Books Box Vol. IV

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i racconti Singolari di LiberAria

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JOHN CASSAVETES E' MORTOMARCO LUPO

nella periferia di tacraffaele riba

PROVOCAZIONIARIANNA PETROSINO

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JOHN CASSAVETES E'

MORTO

MARCO LUPO

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La giacca di Ron è di pelle nera. La linea del collo emaciata, irregolare. Il collo che spunta dalla giacca straborda oltre la linea. La giacca di pelle appartiene a Ron dal 1966. Un mercante di nome Said gliel’ha venduta. Said ha la fronte screziata da centinaia di lentiggini, naso corto, gli occhi neri, labbra morbide, voce acuta. Ron indossa una camicia bianca, il grasso ha macchiato la schiena, le ascelle e la parte che in alcuni combacia con l’anca. Il mercato di Marrakesh è sulla polvere, nella polvere i piedi, i piedi nei sandali. Il ciccione bianco suda, si vede che soffre. Si ferma davanti al banco di Said. Said sta piegando la giacca. La pelle è lucida. Ron tocca la pelle e guarda

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gli occhi neri di Said. Forse pensa di prenderla. La temperatura nel mercato di Marrakesh, il 6 giugno 1966, è sui trentasei gradi, più o meno. Le gengive nella bocca di Ron si sono retratte per l’arsura. Ron sta per andarsene. Guarda il contenuto di un’altra bancarella, oltre l’uomo che gli sorride. Ma Said dice qualcosa a proposito del freddo. Non ho capito, dice Ron. Di notte, nel deserto, ripete Said, fa freddo.

Quell’anno mio zio faceva lavoretti di giardinaggio nelle ville dei ricchi. Indossava solo una canottiera bianca che a fine giornata era macchiata di verde. Verso le sei del pomeriggio zio se la toglieva, si asciugava la fronte, le ascelle, il dorso, il petto e la lanciava nella carriola. Poi andava nella rimessa in fondo al campo, tra una serie di alberi da frutta e la siepe bassa di ginepro.

Nella rimessa c’era un bagno, una specie di bagno con un lavandino che era un secchio azzurro. Poi si calava i pantaloni di tela e urinava nel water

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giallognolo, l’incavo tatuato da scie indelebili, strati di calcare, residui di urina etilica e gocce d’acqua cadute dallo scarico che pendeva irrisolto sulla testa del fruitore. Zio mi salutava dalla finestra aperta mentre pisciava, e i campi intorno profumavano di concime e diserbante. Io aspiravo tutto.

Ron era grasso, 5.40 kg alla nascita. La madre non si riprese mai dal parto. Rosario Lorenzo, nato il 4 settembre del 1943. Il padre festeggiò nella locanda, quella notte, e poi anche il giorno dopo. Il giorno dopo ancora il padre era morto. Qualcuno lo aveva accoltellato. Rosario Lorenzo iniziò a camminare tardi. La madre lo lasciava solo in casa, una piccola casa di pietra su una collina che dava sul mare, da qualche parte in Calabria. Rosario passava le ore a guardare il tavolo di legno. Suo nonno entrava all’ora di pranzo e gli preparava il pranzo. Il nonno si chiamava Raniero. Rosario piangeva, quando lo vedeva uscire.

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NELLA PERIFERIA DI

TAC

RAFFAELE RIBA

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Nell’autunno del 1986 l’aria era più secca e Natan non sapeva ancora che avrebbe smesso di frequentare molte più persone di quante si sarebbe immaginato. Di loro avrebbe comunque ricordato il numero di telefono, la data del compleanno e se mai fossero state all’estero. Per sempre.

Nell’autunno del 1986, alla luce gialla di un faro d’angolo, le ultime ballate trattenevano i movimenti dei pochi rimasti: quattro uomini con la giacca dalle spalline imbottite che speravano ogni notte, la gamba di una vecchia signora seduta a guardare le danze e

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qualche ragazza provata dall’alcol ma tenuta in piedi da jeans molto aderenti.

Quelle persone saranno lì anche adesso, le ragazze ad aspettare il principe azzurro e i quattro uomini un preservativo di cristallo anche se, su quello spiazzo un po’ parcheggio un po’ balera, l’apparizione di un forestiero non era in grado di soddisfare le illusioni accumulate in secoli di povera gente. Ora come allora.

Tra loro, ma fuori di loro, Natan ballava fino a farsi uscire di dosso l’ultima goccia di sudore. Sollevava nubi di polvere come facevano i nativi per invocare la pioggia, come quando i bufali solcavano le praterie pestandosi per raggiungere i pascoli. Natan ballava, morso dal movimento, incurante dei principi azzurri, incurante delle speranze occasionali che tenevano svegli tutti gli altri.

Poi, quando il gestore messicano decideva che l’apocalisse dei disperati era giunta, spegneva il faro giallo come un dio veterotestamentario, pur sapendo che Natan poteva continuare finché voleva, lui che la musica ce l’aveva in testa e degli altri non si

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accorgeva ancora. In quella traballante periferia Natan veniva

chiamato Tac. Alla gente abituata a vederlo sembrava che su di

lui gravasse una nube di insetti, mosche e cavallette che lo mordevano a sangue. E invece non c’era mai niente. Natan viveva in uno scatto continuo, come per allontanare qualcosa che non c’è. Natan era moto perpetuo, energia dispersa, fastidio che si muove.

Natan veniva chiamato Tac, perché lì tutti dicevano che era la prima cosa che veniva da dire vedendolo, l’unico modo per accettare con lo scherno disumano ma partecipe di tutte le periferie quella nuvola di tic che era Natan detto Tac.

Natan la sua malattia l’ha scoperta da solo. Al campeggio dove abitava c’era poca gente anche

d’estate. Lui tagliava l’erba e puliva i cessi. In cambio aveva parcheggiato la roulotte che suo zio gli aveva regalato per toglierselo di torno e aspettare qualche turista da sfidare a ping pong. Sul tavolo da gioco

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erano passati cileni, austriaci, norvegesi e americani, russi e cinesi. Natan li aveva battuti tutti, uno dopo l’altro. Qualcuno scommetteva da bere, qualcun altro pochi spiccioli o una cassetta con canzoni da viaggio. Un giorno, in una sfida memorabile con il tedesco più basso che avesse mai visto, Natan vinse un tamburello di latta rosso e bianco perché con la racchetta in mano era inatteso e letale come la corrente che ogni giorno lo esauriva senza andarsene mai.

Al campeggio i quotidiani arrivavano solo in alta stagione e nei pochi giorni in cui Sebastian, il proprietario, non si alzava chiedendosi veramente chi fosse e cosa ci facesse lì.

In una mattina del tardo ottobre del 1986, Natan lesse per la prima volta della Sindrome di Tourette.

Dopo aver chiuso il giornale con il tonfo di una Bibbia, decise che sarebbe andato all’estero per sottoporsi alle cure di un neurochirurgo di nome Oliver Sacks.

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Si svegliò. O forse aprì soltanto gli occhi, non era sicura di aver dormito, la faccia le faceva così male.

Si ricordava ogni dettaglio, come se tutto le scorresse davanti agli occhi, ma continuava a non capire il perché: perché i lacrimogeni, perché gli spari, perché la carica della polizia, perché lei.

Alma neanche lo sapeva perché ci era andata alla manifestazione, il primo giorno, ma dopo tre giorni di dimostrazioni aveva colto tutto, e non se ne sarebbe andata prima della fine. Nessuno sapeva dove fosse, né l’avrebbero mai immaginato: lei, sempre così distaccata, non poteva essere la stessa ragazza con i vestiti strappati, i lividi e il labbro spaccato sotto la vernice.

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Era un corteo colorato, tutti lo erano: chi giocolava, chi suonava, chi si era trovato lì per caso e chi urlava nei megafoni. Poi, erano stati schiacciati tutti dalla carica. Pareva che tutti i celerini si fossero concentrati là, parevano pazzi, o forse lo erano, gli occhi infiammati da non si sa quale rabbia.

L’avevano buttata a terra, calpestata, picchiata.

- Manganello, manganello che rischiari ogni cervello.

Non erano bastati i limoni lanciati giù dai balconi. Sembrava la guerra, la piazza circondata dalla Celere, fumogeni che volavano, cortei di camionette, e migliaia di persone in trappola.

Non è volato neanche un sasso. Niente molotov. Nulla ha preso fuoco.

Dei black block di cui parlavano tutte le TV non c’era neanche l’ombra, niente passamontagna.

Alma non poté fare a meno di pensare ai fatti di Genova, e a tutte le differenze: da loro non era morto nessuno, non avevano sgomberato una scuola massacrando decine di persone, non era stata rotta nessuna vetrina. Ma la Celere aveva caricato lo stesso.

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Doveva pensare a qualcosa, di positivo magari, ma provava troppa rabbia. Aveva perso cinque anni di liceo stando a guardare, senza far nulla, e attorno a lei succedeva di tutto: avevano occupato la sua scuola, e lei dopo il primo giorno aveva preferito girare per negozi. Ma ora se la ricordava, la palestra piena di gente, gli striscioni calati, le porte bloccate e gli studenti con le coperte, pronti per la notte.

Non aveva fatto nulla, aveva sempre pensato che non le cambiava niente, che cose come la vicenda della Diaz erano più adatte a film che ad altro, che lei con la polizia non avrebbe mai avuto nulla a che fare.

Cinque anni buttati. Magari ci avrei fatto il callo al manganello.

Alzati Alma, non puoi restare per strada. C’è ancora domani.

*

C’era il pienone, alla mensa della caserma, tutti in coda per qualcosa che osavano chiamare cibo, uno

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schifo.

Si sedette con altri del suo reparto e iniziarono a parlare: era stata una gran bella giornata.

-‘ Sti comunisti danno molta più soddisfazione dei tifosi. E ci sono molte più femmine.

- Quella sotto di me si agitava tutta, mentre la picchiavo. Una goduria, dovevi vederla!

Nessuno si chiedeva il perché di quella giornata, lo sapevano tutti: così era stato ordinato, e se si tratta di smontare, distruggere una manifestazione, non serve altro.

In fondo anche i più giovani lo sapevano, che i black block riempivano le conferenze stampa e non le piazze, le piazze pacifiche. Ma prima o poi una bottiglia sarebbe volata, sarebbe stata trovata una molotov, e allora tutte le violenze sarebbero state giustificate. Perrini non poté fare a meno di pensare a Genova, quando era troppo giovane per entrare nella Celere, ma aveva seguito tutto: il coraggio della polizia nel contrastare i violenti, l’obbedienza agli ordini… Era stato allora che aveva deciso che sarebbe stato come loro.