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Finzioni - J. Borges 1 FINZIONI Jorge L. Borges J.L. Borges, La biblioteca di Babele , Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.: Finzioni) Tlön, Uqbar, Orbis Tertius I Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d’un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejia; l’enciclopedia s’intitola ingannevolmente The Anglo- American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell’Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) chE gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull’origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell’articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c’era un esemplare di quest’opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Uppsala; nelle prime del XLVII, uno su Ural-Alt Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogò i tomi dell’indice; provò invano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Ookbar, Oukbar... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell’Irak, o dell’Asia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo. Congetturai che quel paese non documentato, quell’eresiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase. L’esame, affatto sterile, d’uno degli atlanti di Justus Perthes, mi confermò in questo dubbio. Bioy mi chiamò da Buenos Aires. Mi disse che aveva sott’occhio l’articolo su Uqbar, nel volume XLVI dell’Encyclopaedia. Il nome dell’eresiarca non c’era, ma c’era bene notizia della sua dottrina, e in parole quasi identiche a quelle citate da lui, sebbene letterariamente inferiori. Lui aveva citato, a memoria: “Copulation and mirrors are abominable”. Il testo dell’Encyclopaedia diceva: “Per uno di questi gnostici l’universo visibile è illusione, o - più precisamente - sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli (mirrors and fatherhood are abominable) perché lo moltiplicano e lo divulgano”. Gli dissi, senza mancare alla verità, che mi sarebbe piaciuto di vedere codesto articolo. Pochi giorni dopo me lo portò. Il

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FINZIONI

Jorge L. Borges J.L. Borges, La biblioteca di Babele , Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.: Finzioni)

Tlön, Uqbar, Orbis Tertius

I

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di

un’enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d’un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejia; l’enciclopedia s’intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell’Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) chE gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull’origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell’articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c’era un esemplare di quest’opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Uppsala; nelle prime del XLVII, uno su Ural-Alt Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogò i tomi dell’indice; provò invano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Ookbar, Oukbar... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell’Irak, o dell’Asia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo. Congetturai che quel paese non documentato, quell’eresiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase. L’esame, affatto sterile, d’uno degli atlanti di Justus Perthes, mi confermò in questo dubbio. Bioy mi chiamò da Buenos Aires. Mi disse che aveva sott’occhio l’articolo su Uqbar, nel volume XLVI dell’Encyclopaedia. Il nome dell’eresiarca non c’era, ma c’era bene notizia della sua dottrina, e in parole quasi identiche a quelle citate da lui, sebbene letterariamente inferiori. Lui aveva citato, a memoria: “Copulation and mirrors are abominable”. Il testo dell’Encyclopaedia diceva: “Per uno di questi gnostici l’universo visibile è illusione, o - più precisamente - sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli (mirrors and fatherhood are abominable) perché lo moltiplicano e lo divulgano”. Gli dissi, senza mancare alla verità, che mi sarebbe piaciuto di vedere codesto articolo. Pochi giorni dopo me lo portò. Il

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che mi sorprese, perché gli indici cartografici della Erdkunde di Ritter ignorano completamente l’esistenza di Uqbar.

Il volume portato da Bioy era effettivamente il XLVI dell’Anglo-American Cyclopaedia. L’indicazione alfabetica sul frontespizio e sulla costola era la stessa che nel nostro esemplare (Tor-Ups), ma il volume, invece che di 917 pagine, era di 921. Queste quattro pagine supplementari contenevano l’articolo su Uqbar: non previsto (come il lettore avrà notato) dall’indicazione alfabetica. Accertammo poi che tra i due volumi non c’era, a parte questa, altra differenza; entrambi (come credo di aver indicato) erano ristampe della decima Encyclopaedia Britannica. Bioy aveva comprato il suo esemplare in una qualsiasi vendita all’asta. Leggemmo l’articolo con una certa attenzione. Il solo passo sorprendente era quello citato da Bioy; il resto pareva molto verosimile, molto conforme all’intonazione generale dell’opera e (com’è naturale) un po’ noioso. Rileggendolo, scoprimmo sotto la sua rigorosa scrittura una fondamentale indeterminatezza. Dei quattordici nomi della sezione geografica ne riconoscemmo solo tre (Korassan, Armenia, Erzerum), interpolati nel testo in modo ambiguo; dei nomi storici, uno solo: quello dell’impostore Esmerdi il Mago, che però era citato solo per confronto. L’articolo sembrava precisare le frontiere di Uqbar, ma i suoi nebulosi luoghi di riferimento erano fiumi, crateri e montagne di quello stesso paese. Leggemmo, per esempio, che il confine meridionale è formato dai bassopiani di Tsai Chaldun e dal delta dell’Axa, e che nelle isole di questo delta abbondano i cavalli selvatici. Questo, al principio della pagina 918. Dalla sezione storica (pagina 920), apprendemmo che, in seguito alle persecuzioni religiose del secolo XIII, gli ortodossi cercarono rifugio in quelle isole, dove s’innalzano ancora i loro obelischi e dove non è raro, scavando, di ritrovare i loro specchi di pietra. La sezione “Lingua e Letteratura”, assai breve, conteneva un solo luogo notabile, in cui si diceva che la letteratura di Uqbar era di carattere fantastico, e che le sue epopee come le sue leggende non si riferivano mai alla realtà, ma alle due regioni immaginarie di Mlejnas e di Tlön... La bibliografia comprendeva quattro volumi che finora non c’è riuscito di trovare, sebbene il terzo - Silas Haslam, History of the Land Called Uqbar, 1874 - figuri nei cataloghi di libreria di Bernard Quaritch1. Il primo, Lesbare und lesenswerthe Bemerkungen über das Land Ukkbar in Klein Asien, avrebbe la data del 1641 e sarebbe opera di Johannes Valentinus Andreä. La cosa è significativa un paio d’anni dopo ritrovai inaspettatamente questo nome in certe pagine di De Quincey (Writings, volume XIII) e seppi che era quello di un teologo tedesco il quale, al principio del secolo XVII, descrisse la comunità immaginaria della Rosacroce; comunità che altri, poi, fondò realmente sull'esempio di ciò che colui aveva immaginato.

Quella stessa sera fummo alla Biblioteca Nazionale. ma invano disturbammo atlanti, cataloghi, annuari di società geografiche, memorie di viaggiatori e di storici: nessuno era mai stato a Uqbar. Neppure l'indice generale dell'enciclopedia di Bioy registrava questo nome. Il giorno dopo Carlos Mastronardi (cui avevo riferito il caso) adocchiò in una libreria le costole in nero e oro della Anglo-American Cyclopaedia... Entrò e consultò il volume XLVI. Naturalmente, non trovò la minima traccia di Uqbar.

1Haslam è anche autore di una General History of Labyrinths.

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II All'Hotel de Adrogué, tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli

specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarriles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d'irrealtà; morto, non è nemmeno più il fantasma che era stato. Alto, disincantato, la sua stanca barba rettangolare era stata rossa. Pare che fosse vedovo, senza figli. Ogni anno o due andava in Inghilterra: per visitare (a quanto giudico da fotografie che ci mostrò) una meridiana e alcuni roveri. Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo è eccessivo) una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l'escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri, e periodici; solevano affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi... Lo ricordo nell'atrio dell'albergo, con un libro di matematica in mano, guardando a volte i colori irrecuperabili del cielo. Una sera, stavamo parlando del sistema di numerazione duodecimale (in cui il dodici si scrive dieci); Ashe mi disse che stava traducendo non so che tavole duodecimali in tavole sessagesimali (in cui sessanta si scrive dieci). Aggiunse che questo lavoro gli era stato affidato da un norvegese a Rio Grande do Sul. Otto anni che lo conoscevamo, e non ci aveva mai detto di essere stato laggiù... Parlammo di vita pastorale, di capangas, dell'etimologia brasiliana della parola gaucho (che alcuni vecchi dell'est pronunciano ancora gaúcho), e non fu più questione - Dio mi perdoni - di funzioni duodecimali. Nel settembre 1937 (noi non eravamo in albergo), Herbert Ashe morì della rottura di un aneurisma. Giorni prima aveva ricevuto dal Brasile un pacchetto sigillato e raccomandato. Era un libro in ottavo grande. Ashe l'aveva lasciato al bar, dove - mesi dopo - lo ritrovai. Mi misi a sfogliarlo e provai una vertigine stupita e leggera, che non descriverò, perché questa non è la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell'Orbis Tertius. In una notte dell'Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l'acqua si fa più dolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte, non avrei provato quello che provai. Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tlön. Vol. XI Hlaer to Jangr. Non v'era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina e la velina d'una delle tavole portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius.

Due anni prima, nelle pagine d'una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d'un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di più prezioso e più arduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della storia totale d'un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciò articolato, coerente. senza visibile intenzione dottrinale o parodica.

L’“undicesimo volume” di cui parlo contiene riferimenti a volumi precedenti e successivi. Nestor Ibarra, in un articolo già classico della “NRF”, nega l'esistenza di questi volumi; Ezequiel Martinez Estrada e Drieu La Rochelle hanno confutato, forse vittoriosamente, questo dubbio. Ma il fatto è che, finora, le ricerche più diligenti sono rimaste senza risultato. Invano abbiamo

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scompigliato le biblioteche delle due Americhe e d'Europa. Alfonso Reyes, stanco di queste fatiche subalterne e poliziesche, propone che noi si intraprenda in comune l'opera di ricostruire i molti e massicci volumi che mancano: ex ungue leonem. Calcola, un po' sul serio, un po' per scherzo, che una generazione di Tlönisti potrebbe bastare. Questo calcolo arrischiato ci riporta al problema fondamentale: chi furono gli inventori di Tlön? I1 plurale è inevitabile, perchè l'ipotesi di un solo inventore - d'un infinito Leibniz operante nelle tenebre e nella modestia - è stata scartata all' unanimità. Si pensa che questo brave new world sia opera d'una società segreta di astronomi, di biologi, di ingegneri, di metafisici, di poeti, di chimici, di moralisti, di pittori, di geometri, sotto la direzione di un oscuro uomo di genio. Abbondano, infatti, gli individui che dominano queste discipline, ma non quelli capaci di invenzione, meno quelli capaci di subordinare l'invenzione a un piano rigoroso e sistematico com'è il piano di Tlön. Questo piano è così vasto che il contributo di ciascuno scrittore dev'essere stato infinitesimale. A1 principio si credette che Tlön fosse un puro caos, una irresponsabile licenza dell' immaginazione; si sa ora che è un cosmo, e le intime leggi che lo reggono sono state formulate, anche se in modo provvisorio. Mi basti ricordare che nelle contraddizioni apparenti dell'“undicesimo volume” s'è scorta la prova fondamentale che gli altri volumi esistono: tanto è lucido e giusto l'ordine in esso seguito. Le riviste popolari hanno divulgato, con perdonabile eccesso, la zoologia e la topografia di Tlön; io penso che le sue tigri trasparenti e le sue torri di sangue non meritino, forse, la continua attenzione di tutti gli uomini. Ma mi arrischio a spendere qualche minuto sulla sua concezione dell’universo.

Hume, una volta per tutte, osservò che gli argomenti di Berkeley non ammettono la minima replica e non infondono la minima convinzione. Questo giudizio è verissimo sulla terra, falsissimo su Tlön. Le nazioni di questo pianeta sono - congenitamente - idealiste; il loro linguaggio e le derivazioni del loro linguaggio - religione, letteratura, metafisica, presuppongono l’idealismo. Il mondo, per coloro, non è un concorso di oggetti nello spazio; è una serie eterogenea di atti indipendenti; è successivo, temporale, non spaziale. Nella congetturale Ursprache di Tlön, da cui procedono gli idiomi e i dialetti “attuali”, non esistono sostantivi; esistono verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale. Per esempio: non c'è una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c'è un verbo che sarebbe da noi luneggiare o allunare. Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell'ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò. (Xul Solar traduce brevemente: hop, dietro perscorrere lunò, Upward, behind the onstreaming it mooned)

L'anzidetto si riferisce agli idiomi dell'emisfero australe. In quelli dell'emisfero boreale (sulla cui Ursprache l’“undicesimo volume” dà pochissime indicazioni) la cellula primordiale non è il verbo, ma l'aggettivo monosillabico. Il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro rotondo, o aranciato-tenue-dell'altoceleste, o qualsiasi altro aggregato. In questo caso particolare, la massa degli aggettivi corrisponde a un oggetto reale: ma si tratta, appunto, di un caso particolare.2 Nella letteratura di questo emisfero (come nell'universo sussistente di

2(Cr, Valéry: “Après tout, le rèel n’est qu’un cas particulier” (Paul Valéry, Mauvaises pensée et autres, 1911) [N.d.T.]

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Meinong) abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo, le necessità poetiche. Determina questi oggetti, a volte, la mera simultaneità; alcuni si compongono di due termini, uno di carattere visivo e uno di carattere uditivo: il colore del giorno nascente e il grido remoto d'un uccello; altri di più termini: il sole e l'acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi, la sensazione dì chi si lascia portare da un fiume e, nello stesso tempo, dal sogno. Questi oggetti di secondo grado possono combinarsi con altri; il processo, grazie a certe abbreviazioni è praticamente infinito. Vi sono poemi famosi composti d'una sola enorme parola. Questa parola corrisponde a un solo oggetto, l'oggetto poetico creato dall'autore. Dal fatto che nessuno crede alla realtà dei sostantivi nasce, paradossalmente, che il numero di questi ultimi è interminabile. Gli idiomi dell'emisfero boreale di Tlön possiedono tutti i numeri delle lingue indoeuropee, e molti altri.

Non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola disciplina: la psicologia. Le altre le sono subordinate. Ho già detto che gli abitanti di questo pianeta concepiscono l’universo come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio, ma successivamente, nel tempo. Spinoza attribuisce alla sua inesauribile divinità i modi del pensiero e dell'estensione; su Tlön, nessuno comprenderebbe la giustapposizione del secondo (che caratterizza solo alcuni stati) e del primo, che è un sinonimo perfetto del cosmo. In altre parole: non concepiscono che lo spaziale perduri nel tempo. La percezione di una fumata all'orizzonte, e poi della campagna incendiata, e poi della sigaretta mal spenta che provocò l'incendio, è considerata un esempio di associazione di idee.

Questo monismo o idealismo totale invalida la scienza. Spiegare (o giudicare) un fatto, è unirlo a un altro fatto; ma quest'unione, su Tlön, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s'applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale è irreducibile: il solo fatto di nominarlo - id est, di classificarlo - comporta una falsificazione. Da ciò, sembrerebbe potersi dedurre che su Tlön non si dànno scienze, né ragionamenti di sorta. La verità, paradossale, è che le scienze colà esistono, e in numero quasi sterminato. Delle filosofie, nell'emisfero boreale, accade ciò che nell'emisfero australe accade dei sostantivi: il fatto che ogni filosofia non possa essere, in partenza, che un gioco dialettico, una Philosophie des Als Ob, ha contribuito a moltiplicarle. Abbondano i sistemi incredibili, ma di architettura gradevole o di carattere sensazionale. I metafisici di Tlön non cercano la verità e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica. Sanno che un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell'universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi.. Ma persino l'espressione “tutti gli aspetti” è confutabile, poiché si fonda su un'impossibile addizione dell'istante presente ai passati; e questo stesso plurale, “i passati”, è illecito, perché suppone un'altra operazione impossibile... Una delle scuole di Tlön nega perfino il tempo: ragiona che il presente è indefinito, e che il futuro, il passato non hanno realtà che come speranza o ricordo presente.3 Un'altra scuola afferma che il tempo è già tutto trascorso, e

3Russel (The Analysis of Mind, 1921, p. 159) suppone che il pianeta sia stato creato da pochi minuti, provvisto d’una umanità che “ricorda” un passato illusorio.

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che la nostra vita è appena il ricordo o riflesso crepuscolare, e senza dubbio falsato e mutilato, di un processo irrecuperabile. Un'altra, che la storia dell'universo - e in esso le nostre vite, i più tenui particolari delle nostre vite - è la scrittura che produce un dio subalterno per intendersi con un demonio. Un'altra, che l'universo è paragonabile a quelle crittografie in cui non tutti i segni hanno un valore, e che solo è vero ciò che accade ogni trecento notti. Un'altra ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall'altra parte, e che dunque ogni uomo è due uomini.

Tra le dottrine di Tlön, nessuna ha sollevato tanto scalpore come il materialismo. Alcuni pensatori ne hanno dato una formulazione, ma in termini più fervidi che chiari, come chi sa di proporre un paradosso. Per facilitare l'intendimento di una tesi così inconcepibile, un eresiarca del secolo XI4 escogitò il sofisma delle nove monete di rame, la cui scandalosa rinomanza equivale, su Tlön, a quella delle aporie eleatiche. Di questo “ragionamento specioso” si hanno molte versioni, che differiscono quanto al numero delle monete o a quello dei ritrovamenti; ecco la più comune:

Il martedì, X, tornando a casa per un sentiero deserto, perde nove

monete di rame. I1 giovedì, Y trova sul sentiero quattro monete, un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì. Il venerdì, Z scopre tre monete sullo stesso sentiero e lo stesso venerdì, di mattina, X ne ritrova due sulla soglia di casa

Da questa storia l'eresiarca pretendeva dedurre la realtà - cioè la

continuità - delle nove monete recuperate.

È assurdo (affermava) immaginare che quattro delle monete non siano esistite dal martedì al giovedì, tre dal martedì al venerdì pomeriggio, e due dal martedì al venerdì` mattina. È logico pensare che esse siano esistite - anche se in un certo modo segreto, di comprensione vietata agli uomini - in tutti i momenti di questi tre periodi.

I1 linguaggio di Tlön si prestava male alla formulazione di questo

paradosso; i più non lo compresero. I difensori del senso comune si limitarono, al principio, a negare la veracità della storia. Ripeterono che si trattava di un inganno verbale, fondato sull'impiego temerario di due voci neologiche, non consacrate dall'uso ed estranee ad ogni pensare severo: i verbi trovare e perdere, che comportavano, qui, una petizione di principio, poiché supponevano l’identità delle prime nove monete e delle seconde.- Rammentarono che ogni sostantivo (uomo, moneta, giovedì, mercoledì, pioggia) non ha che un valore metaforico. Denunciarono la perfida circostanza di quell'“un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì”, che presuppone ciò che si tratta di dimostrare: la persistenza delle quattro monete tra il martedì e il giovedì. Osservarono che altro è uguaglianza, altro identità; e prospettarono, in guisa di reductio ad absurdum, il caso ipotetico di nove uomini che in nove notti successive provano un vivo dolore. Non sarebbe assurdo - chiesero -

4 Secolo, in dipendenza del sistema duodecimale, significa qui periodo di 144 anni.

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pretendere che questo dolore sia lo stesso?5. Aggiunsero che l'eresiarca era stato mosso unicamente dal proposito blasfemo di attribuire la divina categoria dell’essere ad alcune semplici monete; e rilevarono che colui a volte negava la pluralità, altre no. Se l'uguaglianza comporta identità - argomentarono - bisognerebbe anche ammettere che le nove monete sono una moneta sola.

Incredibilmente, questi argomenti non riuscirono a una confutazione definitiva. A cento anni dall’enunciazione del problema, un pensatore non meno brillante dell'eresiarca, ma di tradizione ortodossa, formulò un'ipotesi molto audace. Secondo questa felice congettura, - v'è un solo soggetto: questo soggetto indivisibile è ciascuno degli esseri dell'universo, i quali sono organi e maschere della divinità. X è Y ed è Z. Z scopre tre monete perché ricorda che X le ha perdute; X ne trova due sulla soglia perché ricorda che le altre sono state recuperate... L'“undicesimo tomo” lascia capire che la vittoria completa di questo panteismo idealista si dovette a tre ragioni fondamentali: primo, il ripudio del solipsismo; secondo, la possibilità di conservare la base psicologica delle scienze; terzo, la possibilità di conservare il culto degli dèi. Schopenhauer (l'appassionato e lucido Schopenhauer) formula una dottrina molto simile nel primo volume dei Parerga und Paralipomena.

La geometria di Tlön comprende due discipline abbastanza distinte: la visiva e la tattile. La seconda corrisponde alla nostra, ed è subordinata alla prima. La base della geometria visiva è la superficie, non il punto. Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l'uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano. Base di quell'aritmetica è la nozione di numero indefinito. Accentuano l’importanza dei concetti di maggiore e minore, che i nostri matematici simboleggiano con > e <. Affermano che l’ operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercìzio della memoria Sappiamo già, infatti, che in Tlön il soggetto della conoscenza è unico ed eterno.

L'idea del soggetto unico informa anche completamente, gli abiti letterari. È raro che i libri siano fírmati. La nozione di plagio non esiste: s'è stabilito che tutte le opere sono opere d'un solo autore, atemporale e anonimo. La critica suole inventare autori: sceglie due opere dissimili - il Tao Te King e Le mille e una notte, diciamo, - le attribuisce a uno stesso scrittore e passa subito a determinare con diligenza, la psicologia di questo interessante homme de lettres...

Non meno indifferenziati sono i libri. Quelli di narrativa hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili. Quelli di carattere filosofico contengono invariabilmente la tesi e l'antitesi, il rigoroso pro e contra di ciascuna dottrina. Un libro che non includa il suo antilibro è considerato incompleto.

Secoli e secoli di idealismo non hanno mancato di influire sulla realtà. Non è infrequente, nelle regioni più antiche di Tlön, la duplicazione degli oggetti

5 Oggi, una delle chiese di Tlön sostiene platonicamente che crete cose come un determinato dolore, una determinata sfumatura verdastra del giallo, una determinata temperatura, un determinato suono costituiscono l’unica realtà. Tutti gli uomini, nel vertiginoso istante del coito, sono lo stesso uomo. Tutti gli uomini che ripetono un verso di Shakespeare sono William Shakespeare.

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perduti. Due persone cercano una matita; la prima la trova, e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma meno attagliata alla sua aspettativa. Questi oggetti secondari si chiamano hrönir, e sono, sebbene di forma sgraziata, un poco più lunghi. Fino a non molto tempo fai i hrönir furono creature casuali della dimenticanza e della distrazione. Alla loro produzione metodica - sembra impossibile, ma così afferma l'“undicesimo volume” - non s'è giunti che da cento anni. I primi tentativi furono sterili. Il modus operandi merita d'essere ricordato. I1 direttore di una delle carceri dello stato comunicò ai detenuti che nell'antico letto d'un fiume v'erano certi sepolcri, e promise la libertà a chi facesse un ritrovamento importante. Durante i mesi che precedettero gli scavi, furono mostrate ai detenuti fotografie di ciò che dovevano ritrovare. Questo primo tentativo mostrò che la speranza e l'avidità possono costituire una inibizione; in una settimana di lavoro con la pala e con il piccone, non si riuscì ad esumare altro hrön che una ruota rugginita, di data anteriore all'esperimento. La cosa fu mantenuta segreta e fu poi ripetuta in quattro istituti di educazione. In tre l'insuccesso fu quasi completo, nel quarto (il cui direttore morì casualmente durante i primi scavi) gli scolari esumarono - o produssero - una maschera d’oro, una spada arcaica, due o tre anfore di coccio, e il torso verdastro e mutilato d’un re, recante sul petto un’iscrizione che non s'è ancora potuta decifrare. Si scoprì in tal modo come la presenza di testimoni, a conoscenza del carattere sperimentale della ricerca, costituisca una controindicazione... Le investigazioni in massa producono oggetti contraddittori; oggi si preferiscono i lavori individuali e quasi improvvisati. La produzione metodica (dice l’“undicesimo volume”) ha reso servizi prodigiosi agli archeologi. Essa ha permesso di interrogare e perfino di modificare il passato, divenuto non meno plastico e docile dell'avvenire. Fatto curioso: i hrönir di secondo e di terzo grado,- i hrönir derivati da un altro hrön; quelli derivati dal hrön di un hrön - esagerano le aberrazioni del hrön iniziale; quelli di quinto ne sono quasi privi; quelli di nono si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo hanno una purezza di linee non posseduta neppure dall'originale. Il processo è periodico: il hrön di dodicesimo grado comincia già di nuovo a decadere. Più strano e più puro di ogni hrön è talvolta l'ur la cosa prodotta per suggestione, l’oggetto evocato dalla speranza. La gran maschera d’oro cui ho accennato ne è un illustre esempio.

Le cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l'esempio di un'antica soglia, che perdurò finchè un mendicante venne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro.

Salto Oriental, 1940 Poscritto del 1947. Ho riprodotto l'articolo precedente come apparve

nell'Antologia de la literatura fantástica 1940, senz'altra esclusione che di alcune metafore e d'una specie di riassunto burlesco che oggi risulterebbe fuori di luogo. Sono accadute tante cose da allora... Mi limiterò a farne cenno.

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Nel marzo 1941, in un libro di Hinton che era appartenuto a Herbert Ashe, si trovò una lettera manoscritta di Gunnar Erfjord. La busta recava il timbro postale di Ouro Preto; la lettera chiariva interamente il mistero di Tlön. I1 suo testo conferma le ipotesi di Martínez Estrada. La splendida storia cominciò una notte di Lucerna o di Londra, al principio del secolo XVII. Una società segreta e benevola (che contò tra i suoi affíliati Dalgarno, e poi George Berkeley) sorse per inventare un paese. Nel vago programma iniziale figuravano gli “studi ermetici”, la filantropia e la cabala. A questo primo periodo risale il curioso libro di Andreä. In capo ad alcuni anni di conciliaboli e di sintesi premature, si comprese che una generazione non bastava per articolare un paese. Si decise che ciascuno dei maestri che formavano la società si sarebbe scelto un discepolo per la continuazione dell'opera. Questo ordinamento ereditario venne osservato. Poi, dopo uno iato di due secoli, la confraternita risorge in America. Nel 1824, a Memphis (Tennessee) uno degli affiliati parla con l'ascetico milionario Ezra Buckley. Quest'ultimo lo sta a sentire con un certo sprezzo e si ride della modestia del progetto. Dice che in America è assurdo inventare un paese e propone l'invenzione di un pianeta. A questa idea gigantesca ne aggiunge un'altra, figlia del suo nichilismo6: quella di mantenere il silenzio sull'enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica; Buckley suggerisce un'enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lascerà al pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: “L'opera non patteggerà con l'impostore Gesù Cristo”. Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo. Buckley muore avvelenato a Baton Rouge, nel 1828. Nel 1914 la società rimette ai suoi collaboratori, che sono trecento, l’ultimo volume della prima Encyclopaedia di Tlön. La pubblicazione resta segreta: i suoi quaranta volumi (l'opera più vasta che mai si sia compiuta dagli uomini) dovranno servire di base a una altr'opera più minuziosa, redatta non più in inglese, ma in una delle lingue di Tlön. Questa revisione di un mondo illusorio si chiama provvisoriamente Orbis Tertius, e uno dei suoi modesti demiurghi fu Herbert Ashe, non so se come agente di Gunnar Erfjord o come affiliato. Il fatto che egli ricevesse l’“undicesimo volume” sembra favorire la seconda ipotesi. Ma gli altri volumi? A cominciare dal 1942, i fatti si moltiplicarono. Ricordo con singolare nettezza uno dei primi, e mi pare che sentii qualcosa del suo carattere premonitore. Accadde in un appartamento della via Laprida, dinanzi a un chiaro e alto balcone aperto sul tramonto. La principessa de Faucigny Lucinge aveva ricevuto da Poitiers il suo vaseIlame d'argento. Dal vasto fondo di un cassone costellato di etichette internazionali, venivano tratti alla luce oggetto fini e immobili: argenteria di Utrecht e di Parigi con una dura fauna araldica, un samovar. Tra il vasellame -con un percettibile e tenue tremore di uccello addormentato - palpitava misteriosamente una bussola. La principessa non la riconobbe. L'ago turchino anelava al nord magnetico; la cassa di metallo era concava; le lettere del quadrante erano d'uno degli alfabeti di Tlön. Fu questa la prima intrusione del mondo fantastico nel mondo reale. Della seconda, per un caso che m'inquieta, fui ancora testimone io stesso. Accadde alcuni mesi dopo, nel bazar di un brasiliano, alla

6Buckley era un libero pensatore, fatalista e difensore dello schiavismo

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Cuchilla Negra. Amorim e io tornavamo da Sant'Anna. Una piena del fiume Tacuarembò ci obbligò a provare (e a sopportare) quella rudimentale ospitalità. Il brasiliano ci sistemò due brande cigolanti in uno stanzone ingombro di botti e di cuoiami. Ci coricammo, ma ci tennero svegli fino all'alba le escandescenze d'un vicino invisibile, che pareva ubriaco e alternava bestemmie inestricabili con frammenti di canzoni lamentose: o meglio, con frammenti d'una sola canzone lamentosa. Com’è naturale attribuimmo quell'insistente baccano all'amicizia del padrone per il proprio vino... Ma all'alba, trovammo l'uomo morto nel corridoio. L'asprezza della sua voce ci aveva ingannato: era appena un ragazzo. Nel delirio, gli erano cadute dalla cintura alcune monete e un cono di metallo lucente, del diametro di un dado. Un bambino, che volle raccogliere questo cono, non ci riuscì. Un uomo lo sollevò, ma con gran fatica. Io lo tenni in mano per alcuni minuti e ricordo il suo peso intollerabile, che perdurò anche dopo che l’ebbi lasciato. Ricordo anche il cerchio preciso che mi scolpì sul palmo. Il fenomeno d'un oggetto cosi piccolo, e nello stesso tempo così pesante, lasciava un'impressione spiacevole, di sgomento e di paura. Un contadino propose di gettarlo nel fiume tumultuoso. Amorim lo acquistò per pochi pesos. Nessuno sapeva nulla del morto, tranne che “veniva dalla frontiera”. Questi coni piccoli e pesantissimi (fatti d'un metallo che non è di questo mondo) sono l’immagine della divinità in certe religioni di Tlön.

Do qui termine alla parte personale della mia relazione, Il resto è già nella memoria (o nella speranza, o nel timore) di tutti i miei lettori. Mi basterà di rammentare i fatti seguenti, con parole brevi che s'arricchiranno e amplieranno nel concavo ricordo comune. Nel 1944, un reporter del quotidiano “The American” (di NashviIle, Tennessee) scovò in una biblioteca di Memphis i quaranta volumi della prima Encyclopaedia di Tlön. Ma si discute tuttora sulla natura della scoperta: se sia stata casuale, o se l’abbiano consentita i direttori dell’ancora nebuloso Orbis Tertius. L'ipotesi più verosimile è la seconda. Nell'esemplare di Memphis; alcuni passi incredibili dell'“undicesimo volume” (quelli, per esempio, sulla moltiplicazione dei hrönir) sono stati eliminati o attenuati; è ragionevole pensare che queste correzioni corrispondano all'intenzione di presentare un mondo non troppo incompatibile con il mondo reale. La disseminazione di oggetti di Tlön nei diversi paesi farebbe parte dello stesso piano...7. I1 fatto è che il “ritrovamento” ha avuto nella stampa internazionale un'eco infinita. Manuali, antologie, riassunti, versioni letterali, ristampe autorizzate e non autorizzate di questo Opus Majus del Genere Umano hanno inondato e continuano a inondare la terra. Quasi immediatamente, la realtà ha ceduto in più punti. Quel ch'è certo, è che anelava di cedere.

Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine - il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo - per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato? Inutile rispondere che anche la realtà è ordinata. Sarà magari ordinata, ma secondo leggi divine - traduco: inumane - che non finiamo mai di scoprire. Tlön sarà un labirinto, ma e un labirinto ordito dagli uomini, destinato a essere decifrato dagli uomini.

7 Resta da risolvere, naturalmente, il problema della materia di alcuni di questi oggetti

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Il contatto con Tlön, l'assuefazione ad esso hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l’umanità dimentica che si tratta d'un rigore di scacchisti, non di angeli. È già penetrato nelle scuole l'“idioma primitivo” (congetturale) di Tlön; e l'insegnamento della sua storia armoniosa (e piena di episodi commoventi) ha già obliterato quella che presiedette alla mia infanzia: già, nelle memorie, un passato fittizio occupa il luogo dell'altro, di cui nulla sapevamo con certezza... neppure se fosse falso. Sono state riformate la numismatica, la farmacologia e l’archeologia. Suppongo che la biologia e le matematiche attendano anch'esse il proprio avatar... Una sparsa dinastia di solitari ha cambiato la faccia del mondo. I lavori continuano. Se le nostre previsioni non errano, tra un centinaio d'anni qualcuno scoprirà i cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tlön.

Allora spariranno dal pianeta l'inglese e il francese e il semplice spagnolo. I1 mondo sarà Tlön. Io non me ne curo, io continuo a rivedere, nelle quiete giornate dell’Hotel de Adroguè, un'indecisa traduzione quevediana (che non penso di dare alle stampe) dell'Urn Burial di Browne.

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L'accostamento ad Almotasim Philip Guedalla scrive che il romanzo The Approach to Al-Mu’tasim

dell'avvocato Mir Bahadur Alí, di Bombay, “è una combinazione piuttosto disagevole (rather uncomfortable combination) di quei poemi allegorici dell'Islam che mancano raramente di interessare i loro traduttori e di quei romanzi polizieschi che inevitabilmente superano John H. Watson e perfezionano l'orrore della vita umana nei più distinti alberghi di Brighton”. In precedenza, Mr Cecil Roberts aveva denunciato nel libro di Bahadur “la duplice, inverosimile tutela di Wilkie Collins e dell'illustre poeta persiano del secolo XIII Ferid Eddin Attar”: pacata osservazione che Guedalla riprende senza novità, ma col linguaggio incollerito. In sostanza, i due critici sono d'accordo; entrambi segnalano il meccanismo poliziesco dell'opera, e la sua undercurrent mistica. Questo ibridismo potrebbe farci supporre una parentela con Chesterton, ma come vedremo, la supposizione sarebbe errata.

L'editio princeps dell'Accostamento ad Almotasim uscì a Bombay sulla fine del 1932. Era stampata su una carta che era quasi carta da giornale e la copertina annunciava all’acquirente trattarsi del primo romanzo poliziesco scritto da un nativo di Bombay City. In pochi mesi, il pubblico ne esaurì quattro ristampe di mille esemplari ciascuna. La “Bombay Quarterly Review”, la “Bombay Gazette”, la “Calcutta Review”, la “Hindustan Review” (di Allahabad) e il “Calcutta Englishman” si profusero in ditirambi. Bahadur pubblicò allora un'edizione illustrata che intitolò The Conversation with the Man Called Al-Mu’tasim, con questo felice sottotitolo: A Game with Shifting Mirrors (Un gioco di specchi mobili). È questa l'edizione ristampata ora a Londra da Victor Gollancz, con prefazione di Dorothy L. Sayers e con omissione - forse misericordiosa -: delle illustrazioni. L'ho sott'occhio; non sono riuscito a procurarmi la prima, che suppongo molto superiore. A questa supposizione mi autorizza un'appendice, che riassume le divergenze più importanti tra la stesura originale del 1932 e quella del 1934. Prima di esaminare l'opera e di discuterne i meriti, mi converrà indicarne il corso generale.

Il protagonista visibile - di cui non ci viene mai detto il nome - è uno studente in legge di Bombay. Sacrilegamente, costui ha rigettato la fede islamica dei suoi padri; ma ecco, sul declinare della decima notte della luna di muharram, si trova nel centro di una zuffa tra musulmani e indù. 'È una notte di tamburi e di invocazioni, tra la moltitudine inquieta, i grandi pali di carta della processione musulmana s'aprono lentamente la strada. D'un tratto vola una tegola da una terrazza indù; qualcuno affonda un pugnale in un ventre; qualcuno - musulmano? indù? - cade e muore: calpestato. Tremila uomini s'accapigliano: bastone contro rivoltella, oscenità contro imprecazione, Dio l'Indivisibile contro gli Dèi. Attonito, lo studente libero pensatore entra nel tumulto. Con le disperate mani uccide un indù (o pensa d'averlo ucciso). Tonante, equestre, mezzo addormentata, la polizia del Sirkar interviene con grandi scudisciate imparziali. Fugge, quasi di sotto le zampe dei cavalli il nostro studente. Raggiunge l'ultima periferia. Scavalca due scarpate di ferrovia, o due volte la stessa scarpata. Scala il muro di un giardino in sfacelo, con una torre circolare nel fondo. Un branco di cani color di luna (a lean and evil mob of mooncoloured hounds) emerge dai neri rosai. Lo studente braccato cerca

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rifugio sulla torre. S’arrampica per una scala di ferro (mancano alcune traverse), e sull’ultima piattaforma - che ha un pozzo annerito al centro - s’urta in un uomo squallido, che sta orinando vigorosamente al chiaro di luna. Costui gli confida la sua professione: rubare i denti d'oro ai cadaveri vestiti di bianco che i parsi lasciano su questa torre. Dice altre cose nefande e fa capire che, da quattordici notti, non si purifica più con sterco di bufalo. Parla con evidente rancore di certi ladri di cavalli di Guzerat, “mangiatori di cani e di lucertole, uomini insomma così infami quanto noi due”. Raggiorna; nell'aria un volo basso di avvoltoi. Lo studente, stremato, s’addormenta. Quando si sveglia il sole è già alto, e il ladro è sparito; sono anche sparite alcune rupie d'argento e un paio di sigarette di Trichinopoli. Di fronte alle minacce proiettate dalla notte precedente, lo studente decide di perdersi per le strade dell'India. Pensa che s'è mostrato capace di uccidere un idolatra, ma non di sapere con certezza se il musulmano ha più ragione dell'idolatra. Ha ancora nell'orecchio il nome di Guzerat, e quello di una Malka-sansi (donna della casta dei ladri) di Palampur, oggetto preferito delle imprecazioni e dell'odio del profanatore di cadaveri. Ragiona che il rancore d'un uomo così nefando onora la donna che ne è oggetto. Risolve - senza grande speranza - di cercarla. Prega, e intraprende con sicura lentezza il lungo cammino. Qui finisce il secondo capitolo del libro.

Le peripezie dei diciannove capitoli restanti, è impossibile riassumerle. V'è un vertiginoso pullulare di dramatis personae, per non parlare d'una biografia che sembra esaurire i moti dello spirito umano (dall’infamia alla speculazione matematica) e d'una peregrinazione che abbraccia la vasta geografia dell'Indostan. La storia cominciata a Bombay passa sui bassopiani di Palampur, si trattiene un pomeriggio e una notte presso la porta di pietra di Bikanir, cospira nel palazzo multiforme di Katmandù, prega e fornica nel fetore pestilenziale del Machua bazar di Calcutta, guarda nascere i giorni sul mare da un ufficio del catasto di Madras, guarda morire le sere sul mare da un balcone nello stato di Trevancor, vacilla e uccide a Indapur, e conchiude la sua orbita di leghe e di anni nella stessa Bombay, a pochi passi dal giardino dei cani color di luna. L’argomento è questo: un uomo - lo studente incredulo e fuggiasco che conosciamo - cade tra gente della classe più vile, e si adatta ad essa in una specie di gara di infamie. D’un colpo - con lo spavento miracoloso di Robinson dinanzi all’orma di un piede umano sulla sabbia - s’accorge d’una certa attenuazione di quest'infamia: d'un intenerimento, d’una esaltazione, d'un silenzio, in uno di quegli uomini abominevoli. “Fu come se fosse entrato nel dialogo, come terzo, un interlocutore più complesso”. Sa che l’uomo vile con cui sta conversando è incapace di questo momentaneo decoro; ne deduce che quel che ha scorto in colui è il riflesso d'un amico, o di un amico d'un amico. Ripensando il problema, giunge a un convincimento misterioso: “In un qualche punto della terra v'è un uomo da cui procede questa chiarità; in un qualche punto della terra sta l’uomo che è uguale a questa chiarità”. Risolve di dedicare la propria vita alla sua ricerca.

Già s’intravede l'argomento generale: l’insaziabile ricerca di un’anima attraverso i delicati riflessi che essa ha lasciato nelle altre: al principio, la traccia tenue d'un sorriso o d’una parola; poi, splendori diversi e crescenti della ragione, dell’immaginazione e del bene. A misura che gli uomini interrogati han conosciuto più da presso Almotasim, è maggiore in essi la proporzione divina, ma si comprende che restano semplici specchi. La tecnica matematica è qui

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applicabile: il denso romanzo di Bahadur è una progressione ascendente, il cui termine finale è il presentito “uomo che si chiama Almotasim”. L'antecedente immediato di Almotasim è un libraio persiano di somma cortesia e letizia, il predecessore di questo libraio è un santo... Dopo lunghi anni lo studente giunge a una galleria, in fondo alla quale è una porta, e da quella porta, attraverso una tenda a perline da pochi soldi, filtrava uno splendore”. Lo studente batte due volte le mani, chiede di Almotasim. Una voce d'uomo - l'incredibile voce di Almotasim - lo invita a entrare. Lo studente scosta la tenda e avanza. Qui termina il romanzo.

Se non m'inganno, per portare a buon fine una tale impresa, lo scrittore avrebbe dovuto soddisfare a due obblighi: primo; variare l'invenzione dei tratti profetici; secondo, fare dell'eroe prefigurato in questi tratti altra cosa che una mera convenzione o un mero fantasma. Bahadur ha soddisfatto al primo, ma non so se anche, o in che misura, al secondo. In altri termini: l'inaudito e mai visto Almotasim dovrebbe lasciarci l'impressione d'un personaggio reale, non di un disordine di superlativi insipidi. Nella stesura del 1932 le notazioni soprannaturali sono meno abbondanti: “l'uomo detto Almotasim” tiene alquanto del simbolo, ma non è privo di tratti personali, idiosincrasici. Disgraziatamente, questa buona condotta letteraria non durò. Nella versione del 1934 - quella che ho sott’occhio - il romanzo scade ad allegoria: Almotasim è l'emblema di Dio, e i puntuali itinerari del protagonista corrispondono scopertamente ai progressi di un'anima nell'ascesa mistica. Non mancano i dettagli affliggenti: un giudeo negro di Kochin che parla di Almotasim dice che ha la pelle scura; un cristiano lo immagina sopra una torre con le braccia aperte, un lama rosso lo ricorda seduto, “simile a quest’immagine di manteca di yak che modellai e adorai nel monastero di Tashilhunpo”. Queste notazioni vorrebbero introdurre un Dio unitario che s'accomoda delle diseguaglianze degli uomini. L'idea, a mio parere, è poco stimolante. Non dirò lo stesso d'un'altra idea, o congettura: quella che lo stesso Onnipotente sia in cerca di Qualcuno, e questo Qualcuno di Qualcun' Altro superiore (o comunque imprescindibile, anche se uguale), e così di seguito fino alla Fine - o meglio, al Senza fine - del Tempo, o in forma ciclica. Almotasim (nome di quell'ottavo Abbaside che vinse otto battaglie e generò otto maschi e otto femmine, lasciò ottomila schiavi e regnò otto anni, otto lune e otto giorni) significa etimologicamente il cercatore di rifugio. Nella versione del 1932, il fatto che la meta del pellegrinaggio fosse un altro pellegrinaggio rendeva felicemente ragione della difficoltà di raggiungerla; in quella del 1934, lo stesso fatto dà luogo alla teologia stravagante di cui s'è parlato. Mir Bahadur Alí, l'abbiamo visto, è incapace di sottrarsi alla più goffa delle tentazioni dell'artista: quella di essere un genio.

Rileggendo ciò che ho scritto, temo di non aver messo in sufficiente risalto i meriti del libro. Vi sono tratti molto fini: per esempio, una certa disputa del capitolo XIX in cui s’indovina un amico di Almotasim nel contendente che non ribatte i sofismi dell'altro “per non aver ragione in modo trionfale”.

È opinione comune che derivare da un libro antico, per un libro attuale, sia cosa di molto merito; forse perchè non piace a nessuno (come disse Johnson) dovere qualcosa ai propri contemporanei. I ripetuti ma insignificanti contatti delI'Ulysses di Joyce con l’Odissea omerica continuano a suscitare - non capirò mai perché - l'attonita ammirazione della critica; quelli del romanzo

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di Bahadur con il venerato Colloquio degli uccelli di Farid ud-din Attar riscuotono il non meno misterioso applauso di Londra, e anche di Calcutta e Allahabad. Non mancano altre derivazioni. Alcuni hanno rilevato certe analogie tra la prima scena del romanzo e il racconto di Kipling On the City Wall; Bahadur le riconosce, ma aggiunge che sarebbe ben strano se due descrizioni della decima notte di muharram non coincidessero... Eliot, con più ragione, ricorda i settanta canti dell’incompleta allegoria The Faërie Queene, in cui - com'è osservato in una nota di Richard William Churci (Spencer, 1879) - l'eroina, Gloriana, non compare neppure una volta. Io, con tutta modestia, segnalo un precursore lontano e possibile: i1 cabalista di Gerusalemme, Isaac Luria, che predicò la dottrina dellà Ibbûr, ossia dell'anima di un maestro o antenato che s'infonde nell'anima di uno sventurato, per confortarlo e istruirlo.8

8Ho accennato in questo scritto al Mantiq al tayr (Colloquio degli uccelli) del mistico persiano Farid al-Din

Abú Talib Muhàmmad ben Ibrahim Attar che fu ucciso dai soldati di Tule, figlio di Gengis Khan, durante il sacco di Nishapur. Vorrei tentarne un riassunto. Il remoto re degli uccelli, il Simurg, lascia cadere nel centro della Cina una piuma splendida. Gli uccelli, stanchi della loro antica anarchia, decidono di intraprenderne la ricerca. Sanno che il nome del loro re vuol dire trenta uccelli; sanno che la sua reggia è nel Kaf, la montagna circolare che circonda la terra. Si lanciano nella quasi infinita avventura; superano sette valli, o mari; il nome del penultimo è Vertigine; l’ultimo si chiama Annichilamento. Molti dei pellegrini disertano; altri periscono. Trenta, purificati dalle fatiche durate, giungono alla montagna del Simurg. La contemplano alfine: s'accorgono che essi stessi sono il Simurg, e che il Simurg è ciascuno di loro. (Anche Plotino - Enneadi V 8.4 - predica un’estensione paradisiaca del principio di identità “Tutto, nel cielo

intellegibile, è in ogni parte. Ogni cosa è tutte le cose. Il sole è tutte le stelle, e ogni stella è tutte le stelle e il sole”). Il Mantiq al-Tayr è stato tradotto in francese da Garcin de Tassy; in inglese da Edward Fitzgerald; per questo scritto ho consultato il decimo volume delle Mille e una notte di Burton: e la monografia The Persian Mystics: Attar (1932) di Margaret Smith.

I contatti di questo poema con il romanzo di Mir Bahadur Alí non son moltissimi. Nel capitolo XX, in alcune parole attribuite da un libraio persiano ad Almotasim, è forse da vedere l'amplificazione di altre parole dette dal protagonista; questa e altre ambigue analogie potrebbero significare l’identità del ricercato e del ricercante; potrebbero anche significare che questo influisce su quello. Un altro capitolo contiene questa insinuazione; Almotasim sarebbe l'“indù” che lo studente crede di aver ucciso.

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Pierre Menard, autore del Chisciotte

a Silvina Ocampo . L'opera visibile lasciata da questo romanziere è di facile e breve

enumerazione. Sono pertanto imperdonabili le omissioni e le aggiunte perpetrate da Madame Henri Bachelier in un elenco ingannevole che un certo giornale la cui tendenza protestante non è un segreto per nessuno, ha avuto la sconsiderazione di presentare ai suoi deplorevoli lettori. Gli amici veri di Menard hanno visto questo catalogo con allarme, e anche con una certa tristezza. Non è molto - e sembra ieri - che ci riunimmo dinanzi al marmo finale, tra i cipressi infausti, e già l'Errore cerca di appannare la sua Memoria... decisamente, una breve rettifica s’impone.

So che è molto facile contestare la mia povera autorità. Mi si consenta dunque di citare due alti testimoni. La baronessa di Bacourt (ai cui vendredis indimenticabili ebbi l’onore di conoscere il compianto poeta) ha tenuto ad approvare le righe che seguono. La contessa di Bagnoregio, uno degli spiriti più fini del Principato di Monaco (e ora di Pittsburgh, Pennsylvania, dopo le sue recenti nozze col filantropo internazionale Simon Kautzsch), ha sacrificato “alla verità e alla morte” (sono le sue parole) con la signorile riserva che la distingue, e, in una lettera aperta pubblicata dalla rivista “Luxe”, mi concede anch’essa il suo beneplacito. Questi titoli di nobiltà, credo, non sono insufficienti.

Ho detto che l'opera visibile di Menard è facilmente enumerabile. Esaminati con zelo gli archivi personali del poeta, ho potuto stabilire che essa comprende gli scritti seguenti:

a) un sonetto simbolista pubblicato due volte (con varianti) dalla rivista “La conque” (numeri di marzo e di ottobre del 1899;

b) una monografia sulla possibilità di compilare un dizionario poetico di concetti che non siano sinonimi o perifrasi di quelli che informano il linguaggio comune, “ma oggetti ideali creati secondo una convenzione, e destinati essenzialmente alle necessità poetiche” (Nîmes 190l);

c) una monografia su “certe connessioni è affinità del pensiero di Descartes, di Leibniz e di John Wilkins” (Nîmes 1903);

d) una monografia sulla Characteristica universalis di Leibniz (Nîmes 1904)

e) un articolo tecnico sulla possibilità di arricchire i1 gioco degli scacchi eliminando uno dei pedoni di torre. Menard propone, raccomanda, discute, e finisce per rigettare questa innovazione;

f) una monografia sull'Ars mogna generalis di Raimondo Lullo (Nîmes 1906);

g) una traduzione con prefazione e note del Libro de la invención liberal y arte del juego del axedrez di Ruy López de Segura (Paris 1907);

h) appunti per una monografia sulla logica simbolica di George Boole;

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i) un esame delle leggi metriche essenziali della prosa francese, illustrato con esempi di Saint-Simon (“Revue de langues romanes”, Montpellier, ottobre 1909);

j) una replica a Luc Durtain (che aveva negato l’esistenza di tali leggi) illustrata con esempi di Luc Durtain (“Revue de langues romanes”, Montpellier, dicembre 1909);

k) una traduzione manoscritta della Aguja de navegar ocultos di Quevedo, col titolo La Boussole des Précieux;

l) una prefazione al catalogo dell’ esposizione di litografie di Carolus Hourcade (Nîmes 1914);

m) l’opera Les problèmes d'un problème (Paris 1917) che discute nell'ordine cronologico le soluzioni dell’illustre problema di Achille e della tartaruga. Di questo libro sono state pubblicate finora due edizioni; la seconda porta in epigrafe il consiglio di Leibniz: “Ne craignez point, monsieur, la tortue”, e i capitoli dedicati a Russell e a Descartes vi appaiono sostanzialmente rimaneggiati;

n) un'analisi minuziosa dei “costumi sintattici” di Toulet (“NRF”, marzo 1921). Menard -ricordo - affermava che il censurare e il lodare sono operazioni sentimentali, che nulla hanno a che vedere con la critica;

o) una trasposizione in alessandrini del Cimetière marin di Paul Valéry (“NRF”, gennaio 1928);

p) un'invettiva contro Paul Valéry, nelle Feuilles pour la suppression de la réalité di Jacques Reboul. (Quest’invettiva - sia detto tra parentesi - è giusto il contrario di ciò che Menard pensava di Valery. Quest'ultimo l'intese appunto in tal modo, e l’antica amicizia tra i due non corse pericolo);

q) una “definizione” della contessa di Bagnoregio, nel “vittorioso volume” - l'espressione è di un altro collaboratore, Gabriele d’Annunzio - che questa signora pubblica annualmente per rettificare le inevitabili falsificazioni del giornalismo e presentare “al mondo e all’Italia” un’autentica effigie della sua persona, tanto esposta (in causa stessa della sua bellezza e della sua operosità) alle interpretazioni erronee o affrettate;

r) un ciclo di ammirabili sonetti per la baronessa di Bacourt (1934); s) una lista manoscritta di versi che debbono la loro efficacia alla punteggiatura9

Fin qui (senz’altra omissione che di qualche vago sonetto di circostanza

per l’ospitale - o avido - album di Madame Henri Bachelier) l’opera visibile di Menard, nell’ordine cronologico. Vediamo ora la sotterranea, l’infinitamente eroica, l'impareggiabile. Che è anche - ahi, limiti dell’uomo! - l’incompiuta. Quest'opera, forse la più significativa del nostro tempo, consta dei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo

9 Madame Henri Bachelier cita anche una traduzione letterale della traduzione letterale che fece Quevedo della Introduction à la vie devote di san Francesco di Sales. Nella biblioteca di Menard non v'è traccia a di quest’opera. Deve trattarsi di uno scherzo del nostro amico, male interpretato

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XXII. So che una tale affermazione ha tutta l’aria di un'assurdità; giustificare questa “assurdità”, è lo scopo principale di questa nota10.

Due testi di valore ineguale ispirarono l'impresa. Uno è quel frammento filologico di Novalis - numero 2005 dell’edizione di Dresda che abbozza il tema dell'identificazione totale con un determinato autore. L'altro è uno di quei libri parassitari che ambientano Cristo in un boulevard, Amleto nella Cannebière e Don Chisciotte a Wall Street. Come ogni persona di buon gusto, Menard aveva in orrore queste inutili mascherate, buone solo - diceva - a procurarci il volgare piacere dell’anacronismo, o (ciò che è peggio) a istupidirci con l’idea primaria che tutte le epoche sono uguali, o che tutte sono distinte. Più interessante, anche se d'esecuzione contraddittoria e superficiale, gli sembrava il famoso proposito di Daudet: riunire in un personaggio, che è Tartarin, I'Ingegnoso Hidalgo e il suo scudiero... Chi insinua che Menard dedicò la vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria.

Non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes.

“Il mio proposito è certo sorprendente, - mi scrisse il 30 settembre 1934, da Bayonne. - Ma l'oggetto finale d'una dimostrazione teologica o metafisica non è meno dato e comune del divulgato romanzo che mi propongo. La sola differenza è questa: che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del proprio lavoro, e io ho risoluto di cancellarle”. Nel testo definitivo, infatti, non v'è alcuna correzione, alcuna aggiunta, che attesti questo lavoro di anni.

Il metodo che immaginò da principio era relativamente semplice. Conoscere bene lo spagnolo, recuperare la fede cattolica, guerreggiare contro i mori o contro il turco, dimenticare la storia d'Europa tra il 1602 e il 1918, essere Miguel de Cervantes. Menard studiò questo procedimento (so che giunse a una padronanza sufficiente dello spagnolo del secolo XVII) ma lo scartò perché facile. Piuttosto, perché impossibile!, dirà il lettore. D'accordo, ma l'impresa era già impossibile in partenza, e di tutti gli impossibili mezzi per condurla a termine, questo era il meno interessante. Essere nel secolo XX un romanziere del secolo XVII gli parve simulazione. Essere in qualche modo Cervantes, e giungere così al Chisciotte, gli parve meno arduo - dunque meno interessante - che restare Pierre Menard e giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard. (Questo convincimento, sia detto di passata, lo indusse a espungere il prologo autobiografico della seconda parte. Includere questo prologo sarebbe stato creare un altro personaggio - Cervantes - ma avrebbe anche significato presentare il Chisciotte in funzione di questo personaggio, e non di Menard. Il quale, naturalmente, rifiutò questa facilitazione). “In sostanza, - leggo in un altro punto della sua lettera; - la mia impresa non è difficile. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine”. Confesserò che mi piace immaginare che la terminò, e che leggo il Chisciotte - tutto il Chisciotte - come se l'avesse pensato Menard? Sere fa,

10 M’ero anche proposto di abbozzare un ritratto di Menard. Ma come arrivare a competere con le auree pagine che sta preparando, a quanto mi dicono, la baronessa di Bacourt, o con la matita delicata e puntuale di Carolus Hourcade?

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sfogliando il capitolo XXVI (non tentato dal nostro amico), riconobbi il suo stile, e quasi 1a sua voce, in questa frase eccezionale: las ninfas de los rios, la dolorosa y húmida Eco. Questa efficace congiunzione d'un aggettivo morale con uno fisico mi richiamò alla memoria un verso di Shakespeare che discutemmo una sera:

Where a malignant and turbaned Turk...

Perché - dirà il nostro lettore - proprio il Chisciotte? In uno spagnolo,

questa preferenza non sarebbe stata inesplicabile; ma inesplicabile può sembrare in un simbolista di Nîmes, devoto essenzialmente di Poe, che generò Baudelaire, che generò Mallarmé, che generò Valéry, che generò Edmond Teste. La lettera citata chiarisce il punto. “I1 Chisciotte, - spiega Menard, - m'interessa profondamente, ma non mi sembra... come dire?... inevitabile. Non posso immaginare l’universo senza l'interiezione di Edgar Allan Poe:

Ah, bear in mind this garden was enchanted!

o senza il Bateau Ivre o L'Ancient Mariner, ma mi so capace

d'immaginarlo senza il Chisciotte. (Parlo, naturalmente, della mia capacità personale, e non della risonanza storica delle opere). I1 Chisciotte è un libro contingente, il Chisciotte è innecessario. Posso premeditarne la scrittura. posso scriverlo, senza incorrere in una tautologia. A dodici e tredici anni lo lessi, forse integralmente. Poi ho riletto con attenzione alcuni capitoli, quelli che non tenterò per il momento. Ho dato anche una scorsa agli intermezzi, alle commedie, alla Galatea, alle Novelle esemplari, alle fatiche indubbiamente laboriose di Persiles e Segismunda, e al Viaggio del Parnaso... I1 ricordo d'insieme che ho del Chisciotte, semplificato dall'oblivio e dall'indifferenza, può benissimo equivalere all’imprecisa immagine anteriore d'un libro non scritto. Ammessa quest’immagine (che nessuno, in buona fede, può rifiutarmi) resta che il mio problema è assai più difficile di quello di Cervantes. Il mio compiacente precursore non rifiutò la collaborazione del caso: andava componendo la sua opera immortale un poco à la diable, portato da inerzie del linguaggio e dell’invenzione. Io ho contratto l'obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea. I1 mio gioco solitario è governato da due leggi antitetiche. La prima mi permette di tentare varianti di tipo formale o psicologico; la seconda mi impone di abolire ogni variante in favore del testo “originale”, e di ragionare irrefutabilmente questa abolizione... A questi impedimenti artificiali se ne aggiunge un altro, congenito. Comporre il Chisciotte al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, è quasi impossibile. Non invano sono passati, trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte”.

A dispetto di questi ostacoli, il frammentario Chisciotte di Menard è più sottile di quello di Cervantes. Quest’ultimo, semplicisticamente, oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese; Menard sceglie come “realtà” la terra di Carmen durante il secolo di Lepanto e di Lope. Che spagnolate non avrebbe consigliato una scelta simile a Maurice Barrès o al dottor Rodriguez Larreta! Menard, con tutta naturalezza, le elude. La sua

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pagina non s'impaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé. Neglige o proscrive il colore locale. Questo sprezzo testimonia d’un senso nuovo del romanzo storico. Questo sprezzo condanna Salammbô, inesorabilmente.

Non meno interessante l'esame di capitoli singoli Vediamo per esempio il XXXVIII della parte prima, “che tratta del curioso discorso che fece Don Chisciotte sulle armi e sulle lettere”. È noto che Don Chisciotte (come Quevedo nel passo analogo, e posteriore, della Hora de todos) si pronuncia contro le lettere, in favore delle armi. Cervantes era un vecchio soldato, e il suo giudizio si spiega. Ma che il Don Chisciotte di Pierre Menard - contemporaneo della Trahison des clercs e di Bertrand Russell - ricada in queste nebulose sofisticherie! Madame Henri Bachelier ha voluto scorgervi un'ammirevole e tipica subordinazione dell’autore alla psicologia dell'eroe; altri (non più perspicacemente), una trascrizione del Chisciotte; la baronessa di Bacourt, l'influenza di Nietzsche. A questa terza interpretazione (che giudico irrefutabile) non so se m’arrischierò a farne seguire una quarta, che s'addirebbe assai bene alla modestia quasi divina di Menard: alla sua rassegnata o ironica abitudine di propagare delle idee che erano l'esatto rovescio di quelle preferite da lui. (Rammentiamo ancora una volta la sua diatriba contro Paul Valéry nell’effimero foglio surrealista di Jacques Reboul). I1 testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco. (Più ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l'ambiguità è una ricchezza).

Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz'altro rivelatore. I1 primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):

la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes,

quest'enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard,

contemporaneo di William James, non vede nella storia l'indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali - esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire. - sono sfacciatamente pragmatiche.

Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non cosi quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della propria epoca.

Non v'è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica è al principio una descrizione verosimile dell'universo; passano gli anni, ed è un semplice capitolo - quando non un paragrafo o un

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nome - della storia della filosofia. Nelle opere letterarie, questa caducità finale è ancora più evidente. I1 Chisciotte - mi diceva Menard - fu anzitutto un libro gradevole; ora è un’occasione di brindisi patriottici, di superbia grammaticale, di oscene edizioni di lusso! La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore.

Queste affermazioni nichiliste non hanno nulla di nuovo; ma nuova e singolare è la conclusione che ne trasse Menard. Risolse di precorrere la vanità che attende tutte le fatiche dell'uomo; s'accinse a un'impresa complessissima e futile in partenza. Dedicò i suoi scrupoli e le sue veglie a ripetere in un idioma estraneo un libro preesistente. Moltiplicò i rifacimenti, corresse e lacerò migliaia di pagine manoscritte11. Non permise a nessuno di esaminarle, e curò che non gli sopravvìvessero. Invano ho cercato di ricostruirle.

Ho pensato che il Don Chisciotte finale potrebbe considerarsi come una specie di palinsesto, in cui andrebbero ricercate le tracce - tenui, ma non indecifrabili - della scrittura “anteriore” del nostro amico. Disgraziatamente, solo un secondo Pierre Menard, invertendo il lavoro del primo, potrebbe resuscitare queste Troie...

“Pensare, analizzare, inventare (mi scrisse pure) non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza. Glorificare l'occasionale esercizio di questa finzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore ciò che il doctor universalis pensò, è confessare il nostro languore o la nostra barbarie. Ogni uomo dev'esser capace di ogni idea, e credo che nell’avvenire sarà così”.

Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l’Odissea come se fosse posteriore all'Eneide, e i libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventure i libri più calmi. Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l’Imitazione di Cristo non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?

Nîmes, 1939

11Ricordo i suoi quaderni a quadretti, le sue nere cancellature, i suoi peculiari simboli tipografici e la sua

scrittura da insetto. Verso sera, gli piaceva andarsene a camminare per i sobborghi di Nîmes; soleva portar seco un quaderno, e farne un allegro falò.

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Le rovine circolari

And if he left off dreaming about you... Through the Looking-Glass IV

Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di

bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l'uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l'idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente. L'uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra, che fu una volta del colore del fuoco ed è ora di quello della cenere. Questa rotonda è ciò che resta d'un tempio che antichi incendi divorarono, cui profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore che le ferite s'erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della carne ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d'un altro tempio propizio, anch'esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno. Verso la mezzanotte lo svegliò il grido inconsolabile d'un uccello. Orme di piedi nudi, alcune frutta e un bacile l’informarono che la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia. Sentì il freddo della paura e cercò nella muraglia dilapidata una nicchia sepolcrale, si coprì con foglie sconosciute.

II proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto magico aveva esaurito l'intero spazio della sua anima; se alcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere. Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perché era un minimo di mondo visibile; anche gli conveniva la vicinanza dei contadini, perché s'incaricavano di sovvenire ai suoi bisogni frugali. I1 riso e le frutta del loro tributo erano pascolo sufficiente al suo corpo, consacrato all'unico compito di dormire e di sognare.

A1 principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro d’un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad un’altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L'uomo dettava lezioni d'anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza di quell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l'avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno, o più tardi, da sveglio, l'uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli

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impostori, indovinava in certe perplessità un’intelligenza crescente. Cercava un'anima che meritasse di partecipare all'universo.

Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma sì in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto, non potevano aspirare alla condizione di individuo; gli altri preesistevano un poco di più. Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno, ormai non vegliava che un paio d'ore al mattino) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore. La brusca eliminazione dei suoi condiscepoli non lo sconcertò troppo a lungo; dopo poche lezioni, i suoi progressi già meravigliavano il maestro. Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l'uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d'un tramonto che prese per un'aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la lucidità intollerabile dell'insonnia s'abbatté su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma poté appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole, fugacemente traversati da visioni di tipo rudimentale: inservibili. Volle convocare il collegio, ma aveva appena articolato poche parole d'esortazione che quello si deformò, si cancellò. Nella veglia quasi perpetua, lagrime di rabbia bruciavano i suoi vecchi occhi.

Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto più arduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto. Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l'enorme allucinazione che l’aveva sviato al principio, e cercò un altro metodo di lavoro. Prima di applicarlo, dedicò un mese al recupero delle forze che aveva sprecato nel delirio. Non premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire per un tratto ragionevole del giorno. Le rare volte che sognò durante questo periodo non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l'impresa, aspettò che il disco della luna fosse perfetto. Allora, di sera, si purificò nelle acque del fiume, adorò gli dèi planetari, pronunciò le sillabe lecite d'un nome poderoso e dormì. Quasi subito, sognò un cuore che palpitava.

Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d'un pugno serrato, color granata nella penombra d'un corpo umano ancora senza volto né sesso; con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava: si limitava ad esserne testimone, a osservarlo, talvolta a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli. La quattordicesima notte sfiorò con l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu il compito più difficile. Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, né parlava, né poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato.

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Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così inabile, rozzo ed elementare come quest'Adamo di polvere, era l’Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato. Una sera, l'uomo fu quasi per distruggere tutta l'opera, ma si pentì. (Più gli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell'effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno, sognò questa statua. La sognò viva, tremula: non era un atroce bastardo di cavallo e di tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, e anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il sognatore, l'avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordinò di inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell'altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a valle, affinché una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell'edificio deserto. Nel sonno dell'uomo che lo sognava il sognato si svegliò.

I1 mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo (e furono finalmente due anni) a scoprirgli gli arcani dell'universo e del culto del fuoco. Nell'intimo, gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno. Rifece anche l’omero destro, forse mal riuscito. A volte, l'inquietava un'impressione che tutto quello fosse già avvenuto... In complesso, i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi pensava: “Ora starò con mio figlio”. O, più di rado: “Il figlio che ho generato m'aspetta, e non esisterà se non vado”.

Gradualmente, lo venne avvezzando alla realtà. Una volta gli comandò di imbandierare una cima lontana. I1 giorno dopo, sul monte, fiammeggiava la bandiera. Tentò altri esperimenti di questo genere, ogni volta più audaci. Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, la baciò, e lo inviò all'altro tempio, le cui vestigia biancheggiavano a valle, a molte leghe di selva inestricabile e di acquitrini. Prima (perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un uomo come gli altri) gl'infuse l'oblivio totale dei suoi anni di apprendistato.

La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All’alba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, più a valle la notte non sognava, o sognava come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme dell’universo: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie d'estasi. Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. I1 mago ricordò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte le creature che compongono l'orbe, il fuoco era l'unica a sapere che suo figlio era un fantasma. Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione

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del sogno di un altr’uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è naturale che il mago temesse per l'avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete.

I1 termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Primo (dopo una lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso Sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poiché si ripeté ciò che era già accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte dal fuoco. In un'alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l'incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell'acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.

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La lotteria a Babilonia. Come tutti gli uomini di Babilonia, sono stato proconsole; come tutti,

schiavo; anche ho conosciuto l’onnipotenza, l’obbrobrio, le carceri. Guardino: la mia mano destra è monca dell’indice. Guardino: per questo strappo del mantello si vede sulla mia carne un tatuaggio vermiglio; è il secondo simbolo, Beth. Le notti di luna piena, questa lettera mi conferisce potere sugli uomini il cui marchio è Ghimel, ma mi subordina a quelli di Aleph, che nelle notti senza luna debbono obbedienza a quelli di Ghimel. Sul crepuscolo del mattino, in un sotterraneo, ho sgozzato tori sacri dinanzi a una pietra nera. Per tutto un anno della luna, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondevano, rubavo il pane e non mi decapitavano. Ho conosciuto ciò che ignorano i greci: l’incertezza. In una camera di bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolatore, ho avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura. Eraclide Pontico riferisce con ammirazione che Pitagora ricordava d'essere stato Pirro, e prima di lui Euforbo, e ancor prima un qualche altro mortale; per ricordare vicissitudini analoghe, io non ho bisogno di ricorrere alla morte, nè all'impostura.

Debbo questa varietà quasi atroce a un'istituzione che altre repubbliche ignorano, o che opera in esse in modo imperfetto e segreto: la lotteria. Non ho indagato la sua storia; so che i maghi che ne ragionano non sono giunti a un accordo; so dei suoi scopi poderosi ciò che può sapere della luna l’uomo non versato in astrologia. Sono di un paese vertiginoso dove la lotteria è parte principale della realtà: fino a oggi pensai così poco ad essa come alla condotta degli dèi indecifrabili o del mio cuore. Ora, lontano da Babilonia e dai suoi costumi che amo, penso con qualche stupore alla lotteria, e alle congetture blasfeme che mormorano nel crepuscolo gli uomini velati.

Mio padre raccontava che anticamente - anni addietro? secoli? - la lotteria fu a Babilonia un gioco di carattere plebeo. Diceva (se sia vero non so) che i barbieri distribuivano, in cambio di monete di rame, rettangoli d'osso e di pergamena ornati di simboli. Il sorteggio si faceva di giorno: i favoriti ricevevano, senz’altra convalida del caso, delle monete d’argento coniate. Come vedono, il procedimento era elementare.

Naturalmente, queste “lotterie” fallirono. La loro virtù morale era nulla. Non si rivolgevano a tutte le facoltà dell’uomo: solo alla sua speranza. Aumentando l'indifferenza del pubblico, gli affaristi che avevano fondato quelle lotterie venali cominciarono a perdere il loro denaro. Qualcuno tentò una riforma: l'interpolazione di poche sorti avverse tra il numero di quelle favorevoli. In virtù di questa riforma, gli acquirenti di rettangoli numerati si mettevano al duplice azzardo di riscuotere un premio e di pagare una multa a volte ingente. Questo tenue rischio (per ogni trenta numeri favorevoli ve n'era uno disgraziato) risvegliò, com'è naturale, l'interesse del pubblico. I Babilonesi si dettero in massa a questo gioco. Chi non acquistava sorti era considerato un pusillanime, un dappoco. Col tempo, questo disprezzo crebbe a includere non solo quelli che non giocavano, ma anche quelli che avendo giocato, e perduto, si rassegnavano alla conciliazione dell'ammenda. La Compagnia (così si cominciò allora a chiamarla) dovette vegliare sugli interessi dei vincitori, che non potevano riscuotere i premi se mancava nelle casse l'importo quasi totale

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delle multe. S'intentarono processi ai perditori che non pagavano: il giudice li condannava al pagamento della multa e delle spese, o a qualche giorno di carcere. Tutti, pur di defraudare la Compagnia, optarono per il carcere. Da questa bravata di alcuni nacque l'onnipotenza della Compagnia: il suo valore ecclesiastico, metafisico.

In poco tempo, i bollettini di sorteggio finirono per omettere la lista delle multe e si limitarono a elencare i giorni di prigione relativi a ciascun numero avverso. Questo laconismo, che passò allora quasi inavvertito, fu di importanza capitale. Fu la prima apparizione nella lotteria di elementi non pecuniari. I1 successo fu grande. Su insistenza dei giocatori, la Compagnia si vide costretta ad accrescere la proporzione dei numeri avversi.

È noto che il popolo di Babilonia è molto devoto alla logica, e anche alla simmetria. Era illogico che i numeri fausti si computassero in tonde monete e gli infausti in giorni e notti di carcere. Alcuni moralisti osservarono il possesso di monete non sempre determinare la felicità, ed esservi, forse, forme più dirette della fortuna

Un'altra inquietudine s'allargava nei quartieri poveri. I membri del collegio sacerdotale moltiplicavano le poste e godevano di tutte le vicissitudini del terrore e della speranza; i poveri (con invidia ragionevole, e comunque inevitabile) si vedevano esclusi da questo va e vieni, notoriamente delizioso. Il giusto desiderio che tutti, poveri e ricchi, partecipassero egualmente alla lotteria, promosse un'agitazione indignata, la cui memoria non s'è cancellata ancora. Alcuni ostinati non compresero (o finsero di non comprendere) che si trattava di un' ordine nuovo, di una necessaria tappa storica... Uno schiavo rubò un biglietto cremisi che nel sorteggio lo designò per la bruciatura della lingua. Il codice prevedeva la stessa pena per chi rubava un biglietto. Alcuni Babilonesi argomentarono che colui meritava il ferro rovente nella sua qualità di ladro; altri, magnanimi, che il carnefice doveva applicarglielo poiché cosi aveva voluto il caso... Vi furono tumulti, effusioni deplorevoli di sangue; ma la gente di Babilonia impose finalmente la sua volontà contro l’opposizione dei ricchi. I1 popolo conseguì appieno i suoi fini generosi. In primo luogo, ottenne il trasferimento alla Compagnia di tutti i poteri pubblici. (Questa unificazione era necessaria, data la vastità e complessità delle nuove operazioni). In secondo luogo, ottenne che la lotteria fosse segreta, gratuita e universale. Fu abolita la vendita mercenaria delle sorti. Iniziato ai misteri di Bel, ogni uomo libero partecipava automaticamente ai sacri sorteggi che si facevano nei labirinti del dio ogni sessanta notti, e che determinavano il suo destino fino al nuovo esercizio. Le conseguenze erano incalcolabili. Una giocata fortunata poteva bastare per entrare nel concilio dei maghi, o per mandare in prigione un nemico (notorio o intimo), o per incontrare, nella calma oscurità della propria stanza, la donna che comincia a inquietarci e che non speriamo di rivedere; una giocata avversa invece, poteva significare una mutilazione, l'infamia, la morte. A volte un fatto solo - il taverniere assassinato da C, l’apoteosi misteriosa di B - era la soluzione geniale di trenta o quaranta sorti. Combinare le giocate era difficile; ma bisogna ricordare che gli uomini della Compagnia erano (e sono) onnipotenti e astuti. Molte volte, il sapere di certe felicità che erano semplice fattura del caso, avrebbe potuto diminuirne l'efficacia; per evitare quest'inconveniente, gli agenti della Compagnia usavano di suggestioni e della magia. I loro passi, i loro maneggi, erano segreti. Per scoprire le intime

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speranze e gli intimi terrori di ciascuno, disponevano di astrologi e di spie. V'erano certi leoni di pietra, v'era una latrina segreta chiamata Qaphqa, v'erano certe crepe in un acquedotto polveroso che, secondo l’opinione generale, davano sulla Compagnia; gente maligna o benevola depositava delazioni in questi luoghi. Un archivio alfabetico raccoglieva queste informazioni di varia attendibilità.

Incredibilmente, non mancarono mormorazioni. La Compagnia, con la sua abituale discrezione, non replicò direttamente. Preferì sgorbiare sulle rovine d’una fabbrica di maschere un argomento breve, che ora figura nelle scritture sacre. Questo scritto dottrinale osservava che la lotteria è un'interpolazione del caso nell'ordine del mondo, e che accettare errori non è contraddire al caso, ma corroborarlo. Osservava pure che quei leoni e quel recipiente sacro, anche se non sconfessati dalla Compagnia (che non rinunciava al diritto di consultarli) funzionavano senza una garanzia ufficiale.

Questa dichiarazione calmò le inquietudini del pubblico. Produsse anche altri effetti, forse non previsti dall’autore. Modificò profondamente lo spirito e le operazioni della Compagnia. Non mi resta che poco tempo; m'avvertono che la nave sta per salpare; ma cercherò di spiegarmi.

Per inverosimile che appaia, nessuno aveva ancora tentato una teoria generale dei giochi. Il babilonese è poco speculativo. Accetta i dettami del caso, gli affida la propria vita, la propria speranza, il proprio terrore, ma non gli accade di investigare le sue leggi labirintiche, le sfere giratorie che le rivelano. Tuttavia, la dichiarazione ufficiosa cui ho accennato ispirò molte discussioni di carattere giuridico-matematico, e da una di esse nacque la proposta seguente: “Se la lotteria è una intensificazione del caso, una periodica infusione del caos nel cosmo non converrebbe far intervenire il caso in tutte le fasi del gioco, e non in una sola? Non è ridicolo che il caso detti la morte di qualcuno e che le circostanze di questa morte - pubblica o segreta, immediata o ritardata d’un secolo non siano anch’esse soggette al caso? Questi scrupoli, troppo giusti, provocarono finalmente una sostanziale riforma, le cui complessità (aggravate da un esercizio di secoli) non s'intendono che da pochi specialisti, ma che cercherò tuttavia di riassumere, anche se in modo simbolico.

Immaginiamo un primo sorteggio, che dètti la morte d’un uomo. Per l’esecuzione, si procede a un altro sorteggio, che proporrà - diciamo - nove esecutori possibili. Di questi esecutori, quattro potranno passare a un terzo sorteggio che dirà il nome del carnefice, due potranno sostituire all’ordine avverso un ordine felice (diciamo, la scoperta d’un tesoro), un altro potrà rendere la morte più acerba (facendola infame, o arricchendola di torture), altri potranno rifiutarsi di darla. Tale è lo schema simbolico. In realtà. il numero dei sorteggi è infinito. Nessuna decisione è finale, tutte si ramificano in altre. Gli ignoranti suppongono che infiniti sorteggi richiedano un tempo infinito; basta, in realtà, che il tempo sia infinitamente divisibile, come insegna la famosa parabola della Gara con la Tartaruga. Questo tipo di infinitezza si addice ammirevolmente ai sinuosi numi del Caso e dell’Archetipo Celeste della Lotteria, adorato dai platonici... Una qualche eco deforme dei nostri riti sembra essere ricaduta nel Tevere; Elio Lampridio, nella Vita di Antonino Eliogabalo, riferisce che questo imperatore scriveva in conchiglie le sorti che destinava ai convitati, di modo che uno riceveva dieci libbre d’oro, un altro dieci mosche, dieci marmotte, dieci orsi. Conviene ricordare che Eliogabalo fu educato in Asia

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Minore, tra i sacerdoti del dio eponimo. Si hanno anche sorteggi impersonali, di proposito indefinito: uno decreta che si scagli nelle acque dell’Eufrate uno zaffiro di Taprobana; un altro, che dal tetto d’una torre si sciolga un uccello; un altro, che ogni secolo si tolga (o si aggiunga) un granello di rena ai grani innumerevoli della spiaggia. Le conseguenze, a volte, sono tremende. Sotto l’influsso benefico della Compagnia, i nostri costumi sono saturi di caso. L’acquirente d’una dozzina di anfore di vino damasceno non si meraviglia se una di esse contiene un talismano o una vipera; lo scrivano che redige un contratto non lascia quasi mai di introdurvi qualche dato erroneo; io stesso, in questa affrettata esposizione, ho falsato qualche splendore, qualche atrocità. E anche, forse, qualche misteriosa monotonia... I nostri storici, che sono i più perspicaci dell’orbe, hanno inventato un metodo per correggere il caso; si dice che le operazioni di questo metodo siano (in generale) fededegne; sebbene, naturalmente, non si divulghino senza una certa dose di inganno. Peraltro, nulla è più contaminato di finzione che la storia della Compagnia. Un documento paleografico, esumato in un tempio, può essere opera di un sorteggio di ieri, o d’un sorteggio di un secolo fa. Non si pubblica libro senza qualche divergenza tra ciascuno degli esemplari; gli scribi prestano giuramento segreto di omettere, di interpolare, di variare. Anche si esercita la menzogna indiretta.

La Compagnia, con modestia divina, evita ogni pubblicità. I suoi agenti, com’è naturale, sono segreti; i comandi ch'essa impartisce incessantemente (forse infinitamente) non differiscono da quelli che s’arrogano gli impostori. D'altra parte, chi potrà vantarsi d'essere un mero impostore? L'ubriaco che improvvisa un'ingiunzione assurda, il sognatore che si sveglia di colpo e strozza con le sue mani la donna che gli dorme a fianco, non c'è il caso che eseguano una decisione segreta della Compagnia? Questo funzionamento silenzioso, comparabile a quello di Dio, provoca ogni sorta di congetture. Una, abominevolmente, insinua che già da secoli la Compagnia ha cessato d'esistere, e che il sacro disordine delle nostre vite è puramente ereditario, tradizionale; un’altra la giudica eterna e insegna che durerà fino all’ultima notte, quando l’ultimo dio annullerà il mondo. Un’altra afferma che la Compagnia è onnipotente, ma che solo influisce sulle cose minuscole: sul grido d'un uccello, sa una sfumatura nel colore della ruggine e della polvere, sui sogni incerti dell'alba. Un'altra, per bocca di eresiarchi mascherati, che non è mai esistita e mai esisterà. Un'altra, non meno vile, ragiona che è indifferente affermare o negare la realtà della tenebrosa corporazione, poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo.

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Esame dell'opera di Herbert Quain Herbert Quain è morto a Roscommon; ho visto senza sorpresa che il

Supplemento letterario del “Times” gli dedica appena una mezza collana di pietà necrologica, in cui non v’è epiteto laudativo che non sia corretto (o seriamente redarguito) da un avverbio. Lo “Spectator”, da parte sua, è certo meno laconico, e forse più cordiale, ma paragona il primo libro di Quain - The God of the Labyrinth a uno di Agata Christie, e gli altri a quelli di Gertrude Stein: accostamenti che nessuno giudicherà inevitabili, e che non avrebbero rallegrato il defunto. Questo, del resto, mai si credette geniale: neppure nelle notti peripatetiche di conversazione letteraria, in cui l'uomo che ha già fatto gemere i torchi gioca invariabilmente a fare il Monsieur Teste o il dottor Samuel Johnson... Avvertiva con tutta lucidità la condizione sperimentale dei propri libri: ammirevoli forse per originalità e per certo probo laconismo ma non per le virtù della passione. Sono come le odi di Cowley, mi scrisse da Longford il 6 marzo 1939. Non appartengo all'arte, ma alla mera storia dell’arte. Non v’era, per lui, disciplina inferiore alla storia.

Ho riferito un tratto di modestia di Herbert Quain: naturalmente, questa modestia non esaurisce tutto il suo pensiero. Flaubert e Henry James ci hanno abituato a supporre che le opere d'arte siano infrequenti, e di esecuzione laboriosa; il secolo XVI (ricordiamo il Viaggio del Parnaso, ricordiamo il destino di Shakespeare) non condivideva questa sconsolata opinione. Né la condivideva Herbert Quain. Giudicava che la buona letteratura è piuttosto comune, e che non v’è quasi dialogo casuale, conversazione udita per la strada, che non la raggiunga. Giudicava anche che il fatto estetico non può prescindere da qualche elemento di stupore, e che stupirsi a memoria è difficile. Deplorava con sorridente sincerità “la servile e ostinata conservazione” di libri preteriti... Non so se la sua vaga teoria si giustifichi; so che i suoi libri aspirano troppo alla sorpresa.

Deploro di aver prestato a una signora, irreversibilmente, il primo che pubblicò. Ho già detto che si tratta d'un romanzo poliziesco, The God of the Labyrinth; posso aggiungere che l'editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono Londra e New York; io preferisco attribuire l'insuccesso del romanzo del nostro amico a questa coincidenza rovinosa. Nonché (voglio esser del tutto sincero) alla sua deficiente esecuzione e alla vana e frigida pompa di certe descrizione del mare. A distanza di sette anni, m’è impossibile recuperare i dettagli dell'azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo purificano) le lacune della mia memoria. V’è un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai l’enigma, v'è un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: “Tutti credettero che l'incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale”. Questa frase lascia capire che la soluzione è erronea. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un'altra soluzione, la vera. Il lettore di questo libro singolare è più perspicace dei detective.

Ancora più eterodosso è il “romanzo regressivo, ramificato” April March, la cui terza (e unica) parte è del 1936. Nel giudicare questo romanzo dobbiamo

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ricordare che si tratta d'un gioco, e che l'autore non lo considerò mai diversamente.

“Rivendico per quest'opera - l'udii affermare - i tratti essenziali di ogni gioco: la simmetria, le leggi arbitrarie, il tedio”. Lo stesso titolo non è che un debole calenbour: non significa Marcia d'aprile, ma letteralmente Aprile marzo. Alcuni hanno avvertito in quelle pagine un'eco della dottrina di Dunne; la prefazione di Quain preferisce evocare il mondo alla rovescia di Bradley, in cui la morte precede la nascita e la ferita il colpo (Appearance and Reality, 1897, p. 215)12. I mondi che propone April March non sono regressivi: è regressiva la maniera di raccontarne la storia. Regressiva e ramificata, come ho già detto. L'opera comprende tredici capitoli. Il primo riferisce l'ambiguo dialogo di alcuni sconosciuti su una banchina. Il secondo riferisce gli avvenimenti della vigilia del primo. Il terzo, anch'esso retrogrado, riferisce gli avvenimenti di un'altra possibile vigilia del primo; il quarto, quelli di un'altra. Ciascuna di queste tre vigilie (che rigorosamente si escludono) si ramifica in altre tre, d’indole molto diversa. Il corpo dell'opera consta poi di nove racconti; ogni racconto, di tre lunghi capitoli (il primo capitolo, naturalmente, è comune a tutti i racconti). Di questi racconti, uno è di carattere simbolico; un altro, soprannaturale; un altro, poliziesco; un altro, psicologico; un altro, comunista; un altro, anticomunista; eccetera. Uno schema, forse, aiuterà a comprendere la struttura:

x1 y1 x2 x3 x4 z y2 x5 x6 x7 y3 x8 x9 Può ripetersi di questa struttura ciò che disse Schopenauer delle dodici

categorie kantiane: che tutto sacrificano a un furore simmetrico. Com'era prevedibile, alcuno dei nove racconti è indegno di Quain. Il migliore non è quello che immaginò originariamente, l'x4; è quello di natura fantastica, l'x9. Altri sono imbruttiti da scherzi insipidi e da pseudo-precisazioni inutili. Chi li leggesse nell'ordine cronologico (per esempio: x3, y1, z) perderebbe il sapore peculiare dello strano libro. Due racconti l'x7 e l'x8 - hanno poco valore di per sé, ma acquistano efficacia se giustapposti... Ricorderò anche che Quain, avendo già pubblicato April March, si pentì dell'ordine ternario e auspicò che, tra i suoi futuri imitatori, gli uomini scegliessero il binario

12 Povera erudizione di Herbert Quain, povera pagina 215 di un libro del 1897. Un interlocutore del Politico di Platone aveva già descritto una regressione analoga: quella dei Figli della Terra, o Autoctoni, i quali sottoposti all’influsso della rotazione inversa del cosmo, passarono dalla vecchiezza alla maturità, dalla maturità all’infanzia, dall’infanzia alla sparizione e al nulla. Anche Teopompo, nella sua Filippica, parla di certi frutti boreali che provocano in chi li mangia lo stesso processo retrogrado... Più interessante immaginare un’inversione del Tempo: uno stato in cui ci ricorderemmo del’avvenire e ignoreremmo, o appena presentiremmo, il passato, Cfr. il canto X dell’Inferno, verso 97-102, dove si paragona la visione profetica alla presbiopia.

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x1 y1 x2 Z x3 y2 x4 e i demiurghi e gli dèi: infinite storie, infinitamente ramificate. Molto diversa, ma anch'essa retrospettiva è la commedia eroica in due

atti The Secret Mirror. Nelle opere di cui abbiamo parlato, la complessità formale aveva intorpidito l'immaginazione dell'autore; qui la sua evoluzione è più libera. Nel primo atto (che è anche il più lungo) siamo nella casa di campagna del generale Thrale, C.I.E., presso Melton Mowbray. L'invisibile centro della trama è Miss Ulrica Trahle, la figlia maggiore del generale. La intravediamo, attraverso alcuni passi del dialogo, amazzone e altera; i giornali annunciano il suo fidanzamento con il duca di Rutland; i giornali smentiscono il fidanzamento. La venera un autore drammatico, Wilfred Quarles; la giovane gli ha concesso qualche volta un bacio distratto. I personaggi sono di vasta fortuna e di sangue antico; nobili, seppure veementi, gli affetti; il dialogo sembra vacillare tra la mera vaniloquenza di Bulwer-Lytton e gli epigrammi di Wilde o di Mr Philip Guedalla. V’è un usignolo e una notte; v’è un dolore segreto su un terrazzo (quasi del tutto impercettibile, v'è qualche curiosa contraddizione, qualche dettaglio sordido). I personaggi del primo atto ricompaiono nel secondo, con altri nomi. L'“autore drammatico” Wilfred Quarles è un commissario di Liverpool; il suo vero nome, John William Quigley. Miss Thrale esiste; Quigley non l’ha vista mai, ma colleziona morbosamente ritratti suoi del “Tatler” e dello “Sketch”. Quigley è autore del primo atto. L’inverosimile, o improbabile, “casa di campagna” è la pensione giudeo-írlandese dove lui vive, trasfigurata e magnificata da lui... La trama dei due atti è parallela, ma nel secondo tutto è leggermente orribile, tutto è continuamente rimandato o frustrato. Quando The Secret Mirror fu rappresentato, la critica fece i nomi di Freud e di Julien Green. L'accenno al primo mi sembra del tutto ingiustificato. Comunque, si sparse la voce che The Secret Mirror fosse una commedia freudiana; questa interpretazione propizia (ed erronea) determinò il suo successo. Disgraziatamente, Quain aveva già quarant'anni, Era abituato all’insuccesso e non si rassegnava facilmente a un cambiamento di regime. Decise di rifarsi. Verso la fine del 1939 pubblicò Statements: forse il più originale dei suoi libri, certo il meno lodato e il più segreto. Quain soleva ripetere che i lettori sono una specie ormai estinta. “Non v'è europeo - ragionava - che non sia uno scrittore, in potenza o in atto”. Affermava anche che, tra le diverse felicità che può procurare la letteratura, la più alta è l'invenzione. Poiché non tutti sono capaci di questa felicità, molti dovranno contentarsi di simulacri. Per questi “imperfetti scrittori”, il cui numero è legione, Quain compose gli otto racconti del libro Statements. Ciascuno di essi prefigura o promette un buon argomento, volontariamente frustrato dall'autore. Uno - non il migliore - insinua due argomenti. Il lettore, distratto dalla propria vanità, crede di averli inventati. Dal terzo, The Rose of Yesterday,

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io commisi l’ingenuità di ricavare Le rovine circolari, che è una delle narrazioni del libro Il giardino dei sentieri che si biforcano.

[1941]

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Da: J.L. Borges, La biblioteca di Babele , Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.: Finzioni) L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d'una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l'altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito... La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una trasversale. La luce che emettono è insufficiente, incessante. Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventú io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall'esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori della ringhiera; mia sepoltura sarà l'aria insondabile: il mio corpo affonderà lungamente e si corromperà e dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinita. Io affermo che la Biblioteca è interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere, nell'estasi, la rivelazione d'una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico è Dio). Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: “La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile”. A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima d'accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi. Primo: La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il cui corollario immediato è l’eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L'uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o

La biblioteca di Babele

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di demiurghi malevoli; l'universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l'opera di un dio. Per avvertire la distanza che c'è tra il divino e l'umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d'un libro, con le lettere organiche dell'interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche. Secondo: Il numero dei simboli ortografici è di venticinque 13. Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi, che mio padre vide nell’esagono del circuito quindici novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all'ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) è un mero labirinto di lettere, ma l'ultima pagina dice Oh tempo le tue piramidi. È ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d'una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano... Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo vedremo, non è del tutto erronea). Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili corrispondessero a lingue preterite o remote. Ora, è vero che gli uomini piú antichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; è vero che poche miglia a destra la lingua è già dialettale, e novanta piani piú sopra è incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, è vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili M C V non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di M C V nella terza riga della pagina 71 non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in altra riga di altra pagina; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono a una crittografia; quest’ipotesi è stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori. Cinquecento anni fa, il capo d'un esagono superiore 14 trovò un libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v'erano quasi due pagina di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante questo gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli dissero che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d'un dialetto samoiedo-lituano del guaranì, con

13 Il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto. [Nota dell'editore]. 14 Prima, per ogni tre esagoni c'era un uomo. Il suicidio e le malattie polmonari hanno distrutto questa proporzione. Fatto indicibilmente malinconico: a volte ho viaggiato molte notti per corridoi e scale polite senza trovare un solo bibliotecario.

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inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca. Questo pensatore osserva che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell'alfabeto. Stabilí, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch'è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo falso, l’evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri. Quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non v’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L'universo era giustificato, l’universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell'universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione. Questi pellegrini s'accapigliavano negli stretti corridoi, profferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano i libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono. Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone da venire, e forse non immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità che un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, è sostanzialmente zero. Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell'umanità: l’origine della Biblioteca e del tempo. È verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrà prodotto essa stessa l'inaudito idioma necessario, e i vocabolari e la grammatica di questa lingua. Già da quattro secoli gli uomini affaticano gli esagoni... Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell'esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s'ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro piú vicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s'aspetta di trovare nulla. Alla speranza smodata, com'è naturale, successe un'eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d'un qualche esagono celava libri preziosi e che questi libri preziosi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta

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blasfema suggerí che s'interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autorità si videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta sparí, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s'occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo in un bossolo proibito, e debolmente rimediavano al divino disordine. Altri, per contro, credettero che l'importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l'insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i “ tesori ” che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca è cosí enorme che ogni riduzione d'origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente all’opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell'orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l'idea delirante di conquistare i libri dell'Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali; onnipotenti, illustrati e magici. Sappiamo anche d'un'altra superstizione di quel tempo: quella dell'Uomo del Libro. In un certo scaffale d'un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l'ha letto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle piú lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l’ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e cosí all'infinito... In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni. Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell'universo esista un libro totale 15; prego gli dèi ignoti che un uomo - uno solo, e sia pure da migliaia d'anni! - l’abbia trovato e l'abbia letto. Se l'onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all'inferno. Ch'io sia oltraggiato e annientato, ma che un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi. Affermano gli empï che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l'umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “ Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio ”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali tutte le variazioni permesse dai

15 Ripeto: perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l'impossibile è escluso. Per esempio: nessun libro è anche una scala, sebbene esistano sicuramente dei libri che discutono, che negano, che dimostrano questa possibilità, e altri la cui struttura corrisponde a quella d'una scala.

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venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s'intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas mlö. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d'una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e però, ex hypothesi , già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri dhcmrlchtdj che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni - e così pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d'intendere la mia lingua ?) Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato la popolazione. Credo di aver già accennato ai suicidi, ogni anno più frequenti. M'inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana - l'unica - stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: l'illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta. Aggiungo: infinita. Non introduco quest'aggettivo per un'abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m'arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine 16. 1941 . Mar della Plata.

16 Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe a rigore solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d'un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo XVII, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d'un numero infinito di piani). Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l'inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio.

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Il giardino dei sentieri che si biforcano

a Victoria Ocampo

A pagina 252 della Storia della Guerra europea di Liddel Hart, si legge che un’offensiva di tredici divisioni britanniche (appoggiate da millequattrocento pezzi d’artiglieria) contro la linea Serre-Montauban era stata decisa per il 24 luglio 1916, dovette essere ritardata fino alla mattina del 29. Questo ritardo (secondo il capitano Liddell Hart) si dovette unicamente alle piogge torrenziali. La seguente deposizione, dettata, riletta e firmata dal dottor Yu Tsun, ex professore d’inglese alla Hochschule di Tsingtao, getta sul caso una luce insospettata. Mancano le due pagine iniziali.

... e riappesi il ricevitore. Immediatamente dopo riconobbi la voce che aveva risposto in tedesco. Era quella del capitano Richard Madden. Il fatto che Madden si trovasse nell’appartamento di Viktor Runeberg significava la fine dei nostri affanni e anche - ma questo pareva molto secondario, o almeno doveva parermi tale - delle nostre vite. Significava che Runeberg era stato arrestato, o assassinato17Prima che declinasse il sole di quel giorno, io avrò subito la stessa sorte. Madden era implacabile. O meglio: era costretto a essere implacabile. Irlandese agli ordini dell’Inghilterra, uomo accusato di tepidezza e forse di tradimento, come non avrebbe profittato e gioito di questo miracoloso favore: la cattura, forse la morte, di due agenti dell’Impero tedesco? Salii nella mia stanza; chiusi a chiave, assurdamente, la porta, e mi stesi sullo stretto letto di ferro. Dietro la finestra aperta c’erano i tetti di sempre e il sole obnubilato delle sei. Mi parve incredibile che questo giorno senza premonizioni né simboli fosse quello della mia morte implacabile. Con tutto questo: che mio padre era morto; con tutto questo: che ero stato bambino nel simmetrico giardino di Hai Feng: io, ora, stavo per morire? Poi riflettei che ogni cosa, a ognuno, accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me... Il ricordo quasi intollerabile del volto cavallino di Madden abolì queste divagazioni. Nel mezzo del mio odio e del mio terrore (ora non m’importa di parlare di terrore: ora che ho beffato Richard Madden, ora che la mia gola anela la corda) pensai che quel guerriero tumultuoso e indubbiamente felice non sospettava che io possedessi il Segreto: il nome del luogo preciso in cui erano postate le artiglierie dell’XI Parco britannico sull’Ancre. Un uccello che rigò il cielo grigio, macchinalmente lo tradussi in un aeroplano, e questo aeroplano in molti (nel cielo francese), che annientavano il parco d’artiglieria con bombe verticali. Se la mia bocca, prima che una palla la fracassasse, avesse potuto gridare questo nome in modo che l’udissero in Germania... La mia voce umana era poverissima. Come farla giungere all’orecchio del Capo? All’orecchio di quell’uomo odioso e malaticcio, che nulla sapeva di Runeberg e di me se non che eravamo nello Staffordshire e che invano s’aspettavano notizie nostre nell’arido ufficio berlinese dov’egli era

17Ipotesi odiosa e infondata. La spia prussiana Hans Rabener, alias Viktor Runeberg, aggredì con una pistrola automatica il latore del mandato d’arresto, capitano Richard Madden. Questi, in propria difesa, gli cagionò ferite che ne determinarono la morte [Nota dell’Editore]

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seduto, sfogliando infinitamente i giornali... Dissi a voce alta: “Debbo fuggire”. Mi levai senza rumore, in una inutile perfezione di silenzio, come se Madden già stesse spiandomi. Qualcosa - forse il mero desiderio d’una prova ostensibile che le mie risorse erano nulle - mi persuase a una rivista delle mie tasche. Vi trovai ciò che già sapevo vi avrei trovato. L’orologio nordamericano, la catena di nichel con la sua medaglia rettangolare, il portachiavi con le compromettenti e inutili chiavi dell’appartamento di Runenberg, il taccuino, una lettera che decisi di distruggere immediatamente (e che non distrussi), il passaporto falso, una corona, due scellini e alcuni pence, la matita rossa e blu, il fazzoletto, la rivoltella con una pallottola. Assurdamente la impugnai e la soppesai per farmi coraggio. Pensai vagamente che un colpo di pistola può udirsi da molto lontano. In dieci minuti il mio piano era pronto. La guida telefonica mi dette il nome dell’unica persona capace di trasmettere la notizia: viveva in un sobborgo di Fenton, a meno di mezz’ora di treno.

Sono un uomo codardo. Ora lo dico, ora che ho condotto a termine un piano di cui nessuno potrà dire che non fosse arrischiato. Io so che la sua esecuzione fu terribile. Non lo feci, no, per la Germania. Nulla m’importa d’un paese barbaro, che m’ha obbligato alla condizione abietta di spia. E poi so d’un uomo d’Inghilterra - un uomo modesto - che per me non è meno di Goethe. Non parlai con lui più di un’ora, ma durante un’ora fu Goethe... Lo feci, perché sentivo che il Capo teneva a vili quelli della mia razza - gli antenati innumeri che confluiscono in me. Volevo provargli che un giallo poteva salvare i suoi eserciti. Ora io dovevo sfuggire al capitano. Le sue mani e la sua voce potevano battere da un momento all’altro alla mia porta. Mi vestii senza rumore, mi dissi addio allo specchio, scesi, scrutai la strada deserta e tranquilla, e partii. La stazione non era molto distante, ma giudicai preferibile prendere una vettura. Mi dissi che in questo modo correvo meno pericolo d’essere riconosciuto; il fatto è che nella strada deserta mi sentivo infinitamente visibile e vulnerabile. Ricordo che dissi al conducente di fermare un poco prima dell’entrata centrale. Scesi con lentezza voluta e quasi penosa Andavo al villaggio di Ashgrove, ma presi un biglietto per una stazione più distante. Il treno partiva tra pochi minuti, alle otto e cinquanta. M’affrettai; il treno seguente non sarebbe partito che alle nove e mezzo. Non v’era quasi nessuno sulla banchina. Percorsi i vagoni: ricordo alcuni contadini, una donna in lutto, un giovane che leggeva con fervore gli Annali di Tacito, un soldato ferito e felice. Il convoglio infine si mosse. Un uomo che riconobbi corse invano fino al termine della banchina. Era il capitano Richard Madden. Annichilato, tremante, mi rifugiai all’altro estremo del corridoio, lontano dal temuto cristallo.

Da questo annichilamento passai a una felicità quasi abietta. Mi dissi che il duello era ormai impegnato e che avevo guadagnato il primo assalto, sventando - anche se per quaranta minuti, anche se per un favore del caso - l’attacco del mio avversario. Pensai che questa vittoria minima prefigurava la vittoria totale. Pensai che non era minima, poiché senza il prezioso intervallo che l’orario dei treni m’offriva già sarei stato in carcere, o già sarei morto. Pensai (non meno sofisticamente) che la mia codarda felicità stava a provare che ero uomo da portare a buon fine l’avventura. Da questa debolezza trassi forze che non m’abbandonarono. Prevedo che l’uomo si rassegnerà a imprese ogni giorno più atroci; presto non vi saranno più che guerrieri e banditi; do loro

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questo consiglio: l’esecutore di un’impresa atroce immagini d’averla già compiuta, s’imponga un futuro che sia irrevocabile come il passato. Così procedetti io stesso, mentre i miei occhi d’uomo già morto registravano il fluire di quel giorno che forse era l’ultimo, e la diffusione della notte. Il treno correva dolcemente, tra i frassini. Si fermò quasi in mezzo alla campagna. Nessuno gridò il nome della stazione. - Ashgrove? - chiesi a dei ragazzetti sulla banchina. - Ashgrove, - risposero. Scesi.

Una lampada illuminava la banchina, ma i volti dei ragazzi restavano nella zona d’ombra. Uno mi chiese: - Lei va dal dottor Stephen Albert? - Senza aspettare che rispondessi, un altro disse: - È lontano di qui, ma lei non si perderà se prende questo sentiero a sinistra, e se poi volta a sinistra a ogni crocicchio. - Gettai loro una moneta (l’ultima), scesi qualche gradino di pietra e presi per il sentiero solitario. Questo, lentamente, scendeva. Era di terra battuta, in alto i rami si confondevano, la luna bassa e circolare sembrava accompagnarmi.

Per un istante, temei che Richard Madden avesse penetrato il mio disperato proposito. Ma subito compresi che non era possibile. Il consiglio di voltare sempre a sinistra mi rammentò che era questo il procedimento comune per scoprire la radura centrale di certi labirinti. M’intendo un poco di labirinti: non invano sono bisnipote di quel Ts’ui Pên che fu governatore dello Yunnan e che rinunziò al potere temporale per scrivere un romanzo che fosse ancor più popoloso del Hung Lu Meng, e per costruire un labirinto in cui ogni uomo si perdesse. Tredici anni dedicò a queste eterogenee fatiche, ma la mano d’uno straniero lo assassinò e il suo romanzo era insensato e nessuno trovò il labirinto. Sotto alberi inglesi meditai su quel labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d’una montagna; lo immaginai subacqueo, cancellato dalle risaie; lo immaginai infine, non già di chioschi ottagonali e di sentieri che voltano, ma di fiumi e di province e di regni... Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri. Assorto in queste immagini illusorie, dimenticai il mio destino d’uomo inseguito. Mi sentii, per un tempo indeterminato, percettore astratto del mondo. La campagna vaga e vivente, la luna, i resti del tramonto operarono in me; così anche il declivio, che eliminava ogni possibilità di fatica. La sera era intima, infinita. Il sentiero scendeva e si biforcava, tra i campi già confusi. Una musica acuta e come sillabica s’avvicinava e s’allontanava nel va e vieni del vento, appannata di foglie e di distanza. Pensai che un uomo può essere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d’un paese: non di lucciole, di parole, di giardini, di corsi d’acqua, di tramonti. Giunsi, così, a un alto cancello arrugginito. Di tra le sbarre, decifrai un viale e una specie di padiglione. Compresi subito due cose, la prima banale, la seconda incredibile: la musica veniva dal padiglione, la musica era cinese. Per questo l’avevo accettata senza residuo, senza prestarle attenzione. Non ricordo se vi fosse un campanello, o un battaglio, o se chiamai battendo le mani. Il crepitio della musica continuò.

Ma dal fondo del giardino una lanterna s’avvicinava: una lanterna che i tronchi rigavano e ogni poco annullavano una lanterna di carta, che aveva la forma dei tamburi e il colore della luna. La portava un uomo alto. Non vidi il

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suo volto, che restava nell’ombra. Aprì il cancello e disse lentamente nella mia lingua:

- Vedo che il pietoso Hsi P’êng procura di alleviare la mia sòlitudine. Lei vorrà senza dubbio vedere il giardino?

Riconobbi il nome d’uno dei nostri consoli e ripetei sconcertato: - Il giardino?

- Il giardino dei sentieri che si biforcano. Qualcosa si agitò nel mio ricordo e pronunciai con incomprensibile

sicurezza: Il giardino del mio antenato Ts’ui Pên. - Il suo antenato? Il suo illustre antenato? Avanti. L’umido sentiero s’allungava a zig-zag come quelli della mia infanzia.

Giungemmo a una biblioteca di libri orientali e occidentali. Riconobbi, rilegati in seta gialla, alcuni tomi manoscritti dell’Enciclopedia Perduta che diresse il Terzo imperatore della Dinastia Luminosa, e che non fu mai stampata. Il disco del grammofono girava presso una fenice di bronzo. Ricordo anche una grande giara dell’epoca rosa e un’altra, anteriore di parecchi secoli, di quel color azzurro che i nostri artisti copiarono dai vasai di Persia...

Stephen Albert mi osservava, sorridente. Era (l’ho già detto) molto alto, di tratti affilati, con occhi grigi e barba grigia. V’era in lui qualcosa del sacerdote e anche del marinaio; mi disse poi d’essere stato missionario a Tientsin “prima di aspirare a sinologo”.

Ci sedemmo; io su un divano lungo e basso, lui di spalle alla finestra e a un alto orologio circolare. Calcolai che il mio inseguitore non sarebbe arrivato prima di un’ora. La mia irrevocabile determinazione poteva aspettare.

- Strano destino quello di Ts’ui Pên, - disse Stephen Albert. - Governatore della sua provincia natale, dotto in astronomia, in astrologia e nell’interpretazione infaticabile dei libri canonici, scacchista, famoso poeta e calligrafo: tutto abbandonò per comporre un libro e un labirinto. Rinunciò ai piaceri dell’oppressione, dell’ingiustizia, del letto numeroso, dei banchetti e anche dell’erudizione, e si chiuse per tredici anni nel Padiglione della limpida Solitudine. Alla sua morte, i suoi eredi non trovarono che manoscritti caotici. La famiglia, come lei forse non ignora, volle darli alle fiamme; ma il suo esecutore testamentario - un monaco taoista o buddista - insistette per la pubblicazione.

- Noi del sangue di Ts’ui Pên, - replicai, - continuiamo a esecrare quel monaco. La pubblicazione fu insensata. Il libro è una confusa farragine di varianti contraddittorie. Una volta l’esaminai: nel terzo capitolo l’eroe muore, nel quarto è vivo. E quanto all’altra impresa di Ts’ui Pên, al suo Labirinto...

- Ecco il Labirinto, - disse indicandomi un alto scrittoio di lacca. - Un labirinto d’avorio! - esclamai. - Un labirinto minimo... - Un labirinto di simboli, - corresse. - Un invisibile labirinto di tempo. A

me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Ts’ui Pên avrà detto qualche volta. “Mi ritiro a scrivere un libro”. E qualche altra volta: “Mi ritiro a costruire un labirinto”. Tutti pensarono a due opere; nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva nel centro di un giardino forse intricato; il fatto può aver suggerito agli uomini l’idea di un labirinto fisico. Ts’ui Pên mori; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovò il labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il labirinto fosse il

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romanzo stesso. Due circostanze mi dettero la retta soluzione del problema. Una: la curiosa leggenda secondo cui Ts’ui Pên s’era proposto un labirinto che fosse strettamente infinito. L’altra: una frase in una lettera che scoprii. Albert si alzò. Per qualche istante mi voltò le spalle; aprì un cassetto del dorato e annerito scrittoio. Tornò con un sottile foglio a quadretti, che era stato cremisi e ora era rosa. La fama di calligrafo di Ts’ui Pên era giusta. Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciò un uomo del mio sangue: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Resi il foglio in silenzio. Albert proseguì:

- Prima di ritrovare questa lettera, m’ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potei pensare che a un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazad (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una notte, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito. Pensai anche a un’opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri. Queste congetture mi attrassero; ma nessuna sembrava corrispondere, sia pure in modo remoto, ai contraddittori capitoli di Ts’ui Pên. Ero in questa perplessità, quando mi fecero avere da Oxford l’autografo che lei ha esaminato. Mi colpì, naturalmente, la frase: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò in quest’idea. In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide - simultaneamente - per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang - diciamo - ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina.

II suo volto, nel cerchio vivido del lume, era indubbiamente quello d’un uomo anziano, ma con qualcosa d’infrangibile e anche d’immortale. Lesse con lenta precisione due versioni di uno stesso capitolo epico. Nella prima, un esercito marcia alla battaglia attraverso una montagna deserta; l’orrore delle pietre e dell’ombra gli fa disprezzare la vita, onde ottiene facilmente la vittoria; nella seconda, lo stesso esercito attraversa un palazzo in cui è in corso una festa; la risplendente battaglia gli pare una continuazione della festa, onde ottiene la vittoria. Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo del mio sangue, e che me le restituisse un uomo d’un impero remoto, nel corso d’una

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disperata avventura, in un’isola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: “Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire”.

Da quell’istante, sentii intorno a me e in me, nel mio corpo oscuro, un invisibile, intangibile pullulare. Non il pullulare dei divergenti, paralleli e finalmente coalescenti eserciti, ma un’agitazione più inaccessibile, più intima, e che coloro, in qualche modo, prefiguravano. Albert proseguì.

- Non credo che il suo illustre antenato giudicasse oziose queste varianti. Non giudico inverosimile che sacrificasse tredici anni dell’infinita esecuzione d’un esperimento retorico. Nel suo paese, il romanzo è un genere subalterno; a quel tempo era un genere disprezzato. Ts’ui Pên fu romanziere geniale, ma fu anche un uomo di lettere che non si considerò, indubbiamente, semplice romanziere. La testimonianza dei suoi contemporanei proclama - e bene le conferma la sua vita - le sue tendenze metafisiche, mistiche. La controversia filosofica ha gran parte nel suo romanzo. So che, di tutti i problemi, nessuno l’inquietò né lo travagliò più dell’abissale problema del tempo. Ebbene, questo è l’unico problema di cui non sia mai questione nelle pagine del Giardino. La stessa parola che significa tempo non vi ricorre mai, in nessun caso. Come spiega lei questa volontaria omissione?

Proposi varie soluzioni, tutte insufficienti. Le discutemmo. Alla fine, Stephen Albert mi disse:

- In un indovinello sulla scacchiera, qual è l’unica parola proibita? Riflettei un momento e risposi: - La parola scacchiera. - Precisamente, - disse Albert. - Il giardino dei sentieri che si biforcano è

un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome. Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico di indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pên. Ho confrontato centinaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotti dalla negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho ristabilito, o creduto di ristabilire, l’ordine primitivo, ho tradotto l’opera intera: non vi ho incontrato una sola volta la parola tempo. La spiegazione è ovvia. Il giardino dei sentieri che si biforcano è una immagine incompleta, ma non falsa, dell’universo quale lo concepiva Ts’ui Pên. A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo; in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in: altri io, e non lei; in altri, entrambi. In questo, che un caso favorevole mi concede, lei è venuto a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma.

- In tutti, - articolai non senza un tremito, - io gradisco e venero la sua ricostruzione del giardino di Ts’ui Pên

- Non in tutti, - mormorò con un sorriso. - Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri. In uno di questi io sono suo nemico.

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Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto. Mi parve che l’umido giardino che circondava la casa fosse saturo all’infinito di persone invisibili. Queste persone erano Albert e io, segreti, affaccendati e multiformi in altre dimensioni del tempo. Alzai gli occhi e l’incubo leggero si dissipò. Nel giardino giallo e nero c’era un solo uomo; ma quest’uomo era forte come una statua; ma quest’uomo avanzava per il sentiero ed era il capitano Richard Madden.

- Il futuro esiste già, - risposi, - ma io sono suo amico. Posso esaminare di nuovo la lettera?

- Albert si alzò. Alto, aprì il cassetto dell’alto scrittoio; mi volse un momento le spalle. Io avevo preparato la rivoltella. Mirai con somma attenzione: Albert crollò senza un lamento, immediatamente. Giuro che la sua morte fu istantanea: una folgorazione.

Il resto è irreale, insignificante. Madden irruppe, m’arrestò. Sono stato condannato alla forca. Abominevolmente, ho vinto: ho comunicato a Berlino il nome segreto della città da attaccare. L’hanno bombardata ieri, l’ho letto negli stessi giornali che hanno proposto all’Inghilterra quest’enigma: perché il dotto sinologo Stephen Albert fosse stato assassinato da uno sconosciuto, Yu Tsun. Il Capo ha decifrato l’enigma. Sapeva che il mio problema era di indicare (attraverso lo strepito della guerra) 1a città che si chiama Albert, e che non ho trovato altro mezzo che uccidere una persona di questo nome. Non sa (nessuno può sapere) la mia innumerabile contrizione e stanchezza

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Funes o della memoria Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo

solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest'uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l'avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d'indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d'intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell'orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l'ho visto più di tre volte; l'ultima nel 1887... M'è parso un progetto: felice quello di chiedere a tutti coloro che lo conobbero di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve, certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che si va preparando. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di cadere nel ditirambo - genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un'uruguayano Letterato, persona colta, bonaerense; Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma sono abbastanza sicuro che io rappresentavo per lui queste sventure.- Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.

Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o di febbraio del 1884. Mio padre, quell'anno, m'aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernardo Haedo dalla tenuta San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, un'enorme tempesta color ardesia aveva oscurato il cielo. L'incitava il vento del sud, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell'acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stradetta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D'un colpo s'era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernardo gli gridò, imprevedutamente: Che ore sono, Ireneo? - Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l'altro rispose: - Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo Juan Francisco - La voce era acuta, burlesca.

Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non l'avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell'altro.

Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di saper sempre l'ora come un orologio. Aggiunse che erra figlio d'una stiratrice del paese, Maria Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, secondo altri,

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un rachero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.

Le estati dell'85 e dell'86 le passammo a Montevideo. Nell'87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com'e naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l'impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l'unica volta che l'avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernardo, aveva molto d'un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si moveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l'avviciassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto da simulare che il colpo che l'aveva fulminato fosse stato benefico... Due volte lo vidi dietro l'inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un'altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d'un odoroso rametto di santonina.

Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato a quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtú di latinista. In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tardò a sapere dell'arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, “del giorno sette febbraio dell'anno ottantaquattro”, esaltava i brillanti servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto in quello stesso anno, “rese alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaingó”, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l'ortografia, del tipo auspicato da Andrès Bello: i per y, j per g. Lí per lí, naturalmente, temetti una burla. I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose di Ireneo. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupidità l'idea che per l'arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.

Il I4 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva l'esser destinatario d'un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietà dell'avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilità di dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m'incamminai verso la casa di Funes.

Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, perché soleva passare le ore morte senza accendere la candela.

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Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C'era una pergola; l'oscurità poté sembrarmi totale. Udii d'un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili poi, nell'enorme dialogo di quella notte, seppi ch'erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L'argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redereretur auditum.

Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse d'entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all'alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente d'umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.

Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d'ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurne le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l'efficacia del mio racconto; lascio al lettore di immaginare i frastagliati periodi che m'incantarono quella notte.

Ireneo cominciò con l'enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l'arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m'ascoltò) . Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s'accorse della paralisi; la cosa appena l'interessò; ragionò (sentì) che l'immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

Noi, in un'occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d'una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un'intera giornata. Mi disse: - Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo - Anche disse: - I miei sogni sono come la vostra veglia - E anche: - La mia memoria, signore, è come un

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deposito di rifiuti - Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d'un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d'un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo.

Queste cose che mi disse, ne allora né mai le posi in dubbio. Non c'era a quel tempo cinematografo né fonografo; è tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto. Dall'oscurità, Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l'aveva scritto, perché d'averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d'una sola parola e d'un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemilatredici diceva (per esempio) “Maximo Perez”; in luogo di settemilaquattordici, “La Ferrovia”; altri numeri erano “Luis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia”. In luogo di cinquecento, diceva “nove”. A ogni parola corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati... Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 366 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con “numeri” come “Il Negro Timoteo” o “Mantello di carne”. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.

Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l'aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l'aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell'interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all'ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.

I due progetti che ho detto (un vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l'infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l'imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d'un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell'umidità.

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Era il solitario e lucido spettatore d'un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l'immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d'una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e vivo della nostra percezione d'un godimento o d'un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c'era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire.

Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annulato dalla corrente.

Aveva imparato senza fatica l'inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c'erano che dettagli, quasi immediati.

Il chiarore esitante dell'alba entrò per il patio di terra. Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo

aveva diciannove anni; era nato nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l'Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.

Ireneo Funes mori nel l889, d'una congestione polmonare. [1942]

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La forma della spada a E. H. M. Gli traversava il volto una cicatrice amara: un arco cinereo e quasi

perfetto che lo sfregiava da una tempia fino all'altro zigomo. Il suo vero nome non importa; tutti a Tacuarembo lo chiamavano l'Inglese della Colorada. Il padrone di quei campi, Cardoso, non avrebbe voluto venderli; dicono che l'Inglese ricorse a un argomento impreveduto: gli raccontò la storia segreta della cicatrice. L'Inglese veniva dalla frontiera, da Rio Grande do Sul; alcuni assicuravano che in Brasile era stato contrabbandiere. I campi della Colorada erano pantanosi; le acque, amare; l'Inglese, per rimediare a queste deficienze, lavorò al pari dei suoi peoni. Dicono che fosse severo fino alla crudeltà, ma scrupolosamente giusto. Dicono anche che s'ubriacasse; un paio di volte all'anno si chiudeva in camera e ne emergeva dopo due o tre giorni come da una battaglia o da una vertigine, pallido, tremante, sgomento, e non meno autoritario di prima. Ricordo i suoi occhi glaciali, la sua energica magrezza, i suoi baffi grigi. Non frequentava nessuno; vero è che il suo spagnolo era rudimentale, misto di brasiliano. A parte qualche lettera commerciale e qualche catalogo, non riceveva corrispondenza.

L'ultima volta che visitai i distretti del nord, una piena del torrente Caraguata mi costrinse a pernottare alla Colorada. Dopo pochi minuti, credetti di notare che la mia presenza era importuna; cercai d'ingraziarmi l'Inglese; m'appigliai alla meno perspicace delle passioni: il patriottismo. Dissi che quando un paese è animato da uno spirito come quello che anima l'Inghilterra, questo paese è invincibile. Il mio interlocutore assentì, ma aggiunse, con un sorriso, che non era inglese. Era irlandese, di Dungarvan. Detto questo s'arrestò, come se avesse rivelato un segreto.

Dopo cena, uscimmo a guardare il cielo. Questo s'era schiarito, ma dietro le montagne del sud era fenduto e rigato da lampi, ordiva un'altra tempesta. Sulla veranda smantellata, il peone che aveva servito la cena ci portò una bottiglia di rum. Bevemmo a lungo, in silenzio.

Non so che ora fosse quando m'accorsi d'essere ubriaco: non so che ispirazione o che esaltazione o che tedio mi spingesse a chiedergli della cicatrice. Il volto dell'Inglese s'alterò; per qualche secondo pensai che stesse per buttarmi fuori. Alla fine mi disse con la sua voce abituale:

- Le racconterò la storia della mia ferita a una condizione: quella di non attenuare alcun obbrobrio, alcuna circostanza infamante.

Assentii. Ecco la storia che mi narrò, alternando l'inglese con lo spagnolo e anche col portoghese:

Nel 1922, in una delle cittadine del Connaught, io ero uno dei molti che

cospiravano per l'indipendenza dell'Irlanda. Dei miei compagni sopravvissuti, alcuni si sono volti a lavori pacifici; altri, paradossalmente, si battono nei mari o nel deserto sotto i colori inglesi. Uno, il più valoroso, morì nel cortile d'una

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caserma, fucilato all'alba da uomini pieni di sonno: altri (non i più sfortunati) caddero nelle anonime e quasi segrete battaglie della guerra civile. Eravamo repubblicani, cattolici; eravamo - sospetto - romantici. L'Irlanda, per noi, non era solo l'utopico avvenire e l'intollerabile presente; era un'amara e affettuosa mitologia, era le torri circolari e le rosse paludi, era il ripudio di Parnell e le immense epopee che cantano di tori rubati, tori che in un'altra incarnazione furono eroi e in altre pesci e montagne... Una sera che non dimenticherò, giunse tra noi un affiliato di Munster: un certo John Vincent Moon.

Aveva appena vent'anni. Era magro e molle a un tempo; dava la spiacevole impressione d'essere invertebrato. Aveva scorso con fervore e con vanità quasi tutte le pagine di non so quale manuale comunista; il materialismo dialettico gli serviva per tagliar corto a qualsiasi discussione. Le ragioni che può avere un uomo per abominarne un altro, o per amarlo, sono infinite: Moon riduceva la storia universale a un sordido conflitto economico. Affermava che la rivoluzione è destinata a trionfare. Gli dissi che a un gentleman non possono interessare che le cause perdute... Era già notte; continuammo a dissentire in corridoio, per le scale, poi nell'oscurità delle strade. I giudizi emessi da Moon m'impressionarono meno del suo inappellabile tono apodittico. Il nuovo compagno non discuteva: asseriva. E asseriva con sprezzo e con una certa collera.

Eravamo giunti alle ultime case, quando una brusca sparatoria ci assordò (poco prima avevamo costeggiato il lungo muro cieco d'una fabbrica o d'una caserma). Voltammo per una strada di terra battuta; un soldato, enorme nel riverbero, sorse da una baracca incendiata. Ci gridò di fermarci. Io affrettai il passo; il mio compagno non mi seguì. Mi volsi: John Vincent Moon stava immobile, affascinato e come eternato dal terrore. Allora tornai indietro, atterrai con un colpo il soldato, scossi Vincent Moon, lo insultai e gli ordinai di seguirmi. Dovetti sostenerlo col braccio; la paura lo paralizzava. Fuggimmo, nella notte forata dagli incendi. Una scarica di fucileria ci raggiunse; una pallottola sfiorò la spalla destra di Moon; questi, mentre fuggivamo tra i pini, ruppe in un debole singhiozzo.

In quell'autunno del 1922 io m'ero rifugiato nella villa del generale Berkeley. Questi (che non avevo mai visto) ricopriva allora non so quale carica amministrativa nel Bengala; la casa aveva meno d'un secolo, ma era scalcinata e oscura e abbondava di perplessi corridoi e vane anticamere. Il primo piano era tutto occupato dal museo e dall'enorme biblioteca: libri incompatibili, antinomici, che in qualche modo sono la storia del secolo XIX; scimitarre di Nishapur, nei cui archi di cerchio sembrava durare il vento e la violenza delle battaglie. Entrammo (mi sembra di ricordare) da un sotterraneo. Moon, con le labbra arse e tremanti, mormorò che i casi di quella notte erano stati interessanti; lo medicai, gli portai una tazza di tè; accertai che la sua “ferita”, era superficiale. D'un tratto perplesso, balbettò: .

- Ma lei s'è notevolmente arrischiato. Gli dissi di non preoccuparsi (l'abitudine della guerra civile m'aveva

spinto ad agire come agii; inoltre, la cattura d'un solo affiliato poteva compromettere la nostra causa).

Il giorno dopo, Moon aveva recuperato il suo equilibrio. Accettò una sigaretta e mi sottopose a un severo interrogatorio su “le risorse economiche del nostro partito rivoluzionario”. Le sue domande erano molto lucide; gli dissi

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(ed era vero) che la situazione era grave. Improvvise scariche di fucileria scossero il sud. Dissi a Moon che i compagni ci aspettavano. Aveva lasciato il soprabito e la rivoltella in camera mia, quando tornai, trovai Moon steso sul sofà, con gli occhi chiusi. Pensava di avere la febbre; disse che una contrazione dolorosa gli immobilizzava la spalla.

Compresi allora che la sua codardia era irreparabile. Gli consigliai vagamente di riguardarsi e me ne andai. Quell'uomo impaurito mi faceva vergogna, come se il vigliacco fossi stato io, e non Vincent Moon. Ciò che fa un uomo, è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non e giusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo. Forse Schopenhauer ha ragione; io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini, Shakespeare e in qualche modo il miserabile John Vincent Moon.

Nove giorni passammo nell'enorme casa del generale. Delle agonie e luci della guerra non dirò nulla: il mio proposito è di raccontare la storia di questa cicatrice che mi sfregia. Quei nove giorni, nella mia memoria, fanno un giorno solo, salvo il penultimo, quando i nostri irruppero in una caserma e potemmo fare esatta vendetta dei sedici compagni mitragliati a Elphin. Io scivolavo via di casa nel primo confuso chiarore dell'alba. Tornavo al cader della notte. Il mio compagno m'aspettava al primo piano: la ferita non gli permetteva di scendere al pianterreno. Lo ricordo con un libro di strategia tra le mani: F.N. Maude o Clausewitz. L'arma che preferisco è l'artiglieria, mi confessò una notte. S'informava dei nostri piani; gli piaceva censurarli o riformarli. Anche soleva deplorare la nostra deplorevole base economica: profetizzava, dogmatico e scuro in volto, la fine rovinosa. “C'est une affaire flambée”, mormorava. Per mostrare che gli era indifferente d'essere un codardo fisico, esagerava la propria superbia mentale. Passarono così, bene o male, nove giorni.

Il decimo, la città cadde definitivamente in potere dei Black and Tans. Alti cavalieri silenziosi pattugliavano le strade; v'erano ceneri e fumo nel vento; a un angolo di strada vidi un cadavere; meno tenace, nel mio ricordo, d'un manichino sul quale i soldati interminabilmente s'esercitavano al tiro, in mezzo alla piazza... Io ero uscito all'alba, come al solito; ma tornai prima di mezzogiorno. Moon, in biblioteca, parlava con qualcuno; dal tono della voce compresi che parlava al telefono. Poi udii il mio nome poi, che sarei tornato alle sette; poi, che avrebbero dovuto arrestarmi mentre traversavo il giardino. Il mio ragionevole amico stava ragionevolmente vendendomi. Lo udii esigere della garanzie di sicurezza personale.

Qui la mia storia si confonde e si perde. So che inseguii il delatore per neri corridori d'incubo e alte scale di vertigine. Moon conosceva la casa molto bene, molto meglio di me. Una o due volte lo persi. Lo bloccai prima che i soldati mi fossero sopra. Da una delle panoplie del generale strappai una mezzaluna d'acciaio; con essa gl'impressi sul volto, per sempre, una mezzaluna di sangue. Borges: a lei che è uno sconosciuto, ho fatto questa confessione. Il suo disprezzo non mi dorrà troppo.

Qui il narratore s'interruppe. Notai che gli tremavano le mani. - E Moon? - chiesi. - Riscosse i denari di Giuda e fuggì in Brasile. Quella sera, sulla piazza,

vide fucilare un manichino da soldati ubriachi.

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Attesi invano la continuazione della storia. Alla fine gli dissi di continuare. Allora un gemito l'attraversò; allora mi mostrò con debole dolcezza la

curva cicatrice biancastra. - Lei non mi crede? - balbettò! - Non vede che porto impresso sul volto il

marchio della mia infamia? Le ho narrato la storia in questo modo perchè lei l'ascoltasse fino alla fine. Io ho denunciato l'uomo che m'aveva protetto: io sono Vincent Moon. Ora mi disprezzi.

[1942]

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Tema del traditore e dell'eroe

So the Platonic Year Wirls out new right and wrong. Whirls in the old instead; All men are dancers and their tread Goes to the barbarous clangour of a gong. W.B. Yeats, The Tower.

Sotto la nota influenza di Chesterton (inventore ed esornatore d'eleganti

misteri) e del consigliere aulico Leibniz (che inventò l'armonia prestabilita), ho immaginato questo tema, che forse scriverò e che già in qualche modo mi giustifica, nei pomeriggi inutili. Mancano dettagli, rettifiche, . messe a punto; vi sono zone di questa storia che non mi sono state ancora rivelate; oggi, 3 gennaio 1944, l'intravedo così.

L'azione si svolge in un paese oppresso e tenace: Polonia, Irlanda, la repubblica di Venezia, un qualche stato sudamericano o balcanico...- O meglio: l'azione si svolse; poiché, sebbene il narratore sia contemporaneo, il tempo della sua storia e la metà o il principio del secolo XIX. Diciamo (per comodità narrativa) l'Irlanda. Diciamo il 1824. Il narratore si chiama Ryan. È bisnipote del giovane, dell'eroico, del bello, dell'assassinato Fergus Kilpatrick, la cui tomba fu misteriosamente violata, il cui nome illustra i versi di Browning e di Hugo, la cui statua domina una collina grigia tra rosse paludi.

Kilpatrick fu un cospiratore; un segreto e glorioso capitano di cospiratori: come Mosè, che dalla terra di Moab avvistò la terra promessa, e non poté calcarla; Kilpatrick perì alla vigilia della rivolta vittoriosa che aveva premeditata e sognata. S'avvicina la data del primo centenario della sua morte; le circostanze del delitto sono enigmatiche; Ryan, che sta lavorando a una biografia dell'eroe, scopre che l'enigma non è puramente poliziesco. Kilpatrick fu assassinato in un teatro; la polizia britannica non trovò mai l'uccisore; gli storici affermano che questo insuccesso non intacca la buona reputazione della polizia, poiché fu questa stessa, probabilmente, a farlo uccidere. Altri aspetti dell'enigma inquietano Ryan. Sono di carattere ciclico: sembrano ripetere o combinare fatti di regioni remote, di remote età. Si sa, per esempio, che gli sbirri che esaminarono il cadavere dell'eroe trovarono una lettera chiusa che avvertiva Kilpatrick del pericolo che avrebbe corso andando a teatro quella sera; anche Giulio Cesare, mentre stava avviandosi al luogo dove l'attendevano i pugnali dei suoi amici, ricevette un biglietto, che non poté leggere, in cui gli si scopriva il tradimento, con i nomi dei traditori. La moglie di Cesare, Calpurnia, vide rovinare in sogno una torre che il Senato aveva decretato al marito; voci false e anonime, la vigilia della morte di Kilpatrick, annunciarono a tutto il paese l'incendio della torre circolare di Kilgarvan, ciò che poté sembrare un presagio, poiché colui era nato a Kilvargan. Questi parallelismi (e altri) della storia di Cesare con quella di un cospiratore irlandese inducono Ryan a supporre una segreta forma del tempo, un disegno le cui linee si ripetono. Pensa alla storia decimale che ideò Condorcet; alle morfologie che proposero Hegel, Spengler e Vico; agli uomini di Esiodo, che degenerarono

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dall'oro al ferro. Pensa alla trasmigrazione delle anime, dottrina che fa l'orrore della letteratura celtica e che lo stesso Cesare attribuì ai druidi britannici; pensa che prima d'essere Fergus Kilpatrick, Fergus Kilpatrick fu Giulio Cesare. Da questi labirinti circolari lo salva una curiosa scoperta che poi l'inabissa in altri labirinti ancor più inestricabili ed eterogenei: certe parole che un mendicante scambiò con Fergus Kilpatrick il giorno della morte di quest'ultimo furono prefigurate da Shakespeare nella tragedia di Macbeth. Che la storia avesse copiato la storia era già abbastanza stupefacente; che la storia copi la letteratura, è inconcepibile... Ryan accerta che nel 1814 James Alexander Nolan, il più antico dei compagni dell'eroe, aveva tradotto in gaelico i principali drammi di Shakespeare, tra cui il Giulio Cesare. Scopre anche negli archivi un articolo manoscritto di Nolan sui Festspaele svizzeri: vaste ed erranti rappresentazioni teatrali che richiedono migliaia di attori e che reiterano episodi storici nelle stesse città e montagne in cui occorsero. Un altro documento inedito gli rivela che, pochi giorni prima della fine, Kilpatrick, presiedendo l'ultimo consiglio aveva firmato la sentenza di morte d'un traditore il cui nome è stato cancellato. Una simile condanna non è nelle abitudini compassionevoli di Kilpatrick. Ryan ne indaga le ragioni (questa indagine è una delle lacune della storia) e riesce a decifrare l'enigma.

Kilpatrick fu ucciso in un teatro, ma di teatro gli servi anche l'intera città, e gli attori furono legione, e il dramma coronato dalla sua morte occupò molti giorni e molte notti. Ecco che cosa avvenne:

Il 2 agosto 1824 i cospiratori si riunirono. Il paese era maturo per la

rivolta; qualcosa, tuttavia, mancava sempre; c'era un traditore nel consiglio. Fergus Kilpatrick aveva incaricato James Nolan di scoprire questo traditore; Nolan eseguì il compito: annunciò che il traditore era lo stesso Kilpatrick. Dimostrò con prove irrefutabili la verità dell'accusa; i congiurati condannarono a morte il loro presidente. Questi firmò la sua propria condanna, ma implorò che il suo castigo non pregiudicasse la patria.

Allora Nolan concepì uno strano progetto. L'Irlanda idolatrava Kilpatrick; il più tenue sospetto della sua viltà avrebbe compromesso la rivolta; Nolan propose un piano che fece dell'esecuzione del traditore uno strumento per l'emancipazione della patria. Suggerì che il condannato morisse per mano di un assassino sconosciuto, in circostanze particolarmente drammatiche, che si scolpissero nell'immaginazione popolare e affrettassero la rivolta. Kilpatrick giurò di collaborare a questo progetto, che gli offriva l'occasione di redimersi e che avrebbe sigillato la sua vita.

Nolan, pressato dal tempo, non seppe inventare interamente le circostanze di quell'esecuzione dai molti aspetti; dovette plagiare un altro drammaturgo, il nemico inglese William Shakespeare. Ripetè scene del Macbeth, del Giulio Cesare. La pubblica e segreta rappresentazione occupò vari giorni. Il condannato entrò a Dublino, discusse, operò, pregò, riprovò, pronunciò parole patetiche, e ciascuno di questi atti, che ne avrebbe aumentato la gloria, era stato prefissato da Nolan. Centinaia di attori collaborarono con il protagonista; la parte di alcuni fu complessa; quella; di altri, momentanea. Le cose che dissero e che fecero durano nei libri di storia, nella memoria appassionata dell'Irlanda. Kilpatrick, animato da questo minuzioso destino che lo redimeva e che lo perdeva, più d'una volta arricchì

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con atti e parole improvvisate il testo del suo giudice. Così venne dispiegandosi nel tempo il popoloso dramma, finché il 6 agosto 1824, in un palco dalle funeree cortine che prefigurava quello di Lincoln, una pallottola desiderata entrò nel petto del traditore e dell'eroe, che appena poté articolare, tra due sbocchi di sangue improvviso, alcune parole previste.

Nell'opera di Nolan, i passi imitati di Shakespeare sono i meno drammatici; Ryan sospetta che l'autore li intercalasse affinché qualcuno, più tardi, potesse scoprire la verità. Sospetta di far parte egli stesso della trama di Nolan... Dopo tenace cavillare, risolve di tenere segreta la scoperta. Pubblica un libro dedicato alla memoria dell'eroe; e anche questo, forse, era previsto.

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La morte e la bussola

a Mandie Molina y Vedia Dei molti problemi sui quali s'esercitò la temeraria perspicacia di Lönnrot,

nessuno è cosi strano - cosi rigorosamente strano, diremo - come la serie periodica di fatti di sangue che culminarono nella villa di Triste-le-Roy, tra il profumo interminabile: degli eucalipti. È vero che Erik Lönnrot non riuscì a impedire l'ultimo delitto, ma è indiscutibile che lo previde. Neppure scoprì l'identità dell'infausto assassino di Yarmolinsky, ma indovinò la segreta morfologia della malvagia serie, e la partecipazione di Red Scharlach, il cui secondo soprannome è Scharlach il Dandy.. Questo criminale (come tanti altri) aveva giurato sul proprio onore di uccidere Lönnrot, ma questi non si lasciò mai intimidire. Lönnrot si credeva un puro ragionatore, un Auguste Dupin, ma v'era in lui qualcosa dell'avventuriero, e persino del giocatore di carte.

Il primo delitto avvenne all'Hôtel du Nord, l'alto prisma che domina l'estuario dalle acque colore di deserto. A questa torre (che riunisce ostensibilmente l'aborrito biancore d'un sanatorio, la numerata divisibilità d'un carcere e l'aspetto generale d'una casa di tolleranza) giunse il 3 dicembre il delegato di Podolsk al Terzo congresso Talmudico, dottor Marcello Yarmolinsky, uomo di barba grigia e occhi grigi. Mai sapremo se l'Hôtel du Nord gli piacque: lo accettò con l'antica rassegnazione che gli aveva permesso di tollerare tre anni di guerra nei Carpazi e tremila anni di oppressione e di pogroms. Gli assegnarono una camera al piano R di fronte alla suite che non senza splendore occupava il Tetrarca di Galilea. Yarmolinsky cenò, rimandò al giorno dopo l'esame della sconosciuta città, ordino in un placard i suoi molti libri e i suoi indumenti, e prima di mezzanotte spense la luce. (Cosi dichiarò lo chauffeur del Tetrarca che dormiva nella stanza attigua). Il 4, alle 11 e 3 minuti a.m., lo chiamò per telefono un redattore della “Yiddische Zeitung”; il dottor Yarmolinsky non rispose; lo trovarono nella sua stanza, col volto già livido, quasi nudo sotto un gran mantello anacronistico. Giaceva non lontano dalla porta che dava sul corridoio; una profonda pugnalata gli aveva squarciato il petto: Un paio d'ore dopo, nella stessa stanza, tra giornalisti, fotografi e gendarmi, il commissario Treviranus e Lönnrot discutevano con serenità il problema.

- È inutile - diceva Treviranus, brandendo un sigaro imperioso - cercare spiegazioni tanto complicate. Sappiamo tutti che il Tetrarca di Galilea possiede i più bei zaffiri del mondo. Qualcuno, per rubarli, sarà penetrato qui per errore. Yarmolinsky s'è alzato; il ladro ha dovuto ucciderlo. Che le sembra?

- Possibile, ma non interessante - rispose Lönnrot. - Lei dirà che la realtà non ha il minimo obbligo d'essere interessante. Io replicherò che se la realtà può sottrarsi a quest'obbligo, non possono sottrarvisi le ipotesi. In quella che lei ha improvvisato, interviene copiosamente il caso. Abbiamo qui un rabbino morto: io preferirei una spiegazione puramente rabbinica, non gli immaginari contrattempi di un ladro immaginario.

Treviranus rispose di malumore:

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- Non m'interessano le spiegazioni rabbiniche: m'interessa la cattura dell'uomo che ha pugnalato questo sconosciuto.

- Non tanto sconosciuto - corresse Lönnrot. - Ecco le sue opere complete -. Indicò nel placard una fila di alti volumi: una Vendicazione della cabala; un Esame della filosofia di Robert Flood; una traduzione letterale del Sepher Yezirah; una Biografia del Baal Shem; una Storia della setta degli Hassidim; una monografia (in tedesco) sul Tetragrámaton; un'altra sulla nomenclatura divina del Pentateuco. Il commissario li guardò con timore, quasi con repulsione. Poi si mise a ridere.

- Sono un povero cristiano - disse. - Si prenda tutti questi scartafacci, se vuole; non ho tempo da perdere in superstizioni giudaiche.

- Chissà che questo delitto non appartenga alla storia delle superstizioni giudaiche - mormorò Lönnrot.

- Come il cristianesimo - s'azzardò a completare il redattore della “Yiddische Zeitung”. Era miope, ateo e molto timido.

Nessuno gli rispose. Uno degli agenti aveva trovato nella piccola macchina da scrivere un foglio con questa frase inconclusa:

La prima lettera del Nome e stata articolata. Lönnrot s'astenne dal sorridere. Bruscamente bibliofilo - o ebraista,

ordinò che gli facessero un pacco dei libri del morto, e se li portò a casa. Indifferente alle indagini della polizia, si mise a studiarli. Un libro in ottavo grande gli rivelò gli insegnamenti di Israel Baal Shem Tobh, fondatore della setta dei Pietosi; un altro, le virtù e i terrori del Tetragrámaton, che è l'infallibile Nome di Dio; un altro, la tesi secondo la quale Dio ha un nome segreto, in cui è compendiato (come nella sfera di cristallo che i persiani attribuiscono ad Alessandro il Macedone) il suo nono attributo, l'eternità: cioè la conoscenza immediata di tutte le cose che saranno, che sono e che furono nell'universo. La tradizione enumera novantanove nomi di Dio; gli ebraisti attribuiscono questo numero imperfetto al magico timore delle cifre pari; gli Hassidim spiegano che questa lacuna indica un centesimo nome, il Nome Assoluto.

Da questa erudizione lo distrasse, pochi giorni dopo, una visita del redattore della “Yiddische Zeitung”. Costui voleva parlare dell'ucciso; Lönnrot preferì parlare dei diversi nomi di Dio; il giornalista annunciò in tre colonne che l'investigatore Erik Lönnrot s'era messo a studiare i nomi di Dio per trovare l'assassino. Lönnrot, abituato alle semplificazioni del giornalismo, non s'indignò. Uno di quei bottegai che hanno scoperto che qualsiasi uomo si rassegna a comprare qualsiasi libro, pubblicò un'edizione popolare della Storia della setta degli Hassidim.

Il secondo delitto avvenne la notte del 3 gennaio, nel più squallido e abbandonato dei vuoti sobborghi occidentali della capitale. Verso l'alba, uno dei gendarmi che vigilano a cavallo quelle solitudini, vide sulla soglia d'una antica coloreria un uomo disteso, avvolto in un mantello. Il duro volto era come mascherato di sangue; una pugnalata profonda gli aveva trafitto il petto. Sulla parete, al di sopra delle losanghe gialle e rosse, c'erano alcune parole scritte col gesso. Il gendarme le compitò... Nel pomeriggio, Treviranus e Lönnrot si diressero verso la remota scena del delitto. A destra e a sinistra

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dell'automobile, la città si disintegrava; s'ingrandiva il firmamento e già importavano poco le case, molto una fornace o un pioppo. Giunsero alla loro povera destinazione: un vicolo cieco dai muri rosa che sembravano riflettere in qualche modo un gigantesco tramonto di sole. Il morto era già stato identificato. Era Daniel Simon Azevedo, uomo di qualche fama nei vecchi sobborghi settentrionali, che era salito dalla condizione di carrettiere a quella di ladro e persino di spia. (Il singolare stile della sua morte sembrava adeguato: Azevedo era l'ultimo rappresentante d'una generazione di banditi che sapeva maneggiare il pugnale, ma non la rivoltella). Le parole scritte col gesso erano le seguenti:

La seconda lettera del Nome è stata articolata. Il terzo delitto avvenne la notte del 3 febbraio. Poco prima dell'una,

suonò il telefono nell'ufficio del commissario Treviranus. Parlò, con infinita precauzione, un uomo dalla voce gutturale; disse di chiamarsi Ginzberg (o Ginsburg) e di esser disposto a chiarire, dietro ragionevole compenso, il mistero dei due sacrifici di Azevedo e di Yarmolinsky. Una discordia di fischi e di cornette soffocò la voce del delatore. Poi la comunicazione s'interruppe. Senza ancora scartare la possibilità di uno scherzo (dopo tutto, s'era di Carnevale), Treviranus accertò che gli avevano parlato dalla Liverpool House, una taverna della Rue de Toulon (quella strada salmastra in cui convivono il cosmorama e la latteria, il bordello e i venditori di bibbie). Treviranus chiamò al telefono il padrone. Costui - Black Finnegan, un antico criminale irlandese, ora offuscato e quasi annullato dall'onestà - gli disse che l'ultimo a parlare dal telefono del locale era stato un inquilino, certo Gryphius, che poi era uscito con alcuni amici. Treviranus si recò alla Liverpool House. Il padrone lo informò di quanto segue. Otto giorni prima, Gryphius aveva preso una camera sovrastante al bar. Era un uomo dai tratti affilati, dalla nebulosa barba grigia, vestito poveramente di nero; Finnegan (che destinava quella camera a un uso che Treviranus indovinò) gli aveva chiesto una pigione senz'altro eccessiva; Gryphius aveva pagato senza fiatare. Non usciva quasi mai; cenava e faceva colazione nella sua stanza; era molto se lo vedevano qualche volta nel bar. Quella sera, era sceso a telefonare nell'ufficio dei Finnegan. Un coupé chiuso s'era fermato davanti alla taverna. Il cocchiere non era sceso di cassetta; alcuni clienti ricordarono che portava una maschera d'orso. Dal coupé scesero due arlecchini; erano di bassa statura, e nessuno poté non accorgersi che erano molto ubriachi. Tra uno strepito di cornette, irruppero nell'ufficio di Finnegan; abbracciarono Gryphius, che, sembrò riconoscerli, ma che restò molto freddo. Scambiarono qualche parola in yiddish - l'uno con voce bassa, gutturale, gli altri con voci acute, in falsetto - e salirono nella stanza di sopra. Un quarto d'ora dopo riscesero, molto felici; Gryphius, traballante, non pareva meno ubriaco dei suoi compagni. Camminava, alto e vertiginoso, tra i due arlecchini mascherati. (Una delle donne del bar ricordò le losanghe gialle, rosse e verdi). Due volte inciampò; due volte gli arlecchini lo rialzarono. I tre risalirono nel coupé e disparvero in direzione dell'acqua morta e rettangolare della vicina darsena. Già sulla predella del coupé, l'ultimo arlecchino aveva sgorbiato una figura oscena e una frase sull'insegna della taverna.

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Treviranus vide questa frase. Era quasi prevedibile. Diceva: L'ultima lettera del Nome è stata articolata. Esaminò poi la stanzetta di Gryphius-Ginzberg. Macchiava il suolo una

brusca stella di sangue; negli angoli, mozziconi di sigarette di marca ungherese; in un armadio, un libro in latino: Philologus hebraeo-graecus (1739) di Leusden, con diverse note manoscritte. Treviranus lo guardò con indignazione e fece cercare Lönnrot. Questi, senza togliersi il cappello, si mise a leggere, mentre il commissario interrogava i contraddittori testimoni del possibile rapimento. Alle quattro se ne andarono. Nella tortuosa Rue de Toulon già albeggiava; illividivano sul marciapiede i coriandoli morti; disse Treviranus:

- E se la storia di questa notte fosse tutta una simulazione? Erik Lönnrot sorrise e lesse con tutta gravità queste righe (che qualcuno

aveva sottolineato) della trentatreesima dissertazione del Philologus: Dies Judaeorum incipit a solis occasu usque ad solis occasum diei sequentis; - Questo - aggiunse - vuol dire: “Il giorno ebraico comincia al tramonto e dura fino al tramonto successivo”

L'altro arrischiò una risposta ironica: - E questo l'indizio più importante che lei ha raccolto questa notte? - No. Più importante e una parola che disse Ginzberg. I giornali della sera non trascurarono queste sparizioni periodiche. “La

Croce della Spada” le pose in contrasto con l'ordine e l'ammirevole disciplina dell'ultimo Congresso Eremitico; Ernst Palast, su “Il Martire”, deplorò “gli intollerabili indugi di un pogrom clandestino e frugale in cui, per ammazzare tre ebrei, ci sono voluti tre mesi”; la “Yiddische Zeitung” scartò l'orribile ipotesi di un complotto antisemita, “sebbene molti spiriti penetranti non scorgano altra soluzione dell'impenetrabile mistero”; Scharlach giurò che nel suo distretto non si sarebbero mai avuti delitti di questo genere, e accusò di colpevole negligenza il commissario Franz Treviranus.

Quest'ultimo ricevette, la notte del I° marzo, un'imponente busta sigillata. L'aprì: la busta conteneva una lettera firmata Baruch Spinoza e un minuzioso piano della città, strappato evidentemente da un Baedeker. La lettera profetizzava che il 3 marzo non si sarebbe avuto un quarto delitto, poiché la coloreria dell'est, la taverna della Rue de Toulon e L'Hôtel du Nord erano “i vertici perfetti d'un triangolo equilatero e mistico”; il piano mostrava in inchiostro rosso la regolarità di questo triangolo. Treviranus lesse con rassegnazione questo argomento more geometrico e spedì lettera e piano all'indirizzo di Lönnrot, cui indiscutibilmente spettavano tali scemenze.

Erik Lönnrot le studiò. I tre luoghi, in realtà, erano equidistanti. Simmetria nel tempo (3 dicembre, 3 gennaio, 3 febbraio); simmetria nello spazio... Sentì, d'un tratto, che stava per decifrare il mistero. Un compasso e una bussola completarono questa improvvisa intuizione. Sorrise, pronunciò la parola Tetragrámaton (di recente acquisizione) e chiamò al telefono il commissario. Gli disse:

- Grazie per questo triangolo equilatero che mi ha mandato. M'ha permesso di risolvere il problema. Domani, venerdì, i criminali saranno in prigione; possiamo stare molto tranquilli.

- Dunque, non progettano un quarto delitto?

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- Precisamente perché progettano un quarto delitto, possiamo stare molto tranquilli. --Riappese il ricevitore. Un'ora dopo viaggiava in un treno delle Ferrovie Meridionali verso la villa abbandonata di Triste-le-Roy. A sud della città del mio racconto scorre un ingombro fiumiciattolo d'acque fangose, lordato dai rifiuti e dalle concerie. Dall'altra parte si stende un sobborgo d'officine, dove, sotto la protezione d'un capobanda barcellonese, pullulano i pistoleros. Lönnrot sorrise pensando che il più famoso di costoro - Red Scharlach - avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere di questa sua visita clandestina. Azevedo era stato compagno di Scharlach; Lönnrot considerò la remota possibilità che la quarta vittima dovesse essere Scharlach. Poi la scartò... Virtualmente, aveva risolto l'enigma; le mere circostanze, la realtà (nomi, arresti, volti, strascichi giudiziari e carcerari) ormai l'interessavano appena. Avrebbe voluto passeggiare, riposarsi di tre mesi d'indagini sedentarie. Riflettè che la spiegazione dei delitti stava in un triangolo anonimo e in una polverosa parola greca. Il mistero gli parve quasi cristallino; si vergognò di avergli dedicato cento giorni.

Il treno si fermò in un silenzioso scalo merci. Lönnrot scese. Era una di quelle sere deserte che sembrano albe. L'aria della torbida pianura era umida e fredda Lönnrot si incamminò per la campagna. Vide cani, vide un furgone in una strada morta, vide l'orizzonte, vide un cavallo argentato che beveva l'acqua crapulosa d'una pozzanghera. Annotava quando vide il belvedere rettangolare della villa di Triste-le-Roy, alto quasi come i neri eucalipti che lo circondavano. Pensò che appena un'alba e un tramonto lo separavano dall'ora attesa dai cercatori del Nome.

Una cancellata arrugginita definiva il perimetro irregolare della villa. Il cancello principale era chiuso. Lönnrot, senza molta speranza di entrare, fece tutto il giro, finché si trovò di nuovo davanti al cancello invalicabile. Passò la mano tra le sbarre, quasi macchinalmente, e trovò la maniglia. Lo stridere del ferro lo sorprese. Con una passività laboriosa, il cancello intero cedette.

Lönnrot avanzò tra gli eucalipti, calpestando confuse generazioni di foglie morte. Vista da vicino, la villa abbondava di simmetrie maniache e di inutili ripetizioni: a una Diana Glaciale in una nicchia malinconica corrispondeva, in una seconda nicchia, un'altra Diana; un balcone si apriva di contro a un altro balcone; doppie scalinate correvano tra balaustre doppie. Un Ermete a due facce proiettava un'ombra mostruosa. Lönnrot fece il giro della villa come aveva fatto quello della cancellata. Esaminò tutto; sotto il livello della terrazza vide una stretta persiana.

La spinse; pochi scalini di marmo conducevano a un sotterraneo. Lönnrot, che aveva già intuito le preferenze dell'architetto, indovinò che dall'altra parte del sotterraneo c'erano altri scalini. Li trovò, salì, alzò le mani e aprì la botola d'uscita.

Un chiarore lo guidò a un finestra. L'aprì: una luna gialla e circolare illuminava nel triste giardino due asciutte fontane. Lönnrot esplorò la casa. Per gallerie e retrocucina uscì in cortili uguali, o più volte nello stesso cortile. Salì per scale polverose in anticamere circolari; infinitamente si moltiplicò in specchi opposti; si stancò di schiudere o di socchiudere finestre che gli rivelavano, fuori, lo stesso desolato giardino da varie altezze e da vari angoli; e, dentro, mobili con fodere gialle e lampadari avvolti in tarlatana.

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Una stanza da letto lo trattenne; in questa stanza, un solo fiore in un vaso di porcellana; al primo soffio, gli antichi petali si disfecero. Al secondo - e ultimo - piano, la casa gli sembrò infinita e crescente, “La casa non è così grande -pensò - L'ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, - il mio estraniamento, la solitudine”.

Per una scala a chiocciola salì al belvedere. La luna di quella sera traversava le losanghe delle finestre; erano gialle, rosse e verdi. Lo trattenne un ricordo stupito e vertiginoso.

Due uomini di bassa statura, feroci e muscolosi, si gettarono su di lui e lo disarmarono; un altro, molto alto, lo saluto con gravità e gli disse:

- Lei è molto amabile. Ci ha risparmiato una notte e un giorno. Era Red Scharlach. Gli uomini ammanettarono Lönnrot. Questi, alla fine,

ritrova la voce: - Scharlach, lei cerca il Nome segreto? Scharlach lo guardava, indifferente. Non aveva partecipato alla breve

lotta; aveva appena allargato la mano per ricevere la rivoltella di Lönnrot. Parlò; Lönnrot udì nella sua voce una stanca vittoria, un odio contro le dimensioni dell'universo, una tristezza non minore di quell'odio.

- No - disse Scharlach. - Cerco qualcosa di più effimero e deperibile, cerco Erik Lönnrot. Tre anni fa, in un cabaret della Rue de Toulon, lei stesso arrestò e fece incarcerare mio fratello. In un coupé, i miei uomini mi trassero dalla sparatoria con una pallottola poliziesca nel ventre. Nove giorni e nove notti agonizzai in questa desolata villa simmetrica; mi bruciava la febbre, l'odioso Giano bifronte che guarda gli occasi e le aurore tingeva d'orrore il mio sonno e la mia veglia. Finii per abominare il mio corpo, finii per sentire che due occhi, due mani, due polmoni, sono così mostruosi come due volti. Un irlandese cercò di convertirmi alla fede di Gesù: mi ripeteva la frase dei goím: tutte le strade portano a Roma. La notte, il mio delirio s'alimentava di questa metafora: sentivo che il mondo è un labirinto dal quale è impossibile fuggire, poiché tutte le strade, anche se fingevano di portare a nord o a sud, portavano realmente a Roma, che era anche il carcere rettangolare in cui agonizzava mio fratello e la villa di Triste-le-Roy. In quelle notti, giurai sul dio che vede con due volti e su tutti gli dei della febbre e degli specchi, di tessere un labirinto intorno all'uomo che aveva incarcerato mio fratello. L'ho tessuto, ed è solido: la materia me l'hanno data un eresiologo morto, una bussola, una setta del secolo XVII, una parola greca, un pugnale, le losanghe d'una coloreria.

- Il primo termine della serie mi fu fornito dal caso: Io avevo tramato con alcuni colleghi, tra cui Daniel Azevedo, il furto degli zaffiri del Tetrarca. Azevedo ci tradì: s'ubriacò col danaro che gli avevamo anticipato e fece il colpo un giorno prima. Nell'albergo enorme si perdette; verso le due del mattino irruppe nella stanza di Yarmolinsky. Questi, assillato dall'insonnia, s'era messo a scrivere. Verosimilmente, preparava delle note o un articolo sul Nome di Dio; aveva già scritto le parole: La prima lettera del Nome è stata articolata. Azevedo gl'intimò silenzio; Yarmolinsky allungò la mano verso il campanello che avrebbe svegliato tutte le forze dell'albergo; Azevedo gli dette una sola pugnalata nel petto. Fu quasi un movimento riflesso; mezzo secolo di violenza gli aveva insegnato che il sistema più facile, il più sicuro, è sempre d'uccidere... Dieci giorni dopo seppi dalla “Yiddische Zeitung” che lei cercava negli scritti di Yarmolinsky la chiave della morte di Yarmolinsky. Lessi la Storia della setta

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degli Hassidim; seppi che dal reverente timore di pronunciare il Nome di Dio era nata la dottrina che questo Nome è onnipotente e recondito. Seppi che certi Hassidim, in cerca di questo Nome segreto, erano giunti a commettere sacrifici umani... Compresi che lei congetturava che il rabbino fosse stato sacrificato dagli Hassidim; mi dedicai a giustificare questa congettura.

- Marcello Yarmolinsky era morto la notte del 3 dicembre; per il secondo “sacrificio” scelsi la notte del 3 gennaio. Era morto a nord; per il secondo “sacrificio” ci conveniva un luogo dell'ovest . Daniel Azevedo fu la vittima necessaria. Meritava la morte: era un impulsivo, un traditore; la sua cattura poteva annientare tutto il piano. Uno dei nostri lo pugnalò; per connettere il suo cadavere al cadavere precedente, io scrissi sui rombi della coloreria “La seconda lettera del Nome è stata articolata”.

- Il terzo “delitto” avvenne il 3 febbraio. Fu, come Treviranus indovinò, una mera simulazione. Gryphius-Ginzberg-Ginsburg sono io; sopportai (con l'aggiunta d'una tenue barba posticcia) una settimana interminabile in quel perverso cubicolo della Rue de Toulon, finché gli amici mi sequestrarono. Dalla predella del coupé, uno di loro scrisse sulla porta: “L'ultima lettera del Nome è stata articolata”. Questa frase fece capire che la serie era di tre delitti. Cosi l'intese il pubblico; ma io intercalai nella trama ripetuti indizi perché lei, il ragionatore Erik Lönnrot, comprendesse che era di quattro. Un prodigio nel nord, altri due nell'est e nell'ovest, reclamano un quarto prodigio nel sud; Il Tetragrámaton - il Nome di Dio, JHVH - è di quattro lettere; gli arlecchini e l'insegna della coloreria suggerivano quattro termini. Sottolineai un certo passo nel manuale di Leusden; questo passo, rammentando che gli ebrei computavano il giorno da tramonto a tramonto, fa capire che le morti, in realtà, avvennero il quattro di ogni mese. Mandai il triangolo equilatero a Treviranus. Sapevo che lei avrebbe aggiunto il punto che mancava: il punto che determinava un rombo perfetto, il punto che prefissava il luogo dove un'esatta morte l'attendeva. Tutto questo premeditai, Erik Lönnrot, per attirare lei nelle solitudini di Triste-le-Roy.

Lönnrot evitò gli occhi di Scharlach. Guardò gli alberi e il cielo, suddivisi in rombi torbidamente gialli, verdi e rossi. Senti un po' di freddo e una tristezza impersonale, quasi anonima. Già era notte; dal giardino polveroso sali il grido inutile d'un uccello. Lönnrot considero per l'ultima volta il problema delle morti simmetriche e periodiche. -

- Nel suo labirinto - disse alla fine - ci sono tre linee di troppo. Io so d'un labirinto greco che è una linea unica, retta. In questa linea si sono perduti tanti filosofi che ben vi si potrà perdere un mero detective. Scharlach, quando in un altro avatar lei mi darà la caccia, finga (o commetta) un delitto in A; quindi un secondo delitto in B, a otto chilometri da A; quindi un terzo in C, a quattro chilometri da A e da B. a metà strada tra i due. E m'aspetti poi in D, a due chilometri da A e da C, di nuovo a metà strada. Mi uccida in D come ora sta per uccidermi in Triste-le-Roy.

- Per quest'altra volta - rispose Scharlach - le prometto questo labirinto invisibile, incessante, d'una sola linea retta.

Indietreggiò di alcuni passi. Poi, accuratissimamente, fece fuoco. [1943]

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Il miracolo segreto

The story is well known of the monk who, going out into the wood to meditate, was detained there by the song of a bird for three hundred years, which to his consdousness passed as only one hour Newmann, A grammar of assent, nota III.

La notte del 14 marzo 1939, in un appartamento della Zeltnergasse di Praga, Jaromir Hladík, autore dell'inconclusa tragedia I nemici, di una Vendicazione dell'eternità e di un esame delle indirette fonti ebraiche di Jacob Boehme sognò una lunga partita a scacchi. Non la disputavano due persone, ma due famiglie illustri; la partita era cominciata molti secoli prima; nessuno ricordava quale fosse la posta, ma si mormorava che fosse enorme e forse infinita; i pezzi e la scacchiera stavano in una torre segreta; Jaromir (nel sogno) era il primogenito d'una delle famiglie ostili; agli orologi suonava l'ora d'una mossa che non poteva più essere ritardata; il sognatore correva per le sabbie d'un deserto piovoso e non riusciva a ricordare le figure ne le leggi del gioco degli scacchi. Qui si svegliò. Cessò il fracasso della pioggia e dei terribili orologi. Un rumore ritmico e unanime, intramezzato da qualche voce di comando, saliva dalla Zeltnergasse. Era l'alba; le blindate avanguardie del Terzo Reich entravano a Praga.

Il 19, le autorità ricevettero una denuncia; lo stesso 19, di sera, Jaromir Hladík fu arrestato. Lo portarono in una caserma asettica e bianca, sull'altra riva della Moldava Non poté negare nessuna delle accuse della Gestapo. il suo nome materno era Jaroslavski, il suo sangue era ebreo, il suo saggio su Boehme ebraizzante, la sua firma allungava una lista di firme sotto una protesta contro l'Anschluss. Nel 1928 aveva tradotto il Sepher Yezirah per la casa editrice Hermann Barsdorf; il prolisso catalogo di questa casa aveva esagerato commercialmente la fama del traduttore; questo catalogo fu sfogliato da Julius Rothe, uno dei capi nelle cui mani stava la sorte di Hladík. Non v'è uomo che, fuori della sua specialità, non sia credulo; due o tre aggettivi in lettere gotiche bastarono perché Julius Rothe ammettesse l'eminenza di Hladík e decretasse la sua condanna a morte, pour encourager les autres. L'esecuzione fu fissata per il 29 marzo, alle nove di mattina. Questo ritardo (di cui il lettore apprezzerà più tardi l'importanza) si dovette al desiderio amministrativo di agire impersonalmente e posatamente, come i vegetali e i pianeti.

Il primo sentimento di Hladík fu di mero terrore. Pensò che non l'avrebbero terrorizzato la forca, nè l'ascia, nè la ghigliottina, ma che morire fucilato era intollerabile. Invano si ripetè che il tremendo era l'atto puro e generale del morire, non le circostanze concrete. Non si stancava d'immaginare queste circostanze: assurdamente, cercava di esaurirne tutte le variazioni. Anticipava infinitamente il processo, dall'alba insonne alla misteriosa scarica. Prima del giorno fissato da Julius Rothe, morì centinaia di morti, in cortili le cui forme e i cui angoli esaurivano la geometria, mitragliato da soldati variabili, in

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numero cangiante, che a volte lo finivano da lontano, altre da molto vicino. Affrontava con vero timore (forse con vero coraggio) queste esecuzioni immaginarie; ogni finzione durava pochi secondi; chiuso il cerchio, Jaromir interminabilmente tornava alle tremanti vigilie della sua morte. Poi rifletté che la realtà non suole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusse che prevedere un dettaglio circostanziale è impedire che esso accada. Fedele a questa debole magia, inventava, perché non succedessero, particolari atroci; naturalmente, finì per temere che questi particolari. fossero profetici. Miserabile la notte, procurava di affermarsi in qualche modo nella sostanza fuggitiva del tempo. Sapeva che questo andava precipitando verso l'alba del giorno 29; ragionava a voce alta: “Ora è la notte del 23; finché duri questa notte (e altre sei notti) sono invulnerabile, immortale”. Pensava che le notti di sonno erano vasche profonde e oscure, in cui poteva sommergersi. A volte l'afferrava un'impazienza della scarica definitiva, che lo redimesse, male o bene, dalla sua vana fatica d'immaginare. Il 28, quando l'ultimo occaso splendeva tra le alte sbarre, lo distrasse da queste considerazioni abiette l'immagine del suo dramma I nemici.

Hladík aveva passato i quarant'anni. A parte alcune amicizie e molte abitudini, il problematico esercizio della lettura era tutta la sua vita; come ogni scrittore, misurava le virtù degli altri dalle loro opere, e chiedeva che gli altri misurassero lui dalle sue intenzioni e illuminazioni. Tutti i libri che avevano dato alla stampa gl'infondevano un pentimento complesso. Nei suoi esami dell'opera di Boehme, di Abnesra e di Flood, era intervenuta, essenzialmente, la mera diligenza; nella sua traduzione del Sepher Yezirah, piuttosto la negligenza, la fatica e la congettura. Giudicava meno deficiente, forse, la Vendicazione dell'eternità: il primo volume compendia la storia delle diverse eternità ideate dagli uomini, dall'Essere immobile di Parmenide fino al passato modificabile di Hinton; il secondo nega (con Francis Bradley) che tutti gli eventi dell'universo costituiscano una serie temporale. Argomenta che il numero delle possibili esperienze dell'uomo non è infinito, e che basta una sola “ripetizione” a dimostrare che il tempo è un inganno... Disgraziatamente, non sono meno ingannevoli gli argomenti che dimostrano quest'inganno; Hladík soleva enumerarli con una certa disdegnosa perplessità. Aveva anche composto una serie di poesie espressioniste; queste, a confusione del poeta, figurarono in un'antologia del 1924, e non ci fu antologia posteriore che non le ereditasse. Da tutto questo passato equivoco e languido Hladík voleva redimersi col dramma in versi I nemici. (Preconizzava il verso, che impedisce agli spettatori di dimenticare l'irrealtà, condizione dell'arte.)

Questo dramma osservava l'unità di tempo, di luogo e di azione; si svolgeva a Hradcany, nella biblioteca del barone di Roemerstadt, in una delle ultime sere del secolo XIX. Nella prima scena del primo atto, uno sconosciuto fa visita a Roemerstadt. (Un orologio suona le sette, una veemenza d'ultimo sole esalta le vetrate, il vento porta le note appassionate e riconoscibili d'una musica ungherese.) A questa visita ne seguono altre; Roemerstadt non conosce le persone che lo importunano, ma ha l'incomoda impressione di averle già viste, forse in sogno. Tutti i visitatori esagerano in lodi e riguardi, ma è evidente - prima per gli spettatori del dramma, poi per lo stesso barone - che sono suoi nemici segreti, congiurati per perderlo. Roemerstadt riesce a ostacolare o a sventare i loro complessi intrighi; nel dialogo si fa allusione alla

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sua fidanzata, Julia di Weidenau, e a un certo Jaroslav Kubin, che una volta aveva importunato la fanciulla con il suo amore. Kubin, ora, è impazzito e crede d'essere Roemerstadt... I pericoli si moltiplicano; Roemerstadt, alla fine del secondo atto, si vede obbligato a uccidere un cospiratore. Comincia il terzo e ultimo atto. Aumentano gradualmente le incoerenze: tornano attori che sembravano eliminati dalla trama; torna, per un istante, l'uomo ucciso da Roemerstadt. Qualcuno fa osservare che non ha annottato: l'orologio suona le sette, splende nelle alte vetrate il sole al tramonto, il vento porta un'appassionata musica ungherese. Compare il primo interlocutore e pronuncia le parole che già aveva pronunciato nella prima scena del primo atto. Roemerstadt gli parla senza stupore; lo spettatore comprende che Roemerstadt è il miserabile Jaroslav Kubin. Il dramma non è un dramma: è il delirio circolare che interminabilmente vive e rivive Kubin.

Hladík non s'era mai chiesto se questa tragicommedia degli errori fosse futile o ammirevole, rigorosa o casuale. Nell'argomento che ho abbozzato vedeva l'invenzione più adatta alla dissimulazione dei suoi difetti e all'esercizio delle sue doti; vi si scorgeva la possibilità di giustificare (in modo simbolico) i fondamenti della propria esistenza. Aveva già terminato il primo atto e qualche scena del terzo; la natura metrica dell'opera gli permetteva di rivederla continuamente, di correggerne gli esametri, senza avere sottocchio il manoscritto. Pensò che mancavano ancora due atti, e che tra brevissimo tempo sarebbe morto. Parlò con Dio nell'oscurità: “Se in qua che modo esisto, se non sono una delle tue ripetizioni e delle tue errata, esisto come autore dei Nemici. Per condurre a termine questo dramma, che può giustificarmi e giustificarti, chiedo ancora un anno. Accordami questi giorni, Tu a cui appartengono i secoli e il tempo”. Era l'ultima notte, la più atroce; ma dieci minuti dopo, il sonno l'annegò come un'acqua scura

Verso l'alba, sognò d'essersi rifugiato in una delle navate della biblioteca del Clementinum. Un bibliotecario dagli occhiali neri gli domando: - Che cerca? - Hladík rispose: - Cerco Dio. - Il bibliotecario disse: - Dio è in una delle lettere d'una delle pagine d'uno dei quattrocentomila volumi del Clementinum. I miei padri e i padri dei miei padri hanno cercato questa lettera; io sono diventato cieco a cercarla. - Si tolse gli occhiali e Hladík gli vide gli occhi, che erano morti. Un lettore venne a restituire un atlante. - Quest'atlante è inutile, - disse, e lo dette a Hladík. Questi l'aprì a caso. Vide una carta dell'India, vertiginosa. Bruscamente sicuro, toccò una delle lettere piu piccole. Una voce che veniva da ogni luogo gli disse: - Il tempo per il tuo lavoro t'è stato concesso. - Qui Hladík si svegliò.

Ricordò che i sogni degli uomini appartengono a Dio e che Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano chiare e distinte, e non si può vedere chi le ha dette, sono divine. Si vestì; due soldati entrarono nella cella e gli ordinarono di seguirli.

Di là dalla porta, Hladík aveva previsto un labirinto di gallerie, di scale e di padiglioni. La realtà fu meno ricca scesero in un cortiletto per una sola scala di ferro. Diversi soldati - alcuni con l'uniforme sbottonata - rivedevano una motocicletta e la discutevano. Il sergente guardò l'orologio; erano le otto e quarantaquattro minuti. Si doveva aspettare che suonassero le nove. Hladík, più insignificante che sventurato, si sedette su una catasta di legna. S'accorse che gli occhi dei soldati fuggivano i suoi. Per alleviare l'attesa, il sergente gli

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dette una sigaretta. Hladík non fumava; l'accettò per cortesia o per umiltà. Accendendola, vide che gli tremavano le mani. Il giorno s'annuvolò; i soldati parlavano a voce bassa come se lui già fosse morto. Vanamente cercò di ricordarsi della donna il cui simbolo era Julia di Weidenau...

Il plotone si formo, s'inquadrò. Hladík, in piedi contro il muro della caserma, attese la scarica. Qualcuno temette che la parete restasse macchiata di sangue; ordinarono allora al condannato di avanzare di alcuni passi. Hladík, assurdamente, ricordò i vacillamenti preliminari ordinati dai fotografi. Una pesante goccia di pioggia gli sfiorò una tempia e lentamente rotolò sulla sua guancia; il sergente vociferò il comando finale.

L'universo fisico si fermò. Le armi convergevano su Hladík, ma gli uomini che stavano per ucciderlo

restavano immobili. Il braccio del sergente eternizzava un gesto inconcluso. Su un mattone del cortile un'ape proiettava un'ombra fissa. Il vento s'era arrestato come in un quadro. Hladík tentò un grido, una sillaba, la torsione d'una mano. Comprese che era paralizzato. Non il più tenue rumore gli giungeva dal mondo impedito. Pensò “sono all'inferno, sono morto”. Pensò “sono impazzito”. Pensò “il tempo s'è fermato”. Poi rifletté che in questo caso anche il suo pensiero si sarebbe fermato. Volle metterlo a prova: ripeteè(senza muovere le labbra) la misteriosa quarta ecloga di Virgilio. Immaginò che i già remoti soldati condividessero la sua angoscia; bramò di comunicare con loro. Si stupì di non sentire alcuna stanchezza, e neppure la vertigine della sua lunga immobilità. Dopo un tempo indeterminato, s'addormentò. Quando si risvegliò, il mondo continuava immobile e sordo. Durava: sulla sua guancia la goccia d'acqua; nel cortile, l'ombra dell'ape; il fumo della sigaretta che aveva fumato non finiva mai di disperdersi. Un altro “giorno” passò prima che Hladík comprendesse.

Un anno intero aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro: un anno gli concedeva l'Onnipotente. Dio compiva per lui un miracolo segreto: l'ucciderebbe, all'ora fissata, il plotone tedesco, ma nella sua mente, tra l'ordine e l'esecuzione dell'ordine, trascorrerebbe un anno. Dalla perplessità passò allo stupore, dallo stupore alla rassegnazione, dalla rassegnazione, a un'improvvisa gratitudine.

Non disponeva d'altro documento che della memoria; il mandare a mente ogni esametro nuovo, gl'impose un fortunato rigore, ignorato da coloro che arrischiano e dimenticano paragrafi provvisori e sconclusionati. Non lavorò per la posterità e neppure per Dio, delle cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto, ordì nel tempo il suo alto labirinto invisibile. Rifece il terzo atto due volte. Soppresse certi simboli troppo evidenti: i rintocchi ripetuti, la musica. Nulla veniva a importunarlo e a distrarlo. Soppresse, abbreviò, ampliò: in nessun caso preferì la versione primitiva. Giunse ad amare il cortile, la caserma. Uno dei volti che gli erano di fronte modificò la sua concezione del carattere di Roemerstadt. Scoprì che le ardue cacofonie che tanto allarmavano Flaubert, sono mere superstizioni visive: debolezze e molestie della parola scritta, non di quella sonora... Terminò il suo dramma non gli mancava di risolvere, ormai, che un solo aggettivo. Lo trovò; la goccia d'acqua riprese a scivolare sulla sua guancia. Gridò il principio d'un grido, mosse il capo, la quadruplice scarica lo fulminò.

Jaromir Hladík mori il 29 marzo, alle nove e due minuti del mattino.

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[1943]. Tre versioni di Giuda

There seemed a certainty in degradation. T. E. Lawrence Seven Pillors of Wisdom.

Nell'Asia Minore o ad Alessandria, nel secolo II della nostra fede, quando

Basilide annunciava che il cosmo è una temeraria o malvagia improvvisazione di angeli imperfetti, Nils Runeberg avrebbe diretto, con singolare passione intellettuale, una delle conventicole gnostiche. Dante gli avrebbe destinato, probabilmente, un sepolcro di fuoco; il suo nome arricchirebbe il catalogo degli eresiarchi minori, tra Satornice e Carpocrate; qualche frammento delle sue prediche, ornato d'ingiurie, durerebbe nell'apocrifo Liber adversus omnes haereses, o sarebbe perito quando l'incendio d'una biblioteca monastica divorò l'ultimo esemplare del Syntagma. Invece, Dio gli assegnò il secolo XX e la città universitaria di Lund. Qui, nel 1904, pubblicò la prima edizione di Kristus och Judas; e, nel 1909, la sua opera capitale Den hemlige Frälsaren (tradotta in tedesco da Emil Schering: Der heimliche Heiland, 1912).

Prima di tentare un esame di questi lavori, è necessario ripetere che Nils Runeberg, membro dell'Unione Evangelica Nazionale, era profondamente religioso. In un cenacolo di Parigi o anche di Buenos Aires, un letterato potrebbe benissimo riscoprire le tesi di Runeberg; queste tesi, così proposte in un cenacolo, sarebbero leggeri e inutili esercizi della negligenza e della bestemmia. Per Runeberg, furono la chiave che decifra un mistero centrale della teologia; furono materia di meditazione e di analisi, di controversia storica e filologica, di orgoglio, di giubilo e di terrore. Giustificarono e scompigliarono la sua vita. Chi leggerà quest'articolo, consideri che in esso non riferisco, di Runeberg, che le conclusioni, e non la dialettica e le prove. Alcuni osserveranno che le conclusioni precedettero senza dubbio, le prove. Ma chi si rassegnerebbe a cercar prove di cosa che già non creda, e di cui non gl'importi?

La prima edizione di Kristus och Judas porta questa categorica epigrafe, il cui senso, anni più tardi, sarebbe stato mostruosamente allargato dallo stesso Nils Runeberg: “Non una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false” (De Quincey, 1857). Alla maniera d'un suo predecessore tedesco, De Quincey stimò che Giuda avesse consegnato Gesù Cristo per forzarlo a dichiarare la sua divinità e ad accendere una vasta ribellione contro il giogo di Roma; Runeberg suggerisce una giustificazione d'indole metafisica. Abilmente, comincia col sottolineare la superfluità dell'atto di Giuda. Osserva (come Robertson) che per identificare un maestro che quotidianamente predicava nella sinagoga e che faceva miracoli dinanzi a migliaia di persone, non era necessario il tradimento d'un apostolo. Ciò appunto, tuttavia, avvenne. Supporre un errore nella Scrittura è intollerabile; non meno intollerabile ammettere un fatto casuale nel più prezioso avvenimento della storia del mondo. Ergo il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell'economia

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della redenzione. Incarnandosi - prosegue Runeberg - il Verbo passò dall'ubiquità allo spazio, dall'eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest'uomo. Giuda, unico tra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. Il Verbo s'era abbassato alla condizione di mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva abbassarsi alla condizione di delatore (l'infamia peggiore tra tutte le. infamie) e d'ospite del fuoco che non s'estingue. L'ordine inferiore è uno specchio dell'ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili; Giuda rispecchiava in qualche modo Gesù. Di qui i trenta denari e il bacio; di qui la morte volontaria, per meritare ancor più la Riprovazione. Cosi spiegò Nils Runeberg l'enigma di Giuda.

I teologi di tutte le confessioni lo sconfessarono. Lars Peter Engström. l'accusò di ignorare, o di negligere, l'unione ipostatica; Axel Borelius, di rinnovare l'eresia degli gnostici, che negarono l'umanità di Gesù; l'inflessibile vescovo di Lund, di contraddire al terzo versetto del capitolo XXII del vangelo di san Luca.

Questi vari anatemi influirono su Runeberg, che parzialmente riscrisse il libro riprovato e modificò la propria dottrina. Abbandonò ai suoi avversari il terreno ideologico e propose oblique ragioni di ordine morale. Ammise che Gesù, che disponeva delle considerevoli risorse che può offrire l'Onnipotenza, non aveva bisogno d'un uomo per redimere tutti gli uomini. Confutò, poi, quanti affermano che nulla sappiamo dell'inesplicabile traditore; sappiamo, disse, che fu uno degli apostoli, uno di quelli che furono scelti per annunciare il regno dei cieli, per risanare infermi, per mondare lebbrosi, per risuscitare morti e per cacciare demoni (Matteo X 7-8; Luca X I). Un uomo cui il Redentore ha così distinto merita che noi diamo dei suoi atti l'interpretazione migliore. Ascrivere il suo delitto alla cupidigia (come hanno fatto alcuni, sull'autorità di Giovanni XII 6) è rassegnarsi al movente più turpe. Nils Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L'asceta, per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciò all'onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. L'adulterio partecipa della tenerezza e dell'abnegazione; l'omicidio, del coraggio; le profanazioni e la bestemmia, d'un certo fulgore satanico. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l'abuso di fiducia (Giovanni XII 6) e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d'essere buono. Paolo ha scritto: “Chi si gloria, si glorii nel Signore” (Ai Corinti I 31); Giuda cercò l'Inferno, perché la felicita del Signore gli bastava. Pensò che la felicità, come il bene, è un attributo divino, cui non debbono usurpare gli uomini.

Molti hanno scoperto, post factum, che le giustificabili premesse di Runeberg già prefigurano l'assurdità della conclusione e che Den hemlige Frälsaren è una semplice perversione o esasperazione di Kristus och Judas. Verso la fine del 1907 Runeberg terminò e rivide il testo manoscritto; quasi due anni passarono senza che lo desse alle stampe. Nell'ottobre 1909 il libro uscì con una prefazione (tepida fino all'enigmatico) dell'ebraista danese Erik Erfjord e con questa perfida epigrafe: “Nel mondo era, e il mondo fu fatto per

Page 71: Borges Jorge Finzioni - Home - Tlon...Jorge L. Borges J.L. Borges, La biblioteca di Babele, Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.:

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lui, e il mondo non lo conobbe” (Giovanni I 10). Il tema generale non è complesso, ma la conclusione è mostruosa. Dio, argomenta Runeberg, s'abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all'agonia d'un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore poté sentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; è anche lecito ammettere che poté peccare e perdersi. Il famoso passo: “Salirà come radice da terra arida; non v'è in lui forma, ne bellezza alcuna... Disprezzato come l'ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni” (Isaia LIII 2-3) è per molti una profezia del crocifisso, nell'ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s'attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d'un momento solo, ma di tutto l'atroce avvenire, nel tempo e nell'eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.

Invano le librerie di Stoccolma e di Lund proposero questa rivelazione. Gli increduli la giudicarono, a priori, un insipido e laborioso gioco teologico; i teologi la disdegnarono. Runeberg intuì in questa indifferenza ecumenica una quasi miracolosa conferma. Dio ordinava quest'indifferenza; Dio non voleva che si propalasse sulla terra il suo terribile segreto. Runeberg comprese che l'ora non era giunta. Sentì che stavano convergendo su di lui antiche maledizioni divine; ricordò Elia e Mosè, che sulla montagna si coprirono il volto per non vedere Dio: Isaia, che atterrì quando i suoi occhi videro Colui la cui gloria riempie la terra; Saul, che restò cieco sulla via di Damasco; il rabbino Simeon ben Azal, che vide il Paradiso e morì; il famoso mago Giovanni da Viterbo, che impazzì quando poté vedere la Trinità; i Midrashim, che abominano gli empi che pronunciano il Shem Hamephorash, il Segreto Nome di Dio. Non era egli stesso, forse, colpevole di questo crimine oscuro? Non sarebbe questa la bestemmia contro lo Spirito, quella che non sarà perdonata (Matteo XII 31)? Valerio Sorano mori per aver divulgato l'occulto nome di Roma; quale infinito castigo sarebbe stato il suo, per aver scoperto e divulgato l'orrendo nome di Dio?

Ebbro d'insonnia e di vertiginosa dialettica, Nils Runeberg errò per le vie di Malmö, pregando a volte che gli fosse concessa la grazia di dividere l'Inferno col Redentore.

Morì della rottura d'un aneurisma, il primo marzo 1912. Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno: aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura.

[1944]. FINE