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Anna Gerratana

Breve storia della follia nella letteratura tedescadal Werther a Th. Bernhard

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Periodico semestrale, registrato presso ilTribunale di Pisa il 3 settembre 1983, n°16.Direttore responsabile: Enrico De Angelis

Numero 45, 2005

© 2005 Jacques e i suoi quaderni, Pisa

ISSN 1723-1582

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Indice

1. Introduzione 7

2.Tendenze filosofiche settecentesche e sviluppi dell'antropologia 10

2.1. L'antropologia come disciplina mediatrice tra conoscenza empirica e conoscenza razionale: Übers Erkennen und Empfinden in der menschlichen Seele (1774-1775) di J. G. Herder 122.2. Gli studi di fisiognomica e la concezione della malinconia 14

3. Cause della follia e della malinconia 173.1. Malinconia e religiosità 173.1.1. La follia provocata dall'eccessiva immaginazione in Don Sylvio von Rosalva (1764) di Ch. M. Wieland (1733-1813) 183.2. Malinconia e ruolo sociale 233.2.1. J. W. Goethe, Die Leiden des jungen Werther (1787, 2° edizione) 24

4. Follia e vizio: Die Räuber (1781) di Fr. Schiller 28

5. Antropologia, psicologia e letteratura nel "Magazin zur Erfahurngsseelenkunde". Cenni sulla Popularphilosophie. 315.1. Malinconia e immaginazione in Andreas Hartknopf di K. Ph. Moritz 33

6. Follia e condizionamento sociale: le Biographien der Wahnsinnigen (1795-1796) di Ch. H. Spieß (1755-1799) 376.1. La follia di Margherita nel Faust (1808) 40

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7. L'evoluzione della psicologia e i progressi nella cura delle malattie psichiche in epoca romantica 42 7.1. Fr. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen (1810) 447.2. Follia e rivelazione della verità 467.3. La costituzione dell'identità tra realtà e immaginazione: Der Sandmann (1817) e Das öde Haus di E. T. A. Hoffmann 47 8. Aspetti della concezione della follia nella prima metà dell'Ottocento: il romanzo Der Komet di Jean Paul, i racconti Lenz di G. Büchner e Die Narrenburg (1841)di A. Stifter 51

9. La concezione della follia nella letteratura del Novecento 579.1. La follia religiosa nel Novecento: Der Narr in Cristo Emanuel Quint (1910) di G. Hauptmann 579.2.. E. Canetti, Die Blendung (1935) 599.3. Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften 619.3. G. Grass, Die Blechtrommel (1959) 639.4. La concezione della follia nell'opera di Th. Bernhard 649.4.1. Verstörung (1963) 649.4.2. Das Kalkwerk (1970) 679.4.3. Der Ignorant und der Wahnsinnige (1972) 68

10. Conclusione 71

Annotazioni 73

Bibliografia 77

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1. Introduzione

Nella seconda metà del Settecento si assiste allo sviluppo della moderna concezione della follia, che diviene oggetto di studio di discipline diverse, tra le quali la filosofia, la letteratura e la medicina. Fino a quell'epoca si era ritenuto che delle manifestazioni di follia fossero responsabili le divinità o i demoni: nell'antica Grecia si riteneva che i pazzi fossero invasati da un dio ed era una consuetudine diffusa favorire una condizione di eccitazione psichica per mezzo del vino o di droghe (prima tra tutte l'oppio) per entrare in contatto con gli dèi; nei secoli successivi, con l'avvento del cristianesimo, si era diffusa la convinzione che i pazzi non fossero invasati dagli dei ma dai demoni e che fossero stregoni e streghe. La tendenza a ricondurre la follia a cause religiose si era mantenuta fino al Medioevo, durante il quale avevano però iniziato ad affermarsi sia le teorie mediche arabe, che privilegiavano un approccio conoscitivo empirico alle malattie fisiche e mentali, sia gli studi di fisionomica, volti a individuare le correlazioni tra le caratteristiche fisiche e quelle psicologiche degli individui. Uno studio della follia e della malinconia nella letteratura tedesca si rivela di particolare interesse poiché la moderna riflessione su queste tematiche ha origine in Germania, dove si sviluppa prima in letteratura che in filosofia. Ciò è stato favorito, secondo Gert Mattenklott, Wolf Lepenies e G. Reuchlein, dalla scarsa e ininfluente partecipazione della borghesia tedesca alla vita pubblica e dalla conseguente valorizzazione della sfera privata; invece secondo Hans-Jürgen Schings dalla progressiva affermazione dei principî religiosi del Pietismo, che esortava i fedeli a perseguire un ideale di virtù e in particolare a una vita fatta di riflessioni, le quali vertevano su tutto: sulle proprie azioni così come sui peccati commessi. Ma soprattutto l'intensificarsi dello studio della follia viene spiegata con la necessità di combattere il fanatismo e il misticismo, avvertita dagli esponenti delle tendenze illuministiche. Sin dall'epoca barocca viene constatato che il ripiegamento dell'individuo su se stesso e l'isolamento dalla comunità favoriscono la tendenza alla malinconia. La diffusione degli studi riguardanti la follia - a prescindere dalle cause specifiche alle quali la si riconduce - ha inizio quando diviene predominante l'interesse nei confronti dell'individualità e viene rivolta maggiore attenzione all'interiorità, alle emozioni e ai sentimenti umani. Lo studio del mutamento nella concezione della follia è legato al nome di Michel Foucault e alla sua Storia della follia nell'età classica (1972). Secondo Foucault, che fa riferimento principalmente alla realtà francese, dal Settecento in poi il modo di rapportarsi alla malattia mentale cambia radicalmente, in quanto si cessa di ricondurla all'intervento di forze demoniche; si ritiene infatti che il folle, qualunque siano le caratteristiche del suo disturbo,

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si inganni di propria spontanea volontà e perseveri consapevolmente nell'errore. La follia si manifesta quando viene stravolto il rapporto dell'uomo con la verità, sia essa la verità fisica (in tal caso il folle è vittima di allucinazioni e di disordini percettivi), sia essa la verità morale (in tal caso egli è succube di passioni che non riesce a controllare) e si configura come negazione della ragione: si sostiene perciò che la follia non esiste di per sé in quanto è definibile solo come negazione della realtà fisica e morale. L'internamento dei malati di mente nei manicomi, iniziato a partire dal Settecento, è finalizzato a escludere i folli dall'ordine sociale e da quello linguistico: se da una parte ai malati mentali vengono riservati uno spazio in cui possono godere di una certa libertà e un trattamento più indulgente rispetto ai secoli precedenti (alle pratiche violente che provocavano gravi sofferenze fisiche si affiancano le cure psicologiche), dall'altra essi vengono completamente esclusi dalla vita pubblica. Diversamente da quanto accade in Francia, in Germania in epoca romantica la malattia mentale è ritenuta portatrice di una conoscenza diversa ma non inferiore a quella apportata dalla conoscenza razionale, che cessa di essere considerata l'unica tramite la quale è possibile avvicinarsi alla verità. Recenti studi sulla follia condotti da esponenti del postmodernismo quali Van Reijen hanno richiamato l'attenzione sulla stretta correlazione tra la malinconia e la concezione dell'allegoria. Quest'ultima, in quanto rappresentazione visibile di un concetto, contrappone due elementi antitetici (uno percepibile attraverso i sensi e uno astratto) che in essa rimangono distinti, senza essere ricondotti all'unità come accade invece nel simbolo. Secondo Van Reijen questa caratteristica rende l'allegoria adatta a delineare la contrapposizione tra la precaria dimensione terrena e quella divina, presente nelle opere del barocco. Ma oltre a ciò esse appare attuale perché adatta anche a delineare una contrapposizione teorizzata dai sostenitori delle tendenze postmoderne, quella tra la conoscenza umana e i suoi fondamenti teorici, rispetto ai quali essa si dimostra autonoma. La predilezione per la forma espressiva allegorica, che correla elementi opposti senza unificarli, spiega la consonanza del postmoderno con le concezioni artistico- filosofiche barocche. L'allegoria è posta in stretto rapporto con la malinconia poiché induce a privilegiare l'osservazione momentanea della realtà (che è soggetta a cambiare continuamente) e a porre l'azione in secondo piano rispetto alla riflessione. Lo squilibrio tra quest'ultima e la vita attiva, oltre alla consapevolezza che le vicende umane sono instabili, è ritenuto, secondo una concezione sviluppatasi in epoca barocca, all'origine della malinconia. A ciò è connessa la concezione del frammento, che - come i resti di costruzioni architettoniche in rovina spesso presenti nei quadri di epoca barocca - è il simbolo della decadenza e della precarietà dell'esistenza. Il concetto di frammento comprende due aspetti antitetici tipici della malinconia: la precarietà delle cose terrene e la creatività derivante dalla possibilità di scomporre una

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totalità organica nei suoi elementi più semplici, di riscoprirli nella loro essenza originaria, liberi dai vincoli che li uniscono quando essi divengono parte di un'opera completa in tutte le sue parti e di utilizzarli per creare nuove opere. La prospettiva postmoderna rende inoltre conto del carattere interdisciplinare degli studi relativi alla follia, ai quali hanno contribuito molte scienze: la filosofia, la sociologia, la medicina, la storia dell'arte; nel presente lavoro è stata però privilegiata la prospettiva letteraria e solo attraverso di essa vengono affrontate problematiche sociologiche, religiose e filosofiche. Dall'analisi di alcune delle più importanti opere letterarie tedesche riguardanti il tema della follia tra la fine del Settecento e gli anni Settanta del Novecento è emerso che in Germania prende piede una concezione secondo la quale la follia permette di avvicinarsi a una verità non conoscibile con l'ausilio della ragione. La follia permette di accedere alla verità poiché, a differenza del pensiero razionale, induce l'individuo a rapportarsi al mondo senza tener conto delle convenzioni e delle norme della morale; in tal modo viene posta in evidenza sia l'arbitrarietà della distinzione tra il bene e il male sia l'inadeguatezza dei principi religiosi e delle istituzioni sociali. Di idee del genere sono testimoni gli autori più diversi; testi quali la Penthesilea di Kleist e il Lenz di Büchner lasciano intravvedere la possibilità di giungere alla verità attraverso la pazzia, considerata infrazione delle norme morali e dei principî arbitrari che regolano la vita degli individui. Concezioni della pazzia che servono da veicolo a idee costruttive o condivisibilmente critiche si rinvengono anche nel Novecento, in autori che non potrebbero essere più diversi, quali Musil e Bernhard.

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2.Tendenze filosofiche settecentesche e sviluppi dell'antropologia

Nel corso del Settecento si verificò un notevole sviluppo degli studi antropologici, sulla base dei quali si iniziò a ritenere che per comprendere i tanti diversi aspetti che caratterizzano l'essere umano fosse indispensabile unire i contributi apportati sia dagli studi filosofici sia da quelli scientifici; nella prima metà del secolo rimasero però dominanti le tendenze inclini a privilegiare l'approccio scientifico a tutti gli aspetti fisici e psicologici caratteristici della natura umana. Diamo qui rapidissimi cenni sul processo che portò a considerare congiuntamente anima e corpo, favorendo in tal modo un nuovo approccio al problema della follia. Agli inizi del Settecento assunse grande importanza la diffusione e la rielaborazione delle tendenze filosofiche materialiste ed empiriste inglesi seicentesche, quali quelle di Hobbes, Locke e Hume, a opera dei sostenitori del materialismo psicologico (tra cui George Berkeley, David Hartley e J. Priestley). Secondo costoro sussiste un'analogia tra i pensieri e i movimenti del corpo; quest'ultimo è strutturato come un apparato meccanico ed è governato da un organo dell'anima che risponde a leggi proprie. La ricezione delle teorie materiali inglesi ebbe conseguenze significative soprattutto in Francia, dove Julien Offray de Lamettrie, autore del trattato L'homme machine (1748) e principale esponente del materialismo antropologico, delineò la teoria secondo la quale lo studio della natura umana non può prescindere dall'esperienza empirica poiché né la filosofia né la teologia permettono di acquisire una conoscenza approfondita di essa; i veri filosofi sono i medici, che descrivono le caratteristiche del corpo umano e i disturbi che lo affliggono. Contemporaneamente alle tendenze materialiste si affermarono quelle sensiste, che ritenevano prioritaria la conoscenza sensibile rispetto a quella teorica e vennero sostenute tra gli altri da Diderot, Dubos, Helvétius e Malebranche. Secondo quest'ultimo né la conoscenza sensibile né l'immaginazione potevano trarre in inganno l'uomo, poiché provenivano da Dio. Secondo Helvétius sono i fattori esterni - quali l'educazione e il contesto sociale - e non una predisposizione naturale e innata come quella delineata dalla dottrina dei temperamenti a condizionare lo sviluppo dell'animo umano; l'anima è nettamente distinta dall'intelletto (che ha la funzione di osservare analogie, differenze, concordanze, discordanze) e presiede alla percezione delle sensazioni. Diversamente da ciò che era accaduto in Inghilterra e in Francia, in Germania verso la fine del Seicento si erano affermate tendenze non empiriste ma razionaliste, prima fra tutte quella di Leibniz (sostenuta in seguito anche da Christian Wolff): secondo Leibniz l'anima e il corpo sono due forze che costituiscono la monade, l'elemento che costituisce la componente minima di ogni organismo. Il corpo e l'anima formano un'unità e si trovano in un'armonia prestabilita da Dio; l'anima è la forza che governa il corpo

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(il cui funzionamento è meccanico), è presente in ogni parte di esso e racchiude rappresentazioni e verità innate. A un graduale distanziamento dalla concezione razionalista si assiste nel corso del secolo successivo, durante il quale, oltre alle teorie di Lamettrie, si diffuse la tendenza sostenuta dal medico Georg Ernst Stahl. Questi riteneva - diversamente da Leibniz e da Wolff - che l'anima fosse un processo vitale (non un ente metafisico) e che essa governasse il corpo, ne conoscesse gli organi e lo pervadesse interamente. L'esistenza di una connessione tra l'anima e il corpo venne teorizzata da Ernst Platner nella sua Anthropologie für Aertze und Weltweise (1772); l'anima cessa di essere ritenuta spirito immortale e le sue due principali facoltà, la volontà e il pensiero, vengono attribuite rispettivamente al corpo e al cervello. Platner aspira a fondare un'antropologia che possa avvalersi del duplice apporto della fisiologia e della psicologia; alla sua concezione si ispirarono i medici filosofi (dei quali anch'egli è un rappresentante), un gruppo di studiosi che ha operato nella seconda metà del Settecento e le cui concezioni hanno influenzato il pensiero di, Lessing, Herder Lavater e Schiller. I medici filosofi - che mediavano tra le concezioni delineate dai sostenitori del materialismo e dell'empirismo - collaborarono alla rivista "Der philosophische Arzt" che venne pubblicata dal 1773 al 1775 e sulla quale scrissero, tra gli altri, Hissmann, Unzer Weikard, Zimmermann (legato a Wieland da rapporti di amicizia). Weikard si propose di fondare una nuova disciplina (la chiamò Menschenkenntniss) volta a studiare le caratteristiche della natura umana per favorire il progresso morale e politico: l'antropologia, invece di essere ritenuta una parte della fisica come era accaduto fino a quell'epoca, viene indicata come la scienza che studia il rapporto tra l'anima e il corpo avvalendosi anche dell'apporto conoscitivo fornito dalla filosofia. In questo modo viene meno la distinzione tra la filosofia e la fisiologia; la natura umana diviene oggetto di studio da parte, oltre che dei medici, di molti esponenti del panorama letterario dell'epoca, quali Schiller, Wieland, Moritz, Wezel e Jean Paul, che mirano a fondare un'antropologia letteraria volta a studiare le caratteristiche fisiche e psicologiche umane.Agli studi antropologici negli ultimi decenni del Settecento offrono notevoli contributi i romanzi psicologici e le autobiografie (tra i romanzi ricordiamo Don Sylvio von Rosalva e Anton Reiser, scritti rispettivamente da Wieland nel 1764 e da Moritz nel 1790, e i meno noti Tobias Knaut, Belphegor, Hermann und Ulrike, Wilhelmine Arendt scritti da Johann Karl Wezel tra il 1770 e il 1785; il racconto Der Verbrecher aus verlorener Ehre di Schiller, importante per tanti aspetti, lo è anche nell'ottica della presente ricerca); in questo periodo si osserva inoltre una vasta produzione sia di racconti morali (di autori quali Schiller e Meißner) sia di drammi (scritti, tra gli altri, da Gerstenberg, Wagner, Klinger e Schiller) nei quali svolge una parte essenziale lo studio delle caratteristiche psicologiche dei personaggi e dei loro comportamenti.

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2.1. L'antropologia come disciplina mediatrice tra conoscenza empirica e conoscenza razionale: Übers Erkennen und Empfinden in der menschlichen Seele (1774-1775) di J. G. Herder

Nel saggio Übers Erkennen und Empfinden in der menschlichen Seele J. G. Herder (1744-1803) delinea la connessione tra conoscenza teorica (Erkenntnis) e sensazione (Empfindung): egli ritiene che esse siano dipendenti l'una dall'altra e presiedano entrambe in uguale misura alla conoscenza umana. Lo scritto venne recensito da Kant (del quale Herder era stato allievo dal 1762 al 1764 prima di distanziarsi radicalmente dalle sue posizioni), che non lo accolse con favore poiché la concezione antropologica sostenuta in esso era in contrasto con la sua. Un breve confronto con la Kritik der reinen Vernunft (1785) chiarirà le cose. Kant afferma che tutte le esperienze derivanti dal contatto con il mondo vengono assimilate dall'anima in base alle forme innate dello spazio e del tempo e, a un livello più alto, in base alle categorie o concetti puri dell'intelletto; Herder, pur senza negare l'esistenza delle idee innate, afferma che non è innato il contenuto di verità e di falsità racchiuso in esse ma che sono le singole esperienze a poter essere ritenute di volta in volta vere o false. La verità risiede nel processo tramite il quale l'anima si accosta al mondo nel tentativo di comprenderlo. Herder ritiene che la conoscenza teorica non possa esistere senza quella sensibile poiché quest'ultima - anche se fornisce un'immagine solo parziale della realtà - è indispensabile a tutte le creature terrene, che non sono capaci di cogliere l'infinito perciò non riescono a fare a meno dell'ausilio offerto loro dai sensi. La conoscenza e la sensazione sono l'una la gradazione dell'altra: la prima non si approfondisce se non procura godimento (per delineare la connessione tra conoscenza e piacere Herder si ispira al pensiero dei sensualisti francesi, in particolare a quello di Diderot e di Helvétius), la seconda è l'intuizione ancora oscura e imperfetta della conoscenza del mondo e di noi stessi alla quale ci si avvicina progressivamente. L'anima sente di essere unita al corpo, nel quale si riconosce, ma per assimilare ogni elemento esterno e trasformarlo in un processo e in una sostanza propri non può prescindere dalle forze corporee; il pensiero non riesce a svilupparsi senza l'apporto dei cinque sensi, dunque la conoscenza è il risultato della sensazione, che pur essendo limitata è indispensabile. Quest'ultima è il presupposto del pensiero, del quale costituisce la forma visibile; ciascuno dei sensi fornisce all'anima una sensazione e dal complesso delle sensazioni si ricava la conoscenza teorica. Nessuna sensazione, neppure la più oscura, è quindi ingannevole, poiché tutte racchiudono una parte di verità: l'errore è un insieme disordinato di elementi che con il procedere della conoscenza verranno armonizzati fino

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a costituire una totalità organica. Infatti, dal momento che la conoscenza si basa sulla graduale chiarificazione delle sensazioni e sul perfezionamento di esse, ogni percezione sensibile le permette di progredire: tutte le rappresentazioni, anche le più oscure, racchiudono una parte di verità e nessuna sensazione è del tutto ingannevole ma si chiarifica nel corso del progresso conoscitivo. Sul rapporto di interdipendenza tra conoscenza e sensazione verte la seconda parte del saggio, nella quale Herder, dopo aver delineato le divergenze tra le correnti filosofiche dei sensisti (secondo i quali il primato conoscitivo spetta alle sensazioni) e dei razionalisti (secondo i quali non le sensazioni ma le idee innate costituiscono il fondamento della conoscenza umana), media tra queste due opposte posizioni: egli afferma che l'Io di ciascun individuo è innato e si relaziona di volta in volta alle sensazioni derivanti dal mondo esterno ma riesce a percepire solo ciò che è conforme alla sua struttura. Non si nega perciò né l'esistenza di strutture innate (quale è quella dell'Io: "Essa [= l'anima] non può che collegare il suo Io, che le è innato, con quest'ultimo [= il corpo] e con tutti i simboli che incontra) né l'importanza fondamentale dell'apporto delle sensazioni esterne, che tuttavia vengono assimilate nella misura in cui tali strutture lo permettono; l'influsso esercitato sull'anima dai fenomeni percepiti viene avvertito solo se essi sono di natura analoga a quella dell'anima, poiché unicamente in questo caso possono agire su di essa. Risulta evidente che il rapporto tra il corpo e l'anima non prescinde dalla compenetrazione di conoscenza e sensazione: il corpo è il fenomeno dell'anima (cioè un aggregato armonico di parti nel quale ciascun elemento ha la propria collocazione, come accade in natura) e un insieme di forze senzienti che ha sede in essa; dell'anima, che a sua volta conferisce senso e organicità alle singole parti che compongono il corpo, non si sa però nulla apriori (nessuno sa come gli individui si sono formati nello spazio e nel tempo), dunque essa può esistere solo se è legata al corpo. La conoscenza procede per gradi: inizialmente si basa sulle sensazioni che vengono percepite attraverso il corpo; in seguito, quando esse cessano di essere immediate e dirette, progredisce grazie alla facoltà mnemonica, che fornisce una sintesi delle sensazioni, le rielabora tramite l'immaginazione e le rende più astratte. Il processo di astrazione raggiunge il culmine quando l'intelletto, che mira a scoprire, a comprendere, a riprodurre le leggi naturali, seleziona gli elementi da ricordare e ricava da essi le conoscenze teoriche. Anche se il processo tramite il quali le sensazioni vanno a costituire la conoscenza astratta è analogo in tutti gli uomini, ciascuno di loro assimila gli elementi del mondo esterno in base alla propria cultura e crea un mondo a sé; è saggio chi riesce a ricavare il maggior numero di conoscenze dalle esperienze fatte e a utilizzare al meglio ciò che ha appreso. Alla riflessione sul carattere individuale delle sensazioni e della conoscenza segue quella sulla follia: Herder osserva che la pazzia di ciascun

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malato di mente è diversa dalle altre, nello stesso modo in cui sono diversi i pensieri e le sensazioni dei singoli. Inoltre la base più profonda delle emozioni e delle passioni eccessive - proprio come quella della follia - è individuale e incomunicabile; se ciascuno riuscisse a esprimere con esattezza i propri sentimenti si ascolterebbero cose incredibili e tuttavia vere. La terza e ultima parte del saggio verte sulle diverse caratteristiche degli individui; in essa vengono delineati due diversi tipi di caratteri umani e sono presenti altre considerazioni sulla follia. La stretta connessione tra corpo e anima e l'influsso reciproco esercitato dall'uno sull'altra vengono studiati dalla fisiognomica, che contribuisce in gran parte al progresso della conoscenza del mondo; alla fisiognomica Herder attribuisce una notevole importanza poiché la ritiene l'unica scienza che permette di comprendere le caratteristiche dell'anima (della quale il corpo è il simbolo). Herder distingue il carattere forte, chiuso, concentrato sulla propria interiorità da quello aperto, allegro, energico e capace di cogliere i tanti aspetti della realtà. Il primo - definito "genio profondo" - è poco diffuso; gli individui che lo possiedono tendono a essere poco equilibrati e rischiano di perdere la ragione poiché certi loro organi vengono meno mentre altri si sviluppano in eccesso. Esiste quindi un'inclinazione naturale alla follia: gli individui geniali non sono equilibrati poiché hanno organi più sviluppati di altri, qualità, sensazioni e istinti più forti per cui la genialità può condurli alla follia; i malati di mente rinchiusi nei manicomi sono in gran parte persone di questo tipo, molte delle quali vivono però libere in società. Fondamentale è anche l'inclinazione al bene o al male, che potenzia alcuni aspetti del carattere ed è definita buona o cattiva genialità; secondo Herder non si può operare una netta distinzione tra genio e carattere poiché l'uno influisce sull'altro. Dopo aver descritto i due principali caratteri umani (a ciascuno dei quali corrispondono, in linea con i principî della fisiognomica, precise caratteristiche fisiche), Herder delinea la propria concezione della storia, che consiste in un processo di graduale chiarificazione della conoscenza umana: il progresso si basa sulle conoscenze acquisite (la cui validità è stata già verificata perciò non necessita di essere messa nuovamente in discussione) e non ha mai fine.

2.2. Gli studi di fisiognomica e la concezione della malinconia

Nella seconda metà del Settecento viene gradualmente abbandonata la concezione secondo la quale la tendenza alla malinconia è riconducibile a determinate caratteristiche fisiche dell'individuo o a fattori climatici e ambientali. L'inclinazione a stabilire una corrispondenza tra questi ultimi e

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l'aspetto e il carattere umani si era diffusa prima in Francia, dove era stata sostenuta da Montesquieu e da Dubos, e in seguito in Germania con il pensiero di Lavater. Questi afferma nell'opera Physiognomik (1775-1778) che l'aspetto esteriore dell'individuo è una delle tante forme di espressione dell'ordine divino del mondo; le singole caratteristiche fisiche e psicologiche umane, determinate in base ai principî della fisiognomica, non subiscono modifiche nel corso della vita e sono indice della moralità di colui che le possiede. La spiegazione si appella alla teologia: il corpo umano, ricorda Lavater, è creato a immagine divina. Dalla concezione di Lavater si distanziano sia Lichtenberg (autore del saggio Über Physiognomik; wider die Physiognomen, 1777) sia Schiller (autore dello scritto Versuch über den Zusammenhang der tierischen Natur des Menschen mit seiner geistigen,1780), secondo i quali la natura umana è invece soggetta a mutare nel corso del tempo e le caratteristiche psicologiche degli individui - compresa la tendenza alla malinconia e alla follia - vanno ricondotte al rapporto che sussiste tra l'anima e il corpo. La concezione schilleriana - esposta nella dissertazione Philosophia physiologiae (1779) elaborata alla fine del corso di studi presso la Hohe Karlsschule di Stoccarda - si avvale di contributi derivanti sia dalla scienza medica sia dalla filosofia; essa infatti si ispira non solo alle teorie di Johann Joachim Spalding, il quale nel trattato Betrachtung über die Bestimmung des Menschen (1748) afferma che l'uomo può perfezionarsi illimitatamente dal punto di vista intellettuale perché la sua anima è immortale, ma anche a quelle di Friedrich Hoffmann e Albrecht von Haller, secondo i quali il sistema nervoso è l'organo che presiede ai processi organici e i disturbi che lo colpiscono sono provocati da malattie che affliggono l'intero organismo. Un decisivo influsso sul pensiero di Schiller era stato esercitato anche dagli studi condotti da alcuni docenti della Karlsschule (primi tra tutti Abels e Consbruch) sull'incidenza del clima, del nutrimento e dell'attività fisica sul benessere dell'anima. Schiller riteneva - in accordo con i principî della filosofia cartesiana - che l'anima e il corpo, corrispondenti rispettivamente alla res cogitans e alla res extensa, fossero sostanze totalmente diverse, mediate da un terzo elemento, definito res media. L'esistenza di una forza mediatrice (Mittelkraft) era stata postulata da Carl Casimir von Creuz intorno alla metà del Settecento e in seguito anche da Oetinger, il quale riteneva che la connessione tra anima e corpo - quindi l'unione di res cogitans e res extensa - fosse possibile poiché l'anima riusciva a penetrare nelle varie parti del corpo. Secondo Schiller la forza mediatrice è l'elemento tramite il quale l'anima è unita al mondo circostante; essa ha sede nei nervi, che consentono all'individuo sia di muoversi sia di percepire le sensazioni provenienti dalla realtà esterna. La doppia natura spirituale e corporea dell'uomo è il presupposto della sua capacità di perfezionarsi moralmente. L'esigenza di delineare la correlazione tra l'anima e il corpo si rafforza nella seconda metà del Settecento, durante la quale tuttavia non vengono

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ritenute del tutto superate la teoria dei temperamenti e la concezione che riconduce all'influsso dei pianeti determinate inclinazioni psicologiche umane, tra le quali la tendenza alla malinconia e alla sensualità. In questo periodo vengono scritti numerosi trattati di fisiologia e di fisiognomica (tra i quali ricordiamo il Beitrag zur Charakteristik der Menschheit di Schack Hermann Ewald, il Denkmal des Herrn Johann Nikolaus Meinhard di Friedrich Justus Riedel, pubblicati rispettivamente nel 1784 e nel 1768, il Versuch über die Temperamente di Heinrich Wilhelm Lawätz nel 1777). Si continua a sostenere - in accordo con la concezione delineata nella Anatomy of Melancholy (1621) di Robert Burton, in cui si stabilisce una correlazione tra lo stato d'animo malinconico e la contemplazione della natura creata da Dio - che l'osservazione del mondo circostante predisponga l'individuo alla passività e all'inattività poiché lo rende incline a riflettere sulla precarietà della vita. Ciò induce a ritenere ancora valida la concezione sostenuta nell'antichità da Platone e da Orazio, e in seguito da Marsilio Ficino, secondo la quale il temperamento malinconico, la creatività e la genialità sono correlati, dunque gli individui geniali sono passivi e creativi allo stesso tempo. La concezione settecentesca della malinconia si colloca tra tradizione e innovazione, tanto che ancora alla fine del secolo nella trilogia del Wallenstein (1799) Schiller si richiama alle credenze astrologiche appartenenti ai secoli precedenti, che riconducono la malinconia all'influsso di Saturno e che svolgono nel dramma la funzione di sostituire gli dèi e le apparizioni numinose, fondamentali nella tragedia antica ma per le quali non vi è più posto nel mondo moderno. Le conoscenze relative alla teoria degli influssi planetari sull'uomo, acquisite da Schiller in seguito alla lettura dei Dialoghi d'amore scritti nel 1535 da Leone Ebreo, della Astrologia naturalis (1687) di Antonio Francisco de Bonattis e del De occulta philosophia (1531) di Agrippa von Nettesheim, vengono impiegate per definire il carattere del protagonista Wallenstein, che ha tratti psicologici tipici degli individui malinconici: è più incline alla passività che all'azione, si interessa di magia, di scienze occulte e di arte e tende ad abbandonarsi all'immaginazione senza tentare di realizzare i propri desideri.

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3. Cause della follia e della malinconia

3.1. Malinconia e religiosità

La crisi dell'Io che inizia a delinearsi nella seconda metà del Settecento viene ricondotta da alcuni studiosi alla condizione di debolezza politica ed economica della borghesia tedesca e da altri all'affermazione e alla diffusione dei principî del movimento religioso pietista, che favorivano la riflessione su se stessi e l'analisi delle azioni compiute. La condotta di vita teorizzata dagli esponenti del pietismo, il cui iniziatore fu Philipp Jakob Spener (1635-1705), era volta a limitare i piaceri e i divertimenti mondani (tra i quali era compreso anche il teatro) e a valorizzare l'interiorizzazione della religione, che doveva configurarsi quale rapporto diretto tra l'uomo e Dio. Il pietismo favoriva perciò l'isolamento e il ripiegamento su se stessi sia nella pratica religiosa sia nel rapporto tra individuo e società, poiché l'unica forma di socializzazione consentita era la frequentazione della comunità dei fedeli. La correlazione tra malinconia e religiosità domina nelle opere di Jung-Stilling, di Lavater, di Adam Bernd, di Gellert, di Albrecht von Haller. Nell'autobiografia del predicatore evangelico Adam Bernd, intitolata Eigene Lebens-Beschreibung (1745), l'autore si avvale delle proprie conoscenze di filosofia, di psicologia, di teologia e di esperienze vissute per descrivere il proprio carattere malinconico; egli ritiene che la genesi della malinconia debba essere ricondotta in primo luogo a un eccesso di immaginazione (che indebolisce la volontà dell'individuo), in secondo luogo a condizioni ambientali e sociali e ai rimorsi di coscienza provocati dalla consapevolezza di aver peccato. Nella concezione delineata da Bernd si uniscono due aspetti diversi: quello religioso, di matrice pietistica, e quello di matrice illuministica, al quale è riconducibile il tentativo di condurre un'analisi empirica delle cause della malinconia. Nelle opere di Gellert e di Albrecht von Haller, intitolate rispettivamente Der schwermüthige Tugendhafte (1770) e Fragmente Religioser Empfindungen (pubblicati postumi nel 1787 e costituiti da frammenti di diario), si osservano due diversi modi di rapportarsi ai principî del Pietismo: Gellert muove critiche a essi e li ritiene all'origine della malinconia poiché suscitano nei fedeli il timore del giudizio divino, li costringono a rinunciare ai piaceri della vita per perfezionarsi moralmente e li vincolano a rigide norme morali; Haller invece si attiene rigidamente alle prescrizioni religiose, descrive la propria sofferenza interiore derivante dai rimorsi per i peccati commessi, riflette sulle azioni compiute, le giudica e giunge perfino a rallegrarsi dei disturbi fisici che lo affliggono poiché essi gli impediscono di cedere alle tentazioni mondane. Secondo Gellert l'approccio alla religione deve essere privo di fanatismo;

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sul fanatismo in epoca tardo-illuministica vennero condotti studi dal predicatore olandese Johannes Stinstra, autore dello scritto Warnung vor dem Fanaticus (tradotto in tedesco nel 1752), e da Johann Joachim Spalding, che nel trattato Gedanken über den Werth der Gefühle in dem Christenthum (1761) individua l'origine del fanatismo nell'inclinazione - favorita dai principî del pietismo - a riflettere sul proprio comportamento, ad abbandonarsi al predominio dei sentimenti e delle sensazioni, che sfuggono al controllo della ragione; contro la tendenza al fanatismo si schierano anche Wieland, Moritz, Jung-Stilling, Spieß e alcuni collaboratori della rivista "Magazin zur Erfahrungsseelenkunde", pubblicata in dieci volumi da K. Ph. Moritz e altri dal 1782 al 1792. La polemica del "Magazin" contro il fanatismo viene condotta principalmente da Pockels, uno dei sostenitori del pensiero illuministico, che condanna apertamente l'inclinazione al fanatismo e afferma che esso è provocato sia da cause esterne (tra le quali il tipo di educazione ricevuta e la predisposizione fisica) sia da un eccesso di immaginazione, alla cui origine è la tendenza alla malinconia e all'inattività.

3.1.1. La follia provocata dall'eccessiva immaginazione in Don Sylvio von Rosalva (1764) di Ch. M. Wieland (1733-1813)

Nel corso del Settecento tedesco la letteratura diviene il mezzo privilegiato per descrivere l'intera natura umana, vizi, carenze e debolezze compresi; sui disturbi mentali e sulla cura di essi verte il romanzo Don Sylvio von Rosalva, in cui la follia non viene ricondotta a forze soprannaturali (divine o demoniche) e si ritiene che essa svanisca non appena l'individuo impara a relazionarsi correttamente alla realtà. Questo approccio razionale al mondo e alla mente umana, pur essendo innovativo rispetto a quello adottato nelle epoche precedenti, trascura il fatto che le cause scatenanti della follia non rimangono esterne all'individuo ma possono venire introiettate da lui e divenire parte integrante della sua personalità, perciò non è sufficiente rimuoverle per guarire dalla follia. Il romanzo, iscritto nella tradizione del romanzo comico, risente l'influsso del Don Chisciotte (1605-15) di Cervantes, il cui protagonista diviene pazzo dopo aver letto molti libri di cavalleria e vive avventure incredibili per difendere e conquistare l'amata Dulcinea, che non è né bella né virtuosa come le dame amate dai cavalieri dei tempi passati. Le avventure del protagonista dell'opera di Wieland, Don Sylvio, sono in parte analoghe a quelle di Don Chisciotte, che nel corso dell'opera viene nominato più volte: egli si innamora di una fanciulla e, allontanatosi dalla propria abitazione, vive

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una serie di avventure in compagnia del suo servitore Pedrillo (un personaggio che ha tratti simili a quelli dello scudiero di Don Chisciotte, Sancho Panza). Tra i romanzi di Wieland e di Cervantes vi è però una fondamentale differenza, poiché, mentre nel Don Chisciotte ci si interroga sulla natura dell'Io, in Don Sylvio viene condotta una riflessione meno ampia, riguardante esclusivamente il rapporto tra fantasia e realtà e finalizzata a comprendere come ci si debba rapportare al mondo. Con la frase "So io chi sono", pronunciata da Don Chisciotte, ha inizio in letteratura la concezione secondo la quale l'Io si costituisce nella finzione, perciò l'identità si compone non solo di ciò che si è ma dei progetti futuri, sebbene la progettualità si riveli a una più attenta osservazione solo fantasia, in quanto niente di ciò che si desidera realizzare si verifica esattamente come lo si è immaginato. Nel Don Sylvio von Rosalva non emerge una nuova concezione dell'identità; la conclusione alla quale si giunge è che tutto ciò che all'apparenza sembra fantastico ha una spiegazione naturale, quindi l'unico approccio corretto alla realtà è quello razionale e chi, come il protagonista, lascia troppo spazio alla fantasia. rischia di divenire folle. Il romanzo, suddiviso in sette libri preceduti da un'introduzione, verte sulla vicenda del diciottenne Don Sylvio, che vive presso una ricca zia e dedica gran parte del proprio tempo alla lettura dei libri di fiabe. Ben presto il ragazzo si convince che ciò che legge corrisponde a verità e quando un giorno trova nel vicino bosco un medaglione contenente il ritratto di una bella fanciulla, immagina che la giovane sia stata tramutata in farfalla da una fata, perciò si propone di cercarla e di restituirle sembianze umane. Nel frattempo la zia di Don Sylvio, Donna Mencia, organizza una festa per favorire il fidanzamento tra il nipote e una brutta ma benestante ereditiera; durante il ricevimento Don Sylvio si allontana e la mattina dopo parte alla ricerca della farfalla in compagnia di Pedrillo. Nel corso del viaggio i giovani incontrano prima due belle fanciulle, Donna Felicia - una ricca vedova - e la sua cameriera Laura (le quali si innamorano rispettivamente di Don Sylvio e di Pedrillo), e poco dopo due cavalieri, Don Gabriel (fratello di Felicia) e Don Eugenio, innamorato di una giovane di umili origini di nome Giacinta. Tutti si accorgono degli strani comportamenti di Don Sylvio, perciò Don Gabriel tenta di farlo rinsavire raccontando la fiaba del principe Biribinker. In essa vengono narrate le vicende dell'omonimo protagonista, che si innamora di una lattaia sotto le cui spoglie si cela la principessa Galantine e riesce a sposarla dopo aver vissuto numerose avventure galanti con personaggi da fiaba quali le silfidi, le ondine, le salamandre, aiutato in una occasione dal mago Karamussal. La storia del principe - che, come Don Sylvio, fugge dalla reggia paterna per raggiungere l'amata - ricorda sotto certi aspetti quella del protagonista del romanzo; questi crede immediatamente alla fiaba narratagli, ma quando Don Gabriel dimostra che essa è tutta

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opera della sua propria immaginazione, guarisce finalmente dalla follia e Donna Felicia accetta la sua corte. Si scopre poi che Giacinta è la sorella di Don Sylvio, rapita in tenera età da una zingara e data per morta; dal momento che ella è nobile, nulla ostacola più il suo matrimonio con Don Eugenio. Questi e Don Sylvio partono per un lungo viaggio di istruzione che si protrae per due anni, accompagnati da Pedrillo; al loro ritorno si celebrano le nozze tra Don Sylvio e Donna Felicia e tra Pedrillo e Laura, con grande soddisfazione di Donna Mencia. Questi sono, in sintesi, i contenuti del romanzo, nel quale il narratore ribadisce la superiorità dell'approccio razionale alla vita: nella prefazione egli riporta l'opinione espressa su di esso da un sacerdote che giudica quello stesso romanzo un efficace rimedio contro la follia poiché vi vengono messe in ridicolo le passioni eccessive e l'irrazionalità dei comportamenti umani. In seguito elenca le cause dalle quali è derivata la follia di Don Sylvio. Esse sono l'isolamento sociale, la vita in campagna - poiché coloro che vi abitano, i contadini, sono particolarmente superstiziosi - e l'eccessiva lettura di libri di fiabe. Secondo il narratore la follia può essere curata solo eliminando i fattori che l'hanno provocata; ciò trova conferme nelle conclusioni alle quali giunge Felicia durante un dialogo con Laura, nel corso del quale la giovane afferma che la follia di Don Sylvio ha iniziato a manifestarsi quando Donna Mencia ha tentato di fargli sposare una donna che egli non amava, ostacolando così la sua passione per la principessa con sembianze di farfalla.Secondo Laura Don Sylvio è vittima di una pazzia innocua e passeggera: egli è dotato di una vivace immaginazione, alimentata dalla lettura di libri di fiabe, e non appena incontrerà una ragazza adeguata a lui se ne innamorerà e rinsavirà; anche Pedrillo è di questa opinione e afferma che Don Sylvio - a differenza delle vittime degli incantesimi - avverte lo stimolo della fame e della sete e quindi è sano. Il protagonista intrattiene un rapporto distorto con la realtà che lo circonda e, dal momento che non ha esperienza di vita e ha pochi contatti con gli altri, è portato a credere a tutto ciò che legge, senza domandarsi se i contenuti delle fiabe siano realistici o solo frutto della fantasia; la sua follia non è perciò provocata da una malattia mentale o fisica e non è grave come sembra. Nonostante il giovane attribuisca gli eventi che accadono alle cause più fantasiose e improbabili ("Ogni volta che gli accadeva un evento insolito, lo riconduceva immediatamente alla causa meno verosimile rispetto al corso della natura"), egli non manca di razionalità e di astuzia poiché riesce a sottrarsi alle attenzioni della poco avvenente ragazza che sua zia ha scelto per lui e mantiene la calma in situazioni difficili (dopo essere fuggito da casa e giunto in un bosco rincuora Pedrillo, che ha scambiato gli alberi per giganti, e afferma che non lo sono; è però convinto che durante le sue peregrinazioni incontrerà veri giganti).

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Don Sylvio non è quindi un pazzo vero e proprio; quando Felicia parla delle condizioni dell'amato al fratello, questi la rassicura affermando che Don Sylvio guarirà non appena imparerà a valutare realisticamente il mondo che lo circonda; la fantasia lascerà posto alle sensazioni e i pregiudizi del giovane - incline a interpretare ogni evento in modo assai poco verosimile - svaniranno definitivamente. L'unico rimedio alla follia sembra essere l'esperienza di vita; tuttavia essa favorisce solo in parte la guarigione del giovane, che inizia a rinsavire nel corso di un sogno. Poco dopo aver conosciuto Felicia, egli si addormenta e sogna l'amata nella sua figura reale, non più in quella di un personaggio da fiaba ("Gli sembrò di vedere la sua amata principessa, non però nelle sembianze di una pastorella o di una farfalla ma nelle sue proprie") e riconosce che le creazioni della natura superano quelle l'immaginazione. Felicia è più bella e perfetta nella realtà rispetto a come gli appare nella fantasia:

Si sforzava il più possibile di immaginarsi la presunta principessa ancora più perfetta di Donna Felicia, ma, sia forse perché la fantasia non riesce a produrre creazioni più perfette di quelle della natura, sia perché l'amore in questa occasione gli giocava uno dei suoi consueti scherzi, è certo che l'immagine della bella Felicia era ogni volta al posto di quella della principessa e tutti i tentativi di Don Sylvio di figurarsi quest'ultima con tratti diversi risultavano vani.

Dopo l'incontro con la giovane Don Sylvio vede svanire come un sogno la sua vita precedente; questo è il presupposto della sua guarigione, che avviene definitivamente dopo che egli ha ascoltato la spiegazione della fiaba di Biribinker. La follia non è però solo un travisamento della realtà ma - pur operando con mezzi diversi da quelli della ragione - racchiude una parte di verità: Don Sylvio, parlando con l'amata, si accorge di aver sbagliato a ritenere che il ritratto contenuto nel medaglione trovato nel bosco fosse quello di Felicia, ma il suo errore risulta meno inverosimile di quel che si potrebbe pensare poiché la persona ritratta è la nonna della ragazza, alla quale costei assomiglia moltissimo. I ragionamenti irrazionali e fantasiosi di Don Sylvio e le sue intuizioni non sono quindi del tutto errati; anche la sua guarigione viene provocata da elementi che si sottraggono alle leggi del mondo reale, quali il sogno e la passione amorosa. Da una parte si tenta perciò di spiegare razionalmente la genesi della follia, dall'altra si riconosce che il confine tra realtà e immaginazione non è netto come potrebbe sembrare poiché la natura suscita spesso fantasie ingannevoli. Un effetto analogo a quello prodotto dalle forze naturali è esercitato dal sentimento amoroso, che il narratore ritiene una legge naturale alla quale

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non ci si può opporre (come dimostrano le esperienze di Felicia, che prova immediatamente simpatia per Don Sylvio addormentato appena lo vede, e di Giacinta, alla quale l'amore in più di un'occasione ha confuso i sensi indipendentemente dalla sua volontà) simile a quelle che regolano la forza di gravità e l'attrazione magnetica. Sul paragone tra amore e forza di gravità verte il saggio Ursprünglicher Geister- und Körperzusammenhang nach Newtonischem Geist scritto dal medico Jakob Hermann Obereit, amico di Wieland, alcuni anni dopo la pubblicazione di Don Sylvio von Rosalva. Obereit sviluppa una concezione unitaria del mondo: egli stabilisce un'analogia tra l'attrazione tra i corpi provocata dalla forza di gravità e la forza dell'attrazione amorosa, deducendo da ciò che il mondo fisico e quello spirituale sono sottoposti alle stesse leggi. Una delle principali caratteristiche dell'amore è quella di stimolare l'immaginazione oltre misura, come dimostra la tendenza degli innamorati a dubitare di essere amati e ad assumere comportamenti irrazionali e inspiegabili. Don Eugenio riconosce che la vanità, la noia, l'abitudine possono essere dominate, ma non il vero amore; egli racconta che dopo essersi innamorato di Giacinta solo la presenza di lei riusciva a renderlo felice. Il sentimento amoroso rende gli individui inclini a sottrarsi alle regole imposte dal buon senso, perciò è una possibile causa della follia; ma permette anche di guarire da essa. Nel romanzo comincia a emergere una nuova concezione dell'amore, affermatasi poi in epoca romantica, secondo la quale alla passione amorosa - che è irrazionale, indipendente da condizionamenti economici e di ceto - non possono essere imposti limiti: i legami d'amore sono basati unicamente sull'intesa spirituale e fisica tra gli amanti, che si scelgono liberamente l'un l'altro. In Don Sylvio von Rosalva, nonostante i numerosi accenni alla forza dell'amore, le problematiche relative alle differenze sociali occupano ancora un ruolo di primo piano; non viene infatti ritenuto possibile che un nobile sposi una fanciulla di umili origini e si afferma che solo le donne ricche o nobili sono degne di rispetto. Le considerazioni sulle caratteristiche dell'amore offrono al narratore lo spunto per polemizzare contro i moralisti, i quali pretendono di correggere la natura e di imporle regole da loro stabilite, ritenendo per di più che sia possibile porre un freno alla passione amorosa. Questi individui esprimono le loro opinioni su tutto e hanno sempre una soluzione per ogni evenienza; a loro parere per limitare la follia provocata dalla passione amorosa l'innamorato dovrebbe fuggire dalla persona ama e tentano di conciliare passione e saggezza con risultati fallimentari, poiché ai sentimenti e alle pulsioni non si possono imporre regole. Come osserva il narratore, questi suggerimenti sono inutili poiché, oltre a non venire seguiti da coloro ai quali sono destinati, li incoraggiano ad assumere i comportamenti proibiti. I moralisti (definiti anche egoisti) tendono a formulare leggi universalmente valide ma non rispettano le differenze di

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carattere tra gli individui; la prospettiva dalla quale essi osservano la realtà è tendenziosa e finalizzata a giudicare i comportamenti altrui operando una tanto netta quanto arbitraria distinzione tra la buona e la cattiva morale. La contrapposizione tra bene e male è fondata sui pregiudizi, che sono inadeguati a conoscere e valutare le tante diverse situazioni della vita, ma allo stesso tempo sono indispensabili poiché ciascuno impara a conoscere il mondo e a prendere decisioni autonome sulla base di essi: il narratore ribadisce perciò l'importanza dei pregiudizi, pur affermando che questi ultimi non devono essere accettati acriticamente ma rapportati alle singole vicende nelle quali gli individui vengono a trovarsi.

3.2. Malinconia e ruolo sociale

Nel corso del Settecento le malattie psichiche vengono ricondotte a svariate cause: in ambiente illuministico ci si attiene ancora alla teoria medievale dei temperamenti e si ricerca l'origine della malinconia in una determinata predisposizione fisica che influenza anche il carattere dell'individuo, mentre viene gradualmente abbandonata e ritenuta frutto della superstizione la credenza secondo la quale i pianeti esercitano su di esso influssi tali da favorire una predisposizione ai disturbi mentali. Questi ultimi vengono ricondotti a fattori esterni (il clima e il contesto sociale) e a particolari caratteristiche fisiche (tra le quali una determinata composizione del sangue), responsabili dei loro tratti caratteriali - l'invidia, l'avidità, l'insicurezza, l'ipersensibilità - e dei loro comportamenti (la tendenza ad abbandonarsi all'immaginazione, a travisare la realtà, a divenire ipocondriaci, a isolarsi dalla società). Negli ultimi decenni del secolo si assiste in Germania a una crescente crisi del rapporto tra l'individuo e le istituzioni statali, riconducibile (secondo Lepenies, alle cui tesi mi associo) alla particolare condizione in cui viene a trovarsi la borghesia tedesca, la cui scarsa affermazione economica e politica viene compensata da quella artistica e intellettuale. Gli appartenenti alla borghesia - a differenza di quanto accade in altri Paesi europei - non hanno un ruolo di primo piano nella vita pubblica, perciò tendono ad allontanarsi da essa e a preferire la dimensione privata; questo atteggiamento favorisce l'inclinazione a isolarsi, a riflettere su se stessi, a valorizzare gli interessi culturali e i rapporti di amicizia. Vi è una correlazione tra l'isolamento dalla società e la crisi dell'Io: la crescente sfiducia nei confronti dell'istituzione statale è all'origine della ricerca della solitudine e della volontaria esclusione dalla vita comunitaria. La malinconia che affligge i borghesi tedeschi è una condizione strettamente individuale, non collettiva come quella che si osserva in Francia (in cui essa riguarda gli appartenenti alla nobiltà, privati dal sovrano del potere politico che spetterebbe loro e annoiati

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da un'esistenza frivola e abitudinaria). Essa si radica nei principî del movimento pietista, che valorizza la riflessione dell'individuo su di sé e sulle proprie manchevolezze; inoltre il volontario ritiro dalla vita attiva è un atto di affermazione dell'identità poiché è il risultato di una decisione personale e un allontanamento dai modelli di comportamento prescritti dalle norme sociali. La malattia mentale si manifesta, come osserva Peter Von Matt, non appena l'individuo si accorge che le norme e le leggi che regolano il mondo in cui vive sono inaccettabili o errate e, non essendo in grado di modificarle, si ritira in un mondo interiore che non si basa sulle norme imposte dalla ragione; la follia non può quindi essere ritenuta un delirio dell'immaginazione bensì una vera e propria attività interiore derivante dalla mancata affermazione personale nella vita attiva e, conseguentemente, in quella affettiva; la correlazione tra la follia e il fallimento lavorativo e amoroso si osserva in Die Leiden des jungen Werthers (1774 prima edizione; seconda edizione, con titolo lievemente cambiato - Die Leiden des jungen Werther - è del 1787; ci riferiremo a questa), Wilhelm Meister Lehrjahre (1796), Torquato Tasso (1790) di Goethe e in Penthesilea (1808) di Kleist. Sin dall'epoca dello Sturm und Drang i principali aspetti che caratterizzano il comportamento malinconico (l'inclinazione alla passività e alla creatività, l'eccesso di sensualità, i sensi di colpa, la consapevolezza della precarietà della vita) divengono tematiche fondamentali di opere letterarie; oltre al Werther goethiano ricordiamo i drammi di Klinger, Leisewitz e Lenz, i personaggi dei quali tendono a ritenere immutabile l'ordine del mondo (ciò si osserva nell'uso di espressioni linguistiche costituite da formule fisse, ripetute spesso), a privilegiare la memoria del passato rispetto agli eventi del presente e ai progetti per il futuro, a concepire la passione - soprattutto quella amorosa - come portatrice di sofferenza.

3.2.1. J. W. Goethe, Die Leiden des jungen Werther (1787, 2° edizione)

Il personaggio di Werther è il prototipo dell'individuo malinconico all'epoca dello Sturm und Drang: egli è dotato di una grande sensibilità, alla quale si accompagna però una notevole fragilità psicologica, e non riesce a superare le difficoltà della vita. Egli, deluso sia dalla carriera sia dai rapporti sociali, si lascia sopraffare dalla forza della passione; l'irrazionalità dei suoi comportamenti diviene man mano più evidente e la sua condizione mentale lo rende simile a un pazzo, tanto che egli, quando circa un mese prima di suicidarsi ne incontra uno, si identifica con lui. Il romanzo si apre con la prima lettera scritta da Werther, appena giunto

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in una cittadina per occuparsi della gestione di un'eredità, all'amico Wilhelm; poco tempo il giovane si innamora di una ragazza, Lotte, che è già promessa in sposa al fidanzato Albert. I tormenti dell'irrealizzabile passione amorosa inducono Werther a trasferirsi altrove per dimenticare l'amata e a impiegarsi alla corte di un principe; il tentativo fallisce poiché nel nuovo impiego il giovane si trova a disagio; non è quello il suo mondo, non è quella la società che vorrebbe frequentare; ma dal suo canto quella società non è disposta ad accoglierlo e per diverse sensibilità dalle due parti si arriva perfino allo scandalo. Pochi mesi dopo Werther torna da Lotte (la quale nel frattempo si è sposata) e le fa visite sempre più frequenti. Tutti si accorgono dell'infelicità e della malinconia che affliggono Werther: Lotte lo esorta ad allontanarsi da lei per cercare una ragazza che ricambi il suo amore, ma il giovane non segue questo consiglio e in un'occasione le dichiara con slancio i propri sentimenti. Dal momento che l'amata rifiuta di incontrarlo ancora, egli decide di suicidarsi; si fa prestare una pistola dal marito di Lotte, si spara un colpo alla testa e muore dopo alcune ore di agonia. Il romanzo è epistolare, ma le lettere, tutte rivolte da un solo autore al medesimo destinatario, mancano della risposta: Werther sfugge a un Tu vero, all'amata Lotte così come al suo corrispondente Wilhelm. Il protagonista, pur sapendo di essersi cacciato deliberatamente in una situazione senza uscita, non riesce a superare le contraddizioni che lo porteranno alla morte. All'inizio egli sembra un personaggio felice e allegro ma, come diviene chiaro nel corso del romanzo, l'allegria cela una profonda malinconia, immediata conseguenza del rapporto instaurato con la natura e con la società, con le quali il protagonista non si trova in armonia Werther ritiene di aver raggiunto una perfetta sintonia con la natura, però è consapevole di non riuscire a comunicare queste sensazioni in maniera efficace alle persone che lo circondano; inoltre non ha voglia di svolgere una vita attiva (si occupa di un'eredità ma non vuole parlarne; intraprende una carriera diplomatica ma la fallisce perché non accetta le regole sociali), idealizza il sentimento sfrenato e la mancanza di regole. Werther è un dilettante perché non stabilisce tecniche con le quali conseguire i suoi fini, si lascia dominare dalle sensazioni e non ha un progetto di vita. Werther apprezza la lettura dell'opera di Omero poiché essa gli permette sia di abbandonarsi all'immaginazione - che rimane fine a se stessa, passiva e non proiettata nel futuro - sia di coltivare la propria inclinazione a immedesimarsi con la natura fino ad abbandonare la propria individualità; il giovane non interviene sul mondo ma vuole diventare lui stesso il mondo, non seleziona gli elementi della realtà, non li interpreta, non agisce, perciò va incontro a una progressiva perdita del senso della realtà. L'identificazione totale con la natura gli impedisce di svolgere qualunque attività; egli rinuncia perfino a dedicarsi a una delle sue passioni, il disegno, dal momento che rifiuta di seguire regole precise. Werther dunque non ama le leggi e non si interessa al suo io economico

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e sociale; ne è prova uno spiacevole contrattempo in cui egli incorre durante una visita al conte von C., al termine della quale sopraggiungono alcuni membri della nobiltà che si apprestano a iniziare una riunione. Werther, che non è nobile, sa bene di non potervi partecipare ma invece di allontanarsi decide di restare perché il desiderio di godere della compagnia di una ragazza presente alla riunione prende il sopravvento; non appena il conte lo congeda egli, profondamente deluso, si reca su un colle per osservare il tramonto e dedicarsi alla lettura di Omero: il suo comportamento non è mosso da un intento di ribellione alle norme sociali che assegnano alla nobiltà un ruolo privilegiato rispetto a quello della borghesia, ma dall'incapacità di controllare le proprie emozioni. In questo episodio W. Lepenies ha individuato il prototipo di un comportamento che induce gli appartenenti alla borghesia tedesca di fine Settecento a ritirarsi volontariamente dalla vita attiva rinunciando così al proprio ruolo sociale. L'assenza di una riflessione sul ruolo da parte di Werther ha conseguenze importanti poiché aggrava la sua condizione di isolamento ; alla costituzione dell'identità del protagonista non contribuisce neppure il senso di colpa che lo tormenta, provocato dall'innamoramento per una donna sposata. L'atteggiamento di Werther nei confronti del mondo umano e naturale viene teorizzato dal protagonista nel corso di un suo colloquio con Albert, durante il quale egli loda la forza della passione e afferma che il cuore vince sulla ragione: poiché le sofferenze dell'animo sono uguali a quelle fisiche, non appena l'anima supera il limite di tollerabilità del dolore subisce la stessa sorte del corpo e muore; il suicidio è perciò una sorta di malattia naturale e non, come sostengono le persone di buon senso, un atto di viltà. Questa teoria del suicidio si basa su una totale identificazione con la natura, identificazione che induce a considerare sia il corpo sia l'anima elementi naturali soggetti alle medesime leggi e a ritenere che la ragione non permetta di conoscere pienamente la natura. Quest'ultima convinzione, secondo la quale l'uomo può trovare la propria felicità solo rinunciando alla razionalità a favore della sfrenatezza del sentimento, si radica nell'animo di Werther quando egli, durante un'escursione che precede di un solo mese il suo suicidio, incontra un pazzo di nome Heinrich accompagnato dalla madre. Le parole della donna - convinta che il figlio abbia trascorso in manicomio i suoi tempi più felici - inducono il protagonista a riflettere sulla correlazione tra la felicità e la mancanza di ragione; egli ritiene che la malattia mentale preservi coloro che ne soffrono dalle sofferenze della vita e prova invidia nei confronti del folle poiché questi, diversamente da lui, ripone ancora speranze nel futuro (nonostante sia ormai autunno inoltrato, l'uomo cerca fiori da portare alla sua amata). Il giorno successivo Werther scrive a Wilhelm una lettera nella quale dice di essere venuto a sapere da Albert che Heinrich, prima di ammalarsi, aveva lavorato presso il padre di Lotte e si era innamorato della ragazza; non appena la sua passione era stata scoperta egli era stato licenziato e da allora era divenuto folle.

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Questo racconto contribuisce a stabilire un'analogia tra la vicenda del protagonista e quella del pazzo; entrambi soffrono di un disagio interiore derivante dall'impossibilità di realizzare le loro aspirazioni amorose, alle quali non riescono tuttavia a rinunciare. La sfrenatezza del sentimento conduce alla follia. In una lettera di poco successiva a questo incontro il protagonista afferma di avere ormai perso il controllo di sé; il progressivo peggioramento della sua condizione psichica culmina nella decisione di porre fine alla sua tormentata esistenza con il suicidio.

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4. Follia e vizio: Die Räuber (1781) di Fr. Schiller

In questo dramma è presente una concezione della follia diversa rispetto a quella che domina nel Werther: nel romanzo goethiano l'origine di essa è riconducibile alla crisi di identità del protagonista, che non riesce a instaurare un rapporto corretto con la società in cui vive, nell'opera di Schiller predomina invece la correlazione, tipica dell'epoca illuministica, tra la follia e il vizio. Schiller - come i suoi contemporanei Moritz e Spieß - osserva sia la genesi sia gli effetti delle passioni estreme e delle devianze psicologiche e morali della natura umana attraverso la personalità, le idee e gli atteggiamenti del conte Franz Moor, che nei Räuber è l'antagonista del proprio fratello gemello Karl. Franz detesta da sempre il fratello Karl, prediletto dall'anziano padre, perciò trama contro di lui per privarlo dell'eredità: mentre questi si trova lontano da casa, egli fa recapitare al padre una lettera falsa, nella quale si afferma che Karl conduce una vita dissoluta, e tenta di convincere il genitore a diseredarlo; inizia poi a corteggiare Amalia, la fidanzata di Karl, dicendole che è stato il fratello a pregarlo di occuparsi di lei in sua assenza e, poiché la ragazza lo respinge, convince un servitore ad annunciare ufficialmente la falsa notizia della morte di Karl. Franz decide infine di far imprigionare il padre nella torre del castello, del quale diviene l'unico padrone, e il giorno in cui regnerà incontrastato sulla popolazione del luogo si ripromette di imporle le più crudeli vessazioni. Le sue speranze tuttavia non si avverano, poiché Karl - che tramite una lettera del padre (scritta in realtà da Franz) ha appreso di essere stato diseredato - si ribella all'ingiustizia subita e decide di farsi masnadiere. Non ci occuperemo di tutta la problematica connessa con quest'aspetto (peraltro fondamentale) della tragedia. Arriviamo dunque senz'altro al quinto atto. Karl Moor si è già introdotto sotto falso nome nel castello del padre; ora si appresta a conquistarlo con la sua banda. Franz, accortosene e capita vana la resistenza, tenta invano di convincere il servo Daniel a ucciderlo. Karl scopre che Franz ha rinchiuso l'anziano padre nella torre del castello e ordina ai compagni di espugnare l'edificio. Nel corso dell'assalto Franz si suicida per non subire l'umiliazione di essere ucciso dai masnadieri. Ciò che induce Franz a ordire intrighi contro i propri familiari sono l'inclinazione al vizio - primo tra tutti quello dell'invidia - e il desiderio di rifarsi di quelli che considera torti da lui subiti da parte della natura e degli uomini, derivante dalla consapevolezza che né le leggi naturali né quelle umane sono dalla sua parte. Egli non è bello come Karl e la sua bruttezza non gli ha permesso di godere dell'affetto paterno; inoltre, poiché è nato per secondo, non gli spettano né l'eredità né il titolo nobiliare. Franz è avido,

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vile, insicuro; teme di essere surclassato, perciò evita il confronto diretto con gli altri e desidera trovarsi sempre in una posizione di superiorità rispetto a loro (non a caso i suoi interlocutori preferiti sono i servitori, che devono rispettare il suo volere, e non le persone del suo stesso rango).Una delle principali caratteristiche di questo personaggio è l'ipocrisia: egli, pur essendo perfido e crudele, si mostra davanti a tutti mite e virtuoso; si finge addolorato quando comunica la notizia della morte del fratello, da lui stesso inventata, e fa ricadere la colpa dell'accaduto sul padre che lo ha diseredato. Per delineare la personalità di Franz e spiegarne i comportamenti, Schiller si ispira alle osservazioni esposte pochi anni prima nella dissertazione Philosophia physiologiae, nella quale egli aveva affermato che determinate malattie e le loro manifestazioni (in particolare la febbre) sono da ricondurre a disagi psicologici e che le passioni hanno effetti sul corpo. Tracce di questa concezione sono presenti nei Räuber, poiché Franz è convinto che se riuscirà a suscitare nel padre un sentimento o un'emozione particolarmente forti - l'ira, la paura, la disperazione, la preoccupazione - potrà provocargli una sofferenza capace da sola di condurlo alla morte, minando il suo corpo e la sua anima; i rimorsi provocati dal suo cattivo comportamento nei confronti del fratello e del padre gli provocano però in un'occasione un grave attacco febbrile. La follia di Franz si manifesta nei momenti che precedono il suo suicidio, nei quali - come si apprende dalle indicazioni di regia - egli è divenuto pazzo come naturale conseguenza del suo inclinare a vizi di ogni genere . I suoi disturbi psichici divengono evidenti nella prima scena del quinto atto durante la quale egli, ormai prigioniero nel castello, viene improvvisamente colto da un malore in presenza del servo Daniel e tenta di ricondurre gli strani e inquietanti sogni che ha appena fatto a un attacco di febbre. Daniel si accorge che il suo padrone è in stato confusionale nonostante questi, profondamente turbato, tenti di non dare importanza al proprio malessere e lo esorti a dargli del pazzo poiché ciò che ha sognato è assurdo: il suo sogno riguarda una spaventosa visione del Giudizio Universale ed egli, che per tutta la vita ha negato l'esistenza del giudizio divino affermando che l'anima muore insieme con il corpo, tenta di nascondere la propria grande paura al suo interlocutore ma soprattutto a se stesso. Poco dopo Franz riceve la visita del pastore Moser, il quale gli dice che si sta deliberatamente ingannando poiché, per non ammettere di aver paura dell'imminente giudizio di Dio, continua a ignorare la situazione disperata in cui si trova. Moser descrive così lo stato d'animo del suo interlocutore, la cui concezione nichilistica del mondo deriva dalla consapevolezza di aver commesso gravi misfatti:

Questa è la filosofia della vostra disperazione. Ma il cuore, che dinanzi a queste vostre prove batte angosciato contro le vostre costole, vi contraddice.

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Franz è un sostenitore dell'antropologia materialistica dalla quale Schiller si distanzia poiché ritiene che l'individuo abbia la possibilità di perfezionarsi in misura sempre maggiore e che il presupposto di questo processo sia l'immortalità dell'anima. Franz mente a se stesso e sa di mentire, in quanto le emozioni e i sentimenti lo tradiscono e le frasi di Moser lo turbano profondamente; a nulla valgono le sue speculazioni filosofiche e i ragionamenti razionali. L'ipocrisia che ha caratterizzato tutte le sue azioni e i suoi pensieri viene meno solo negli istanti che precedono la morte: Franz, che poco prima aveva definito folle ("Non è una follia?")la verità annunciatagli dal suo sogno, smette di mentire quando si accorge che i masnadieri, ormai entrati nel castello, stanno per raggiungerlo e prende la decisione di uccidersi. Egli ammette di essere condannato all'inferno e crede già di esservi poiché l'intero edificio è avvolto dalle fiamme; paradossalmente il momento culminante della follia di Franz è l'unico in cui egli parla con la sincerità che fino ad allora gli era sempre mancata e che gli permette di guardare con lucidità al proprio destino (quindi alla propria condanna alla dannazione eterna). La follia coincide con la rivelazione della verità, alla quale segue immediatamente il suicidio: Franz non tollera la verità e la nega fino al momento in cui non riesce più a pensare in modo razionale: i ragionamenti filosofici di Franz non sono stati che una serie dimenzogne e la sua vita è stata caratterizzata da un costante delirio manifestatosi nei continui sogni di potere e di rivalsa che hanno condotto questo personaggio a una visione distorta del mondo.

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5. Antropologia, psicologia e letteratura nel "Magazin zur Erfahurngsseelenkunde". Cenni sulla Popularphilosophie.

All'epoca dello Sturm und Drang dominano principalmente due concezioni della follia, presenti rispettivamente nel Werther e nei Räuber: l'una riconduce la malattia mentale al difficile rapporto che l'individuo intrattiene con la società, l'altra - diffusa fin dalla prima metà del Settecento - ai comportamenti morali errati e ai vizi. A questi tentativi di concepire e spiegare la follia si uniscono, negli anni successivi, quelli compiuti dai collaboratori del "Magazin zur Erfahrungsseelenkunde", i quali, ispirandosi alla concezione antropologica di Stahl, miravano a integrare le ricerche filosofiche sui disturbi psichici con quelle scientifiche. Un tale procedimento veniva ritenuto necessario poiché, come sosteneva tra gli altri il medico Marcus Herz, i confini tra il corpo e l'anima sono incerti e vi sono malattie (l'ipocondria, la follia, la malinconia) provocate da cause sia organiche sia psicologiche; questa opinione era condivisa anche da un altro noto medico dell'epoca, Bolten (autore nel 1751 dell'opera Gedancken von psychologischen Curen), secondo il quale la malinconia e l'ipocondria non potevano essere curate con successo con i mezzi della medicina tradizionale ma richiedevano un trattamento psicologico e non esclusivamente fisico. Secondo Herz e Bolten l'approccio più adeguato a queste malattie era quello della filosofia scolastica, che permetteva di comprendere nel migliore dei modi il funzionamento dell'anima poiché riconduceva le malattie psicologiche al cattivo funzionamento delle facoltà che regolano l'attività di essa e individuava nella disparità tra le forze che presiedono all'azione e al pensiero (quindi nell'eccessiva attività o inattività del malato) il più evidente sintomo che le caratterizza. I due ritenevano che il compito del medico - definito "moralischer Arzt" - consistesse nel ripristinare il corretto equilibrio tra le diverse forze, fondamentale per la salute psichica dell'individuo; avevano inoltre osservato che, se l'immaginazione prevale sul desiderio di vita attiva, il soggetto tende a immalinconirsi e non riesce a fare buon uso delle proprie qualità poiché dalla carenza o dall'assenza dell'impulso all'azione (che costituisce l'essenza dell'anima) derivano l'inclinazione all'isolamento e al ripiegamento su se stessi, oltre all'insoddisfazione nei confronti del mondo esterno. Nel "Magazin" - al quale collaborarono Moses Mendelssohn, il già ricordato Herz (autore anche di una Medicinische Encyclopädie pubblicata nel 1782), J. Fr. Zöllner, Pockels e molti altri - sono raccolti numerosi resoconti (sotto forma di lettera, di saggio o di frammenti di diario) di vere e proprie malattie psichiche o di comportamenti fuori della norma (tra i quali le passioni eccessive, i casi di omicidi efferati, i comportamenti malinconici, le visioni mistiche) e brevi trattati nei quali i collaboratori tentano di spiegare le possibili cause e la cura dei disturbi descritti o di comprendere gli effetti

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delle passioni. All'approccio teorico e filosofico alla natura umana si unisce una ricerca empirica basata sulla raccolta di dati e di racconti di singoli casi clinici che venivano inviati alla redazione della rivista dai medici o dai pazienti stessi; vengono quindi esaminati i sintomi e le caratteristiche delle diverse patologie, delle quali si tenta di delineare la genesi, l'evoluzione e la correlazione con determinati fattori tra i quali la costituzione fisica dell'individuo, gli eventuali episodi traumatici da lui vissuti e il suo rapporto con la società. I collaboratori del Magazin non escludono inoltre che le malattie psicologiche siano ereditarie ma, diversamente dalla concezione kantiana formulata nella Antropologie (1798) e secondo la quale ai disturbi psichici non vi è rimedio, ritengono che per esse vi sia sempre una cura. Dall'osservazione dei singoli casi Moritz e Herz deducono che non vi sono metodi universalmente validi per curare le malattie psichiche, in quanto la salute mentale degli individui non può essere definita in base a parametri precisi, che variano da persona a persona e mutano nel corso della vita; perciò l'unico valido criterio che permette di stabilirla è il grado di armonia o di disarmonia tra le diverse facoltà dell'anima, non la presenza di vizi o i comportamenti moralmente riprovevoli. Secondo Moritz le malattie mentali hanno origine quando l'anima viene privata della libertà di agire seguendo la propria volontà e i moti dei sentimenti e delle passioni vengono ostacolati e repressi. La rivalutazione del complesso delle azioni e delle aspirazioni umane, indipendentemente dalla loro conformità alle norme morali, era stata compiuta nel corso del Settecento dai sostenitori della filosofia popolare (Popularphilosophie), i cui principali centri di diffusione furono Berlino e Göttingen. Gli esponenti della filosofia popolare (tra i quali ricordiamo Christian Garve, Johann Georg Heinrich Feder, Johann Jakob Engel, Johann Georg Sulzer, Moses Mendelssohn) ritengono che alle azioni umane presiedano, oltre alla facoltà razionale, l'attività estetica e l'immaginazione e si distanziano dalla concezione kantiana secondo la quale la legge morale fondata sui principî della ragione è innata. Nella Antropologie in pragmatischer Hinsicht (1798) Kant afferma che l'uomo è tenuto ad agire in base alle leggi della morale e non ai sentimenti, poiché questi ultimi hanno un fondamento irrazionale, sono espressione dell'egoismo dei singoli e della tendenza a perseguire il benessere individuale; i teorici della Popolarphilosophie ritengono invece che la facoltà razionale e la moralità non possano essere presupposte aprioristicamente ma si costituiscano attraverso un processo di sviluppo della natura fisica e psichica dell'uomo, perciò derivino dalla sua esperienza di vita. Inoltre le azioni sono governate dall'anima, nella quale alla facoltà della conoscenza razionale si uniscono gli influssi esercitati dagli istinti, dai desideri e dai sentimenti; dal momento che le azioni umane sono processi in continua evoluzione, esse non possono essere subordinate a norme prestabilite ma queste ultime vanno elaborate e modificate tenendo conto del modo in cui l'azione si compie. Da ciò consegue che l'individuo

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non è costretto a sottostare a un ordine e a un'armonia preesistenti ma ha la possibilità di creare un ordine morale dinamico.

5.1. Malinconia e immaginazione in Andreas Hartknopf di K. Ph. Moritz

La correlazione sussistente tra gli obblighi imposti dalla legge morale e la volontà del singolo costituisce uno degli aspetti fondamentali dell'identità personale delineati nel romanzo Andreas Hartknopf (1786) di K. Ph. Moritz. Quest'opera, la prima parte della quale è stata pubblicata contemporaneamente alla seconda del romanzo Anton Reiser, l'opera fondamentale di Moritz, della quale Andreas Hartknopf viene ritenuto la compensazione ironica, ha una struttura complessa, caratterizzata da incongruenze nella struttura temporale e dalla presenza di avvenimenti (primo tra tutti la morte del protagonista) riguardo ai quali non vengono fornite spiegazioni chiare. Il sottotitolo ("Eine Allegorie") esorta implicitamente i lettori a non prendere alla lettera ciò che leggono - neppure le frequenti citazioni tratte dai Vangeli e dalla Bibbia - dal momento che tutto ciò che viene scritto necessita di essere interpretato in modi sempre nuovi per mantenere la propria attualità, come sostiene il motto posto all'inizio del romanzo ("Der Buchstabe tödtet, aber der Geist macht lebendig"), che fa riferimento a una frase della Seconda Lettera ai Corinti di Paolo apostolo: "[Dio] ci ha resi idonei alla nuova Alleanza, non della lettera, ma dello spirito: la lettera uccide e lo spirito vivifica.". L'opera è introdotta da un Vorbericht nel quale il narratore - che fa capire di essere il protagonista Hartknopf ma subito dopo afferma di essere un suo amico - preannuncia da subito al lettore che questi è morto da martire e poi lo presenta nel momento in cui si trova in viaggio verso una meta che neppure lui conosce. Hartknopf, pur essendo in difficoltà poiché si trova da solo in aperta campagna di notte e non sa come attraversare un fossato che gli impedisce di proseguire il cammino, afferma più volte di voler rimanere dov'è ("Hier will ich still stehen"); il narratore chiarisce il significato di questo desiderio assai poco comprensibile menzionando i due motti ai quali il protagonista si ispira: "Ich will was ich muß" e "Ich muß was ich will".Queste due espressioni, che riguardano la correlazione tra la volontà e la necessità, tra i desideri personali e le norme alle quali ci si deve attenere, riassumono il carattere e i comportamenti di Hartknopf: egli ritiene che tutto ciò che accade sia necessario e non debba essere subíto ma accettato, anzi, desiderato volontariamente. Il protagonista accetta con serenità la spiacevole situazione in cui si trova poiché è saggio, sa rassegnarsi a ciò che gli accade e non si pente delle sue azioni, in quanto ha deciso in prima

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persona di compierle ed è responsabile di esse. Egli non muta il proprio atteggiamento neppure quando due individui sopraggiunti all'improvviso lo fanno cadere nel fossato nel quale non vi è acqua: rialzatosi, prosegue infatti in loro compagnia il cammino verso la sua città natale, Gellenhausen, dove decide di fermarsi alla locanda del cugino Knapp. Questi lo informa riguardo all'opera di riforma scolastica attuata a Gellenhausen dai suoi accompagnatori Hagebuck e Küster, i quali si sono ispirati alle teorie di Basedow (1724-1790), autore di importanti opere di pedagogia e fondatore a Dessau di un noto istituto, il Philantrophinum. Secondo Knapp questa riforma, che si richiama ai principî del Pietismo, non è educativa poiché non valorizza la spontaneità dei sentimenti: gli allievi della scuola vengono premiati con una decorazione ogni volta che adottano un comportamento corretto e conforme alle norme morali, ma ciò li induce a vantarsi per aver compiuto azioni che dovrebbero essere spontanee, come quelle di amare il prossimo e di proteggere la natura. Knapp è un abile pedagogo, nonostante non abbia letto testi fondamentali di pedagogia quali Emile di Rousseau e Elementarwerke di Basedow: dà aiuto con spirito cristiano a coloro che soggiornano presso la sua locanda e ha educato suo figlio ad apprezzare ogni giorno della vita come se fosse l'ultimo. La riflessione sulla precarietà dell'esistenza costituisce il principale argomento del colloquio tra Hartknopf e un suo anziano insegnante, il rettore emerito Elias; i due sono convinti che la vita possa essere goduta pienamente solo se si tiene sempre presente l'imminenza e l'ineluttabilità della morte, con la consapevolezza del fatto che la serenità d'animo si raggiunge se si è capaci di accettare il proprio destino senza tentare di opporsi a esso. Questo atteggiamento, definito rassegnazione, è espressione di una forma di malinconia che rende felice l'uomo poiché lo prepara ad affrontare con serenità ogni evento della vita; la rassegnazione è fonte della saggezza di Hartknopf, che da ragazzo era giunto quasi sull'orlo della follia poiché tendeva a isolarsi completamente sia dagli altri sia dal mondo circostante e ad abbandonarsi a un'eccessiva immaginazione. La solitudine e la tendenza a fantasticare sono manifestazioni della malinconia, che, come è stato osservato a proposito del Werther e di Don Sylvio von Rosalva, anche per Moritz deriva da uno squilibrio tra il mondo interiore e quello esteriore oltre che dal predominio dell'immaginazione. Come afferma il narratore, Hartknopf era riuscito a combattere questa forma di malinconia - che, a differenza di quella derivante dalla rassegnazione, non lo rendeva sereno bensì gli provocava un grave disagio interiore - dedicandosi alla vita pratica e istaurando rapporti di amicizia con gli altri; una volta adulto, dopo aver concluso gli studi di teologia a Erfurt, si era recato a svolgere la professione di predicatore nella cittadina di Ribbeckenau e nei villaggi circostanti. Sull'opera di predicatore del protagonista verte la seconda parte del romanzo, preceduta dall'anticipazione di un evento al quale in seguito non si fa più cenno (la morte di Hartknopf da martire); esso induce a supporre che

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le vicende narrate nella seconda parte del romanzo siano precedenti a quelle narrate nella prima. Hartknopf pronuncia la prima predica nella chiesa di Ribbeckenau ma né i parrocchiani né il sagrestano la apprezzano poiché non comprendono le sue teorie sulla Trinità, che egli ritiene composta non da tre ma da quattro persone (il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, il Verbo); la sua permanenza nella cittadina viene allietata dall'amicizia con un fattore di nome Heil (che vive con la sorella Sophie in un paesino dei dintorni, Ribbeckenäuchen) e da quella con il giovane fabbro Kersting. È opportuno specificare che i nomi sono significativi: Heil significa salvazione, Knapp significa scarsità, Sophie significa salvezza, Kuster significa sagrestano, e via dicendo. In questa parte del romanzo sono presenti considerazioni sia sul misticismo sia sulla connessione tra l'aspetto esteriore degli individui e il loro carattere. Di fanatismo e di fisiognomica si parla in occasione della visita di Hartknopf all'anziano signor von G..., un mistico che abita nel vicino villaggio di Nesselrode e con il quale egli talvolta riesce a trovarsi d'accordo anche se i loro caratteri sono molto diversi: Hartknopf è concreto, pratico, ha una grafia ordinata e leggibile e tra i solidi geometrici predilige il cubo, mentre il signor von G... è incline a fantasticare e a fare riflessioni astratte, ha una grafia disordinata, predilige la forma piramidale. Durante la loro conversazione, il protagonista - che crede nella conoscenza scientifica - si dimostra tollerante nei confronti delle credenze mistiche ma non le ritiene adeguate per spiegare ciò che accade nel mondo; perciò, quando il suo interlocutore professa la propria fede nella mistica, gli ricorda l'importanza delle cose terrene e concrete, prima tra tutte il corpo. Hartknopf non ha però del tutto superato la propria inclinazione a fantasticare, in quanto non assume comportamenti razionali in tutte le sue vicende di vita: al ritorno dalla visita al signor von G... egli imbocca una strada secondaria e inizia, come in un sogno, a immaginare gioie di vita che in seguito non si riveleranno appaganti e alle quali sceglierà presto di rinunciare. Tornato al villaggio decide infatti di sposare Sophie, ma dopo poco più di un anno si separa da lei poiché si sente oppresso da un crescente malessere e non riesce a continuare a vivere a Ribbeckenau. Una volta lasciati la propria casa e il mestiere di predicatore, Hartknopf intraprende un lungo pellegrinaggio; la seconda parte del romanzo si conclude con il congedo da Sophie e sembra precedere la prima, all'inizio della quale egli è in viaggio. Questo romanzo è solo collaterale al nostro tema. Vi si parla di malinconia, di ipocondria o, come diremmo oggi, di nevrosi, non di pazzia. E tuttavia è importante tenerlo presente perché in esso comincia un processo che in seguito diventerà generale, peraltro senza che lo abbia influenzato questo stesso romanzo, il quale non pare aver conosciuto successo di pubblico. Il processo riguarda la generalizzazione del fenomeno psichico, fatto assurgere da caso individuale a metafora. Andreas Hartknopf mima la nevrosi nel suo stesso procedere romanzesco. Le situazioni paradossali non vengono ricondotte

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a cause psichiche specifiche, come accade nelle opere esaminate finora o in altre che esamineremo. Esse tendono già a diventare metafora generale; e se forse non vi arrivano ancora, però additano la strada.

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6. Follia e condizionamento sociale: le Biographien der Wahnsinnigen (1795-1796) di Ch. H. Spieß (1755-1799)

Alla fine del Settecento la follia inizia a essere ricondotta non alla scarsa osservanza delle norme morali o a vizi bensì a vere e proprie malattie; inoltre le passioni non vengono condannate, anche se si riconosce che esse quando sono eccessive sono all'origine di disturbi psichici. Questo cambiamento di prospettiva si osserva in testi letterari quali la raccolta di racconti intitolata Biographien der Wahnsinnigen di Christian Heinrich Spieß, che sin da giovanissimo intraprese la carriera di attore e in seguito si dedicò alla stesura di questi e di altri racconti. L'opera è suddivisa in quattro volumi e preceduta da una prefazione nella quale l'autore delinea le caratteristiche generali della follia; egli si propone sia di suscitare la compassione dei lettori nei confronti dei malati mentali sia di mostrare loro come individuare e guarire la follia prima che degeneri. Nonostante l'autore sostenga che le vicende narrate siano tutte vere, si ha piuttosto l'impressione che esse siano trasformazioni letterarie di fatti non si sa quanto reali. Secondo Spieß la follia può essere prevenuta prima che si manifesti in tutta la sua violenza e con effetti spesso devastanti, perciò egli tenta di individuare i modi per difendersi da essa. Queste premesse non si accordano tuttavia con i contenuti delle vicende da lui narrate, nelle quali la malattia mentale si manifesta principalmente in seguito a raggiri economici, inganni e truffe ai danni dei protagonisti o a eccessivi sensi di colpa in seguito ad azioni da loro compiute, ma non deriva da un loro disagio interiore. Non si comprende perciò come sia possibile adottare veri e propri rimedi contro la follia, che nella maggior parte dei casi compare all'improvviso, spesso dopo uno svenimento. Nei numerosi racconti presenti nelle Biographien der Wahnsinnigen vengono descritti i vari modi nei quali la follia si manifesta e la natura che essa può assumere. Alcuni individui sviluppano una follia religiosa, come si osserva nei racconti Katherine P***rin e Hans K, Bauer zu M.: la protagonista del primo inizia a soffrire di questo tipo di follia in seguito a una truffa architettata da suo fratello, il quale per privarla della parte di eredità che le spettava le aveva fatto credere che il soldato con cui era fidanzata era morto in guerra. La giovane - che era rimasta a vivere presso la madre - aveva trascorso da allora le proprie giornate alternando l'attività lavorativa alla preghiera, attraverso la quale si era convinta di poter liberare dalle loro pene le anime dei condannati a morte. Il secondo racconto verte sulla vicenda di un ricco contadino che viene raggirato da alcuni monaci cattolici, i quali per costringerlo a devolvere ingenti beni al loro convento gli mostrano tramite una scenografia ottenuta con una lanterna magica il terrificante scenario dell'Inferno al quale egli sarà condannato se non farà penitenza e se non cederà al convento buona parte delle sue ricchezze. Il contadino viene subito

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colto dal terrore, poi impazzisce; si convince che non riuscirà a fare abbastanza per espiare le proprie colpe evitando così la condanna divina e muore dopo una lunga agonia. In quest'ultimo caso la follia viene provocata, oltre che da un inganno, anche da una forte emozione. Ciò accade anche nel racconto Friedrich M**r und seine Familie, che verte su un caso di follia provocato da un errore giudiziario. Il protagonista Friedrich e i suoi familiari vengono ingiustamente accusati di aver commesso un furto e condannati a lunghi anni di carcere: l'uomo perde la stima dei conoscenti, subisce ingiuste torture e, non appena riacquista la libertà dopo che il vero colpevole del furto è stato imprigionato, viene a sapere che sua moglie è morta di stenti in prigione. I suoi conoscenti gli offrono ricchezze e doni nel tentativo di confortarlo, ma Friedrich, divenuto folle, inizia a comprare giocattoli e a comportarsi come un bambino; i figli che gli sono rimasti e che si occupano di lui sono convinti che la malattia sia stata provocata da una gioia troppo grande, quella dell'improvvisa liberazione. Nella maggior parte dei casi le malattie mentali descritte nelle Biographien der Wahnsinnigen derivano dai sensi di colpa e dalla condanna morali da parte della comunità. Questo è il caso di Lotte, la protagonista del racconto Wilhelm M***r und Karoline W- - -g, che scopre di aspettare un bambino dal soldato con il quale è fidanzata e che poco tempo dopo riparte per la guerra. La gente del paese critica il comportamento della giovane e in seguito alle dicerie sulla sua cattiva condotta suo padre, uno stimato pastore, viene sollevato dal proprio incarico e muore di lì a poco; la ragazza, tormentata dai sensi di colpa, diviene folle. Dopo la nascita della figlia, Lotte si riprende per un breve periodo ma presto le sue condizioni si aggravano ulteriormente; ella si convince di essere morta nel momento del parto e di trovarsi in Paradiso. A nulla valgono i tentativi di curare la sua follia intrapresi dal parroco e dal fidanzato Wilhelm, che è da poco tornato dalla guerra, poiché la ragazza non accetta di essere avvicinata da nessuno. Dopo qualche anno anche Wilhelm, che è di carattere malinconico e sensibile, diviene pazzo, mentre la loro figlia Wilhelmine sviluppa da adulta una forte inclinazione alla malinconia; la follia è favorita, oltre che dal senso di colpa e dalla condanna sociale, da una predisposizione alla malinconia unita alla tendenza a lasciarsi sopraffare dalle passioni. Un caso simile a questo viene narrato nel racconto Marie L., la protagonista del quale vive presso la matrigna, una donna di animo malvagio che invita in casa molti uomini e tenta di indurre la ragazza a cedere alla loro corte. Un giorno Marie si lascia sedurre da un militare; quando scopre di aspettare un figlio viene abbandonata dall'amato, che non ha alcuna intenzione di sposarla. Poco tempo dopo la giovane, alla quale il padre rivolge severe critiche, diviene folle e non riesce più a riprendersi se non per un breve periodo successivo alla nascita del figlio; ella, fermamente convinta che il suo innamorato stia per tornare da lei e desideri sposarla, lo attende

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ogni giorno per tutta la vita. Il narratore tenta di giustificare il comportamento della matrigna di Marie, che aveva subito una sorte infelice poiché sua madre dopo la morte del marito si era sposata con un bracciante violento che la maltrattava, ed esorta le lettrici dei suoi racconti a non cedere alla passione poiché ciò può avere, come dimostra questa vicenda, conseguenze molto gravi. Altri casi nei quali la follia è provocata dai sensi di colpa sono quelli descritti nei racconti Jakob W***r, Marie A-r e Marie L.. Nel primo un giovane di famiglia benestante si innamora di una cameriera e diviene pazzo poiché i suoi familiari gli proibiscono di sposarla; egli si convince di avere un cuore trasparente e di non poter celare a nessuno i propri sentimenti. Nel secondo la protagonista sposa un uomo da lei molto amato dopo che questi è rimasto vedovo, e quando egli viene ucciso da uno dei suoi servi, che è segretamente innamorato di Marie e desidera sposarla, inizia a soffrire di disturbi mentali; la sua condizione si aggrava non appena l'assassino del marito viene messo in carcere e condannato. Dopo un lungo svenimento Marie inizia a ripetere che Dio è giusto; poco tempo dopo si scopre che ella in passato ha agito in modo analogo a quello dell'assassino di suo marito, poiché ha provocato personalmente la morte della moglie di questi con un veleno datole da una zingara. Numerose storie di persone divenute folli in seguito a disavventure economiche o lavorative vengono narrate infine nel lungo racconto Das Hospital der Wahnsinnigen zu D., nel quale il narratore, accompagnato da un medico, visita un manicomio e fa la conoscenza di alcuni malati che vi soggiornano. In questo racconto vengono descritti il trattamento riservato ai malati mentali e gli ambienti nei quali essi vivono. Le condizioni dei pazienti (in maggioranza giovani uomini) sono di varia gravità: molti di loro portano le catene ai piedi, parlano da soli e raccontano la storia della loro follia in maniera completamente distorta; quasi tutti prima di ammalarsi avevano un carattere tendente alla malinconia. In manicomio vi sono individui divenuti folli in seguito a inganni commessi a danno di altre persone o alla passione amorosa: quest'ultimo è il caso di due ufficiali innamorati della stessa donna, ciascuno dei quali ha una cura maniacale del proprio corpo e ripete i gesti compiuti dall'altro, e di un giovane innamorato di una ragazza povera ed esortato dallo zio a sposare la ricca figlia di un commerciante. Il ragazzo, disperato, dopo essere fuggito in un bosco era stato trovato svenuto da alcuni contadini e da allora aveva perso la ragione. Le manifestazioni di follia amorosa sono state curate senza successo facendo ricorso a svariati espedienti: il medico racconta al narratore di aver tentato di recapitare ai due ufficiali una lettera falsa firmata dalla loro amata e di aver fatto incontrare il giovane impazzito e la sua innamorata ma di non essere riuscito a guarirli, perciò si è convinto che sia inutile intraprendere altri tentativi di curare i folli, ormai privi per sempre della ragione. A conclusione di questo lungo racconto, posto al termine delle Biographien

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der Wahnsinnigen, il narratore tenta nuovamente di muovere a compassione i suoi lettori e si dice addolorato per l'infelice sorte toccata ai malati e ai loro familiari: la follia è incurabile e solo una scrupolosa osservanza delle norme morali, oltre al controllo delle passioni, sembra permettere di evitare le conseguenze drammatiche provocate da essa.

6.1. La follia di Margherita nel Faust (1808)

Nei racconti di Spieß la follia è riconducibile a molteplici cause (tra le quali l'eccesso di passione, gli inganni commessi o subiti, i forti timori religiosi); nel Faust essa deriva principalmente dal senso di colpa conseguente all'infrazione delle norme morali e a una serie di azioni sconsiderate commesse in momenti di debolezza e di disperazione. Questo è il caso di Margherita, il cui disagio mentale diviene evidente nella scena Kerker, posta a conclusione della prima parte del Faust. La giovane viene presentata poche ore prima di essere giustiziata per aver ucciso il figlio illegittimo avuto da Faust, ma la sua follia ha inizio tempo prima; di essa si osservano tracce nella scena Zwinger, nella quale la ragazza, colpevole di essersi lasciata sedurre dall'amato, implora il perdono della Madonna. In una scena di poco successiva a Zwinger, intitolata Nacht, si appende che la reputazione di Margherita è compromessa per sempre poiché tutti sono a conoscenza del suo comportamento e che ella è destinata a essere emarginata dalla comunità. L'amata di Faust, incapace di pensare con razionalità e di percepire correttamente ciò che le accade intorno, è vittima di una follia che le permette di acquisire doti divinatorie poiché la rende capace di prevedere il futuro; a comune parere della critica si ripresenta così l'antica concezione della pazzia intesa come una malattia sacra che pone in contatto con Dio coloro che ne sono colpiti. Il disturbo mentale della giovane si manifesta sia attraverso l'incapacità di comunicare con Faust (che si è introdotto nella sua cella per liberarla) sia attraverso la perdita della capacità di distinguere tra eventi passati, presenti e futuri. Margherita viene presentata mentre sta cantando una canzone nella quale è il suo figlio defunto a parlare: questi, dopo averla accusata di aver commesso un infanticidio, afferma di essere stato mangiato dal proprio padre, aggiunge che la sorellina ha seppellito in giardino le sue ossa e dice infine di essere diventato un uccellino di bosco che vola via. Questa canzone allude a eventi della vita dell'infanticida (vengono menzionati una sorellina, della quale Margherita aveva parlato all'amato all'inizio della loro conoscenza, e un uccellino di bosco tramite il quale si fa riferimento a una canzone che la

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giovane cantava spesso, "Wenn ich ein Vögelein wär") ma principalmente riassume la trama della fiaba tedesca dal titolo Machandelbaum, poiché presenta riferimenti al canto intonato dal protagonista di quest'ultima, un bambino che, dopo essere stato ucciso dalla matrigna, si è tramutato in uccello e cantando racconta la propria vicenda. Non appena vede Faust, la giovane lo scambia per il boia che all'alba la ucciderà e gli chiede di lasciarle il tempo di allattare suo figlio, che crede ancora vivo; poi ella lo riconosce e gli corre incontro per abbracciarlo, ma Faust la esorta a fuggire senza perdere altro tempo. Margherita, delusa dal comportamento poco affettuoso dell'amato, afferma di non meritare di essere salvata poiché si è macchiata di colpe terribili: ha ucciso la madre e il figlio, è responsabile dell'omicidio del fratello Valentin, ferito a morte in duello da Faust stesso; subito dopo ella viene colta da un'allucinazione durante la quale crede di vedere suo figlio che sta annegando, sua madre seduta su un sasso e infine di essere circondata da una gran folla in attesa di venire giustiziata. Improvvisamente sopraggiunge Mefistofele che, dopo aver atteso fino a quel momento Faust fuori dal carcere, esorta lui e la prigioniera ad affrettarsi poiché è ormai l'alba; quando Margherita vede il diavolo rifiuta definitivamente di fuggire e si rimette al giudizio divino, ottenendo così la salvezza della propria anima. Tra quelle qui esaminate, il Faust è l'ultima opera nella quale la follia viene trattata come caso personale, dovuto a fortissima emozione, che arriva fino alla disperazione. Al momento della pubblicazione della tragedia (1808, prima parte) le cose stavano già cambiando.

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7. L'evoluzione della psicologia e i progressi nella cura delle malattie psichiche in epoca romantica

Dalla seconda metà del Settecento in poi si osserva in Germania un crescente interesse per lo studio e per la descrizione empirica dell'attività psichica; ci si interroga inoltre sia sull'esistenza (e sulla eventuale collocazione) di un organo dell'anima sia sui rapporti tra le facoltà di quest'ultima e le strutture e le funzioni corporee. Si inizia così a prendere in considerazione non solo l'aspetto razionale della psiche ma anche la sfera emotiva di essa, dal momento che si tenta di comprendere la struttura della personalità e dell'identità sulla base delle emozioni, delle passioni, dei desideri dell'individuo. Si sviluppa l'interesse sia nei confronti delle azioni, delle inclinazioni e dei comportamenti umani che sfuggono al dominio della razionalità, sia in quelli dell'immaginazione, alla quale vengono attribuite potenzialità in parte positive, in parte negative: si ritiene che quest'ultima presieda allo sviluppo della creatività e sia all'origine di disturbi psichici quali la malinconia e l'ipocondria. Verso la fine del secolo, con l'affermazione del romanticismo, viene attribuita particolare importanza sia al rapporto tra l'uomo e la natura sia alla capacità dell'individuo di percepire sensazioni provenienti dall'esterno. In base ai moti dell'animo suscitati dalle percezioni - che influiscono sui pensieri, sui sentimenti, sul corpo - il soggetto si relaziona al mondo circostante e a coloro che gli sono vicini; l'intreccio del sentire interiore e delle impressioni esterne ha un ruolo determinante nella costituzione dell'identità personale. La medicina e la scienza romantiche concepiscono la natura come un'unità totale con cui l'uomo, dotato di una costituzionale pulsione verso l'individualità, entra in conflitto. Nei Prinzipien einer neuen Begründung der Gesetze des Lebens durch Dualismus und Polarität (1802) J. Görres (1776-1848) osserva che tutti gli elementi del mondo naturale sono governati da forze contrapposte; di opinione analoga è Stephan August Winckelmann (1780-1806), il quale nella Einleitung in die dynamische Physiologie (1803) afferma che nel mondo vi è un perenne conflitto tra forze positive e negative, tra vita e morte. Il principio della polarità fornisce una spiegazione non solo dei processi naturali (tra i quali il magnetismo e i fenomeni elettrici) ma anche di quelli relativi al corpo umano; come osserva il fisiologo Johann Bernhard Wilbrand (1779-1846), tale principio presiede alla circolazione sanguigna e ai processi che regolano la vita dell'organismo. Questi ultimi non possono essere adeguatamente compresi con il solo ausilio dell'analisi chimica. Da quanto osservato finora risulta evidente che la scienza romantica - ispirata ai principî della filosofia idealistica, in particolare a quella schellinghiana - non tende a limitarsi alla semplice osservazione del suo oggetto ma

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guarda a esso come a un elemento da trascendere, regolato da un sistema a priori. L'esigenza di individuare i principî organizzativi e formativi che operano in ogni organismo è ritenuta prioritaria non solo dal fisico J. Ritter e da Novalis, secondo i quali si deve abbandonare la psicologia razionale (che adotta rigidi schemi classificatori) a favore di una psicologia dinamica che concepisce l'uomo come un sistema il cui centro risiede nell'anima, ma anche da Gottfried Reinhold Treviranus, autore del trattato dal titolo Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur (il cui primo volume fu pubblicato nel 1802) e fondatore di una nuova disciplina - per l'appunto la biologia - volta a interrogarsi sull'origine della vita e sull'esistenza di una forza vitale la cui presenza è dimostrata dalla capacità di rinnovarsi posseduta da ogni organismo. Anche gli studi relativi a quest'ultima, al cervello e alle funzioni della psiche sono ispirati alla concezione delineata finora; nella sua Psychologie (1816) Eschenmeyer individua le analogie presenti tra le strutture cerebrali e quelle corporee dopo aver osservato che l'attività onirica presiede alle funzioni psichiche.Un analogo tentativo viene compiuto da Carus nel saggio Versuch einer Darstellung des Nervensystems (1814), nel quale l'autore osserva che tra le varie componenti del sistema nervoso vi sono evidenti simmetrie: i gangli cerebrali svolgono la funzione di poli dai quali l'attività nervosa si irraggia e verso i quali procede in un continuo alternarsi di movimenti centrifughi e centripeti. In tale attività, che appare percorsa da una tensione tra l'esterno e l'interno, va ricercata la forza vitale che governa ogni organismo. Diversamente da Eschenmeyer e da Carus, lo psichiatra J. Ch. Reil si dedicò prevalentemente allo studio delle turbe dell'anima ed espose la propria concezione - di certo la più innovativa dell'epoca - riguardo all'origine e alla cura di esse nel trattato Rhapsodieen ueber die Anwendung der psychischen Curmethode auf die Geisteszerruettungen (1803). Secondo Reil le malattie mentali possono essere curate in tre modi: debellando con rimedi di varia natura i sintomi provocati da esse, attenuandoli con l'ausilio di medicinali, oppure infine eliminando le cause all'origine di questi disturbi. Quest'ultimo tipo di cura, definito metodo psichico, mira a ripristinare attraverso una terapia psicologica (non tramite farmaci) il corretto funzionamento dell'attività cerebrale; eliminando lo squilibrio tra l'eccessiva attività della fantasia e la debolezza delle percezioni sensoriali vengono meno anche i disturbi psichici. Di diversa e ben più antiquata opinione è invece lo psichiatra J. Ch. A. Heinroth, autore del trattato Lehrbuch der Störungen des Seelenslebens (1818): secondo Heinroth solo le cure fisiche (sia farmacologiche sia meccaniche, ma in ogni caso volte a sopprimere i sintomi, non quelle ispirate a principî filosofici e religiosi) si rivelano efficaci per tenere sotto controllo le manifestazioni provocate dalla follia; le malattie mentali si sviluppano se viene meno il senso della ragione che governa lo sviluppo della coscienza negli individui

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sani e inducono coloro sono colpiti da esse a seguire i propri istinti fino ad assumere comportamenti contrari alla morale. Anche G. H. Schubert riteneva che la follia consistesse nella cessazione di ogni attività dell'anima e della ricettività spirituale, perciò provocasse una sorta di regresso alla materialità; a differenza di Heinroth, egli era convinto che alla guarigione potesse contribuire solo una terapia psicologica grazie alla quale il malato riuscisse ad abbandonare le proprie pulsioni e idee fisse.

7.1. Fr. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen (1810)

La concezione dell'anima e del rapporto che essa intrattiene con il corpo esposta nelle Stuttgarter Privatvorlesungen ha profondamente influenzato le teorie riguardanti la natura umana sviluppatesi in epoca romantica. Schelling ritiene che in Dio, nella natura e nell'uomo siano presenti due principî primi, il bene (l'Essere) e il male (il Non Essere), la contrapposizione tra i quali è all'origine della vita. Il rapporto tra il mondo della natura e la divinità - i quali sono rispettivamente espressione dell'elemento reale, destinato a decadere, e dell'elemento ideale e immortale - si basa su un dualismo analogo, che caratterizza anche l'interiorità umana. In essa coesistono il legame con la natura e l'anelito all'elevazione spirituale; l'animo (Gemüth) è la parte oscura, istintiva, irrazionale dello spirito, della quale non si può fare a meno, poiché in assenza di essa non può svilupparsi quella razionale. Senza irrazionalità non può esservi filosofia e neanche la realizzazione delle opere d'arte può prescindere da un'inclinazione - l'anelito (Sehnsucht) - che fa parte dell'animo, in cui si distinguono tre gradi: a) la malinconia (Schwermuth); b) l'aspirazione, che non cessa mai di rinnovarsi, a ottenere ciò che non si possiede (Sucht zum Seyn); c) il sentimento (Gefühl). La malinconia - che è comune sia all'uomo sia agli animali - caratterizza l'esistenza dell'individuo poiché questi, consapevole di essere subordinato a forze invincibili alle quali non è possibile opporsi, non riesce a unirsi come vorrebbe a Dio e alla natura. Dal momento che il peccato originale ha allontanato per sempre l'uomo dalla divinità, la sola unità possibile è costituita dallo Stato, definito una seconda natura che accomuna tutti gli uomini; Schelling dubita però che lo Stato possa assolvere bene questa funzione, poiché ritiene che la sua unità politica e sociale sia precaria: esso rischia o di divenire dispotico o di perdere il proprio potere, senza divenire totalità organica. Tutti i gradi dell'animo hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo del pensiero umano e nell'approfondimento del pensiero scientifico e filosofico. Dopo aver descritto la struttura dell'animo, Schelling delinea quella dello spirito (Geist), che egli definisce l'espressione della volontà individuale e

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collettiva; anche in esso si distinguono tre potenze: la prima è l'egoismo, la seconda è l'intelletto, la terza è la volontà vera e propria. La produzione spirituale non è sempre perfetta, come dimostra il fatto che lo spirito è soggetto a commettere errori; tuttavia questi ultimi - poiché sono un'espressione del Non essere che si relaziona a un grado più alto dell'Essere - non devono essere considerati unicamente una privazione di verità:

Malattia, errore e male nascono sempre dall'erigersi di un relativo non- essente al di sopra dell'essente [...]. Il male non è mera privazione di verità, ma qualcosa di altamente positivo: non è difetto di spirito, ma spirito pervertito. Ecco perché un errore può essere ricco di spirito pur restando un errore. - E così il male non è semplice privazione di bene, non è mera negazione dell'armonia interiore, ma disarmonia positiva.

La concezione schellinghiana dell'errore è di fondamentale importanza per la concezione della follia: l'errore è un elemento positivo in quanto è anch'esso una produzione dello spirito e il male non è mera negazione del bene. Schelling giunge infine alla descrizione dell'anima (Seele), l'elemento divino e impersonale presente nell'uomo: egli afferma che se l'animo è disturbato l'individuo si immalinconisce, se è disturbato l'intelletto l'individuo diventa ebete, se si verifica una scissione tra i due si hanno conseguenze ancora più gravi e si cade nella follia. Quest'ultima (intesa come elemento irrazionale) costituisce la base dell'intelletto ed è presente in tutti gli individui; chi ne è privo è dotato di un intelletto sterile. Essa diviene manifesta quando l'elemento istintuale (limitato dalla presenza e dall'azione dell'intelletto) predomina su quello razionale invece di trovarsi in equilibrio con esso. Schelling ritiene che la follia sia incurabile ma non attribuisce a essa un'origine divina o demonica; sostiene inoltre che i malati mentali non debbano essere rinchiusi nei manicomi ed emarginati dal mondo bensì che sia necessario reintegrarli in società. A conclusione del saggio si ribadisce ancora una volta che nel mondo coesistono due principî opposti (il bene e il male) e che anche l'errore è un prodotto umano, perciò non è condannabile; Schelling ritiene inoltre che nella vita sia osservabile un processo di costante aumento della consapevolezza nel corso del quale l'individuo allontana da sé l'elemento oscuro e inconscio ma infine lo fa giungere a chiarezza:

L'uomo nel processo della sua autoformazione, del suo divenire autocosciente esclude da sé ciò che di oscuro e di inconscio è in lui [...] per elevare gradualmente a loro volta anche questo escluso, questo alcunché di oscuro, e con questa elevazione trasformarli nella sua parte cosciente.

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7.2. Follia e rivelazione della verità

Sia nel saggio di Herder sia nelle Stuttgarter Privatvorlesungen di Schelling sono presenti considerazioni che segnano un cambiamento radicale nella concezione dell'errore e della follia. Secondo Herder nessuna sensazione è ingannevole poiché possiede un contenuto di verità che si rivela progressivamente: tutte le percezioni racchiudono una parte di verità e la conoscenza si basa sul loro graduale perfezionamento. Schelling fa un ulteriore passo avanti rispetto a questa posizione, in quanto afferma che l'errore non è assenza di verità ma espressione del Non-Essere che si relaziona a un grado più alto dell'Essere, quindi un tentativo di raggiungere un grado maggiore di perfezione e come tale è un progresso. L'errore non è quindi, come sostiene Herder (e con lui tanti altri), un momento della conoscenza destinato a essere superato ma un elemento positivo di per sé. Considerazioni come quelle di Schelling hanno permesso di comprendere delle opere che per lungo tempo sono rimaste in attesa di un apprezzamento adeguato. Alla rivelazione assoluta della verità, che nella sua essenza più profonda è inesprimibile e si colloca al di là della mediazione linguistica, permette di accedere solo la follia, come si osserva nel dramma Penthesilea (1808) di H. von Kleist. La protagonista omonima, regina delle amazzoni, durante un assalto contro l'esercito greco si innamora dell' avversario più valoroso, Achille, e decide di sfidarlo a duello per farlo suo prigioniero; il combattimento si conclude però con la sconfitta della regina;caduta da cavallo, viene affidata alle cure delle compagne dall'eroe greco, che l'ha fatta prigioniera,e ha deciso di risparmiarle la vita.poiché si è innamorato di lei. Al risveglio, Pentesilea non ricorda ciò che le è accaduto ed è certa di aver sconfitto Achille; quando questi si reca presso l'esercito della amazzoni e si dichiara suo prigioniero - intendendo con ciò prigioniero d'amore - ella vede confermata la propria convinzione. L'equivoco si chiarisce quando Pentesilea esorta l'amato a seguirla nella propria patria, Temiscira; il guerriero, pur desiderando sposarla, non accetta la sua richiesta e le rivela che dovrà essere lei a seguirlo nella sua patria, Ftia, poiché è sua prigioniera: la regina, ferita nell'orgoglio, rifiuta di seguirlo e lo sfida nuovamente a duello. Achille decide di lasciar vincere Pentesilea per renderla felice, perciò, certo dell'amore di lei, si presenta disarmato ed è convinto che anche l'avversaria lo sarà; la donna gli si para invece davanti con cani ed elefanti al proprio seguito, e, in preda a una delirante follia, lo dilania a morsi senza rendersi conto delle azioni che sta compiendo. La follia di Pentesilea - che ha iniziato a manifestarsi come travisamento della realtà dopo lo svenimento avvenuto nel corso del primo combattimento contro Achille - raggiunge il culmine dopo che l'amazzone ha ucciso l'amato; ella, attorniata dalle compagne che non osano svelarle ciò che è accaduto, rimane a lungo in silenzio,

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poi afferma di essere morta e di trovarsi nei campi Elisi e infine, dopo aver visto il cadavere di Achille, ordina che le sia rivelato il nome di chi lo ha ucciso. Dapprima non riesce a convincersi di essere stata l'unica responsabile della sua morte. Le amazzoni le raccontano come si è svolto il duello e la regina afferma che gli innamorati prendono alla lettera le metafore ma non per questo agiscono da folli:

Dolci baci - denti mordaci - ecco la rima, e chiunque ami di cuore può certo scambiare gli uni con gli altri. [...] Vedi, quando al tuo collo mi attaccai, feci così, proprio alla lettera; non ero così pazza come poté sembrare.

Nel momento in cui diviene pazza, Pentesilea tace e solo nella follia realizza pienamente il suo amore, poiché prende in parola le metafore riferite al sentimento e al comportamento amoroso, in cui sono legittimi sia i gesti affettuosi sia i gesti violenti; tra baci e morsi la differenza non è tanto evidente, si possono scambiare gli uni per gli altri. La follia elimina sia le barriere fisiche sia quelle linguistiche; le metafore utilizzate dalla protagonista non hanno un corrispettivo sul piano del linguaggio ma solo su quello dell'azione; è esclusivamente l'immediata realizzazione pratica di ciò che esse esprimono a rendere pienamente conto del loro significato. La pazzia è trasgressione di ogni norma ma soprattutto la trascende poiché è l'unico mezzo tramite il quale si giunge alla rivelazione della verità.

7.3. La costituzione dell'identità tra realtà e immaginazione: Der Sandmann (1817) e Das öde Haus di E. T. A. Hoffmann

In epoca romantica, come è stato osservato in riferimento alla Penthesilea di Kleist, si inizia a riconoscere alla follia un importante valore conoscitivo; viene abbandonata la netta distinzione diffusa nei secoli precedenti tra mente sana e mente malata, tra normalità e follia, e quest'ultima viene ricondotta prevalentemente a fattori individuali - primo tra tutti il carattere - e in misura minore ai condizionamenti di carattere sociale. La correlazione tra la malattia mentale e le caratteristiche psicologiche e le vicende di vita dell'individuo è presente nei racconti raccolti col titolo Notturni da E. T. A. Hoffmann (nei quali l'autore si richiama alle concezioni della follia delineate da Reil e da Schubert) e domina principalmente in due di essi, Der Sandmann e Das öde Haus. Il primo verte sul rapporto distorto che il protagonista Nathanael, uno

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studente dotato di talento artistico e di una fervida immaginazione, intrattiene con il mondo che lo circonda, sulle conseguenze del travisamento della realtà e del predominio della fantasia sul comportamento razionale. Nathanael proietta le proprie paure e impressioni sul mondo esterno; non riesce a distinguerlo da quello interiore, lasciandosi sopraffare da presentimenti e timori infondati che lo conducono sull'orlo della follia e infine al suicidio. All'inizio del racconto viene riportata la lettera scritta da Nathanael all'amico Lothar: Nathanael racconta di aver ricevuto la visita di un venditore di barometri, Giuseppe Coppola, e di esserne rimasto profondamente turbato poiché l'uomo gli ricorda molto Coppelius, un avvocato dai modi sgarbati che era spesso ospite di suo padre, con il quale faceva esperimenti chimici. Nel corso di uno di essi il padre di Nathanael era morto e il figlio, accorso presso di lui dopo aver udito una forte esplosione, avendo visto Coppelius fuggire per le scale si era convinto che questi fosse il responsabile di quel tragico evento. Nathanael stabilisce l'affinità tra Coppelius e Coppola in base a presagi e a sensazioni oscure - quindi a elementi incerti e irrazionali, privi di fondamento - e confonde la fantasia con la realtà; per un errore la lettera viene letta da Klara, la sua fidanzata, che gli espone in una lettera di risposta le proprie riflessioni. Klara ha una concezione razionale del mondo: a suo parere le forze misteriose svolgono un ruolo determinante nella nostra vita solo se le consideriamo reali, ma, poiché esse sono esclusivamente frutto dell'immaginazione, non dobbiamo commettere questo errore. Dopo aver riportato le lettere di Nathanael e di Klara, il narratore si rivolge al lettore e delinea la contrapposizione tra l'intelletto (Verstand), l'animo (Gemüt) e la fantasia (Phantasie); egli afferma che né il lettore, né l'autore, né il personaggio sono in grado di comunicare esattamente tutto ciò che vedono, perciò rischiano - come Nathanael - di impazzire poiché creano con l'immaginazione un mondo inesistente, incomunicabile, privo di riscontri nella realtà. La vita è costituita da un intreccio di realtà e fantasia: la realtà viene percepita oscuramente, come in uno specchio (l'autore allude qui alla Seconda Lettera di Paolo ai Corinzi (13, 2), poiché è Dio stesso a far apparire le cose in questo modo. Di equilibrio tra razionalità e immaginazione non si può tuttavia parlare nel Sandmann, nel quale si giunge alla rottura del fidanzamento tra la fin troppo razionale Klara e Nathanael, che non riescono a trovare un'intesa; di lì a poco il giovane si innamora di Olimpia, la figlia del suo professore di fisica Spalanzani. La passione per la ragazza - che Nathanael ha iniziato a osservare dalla finestra di casa sua con un binocolo acquistato da Coppola, il quale è tornato a fargli visita - è il risultato del progressivo distanziamento del protagonista dalla realtà: Olimpia è un automa costruito in anni di lavoro dal professore, ma Nathanael non se ne accorge e scambia per una persona vivente la giovane, nonostante ella si muova e parli in modo

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meccanico, con lo sguardo fisso nel vuoto. Il giovane, che afferma di ritrovare in lei se stesso, ritiene le poche parole udite dalle sue labbra veri geroglifici del mondo interiore; Olimpia è perfetta nei suoi movimenti meccanici ed è la proiezione dell'Io di Nathanael, libero di vedere in lei tutto ciò che la sua immaginazione gli suggerisce. Un giorno però il protagonista è costretto ad accorgersi che Olimpia è un automa e si riavvicina a Klara, che decide di sposare al più presto; egli sembra aver riacquisito la capacità di rapportarsi in modo corretto alla realtà che lo circonda, ma la sua vicenda si conclude tragicamente. Pochi giorni prima del matrimonio Nathanael sale con la futura moglie sulla torre del comune della sua cittadina e guarda il paesaggio con il binocolo di Coppola; le sue paure e le sue allucinazioni si ripresentano all'improvviso ed egli ha l'impressione di vedere in strada Coppelius, il quale predice che si butterà giù dalla torre. La vista di questo personaggio scatena l'improvvisa follia di Nathanael, che prima cerca di buttare già Clara e poi, non riuscitoci, si getta lui stesso dalla torre. La conclusione del racconto si richiama a una storia riportata nel "Magazin zur Erfahrungsseelenkunde", il cui protagonista è un giovane di nome Franz, che dopo essere guarito da una malattia mentale si reca in compagnia del padre nei pressi del manicomio nel quale era stato ricoverato. Il giovane viene colto dal desiderio di rivedere la stanza che l'aveva ospitato, ma non appena vi giunge gli tornano alla memoria le sofferenze provocate sia dai passati, numerosi accessi di follia sia dai rudimentali metodi di cura utilizzati dai medici; egli tenta il suicidio e ricomincia ad accusare gravi disturbi psichici dai quali non guarirà più. Nathanael si suicida perché è lacerato nell'animo. al punto che le paure e fantasie distorcono la sua percezione della realtà e impediscono al suo Io di costituirsi in modo corretto. Il netto predominio della finzione sulla realtà conduce alla follia e alla violenza. Su una vicenda simile a quella narrata in Der Sandmann verte il racconto Das öde Haus, che si conclude peraltro non con la morte ma con la guarigione del protagonista Theodor da un'ossessione che lo conduce quasi alla follia. Il giovane ha preso l'abitudine di osservare le finestre di una casa abbandonata e ha l'impressione di veder comparire alla finestra di tanto in tanto una bella donna; un giorno egli acquista uno specchietto e, rivolgendolo verso l'abitazione, vi vede riflesso un bellissimo volto femminile. Nonostante si sforzi di pensare ad altro, Theodor scopre di essere ossessionato da queste frequenti e inspiegabili visioni; dopo aver trovato in casa di un amico un libro di Reil sulle malattie mentali, comprende di essere malato, perciò si reca da un medico esperto nella cura delle malattie psichiche e delle idee fisse. Questi, indicato come dottor K., lo esorta a descrivere i pensieri e le visioni che lo tormentano e a ignorare i propri disturbi facendo uso della forza di volontà; a suo parere Theodor riuscirà a distogliersi dall'idea fissa che lo ossessiona se smetterà di osservare la casa abbandonata

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e si dedicherà al lavoro manuale, frequenterà gli amici e seguirà una dieta sana. Contro le malattie psichiche sono necessarie cure sia fisiche sia psicologiche e il paziente può guarire dalla propria ossessione se ha una chiara percezione dei propri disturbi; quando però il medico chiede allo studente di mostrargli lo specchietto con il quale egli osserva abitualmente la casa deserta per guardarvi personalmente, viene colto da una sensazione di paura della quale ammette di non comprendere la causa. Esistono quindi fenomeni misteriosi, dei quali la scienza non riesce a fornire spiegazioni razionali; quando alcune ore dopo Theodor parla con alcuni amici di strani fenomeni psichici (tra i quali le idee fisse e le ossessioni), uno dei presenti afferma che a volte si è spinti da una debolezza della volontà interiore a seguire da un principio spirituale estraneo al quale non si riesce a sottrarsi. La follia e le sue manifestazioni derivano da una debolezza interiore dell'individuo, che, non appena viene sopraffatto da forze estranee, perde la capacità di controllare i propri pensieri e le proprie azioni. Nel racconto, oltre a Theodor, anche l'anziana proprietaria della casa apparentemente abbandonata soffre di disturbi psichici, ben più gravi di quelli del protagonista e riconducibili a un evento preciso (l'abbandono da parte dell'amato); la sua follia, come si apprende dal racconto del dottor K., si è progressivamente aggravata al punto che per combatterne i sintomi risultano ormai inutili le terapie psicologiche, per cui i medici ricorrono esclusivamente a coercizioni fisiche.

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8. Aspetti della concezione della follia nella prima metà dell'Ottocento: il romanzo Der Komet di Jean Paul, i racconti Lenz di G. Büchner e Die Narrenburg (1841) di A. Stifter

Nel corso dell'Ottocento la concezione della malattia mentale cambia rispetto all'epoca romantica: il tema della follia cessa di occupare un ruolo di primo piano nelle opere letterarie e diviene marginale, così come in generale lo diventa il contributo della letteratura allo studio delle malattie mentali; la trattazione di episodi che vertono su di esse è finalizzata esclusivamente a favorire lo sviluppo dell'intreccio narrativo e non a formulare nuove concezioni e teorie riguardanti la pazzia. Dopo Hoffmann pare cessare l'intento di classificare i tipi di follia e, più in generale, quello di utilizzarla come via privilegiata per l'esplorazione dell'inconscio. Hoffmann è ancora vivo quando nel 1820-22 Jean Paul pubblica in tre volumi il romanzo Der Komet, in cui la follia del protagonista Nikolaus Marggraf è ciò che sarà in letteratura da allora in poi: metafora di una condizione di vita, di una situazione esistenziale o, nel caso specifico, di una fase storica segnata dalla fine del Sacro Romano Impero Germanico e nella quale, dopo la Restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1814), mancano valide prospettive future. La pazzia di Nikolaus Marggraf (figlio di una cantante che, prima di sposare un farmacista, ha avuto una relazione - con un principe, dice lei) inizia a manifestarsi sin dalla prima giovinezza e si caratterizza per mitezza, generosità, eccesso di immaginazione, immedesimazione in tutto ciò con cui egli entra in contatto; alla morte del padre putativo il giovane eredita la farmacia gestita da questi e si convince di aver scoperto come produrre diamanti mettendo carbone in una stufa. Egli si circonda di numerosi aiutanti che entrano a far parte della sua corte e con i quali intraprende un viaggio: il suo precettore Worble, rimasto momentaneamente senza lavoro; il macellaio ebreo Hoseas, che presta denaro a Nikolaus e compra i diamanti a metà prezzo; la sorella del protagonista e altri ancora. A capo del corteo è Worble, seguito da Nikolaus e dalle sue dodici guardie (reclutate tra i poveri e gli invalidi del paese), dal predicatore e dal pittore di corte (in realtà preparatore di insegne per stalle), dal truffatore Hoseas e infine da donne al seguito della truppa. Questo corteo costituisce un'allegoria della difficile situazione politica dell'epoca, nella quale il Sacro Romano Impero, con a capo un imperatore con la testa fra le nuvole circondato da funzionari incapaci e imbroglioni, è in piena decadenza; la gestione delle risorse economiche e dei rapporti commerciali lascia molto a desiderare, così come il livello della produzione artistica e culturale. Nei decenni successivi la follia assume man mano altri significati; nel frammento di racconto Lenz di G. Büchner, scritto nel 1835 ma pubblicato postumo, essa diviene metafora esistenziale. La storia è ispirata a una relazione scritta dal parroco svizzero Johann Friedrich Oberlin sulla vicenda

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del grande drammaturgo Jakob Michael Reinhold Lenz (1751-1792), che aveva soggiornato presso di lui per tre settimane a partire dal 20 gennaio 1778. Il protagonista viene presentato nel momento in cui, dopo aver vagabondato senza meta per monti e valli, trova ospitalità presso Oberlin, che vive in un piccolo paese; da subito risulta evidente il disagio mentale del giovane, poiché questi non appena entra nell'abitazione del suo benefattore viene colto dal panico, corre fuori in cortile e si getta in una fontana. La situazione di Lenz non migliora nei giorni successivi, durante i quali egli è sereno solo in alcuni momenti mentre in altri - soprattutto la sera - si immalinconisce poiché quando al tramonto i contorni degli oggetti diventano sfumati tutto gli appare irreale come in un sogno e quella visione lo spaventa al punto da fargli temere di essere prossimo alla morte. Poco tempo dopo Lenz inizia a sentirsi meglio; si adegua alla vita del paese, tiene la sua prima predica in chiesa, partecipa a una conversazione con alcuni ospiti di Oberlin e afferma che non ha senso tentare di stabilire come deve essere la realtà poiché essa è già perfetta così com'è. Il protagonista, appassionato di pittura, ritiene che l'uomo nelle opere artistiche e letterarie possa aspirare unicamente a riprodurre le bellezze naturali. Un giorno, dopo aver ricevuto una lettera in cui suo padre lo esorta a tornare a casa, il giovane viene nuovamente colto da una profonda angoscia; rifiuta di tornare al paese natale e per placare la propria crescente inquietudine inizia a fare lunghe passeggiate sui monti intorno al villaggio. Una notte si ferma a dormire in una capanna dove vivono un anziano e una ragazza; quando, rientrato alla casa del parroco, viene a sapere che l'anziano a detta di molti è dotato di poteri soprannaturali, comincia a soffrire di una follia religiosa che lo induce ad astenersi spesso dal cibo e a trascorrere intere notti in preghiera. La condizione di Lenz si aggrava ulteriormente quando egli, dopo aver appreso che in un paese vicino è morta una bambina, si reca presso di lei per resuscitarla; siccome il miracolo non gli riesce, il giovane si convince di non essere riuscito a compierlo perché ha commesso peccati gravissimi, a causa dei quali è inesorabilmente condannato alla dannazione eterna. Lenz, che si sente ormai privo di speranze e di sentimenti, avverte in sé un incolmabile vuoto e una continua inquietudine: diventa sonnambulo, compie azioni istintive e irrazionali, viene colto da improvvisi attacchi di panico che non gli consentono di concludere i discorsi che ha iniziato, ha la sensazione che tutto sia opera della sua fantasia. Il parroco - a differenza di coloro che ritengono il giovane un indemoniato e lo abbandonano a se stesso - gli parla della misericordia divina ma Lenz, che ormai si augura solo la morte, si domanda perché Dio sia così crudele da non porre fine alle sofferenze umane. Il racconto si conclude con l'arrivo del protagonista a Strasburgo, dove viene condotto dopo che si è gettato da una finestra; giunto in città, Lenz ricomincia a comportarsi normalmente (e dunque guarisce almeno all'apparenza dalla follia) ma la sua sofferenza interiore rimane immutata.

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Sin dall'inizio del racconto il protagonista soffre di disturbi fisici e psicologici di vario tipo ma la sua follia si aggrava non appena egli smette di credere che il mondo creato da Dio sia il migliore possibile; dopo essersi reso conto che i miracoli non si realizzano, Lenz si convince del fatto che nel mondo non vi è un ordine ma tutto è caotico e irreale come in una visione onirica. Nell'evoluzione della malattia di Lenz il rapporto tra sogno e realtà occupa sin dall'inizio un ruolo di primo piano: il narratore afferma che di sera la natura circostante appare al giovane un inconsistente gioco di ombre in quanto i contorni degli oggetti osservati vengono resi indistinti dall'oscurità crepuscolare; verso la fine del racconto la realtà e il sogno si confondono ancora di più nella mente del protagonista. Il narratore descrive così i suoi pensieri:

Si smarriva tutto, e un impulso potente lo spingeva a crearsi nella mente rapporti arbitrari con tutto ciò che gli era intorno: la natura, le persone, a eccezione di Oberlin soltanto, ogni cosa come in sogno, gelida. Si divertiva a rivoltare le case con i tetti in giù, a vestire e svestire la gente, a escogitare le farse più pazze.

Lenz si diverte a modificare a proprio piacimento l'ordine delle cose poiché non crede più alla perfezione del disegno divino; è ormai certo che non esista alcuna gerarchia tra gli elementi ma che essa sia solo una convenzione, perciò attribuisce alla fantasia pari dignità rispetto alla realtà e non la subordina a quest'ultima. Il mondo è una costruzione dell'individuo e le leggi che lo regolano sono arbitrarie, prive di una validità riconosciuta universalmente; quando il giovane giunge a Strasburgo, l'arbitrarietà della fantasia lascia il posto a un comportamento razionale e su tutto domina il senso di vuoto che egli avverte da molto tempo. Il Lenz affronta tematiche trattate dai romantici (prime tra tutte quelle riguardanti i fenomeni non spiegabili razionalmente, tra i quali sonnambulismo, la possibilità di fare miracoli e di resuscitare i morti) ma, diversamente da quanto accade in epoca romantica, in esso la follia non è fonte di conoscenza superiore bensì di sofferenza. Colui che ne è afflitto non proietta il proprio disagio interiore sul mondo esterno ma si accorge che esso è irreale e si fonda su principî convenzionali: nel Sandmann Nathanael si inganna poiché è convinto che le sue sensazioni e premonizioni abbiano un riscontro nella vita reale, nel Lenz il protagonista si rende conto che la sensazione che tutto sia un sogno proviene non dall'interiorità dell'uomo ma dal mondo esterno, l'ordine del quale è basato su regole arbitrarie. Nei racconti di Hoffmann si afferma che spesso realtà e immaginazione tendono a confondersi l'una con l'altra, ma se si lascia che la seconda prenda il sopravvento

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sulla prima si rischia di cadere nella follia. Il Lenz di Büchner mostra le contraddizioni insite nell'ordine che regola la vita umana, dopodiché non sarà più possibile ignorarle e fingere un ordine che è stato ormai smascherato; è in ciò quello che solitamente si chiama esito nichilistico della novella. In Die Narrenburg (1841) di Stifter la follia diviene metafora etico-politica; essa ha origine sia da un rapporto conflittuale tra l'uomo e la natura sia dalla violazione delle leggi valide da secoli, stabilite dagli antenati. Il racconto verte sulla vicenda di Heinrich, un giovane in cui viene individuato l'erede di un castello da tempo disabitato, di proprietà dei conti Scharnast. Heinrich è un naturalista e durante una gita visita l'edificio, situato sulla vetta di un monte e definito dagli abitanti del vicino villaggio "il castello dei pazzi" (die Narrenburg) poiché i proprietari di esso hanno una innata disposizione alla pazzia e sono noti a tutti per aver commesso azioni folli; come afferma il narratore, la vita al castello ha contribuito ad aggravare i loro disturbi mentali, poiché anche i membri della famiglia apparentemente sani di mente dopo essersi trasferiti in quella dimora avevano improvvisamente cambiato carattere. La follia degli Scharnast si era aggravata nel corso del tempo e gli eredi si erano rivelati man mano più pazzi dei loro avi, nonostante il capostipite della nobile famiglia avesse ideato un espediente al fine di evitare che i suoi successori assumessero comportamenti folli; egli aveva infatti inserito nel testamento una clausola che li obbligava a mettere per iscritto ogni dettaglio della propria vita in un'autobiografia e a leggere tutte le autobiografie di chi li aveva preceduti nel possesso del castello. L'obbligo di tenere un diario - cioè un racconto che ha per protagonisti sempre e solo se stessi - costringe al continuo esercizio di un'interpretazione soggettiva del mondo e induce a perdere i contatti con la realtà esterna; ad aggravare la follia di cui soffrono gli Scharnast contribuiscono l'isolamento dalla comunità umana e un rapporto distorto con la natura. Il castello - costituito da tanti diversi edifici - è circondato da un alto muro che lo rende inaccessibile e da un bellissimo paesaggio; il passare del tempo ne ha rovinato gran parte e vi sono un silenzio e una quiete innaturali. A Heinrich e all'amico Robert, guidati dal castellano Ruprecht (che chiama il giovane visitatore con l'appellativo di conte Sixtus) risulta subito evidente la contrapposizione tra la bellezza della natura e il cattivo stato in cui si trovano gli edifici del castello; in essi non vi sono elementi volti a mantenere e a tramandare il ricordo di coloro che li hanno abitati, tanto che sulle tombe degli ultimi eredi non sono incisi neppure i nomi. Nel palazzo di Sixtus si trova una galleria di ritratti dei membri della famiglia, che si assomigliano tutti e hanno un'espressione particolare che testimonia la loro inclinazione all'esuberanza e alla follia; i ritratti più recenti raffigurano i coniugi Jodok e Chelion e il loro figlio Christoph (l'ultimo erede degli Scharnast che ha vissuto nel castello), al quale Heinrich si accorge di assomigliare molto.

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Dopo avere definitivamente accertato la parentela con gli Scharnast, il protagonista, entrato in possesso del castello, legge l'autobiografia del suo antenato Jodok e apprende che questi aveva tentato di distanziarsi dalla condotta di vita e dalle abitudini dei suoi avi per seguire le sue aspirazioni personali. Il desiderio di valorizzare il proprio Io individuale, unito a quello di conoscere il mondo, lo aveva indotto a compiere un viaggio in India, dove egli si era innamorato di una ragazza paria, Chelion, e aveva deciso di sposarla e di tornare in patria. Ben presto però l'esito delle decisioni di Jodok si era rivelato fallimentare. La donna aveva grande nostalgia dell'India. Non si era ambientata nel nuovo mondo; per di più si era innamorata del fratello minore del marito, Sixtus, che ricambiava il suo sentimento. Jodok, nonostante si fosse subito accorto della passione di Sixtus per Chelion, era convinto che questi non avrebbe mai sedotto sua moglie, ma una notte, al ritorno da un viaggio, aveva appreso da una serva che il giovane aveva fatto visita alla donna e Chelion, non appena egli le aveva parlato, aveva ammesso tra le lacrime di non essere innocente; il mattino successivo Jodok si era accorto che Sixtus proprio quella notte si era allontanato dal castello e aveva attribuito l'improvvisa fuga al senso di colpa derivante dal tradimento perpetrato nei suoi confronti. Dopo la partenza di Sixtus, Chelion aveva iniziato a deperire e di lì a poco era morta. Appresa la notizia, Sixtus si era suicidato. Jodok aveva trascorso il resto della propria esistenza in solitudine, tormentato da ricordi dolorosi, e da anziano aveva dato fuoco al castello. Jodok era destinato a fallire perché la sua ricerca del nuovo era stata esclusivamente individualistica, senza una garanzia esterna sostenuta da un'intera comunità e perciò più efficace di un'iniziativa personale. Alla fine dell'autobiografia, convinto che non fosse possibile distinguere nettamente la saggezza dalla follia e le azioni sensate da quelle insensate, egli aveva affermato di accingersi a scrivere la storia delle insensatezze del genere umano e quella delle sue azioni illustri. Dopo aver letto questa autobiografia, Heinrich teme di restare prigioniero della stessa sorte dei suoi avi. A distoglierlo da questo pensiero sarà un colloquio con l'architetto con le decisioni che ne conseguono; sarà cioè un'occupazione fattiva nel mondo dell'arte. Ma ci sarà anche un'altra decisione: quella di sposare Anna, figlia di un oste del villaggio vicino. La rigenerazione avviene riallacciandosi a radici popolari. Gli sposi vanno a vivere al castello ristrutturato, non in un qualche nuovo edificio costruito per l'occasione; si afferma così un equilibrio tra innovazione e continuità. La giovane sposa, si dice, assomiglia nell'aspetto e nel carattere a Chelion. A differenza dei suoi avi, dunque, l'erede si dedica alla ristrutturazione degli edifici del castello e, invece di isolarsi dalla società, intrattiene rapporti di amicizia con gli abitanti dei villaggi circostanti; inoltre adotta Pia, la figlia di Christoph, riabilita la memoria di un suo antenato, Sixtus, e riscatta i terreni di alcuni contadini con il proprio denaro.

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Al castello i due coniugi conducono un'esistenza serena, allietata dalla nascita di due figli; Heinrich trascorre gran parte del proprio tempo imbalsamando animali di ogni tipo e la gente del luogo ritiene che in questa occupazione sia presente una traccia della leggendaria pazzia degli Scharnast. Per realizzare le proprie aspirazioni personali, Heinrich non si distanzia dal suo destino di erede degli Scharnast ma vi si adegua come se esso fosse frutto di una libera scelta; in questo modo riesce a tenere sotto controllo l'inclinazione alla follia (che non può essere completamente eliminata) e a impedire che essa abbia il sopravvento sui comportamenti saggi e virtuosi. Il protagonista concilia le esigenze dell'individualità con i doveri che il suo ruolo gli impone e riesce a vivere in armonia con il mondo e con la comunità umana; per essere efficace (e non fallimentare come quella tentata da Jodok), ogni innovazione deve avvenire, almeno in buona parte, nel segno della continuità con la tradizione.

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9. La concezione della follia nella letteratura del Novecento

Nei romanzi del Novecento domina una concezione metaforica della follia, che assume significati differenti da opera a opera. Qui ne esaminiamo alcuni esempi principali: in Die Blendung di Canetti la pazzia affligge quasi tutti i personaggi ed è metafora della vita solitaria e avulsa dalla realtà ; in Der Mann ohne Eigenschaften di Musil la follia costituisce un esempio estremo di metafora, la cui teoria è a sua volta centrale per la critica a quello che l'autore chiama il mondo delle cose che si ripetono uguali; infine nei romanzi e nei drammi di Bernhard essa è metafora di una condizione esistenziale in genere e al tempo stesso di una protesta contro la realtà.

9.1. La follia religiosa nel Novecento: Der Narr in Cristo Emanuel Quint (1910) di G. Hauptmann

Il romanzo verte sulle vicende del giovane Emanuel Quint, che si identifica con la persona di Gesù Cristo. Dopo aver tenuto nel proprio villaggio una predica ed essersi scontrato col parroco, Quint si allontana. Nel corso del proprio vagabondaggio Emanuel trascorre un breve periodo in completa solitudine, in estasi e in preghiera, poi si riavvicina alla società e riprende a divulgare il Vangelo; egli soggiorna in piccoli paesi di campagna, tiene prediche in pubblico e tenta perfino di fare miracoli. Dopo essere stato accusato di vagabondaggio e di accattonaggio, il giovane viene rinchiuso per breve tempo in carcere e poi, una volta accertato che soffre di una leggera forma di demenza, viene ricondotto al paese natale dove lo accolgono la madre, il patrigno e i fratelli. Quint non rimane a lungo nella propria abitazione: nonostante gli ammonimenti del pastore, egli riprende a tenere prediche in pubblico e diviene capo della setta religiosa della Talmühle, alla quale aderiscono alcune persone affascinate dalla sua dottrina. La fama di Quint si diffonde al punto che una nobildonna diviene sua seguace e lo invita a trasferirsi presso il proprio castello; qui il folle continua a esporre le proprie idee e trova altri seguaci con i quali intraprende un pellegrinaggio verso Breslau. In città il protagonista continua la propria attività di predicatore ma è costretto a interromperla poiché la figlia di uno dei dipendenti della nobildonna che lo aveva accolto muore nel tentativo di raggiungerlo ed egli, ritenuto responsabile della sua morte, viene rinchiuso ancora una volta in prigione. Le indagini dimostrano però la sua innocenza; il giovane, scarcerato, riprende a predicare il Vangelo in Germania e in Svizzera, spostandosi da una città all'altra. I giornali riportano allarmati le notizie del suo vagabondare. Infine Quint muore assiderato

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sul Gottardo.Il protagonista viene definito un folle sin dall'inizio. Il narratore, che di tanto in tanto esprime compassione nei suoi confronti, afferma che egli, come tutti i malati di mente, scambia la propria pazzia per saggezza e la propria debolezza per forza e descrive con precisione i suoi stati d'animo e le sue emozioni: Emanuel passa con grande facilità dalla tristezza alla gioia, è incline al fanatismo religioso e al misticismo e non riesce a instaurare un rapporto corretto con il mondo circostante poiché non distingue bene la realtà dal sogno. Della malattia mentale di cui il protagonista soffre vengono fornite le interpretazioni più diverse: un frate di nome Nathanael, che tenta di convincere il giovane ad abbandonare la sua attività di predicatore, ritiene che la sua follia sia provocata dal demonio ; gli appartenenti alla setta della Talmühle la ritengono invece un dono divino e due medici la riconducono a malattie organiche delle quali il protagonista soffre e dal suo particolare tipo di costituzione fisica. Nessuna di queste spiegazioni chiarisce pienamente le cause della follia; essa viene ricondotta al fatto che durante l'infanzia il protagonista era stato umiliato dai familiari poiché era nato da una relazione che sua madre aveva avuto prima di sposarsi e si era convinto di poter divenire amico solo di Cristo, che come lui aveva subito il disprezzo degli uomini. Quint non è il solo folle presente nel romanzo: i suoi seguaci sono fanatici religiosi e hanno visioni mistiche, credono alle apparizioni degli spettri e delle anime dei defunti; la loro follia viene ricondotta dal narratore al tentativo di sfuggire alla monotonia della vita quotidiana e di realizzare speranze e desideri ai quali avevano dovuto rinunciare. Alla fine del romanzo Quint viene ritenuto non solo un fanatico religioso e il fondatore di una setta di eretici ma anche un anarchico e un pericoloso nemico dello Stato: i giudici osservano che la dottrina religiosa predicata da Quint, convinto che sia necessario abolire la proprietà privata, presenta analogie con quella socialista e temono che possa favorire rivolte politiche. In questo romanzo la follia è in parte occasione per una critica della società, in parte oggetto essa stessa di critica. Hauptmann fa entrare Quint in contatto con tutti gli strati sociali; la critica sociale trova luogo nella descrizione di tali contatti. Ma Quint è per l'autore non semplicemente pazzo, bensì anche un impostore, seppure (come dichiara esplicitamente il narratore) non dei maggiori e peggiori. La soluzione indicata da Quint è cioè una soluzione sbagliata.

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9.2.. E. Canetti, Die Blendung (1935)

Nel romanzo di Elias Canetti (1905-1994) tutti i principali personaggi hanno difficoltà a rapportarsi alla realtà che li circonda e la travisano senza rendersene conto. L'opera narra la vicenda del sinologo Peter Kien, uno studioso che vive a Vienna con la propria governante, Therese, ed esce raramente di casa poiché trascorre le giornate nella sua biblioteca dove si dedica alle ricerche filologiche e alle letture. Kien, che conduce un'esistenza monotona e solitaria, un giorno decide di sposare Therese; dopo le nozze la donna si appropria a poco a poco del suo patrimonio, poi lo costringe ad andarsene di casa. Il sinologo, privo di qualsiasi esperienza di vita pratica, viene imbrogliato da un losco individuo, Fischerle, che gli sottrae buona parte dei beni rimastigli; in aiuto di Kien giunge però suo fratello Georg (che è psichiatra e abita a Parigi), il quale lo aiuta a riappropriarsi del denaro e a ritornare a casa dopo aver allontanato Therese. Tutto sembra essersi risolto ma lo studioso, ormai in preda a una grave mania di persecuzione, è ossessionato dall'idea che Therese ritorni e lo allontani nuovamente. Il timore di veder comparire davanti alla propria porta la governante, le continue allucinazioni e una profonda depressione conducono Kien al suicidio: un giorno egli, tormentato dalle idee fisse di veder bruciare tutti i suoi libri in un incendio, di aver ucciso Therese e di essere ricercato dalla polizia, appicca il fuoco alla biblioteca dove si lascia morire tra le fiamme. Quasi tutti i personaggi del romanzo - in particolare Kien, Therese, Fischerle, il portiere del condominio nel quale Kien abita e un cieco che infine lo ammazzerà - sono individui chiusi in se stessi, privi di veri contatti con il mondo: ciascuno di loro insegue infondati sogni di gloria attraverso i quali tenta di riscattare un'esistenza insoddisfacente. L'immaginazione e le visioni dei personaggi prevalgono sulla descrizione della realtà; spesso, poiché tutto viene narrato dai punti di vista degli individui, si ha l'impressione che stia accadendo realmente ma è solo frutto di una delirante fantasia. Il primo esempio di travisamento della realtà si osserva nella reazione di Kien alla domanda di uno sconosciuto che gli chiede un'indicazione stradale. Il sinologo descrive la vicenda come segue:

Nella Mutstrasse ho incontrato un tale che mi ha chiesto dove fosse la Mutstrasse. Per non umiliarlo io non gli ho risposto. Lui non se n'è dato per inteso e ha ripetuto più volte la sua domanda; il suo comportamento era cortese. Ad un tratto lo sguardo gli è caduto su una targa stradale e s'è reso conto della stupidità. Anziché allontanarsi in gran fretta, come avrei fatto io al suo posto, abbandonandosi a un accesso di collera m'ha

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insultato nella maniera più grossolana. Se non avessi avuto riguardo per lui all'inizio, mi sarei risparmiato una scena così penosa. Chi è stato il più stupido?

Il protagonista ritiene strano il comportamento del passante, che lo ha insultato poiché non ha ricevuto da lui alcuna risposta, ed è convinto di avergli fatto un favore evitando di rispondere a una domanda stupida, cosa che lo avrebbe messo in imbarazzo; il passante ha interpretato il suo silenzio come un gesto di maleducazione. Kien vive invece in un mondo tutto suo e dalla sua descrizione fisica e psicologica si evince che egli è il prototipo dell'individuo malinconico: conduce un'esistenza solitaria, (come dimostrano gli studi condotti da H. Tellenbach, questa propensione caratterizza le persone malinconiche, che sono estremamente abitudinarie e diffidano di tutto ciò che potrebbe turbare l'ordine costituito), è ossessionato dall'ordine e dalla pulizia, soffre di incubi ricorrenti (primo tra tutti quello di veder andare a fuoco la sua biblioteca), di manie di persecuzione, di timori infondati, come quello di diventare cieco. A differenza di Kien, Therese e Fischerle, pur non essendo consapevoli dei problemi psichici che li affliggono, riescono a individuare e a utilizzare a proprio vantaggio le debolezze altrui. Therese sembra una donna scaltra ed esperta della vita pratica, ma in realtà è una visionaria: anche se è assai poco avvenente e piuttosto avanti con gli anni, è talmente convinta che tutti ammirino la sua bellezza da non accorgersi che invece ridono di lei. Dopo aver sposato Kien, ella si invaghisce di un commesso che per indurla a fare acquisti costosi la colma di complimenti e un giorno, convinta che questi la ami, tenta di sedurlo davanti a tutti; non appena l'uomo la respinge, la governante attribuisce quella reazione alla timidezza, non al fatto che il commesso non prova alcun interesse nei suoi confronti. Fischerle è un ebreo imbroglione brutto, nano e gobbo che vive di espedienti: oltre a essere malvisto da tutti a causa del noto razzismo viennese (e a questo punto sarà bene ricordare che Canetti stesso era ebreo e ha trascorso a Vienna gran parte della sua vita), viene deriso per il suo aspetto deforme. Fischerle è ossessionato dal desiderio di arricchirsi a dismisura poiché è certo che quando diventerà ricco gli altri inizieranno finalmente a rispettarlo. Dopo essere riuscito a sottrarre una grossa somma di denaro a Kien, fantastica di emigrare in America; prenota il viaggio, ma poi non parte e il giorno prima della partenza fantastica sulla propria vita futura: pur non essendo capace di giocare a scacchi, immagina di battere il più famoso scacchista del mondo, Capablanca, e di diventare una celebrità; parla al sarto presso il quale si reca per farsi confezionare un abito adatto a nascondere la sua gobba alla sua bella moglie americana (che ovviamente non ha); si convince infine di aver appreso alla perfezione l'inglese dopo un solo giorno di studio. Fischerle si figura così il proprio arrivo in America:

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Il dottor Fischer s'imbarcherà per l'America su un enorme transatlantico. New York ha dieci milioni di abitanti. La popolazione è pazza di gioia. Per le strade le persone si baciano e gridano: Viva! Viva! Viva! Cento milioni di fazzoletti sventolano per dargli il benvenuto, ogni abitante se n'è legato uno per dito. […] Un gruppo di aeroplani disegnano nel cielo la scritta "Dottor Fischer". […] Da un grattacielo sparano i cannoni. Il presidente degli Stati Uniti gli stringe la mano. La sua futura sposa gli mostra la dote, nero su bianco. Lui l'accetta. […] È bella e americana, è bionda come nei film, è altissima e ha gli occhi azzurri, si sposta solo a bordo della sua automobile.

Appena rientrato nel suo modesto appartamento e ancora tutto immerso nelle sue fantasie che gli fanno perdere di vista la realtà, Fischerle viene brutalmente assassinato dal suo rivale di sempre, il cieco. Nel romanzo le allucinazioni e i sogni ad occhi aperti conducono alla morte i personaggi; nessuno di loro guarisce dalla propria follia, che conduce alla perdita della capacità di comunicare con gli altri e di rapportarsi correttamente al mondo esterno.

9.3. Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften I giornali dedicano ampio spazio agli efferati delitti di un trucidatore di prostitute. Non viene risparmiato alcun particolare truculento. L'assassino si trova ora davanti ai giudici e nel processo si dibatte ampiamente se sia in grado o non di intendere e di volere, e quindi responsabile o no delle sue azioni. Christian Moosbrugger (questo il nome dell'assassino) riempie di sé le pagine dei giornali. Non ci si cura tanto del fatto che in passato sia stato più di una volta ricoverato in manicomio: le sue efferatezze le si vuole tutte intere e tutte valide , fino al punto di poterle immaginare come riproponibili nella fantasia di ogni lettore. E anche il lettore più insospettabile si trasforma, nei suoi desideri, in un Moosbrugger. Insomma questi funge da liberatore degli istinti repressi. È pazzo, perseguitato da visioni; ma l'effetto che fa sui lettori è quello detto. Si tratta però solo del primo passo. Questo criminale è personaggio importante in un romanzo che fra le sue teorie principali ha quella della metafora. La metafora vuole esistere con dignità almeno pari a quella della univocità. Questa è la logica quotidiana, la logica dei calcoli ceri, sui quali si basa il successo è in definitiva la stessa possibilità della convivenza umana. Essa risponde ai bisogni della vita elementare. Ma, intesa esclusivamente così, si tratta anche di una povera vita. Altrimenti stanno le cose con la metafora:

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la metafora invece è il collegamento d'immagini che regna nel sogno, è la logica sdrucciolevole dell'anima, a cui corrisponde l'affinità delle cose nelle intuizioni artistiche e religiose; ma anche ciò che esiste nella vita di comune simpatia e antipatia, assenso e condanna, ammirazione, subordinazione, supremazia, imitazione, e loro contrari, questi rapporti molteplici dell'uomo con se stesso e con la natura, che non sono ancora puramente oggettivi e forse non lo saranno mai, non si possono intendere altrimenti se non per allegorie.

Christian Moosbrugger è lui stesso metafora; lo è la sua follia omicida, lo sono le sue visioni, lo sono il suo linguaggio. Certamente c'è una fondazione sociale di tutto ciò; nel romanzo si rende ampiamente conto delle sue origini, della sua vita, delle sue condizioni di lavoro, del condizionamento che proviene da tutto ciò così come dei suoi soggiorni in carcere e in manicomio. Le pagine relative, parimenti cariche di immedesimazione e di distacco, di sociologia e di ironia, danno al personaggio la necessaria dimensione romanzesca. Così assistiamo ai vagabondaggi di Moosbrugger in cerca di lavoro; alla sua fame, alla miseria, alla solitudine. All'esperienza del disprezzo altrui e ai sotterfugi cui ricorre per conservare un po' di dignità; questi lo portano a piccole violazioni della legge, che vanno a costituire lo scartafaccio del pregiudicato Moosbrugger. Quella vita fa irrigidire l'animo e di intelletto ne resta tanto quanto basta a sbrigare il necessario. E cominciano le sue ossessioni: le voci, le donne che passano "in processione", anche se dall'esterno gli intervalli dei passaggi appaiono lunghissimi. Tutto questo appartiene al Moosbrugger della vicenda romanzesca. Ma l'attenzione dedicatagli va oltre, rendendolo funzionale anche alla dimensione saggistica che L'uomo senza qualità teorizza e sviluppa. Metafora egli stesso, Moosbrugger riflette sulle metafore. A una ragazza si può dire "boccuccia di rosa"; a prendere sul serio un complimento del genere, si rischia che le parole scappino "nelle loro cuciture": che la rosa s'imponga troppo e che si afferri un coltello per tagliarla dal suo stelo. Qui comincia la critica linguistica di Moosbrugger, che prende di mira le parole composte: esse pretendono di unire cose diverse, fissandole su un significato univoco. Moosbrugger invece vuol ridare libertà agli elementi e quindi più possibilità all'essere vivente. Scoiattolo si dice in tedesco Eichhorn, in alcune regioni Eichkatze oppure Baumfuchs; quercia, corno, gatto, albero e volpe concorrono dunque a comporre un significato unico. Ma ridare allo scoiattolo tutti i suoi elementi vuol dire dargli più possibilità. Allo stesso modo 14 + 14 è uguale non semplicemente a 28, perché chi dice mai che occorre fermarsi lì? La metafora Moosbrugger ha dunque questo suo modo di protestare contro l'irrigidimento della vita e di perorare il senso della possibilità. Certo lo fa con altri metodi e usando un altro linguaggio che non Ulrich, il protagonista del romanzo. Il quale

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segue per un po' questo caso, assiste anche a qualche udienza del processo, ma da un certo momento in poi decide di non occuparsene più ; per cui alla domanda se desideri la liberazione di Moosbrugger potrà rispondere: "Mille volte no!". Ma come metafora il folle personaggio si è rivelato prezioso. La morale dominante è l'irrigidimento di una primordiale, originale spinta etica. Essa è dunque, allo stato attuale, costituzione e violenza. Se se ne va a ricostruire la genealogia (come insegna Nietzsche, la cui influenza su Musil è stata fortissima), si vedrà che essa addirittura ne nasce. Compito della morale è regolare i rapporti umani e distinguere il bene dal male; tuttavia l'attitudine al bene, se la si vincola a regole fisse, viene privata di significato e diviene solo obbedienza a una norma. La morale è la cristallizzazione esterna e inadeguata di un movimento interiore che non ha niente a che vedere con essa, poiché i sentimenti mutano in continuazione e si evolvono, quindi sfuggono alle regole alle quali si tenta di vincolarli . Tali regole sono state formulate per porre fine allo stato originario nel quale il bene e il male non sono nettamente distinti e che è alla base della civiltà, paragonata da Ulrich al tempio di ciò che non sorvegliato sarebbe chiamato follia. La metafora Moosbrugger contribuisce a dimostrare tutto questo. Follia è, in definitiva, lo stato originario della civiltà quando non è stata ancora operata una netta distinzione tra bene e male. Follia è tutto ciò che sfugge ai precetti della morale; è libertà spirituale, pienezza ed esteriorizzazione del sentimento prima che all'espressione di esso vengano poste limitazioni.

9.3. G. Grass, Die Blechtrommel (1959) Il protagonista di questo romanzo è il trentenne Oskar Matzerath, che scrive la propria autobiografia durante un periodo di ricovero in manicomio. Nonostante soffra sin dall'infanzia di una malattia mentale, il giovane comprende bene tutto ciò che accade intorno a lui e smaschera i vizi dei propri familiari e conoscenti: da bambino si è accorto della relazione extraconiugale che sua madre, sposata con il commerciante Alfred Matzerath, intratteneva con il fidanzato di gioventù, Jan, e ha capito che questi è il suo vero padre; da adolescente si è innamorato della cameriera assunta da Alfred, Maria, e ha avuto da lei un figlio che Alfred crede proprio. Dopo aver fatto varie esperienze lavorative come attore in un circo, marmista, modello in un'Accademia di Belle Arti e infine suonatore di tamburo, Oskar diviene ricco ma si trova coinvolto in una vicenda giudiziaria a conclusione della quale viene internato in manicomio. Nell'opera non vi sono riflessioni né sulle malattie mentali né sulle condizioni nelle quali vivono coloro che sono ricoverati nell'istituto, isolati dal mondo esterno e avendo contatti solo con

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le persone che vengono a far loro visita di tanto in tanto. Oskar, nonostante tutti lo ritengano poco dotato intellettualmente, è dotato di una grande sensibilità e intelligenza ed esprime le proprie emozioni di dolore e di rabbia suonando un tamburo di latta che gli è stato regalato a tre anni di età e dal quale non si è quasi mai separato; egli vive di fatto isolato dagli altri, che non comprendono le ragioni del suo comportamento, soffre di allucinazioni e giunge a identificarsi con Gesù Cristo nonostante abbia in odio la religione. L'Io di Oskar non è unitario; mentre egli scrive l' autobiografia parla di sé a tratti in prima e a tratti in terza persona, come se osservasse le proprie azioni dall'esterno. La sua follia è manifestamente una metafora della storia tedesca nella prima metà del Novecento.

9.4. La concezione della follia nell'opera di Th. Bernhard

9.4.1. Verstörung (1963)

Questo romanzo - come molte altre opere di Bernhard - verte sul disagio dell'uomo nel mondo, originato dai difficili rapporti che l'individuo intrattiene con l'ambiente che lo circonda, con la società e con le istituzioni statali; la follia colpisce in diversa misura tutti gli individui, perciò è una condizione umana universale. Il narratore è uno studente di ingegneria mineraria che ha scritto al padre una lettera nella quale vuole chiarire i motivi per cui i rapporti tra loro sono pessimi; non ottenendo risposta, egli ha fatto ritorno a casa nella cittadina di Leoben e il giorno dopo il suo arrivo il genitore, che esercita la professione di medico, lo ha condotto con sé a visitare alcuni pazienti gravemente malati o prossimi alla morte. I due si recano in un villaggio della zona, Granenberg, nel quale la moglie di un oste è stata ridotta in fin di vita dalle percosse di un cliente dell'osteria; il medico la fa condurre in ospedale ma la donna muore di lì a poco e attribuisce la colpa dell'incidente al marito, un uomo rozzo e abbrutito dalle fatiche quotidiane che l'ha lasciata sola per tutta la notte con clienti violenti e ubriachi. Subito dopo i due raggiungono le abitazioni di Bloch, uno studioso solitario e dal comportamento fin troppo razionale, e della vedova Ebenhöh, una donna anziana e sola che è in cattivi rapporti con il figlio, afflitto da disturbi psichici; si recano poi presso un industriale che vive con la sorella (con la quale intrattiene un rapporto incestuoso) in una condizione di totale isolamento per scrivere un'opera letteraria. La vicenda di quest'uomo - che soffre di una grave forma di nevrosi ed è ossessionato dall'idea di dover portare a compimento il suo scritto - è analoga a quella del protagonista

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di un successivo romanzo di Bernhard, Das Kalkwerk; in Verstörung l'industriale non viene definito pazzo dal medico, il quale afferma di non aver mai potuto riscontrare in lui il minimo segno di follia ma sa bene che nessuno può condurre un'esistenza simile senza riportare danni mentali gravissimi. I malati psichici più gravi - l'industriale e il principe Saurau, al quale padre e figlio fanno visita nella seconda parte del romanzo - riescono a nascondere meglio degli altri il loro disagio; la pazzia infatti non comporta la perdita della lucidità, della razionalità e della concentrazione sul lavoro intellettuale. Altri individui che soffrono di malattie mentali sono la sorella del narratore (la quale, a detta del padre, vive isolata da tutti e soffre della stessa follia della madre defunta), i membri della famiglia Fochler (che per onorare la memoria di un loro defunto parente hanno ucciso e fatto imbalsamare i suoi uccelli esotici), un giovane maestro da poco deceduto in seguito a un grave disturbo mentale provocato da un'ingiusta condanna giudiziaria, e infine un invalido di nome Kreiner che, conclusa la carriera di violinista, si è trasferito con la sorella in una casa di campagna dopo aver trascorso quattro anni in manicomio. La seconda parte del romanzo, lunga il doppio della prima, è quasi interamente occupata dal monologo del principe Saurau, l'ultimo malato che padre e figlio vanno a visitare; questi vive isolato nel suo castello e con i suoi discorsi illogici tenta di dimostrare che l'intera vita è un'esperienza di dissoluzione, poiché nulla salva gli individui dalla follia e dall'estraneità reciproca. All'inizio del monologo, Saurau parla dei tre candidati che si sono presentati da lui per essere assunti come amministratori della sua tenuta e ricorda che uno di loro, Zehetmayer, ha mostrato la singolare tendenza a escludere dal proprio vocabolario le parole con la lettera "a"; il principe è rimasto particolarmente colpito da quest'uomo, il cui modo di parlare gli ha permesso di verificare la validità delle proprie tesi sui problemi di comunicazione tra gli uomini e sulle difficoltà linguistiche relative all'uso di parole che, senza un motivo evidente, infastidiscono le persone. Saurau espone poi le proprie concezioni riguardo all'incomunicabilità tra gli individui e osserva che in ogni dialogo domina l'intento di sopraffare l'interlocutore: quando, in una precedente occasione, il padre del narratore era venuto a trovarlo, gli aveva chiesto informazioni su uno spettacolo tenutosi al castello nei giorni precedenti, mentre il principe invece desiderava parlare dell'alluvione del giorno precedente; ciascuno di loro aveva continuato a imporre all'altro il tema che più lo interessava, pur accorgendosi che l'interlocutore voleva affrontare un argomento diverso. Il principe descrive poi la genesi della sua pazzia, manifestatasi per la prima volta mentre egli, dopo uno spettacolo teatrale tenutosi al castello, esponeva agli ospiti una teoria molecolare; durante la conferenza il principe aveva sentito dei rumori inesistenti ma aveva notato con sorpresa che gli ascoltatori non si erano

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accorti della sua confusione mentale e ascoltavano la sua teoria scientifica con attenzione poiché il discorso si sviluppava in modo chiaro e lineare. Da quella sera egli aveva compreso che il dialogo non favorisce né la comunicazione tra gli individui, né uno scambio di opinioni, né una comunanza di sentimenti e di emozioni, e che vi è un limite alla possibilità di comunicare i propri pensieri e di comprendere quelli altrui; il continuo tentativo di instaurare un dialogo con gli altri è destinato a fallire e aggrava l'isolamento spirituale nel quale tutti sono costretti a vivere. Saurau afferma:

Io sono arrivato in verità al punto in cui l'idea che non esistano più confini è diventata certezza [...], all'isolamento sempre più filosofico, filosofistico dello spirito, stadio nel quale uno è continuamente conscio di tutto e il cervello in quanto tale, quindi, non esiste più... La verità è che io credo sempre più di essere tutto perché in verità non sono assolutamente più nulla.

Secondo Saurau tutti sono pazzi e non esiste un solo luogo al mondo nel quale sia possibile evitare di impazzire. La follia, sostiene, nasce da noi stessi ed è presente nella natura che ci circonda, nella quale non è possibile ricercare leggi universalmente valide: tuttavia chi rinuncia ad attenersi a esse perde la possibilità di comunicare con gli altri, perde il proprio ruolo sociale e giunge ad annullare la propria identità, poiché il dialogo tra gli individui è fondato proprio su queste convenzioni. Saurau riconosce che l'annullamento dell'identità è inevitabile, sia che si tenti di instaurare un dialogo (sempre fallimentare) con il prossimo sia che si ricerchi la verità (che è inesprimibile e conduce all'isolamento e all'incomunicabilità); per continuare a convivere con i suoi simili, all'uomo non resta che mentire e illudersi di poter migliorare la propria esistenza e cambiare il mondo. Non vi sono alternative alla follia, le cui molteplici cause sono la mancanza di rapporti soddisfacenti tra gli individui, l'asprezza della natura nella quale gli uomini sono costretti a vivere, l'inadeguatezza delle istituzioni sociali; il mondo è caotico e i suoi abitanti sono destinati ad annientarsi e a tormentarsi a vicenda, la verità non è conoscibile. Nel romanzo di Bernhard l'unica forza che favorisce il superamento dell'estraneità tra gli uomini è l'immaginazione, che permette di instaurare un rapporto di vera comunanza con gli altri e farli diventare parte di sé: un essere umano può sentirsi veramente unito a un altro soltanto quando quest'ultimo è morto, poiché solo allora è in grado di immaginarlo come preferisce (quindi diversamente da come era) e di scegliere ciò che vuole ricordare di lui senza porre limiti alla fantasia.

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9.4.2. Das Kalkwerk (1970)

Questo romanzo è costituito da un monologo del protagonista Konrad, il quale confessa a un poliziotto di aver ucciso la moglie in circostanze non ben precisate, dopo aver vissuto con lei per due anni in una fornace abbandonata per dedicarsi alla stesura di un saggio sull'udito (il più filosofico dei sensi, come dice riecheggiando una tesi di Friedrich Schlegel) e che in realtà non è mai riuscito nemmeno a iniziare. A riflettere su queste tematiche è un malato di mente convinto che, se anche riuscisse a scrivere la sua opera, le sue idee verrebbero considerate folli e nessuno le prenderebbe sul serio. Nella fornace in cui Konrad si è stabilito sono stati commessi tredici omicidi in vent'anni; la costruzione è una fortezza inospitale, con le inferriate alle finestre, accessibile solo da un lato. Il protagonista ha scelto deliberatamente di andarvi a vivere ma riconosce di aver sfiorato la follia al solo pensiero del silenzio assoluto che regna in quel luogo. Sin dall'inizio del romanzo risulta evidente che Konrad contraddice continuamente le proprie affermazioni ed è vittima di ossessioni, di manie di persecuzione e di una follia che si è aggravata progressivamente nel corso del suo soggiorno nella fornace; oltre che di un disagio psichico, egli soffre di debolezze di voce, di vista e di udito. Ad aver condotto il protagonista sull'orlo della follia hanno contribuito la vana attesa dell'attimo ideale in cui egli desiderava scrivere il saggio e l'insoddisfacente convivenza con la moglie inferma, che era anche la sua sorellastra. Egli racconta che in tutte le occasioni nelle quali era stato sul punto di iniziare a scrivere il saggio era stato interrotto dalle inattese e sgradite visite di alcuni funzionari pubblici e afferma che se si fosse rifiutato di accettarle sarebbe stato condotto in carcere con l'accusa di mantenere un comportamento poco rispettoso; perciò, pur pensando dei suoi ospiti tutto il male possibile, egli li trattava con apparente gentilezza. Anche il rapporto con la moglie aveva aggravato le sofferenze psichiche di Konrad, che era stato da sempre convinto che non esistano unioni sensate e felici e l'aveva sposata per tormentarla con esperimenti senza senso. A sua volta, però, subiva le piccole prepotenze di lei. I rapporti tra marito e moglie vengono descritti come segue:

Lei era l'invalida vittima di un pazzo, in effetti un invalido era vittima di un altro invalido, un pazzo vittima di un altro pazzo, l'invalidità di lei era una forma di pazzia di lui, e la pazzia di lui una forma di invalidità e così via

La malattia fisica e quella mentale sono l'una la causa dell'altra; secondo il

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protagonista tutte le malattie - anche quelle organiche - hanno origine psichica; e poiché non vengono curate bene dai medici (che sono tutti incompetenti) si evolvono inevitabilmente in malattie mentali. Tutti soffrono perciò di una forma di follia, alla quale sono destinati e che non possono evitare:

Si potrebbe anche dire che tutto è pazzia, è anche vero che in realtà tutto è pazzia, ma nessuno osa affermare che tutto è pazzia, perché in quel caso tutti affermerebbero che proprio colui che fa queste osservazioni è pazzo e di conseguenza tutto si eliminerebbe [...]. Gli uomini (l'umanità) esistono proprio grazie all'incoerenza (estrema).

I malati di mente sono gli unici che riescono a comprendere i disagi e le carenze della società: sanno riflettere autonomamente, hanno il coraggio di dire la verità e perciò vengono odiati da tutti ma, pur sapendo di correre rischi, non sanno tacere: non possono fare a meno di parlare. La follia del protagonista deriva dai comportamenti contraddittori che egli assume e dalla continua oscillazione tra pensieri opposti; essa dà origine a un atteggiamento schizofrenico che conduce alla follia, aggravata dalle ossessioni del protagonista, il quale, anche se desidera scrivere il suo saggio, trova continuamente pretesti per rimandarne la stesura e si accorge infine che l'attimo ideale non arriva mai. L'improvvisa consapevolezza di aver vissuto per anni nell'inutile attesa di scrivere il saggio lo ha indotto a uccidere la moglie; egli, come afferma il narratore, verrà rinchiuso prima in carcere, poi in manicomio e non riuscirà mai a mettere nero su bianco la sua opera.

9.4.3. Der Ignorant und der Wahnsinnige (1972)

In questa commedia sono presenti tutte le tematiche principali dell'opera di Bernhard: le contraddizioni insite nell'aspirazione a raggiungere la perfezione artistica, l'inutilità del progresso scientifico, la follia che affligge tutti gli uomini, le continue incomprensioni tra loro e l'incomunicabilità dell'arte, dalla quale consegue l'isolamento dell'artista. Il dramma è in due atti e vi compaiono cinque personaggi: una soprano (la protagonista), la sua costumista Frau Vargo, un medico, il padre della cantante e il cameriere Winter. Il primo atto si svolge nel camerino della soprano prima della rappresentazione del Flauto magico di Mozart mentre la cantante si sta preparando - assistita da Frau Vargo - a interpretare il ruolo della Regina della Notte; in attesa della sua entrata in scena ha luogo un dialogo tra suo padre, che è alcolizzato e si finge cieco, e un medico, ma a parlare è quasi esclusivamente quest'ultimo. Il secondo atto è ambientato in un ristorante nel quale i personaggi

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si recano dopo lo spettacolo; il medico continua a parlare dell'argomento che ha già affrontato nel primo atto (l'esecuzione di un'autopsia), dei difficili rapporti che intercorrono tra la soprano e suo padre e della malattia di cui soffre la donna, che inizia a tossire sempre più forte. Alla fine del dramma si fa improvvisamente buio, si sentono cadere bicchieri e bottiglie sul tavolo e si intuisce che la soprano è morta. Sia la protagonista sia suo padre sono gravemente malati nel corpo e nello spirito e il medico afferma che a farli ammalare sono stati i cattivi rapporti tra loro: i due hanno caratteri completamente diversi e tendono a sopraffarsi a vicenda; si danneggiano reciprocamente ma non riescono a separarsi e continuano a vivere insieme. A provocare la malattia della soprano ha contribuito anche l'esercizio dell'arte, al quale si accompagna una continua ed estrema tensione, poiché l'artista ha sempre paura di commettere errori; l'aspirazione a raggiungere la perfezione lo rende simile a un automa, lo conduce alla malattia fisica e mentale e lo distanzia ancor più dal pubblico, che non ha cultura sufficiente per esprimere un valido giudizio sulle rappresentazioni alle quali assiste. L'arte è destinata a non essere compresa e colui che la esercita è il più infelice, folle e solo di tutti gli uomini. La principale causa del disagio fisico e psicologico è la difficoltà di comunicazione tra gli individui; la scienza medica non riesce a curare adeguatamente i malesseri che affliggono gli uomini poiché procede in modo analitico invece di prendere in esame le cause delle malattie, delle quali si limita a curare i sintomi. La vita è fonte di una profonda sofferenza, che si riesce ad alleviare abusando di droghe o dell'alcool (come fa il padre della cantante, che è sempre ubriaco), pur sapendo che questi mezzi offrono un sollievo provvisorio e, a lungo andare, conducono alla morte coloro che li utilizzano. A questo circolo vizioso non è possibile porre rimedio poiché la società e le sue istituzioni non aiutano i folli e gli alcolizzati a guarire e le cure disintossicanti sono inutili. Il medico afferma:

Se uno beve bisogna lasciarlo bere bisogna tenerlo d'occhio quando beve e controllare dove va a finire ma se uno impazzisce non possiamo farci niente. [...] In realtà noi siamo turbati dall'istanza suprema della natura che si rivela a noi al culmine della disperazione.

La malattia e la follia sono un antidoto naturale che l'uomo adotta quando giunge al culmine della disperazione e non ha senso tentare di guarire poiché proprio la malattia (spesso mortale) mantiene in vita colui che ne soffre: privare

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l'uomo dei suoi vizi condurrebbe questi a una morte sicura, alla quale peraltro questi stessi vizi lo destinano inesorabilmente. Particolarmente stretta è la correlazione che sussiste tra l'esercizio dell'arte, la malattia e il progresso conoscitivo: l'arte, diversamente dalla scienza (che non aiuta a comprendere il mondo), suscita sentimenti di paura e di inquietudine poiché permette di approfondire la conoscenza della realtà, cosa che non è fonte di gioia ma di sofferenze indicibili, anzi è addirittura una tortura spirituale che si farebbe meglio a evitare. Le persone intelligenti e sagge decidono perciò di rinunciare a capire e a vedere ciò che le circonda e conducono un'esistenza molto più interessante di coloro che, tesi nel vano sforzo di indagare i misteri del mondo, giungono alla follia. A chi ha perso la fiducia nella scienza, nei rapporti umani e nell'attività artistica non resta che rinunciare alla vita attiva e osservare con distacco il mondo circostante; questo modo di vivere - caratterizzato dall'amarezza, dalla sfiducia e dalla consapevolezza che nel mondo non vi sono altro che sofferenza e malattia - è l'unico sensato.Maggiore è la follia, maggiore è la saggezza e i folli sono gli unici a comprendere che è necessario rinunciare alla ricerca della verità e sforzarsi di migliorare la condizione umana con l'aiuto della tecnica o delle istituzioni sociali: la vita consiste esclusivamente in un continuo avvicinamento alla morte e in un progressivo annientamento.

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10. Conclusione

Nel corso della storia qui tracciata l'idea di follia ha subito un'evoluzione: da momento esistenziale è diventata metafora del vivere civile in determinate circostanze storiche. Wieland poteva vederne causa e manifestazioni come fondate su un'educazione letteraria sbagliata, favorita da presupposti di vita altrettanto sbagliati. Ma, identificate cause e circostanze, poteva perfino pensare a una cura e a una guarigione. Mutatis mutandis, la pensava così anche Spieß: se si conoscono i segni della follia, si può stare in guardia, evitandone sviluppo e affermazione. Anche Moritz riconduce, se non proprio la follia, almeno la nevrosi a decisioni di vita sbagliate. La sostanziale differenza è che tutta la struttura del suo romanzo partecipa del disordine indotto dalla sofferenza per la vita; col che evidentemente ci muoviamo verso un altro piano. La Gretchen di Goethe vive il suo momento di follia come conseguenza delle circostanze che l'hanno condotta al crimine e alla morte; ancora in questo caso la follia è una condizione esistenziale particolare. La follia del malvagio Franz Moor, immediatamente precedente il suicidio, ha anch'essa cause specifiche e individuali: i suoi vizi, la sua hybris che lo porta a sfidare Dio e gli uomini, la sua disperazione davanti alla morte. Con Hoffmann le cose cambiano: la pazzia di Nathanael è in funzione della dilacerazione fra arte e vita; comincia dunque a essere una metafora del vivere moderno. Peraltro c'è ancora un residuo di personalizzazione, che non andrà mai perso. Nel caso specifico di Nathanael ci sono i terrori infantili, che l'adulto non razionalizzerà mai. Ma ormai la dimensione metafisica conta di più. La follia del personaggio di Jean Paul è quella della situazione tedesca: di un impero che non c'è più, di un ammodernamento politico sperperato, di una restaurazione ottusa. Col non lasciarsi ricondurre a cause precise, la follia del Lenz di Büchner raggiunge dimensioni eccezionali: non c'è un che di esterno a essa, pertanto essa è metafora integrale, che non si ascia ricondurre ad altro (qualunque cosa sia quest'altro), restando permanentemente al di là di ogni interpretazione. E nello stesso tempo è totalmente individualizzata. Delle opere esaminate, la novella Lenz è quella che più di ogni altra estremizza la metafora. Metafora interpretabile è quella incontrata in Stifter: follia è pretendere di controllare il destino con artificio; questi sono discontinuità di per sé, incoerenza, separatezza. Si può sensatamente tentare di sfuggire alla follia accettando di agire centro la continuità, partecipandovi tutte le classi sociali che costituiscono la società. Il Quint di Hauptmann è veicolo d'analisi d'una società non si sa se più ipocrita o più crudele. Metafora è il Moosbrugger di Musil, violenta protesta contro la vita irrigidita, contro la morale scaduta e precettistica, contro le regole diventate gabbie, contro la mancanza di fantasia, contro quel senso della realtà che vuole solo la ripetizione del sempre uguale. Metafora di una cultura senza vita in Canetti. Metafora della

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condizione politica in Grass; qui essa ci appare come tale per la seconda volta dopo Jean Paul. E infine metafora della vita in genere nell'opera di Thomas Bernhard.

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Annotazioni

1. IntroduzioneReuchlein, pp. 39-40Schings, pp. 223-25Van Reijen, pp. 7-10, 11-17, 261-91Turner, pp. 202-23Foucault, pp. 210-19, 432-455Von Matt, p. 185

2. Tendenze filosofiche settecentesche e sviluppi dell'antropologia

Leibbrand-Wettley, pp. 295-313 Schings, pp. 19-20; 11-30 Riedel [2], pp. 103-05.Riedel [1], pp. 12-17.

2.1. L'antropologia come disciplina mediatrice tra conoscenza empirica e conoscenza razionale: Übers Erkennen und Empfinden in der menschlichen Seele (1774-1775) di J. G. HerderHerder, pp. 230; pp. 236-63

2.2. Gli studi di fisiognomica e la concezione della malinconia Riedel [1], pp. 150-75.Mattenklott, pp.14-38; 9-56Riedel [2], pp. 108-45.Borchmeyer, pp. 15-32.

3. Cause della follia e della malinconia 3. 1. Malinconia e religiosità Schings, pp. 73-142Berlin [1], pp. 37-39 (Berlin [1a], pp.69-72).3.1.1. La follia provocata dall'eccessiva immaginazione in Don Sylvio von Rosalva (1764) di Ch. M. Wieland

De Angelis [4], pp. 347-58.Wieland, p. 17.Wieland, p. 18.Wieland, p. 67Wieland, p. 68.

3.2. Malinconia e ruolo sociale Riedel [1], pp. 193-94

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Lepenies, pp. 76-100

Von Matt, pp. 186-187

3.2.1. J. W. Goethe, Die Leiden des jungen Werther (1787; seconda versione)De Angelis [4], pp. 168-72Lepenies, pp. 190-93.

4. Follia e vizio: Die Räuber (1781) di Fr. Schiller Riedel [1], pp. 233-34.Reuchlein, pp. 85-86; 36; 86-90.Schiller, p. 291.Riedel [1], p. 164.Schiller, p. 283.

5. Antropologia, psicologia e letteratura nel "Magazin zur Erfahrungsseelenkunde". Cenni sulla Popularphilosophie

Bezold, pp. 116-154.Schings, p.237.Riedel [2], p. 104 e 190.Schings, pp. 11-12.Bachmann-Medick, pp. 39-57.Schings, p. 227.5.1. Malinconia e immaginazione in Andreas Hartknopf di K. Ph. Moritz Moritz, p. 3; 10-11.

6. Follia e condizionamento sociale: Biographien der Wahnsinnigen (1795-1796) di Ch. H. Spieß (1755-1799)

Schings, pp. 254-55; 248-49.Reuchlein, pp. 67-78; 108.

6.1. La follia di Margherita nel Faust V. il commento di A. Schöne in J. W. GOETHE, Faust, a cura di A. Schöne, Deutscher Klassiker Verlag, Dtv, Frankfurt/M. 1999, p. 376; p.377 V. il commento di E. Trunz in J. W. GOETHE, Faust, in Goethes Werke, a cura di E. Trunz, Bd. 3, Hamburg, Wegener 1948-1966, p. 356. Reuchlein, pp. 198-202.A.SCHÖNE, pp.377-84 GOETHE [1], vv. 4405-4610.A. SCHÖNE, p. 383.

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7. L'evoluzione della psicologia e i progressi nella cura delle malattie psichiche in epoca romantica Riedel [2], pp. 106-08.Poggi [1], pp. 15-17, 29-33; 41-54, 79-87.Reil, pp. 460-72.Poggi [2], pp. 550- 54.Schubert, pp. 515-16.

7.1. Fr. W. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen (1810) Schelling [1a], p. 179 (Schelling [1], p. 35).Schelling [1a], p. 153 (Schelling [1], p. 58).7.2. Follia e rivelazione della verità Kleist [1a], p. 116 (Kleist [1], p. 101).De Angelis [2], pp. 23-30.

7.3. La costituzione dell'identità tra realtà e immaginazione: Der Sandmann (1817) e Das öde Haus di E. T. A. Hoffmann De Angelis [4], pp. 192-95 De Angelis [5], pp. VII-XXV.Reuchlein, pp. 291-310; 346-65.Reuchlein, pp. 333-34"Gnothi sauton, oder Magazin zur Erfahrungsseelenkunde", pp. 262-65.

8. Aspetti della concezione della follia nella prima metà dell'Ottocento: il romanzo Der Komet di Jean Paul, i racconti Lenz di G. Büchner e Die Narrenburg (1841) di A. Stifter De Angelis [4], pp. 187-90. De Angelis [5], pp. 105-09.Büchner [1a], p. 109 (Büchner [1], p. 82).Reuchlein, pp. 366-78.De Angelis [4], pp 240-46.Colombo, p. 18.

9. La follia nella letteratura del Novecento9.2. E. Canetti, Die Blendung (1935) Canetti, [1a], p. 236 (Canetti [1], p. 19).Tellenbach, pp. 106-20.Canetti [1a], pp. 674-75 (Canetti [1], pp. 396-97).

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9.3. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1942) Musil [1a], pp. 267-70 (Musil [1], pp. 237-40).De Angelis [1], pp. 190-91; 187-88.De Angelis [4], p. 275.Musil [1a], p. 270 (Musil [1], p. 240).Musil [1a], pp. 675-76 (Musil [1], p.593).Musil [1a], pp. 1109-27; 848; 855-70 (Musil [1], p. 973-77; 748-50; 753-68).

9.5. La concezione della follia nell'opera di Th. Bernhard De Angelis [4], pp. 679-83.

9.5.1. Verstörung (1963) Bernhard [3a], p.135 (Bernhard [3], p. 117).

9.5.2. Das Kalkwerk (1970) Bernhard [2a], pp. 192-93 (Bernhard [2], pp. 192-93). Bernhard [2a], p. 91 (Bernhard [2], p. 93).

9.5.3. Der Ignorant und der Wahnsinnige (1972) Bernhard [1a], p. 36. (Bernhard [1], p. 27).

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11. Bibliografia

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