Bomba libera tutti

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Gaetano Buompane, narrativa

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GAETANO BUOMPANE

BOMBA LIBERA TUTTI

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BOMBA LIBERA TUTTI Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-432-1 In copertina: Immagine di Giulio Bonasera Quarta di copertina: foto di Matteo Mignani

Prima edizione Maggio 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

I fatti e i personaggi narrati in questo libro sono frutto della fantasia dell’autore. Chi dovesse riconoscervi fatti o personaggi realmente esistiti, avrebbe più fantasia dell’autore stesso.

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Ai miei. Per il vostro amore assoluto.

A Pipoca.

Hai ragione, tutto è possibile.

A quelli che resistono. Forse non è sempre tempo perso.

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Canto per chi non ha fortuna canto per me.

Canto per rabbia e per paura contro di te.

Contro chi è ricco e non lo sa chi sporcherà la verità.

Cammino e canto la rabbia che mi fa.

(Canzone arrabbiata, Nino Rota)

Come, as you are, as you were, as I want you to be

as a friend, as a friend, as an old enemy. Take your time, hurry up,

the choice is yours, don’t be late. Take a rest as a friend, as an old memoria.

Memoria, memoria, memoria, memoria.

(Come as you are, Nirvana)

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1994 Inverno. Il Cavaliere scende in campo Don Giuseppe Diana è assassinato dalla camorra Primavera. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi in un agguato Kurt Cobain si spara un colpo di fucile Inizia il genocidio in Ruanda Estate. Baggio sbaglia il rigore

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Autunno. Tutto va in fumo Il mio arrivo in città è stato traumatico, disperato, ma totalmente necessario per sfuggire al lento sprofondamento che la vita aveva in serbo per me. Troncare di netto con la provincia, i vecchi amici e un futuro prevedibile e mediocre, mi ha dato una possibilità di salvezza, pur costringendomi a prendere prima un bel respiro, tapparmi il naso e tuffarmi a corpo morto in un mare di merda. Come sarei riuscito a tornare su a respirare, ad annaspare verso la riva e a ripulirmi da tutto quello schifo, ci avrei pensato in seguito. Saltare è stato un moto istintivo, alla stregua di un animale che si getta nel baratro pur di sfuggire al suo predatore. La mia speranza, come accade nei film, era che la situazione disperata avesse riservato anche per me un colpo di scena. Intanto ho fatto la mia mossa, ho deciso di sfidare il destino e siccome ero sicuro che lui, brutta carogna vendicativa, mi sarebbe stato prima o poi avverso, ho agito prendendolo di sorpresa, con la speranza di aver guadagnato del tempo prezioso sulla sua contromossa. Lo so, ero uno stupido presuntuoso a cui i sogni avevano annebbiato il cervello. Mi ero abituato a vivere di illusioni perché la realtà che mi si prospettava ascoltando i progetti futuri dei miei compagni, ai quali tutti si aspettavano che io mi adeguassi, mi faceva orrore. Per tutta risposta avevo puntato in alto, mostrato sicurezza nel voler percorrere la strada più difficile possibile, godendo nel riscontrare ammirazione in quei “senzapalle” che elogiavano il mio coraggio. In realtà nessuno aveva mai capito bene che cosa volessi fare della mia vita, io per primo, e il mio coraggio si era sempre dissolto poco oltre l’uscio di casa. Tutta la mia forza si concentrava in una cronica immaturità che, oltre a non farmi preoccupare troppo per il futuro, mi aveva sempre dato un’immotivata fiducia in me stesso. Non ero mai stato una promessa in nessun campo, non ero mai stato un esempio da seguire, non avevo mai dimostrato di potercela fare in scioltezza, eppure continuavo a puntare su me stesso reputandomi un cavallo di razza. Ho provato a fregarlo, il destino, piegarlo alla mia volontà, anche se avevo il timore che per il momento si sarebbe divertito a osservarmi mentre annaspavo alla ricerca di un centimetro di aria pulita da respirare e quando si fosse stancato di guardare e basta, mi avrebbe concesso l’occasione di tirare fuori la testa per potermi colpire meglio.

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Comunque. Dopo la maturità presa a calci nel culo, mi limitai a riempire una sacca con dei vestiti, comprare un biglietto del treno e scendere alla stazione di arrivo. A tutto il resto ci pensò Tommy. Tommy era un amico di un amico. Fino a qualche giorno prima non sapevo nemmeno che cavolo di faccia avesse. Sapevo solo che abitava in città e che mi avrebbe dato una mano a cercare una sistemazione. Anche lui era delle mie parti e nella melma cittadina ci stava sguazzando già da tempo. A prima vista mi era sembrato un mezzo schizzato, sempre con la sigaretta appesa alle labbra e la giacchetta lisa sui gomiti. Era iscritto a Filosofia e io non avevo fatto altro che seguirlo in silenzio. Parlava a bassa voce e scoppiava in risatine isteriche a ogni battutina idiota che gli passava per la testa. Chiunque lo avrebbe mandato a cagare appena scesi dal treno, io mi legai a lui senza riserve. In città non conoscevo niente e nessuno, avevo solo il vago ricordo di una gita delle medie intrappolato in una foto orrenda in cui, con la faccia da scemo, lanciavo con classico gesto alla cieca una monetina nella fontana. Pioveva e quel giorno indossavo un k-way blu, di quelli che si appallottolavano e si legavano in vita con i lacci elastici. Quel bambino dentone con la faccia da idiota, che ancora non si era mai sparato una sega in vita sua e per il quale l’unica preoccupazione era di non sapere come dire al mister che in difesa non ci voleva giocare, stava decidendo inconsapevolmente il suo futuro con il lancio della monetina. Si dice che lanciando il soldo nella fontana si è destinati, prima o poi, a tornare. Ed eccomi lì, ero tornato.

* * * Tommy mi portò a casa sua, una topaia in un quartiere ammuffito nei pressi dell’Università. Mi accennò al volo, con la sua solita verbosità a basso volume, del valore storico di quelle mura scrostate, dell’anima profondamente comunista e anarcoide che pervade le strade di quella fetta di città e delle bombe americane della seconda guerra che, pur distruggendo il quartiere, ne avevano anche fortificato l’orgoglio. Oddio, confrontarsi con la fierezza di un intero quartiere mi mise, sinceramente, un po’ d’angoscia ma, mentre lo seguivo guardandomi intorno, mi sentii subito a mio agio: in mezzo a quella frotta di punkabbestia, alternativi, studenti fuorisede, rincoglioniti di ogni genere, sarei passato sicuramente inosservato. Era quello che cercavo, almeno per l’inizio: trovare una tana comoda e farmi notare il meno possibile.

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Salimmo le scale che portavano su un ballatoio screpolato addobbato da panni stesi. Il portoncino si aprì a fatica strusciando su una moquette logora e piena di polvere. L’ambiente era buio e fumoso e il pavimento era disseminato di cadaveri. Tommy aprì le imposte quel tanto per illuminare i resti di una bisboccia. Alcuni ragazzi stavano dormendo su cuscini buttati per terra. Senza accorgermene, avevo posato la sacca sul corpo di una ragazza sui vent’anni coi capelli rasta e un piercing sul labbro. Bofonchiò qualcosa, poi scostò la sacca e si grattò il culo. Mi fece segno che voleva una sigaretta. Appena capì che non ne avevo, fece un cenno verso la libreria accanto a me indicandomi un pacchetto di Marlboro rosse morbide. Gliele passai e in tre mosse rapidissime fece spuntare fuori una sigaretta, se la ficcò in bocca e l’accese. «E tu, chi cazzo sei?» mi chiese sbuffando fuori un po’ di fumo. Infatti, “chi cazzo sono?” … bella domanda. Ero il non amico di Tommy, il toscano venuto dal nulla. Non ero mai stato nessuno da nessuna parte. Il liceo era passato senza lasciare traccia, sempre all’ombra di qualcun altro, le estati al mare erano trascorse noiose, con le cuffie del walkman sempre ficcate nelle orecchie, i capelli troppo lunghi o troppo corti e l’aria troppo strana per qualsiasi ragazzina. Non avevo mai avuto una chitarra che mi facesse sembrare un musicista, un fantastico dribbling per farmi assomigliare a un campione, abbastanza fiato per correre più degli altri, fascino per scatenare adulazione, anche solo uno stramaledettissimo skateboard per andare da qualche parte in maniera diversa dagli altri. Avevo coltivato la mia assidua solitudine come se fosse un bene prezioso e la mia mediocrità come se fosse un accessorio di quella stessa solitudine. E allora, chi ero? La prima persona che mi rivolse la parola in quella dannata città mi aveva messo subito k.o. Eppure quegli occhi annebbiati continuavano a guardarmi; non passarono a cercare un prossimo futuro lì intorno, che so, un posacenere o un avanzo di birra in una delle bottiglie sparse per la stanza. No, restarono fermi in attesa di una risposta. Quella domanda aveva espresso una reale curiosità e non un semplice fastidio, tanto che per un attimo, un solo attimo, fui sicuro di essere capitato nel posto giusto al momento giusto. Mi chinai accanto a lei e la guardai negli occhi. «Sono il ragazzo del buongiorno» le dissi arricciando verso l’alto un lato della bocca. Lei fece un tiro di traverso e mi soffiò il fumo in faccia. «Ma vaffanculo!»

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Ci pensò Tommy a ristabilire il nuovo ritmo della giornata. Scoprii, con mia grande sorpresa, che era anche capace di urlare. La sua voce isterica proveniente da un’altra stanza svegliò gli altri zombie abbandonati nel soggiorno. Un paio di loro si tirò su a fatica cercando di capire dove si trovasse quella sveglia così rumorosa. Tommy entrò come una furia. Dietro di lui un tipetto stralunato in pantaloncini, ciabatte di plastica e lo stomaco dilatato da forte bevitore di birra. Quello che riuscii a capire era che il tipetto, a cui era intestato il contratto di affitto, aveva pensato bene di approfittare dell’assenza di Tommy per subaffittare la sua stanza, di fatto cacciandolo fuori senza preavviso, ma più che un litigio mi sembrava un’accesa polemica tra due politici in un dibattito televisivo. «Quella calabrese è una subcultura mafiosa e nichilista» gli urlò Tommy mentre raccattava tutto ciò che gli apparteneva infilandolo in una busta di plastica. «Vivete in branco come le bestie e vi autogovernate secondo leggi tribali.» Scavalcò i corpi degli zombie, ancora indecisi se uscire definitivamente dalle tombe. «La vostra identità allucinata che ricercate costantemente con l’uso degli oppiacei vi rende una popolazione culturalmente in estinzione, lo capisci?» Il tipetto era fermo in un angolo e si stava grattando la pancia. «La tua è una visione razzista e borghese» sputò fuori con forte accento calabrese. «Ti sei assuefatto all’ordine costituito, sei un reazionario che vota Radicale solo perché così credi di poter tenere pulita la coscienza.» Io e la rasta col piercing guardavamo interessati dalla nostra postazione. Le sfilai la sigaretta dalla bocca e feci un tiro. Lei mi guardò storto e si riprese il mozzicone. «Il tuo pseudo anarchismo mi fa schifo» continuò Tommy puntandogli il dito contro. «Ti riempi la bocca di ideali, ma in realtà ti fai soltanto i cazzacci tuoi. Sei lo specchio di una società degenerata.» «Abbiamo votato democraticamente la tua esclusione da questa comunità, non puoi accusarmi di aver condotto una campagna denigratoria contro di te. In fondo ti sei tagliato fuori da solo col tuo atteggiamento individualistico.» «Qui non c’è più niente di democratico, stai trasformando la comunità che avevamo creato insieme in una tribù della quale ti sei proclamato il capo. Ma ti avverto, prima o poi incontrerai chi vorrà sfidare il tuo potere, ti metteranno in un angolo e dovrai difenderti alla stregua di un cane minacciato.»

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«Il tuo autarchismo ti ha dato alla testa, stavi destabilizzando l’armonia della comunità con i tuoi dubbi e i tuoi dissensi. Non c’era nient’altro da fare.» Tommy mi sembrò finalmente rassegnato. «Qui ti sbagli» guardava il tipetto negli occhi. «Avremmo potuto scegliere di fare tante altre cose, se solo lo avessimo fatto insieme. Purtroppo il socialismo è sempre destinato a fallire perché ha un unico difetto: l’egoismo dell’uomo.» Poi dette un’ultima occhiata alla stanza. «Valentina cos’ha detto?» gli chiese Tommy con un filo di voce. «È stata la prima a votare per la tua esclusione.» Tommy abbassò la testa. Tutti noi lo guardammo in silenzio. A un paio di zombie salirono i lucciconi agli occhi. La rasta afferrò un anfibio abbandonato accanto al suo giaciglio e spense la sigaretta sotto la suola. Tommy, sempre a testa bassa, mi sfilò accanto. «Andiamo!» mi disse uscendo sul ballatoio. Io guardai la rasta e lei mi consegnò il mozzicone spento. «Ci becchiamo!» disse. Le feci un mezzo sorriso, afferrai la sacca e sgusciai fuori.

* * * Stavo iniziando a sentire qualcosa di enorme che si faceva strada su per il culo. Ok, povero Tommy, mentre lo guardavo camminare a testa bassa davanti a me non riuscivo a non provare pena per lui. Ma io che fine avrei fatto? Mi avrebbe abbandonato al mio triste destino per andare alla ricerca di quella misteriosa Valentina; per chiederle perché lo avesse tradito così meschinamente; per rinfacciarle di non aver mai compreso i suoi angosciosi dubbi sul socialismo; di essere, come tutte le donne, una stronza egocentrica. Mi si prospettava un ritorno molto affrettato a casa, una colossale figura di merda, un fallimento ancora prima di iniziare. Mio padre mi avrebbe deriso col suo modo subdolo fin sul letto di morte. Su sua richiesta mi sarei chinato per farmi sussurrare all’orecchio le sue ultime volontà e lui, invece, avrebbe fatto una risatina sarcastica in ricordo di quel giorno in cui partii per cercar fortuna la mattina e tornai la sera perché la fortuna, con me, non aveva proprio niente da spartire. Mia madre avrebbe continuato, con sua immensa soddisfazione, a tenermi sotto la sua gonna trovandomi un posto alla mensa scolastica in attesa di qualcosa di meglio che non sarebbe mai arrivato e io avrei potuto sperare di vivere ancora un paio

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di momenti davvero felici prima di rendermi definitivamente conto di aver passato una vita inutile. Continuavo a ripetermi che forse la mia strada per la salvezza era un’altra. Che cosa c’entrava fare il ribelle, prendere posizione, tirare in ballo i sogni, investire su un futuro incerto? Che diamine! Erano i primi anni ’90, lo sapevano tutti che era il momento peggiore per affidarsi alla bontà divina. Persino chi aveva talento faticava a trovare spazio, figurarsi un cialtrone come me. Da dove venisse fuori tutto quel coraggio proprio non riuscivo a spiegarmelo, ma d’altronde, non essendo mai stato capace di fare ragionamenti a lungo termine, ero anche totalmente incapace di analizzare le conseguenze delle mie scelte. Guardiamo in faccia la realtà: la mia incoscienza non c’entrava niente con l’istintiva spregiudicatezza, derivava più che altro dalla mia pigrizia mentale. Lo ammetto, il mio era sempre stato un eroismo interpretato, alle volte in maniera davvero convincente, il problema era che si sarebbe inesorabilmente dissolto alla fine della messa in scena. Solo se mi fossi scelto un’intera vita da commedia il trucco avrebbe potuto funzionare a lungo. Intanto, se in quel momento non me la stessi facendo sotto dalla paura, la commedia appena iniziata sarebbe stata davvero tutta da ridere. Avevo paura perché la mia spavalderia si era sgretolata andando a sbattere contro il primo ostacolo che si era presentato sul mio cammino. Perché ero legato agli imprevedibili umori di Tommy, un perfetto sconosciuto che mi stava facendo fare una camminata senza meta in un posto che non avevo mai visto prima in vita mia. Avevo paura perché la città mi stava scaraventando addosso tutta la sua indifferenza, perché all’improvviso, senza poterci riflettere nemmeno per un attimo, avevo scoperto che esiste anche un altro tipo di solitudine che non sia quella vissuta tra le quattro mura della propria stanza, nell’attesa che mamma ti chiami per la cena. La crudeltà metropolitana che aveva appena colpito Tommy, aveva in qualche modo rigettato anche la mia richiesta di asilo, ancora prima di fare domanda. Una mano invisibile mi aveva improvvisamente strappato dalla faccia la maschera che avevo indebitamente indossato per la rappresentazione delle mie gesta eroiche. Mi sentivo appeso a un filo, incapace di prendere una qualsiasi decisione se non quella di seguire quella sagoma che camminava qualche passo davanti a me. Per quanto ne sapevo, avrei potuto seguirlo anche per tutta la vita aspettando che traesse qualche conclusione dalla sua speculazione filosofica sull’accaduto. La mia speranza era che l’amarezza non fosse

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così grande da costringerlo a porsi interrogativi escatologici, altrimenti non saremmo venuti mai a capo di niente. Invece, mi sorprese con un approccio pragmatico della situazione, proprio nel momento in cui stavo per comunicargli tutta la mia preoccupazione. Si infilò in un’edicola e ne uscì con un giornale incellofanato. Poi mi fece cenno di seguirlo ancora per qualche passo, si fermò di fronte a un portone e citofonò. Una voce gracchiante e scocciata rispose dopo alcuni interminabili secondi. Non appena Tommy disse il suo nome, il portone si aprì. «Vieni» mi disse con un accenno di sorriso «qui c’è tutto quello che ci serve.» Ci aprì una faccia da sfigato con due lenti da ingrandimento appoggiate sul naso. Gli facevano gli occhi talmente grandi che se fossero davvero lo specchio dell’anima la sua ci si sarebbe riflessa a figura intera. Tommy lo abbracciò vigorosamente spezzandogli in un sol colpo quella fase delicata che passa tra il risveglio e la presa di coscienza. «Madò, sembra che non ci vediamo da una vita» disse Occhioni con chiaro accento pugliese. Mi guardò oltre la spalla di Tommy, sorridendo. «E questo che ti sei portato dietro chi è?» «È un amico.» Tommy si staccò dall’abbraccio e si avviò verso la cucina. «È di più, è la mia via di fuga, la mia salvezza» disse con strano entusiasmo. «Emmé? Per quello ti bastava un pezzo di fumo» disse guardandomi da capo a piedi «mica c’era bisogno di portarti appresso a questo.» Ciabattò fino alla cucina e urlò chi volesse un caffè. Erano passati pochi minuti dal nostro incontro, ma quello stronzo mi stava già abbondantemente sulle scatole. Era il momento giusto per darmela a gambe, sgattaiolare via senza che nessuno se ne accorgesse, fuggire da quella trappola che il destino aveva architettato nei miei confronti. Ma ancora una volta, chissà perché, invece di filarmela decisi di continuare per quella strada. Abbandonai la mia sacca in un angolo, chiusi la porta e li raggiunsi in cucina. Tommy ci presentò frettolosamente mentre sfogliava il giornale che aveva appena comprato. Mi sedetti al tavolo. La tovaglia di plastica verde era ingombra dei resti della colazione. Il lavello traboccava di piatti e pentole da lavare. Il sacchetto per la spazzatura era appeso alla maniglia della finestra. Nicola, così si chiamava, versò il caffè,

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zuccherò il suo, lo girò, poi ciucciò bene bene il cucchiaino e me lo porse. «Tieni.» «Lo prendo amaro, grazie» gli dissi prontamente. «Lo prendi amaro perché mi sono leccato il checchièure?» «Lo prendo amaro perché lo prendo sempre amaro.» Nicola mi osservò in segno di sfida per alcuni secondi. I suoi occhioni riempirono l’intero spazio tra me e lui tanto che fui costretto a scivolare un po’ indietro con la sedia. Bevvi in un colpo solo il mio caffè cercando di camuffare il disgusto per l’intensa sorsata amara. Fu Tommy a interrompere l’impasse in cui eravamo incappati. «Giorgia dov’è?» «È a lavoro. La situazione sta diventando pesante proprio. Mi sveglia ogni giorno alle sette per andare a quel cacchio di ufficio. Mi chiedo quando finirà questa storia.» «Quando finalmente capirà che non vale più la pena mantenerti, brutto stronzo ingrato.» «Senti, stasera che viene, diglielo pure tu che se vado a lavorare l’Università non la finisco più.» «Tu non ti laurei nemmeno se ti riducono il piano di studi a un esame. Ma che ci stai a fare qui?» Nicola diventò serio all’istante. «Esatto, è quello che mi sono domandato anch’io.» «Già, scusa» gli disse Tommy smorzando il tono della voce. «Avrei dovuto avvertirti.» «Ma che è successo?» «Niente. I soliti casini con Valentina.» «Lo sai che ha votato per sbatterti fuori?» «Sì, lo so» tagliò corto Tommy. «Ma vi ha detto qualcosa?» «A me no di certo. Lei e Giorgia hanno litigato di brutto… e poi tu sei sparito nel nulla, nessuno sapeva dove fossi… mi dici che cazzo è successo tra di voi?» «Niente, non è successo niente.» «Hai ragione, non sono affari miei. Però m’hai lasciato qui còume a nu sceime.» Nicola si voltò dalla mia parte in cerca di una qualche approvazione. «Ti ho già chiesto scusa, non mi rompere più, non è il momento» gli disse Tommy sempre sfogliando il giornale. «Per me questa cosa della comunità è proprio una stupidaggine.»

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«Il problema non sta nella comunità in se stessa, lo vuoi capire? Sono le persone stupide che si danno regole stupide a fare una comunità che non funziona.» Finalmente lo guardò negli occhi. «Adesso ne fondiamo un’altra di comunità, noi tre insieme, ma questa volta daremo importanza alle persone, non alle regole.» In tutta sincerità, non ci stavo capendo un granché. Ero partito con l’idea di appoggiarmi da Tommy giusto il tempo di ambientarmi e cercare una sistemazione tutta mia e adesso mi ritrovavo coinvolto nella fondazione di una comunità concepita da un hippy radical chic totalmente fuori di cervello. Stavo iniziando a mettere da parte il mio istintivo astio nei confronti di Occhioni e apprezzarne, invece, il suo drammatico scetticismo. Decisi di starmene in silenzio e cercai di afferrare qualche altro particolare che mi avesse chiarito meglio la situazione. Allora. Avevo capito che alcuni rincoglioniti avevano fondato una comunità e che questa comunità, per l’egoismo e la tracotanza di un gruppo di calabresi guidati dal panzone in ciabatte, si era trasformata in una tribù di drogatoni scoppiati. Tommy, il fondatore e ideologo del gruppo, era stato fatto fuori con l’accusa di avere idee troppo destabilizzanti - forse un socialismo ortodosso in effetti un po’ fuori moda - che però non giustificavano un tale accanimento nei suoi confronti. In realtà era evidente che il panzone, credendo minacciata la sua leadership, aveva fatto in modo di isolare Tommy approfittando anche della sua assenza. Secondo l’opinione che mi ero fatto, quella stronza di Valentina aveva giocato un ruolo importante, non solo nella scelta di cacciare Tommy. Sotto ci doveva essere qualcos’altro e spesso, quando le cose se ne vanno a puttane, non è mai per sola ideologia: di mezzo ci sono sempre il cazzo e la fica. Pensai seriamente che la cosa migliore fosse sganciarsi. Non riuscivo a capire come un progetto del genere potesse nascere e sopravvivere al centro di una città: una comunità senza regole in mezzo a una società detta “civile” proprio perché soggetta a delle leggi. E poi proprio non ce la facevo a immaginare me stesso coinvolto in una tale pazzia: sarei finito certamente in prigione per detenzione di droga che qualche stronzo mi avrebbe infilato in tasca alla prima retata. Volevo solo confondermi con la massa e cercare di capire qualcosa della mia vita, con tutta calma. Ma se dovevo decidere della mia esistenza, allora dovevo farlo a modo mio: ecco la vera presa di posizione, il massimo della mia ribellione. Mi era sembrato il gesto più rivoluzionario che potessi fare e da quello

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avevo munto tutto il mio coraggio. Sì, per tutto l’ultimo anno di liceo ero entrato in aula con Il Manifesto sotto braccio per fare incazzare il professore, fascista fino al midollo, ma non mi si poteva chiedere di fare un balzo oltre l’estremismo e abbracciare ideali anarchici. Non sapevo nemmeno da dove cominciare. Forse si trattava semplicemente di vivere e godere della mia vita, ma in quel momento mi sembrava la cosa più difficile da fare. «Tu che ne pensi?» mi fece Tommy a bruciapelo. «Che cazzo vuoi che ne sappia lui?» sbottò Occhioni Belli. «È appena atterrato da una liana in questa giungla di pazzi e già lo vuoi buttare in pasto ai leoni? Scommetto che non c’ha ancora capito niente, sono due ore che osserva il lavandino e il sacco della spazzatura.» «La sua opinione vale quanto la tua» attaccò subito Tommy «anche se è appena arrivato. Dare importanza all’individuo vuol dire anche non avere pregiudizi.» Mi guardò dritto negli occhi. «Ascolta, la cosa è semplice. Troviamo una casa e ci si ficca dentro. Chiunque abbia bisogno di ospitalità può entrare e fermarsi quanto vuole e tutto quello che è in casa è di tutti. Stop. Tutto qua. Adesso però devi decidere: con noi, oppure ognuno per la propria strada. Lo so, ti sto coinvolgendo in una cosa senza darti il tempo di riflettere. Ma sono con l’acqua alla gola e in questo momento mi fido solo di voi, sicché tanto vale dirtelo senza troppi giri di parole.» «Dai retta» mi disse Occhioni. «Sparisci adesso che sei ancora in tempo.» Dio quanto mi stava sulle palle. Ma quanto più mi sforzassi di pensare il contrario, più aumentava la convinzione che avesse ragione lui. Qualunque cosa Tommy stesse farneticando, era chiaramente una grossa stronzata e occorreva che qualcuno glielo dicesse chiaro e tondo, una volta per tutte. Certo, che dovessi essere io a farlo mi sembrava paradossale.

* * * Sono sempre stato un tipo molto silenzioso e nei primi anni di vita, diciamo fino alla fine della scuola media, questo mi ha causato non pochi problemi, con i miei compagni ma anche con gli adulti che, brutti bastardi, sembrano goderci a mettere alle corde i bambini timidi. Negli anni del liceo ho imparato che il silenzio e la riservatezza, se gestiti con una certa furbizia, possono diventare un’arma di fascino e oggetto di curiosità, soprattutto fra le ragazze. Anche se in realtà per la maggior

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parte del tempo me ne sono stato zitto proprio perché non avevo niente da dire, gli altri hanno preferito pensare che fossi una persona molto riflessiva, che se ne stava lì a osservare e ad ascoltare prima di aprire bocca e dire la cosa più intelligente del mondo. Se era questo che gli altri pensavano di me, perché non farglielo credere? Avevo iniziato a entrare nel mio ruolo di ragazzo misterioso, a contrappormi alla maggior parte dei miei compagni che sgomitavano per stare al centro della scena, a compiacermi delle attenzioni delle ragazze che mi trovavano interessante proprio per quell’aria di mistero dietro la quale sembrava mi rifugiassi. Il pericolo maggiore poteva arrivare proprio dai tipi “davvero interessanti”, dai quali traevo ispirazione e dei quali, devo ammettere, a mia volta subivo il fascino. Ma in genere bastava poco per smascherarmi, perché si rendessero conto che non avevo i requisiti sufficienti per far parte del loro circolo esclusivo. Ero affascinato dalla loro curiosità, dal loro saper sondare gli argomenti più disparati, dal loro saper sviscerare le cose e mantenere sempre uno sguardo critico. La scuola era solo un passaggio obbligato, una scocciatura da dover archiviare al più presto. Avevano la mente già rivolta verso il futuro, mossi da ideali e aspirazioni mutuati direttamente da grandi poeti, da musicisti rivoluzionari, da registi innovativi dei quali conoscevano tutto. Erano riservati perché non avevano tempo per trastullarsi con le stronzate. Avevano scoperto un mondo adulto e intellettuale che parlava di ingiustizie, di barbarie, di corruzione e non vedevano l’ora di tuffarcisi dentro per tentare di cambiare le cose a modo loro, con la forza della musica, della pittura, delle parole. Appena capivano che non avrei mai afferrato il senso delle loro citazioni, che non conoscevo nemmeno la metà della discografia di Bob Dylan o Frank Zappa, che dovevo assolutamente vedere Koyaanisqatsi, il loro interesse nei miei confronti scemava lentamente, fino all’abbandono definitivo. Anche se mi fossi impegnato a recuperare questo sapere alternativo, non istituzionalizzato, anarchico, non avrei mai saputo come utilizzarlo, come farlo mio. Iniziavo a prendere coscienza della mia mediocrità e cercavo maldestramente, e senza troppa convinzione, di combatterla. Tommy e Nicola mi fissavano in attesa di un responso, come se fossi l’oracolo di Delfi. In realtà avevano ingaggiato una guerra tutta loro e io ero improvvisamente diventato un potenziale comodo alleato. Odiavo quei momenti, in cui dovevo dare una risposta e argomentarla con intelligenza, magari trovando una soluzione alternativa. La mia testa si era sempre bloccata sul perché e si rifiutava di utilizzare la sua

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capacità di analisi che doveva essere abbandonata da qualche parte sotto strati di polvere. Per questo avevo sempre amato l’istinto sopra ogni altra cosa anche se, devo ammettere, non mi aveva mai portato da nessuna parte. Era un istinto floscio: se fossi nato animale non sarei sopravissuto a lungo. Una cosa, però, l’avevo imparata, che quando si è messi alle strette è indispensabile buttare lì una frase a effetto, per dare la sensazione di aver elaborato un vero ragionamento. In realtà è un modo efficace per scuotere il fondo e intorbidire le acque. È un’ottima soluzione per portare avanti il discorso e distogliere l’attenzione e con un po’ di fortuna si riesce anche a strappare una risata e far dire a qualcuno “Mi piace questo ragazzo”. A quel punto il gioco è fatto. «È chiaramente una grossa stronzata» mi uscì fuori con un’inaspettata sicurezza. Nicola dette un pugno sul tavolo ed esplose in una grande risata piena di iiii. Tommy mi guardò cercando di non far trasparire nessuna emozione, anzi, sollevò leggermente il mento per dimostrare di aver incassato il colpo senza traumi. Eppure si vedeva che la mia frase l’aveva punto nell’orgoglio. «Altro che la tua salvezza. Questo è la tua condanna.» Altra serie di iiii. «Mi piace cusse uagnàune.» «È talmente grossa come stronzata» continuai «che ci sto. Facciamolo!» Occhioni si azzittì immediatamente. «Sai cosa ti dico? Mi garba anche a me questo ragazzo» gli disse Tommy con un sorrisetto beffardo. A cosa avessi detto sì, ancora non mi era ben chiaro, ma la goduria nel vedere la faccia di Occhioni stravolgersi in un’espressione di puro terrore fu troppo grande. Come poteva pensare che mi sarei schierato dalla sua parte? E poi, mi dissi, avrei potuto defilarmi in qualsiasi momento: tra le altre cose, ero un maestro anche in quello. Tommy afferrò alcune pagine del giornale che stava consultando e me le ficcò sotto il naso. «Tieni, aiutami. Guarda tra questi annunci e segna tutto quello che ti sembra interessante.» «No, Tommy, riflettiamoci ancora un poco» iniziò a lamentarsi Nicola. «Facciamoci una bomba, che ne dici?» «Cosa devo cercare?» dissi sistemandomi i fogli sul tavolo. «Appartamenti in affitto?»

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«No, quello si trova in un altro modo» si affrettò a dire Tommy. «Cerca tutto ciò che la gente regala: mobili, oggetti, elettrodomestici, tutto quello che ti sembra utile.» «Tommy, dai. La faccio bella carica così ci rilassiamo di brutto.» «La gente mette gli annunci qua sopra per regala’ le cose? Quanta generosità!» dissi sorpreso. «Non è generosità. È consumismo e mancanza di spazio.» «Credo che tu sia ancora un po’ sconvolto da questa storia» lo incalzò Occhioni. «È meglio se ne parli con Giorgia.» «Giorgia è d’accordo, di cosa ci dovrei parlare?» «Uh, una Ritmo cabrio del 1980. La segno?» chiesi euforico. «Dico solo che forse è una cosa più grande di noi e occorre una maggiore organizzazione.» «Le cose si fanno e basta. E poi, Nicola, se in questo Paese non s’inizia a fare le cose grandi, finisce che va tutto a rotoli. Questo è il nostro tempo. Vuoi viverlo o te lo vuoi solo fumare?» «Non lo so, ci sto ancora pensando.» «Mentre tu pensi, io vado avanti.» «Non vorrei tu stessi agendo troppo impulsivamente.» «Certo che sto agendo impulsivamente. Fino a ieri una casa ce l’avevo, adesso no. Una soluzione dobbiamo trovarla. Anche tu qui non ci puoi stare. Appena torna la Crosta, te ne devi andare e Giorgia non aspetta altro per mandarti fuori a calci nel culo.» «Sì, mai vista una sorella più stronza.» «È tua sorella e tu pretendi che si comporti come tua madre. Devi darle la possibilità di vivere la sua vita, sennò finirà per odiarti davvero. Adesso hai finalmente l’occasione per dimostrare che sei diventato grande.» Nicola abbassò la testa e si chiuse in se stesso. Tommy spense energicamente la sigaretta nel posacenere. «C’avete ancora questa mentalità arcaica… Dio bono, quanto siete assurdi!» «Questo regala un flipper, lo possiamo considerare un elettrodomestico?» chiesi sorridendo. Tommy e Nicola sembravano non aver nemmeno sentito. La situazione era diventata improvvisamente tesa e nessuno dei due era in vena di battute. «Ma cosa intendi quando dici che la casa si trova in un altro modo?» chiesi, spezzando il silenzio.

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Tommy e Nicola si guardarono negli occhi. «Faccio una canna bella grossa, eh?» disse Nicola.

* * * Giorgia era la ragazza più dolce e soffice che avessi mai conosciuto. Se mi avessero chiesto di paragonarla a qualcosa, avrei risposto sicuramente “Ai baci della vicina di casa”. In genere incontravo la signora Roberta sul pianerottolo, intenta a parlare con mia madre. Appena mi vedeva le si illuminava il volto, mi appoggiava le mani sulle spalle e si chinava su di me con estrema lentezza. Mentre le porgevo la guancia incantato, riuscivo a vedere benissimo i suoi occhi chiudersi e le sue labbra protendersi leggermente fino a quando non mi toccavano il viso. Quella donna era la campionessa mondiale dei baci sulle guance. La pressione sulla pelle non superava mai la soglia di fastidio, le sue labbra erano sempre calde e mai umide e il finale leggero, mai a schiocco come quelli della zia che, invece, me ne stampava almeno una cinquina stritolandomi tra le spire del suo abbraccio mortale. Quell’attimo di comunicazione amorevole con la vicina di casa rimaneva intatto fin sotto le scale, anche quando da piccolo mi scapicollavo giù col borsone degli allenamenti ficcato sulle spalle. «Sai? Roberta non può avere bambini» mi disse mia madre un giorno. Pensai subito che per me fosse una gran fortuna, così quei baci tanto speciali non avrei dovuto dividerli con nessuno o, peggio, rischiato di non riceverne più. Poi, qualche anno dopo, in un momento qualunque della mia vita, all’apparenza insignificante, un pensiero fugace rivolto alla signora Roberta illuminò come un fulmine nella notte quel sentimento di soddisfazione che avevo provato, mostrandomelo per quello che era nella realtà e cioè un’insensata gioia per la sua infertilità. Mi sentii improvvisamente in colpa e il dolce gusto di quei baci, nei miei ricordi di bambino, diventò insopportabilmente amaro. Dopo cena, mentre osservavo Giorgia piena di attenzioni per Tommy, ebbi per la prima volta quella sgradevole percezione di essere entrato in squadra a campionato già bello che iniziato. Gli schemi sono già assimilati, i ruoli assegnati e i numeri delle maglie ancora disponibili sono quelli che non vuole nessuno. Mi ero fatto tutta una storia sulla necessità di farcela da solo perché ero certo fosse l’unica strada da percorrere se avessi voluto diventare uno stimato “qualcuno”. Questo, anche se per qualsiasi altra persona sarebbe un semplice passaggio della

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propria vita, per me aveva comportato un gran sacrificio. Adesso, a meno che non avessi trovato il modo di sterminare tutta la razza umana lasciando vivo solo un esemplare di femmina adulta, il mio nuovo inizio doveva comportare necessariamente il coinvolgimento in uno o più vortici di rapporti umani già consolidati. Forse mi sarei sentito più soddisfatto quando mi fossi scelto la squadra per conto mio. Nel frattempo, però, era stato Tommy a scegliermi, forse più per necessità che per una reale certezza del mio talento, e quello che mi infastidiva di più era il fatto che il primo punto della mia lista – trovare un nuovo inizio – era stato lui a spuntarlo. Ma diciamo la verità, in quel preciso momento, nella mia testa regnava una totale confusione. Non mi era mai capitato di provare fastidio per una scelta presa da qualche altro e quindi ciò che mi dava fastidio in realtà era provare fastidio che qualcun altro avesse scelto per me. Contemporaneamente mi sentivo beato, perché era bastato stare lontano da casa per un giorno per riuscire a tirare fuori, finalmente, una puntina di indipendenza. Chissà cosa sarebbe successo in capo a un mese? Quella confusione doveva essere ben visibile sulla mia faccia perché Occhioni, che stava seduto vicino a me, mi dette un paio di colpetti sul braccio per richiamare la mia attenzione. «Non ti preoccupare, è normale, poi passa» biascicò allungandomi un cannone. «Tu dici? È che non ci sto capendo più un cazzo!» «E chi ha detto che ci devi capire qualcosa? Tieni, questa appicciala te.» Mentre accendevo, fissai la carta arricciarsi sulla punta della canna. La fiammella che si produsse si incastrò perfettamente tra i profili di Tommy e Giorgia che stavano parlando seduti sul divanetto dell’ingresso guardandosi negli occhi. Era chiaro che tra loro due ci fosse un legame particolare. Cercai di immaginarli mentre lei gli succhiava l’uccello o lui che la prendeva da dietro e le schiaffeggiava le natiche, cose così. Ma più li guardavo parlare fitto tra loro e più mi convinsi che ci fosse qualcosa di diverso. Giorgia mi piacque subito. Aveva un bel sorriso, capelli lisci che le disegnavano il volto, grandi tette e un bel culone. Spostava le cose con la punta delle dita descrivendo ossessivamente ogni azione che stava compiendo: “Questo lo metto qui, lavo i pomodori, uno spicchio d’aglio, un po’ di sale nella pasta…”. Appena tornata da lavoro aveva rimproverato furiosamente Occhioni per non aver fatto niente tutto il giorno, poi era tornata

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immediatamente a essere dolcissima con Tommy e con me descrivendoci quello che ci avrebbe cucinato per cena. Occhioni, come se conoscesse solo quella reazione ai rimproveri che riceveva, si era ritirato zitto zitto a rollare canne. «Non è che tutta questa roba ci farà male?» gli chiesi. «Che merdate dici? È tutta roba naturale. Produzione artigianale» si affrettò a dire Occhioni. «Ah sì? Dal produttore al consumatore. Mia madre compra le zucchine dal contadino, è conveniente e sai cosa mangi.» «Esatto, per questo mi sono fatto l’orto.» «Ti coltivi le zucchine da solo? E dove?» «Nell’armadio della Crosta.» «Nell’armadio della che?» «Nell’armadio della Cozz d Vtond.» «Possiamo smetterla di parlare in codice?» «Vieni! Ti faccio vedere.» Entrammo in una stanza tutta rosa, quella in fondo al corridoio. Sul letto c’era un coprimaterasso rosa e alcuni cuscini merlettati, anch’essi rosa, circondati da peluche rosa. Le pareti erano dipinte di rosa e, sparsi ovunque, oggetti e ninnoli rosa. Decisamente una vista stucchevole, tanto che non riuscii a trattenere una nota di disgusto. Occhioni aprì l’armadio e una luce accecante mi investì in pieno. Quando i miei occhi si abituarono al bagliore mi parve di vedere una nota verde dentro l’armadio rosa. «Le zucchine!» Occhioni stava sorridendo soddisfatto. Il suo orto era una vera meraviglia. Aveva posizionato dei faretti dentro l’armadio a illuminare alcune piantine di marijuana che stavano crescendo rigogliose e felici. Un ripieno a sorpresa all’interno di un confetto tutto rosa. «Hai visto come vengono su bene? Queste tra una settimana sono pronte.» «Ma chi ci dorme qui dentro?» chiesi guardandomi intorno. «La Crosta» disse Occhioni come se fosse la cosa più normale del mondo. «La Cozza di…» «La Cozz d Vtond, la Cozza di Bitonto. Ma adesso non c’è, non ti preoccupare, arriva quando iniziano le lezioni all’Università.» Devo ammettere che il ragazzo aveva il senso dell’umorismo. In fondo non aveva fatto altro che sintetizzare alla perfezione i dettami di una società corrotta e degenere che, oltre le porte dei castelli dorati,

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nasconde segreti inenarrabili. E questo era sicuramente uno dei più innocui. Quello che mi colpì fu rendermi conto di quanto uno “stonato” potesse essere al tempo stesso lucido e acuto. Occhioni iniziava a piacermi. Tutto l’opposto di Tommy, magari con una percezione della vita un po’ limitata, diciamo tutto fumo e niente arrosto, ma alla fine il talento delle persone si può manifestare in mille modi diversi, basta saperlo valorizzare. E qui il mio ragionamento tornò al punto di partenza. Che cosa avrei potuto valorizzare di mio? Vediamo un po’… niente. In più, l’estrema chiarezza mentale che l’erba di Occhioni mi aveva procurato, riuscì a farmi percepire tutta la profondità siderale della mia vuota esistenza. Nessuno sarebbe potuto essere più critico con se stesso come lo ero io in quel momento mentre gettavo lo sguardo nel pozzo della mia nullità. Dovevo venirne a capo, riprendere il filo del discorso, tornare alla squadra di calcio, alla puntina di indipendenza, al culo di Giorgia. Più mi sforzavo di non farmi prendere dal panico più le gambe mi cedevano sotto il peso opprimente della mediocrità. Feci due passi indietro e per fortuna trovai il letto. L’unica cosa che mi avrebbe salvato era addormentarmi e sperare di risvegliarmi finalmente uomo. Mi sdraiai sul letto rosa, mi ficcai sotto la testa un cuscino rosa e strinsi forte un peluche rosa. L’ultima cosa che vidi fu Occhioni ancora con l’aria soddisfatta che chiudeva le ante dell’armadio e la stanza farsi buia. Mentre mi addormentavo mi ripromisi di non fare mai più uso di oppiacei in tutta la mia vita. Certo non in momenti come quello, in cui ero psicologicamente vulnerabile. Era stata una pazzia, ovvio, ma il fatto era che (in quel momento mi sfuggiva per cosa di preciso) lo avevo fatto con la chiara intenzione di prendere coraggio. Ecco, avrei dovuto affrontare un periodo particolarmente avventuroso e poi avrei dovuto affrontare me stesso. Cosa c’è di più terribile che dover crescere in fretta e prendersi le proprie responsabilità? Questa cosa mi aveva steso. Forse stavo andando troppo in fretta, sì certo, ma non ero stato io a decidere. Mi avevano coinvolto. Ero partito per fare una cosa e adesso mi ritrovavo a doverne fare due. Se solo avessi saputo come, avrei potuto fare le due cose insieme. Geniale! Ma questo lo avrebbero saputo fare i tipi “in gamba” del mio liceo, non io. Loro avrebbero spalancato con sicurezza le porte del saloon e con un solo sguardo avrebbero capito subito a quale tavolo era meglio sedersi. Maledetti cowboy, non avevo mai potuto sopportare la loro spavalderia. Mai uno che si sia sparato su un piede o dentro i pantaloni. Non avevo mai

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saputo con chi identificarmi guardando un western in tv, forse col codardo che si nasconde dietro l’angolo alla vista del pistolero. Poi vidi mio padre che mi puntava il dito contro e mia madre che si voltava piangendo. Mi allontanavo da loro senza un abbraccio o un addio e oltrepassavo una soglia che dava su un mondo oscuro e pericoloso. Una porta nera si richiudeva alle mie spalle con un tonfo sordo, definitivo. Tommy trascinava a testa bassa un cannone con le ruote sul quale ero incatenato e Occhioni e la ragazza coi capelli rasta e il piercing continuavano a riempirne la bocca con grandi foglie di marijuana. Al posto della miccia c’era una cannuccia e a turno mi frustavano per costringermi a succhiare fumo per permettere alle ruote di girare. C’era fumo dappertutto, un mondo fatto di spesso fumo in cui era impossibile vedere oltre il proprio naso. Non avrei mai trovato la via d’uscita a meno che non avessi respirato tutto quel fumo a bocca aperta. E mentre aspiravo col naso in su e gli occhi chiusi, qualcuno mi allungò una manata, poi un’altra e poi ancora un’altra. Ma in mezzo a quel fumo non potevo vedere niente. I colpi arrivavano all’improvviso, dal nulla, senza che io potessi fare niente per evitarli. Ma non erano inferti con cattiveria. “Svegliati, svegliati” diceva qualcuno “svegliati”. E là in fondo forse c’era una luce, un faro che si faceva strada tra la fitta coltre di fumo. Potevo raggiungerlo, potevo farcela se quelle mani non avessero continuato a colpirmi. «Svegliati, cazzo!» disse Tommy percuotendomi energicamente. Finalmente aprii gli occhi. Tommy mi prese di peso e mi trascinò vicino alla parete. La stanza era piena di fumo e l’armadio con l’orto stava bruciando. Occhioni e Giorgia stavano tentando di spegnere il fuoco con dell’acqua. Tommy mi scavalcò e mi ordinò di spalancare la finestra, poi tirò via il coprimaterasso rosa dal letto. Un peluche finì dritto nelle fiamme incendiandosi all’istante. Ero paralizzato, in preda al panico. Iniziai a tossire e mi tornò in mente l’ordine di Tommy. Strisciai verso la finestra e la spalancai. Presi un grande respiro e solo in quel momento mi resi conto che non stavo più sognando. Tommy si buttò sul rogo col suo rosa mantello e dopo una serie di tentativi eroici riuscì a soffocare il focolaio. Eravamo salvi. Nils arriva da molto lontano Occhioni l’aveva fatta davvero grossa e adesso erano cazzi amari. Dal nostro primo incontro, solo qualche ora prima, avevo provato per lui sentimenti contrastanti. Alle volte mi era andato a genio, alle volte, invece, lo avrei squartato lentamente con un arnese arrugginito. Era

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quasi riuscito nell’impresa di mandarci tutti quanti al creatore eppure, guardandolo così affranto seduto sul divano, non riuscivo a odiarlo come avrei voluto. Sulla sua faccia era stampata la stessa aria di smarrimento che avevo visto su quella di Giuseppe quando gli avevo detto che Kurt Cobain si era ammazzato. Il mio ex compagno di scuola si “faceva” di Nirvana. Anche quel giorno indossava il maglione verde confezionato a mano dalla mamma con su scritto in giallo Nevermind. Gli dissi che ero molto dispiaciuto per lui, come se a mancare fosse stato un suo parente stretto e per tutta risposta lui mi guardò perplesso. Non sapeva ancora niente. Il suo inizio giornata si era svolto come al solito, con la sveglia impietosa e la corsa a scuola per non fare tardi. Aveva ancora un po’ di dentifricio che gli sporcava il labbro superiore. «Cobain si è sparato un colpo di fucile» gli dissi. Gli feci vedere la prima pagina de Il Manifesto e osservai la sua espressione trasformarsi in un concentrato di emozioni che mai avrei pensato potessero colpire tutte insieme un essere umano. I suoi occhi iniziarono a scorrere veloci sulle righe dell’articolo, nel tentativo di scovare almeno una spiegazione plausibile per quel gesto estremo del suo idolo. Non ve ne erano, ovviamente, tranne quelle che più tardi infarcirono la teoria dell’omicidio per il quale ci sarebbe stato il coinvolgimento di quella puttana di Courtney Love… ma lasciamo perdere. In quel momento, negli occhi di Giuseppe, si leggeva un solo interrogativo: come può un messia della musica a cui si augura l’immortalità terrena decidere di infilarsi un fucile in bocca e premere il grilletto? Quando alzò lo sguardo su di me, sentii tutto il peso di quella domanda. Davvero voleva che rispondessi? Non ero certo preparato su un argomento del genere e avrei preferito che mi rifilasse un cazzotto in pancia per sfogare tutto il suo dolore piuttosto che costringermi a farfugliare qualche parola di conforto. Mi guardò per alcuni interminabili secondi, passando dallo smarrimento al terrore. «Posso prenderlo?» mi chiese alzando il giornale. Che diamine! Certo che poteva prenderlo. A me sarebbe servito solo per fare incazzare il professore. Giuseppe abbassò la testa e se ne andò via senza nemmeno salutarmi.

* * *

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Giorgia stava dicendo alla vicina di casa che tutto era sotto controllo e che non c’era bisogno di chiamare i pompieri per una padella andata a fuoco. A quell’ora di notte, tranne qualche insonne rompicoglioni, nessuno si era accorto della fumata improvvisa. Tutto era terminato nel giro di pochi angoscianti secondi e il risultato era un armadio rosa mezzo carbonizzato, una parete annerita e un tanfo terribile che ci era rimasto aggrappato ai peli del naso. La signora, seppur poco convinta, si strinse nella vestaglia verde pistacchio e ciabattò verso il suo appartamento. Giorgia chiuse la porta di casa e si accasciò su una sedia. Rimanemmo tutti e quattro in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri. Tommy si controllò le mani, leggermente ustionate. Poi Giorgia si alzò, si avvicinò al fratello e gli mollò un ceffone da guinness dei primati. «Sei uno stronzo» gli disse flemmatica. «Non m’importa quello che diranno papà e mamma, non voglio vederti mai più. Sparisci dalla mia vita!» Si avviò verso camera sua e si chiuse dentro sbattendo la porta. La sentimmo piangere e singhiozzare, ma nessuno ebbe il coraggio di fare niente. Occhioni fissava la parete di fronte a sé, catatonico. Io cercavo lo sguardo di Tommy nella speranza di afferrare un suo guizzo risolutore, ma tutto il suo corpo, la postura ricurva e i movimenti lenti, mi facevano capire che aveva consumato gli ultimi scampoli di energia nell’eroico spegnimento delle fiamme. Adesso era davvero finita. Di fronte al fuoco purificatore la nostra volontà veniva meno. Era un chiaro segno che non potevamo ignorare. Certo aveva a che fare più che altro con la stupidità del singolo, ma in quel frangente non poteva che essere interpretato come un avvertimento a rinunciare al nostro pericoloso progetto. Durante la serata finita in tragedia, dopo una cena squisita preparata con amore e l’accensione della prima canna digestiva, in un’atmosfera di totale allegria e rilassatezza, era venuto fuori che Giorgia stava lavorando all’ufficio catasto del Comune e che dopo una paziente e discreta indagine, le era arrivata sott’occhio l’indicazione di un immobile comunale sfitto e chiuso da anni perfetto per essere occupato e trasformato nella “casa anarchica” di Tommy. Tutta la complicità tra Giorgia e Tommy di quella sera si era concentrata su questa novità. C’era tutta una macchinazione già oliata, una cospirazione in atto da tempo, forse erano già stati intrecciati una serie di rapporti di connivenza. Il gioco non era per niente campato in aria e questo mi aveva rovesciato addosso ancora più angoscia che pensare di affrontare un’azione

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strapalata e improvvisata. Mentre i due avevano parlottato euforici su come procedere gettando le basi per un piano d’attacco, io e Occhioni ci stavamo sfondando dalle canne. Lui per la rassegnazione a un progetto che ormai era già stato avviato a sua insaputa e che lo faceva apparire come una semplice pedina – non c’era stato bisogno che glielo sottolineassi nonostante avessi desiderato tanto farlo - io per cercare di trovare il giusto coraggio per buttarmi nell’azione più stupida e incosciente che avessi mai compiuto nella mia vita. Dopo la terza canna, però, le cose avevano iniziato ad accavallarsi, le idee ad annebbiarsi e la rischiosa occupazione con tanto di violazione della legge era diventata un romantico assalto al castello, poi solo un nebuloso “periodo avventuroso”. Ancora una volta non ero riuscito a ragionare con la mia testa, a ponderare coscientemente la situazione, anche se la cosa più saggia da fare in quel frangente sarebbe stata quella di mandare tutti quanti a cagare. Meglio così. Era finito tutto in fumo e questo, al di là della tragedia sfiorata e dei pianti, mi confortava non poco. Si trattava di raccogliere i cocci e studiare velocemente un piano di fuga. Il mio sacco era abbandonato vicino la porta, con tutta la mia vita vissuta ancora dentro. Bastava caricarmelo sulle spalle e togliere il disturbo. Sarebbe terminato tutto in pochi secondi, il tempo di mettere insieme due paroline di commiato che avessero urtato il meno possibile la sensibilità dei presenti in quel momento così delicato. Dalla mia avevo la fortuna di non dover affrontare Giorgia, ormai uscita di scena, né tantomeno Occhioni, ormai privo di qualsiasi capacità intellettiva. Aspettavo solo un segno di Tommy che mi desse l’aggancio per aprire bocca, per emettere almeno un suono che ponesse fine a quella situazione di insopportabile stasi. Non aveva ancora staccato gli occhi dal pavimento. Sembrava seguisse il percorso delle venature delle mattonelle alla ricerca di un qualche bandolo della matassa. Più di una volta cercai di dire qualcosa, ma le parole mi si spezzavano in gola. Poi, finalmente, Tommy sollevò lentamente la testa e incrociò i miei occhi. Ci guardammo per un tempo infinito, durante il quale mi parve di sentirlo chiedere scusa, che mi aveva trascinato a mia insaputa in un casino più grosso di noi, che aveva tradito la mia fiducia, che invece di darmi una mano per ambientarmi in una città sconosciuta non aveva fatto altro che trascinarmi verso una morte atroce. Io lo avrei rassicurato, avrei minimizzato l’accaduto dicendo che, per fortuna, eravamo salvi e che con una mano di vernice tutto si sarebbe rimesso a

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posto. Che nella vita, in fondo, basta una spennellata qua e là per rimettere tutto com’era prima e che siamo noi uomini a renderci l’esistenza un inferno quando invece tutto sarebbe così semplice. Mi sarei offerto di tornare l’indomani con un bel pennello e tanta vernice per aiutarli a sistemare tutto. Avremmo cantato e spennellato tutta la casa per cancellare con allegria quella brutta nottata passata a tossire fumo. «Hai segnato quelle cose sul giornale?» furono invece le prime parole di Tommy. Balbettai qualcosa di incomprensibile mentre cercavo di riacciuffare con la mente i pensieri di un attimo prima su spennellate canterine e vernici colorate. «I tempi si sono accorciati, dobbiamo occupare il prima possibile» disse perentoriamente. «Non dovremmo prima dare una sistemata qui?» buttai lì timidamente. «Sì, certo, anche. Ma di questo se ne occuperà principalmente il drogato piromane.» Indicò con un cenno Occhioni che continuava a fissare qualcosa nel vuoto. «Noi recuperiamo tutto ciò che ci è utile e poi andiamo a prendere ciò che ci spetta.» Si avvicinò e mi dette una bella scrollata. «Non lo capisci? Tutto questo casino è un segno del destino» mi disse euforico. «Adesso basta pensare, è arrivato il momento di agire. Senza l’incendio di questa sera chissà per quanto tempo avremmo trascinato la situazione. Tu stai ancora con me, vero?» Era chiaro, la vedeva in maniera diversa da me. La solita storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Alle volte ho pensato seriamente che la fortuna degli uomini si misuri in bicchieri di acqua. Difficile a crederci, che il successo, la buona sorte, possano essere solo una questione di positività d’animo. Certamente era inconcepibile per un essere inerte come me, ma allora tanto valeva gettare subito la spugna e non tentare nemmeno di provarci. Forse era proprio da lì che dovevo partire per cercare di combinare qualcosa di buono nella mia vita. Bicchiere mezzo pieno. Ma sì! L’incendio, la quasi morte per asfissia, il mio viaggio in città che si era trasformato in un completo disastro, avrei dovuto considerarli come segnali di buon auspicio per il mio futuro. Per poter fare un confronto, mi domandai chi, in quel momento, l’avrebbe pensata al contrario di Tommy. Mio padre? Ci avrebbe dato dei “coglioni”, ma lui non era attendibile perché la pensava così di tutti, tranne che di se stesso.

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«È finita, Tommy» disse con un lamento Occhioni. «Dacci un po’ di tregua, ti prego!» Tommy lo raggiunse a grandi passi. «Sarà finita per te, pezzo di idiota!» gli urlò in faccia. «Ti sto offrendo l’unica possibilità per dare un senso alla tua vita del cazzo. Sono stufo di difenderti, di consolarti, quando vorrei solo ficcarti su per il culo ogni spinello che ti accendi per rincoglionirti il cervello. Mi dovresti ringraziare, stronzo!» Ormai avevo perso l’attimo per fuggire via. Se solo mi fossi mosso per raggiungere la porta, Tommy mi avrebbe fulminato con raggi laser sparati dagli occhi. La sua ostinazione era più forte di qualsiasi avversità il mondo - di più, il Creatore - gli avesse scagliato contro e io e Nicola, chiunque avrebbe stentato a crederci, eravamo indispensabili per la riuscita di ciò che tanto caparbiamente stava cercando di costruire. In quel momento lo avrei seguito anche in capo al mondo, perché se non lo avessi fatto l’unica alternativa possibile sarebbe stata quella di diventare un debosciato come Occhioni.

* * * Quella notte nessuno chiuse occhio. Io e Tommy ci concentrammo sul giornale degli annunci e buttammo giù una lista di numeri di telefono (la Ritmo cabrio del 1980 non fu inserita nell’elenco); Nicola riempì dei sacchi con i vestiti e gli oggetti carbonizzati della Cozz d Vtond e spostò nell’ingresso ciò che si era salvato dalle fiamme; Giorgia rimase chiusa nella sua stanza ma, alle sette, quando uscì per fare colazione, capimmo che anche lei aveva passato la notte in bianco. Nessuno ebbe il coraggio di rivolgerle la parola e sospendemmo ogni nostra azione per permetterle di prepararsi con tranquillità. Quando uscì di casa, facemmo il caffè e iniziammo a telefonare partendo dal primo della lista. Il locale da occupare era una vecchia scuola elementare vicino la stazione. Per arredarlo non avevamo niente, ma la strategia era semplice: telefonare e prendere tutto quello che ci veniva regalato. Fissammo appuntamenti per l’intera settimana per ritirare mobili, reti, materassi, elettrodomestici, persino un’intera cucina con tavolo e sedie. Eppure, la paura e l’incertezza che mi avevano assalito per tutto il giorno, iniziavano a lasciare il posto a un rassicurante abbandono all’inevitabilità di ciò che sarebbe accaduto. La brutta avventura di

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quella notte e la preoccupazione per quello che stavamo per compire stavano rapidamente saldando la nostra improbabile unione. Eravamo un gruppo e io, nonostante fossi l’ultimo arrivato, ne facevo parte di diritto. Guardavo la nostra operosità, la nostra piccola catena di montaggio - io che spuntavo la lista e componevo i numeri di telefono, Tommy che prendeva appuntamenti e Occhioni che riempiva sacchi in silenzio - e pensavo che qualunque cosa fosse la stavamo costruendo insieme. Cercare di identificarla in quel momento non mi interessava. Sentivo di essere partecipe della mia vita in un modo diverso, come non lo ero mai stato prima e questo, forse, faceva di me un altro uomo. Mi aggrappai forte a questa idea, come mi stavo aggrappando all’unica certezza che fino a quel momento non aveva dato segni di cedimento: la caparbietà di Tommy. Avevamo deciso di seguirlo, di permettergli di spiegarci a suo modo l’idea di esistenza che andava inseguendo. Per adesso, più che una guida, era l’unico nostro punto di riferimento. Stavamo annegando e lui ci aveva lanciato una cima. Adesso toccava a noi salire a bordo. Quando accennai alla necessità di un mezzo di trasporto per caricarci tutta la roba che stavamo per prendere, mi disse, senza staccare gli occhi dai suoi fogli, che avremmo affrontato “una cosa alla volta”. Saranno state le emozioni scaturite da quel momento sospeso, ma quella frase laconica mi parve una sorta di perla di saggezza e una nuova preziosa indicazione. Un altro punto di vista che fino a quel momento mi era sempre sfuggito. Oltre al bicchiere mezzo pieno avrei dovuto affrontare la vita un passo alla volta. Mi piaceva, era come fluttuare in uno spazio completamente vuoto, ma con la sicurezza di non cadere finché mi fossi aggrappato a quei due appigli. Quella sera uscimmo in perlustrazione. La vecchia scuola si trovava in un’area depressa a ridosso di squallide palazzine e rimesse di autobus. Secondo le indicazioni di Giorgia, quella zona era inserita nel nuovo piano di espansione del piano regolatore che includeva anche la ristrutturazione della stazione. Tempo prima, qualcuno aveva avuto l’idea di riqualificare il quartiere con l’edificazione delle nuove case dello studente e una serie di servizi annessi, ma nell’ufficio di Giorgia nessuno aveva mai creduto a quelle parole. Lo sapevano benissimo che quella parte di città così vicina al centro sarebbe diventata col tempo un boccone troppo succulento per regalarlo agli studenti fuorisede del sud. Con i vari cambi di giunta, infatti, il progetto era stato accantonato, così come le belle promesse di un manipolo di politici in caccia di voti.

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Tommy si accalorò nel commentare la soffiata di Giorgia. Parlò di palazzinari senza scrupoli che esercitavano pressioni politiche per gestire di fatto il piano regolatore della città e parlò degli studenti dell’Università costretti a subire il ricatto del mercato degli affitti in nero. Più volte gli vidi stringere il pugno e animarsi sinceramente per quella che reputava essere la vera ingiustizia di una società malata: la sopraffazione sul più debole. «Che ne dite della nostra nuova casa?» disse Tommy con un pizzico di emozione. Di fronte a noi, in mezzo a una fitta selva di erbacce, si sviluppava uno spettrale edificio su un unico piano formato da alcuni prefabbricati. La strada era buia e se non fosse stato per la luce di una pallida luna che illuminava i contorni, avremmo buttato il nostro sguardo sul niente. Tutto intorno si estendeva un lembo di campagna delimitato da cespugli e alcuni alberi sullo sfondo. Quel posto mi mise i brividi. Sembrava un mostro sonnacchioso che aspettava solo il momento giusto per saltarci addosso. D'altronde quella desolazione mi rassicurava un poco perché nessuno si sarebbe accorto della nostra occupazione, almeno non subito. «A entrare non ci vuole niente, il problema sarà sistemare tutto» dissi un po’ preoccupato. «È perfetto» si sovrappose Tommy «una volta finito tutto, la sentiremo ancora di più come casa nostra. E poi vedrai, presto ci saranno altre persone che ci daranno una mano.» Occhioni non disse una parola. Se ne stava a testa bassa e continuava a spostare sassi con un piede. Poi ne prese uno e lo lanciò verso la scuola. Il sasso rimbalzò tra le gambe di alcune sedie accatastate vicino l’entrata. Il rumore metallico prodotto mi rimase nelle orecchie per lungo tempo durante il tragitto di ritorno, proiettando davanti ai miei occhi, come in un’eco visiva, l’immagine sinistra dell’edificio. Il giorno seguente mi sentii in dovere di fare una telefonata ai miei, giusto per rassicurarli che stessi bene. Raccontai una serie di mezze verità, che avevo trovato casa con una certa facilità, che i futuri coinquilini erano persone di buona famiglia, che avremmo firmato il contratto di affitto di lì a poco. Mia madre mi parve rasserenata quando le dissi che avrei preso casa insieme a Tommy. Non lo conosceva, avrebbe anche potuto essere un delinquente della peggior specie, ma solo sapere che il suo “bambino” aveva un compagno delle nostre parti la fece stare meglio. Mio padre ascoltò quelle prime notizie con

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sospetto. Lo capii dai lunghi silenzi che intercorrevano tra le mie generiche informazioni e le sue precise domande. Era convinto che sarei tornato con la coda tra le gambe e che intanto avrei fatto spendere a mia madre un bel po’ di soldi inutilmente. Aveva apertamente negato il suo appoggio economico disprezzando da subito la mia scelta di fare l’Università. C’era stata una litigata furiosa tra lui e mia madre su questa questione e il tutto si era risolto con la decisione che si sarebbe accollata lei tutte le spese. Lui aveva alzato le mani in segno di resa ed era uscito dalla stanza. Io avevo promesso che avrei trovato presto un lavoretto per pagarmi gli studi e lei mi aveva accarezzato con dolcezza, prima di stringermi e sussurrarmi che ero il suo bambino adorato. Per mio padre esisteva solo il lavoro e la fatica, tutto il resto non valeva niente, oppure, più semplicemente, non era roba per quelli come me. Così mi ero convinto a scappare il più velocemente possibile, allontanandomi da una vita prestabilita per viverne una ignota. Suonava bene, ma più che altro quel labile confine tra il cercare di convincermene per giustificare le mie azioni future e l’esserne convinto era ormai definitivamente superato. Forse era stata l’influenza di Tommy, fatto sta che in quel momento le priorità erano cambiate e anche decidere a quale facoltà iscrivermi non mi sembrava più un problema tanto impellente. Ero un idiota, lo so, ma in quel momento mi sentivo un ribelle. Stavo lentamente abbandonando anche quel briciolo di responsabilità che mi era rimasto e il senso di colpa, che mi stringeva la bocca dello stomaco quando pensavo, a intervalli sempre più lunghi e irregolari, che forse stavo prendendo in giro i miei genitori, non sarebbe più servito a fermarmi.

* * * FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...