoca era all’apice della carriera.

Jan I lasciò anche una figlia, Paschasia, che non seguì la tradizione artistica della famiglia (almeno non ufficialmente), ma si imparentò con una famiglia di influenti pittori sposando Hieronymus van Kessel; dalla loro unione nacque un figlio, il futuro Jan van Kessel I. Questi primeggiava nella raffigurazione pittorica delle creature più piccole e delicate – coleotteri, farfalle e una gran varietà di insetti – e i suoi dipinti costituiscono una vera miniera d’infor-mazioni scientifiche per l’entomologo moderno. Inoltre Ertz parla di Van Kessel come di un “eccellente pittore di fiori” che aveva studiato con Simon de Vos, noto per i suoi dipinti di piccole dimensioni. Un’ulteriore conferma dell’abitudine alla collaborazione artistica.

Jan Brueghel il Giovane rappresenta la quintessenza del ligio conservatore dell’eredità familiare. Ispirato dal nonno e dal padre a continuare la grande tradizione pittorica, comin-ciò a lavorare nello studio paterno alla tenera età di dieci anni. In seguito, alla morte di Jan I, gli subentrò a capo della bottega e portò a termine molte delle composizioni che il padre aveva lasciato incomplete, tra cui Danza contadina. Qui la mano del padre si distingue nella gamma di brillanti colori, tipica dell’opera di Jan I, fianco a fianco con i tronchi d’albero contorti e il denso fogliame che sono la firma del figlio. Ertz osserva che questo perio-do, a causa delle molteplici somiglianze stilistiche, pone delle enormi difficoltà agli storici dell’arte nel distinguere i tardi lavori di Jan il Vecchio dalle prime opere di suo figlio Jan il Giovane. L’impegno di quest’ultimo nel preservare la tradizione di famiglia si ritrova anche nella sua scalata ai vertici della gilda di San Luca di cui divenne decano nel 1630/31. Si trattava di una carica molto importante e prestigiosa e mantenerla richiedeva grandissima dedizione e impegno.

Con Jan II la dinastia Brueghel ebbe grande impulso dato che dalle sue nozze con Anna Maria Janssens nacquero undici figli, cinque dei quali divennero pittori. Il maggiore, Jan Pieter Brueghel, si specializzò nella pittura floreale e collaborò con Erasmus Quellinus e forse con Jan Davidsz. de Heem. Nel 1645/46 risulta registrato nella gilda di Anversa come maestro pittore. Secondo Klaus Ertz, Jan Pieter spesso firmava i propri lavori “J.P. Brueghel” o “Jan Br.”, il che ha creato una certa confusione nell’attribuzione di diverse opere. Anche di tutti gli altri figli – Abraham, Philips, Ferdinand e Jan Baptist – si dice che mostrino nelle proprie opere, chi più chi meno, l’influenza del padre, ed è inoltre probabile che abbiano portato a termine molti dei suoi dipinti lasciati incompleti.

Un altro artista scaturito dalla dinastia Brueghel (per la precisione da Brueghel il Vecchio e dalla sua seconda moglie, Catharina van Marienberghe) fu Ambrosius Brueghel, noto per i suoi paesaggi e per le nature morte con fiori e frutta, molto simili alla produzione del fratel-lastro Jan Brueghel II e del figlio di quest’ultimo, Abraham. La sorella di Ambrosius, Anna, estese ulteriormente la famiglia sposando David Teniers il Giovane, che a sua volta collaborò con Rubens, Jacques d’Arthois, e Herman Saftleven. Teniers il Giovane, come risulta dai

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Connoisseurship: l’analisi dei materiali dell’opera e l’attribuzione nelle scuole del Nord

La presunzione di saper tutto denota un certo grado di ignoranzaRoger Marijnissen

uesta citazione ci pone dinanzi a una domanda: è possibile conoscere veramente l’arte? Si tratta di un’espressione fondamentale dello spirito umano che riflette la nostra natura. Le neuroscienze hanno dimostrato l’aspetto neuronale legato alla coscienza della bellezza che determina nell’osservatore una modificazione della fisiologia cerebrale. La creazione del dipinto da parte dell’artista non rappresenta altro che una fuga dinanzi all’oblio inesorabile. L’atto creativo è teso verso il “nulla”, verso l’“Ultima Thule”, e si avventura in quel regno mitico che è situato oltre i confini del mondo conosciu-to. L’arte è la proiezione della nostra vanità nel futuro, e il capolavoro parla di noi molto più di quanto voglia farci intendere. Edmund Burke già nel 1737 osservava che il piacere della percezione aumenta al crescere dell’erudizione e del grado di conoscenza.

L’esperienza estetica di un dipinto si impone sulla coscienza e attiva l’osservazione criti-ca. Nonostante l’aspetto soggettivo del suo apprezzamento, l’arte tende a un riconoscimen-to condiviso dei suoi meriti fra coloro che la guardano. Le relazioni tra l’osservazione critica del dipinto, l’intuizione edotta, la riflessione logica argomentata, l’analisi dei materiali e tutte le discipline della storia dell’arte (visual studies) sono complesse. Ed è l’osservazione intuitiva che si rivela essere lo strumento interdisciplinare per eccellenza del conoscitore, un esperto super partes. Alla luce delle conoscenze neuroscientifiche, la validità relativa dei risultati dell’osservazione del dipinto si spinge ai limiti della loro interpretazione.

I falsi, le copie, le attribuzioni sbagliate delle opere di bottega o di collaboratori, le opere modificate dal restauro per renderle più in sintonia con i canoni dell’autenticità sono tutti elementi che fanno parte dello scenario in cui si muove il connoisseur. Rivelano la relatività degli assunti estetici e dell’interpretazione dei risultati dell’analisi dei materiali. La connois-seurship è, per usare le parole di Egbert Haverkamp-Begemann, “notoriamente fallace e sor-prendentemente rivelatrice”. La serie dei Klassiker der Kunst testimonia lo sforzo compiuto a livello internazionale, a partire dall’inizio del XX secolo, per definire l’opera dei grandi artisti. La pratica attuale in quest’ambito deve necessariamente prendere in considerazione l’intero patrimonio della storia dell’arte e le opinioni dei connoisseur del passato. La teoria dei “narratifs identifiants”1 è secondo me la più adatta per spiegare le formulazioni delle nostre esperienze e delle nostre attribuzioni. Ciascun connoisseur costruisce una tesi sola-mente quando reputi che questa sia convincente, a prescindere dalla sua narrativa personale.

Dall’inizio del XX secolo nella storia dell’arte sono sorti numerosi problemi che hanno messo in questione il concetto dell’“artista geniale come solo autore del dipinto” diffuso

Jan de Maere

1 Weiand 1983.

Q

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nell’Ottocento. Oggi, per esprimere i gradi di autenticità, si richiede un vocabolario ade-guato2 che non comunichi solamente l’aspetto teorico, ma sia in grado di contemplare anche quanto osservabile e documentabile da parte di uno spettatore colto. È quindi necessario comprendere quali siano i problemi specifici delle scuole del Nord, così come i limiti delle nostre conoscenze quando si procede a un’attribuzione.

La pratica di affidare la creazione di opere alla bottega dell’artista ha preso piede in re-lazione a una situazione specifica e in un momento preciso della storia delle botteghe nelle Fiandre. Ci sono delle similitudini che celano delle differenze fondamentali identificative di una particolare circostanza specifica vissuta nella bottega. Il riconoscimento della parte di lavoro svolto personalmente dall’artista e quello eseguito dai suoi collaboratori può essere ipotizzato solo attraverso l’identificazione delle modalità di esecuzione tipiche dello stile, della materia e del segno dell’artista. Questo è possibile solo sviluppando un occhio molto allenato. Più colui che realizza il dipinto si allontana dal processo creativo, più assumono importanza la schematizzazione, la routine pittorica e la ricerca di effetti visivi. Nell’antica pittura nordica il nome del maestro veniva utilizzato solamente nel caso in cui la superficie pittorica e il segno del maestro fossero chiaramente riconoscibili; tuttavia le modalità con le quali si affidava un incarico alla bottega in quel periodo storico ci sono ancora piuttosto oscure. Le parti più importanti non eseguite dal maestro a volte potevano essere affidate alla bottega o a un collaboratore specifico. Questa distinzione rappresenterà sempre un’ipotesi che potrà essere più o meno argomentata. Ogni bottega era contraddistinta da un proprio modus operandi, da motivi standardizzati e da una propria gerarchia. La descrizione dell’o-pera formulata dall’esperto dovrebbe testimoniare tutti questi aspetti ed è per tale motivo che la ricerca di informazioni nelle fonti e negli archivi rappresenta un punto fondamentale del lavoro del connoisseur.

La relazione che esiste tra le diverse forme dell’arte – disegno, incisione, scultura, schiz-zo, bozzetto, modello, copia o versione autografa – è altamente complessa. La loro inferen-za spesso reciproca varia in base alla situazione e al momento. Non esistono regole generali e fisse che scindano i differenti tipi di interazione tra queste forme d’arte. Persino la ripro-duzione stessa delle stampe prevede modalità di realizzazione diverse: da una creazione a due mani, come avveniva nello studio di Brueghel e dei suoi incisori, al metodo seguito da Rubens e dai suoi incisori, che era totalmente diverso.

La relazione tra due versioni autografe (o meno) all’interno di una stessa bottega è piut-tosto complessa e la loro gerarchizzazione è possibile solo attraverso una presentazione giustapposta delle versioni. I risultati dell’analisi dei materiali del dipinto rappresentano spesso lo strumento che permette ai connoisseur di fare la differenza. La prima versione non rappresenta necessariamente la versione migliore o la più compiuta. Una provenienza celebre di fatto non offre soluzione al quesito; in effetti, recentemente un gran numero di musei ha cominciato a organizzare mostre che si propongono di esporre versioni diverse di uno stesso soggetto di pittura o versioni di una stessa opera provenienti comunque dalla medesima bottega.

Il copista si adatta alle richieste dei committenti e alle pratiche pittoriche del tempo in cui vive. La copia, proprio come un vero intervento di restauro, rappresenta sempre una trasposizione dello spirito e dello stile del tempo in cui era stata originariamente eseguita.

Per poter far fronte a tale problematica, la mia proposta ai connoisseur è di considerare una graduazione dell’autenticità delle opere antiche delle scuole del Nord che prenda come punto di partenza quella che si ritiene possa essere la parte autografa dell’opera stessa. Que-sta può essere desunta dalla tecnica, dal segno e dalla qualità dell’esecuzione3. Lo stato di

conservazione a volte compromette la leggibilità del dipinto, ma non il grado di autenticità delle parti originali. La nostra concezione di perizia non coincide necessariamente con la pratica di autenticità adottata al tempo del pittore.

Ernst van de Wetering, fino a poco tempo fa direttore del Corpus Rembrandt, illustra le modalità di delegazione adottate presso la bottega di Rembrandt, spiegando come l’elabo-razione del concetto pittorico fosse spesso affidata al collaboratore più dotato. Questo con-cetto viene approfonditamente trattato dall’autore in A Corpus of Rembrandt Paintings (vol. 6), dove, analizzando la questione delle diverse versioni realizzate a partire da uno stesso sog-getto, Giuseppe accusato dalla moglie di Putifarre scrive: “Abbiamo precedentemente osservato che Rembrandt, per ragioni narrative o per altri motivi, in alcune occasioni si trovava a sviluppare nuove idee che riguardavano un lavoro già completato. L’opera veniva così sotto-posta a cambiamenti drastici, dei quali, così sembra, a volte venivano incaricati proprio i suoi collaboratori. Tali cambiamenti non venivano realizzati sul medesimo dipinto ma in nuove versioni della stessa scena […] e sembrerebbe che un collaboratore venisse incaricato di portare a termine tale compito. Non si trattava del resto di una pratica così saltuaria. Si ritie-ne che proprio nell’osservare una pratica di questo tipo, il mantello sia stato dipinto a parte e successivamente trasferito dalla stessa mano nel primo piano del dipinto, così da creare lo spazio necessario alla gestualità di Giuseppe. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di un ripensamento di Rembrandt che ne avrebbe affidato l’esecuzione a un collaboratore. […] Rembrandt potrebbe aver seguito da vicino lo sviluppo della disposizione degli elementi in entrambi i dipinti, lasciando che fossero i collaboratori ad attuare queste nuove idee; uno dei due collaboratori eseguì i cambiamenti lavorando direttamente sul dipinto di Rembrandt, mentre l’altro lo alterò agendo sulla versione ‘satellite’ del dipinto. Se tale ricostruzione degli eventi fosse corretta, la versione di Washington rappresenterebbe il prodotto finale del pensiero di Rembrandt sulla concezione narrativa e sulla composizione dell’opera. In tale ottica, sia la versione di Berlino sia quella di Washington possono essere entrambe assegnate al catalogo di Rembrandt, sebbene una parte considerevole di questi dipinti non fosse stata eseguita direttamente da lui stesso o, nel caso della versione conservata a Washington, è ad-dirittura il dipinto nella sua interezza a essere stato eseguito da un’altra mano”.

I casi di Bosch, Brueghel e Rubens sono diversi, ma il principio di autenticità resta il medesimo. La pratica dell’attribuzione si fonda dunque, concretamente, più su una certa esigenza di eccellenza che su fatti verificabili. Secondo quanto proposto da Van de Wetering, il concetto di una produzione artistica caratterizzata dalla regia del maestro comprendereb-be diversi gradi di autografia, riconducendo tutte le varie opere a uno stesso autore: Bosch, Brueghel, Rembrandt o Rubens. È la descrizione del dipinto che ci permette in seguito di differenziare in maniera soggettiva il contributo della mano del maestro e quello di un even-tuale collaboratore. Ogni autenticità che venga dichiarata da un esperto si colloca dunque in un quadro di riferimento preciso nel contesto di un dato momento4, per il quale non si dispone ancora di un vocabolario specifico e universalmente accettato. Questo concetto di autenticità richiede di essere compreso nello stesso modo in cui l’artista stesso lo concepiva nel contesto dell’epoca in cui viveva, tenendo però conto del grado di partecipazione dei collaboratori della bottega.

La questione dell’autenticità, come si è detto, rappresenta quindi un argomento desti-nato a un occhio esperto che deve essere espresso utilizzando un vocabolario adeguato. Se l’esecuzione dell’opera viene delegata ad altri, l’opera rimane comunque un originale, ma viene considerata meno “autografa”, lontana dall’anima fondamentale dell’opus, anche se l’artista l’aveva venduta come prodotto originale della sua mano. Allo stesso modo, una

2 Goodman 1968.3 Pauw-de Veen 1969, pp. 107-111. 4 Muller 1989.

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copia o un’altra versione del dipinto eseguita dal maestro stesso viene sempre considerata autentica, ma meno inventiva. Un’opera originale viene realizzata sotto la diretta autorità del maestro, senza che egli ne sia necessariamente l’esecutore principale.

L’attribuzione è dunque il risultato di un atteggiamento propositivo rivolto alla ricerca di una continuità di elementi che permettano di identificare l’artista in un dipinto che spesso l’esperto non ha visto in precedenza. Rappresenta una decisione presa sulla base di un equili-brio stabilito tra un gran numero di variabili, tra le quali alcune prive di significato per i non conoscitori. Questo equilibrio di incertezze trova riscontro in categorie previamente defi-nite in maniera teorica dalla storia dell’arte. Si tratta di uno strumento non eccessivamente pregiudicativo che permette di ridurre la complessità dell’opera d’arte a principi generali riferibili. Una buona conoscenza della storia dell’arte e un occhio sensibile alla qualità sono naturalmente requisiti fondamentali. Il lato umano del conoscitore è essenziale per la qualità della sua impresa e lo spinge a un continuo processo di autointerrogazione.

La verità: una storia sociale densa di significatoLa storia dell’uomo è l’espressione del suo desiderio di trovare una verità scientifica o una coerenza scientifica, filosofica, religiosa ed estetica. L’ignoto e l’incertezza sono gli eter-ni fautori della fatalità. Il problema della verità si pone solamente quando si scopre che il modello del mondo altrui è diverso dal nostro. La verità sarà sempre relativa allo stato momentaneo della conoscenza presupposta. Quello che rappresentava una prova valida per Friedländer è oggi spesso insostenibile a causa del progresso scientifico che ha caratterizza-to la storia dell’arte. Nel medioevo e fino all’inizio del XVI secolo, la verità si basava sulla testimonianza del passato, sulla tradizione e sul costume. Si copiava senza citare gli autori; Brueghel voleva per esempio essere visto come l’erede di Bosch. Emerge quindi che la verità non deve essere ricostruita, in quanto si tratta di un dato immediato che per essere corret-tamente interpretato richiede solamente di essere riconosciuto.

Oggi essere dei conoscitori implica un comportamento critico aleatorio, fondato sul dubbio sistematico, il cui risultato incontrerà tuttavia in un dato momento il pubblico con-senso. Questo tipo di osservazione fatta di erudizione ed esperienza, oggigiorno non può più rappresentare un’attività dilettantistica: da una parte le aspettative sono sempre più alte, mentre, dall’altra, i mezzi che l’intenditore deve saper utilizzare divengono sempre più complessi. Come in tutte le imprese umane, sono sempre le grandi catastrofi che richiama-no grandi destini. Dallo scandalo del falso Vermeer (1947) nacque l’interesse per l’analisi dei materiali dell’opera, dando vita così a una nuova generazione di esperti che si è imposta sulla precedente. Crisi dopo crisi, si constata che l’interrelazione tra la storia dell’arte, la scienza e i conoscitori si evolve. È proprio attraverso il rinnovamento perpetuo dei fondamenti delle nostre convinzioni che si affina lo strumento migliore che abbiamo a disposizione per la no-stra sopravvivenza: l’intuizione, anche se i risultati non sono sempre attendibili.

Ogni verità, quindi, se isolata dal suo contesto, è insufficiente. La filosofia tenta di prova-re l’esistenza di una verità. La religione fonda la propria verità nella fede e nella convinzio-ne. L’intuizione dell’esperto fonda la sua verità nell’opera. Nel costruire un’attribuzione, spetta all’ingegno dell’esperto soddisfare i bisogni dell’opera attraverso l’elaborazione dei suoi concetti di riferimento. La sua validità sta nella sua capacità di essere coerente secondo imperativi che vengono giudicati logici. L’attribuzione è la riduzione del concetto semanti-co della verità e una denotazione primitiva: la relazione tra il nome e la sua denotazione, i suoi predicati, i suoi simboli funzionali e l’espressione artistica del dipinto. Questo concetto proposizionale deve essere privo di inconsistenze. Il concetto intuitivo del conoscitore deve

essere verificato dalla scienza, assicurando una corretta flessibilità delle costanti logiche. Le premonizioni a volte eccezionali degli esperti del passato, caratterizzate da chiarezza nei concetti ed espresse mediante una comprensione sottile del quadro di riferimento, devono oggi venire valutate nel contesto della loro epoca e del progresso scientifico. Le nostre de-duzioni sociali non coscienti sono sempre in competizione. In questo modo si viene a creare una gerarchia tacita tra esperti: del resto è solo stando dinanzi all’opera che se ne diventa conoscitori. La comunità dei connoissuer rappresenta un sistema informale complesso che si gestisce da sé con l’obiettivo di definire meglio il problema dell’identità dell’artista. In ogni momento del percorso che caratterizza questa ricerca, si verificano delle deviazioni che devono essere corrette al fine di poter perseguire lo scopo. Il problema viene risolto attraverso lo sviluppo costante di nuove strategie deputate a ciò, in mancanza di un’autorità ultima che monitori questa intelligenza collettiva.

Dei sistemi di reti fondati sul “riconoscimento tra pari” contribuiscono al flusso di infor-mazioni e offrono spunti di riflessione. Una buona attribuzione scaturisce da un intelletto che agisce in relazione all’opera e al suo contesto di riferimento. Oggi si constata che i migliori esperti non sono gli storici dell’arte, che vantano la più consistente conoscenza teorica, ma coloro che combinano tale qualità con un’intuizione percettiva e colta mediata dall’esperienza; soggetti dotati di grande erudizione, sconfinata curiosità e di uno sguardo acuto sull’opera. Alcuni connoisseur migliorano con l’avanzare dell’età. Federico Zeri, Eg-bert Haverkamp-Begemann, Sir Christopher White e Julius Held ne sono l’esempio.

L’intenditore non riconosce solamente, per esempio, la tipologia facciale specifica pre-ferita da un pittore come Brueghel, ma è in grado di cogliere anche le peculiarità microsti-listiche e le caratteristiche pennellate dell’artista. Queste vengono espresse da costanti che nella loro ripetizione definiscono dettagli non variabili della tipologia facciale peculiare di un dato pittore. Come Morelli, il conoscitore moderno legge più o meno inconsciamente le ca-ratteristiche specifiche delle piccole variabili che fanno parte della Gestalt che si costruisce dell’artista e che si celano nelle specificità della mano dell’artista stesso. Il confronto di opi-nioni diverse circa l’opera, i risultati delle ricerche delle analisi sui materiali e le peer-reviews, sono, secondo tale autore, l’unica pratica che permette di confermare le attribuzioni che, tuttavia, sono sempre temporanee. Il dialogo aperto e strutturato tra professori, storici, conservatori, restauratori, uomini di scienza, artisti e conoscitori è indispensabile, in quanto crea una pressione stimolante e sana, ed è questo il motivo che anima l’organizzazione di grandi mostre.