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Italo BIROCCHI : ALLA RICERCA DELL’ORDINE - FONTI E CULTURA GIURIDICA NELL’ETA’ MODERNA - Giappichelli 2002 - Capitoli 1, 2 e 3. CAPITOLO 1 - LA RICERCA DEGLI UMANISTI. Par 1 Crisi del sistema del diritto comune o formazione dei diritti statuali ?. All’inizio del 1500, nell’Europa continentale operavano ancora i capisaldi del sistema del diritto comune; sistema caratterizzato da una molteplicità di fonti incentrate sul diritto romano- canonico, che potevano essere considerate come ordinamento grazie all’interpretatio della dottrina. Da tempo, però, era in atto un processo che metteva in discussione i fondamenti del sistema giuridico tradizionale. Tale processo riguardò tutti gli aspetti di vita del mondo occidentale, secondo tempi e modalità connessi tra loro, ma diversi. Si pensi alle conseguenze del contatto col Nuovo Mondo; all’affermarsi della Riforma religiosa e delle correnti protestanti; al delinearsi di forti monarchie accentrate e all’espansione dei mercati e delle relazioni tra le genti. E’ importante evidenziare che sotto un sistema normativo che sembrava intatto agivano suggestioni critiche che facevano capo a nuove visioni della vita organizzata dell’uomo. Era in crisi l’idea di un ordinamento in cui cose, uomini e comunità erano legati tra loro attraverso vincoli (leggi) necessari e percepiti per fini precostituiti (naturali): un ordinamento inteso come "composizione delle disuguaglianze" e strutturato per gerarchie verticali, entro le quali ognuno aveva un posto secondo la rispettiva ragione di appartenenza. Status era la condizione giuridica e al tempo stesso la posizione di ognuno entro l’ordine dato. Occorre, in primo luogo, mettere in discussione la terminologia impiegata dalla storiografia giuridica italiana che, riferendosi ai secoli dell’età moderna, li comprende nell’età della crisi del diritto comune: età connotata dal ruolo centrale di tale diritto, ma che registra la sua crisi per la progressiva invadenza di altre fonti giuridiche, come la legge del sovrano. Il diritto comune continuava ad operare in funzione suppletiva, ma con importanza ridotta rispetto alle fonti del diritto municipale (ius municipale, cioè il diritto specifico dei singoli popoli, vigente in un determinato territorio). Il dualismo tipico del periodo medievale, tra iura propria (diritti particolari) e ius commune, si ripropone nell’età moderna attraverso la dialettica tra ius commune e ius municipale. Tale ricostruzione, che si appoggia a diverse normative principesche, ha il merito di 1

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Italo BIROCCHI : ALLA RICERCA DELL’ORDINE - FONTI E CULTURA GIURIDICA NELL’ETA’ MODERNA - Giappichelli 2002 - Capitoli 1, 2 e 3.

CAPITOLO 1 - LA RICERCA DEGLI UMANISTI.Par 1 Crisi del sistema del diritto comune o formazione dei diritti statuali ?.All’inizio del 1500, nell’Europa continentale operavano ancora i capisaldi del sistema del diritto comune; sistema caratterizzato da una molteplicità di fonti incentrate sul diritto romano-canonico, che potevano essere considerate come ordinamento grazie all’interpretatio della dottrina.Da tempo, però, era in atto un processo che metteva in discussione i fondamenti del sistema giuridico tradizionale. Tale processo riguardò tutti gli aspetti di vita del mondo occidentale, secondo tempi e modalità connessi tra loro, ma diversi.Si pensi alle conseguenze del contatto col Nuovo Mondo; all’affermarsi della Riforma religiosa e delle correnti protestanti; al delinearsi di forti monarchie accentrate e all’espansione dei mercati e delle relazioni tra le genti.E’ importante evidenziare che sotto un sistema normativo che sembrava intatto agivano suggestioni critiche che facevano capo a nuove visioni della vita organizzata dell’uomo. Era in crisi l’idea di un ordinamento in cui cose, uomini e comunità erano legati tra loro attraverso vincoli (leggi) necessari e percepiti per fini precostituiti (naturali): un ordinamento inteso come "composizione delle disuguaglianze" e strutturato per gerarchie verticali, entro le quali ognuno aveva un posto secondo la rispettiva ragione di appartenenza. Status era la condizione giuridica e al tempo stesso la posizione di ognuno entro l’ordine dato.Occorre, in primo luogo, mettere in discussione la terminologia impiegata dalla storiografia giuridica italiana che, riferendosi ai secoli dell’età moderna, li comprende nell’età della crisi del diritto comune: età connotata dal ruolo centrale di tale diritto, ma che registra la sua crisi per la progressiva invadenza di altre fonti giuridiche, come la legge del sovrano. Il diritto comune continuava ad operare in funzione suppletiva, ma con importanza ridotta rispetto alle fonti del diritto municipale (ius municipale, cioè il diritto specifico dei singoli popoli, vigente in un determinato territorio).Il dualismo tipico del periodo medievale, tra iura propria (diritti particolari) e ius commune, si ripropone nell’età moderna attraverso la dialettica tra ius commune e ius municipale. Tale ricostruzione, che si appoggia a diverse normative principesche, ha il merito di sottolineare che il sistema di diritto comune ha avuto una lunga storia e che la successiva età, fondata sui codici, rappresenta una vera e propria cesura. Tuttavia, ci sono buoni motivi per considerare insoddisfacente quella ricostruzione:

1. Si fonda su una visione continuista, che non sembra appropriata per un periodo di tempo così esteso e per così diversi accostamenti culturali e situazioni istituzionali. Invece, la relazione tra ius commune e ius municipale andò mutando; come ha notato Biagio Brugi, essa assunse i caratteri di un rapporto intercorrente tra parte generale e parte speciale.

2. Non dà il giusto risalto ai processi di unificazione giuridica all’interno dello Stato territoriale: si pensi al funzionamento dei Grandi Tribunali come depositari di una giurisdizione superiore, all’intervento sulle consuetudini e alla loro raccolta, all’opera di compilazione delle norme.

3. Non tiene conto che, entro la categoria del diritto comune, quello canonico andava perdendo l’antico ruolo ed il diritto romano mutò funzione, venendo sempre più assunto come ragione scritta (ratio scripta).

La teoria dualistica dell’ordinamento, incentrata sul rapporto tra diritti particolari e diritto comune, non funziona in molte situazioni ed è forviante perché, in un sistema con pluralità di fonti, irrigidisce il problema del rinvenimento delle norme entro la gabbia di un rapporto gerarchico tra esse, mentre la regola applicata derivava, piuttosto, da una loro fusione.Alla visione ora richiamata sfugge il processo di statualizzazione del diritto che riguarda tutti i suoi rami, ma è meno evidente nella branca privatistica. Essa non deriva solo dall’emersione della legge del sovrano, ma è un fenomeno di diversificazione del diritto dei singoli ordinamenti.

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Ciascun sistema era fondato su una pluralità di fonti che si componevano con un'interazione non solo verticale, ma anche orizzontale. Erano sistemi normativi che avevano una propria identità e la cui vita non può essere classificata entro la categoria della crisi. Non occorre dare un nuovo nome a questo sistema; basta aver segnalato che l’età moderna propone caratteri diversi rispetto al sistema medievale del diritto comune, come rivela la tendenza ad adoperare con un significato diverso questa espressione. Diritto comune è ora inteso come complesso di regole condivise dalla comunità politica; lo evidenzia Bodin nell’opera La Republique, in cui insiste sull’idea che le leggi dipendono dal sovrano e sono cosa pubblica e comune.Anche nel progetto di stampo utopistico delineato da Harrington, ne La Repubblica di Oceania, si delinea il modello di una società governata dal senso della patria, cioè da un interesse generale; il diritto deve constare di poche leggi generali e razionali, sotto il cui imperio devono vivere i membri della comunità.In campo giuridico, quell’aspirazione affiora nell’esigenza di ordine e di certezza delle fonti legislative: XES, tra 1500 e 1600, nello stato veneziano retto in forma repubblicana, si insisteva sul principio per cui tutti dovessero essere ugualmente sottoposti alla legge. Nello stesso periodo si affermò l’idea che la legge del principe fosse il vero diritto comune all’interno dell’ordinamento, nella convinzione che ogni ordinamento dovesse avere una legge comune specifica a cui fare capo (concetto ribadito alla fine del 17° secolo da Giovanni Battista De Luca).Tuttavia, non ogni norma del principe poteva considerarsi “diritto comune”, come si vede nell’opera dell’umanista Mynsinger, la legislazione principesca poteva dare luogo al privilegio e al diritto municipale in senso stretto e poteva definirsi “comune” solo nel momento in cui emanasse norme che legavano universalmente tutti i sudditi.In sostanza, si intende sostenere la tesi per cui il sistema di diritto che si affermò, nell’Europa continentale nell’età moderna, andò differenziandosi progressivamente nei vari ordinamenti. Essi si richiamavano ad un diritto comune la cui individuazione non era univoca ma presentavano tutti i seguenti caratteri:

Mostravano un’impronta generalmente condivisa, dal momento che, o per riconoscimento normativo o per via giurisprudenziale, si richiamavano alla tradizione del ius commune. Questa matrice comune non era da identificare nelle norme del corpus iuris giustinianeo e nemmeno in quelle del diritto canonico, ma nelle categorie che da esse erano nate.

L’interpretatio aveva ampio spazio, perché i giuristi erano membri dei supremi collegi giudicanti, il cui ruolo centrale si affermò dal 16° sec in poi.

Risentivano degli interventi del sovrano, come nel caso dell’ordine di redigere le consuetudini o dell’emanazione di provvedimenti su intere materie.

Erano espressi nelle lingue nazionali, con l’abbandono dell’uso del latino (non più sentito come il comune legame che univa tutti i mortali).

Si arricchivano al loro interno con l’emergere di caratteristiche distintive e con l’enuclearsi dell’autonomia scientifica di diverse branche del diritto.

Non venne mai meno il senso di appartenenza ideale alla matrice europea dei singoli Stati, che si rinviene anche nei pensatori (come Rousseau) propensi ad esaltare l’autonomia dei piccoli Stati. Tale idea di appartenenza era legata però ad una visione moderna e laica di Europa, che sottintendeva il dispiegarsi di comunità politiche sovrane.

Par 2 Problema del riordinamento del diritto tra ratio e auctoritas.Guardando alle prime soluzioni prospettate nell’ambito delle correnti dell’Umanesimo, il dato che emerge è un diverso modo di considerare la compilazione giustinianea: come diritto storico, piuttosto che come complesso normativo vigente. Attorno a tale risultato convergono i “tanti umanesimi” riconoscibili nell’ambito del diritto.

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La considerazione storica del corpus era legata alla visione del mondo che fu prospettata già dai primi umanisti (per Petrarca il carattere del ius civile era la sua mutevolezza, il suo costante rinnovamento).L’idea che il diritto posto fosse per sua essenza mutevole non era nuova; ma fu ripresa per le rinnovate riflessioni sul requisito della ratio, uno dei poli (insieme alla voluntas) attorno a cui si riteneva ruotasse la lex.Nel mondo medievale prevaleva la concezione del diritto come un complesso di regole che precede l’agire umano ed era da scoprire:

- dal legislatore, in sede di emanazione della lex;- dal giudice, in sede di giudizio;- dal giurista, in sede di elaborazione dottrinale.

Il corpus giustinianeo, secondo tale pensiero, conteneva i capisaldi delle direttrici cui attenersi. Il nuovo diritto poteva essere costruito sia attraverso l’interpretatio dei testi romani, sia inserendo il diritto particolare di stampo volontaristico entro il sistema. Esso presentava una connotazione unitaria perché il nuovo doveva integrarvisi e sorreggersi sui suoi fondamenti. Questi caratteri coinvolgevano anche la vicenda della lex, nonostante scaturisse dalla voluntas, che di per sé rappresentava il profilo dinamico del processo normativo.Di fronte a tale concezione unitaria, si veniva generalizzando quella coscienza della varietà del diritto che derivava dall’umanizzazione promossa dal Rinascimento: alla variabile storia dell’uomo corrispondevano necessariamente regole differenti. Ad alimentare tale orientamento ha contribuito la rilettura delle fonti classiche, in primo luogo della Politica di Aristotele, utilizzata sin dall’età di San Tommaso e poi dall’Umanesimo tra 400 e 500.Sia che si fosse sostenitori della potestà legislativa del principe, sia che si propendesse per sottolineare la supremazia dell’aequitas come metro di valutazione della norma, tendeva a mutare la considerazione dei due corpi normativi attorno ai quali era stato costruito il sistema del diritto comune.Quello canonistico era attaccato nelle terre protestanti perché ritenuto espressione della Chiesa di Roma e sostituito con le fonti antiche. Nei Paesi cattolici, invece, perdeva la sua centralità per il processo di laicizzazione del diritto.La compilazione giustineanea non era più intesa come fonte autoritativa, ma come opera di rimaneggiamento, compiuta da un antico legislatore, che in passato aveva costituito il diritto vigente. Viene quindi riportato al suo significato originario di “diritto di un ordinamento particolare in una determinata epoca storica”. Tale testimonianza era analizzata per l’utilità che i contenuti di un diritto storico potevano fornire in funzione del diritto attuale; per le soluzioni ragionevoli che essa custodiva (rationes).Il venir meno dell’idea della compilazione come diritto vigente si accompagnava alla scomparsa della concezione che le era connessa, cioè che il corpus fosse espressione di ordine e che le norme in esso contenute facessero parte di un sistema privo di contraddizioni. A ciò avevano contribuito già i commentatori medievali, che avevano utilizzato la compilazione per trarne rationes sempre più attualizzate; ma il colpo decisivo veniva dall’esame cui i giuristi culti sottoponevano la compilazione, smontata e ricomposta nei suoi elementi casistici. Lo strumentario adoperato consentiva al giurista di penetrare entro i testi e farli propri come oggetto di conoscenza, ma ne favoriva anche il distacco.Occorre sottolineare che l’esigenza di ordine prima ritenuta soddisfatta dal corpus giustinianeo, ora doveva essere perseguita e ricercata. Poiché in precedenza il postulato dell’ordine poteva dirsi realizzato solo attraverso l’interpretatio dei giuristi, che manteneva riunite le fonti giustinianee e quelle del ius proprium, è naturale che si manifestassero le critiche all’opera della giurisprudenza medievale, accusata di proliferazione e progressivo allontanamento dai testi normativi.La critica intendeva segnalare una differenza profonda, consistente in una nuova lettura delle fonti romane, basata sul collegamento tra studia humaniatis ed esegesi (interpretazione critica di un

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testo), quindi, nella prospettazione di una concezione relativizzata del diritto e nella ricerca delle sue ragioni fondative.Tra gli umanisti era molto dibattuto il problema della funzione del diritto nella vita civile, che era il nucleo delle discussioni sulla maggiore o minore dignità della giurisprudenza, rispetto alla medicina, da un lato, e alla filosofia, dall’altro.Come in ogni disputa, non si manifestò un orientamento univoco; emerse, però, in generale, l’idea che occuparsi di diritto fosse un nobile impegno perché il giurista non si limitava a scoprire i dati dell’esperienza, ma considerava l’attività dell’uomo, letta attraverso regole e principi. Tale valorizzazione comprendeva una critica verso la realtà dei pratici, pronti a cavare dalle auctoritates la citazione più confacente al caso e disinteressati ai principi che dovevano disciplinare le relazioni umane.Mentre si discuteva della funzione del diritto, si scopriva la crisi di un mondo e si manifestava una concezione del sapere che si imperniava sulla centralità dell’uomo. Veniva mantenuto l’antico postulato del pensiero medievale, precedente alla ripresa di Aristotele, per cui l’uomo è un essere sociale, con la deduzione che i rapporti umani, e il diritto che li regola, erano pure naturali. La riscoperta rinascimentale della naturalità delle relazioni umane postulava che la loro disciplina constasse di norme razionali. La razionalità derivava dall’essere fondata su principi stabili e rivolti all’utile dell’uomo; come affermava anche Leon Battista Alberti “l’uomo nacque per essere utile all’uomo”.Il requisito della ratio si prospettava come il fondamento dell’agire dell’uomo e degli ordinamenti da lui costruiti. Questo è l’esito di un processo contrastato che si enuncia con vari segni nel Rinascimento.L’ordine divenne un concetto spesso evocato e un obiettivo attorno al quale si protendevano gli sforzi di sintesi e di ricostruzione del diritto, difficili da concretizzare perché dovevano fare i conti con la filosofia relativistica, che presupponeva ordini diversi. Il giurista era consapevole di ciò, tanto che talora non andava al di là di affermazioni di principio di fronte al sovrano; il quale incarnava l’altro polo del sistema normativo (la voluntas).Comunque, i due aspetti (quello razionale e quello autoritario) erano strettamente congiunti dalle nuove istanze di riordinamento del sistema; infatti nel ‘500 le proposte che si susseguirono mantennero tale legame unitario, anche se ciò non esclude che venisse, di volta in volta, sottolineata l’esigenza di una riorganizzazione normativa di cui fosse protagonista il giurista, o venisse accentuata l’importanza dell’intervento del sovrano. Agli esordi dell’Umanesimo era più facile attestarsi sulla critica della tradizione, rivolta in parte sul corpus giustinianeo, ritenuto frammentario nella raccolta dei testi, in parte sui giuristi medievali, accusati di aver alterato il testo normativo con la loro attività interpretativa. Il momento più radicale della riflessione umanistica sulla giurisprudenza medievale coincide con gli attacchi di Lorenzo Valla, ne L’epistola contra Bartolum, scritta nel 1433; ma occorre inoltrarsi nel ‘500, perché si prospettassero soluzioni dall’interno del mondo del diritto.

Par 3 La proposta di Budè.Un modello può essere trovato nell’opera di Guillaume Budé (1468-1540), membro, con Zasius e Alciato, della triade di personaggi che inaugurò la metodologia umanistica nell’ambito del diritto. Egli era uomo di lettere (grammaticus) piuttosto che giurista. Nella sua visione enciclopedica, il diritto aveva un ruolo essenziale come legame sociale; Egli ne affronta lo studio guardando al presente; consapevole che ogni forma di conoscenza doveva essere prodotta in vista dell’educazione e dell’azione. Le sue Annotationes in Pandectas furono un esempio dell’attitudine umanistica agli studi del diritto con la loro superba esegesi di stampo storico-filologico (le generazioni successive vi attinsero per vari argomenti).Dopo aver criticato la compilazione giustinianea perché conteneva precetti dispersi, Budé proponeva la riformulazione dell’intero diritto: occorreva partire da categorie generali, articolate poi in membra, e ogni istituto doveva essere introdotto dalla sua definizione.

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Quanto ai contenuti: il materiale da raccogliere era indicato da Budé nei testi della compilazione giustinianea (Digesto e Codice), tenendo conto dell’interpretatio dei grandi giureconsulti medievali. In questa prospettazione del codice ideale, 2 i punti da sottolineare:

1) l’uno riguarda l’indicazione della strumentazione logica come mezzo per procedere alla sistemazione;

2) l’altro attiene ai contenuti: da notare è il riferimento alla “natura delle cose” come parametro di rinvenimento dei precetti regolatori della vita umana.

Budé, infatti, raccomandava l’applicazione delle regole della logica, entro però i limiti tracciati dalla natura delle cose e badando a che quei precetti fossero in uso ed espressione di equità. Tale proposta era legata alla mentalità dei giuristi medievali, perché costruita intorno alla corrispondenza tra diritto umano e precetti naturali. Cmq l’autore era un aperto sostenitore delle prerogative del sovrano: nel dichiarare che il fine da raggiungere era quello di dare una forma migliore alle cose umane, riteneva indispensabile l’intervento del princeps per sanzionare il lavoro di sistemazione e vietare l’opera di commento ai giuristi. Affermatasi la nozione di relatività del diritto, occorreva provvedere attraverso l’intervento dell’autorità del sovrano. Nella prospettazione di Budé il dato razionale stava nella “natura delle cose” (concetto in realtà vago per le innumerevoli utilizzazioni che ne sono state fatte dalla filosofia greca, dal pensiero di S. Tommaso o dal giusnaturalismo moderno).Per quanto riguarda il ruolo del sovrano, l’autore parlava guardando al ruolo della monarchia nella fase compresa tra la fine del regno di Luigi XII e l’età di Francesco I, caratterizzata dalla soluzione in senso accentratore di molti problemi legati alla precedente struttura feudale.Nonostante Budé non fosse interessato a sviluppare questi concetti, né a concretizzare l’idea prospettata, la sua posizione fu un costante punto di riferimento per tutto il secolo, sia perché rientrava nel clima critico che investiva il sistema delle fonti normative, sia perché era amplificata dalla notorietà dello stesso Budé.

Par 4 La giurisprudenza umanistica tedesca: la posizione di Lagus.Spostiamo ora l'attenzione verso l'area tedesca, dove i canoni umanistici erano fortemente connotati dalle idee della Riforma protestante. Tra gli anni 30 e 40 del secolo, i giuristi impegnati nel progetto di riformulazione del diritto secondo un nuovo ordine si ispirarono soprattutto all'opera di Melantone, il fedele amico di Lutero, svolgendo opera di secolarizzazione.Ricordiamo in particolare Johann Apel (1486-1536), Sebastian Derrer (m. 1541), Melchior Kling (1504-71) e Konrad Lagus (1500-46); le cui opere si inseriscono in una "fase ascendente dell’influenza degli intellettuali umanisti"; c'è una valutazione positiva del proprio ruolo, una consapevolezza di sé e dell’importanza dell'opera di riordinamento o rifondazione del diritto, strettamente legata ai processi di rinnovamento (sociali e istituzionali) interni ai principati tedeschi.Particolare attenzione va data all'opera Iuris utriusque traditio methodica di Lagus pubblicata nel 1543: il giurista tedesco avvertiva che il programma di Cicerone di redigere in artem il diritto era di realizzazione complessa perché non bastava individuare e disporre precetti naturali che dovevano presiedere alle azioni umane, era necessario anche vedere come tali precetti prendessero forma nel mondo del diritto diventando giuridicamente obbligatori. Era evidente la difficoltà di districarsi entro l'enorme massa delle norme del diritto romano e canonico; perciò occorreva cogliere:da un lato, i principi direttivi del diritto; dall'altro, la disciplina vigente.Il primo aspetto riguardava il perché si è obbligati dal diritto;

Il secondo riguardava l'analisi delle forme assunte dagli istituti giuridici per disposizione del diritto positivo.

Da qui la distinzione in due parti:Philosophica attinente alle rationes del diritto,

historica riguardante la disciplina del diritto positivo.

Le due parti erano però unite da un legame di tipo causale, giacché la forma degli istituti del diritto positivo derivava dalla fonte naturale, considerata fondamento necessario.

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[La trattazione filosofica sembra debitrice dello spirito della cultura protestante e molto simile alla traccia della appena pubblicata opera di Johann Oldendorp (1488-1567, professore, sindaco e consigliere giuridico in diversi centri della Germania, fortemente legato alla visione morale e politica luterana), Isagoge juris naturalis: qui l'autore aveva dichiarato che le norme giuridiche dovevano partire dal nucleo più genuino della filosofia. A proposito del problema del riordinamento del diritto, il giurista non si faceva illusioni sulla possibilità che l'opera di un privato risultasse efficace per il riordinamento del diritto, perciò concludeva che solo con un'iniziativa delle supreme autorità sarebbe stato possibile effettivamente intervenire con successo: era questa una convinzione presente anche in Giustiniano e molto diffusa sin dal primo 500 quando si moltiplicarono le sollecitazioni per un'iniziativa del sovrano, che attraverso una commissione di esperti agisse per ridurre in un solo compendio la congerie di commenti dottrinali o per decidere le controversie ed assicurare una raccolta ordinata del diritto. Tra le raccolte di diritto si ricorda specialmente quella di Viglius (1507-77, pupillo e conterraneo di Erasmo), contenuta nella epistola indirizzata a Carlo V e premessa alla propria edizione della Parafrasi greca di Teofilo alle Istituzioni. Di fronte alla massa di volumi legali circolanti, il giurista olandese riteneva che l'opera di riscoperta e chiarificazione svolta sugli antichi testi dalla scienza giuridica costituisce una premessa per realizzare la proposta di raccogliere la legislazione vigente].

Ma torniamo a Lagus. L'introduzione filosofica non era astratta, ma sviluppava una sorta di parte generale della materia. Dopo aver tratteggiato le finalità del diritto e richiamato la distinzione fondamentale in privato e pubblico, si riconosceva che il diritto poteva derivare dalla natura, dalla autorità pubblica o dalla consuetudine (questione delle fonti del diritto!), ad ognuna delle quali era dedicata una trattazione specifica. Era poi posto il problema dei rapporti tra le diverse fonti, dei vari tipi di interpretazione, della relazione tra ratio e lex e del ruolo delle opiniones. Per quanto riguarda il diritto naturale, era posta la distinzione, tratta dalla dottrina medievale, tra:

ius naturale primaevum derivante dall'istinto naturale, comune a tutti gli animali, ma corrotto dal peccato originale;

e ius naturale secundarium ispirato da Dio, ma colto attraverso la ragione umana. Ora quest'ultima categoria del diritto naturale, comune a tutti gli uomini, era denominata dai Romani ius gentium o anche detto ius divinum: il diritto divino non era solo quello contenuto nella legge mosaica e nei Vangeli, ma anche tutto ciò che veniva concepito dalla retta ragione dell'uomo. Di conseguenza, la fonte razionale del diritto stava al vertice dei gradi di obbligatorietà delle norme.

Fermo restando i 2 poli (divino e umano) da cui derivava l'intero ambito del diritto, si esprimeva però una visione unitaria perché il rapporto Dio-uomo era mediato attraverso la ragione umana e questo su fondamento della creazione dell'uomo ad immagine divina. Perciò, la storia dell'uomo, come anche la storia degli ordinamenti che l'uomo si dà, diventava la storia di questa immagine, tanto che, secondo l'autore, l’ordine sistematico del diritto, in quanto tratto dalla ragione umana, era contemporaneamente compimento dei disegni divini. Da ciò derivava un singolare parallelo tra le norme del Decalogo e le norme umane e ne risultò accresciuto il valore del diritto in quanto espressione della ragione umana (= superiore parametro di giudizio delle altre fonti del diritto, in particolare del diritto positivo, che si spiegava per la convenienza di stringere con vincoli coercitivi quanto altrimenti sarebbe stato lasciato solo ad una propensione naturale verso il bene).

Quanto alla parte storica dedicata al diritto positivo, Lagus riteneva che la tradizionale tripartizione della materia (personae, res, actiones) fosse uno schema troppo angusto per poter ricostruire sistematicamente tutto il diritto. La materia era così suddivisa in 6 parti entro cui tutti gli istituti giuridici potevano essere ricompresi: diritto delle persone; modi di acquistare, alienare e perdere le cose; patti e obbligazioni; azioni ed eccezioni; giudizi; privilegi e benefici.

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La trattazione era svolta con grande senso pratico, perché la finalità della jurisprudentia non è quella della conoscenza, ma quella di dare direttrici per le azioni.

Par 5 La molteplicità e la storicità degli ordinamenti e la necessità dell'ordine: la lezione metodologica di Bodin.La questione del metodo percorre tutto il secolo, essendo pensato come il veicolo con cui costruire il nuovo diritto. Si esprimeva così l'istanza di trovare la via per acquisire ed esporre il sapere nel modo più facile ed utile possibile: occorreva cogliere i nessi tra le cose, usare il linguaggio più appropriato, disporre in ordine conseguente i concetti corrispondenti; individuare non solo le regole che determinavano le relazioni tra i fenomeni ma anche quelle che disciplinavano i rapporti tra uomini e cose e tra gli uomini tra di loro.Il metodo, unico per tutte le discipline, consisteva nel mettere ordine tra gli elementi dati, muovendo dal generale e procedendo deduttivamente.Occorre adesso dedicare attenzione all'interesse dei giuristi per la storia, alla ricerca di un ordine fondante costruito dall'uomo e partiamo perciò da Jean Bodin (1529/30-1596) [Grande teorico della sovranità. Il primo periodo (anni 50 a Tolosa) fu segnato da ambizioni accademiche e da una formazione umanistica. Successivamente si impegnò nella vita del foro quale avvocato al Parlement di Parigi. Nel 1576 pubblicò la sua opera fondamentale, La République, in francese. Avvocato e poi magistrato in provincia (Laon), divenne presto sospetto sia ai cattolici, sia agli ugonotti, sicché alla scomparsa del suo nobile protettore, le sue fortune declinarono. Quando Laon passò alla fazione cattolica, lui che era stato avverso alla Lega, si schierò apertamente con i leghisti cattolici contro Enrico III che considerava un tiranno. Gli ultimi anni furono molto amari, tentando invano di riavvicinarsi al nuovo Re Enrico IV, fino alla morte per la peste. Impropriamente, la storiografia ha associato Bodin all'idea di codificazione, infatti alcuni riferimenti contenuti in una delle sue opere sono stati interpretati come una proposta di unificazione giuridica da basare sulla preparazione di un nuovo codice delle leggi].Secondo Bodin era estremamente riduttivo e assurdo limitare lo studio del diritto solo a quello romano. La storia nazionale dei vari popoli mostrava che l'uomo, attraverso atti di volontà, creava le proprie istituzioni e norme, anche se la storia umana, così come quella naturale, era dominata da condizioni o leggi, considerate come i rapporti necessari tra i fenomeni sviluppantisi nel tempo e nello spazio. XES, il clima condizionava l'operato umano e agiva sulle abitudini o sulle regole di comportamento e dunque sulla storia dell'uomo. Questa legge del clima, mentre spiegava le diversità delle norme che regolavano le istituzioni dei vari Stati, al tempo stesso si proponeva come un reale parametro per valutare la storia dell'uomo. Si trattava di una legge esterna rispetto alla vita di ciascun popolo (era un che di naturale) ma su di essa l'uomo a sua volta reagiva col risultato di modificare le condizioni date (in realtà, la teoria del clima non è una scoperta originale di Bodin, già è presente in Platone ed Aristotele, e sarà sviluppata da Montesquieu; ma la sua sistemazione nella teoria della storia può dirsi nuova!).La storia dell'uomo era storia del diritto, perché l'uomo non poteva ragionevolmente vivere se non in una società strutturata attraverso istituzioni e regole: l'autore si rifaceva così al concetto di populus già elaborato dai giuristi medievali ed inteso come una comunità organizzata giuridicamente; e si ricollegava al concetto ciceroniano (Cicerone nel De Re publica affermava che "il popolo non era la semplice aggregazione di uomini, ma un'aggregazione retta dal diritto e finalizzata all’utilità comune").La novità stava dunque nell'atteggiamento complessivo che portava a congiungere storia e diritto.Allo storico interessavano le vicende della nascita e trasformazione delle leggi e delle istituzioni, dato che il suo scopo era quello di trovare regole di condotta politica e rendere funzionale il proprio studio all'agire umano.Bodin andava oltre affermando che era la scienza politica, e non la giurisprudenza, a dettare le regole per tutte le arti, se queste fossero state correttamente rivolte all’utilità comune; rispetto alla scienza politica, la giurisprudenza era solo una particula.Tutto ciò spiega il fatto che in quel periodo, e a lungo, quasi tutti coloro che scrivevano di storia in Francia erano giuristi.

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Nel capitolo iniziale della Methodus, Bodin registrava come nell'esperienza storica quotidianamente sorgano nuove leggi, costumi ed istituzioni: di fronte alla diversità delle istituzioni, alla mutabilità delle forme di Stati, compito del giurista, che studia la storia in funzione del presente e del futuro, era quello di trovare con la ragione, con la methodus, gli elementi unificanti del reale ed ordinarli ecco la duplice dimensione del diritto

relativistico e mutevole (come prodotto umano) eppure anche razionale ed universale (come derivante da Dio).

Par 6 Universalismo e storia in alcune sistemazioni privatistiche.Dal discorso fatto emerge una duplice consapevolezza: la molteplicità dei diritti esistenti e la necessità dell'ordine. Ci sono dei saggi particolarmente significativi, di solito inseriti in un vero e proprio filone all'interno della scuola culta (la corrente sistematica) i cui rappresentanti sono individuati in Francois Connan e Hugues Doneau, autori di opere dallo stesso titolo, i Commentarii iuris civilis. In particolare, l'opera di Connan mostra l'attesa che in Francia circondava quel primo esperimento; l'interesse fu tale che presto si fecero nuove edizioni con molte lodi al suo autore per aver dato una prova concreta di risistemazione del diritto.Non siamo di fronte ad un filone dottrinale autonomo in senso proprio, anche se tradizionalmente si è considerato tale, distinguendolo da quello storico-erudito dell'Umanesimo. Impossibile peraltro pensare che due figure così diverse di giuristi abbiano potuto dar vita ad un particolare indirizzo: Connan era un alto magistrato, che non insegnò mai e che scrisse i Commentarii per conto suo e negli ozi della professione; Doneau era un maestro della principale scuola di diritto francese del tempo (Bourges), calvinista convinto, impegnato per tutta la vita nell'insegnamento (i suoi Commentarii sono il frutto dell'insegnamento).Infatti, non ci fu una separazione netta tra la tipologia sistematica e quella storico-analitica; quello che determina concretamente il carattere di un'opera e la sua tipologia deriva dalla collocazione dell’umanista (insegnante, magistrato o magari intellettuale polivalente) e dal modo in cui questi interpretava il proprio ruolo.I Commentarii di Connan e di Doneau presentano caratteri comuni, si contrappongono a Bodin e Bauduin, entrambi animati da gusti storici e pubblicistici; invece, in questo caso si tratta di sistemazioni razionali di diritto privato. Vediamone i caratteri:

1) Sistemazioni razionali . Per valutare il carattere sistematico è poco significativo guardare alla partizione adottata. Certo, non c'è in queste opere sistematiche l'impiego della sequenza dei titoli del Digesto secondo la moda dei Commentari medievali, e conta poco anche l'uso frequente fatto della tricotomia gaiano-giustinianea (personae, res, actiones). A cavallo tra 500 e 600, era viva la discussione se il riordinamento del diritto potesse valersi del semplice schema istituzionale della tradizione o non richiedesse invece una strumentazione più adeguata a comprendere una materia articolata da esporre, però, in forma semplice.

Premesso che il diritto doveva rispecchiare l'ordine naturale delle cose, occorreva che anche la trattazione del diritto rispettasse l'ordine, e ciò attraverso una sequenza che prevedeva l'esposizione dei principi, la definizione degli istituti e la successiva articolazione delle regole. Dato questo impianto, è evidente come i due giuristi si collocavano in posizione distaccata rispetto alla compilazione giustinianea: le due opere pretendevano di essere espressione di ragione e quindi questa era la loro fonte autoritativa, non più l'antico corpus di leggi.Non veniva disconosciuto che ogni ordinamento (civitas) si caratterizzasse per una legislazione particolare e mutevole nel tempo; solo che al giurista impegnato nel compito di redigere in artem il diritto interessavano i fondamenti comuni rintracciabili costantemente da qui il rifiuto dell'idea che il diritto derivasse dall'opinione o dalla fortuita disposizione dell'uomo e da qui l'impianto universalizzante e apparentemente astratto.

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Ma che cosa vuol dire che l'impianto era universale ?. L’universalismo di Connan non era in contrasto con l'idea di Bodin, il quale nella prefazione della Methodus, dopo aver sostenuto che una scienza per essere tale (e quindi anche la scienza del diritto) doveva basarsi su principi universali, aveva criticato i giuristi intenti a ruminare niente più che il ius civile Romanorum, cioè il diritto di un ordinamento particolare, mutevole, privo di ordine e, nella sua appartenenza alla storia, necessariamente antiquato.

Sull'impostazione universalistica c’era convergenza così come nell’utilizzazione del metodo comparatistico perché per cogliere l'universalità dei principi bisogna selezionare e individuare diversi modelli e soluzioni (nel tempo e nello spazio)1.

2) Opere di diritto privato . C'era l'idea che il diritto sistemabile fosse solo quello privato per la concezione che le relazioni interpersonali fossero necessarie e naturali e dunque anche la relativa disciplina (appunto il diritto privato) fosse espressione di natura e di ragione; il diritto pubblico, invece, era legato alle contingenze e ad una regolamentazione arbitraria (cioè volontaria) e come tale non sistemabile. (Invece, Bodin e Bauduin, mostrarono interesse per il diritto pubblico, ritenuto il campo che consentiva una trattazione storica e comparatistica perché evitava le sterili discussioni sulle sottigliezze del diritto).

I Commentarii iuris civilis di Doneau erano completamente dedicati alla materia privatistica; l'opera però affrontava anche esplicitamente il problema del rapporto con la trattazione pubblicistica: rispetto a questa non c'era una chiusura, ma si suggeriva la sua posposizione per ragioni di opportunità scientifica. Infatti, la materia della res publica era in posizione sovraordinata rispetto al diritto privato perché il bene (o l’utilitas) della collettività era preferibile a quello individuale. Tuttavia logicamente, la sistemazione del diritto privato doveva essere precedente giacché la raffigurazione dello Stato come persona giuridica comportava che i rapporti facenti capo ad esso e di conseguenza le categorie e gli schemi da adoperare fossero mutuati dalla materia privatistica, che innanzi tutto si occupava di persone. Pertanto, il diritto pubblico, facente capo all'ente artificiale civitas, era considerato come una categoria residuale e costruita di riflesso. Nella concezione di Doneau :il diritto privato era il diritto comune a tutti (ius commune);

mentre il diritto pubblico era un diritto di eccezione (ius singolare), apprestato per il particolare fine della tutela della convivenza.

Par 7 L’opera di Connan.Francois Connan (1508-51) [Giurista dalla breve vita, studiò a Orlèans e a Bourges ove fu allievo di Alciato; nell'ultimo decennio di vita ebbe modo di attendere alla sua opera che lasciò incompiuta].Premessa: la fonte del diritto è la natura umana, caratterizzata dalla ragione, innata e indipendente da qualunque patto costitutivo della società civile.Fatta questa premessa, l'autore individuava:

un ius generale: e un ius speciale:concernente l'applicazione del principio del vivere onestamente (honeste vivere);

compendiato nei 2 precetti del non ledere i diritti altrui (alterum non laedere) e dell'attribuire a ciascuno ciò che gli spetta (suum cuique tribuere).

1 Spesso si fa risalire a Vico e a Montesquieu, prima metà del 700, l'interesse per il diritto comparato. Il comparatismo di cui si parla per i culti cinquecenteschi è ricalcato sul modello aristotelico, giacché lo studio comparato delle diverse legislazioni nel tempo e nello spazio era teso a ricercare il diritto naturale come espressione del consenso dei popoli (diritto naturale = diritto applicato dalle genti senza imposizione superiore).

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Tale categoria non apparteneva propriamente all'ambito del diritto ma piuttosto a quello della morale, giacché concerneva regole di condotta riguardanti la sfera della virtù e quindi del singolo in quanto tale;

Tale categoria conteneva i veri e propri precetti giuridici, poiché relativa al rapporto tra l'individuo e gli altri membri della società, ed era perciò la materia d'interesse di legislatori e governanti.

Da ciò, il giurista traeva una consapevolezza: i comportamenti ascrivibili all’honestum non costituivano materia delle norme giuridiche, sicché l'ambito del diritto si restringeva e si creava uno spazio di irrilevanza giuridica per tutti quei comportamenti che non fossero vietati espressamente o non integrassero fattispecie previste dal diritto (famosa l’affermazione di Connan secondo cui le promesse prive di sinallagma non erano efficaci neanche per il diritto naturale!).

Entrando nell'ambito vero e proprio del diritto, il giurista individuava: il diritto naturale in senso stretto: Ius gentium:

costituito da una sfera di precetti immutabili sfera comprendente norme che di solito si trovavano riproposte nei diversi ordinamenti e che erano il prodotto del iudicium humanum, relativamente costante ma pure flessibile e mutevole

Diverse le finalità delle due categorie:Perseguimento della giustizia, che prescrive i

canoni stabili del giusto e dell'ingiusto;L'utilità, che guarda piuttosto alle variabili

esigenze della vita umana.La chiave del sistema era il Ius gentium, elemento di cerniera tra il diritto immutabile e quello particolare di ogni Stato; ambigua è la sua appartenenza al diritto naturale e la contiguità col ius civile.Il diritto a cui guardava Connan (fosse il ius naturale immutabile o il ius gentium o ancora il ius civile) era tutto prodotto umano; traspare la funzione storica del diritto con la considerazione che solo il diritto naturale è tale in quanto fondato sulla recta ratio che contraddistingue l'uomo, ma quella parte del diritto naturale che è il ius gentium si rivela attraverso la pratica dei popoli ed è in fondo assimilabile al ius civile, tanto da poter essere modificato da quest'ultimo. Sono necessarie 2 osservazioni:

l'attenzione di Connan verso il diritto positivo, che non entra in primo piano nella sua sistemazione, di per sé rivolta al diritto razionale, ma che emerge a tratti;

un certo distacco dell'autore dalla vecchia concezione per cui il fondamento del diritto delle genti stava nel consenso dimostrato da una applicazione estesa, duratura e costante della norma: la constatazione che una certa condotta era diffusa non bastava, per il giurista francese, ad annoverarla quale espressione del diritto delle genti (semmai era solo un indizio). Anzi, egli rivendicava la possibilità di ricondurre al diritto delle genti una regola di comportamento applicata spontaneamente dai popoli come espressione razionale, anche se tale applicazione fosse stata recente o addirittura contemporanea. Cioè la ripetizione frequente di una condotta non provava che essa fosse ragionevole, ma era anche necessario un giudizio di corrispondenza alla ratio o communis utilitas (però la ratio non era intrinseca ad un sistema dato come xes il ius civile Romanorum, ma era ciò che di volta in volta il giurista doveva rinvenire nella sua opera di ricostruzione).

Si comprende allora come l'opera di sistemazione di questo diritto delle genti contenesse anche un risvolto storico (una storicità che teneva conto del tempo e dello spazio) e pertanto le esperienze esemplari cui guardava il giurista erano tratte dall'antichità e in particolare da pensiero classico (attitudine alla comparazione). Tutto ciò è il segno del carattere universalistico di una sistemazione dove il giurista ricopriva un ruolo centrale, perché di fatto era lui a dover individuare, vagliare e disporre in ordine gli schemi giuridici supposti comuni ai popoli in quanto in uso e dotati di

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razionalità (il giurista umanista, per dirla alla maniera di Platone2, si faceva demiurgo alla ricerca dell'ordine del nuovo sistema).

Par 8 Il diritto romano come Ratio scripta: il problema del riordinamento in Doneau.Hugues Doneau (1527-91) [Calvinista, allievo e poi collega di Douaren a Bourges; a seguito dei sanguinosi avvenimenti nel corso delle guerre di religione fu costretto ad emigrare; negli ultimi vent'anni della sua vita, insegnò in diverse università dell'area tedesco-olandese].I suoi Commentarii de iure civili erano rivolti esplicitamente ad un'esposizione del diritto attraverso una logica che rispecchiasse fedelmente l'ordine naturale. Il centro della trattazione era l'individuo e quanto giuridicamente gli attiene.Il punto di partenza è lo stesso di Connan, ma è diversa la partizione:

Connan aveva ripreso la tripartizione gaiano-giustinianea il diritto riguardava ciò che è proprio di ciascuno e distingueva il proprio in ciò che concerneva la persona, le cose e le azioni umane; aveva però mutato l’uso consueto delle actiones, intese non più come il diritto di perseguire ciò che è dovuto, ma come condotte negoziali dell'uomo;

Doneau faceva rientrare nel proprium dell'individuo anche il profilo procedurale, e dunque la materia delle actiones, in quanto la procedura forniva rimedi utili a far valere i diritti della persona. Nel proprium dell'individuo era riconosciuto un aspetto riguardante ciò che apparteneva a lui in senso stretto (suddiviso in ciò che atteneva alla persona in quanto tale e in ciò che atteneva ai beni esterni) e un altro concernente quanto gli era dovuto.

Quello di Doneau era un sistema funzionale alla persona, costruito come espressione dell'ordine naturale e disposto secondo logica. Come per Connan, l'ordine naturale era sinonimo di ragione e i materiali utilizzati per l'opera di sistemazione erano forniti dalla compilazione giustinianea, summa di un diritto che i Romani avevano saputo formare anche fondendo le esperienze giuridiche di altri popoli.Per conoscere tutto il diritto era necessario l'esercizio dell’ars juris, intesa come la capacità di disporre in ordine il materiale normativo contenuto nei testi giustinianei, rispettandone la rispondenza ai principi del diritto naturale e delle genti. Da qui la più si era imbarcata rivendicazione (rispetto a quella di Connan) del ruolo del giurista quale artefice della costruzione, per la sua attitudine, non subordinata neanche al sovrano, a cogliere la recta ratio dalla natura delle cose: l’auctoritas del diritto, che certo risaliva alla volontà del principe, doveva sostanziarsi di contenuti individuati attraverso la ragione.Nell'opera del giurista è stato notato un certo conservatorismo, per la tendenza ad identificare quasi integralmente il diritto romano da un lato, e il diritto naturale e delle genti dall'altro (assimilava gli insegnamenti del corpus iuris ai principi del diritto naturale).Certo, in Doneau c’è continuità con la tradizione, ma anche elementi complessivi originali. L'autore propose una netta distinzione tra sfera privata e sfera pubblica; facile perciò, di conseguenza, separare il privato dal pubblico; infatti:privato: pubblico: espressione di diritto naturale regolato in modo artificiale dal sovrano

legislatore pertanto: per la sua stessa fonte, possibile oggetto di sistemazione del giurista;

dipendente dall'arbitrio del sovrano e perciò difficilmente ordinabile e passibile piuttosto solo di raccolta.

Quanto poi all'assetto e ai contenuti, la methodus consentiva al giurista di non sottostare agli schemi precostituiti: si pensi all'attenzione con cui differenziava la categoria della proprietà da quella dei diritti su cosa altrui, o distingueva il diritto pubblico da quello privato, o impostava i rapporti tra diritto sostanziale e procedurale, o enucleava le parti generali comuni a un'intera branca di istituti.

2 Il demiurgo platonico era colui "che portava le cose dal disordine all'ordine", era l’ artefice del mondo.

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Il risultato cui giunse il giurista fu la combinazione dei valori della civiltà umanistica (che suggeriva la costruzione di un sistema centrato sul soggetto di diritto) e la superba capacità di esegesi della compilazione giustinianea. Il valore universalistico della trattazione era poi assicurato dalla assimilazione del diritto romano (da cui erano tratti i materiali della costruzione) alla recta ratio (valore universalistico che non faceva perdere di vista la funzione pratica del diritto).

Par 9 Storia, lingue nazionali e codificazione del diritto: il "Manifesto" di Hotman.I profili universalistici indussero la cultura umanistica a ricercare i valori fondanti e comuni delle varie civiltà, a cominciare da quelle classiche, e quindi ad affinare gli strumenti necessari per acquisirli. Da cui, la capacità di padroneggiare le lingue e le storie antiche (di ciò sono testimonianza le tante opere che però per stile, analisi critica e contenuti rimasero rivolte ai dotti).La dimensione pratica dello studio, la propensione per la vita attiva, la visione antropocentrica della vita, portarono quella cultura ad approfondire la conoscenza della propria civiltà. Questo processo di relativizzazione del diritto, richiese l'uso di espressioni linguistiche corrispondenti a ciascuna esperienza storica e quindi del volgare; si aggiungano le istanze di accertamento e semplificazione del diritto provenienti dai pratici, essendo la lingua nazionale quella usata nei rapporti quotidiani e quella utilizzata dagli addetti ai lavori chiamati a dar forma ai negozi e ad applicare il diritto (notai, giudici inferiori, ufficiali delle istituzioni cittadine,ecc); inoltre ci fu (già rilevante in età medievale) il proliferare delle normative locali e principesche. Si aggiunga, come notevole impulso, nel cuore del fervore umanistico della metà del 400, la autentica rivoluzione inavvertita rappresentata dalla scoperta della stampa; essa agì in 2 direzioni:

rendendo possibile la diffusione di testi su vasta scala, allargò notevolmente il campo dei destinatari dei libri, ponendo al contempo il problema del tramite linguistico più efficace a raggiungerli effettivamente;

fornì alle istituzioni, e i agli Stati, uno strumento per penetrare nei gangli del tessuto sociale attraverso lo strumento principale di disciplinamento: la legislazione.

Dichiarare e portare a conoscenza la normativa vigente non esaurisce certo i compiti di costruzione dello Stato moderno, ma ne era un presupposto fondamentale. La stampa, tipico prodotto dell'inventiva umanista, è uno strumento di diffusione; veicolo di libertà, con funzione anche di controllo!. Di certo spinse per la codificazione di linguaggi nazionali, sia per esigenze di mercato sia per la necessità di razionalizzare e governare il fenomeno di espansione della cultura.Insieme testi sacri, in edizione critica con commento e in una volgare, furono pubblicate opere giuridiche di divulgazione e testi legislativi [XES nell'area iberica, nel corso del 500, è molto diffuso l'impiego della lingua volgare nei libri in materia mercantile. Sin dalla fine del 400, per ognuno degli ordinamenti in cui si articolava la corona di Spagna, c'era una raccolta e pubblicazione della legislazione regia vigente (come xes in Castiglia nel 1484). In Germania, sin dai primi decenni del 500, il tedesco fu usato sia da giuristi pratici, sia da giuristi umanistici e ciò in corrispondenza delle propensioni nazionali maturate nel clima della Riforma e, più tardi, dell’affermazione di insegnamenti ramistici].

Sarà ora opportuno tornare all'esperienza francese. I sovrani furono sempre favorevoli alla espansione della lingua nazionale: con l’ordonnance di Villers-Cotterets (1539) Francesco I disposti e tra l'altro che i decreti delle corti di giustizia venissero scritti chiaramente in modo da non richiedere interpretazione e che tutti gli atti pubblici e privati fossero redatti in francese (ordine del re di usare la lingua nazionale per gli atti di giustizia!).

Una testimonianza interessante è quella data dallo Antitribonian di Francois Hotman (1524-90), scritto nel 1567 ma uscito nel 1603. [Accesso ugonotto, "bollente giurista", professore in molte università, costretto a lasciare la Francia dopo gli eccidi della notte di San Bartolomeo (1572), H. chiuse la sua vita a Basilea]. Scritto originariamente in francese e solo tardi tradotto in latino, appare una summa dei principali motivi dell'umanesimo giuridico. È indice del compimento di una fase di maturazione del giurista

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(con la fusione tra le esigenze dello attivismo politico e le tendenze di alcuni indirizzi della scuola culta).L'intento, sin dalla prefazione, era considerare l'utilità dello studio dei testi giustinianei come se fossero una raccolta perfetta (ciò implicava l'esame dei contenuti dei principali istituti per valutarne l'uso odierno) e poi quello di rilevare i difetti che effettivamente la raccolta presentava. Da qui la suddivisione in due parti:

l'operetta è una sorta di storia del diritto romano (nella sua redazione e nei contenuti) e poi del diritto comune (romano-canonico),

seguita da una proposta di riforma3. Dietro l’anti-tribonianesimo si delineavano i segni dell’antiromanesimo.Il giurista muoveva da una concezione alla critica del diritto, dietro la quale affiorava l'esigenza di un riconoscimento autonomo del diritto nazionale francese (con il tradizionale ricorso alla metafora del medico, indicava la funzione del legislatore il cui compito era quello di curare il benessere del corpo sociale previa conoscenza specifica e disponendo la legislazione appropriata4.L’Antitribonian rientrava nella stessa operazione che Hotman compiva con un'altra opera, la Francogallia (1573), per quanto riguarda l'accreditamento di un diritto pubblico nazionale, dimostrato attraverso l'analisi storica. Comunque nell’A., il riconoscimento dell'autonomia del diritto francese faceva leva sulla prassi: il giurista insisteva sul fatto che il diritto romano giustinianeo non era in uso, se non per una minima parte, dato che le leggi mutano secondo i costumi e le condizioni di vita di ogni popolo. Forti erano le critiche a Triboniano per i vizi intrinseci contenuti nei libri da lui raccolti :

la compilazione aveva tagliato, scomposto, modificato le fonti del ius civile Romanorum, imbalsamando e snaturando un diritto che era a sua volta diritto storico;

sul piano dei contenuti, nella compilazione giustinianea si riscontravano norme non conformi all’aequitas e al diritto naturale (come xes quelle che mantenevano in una posizione di superiorità i cives Romanorum rispetto alle altre genti). In definitiva, il diritto romano era stato assai più complesso e ricco rispetto a quanto risultava dalla raccolta (secondo l'autore, neanche la ventesima parte del ius civile Romanorum era stato conservato attraverso la compilazione giustinianea!).

Fin qui la parte critica, che era funzionale al riconoscimento del diritto nazionale, anche se di questo, pur affermandosene l'esistenza, non se ne poteva definire esattamente i contorni, in presenza di una moltitudine di fonti diverse per contenuti, aree geografiche e provenienza.Era a questo punto che Hotman formulava la proposta di codificazione, proposta formulata in relazione ad un disegno di intervento legislativo del cancelliere francese Michel de L’Hospital (che aveva da poco chiamato il giurista alla Università di Bourges). Il giurista auspicava che, su iniziativa de L’Hospital, venisse insediata una commissione formata da giureconsulti, uomini esperti negli affari dello Stato e giuristi pratici, che avrebbe dovuto selezionare e raccogliere materiale e normativo attratto dai testi giustinianei, dalla filosofia e dall'esperienza e ispirato i principi naturali e delle genti, fondamentalmente contenuti nella legge mosaica. La compilazione avrebbe compreso diritto pubblico e diritto privato; disposta in uno o due volumi, con l'uso della lingua nazionale e in forma chiara ed intelligibile.Non si trattava di una proposta vaga pur mancando qualsiasi riferimento al metodo di disposizione. Il giurista, infatti, non aveva difficoltà ad ammettere che, se fosse apparso più comodo, la commissione avrebbe potuto direttamente seguire il diritto giustinianeo, purché fosse tenuto fermo l'obiettivo di esprimere nella raccolta un diritto aderente alla realtà giuridica della monarchia francese (il giurista non era affatto per l'accantonamento totale del diritto giustinianeo, ma piuttosto lo ritenevo ancora importante per quanto più utile esso contenesse!).

3 L'autore segnala che nella seconda parte inizia dal capitolo 11 e comprende perciò i capitoli 11-18.4 La metafora del medico era ricorrente tra i culti e derivava dalla cultura classica: secondo una concezione fisica dello Stato, c'era analogia tra la medicina e la politica.

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In sintesi, una compilazione di diritto nazionale, riguardante sia la materia pubblicistica sia quella privatistica, attenta alla prassi e rispondente ai principi filosofici e all'esperienza del diritto delle genti e perciò espressione di ratio ed aequitas, scritto in volgare (una proposta non certo nuova, come riconosceva lo stesso H., richiamandosi alle autorità classiche che attribuivano a Giulio Cesare e a Cicerone il disegno di una redazione semplice e ordinata delle leggi romane). Il giurista, che era anche storico, suggeriva una riforma che gli sembrava coerente con la vita della propria nazione e, insieme, ai valori universali della civiltà umana: a realizzarla però doveva essere il sovrano!.

Par 10 Ancora su Bodin: il sovrano come elemento ordinante.Bodin nel 1576 pubblicò La République. La persona era la stessa rispetto alla Methodus (erano allora in corso le lotte di religione, vera e propria guerra civile in quegli anni 70), ma la riflessione era nuova. I contenuti della proposta, fondamentalmente rivolta alla teorizzazione della sovranità, si nutrivano di idee elaborate già nel tardo medioevo; ma al tempo stesso l'opera rappresenta la maturazione culturale di Bodin : è evidente la grande erudizione, l'uso del metodo comparatistico, la scelta del volgare (coerente all'idea della storicità delle istituzioni e del loro aderire alla vita di ogni popolo). Il tema si può considerare una sperimentazione dell'interesse per il diritto pubblico.La novità perciò riguarda essenzialmente la svolta nella teorizzazione del giurista francese, che più volte dichiarava di aver scritto di fronte allo spettacolo impietoso dello Stato in balia dei sudditi armati, rovinosamente sgretolato nelle sue fondamenta. Rilevante è la definizione dello Stato e dei suoi compiti.Il punto di partenza è simile a quello di Doneau: la separazione del pubblico dal privato e la funzionalità del primo rispetto al secondo. Storicamente, lo Stato nasce perché ci sono gli individui e le loro proprietà da tutelare; gli individui sono animati da passioni come l'ambizione e l'avidità e sono continuamente in lotta tra loro. Questa analisi è molto vicina a quella più avanti proposta da Hobbes, anche se Bodin non aveva una concezione atomistica della società e la violenza tra gli uomini era, secondo lui, esercitata attraverso le aggregazioni in cui "naturalmente" l'uomo si trova: a cominciare dalla nascita, la famiglia.Come in Aristotele, la famiglia è un organismo naturale (è istituita da Dio); finalizzata alla procreazione; nucleo-base della vita sociale ed elemento fondativo dello Stato, che ad essa, alla sua funzione di riproduzione e di accrescimento, deve stabilità e prospettive di sviluppo ("la famiglia è la vera origine dello Stato e ne costituisce parte fondamentale"). In definitiva, essa permetteva all'organismo Stato di non estinguersi.Da ciò scaturiva la definizione di STATO = "il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune tra loro". Erano così indicati i 3 concetti integrativi dello Stato: le famiglie, la sovranità ed i beni comuni.Il giurista si occupava anche del problema delle origini storiche dello Stato, individuate, molto realisticamente, nella forza e nella violenza e non nel contratto sociale: "prima che ci fossero tra gli uomini città, cittadini e Stati, il capo di ciascuna famiglia era padrone nella sua casa e aveva potere di vita e di morte sui familiari; quando l'ambizione, l'avidità e la violenza presero il sopravvento, i capi famiglia vennero a scontrarsi. Da queste guerre alcuni uscirono vincitori, altri furono ridotti in servitù. Tra i vincitori ne fu eletto uno come capo e condottiero che mantenne la propria autorità sugli altri vincitori in qualità di sudditi fedeli e sui vinti in qualità di schiavi. Allora, la libertà piena e totale, di cui ciascuno aveva goduto fino a quel momento, si trasformò in servitù; se ai vinti fu completamente tolta, fu diminuita ai vincitori che ormai dovevano prestare obbedienza al loro capo sovrano" (in altri passi dell'opera, in realtà, B. riconosce altre forme secondo cui lo Stato può nascere, ma la regola è questa: “ciò che fa lo Stato è il potere, è la sovranità; e questi hanno le loro radici nella forza"). Si ha in sostanza questa situazione: l'uomo, membro naturale di una famiglia e dotato da Dio di libertà naturale, è cittadino dello Stato politico nato per effetto della forza e della violenza, che per B. sono mezzi contrari alle leggi di natura.

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Lo Stato si caratterizza per la SOVRANITÀ = "il potere assoluto e perpetuo" verso i sudditi. L'assolutezza implicava che il sovrano non fosse soggetto all'osservanza delle leggi, essendo lui il titolare esclusivo del potere di fare le leggi. Entriamo così nell'ambito del diritto: quello Stato che era nota da un elemento fattuale, come la violenza, si giuridicizza, e per operare ha bisogno di regole. 2 le problematiche da affrontare :1. Le prerogative della sovranità. La principale prerogativa era il potere di dare la legge, intesa come il comando del sovrano, senza il consenso di nessuno, a tutti in generale o a ciascuno come singolo (cd privilegio, una sorta di legge privata cioè "una legge fatta per un privato o per pochi privati, a vantaggio o a detrimento di colui per il quale è emanata"). Bodin non teorizza un sistema caratterizzato da leggi uguali per tutti; gli interessava solo affermare il monopolio del potere legislativo del sovrano: le leggi dipendevano solo "dalla sua pura e libera volontà". Supera così la vecchia concezione del principe-giustiziere per passare al re-legislatore: il sovrano non era espressione e garante degli equilibri e depositario primo luogo del potere di rendere giustizia, ma titolare essenzialmente di un potere superiore di comando che si esprimeva nella legge.[Interessante la contrapposizione di Bodin tra consuetudine e legge: la prima si affermava "dolcemente e senza forza" non poteva derogare alla legge e aveva vigore solo per beneplacito o tolleranza del sovrano; la seconda era atto di potere, spesso era comandata contro il volere di sudditi e poteva abrogare la consuetudine!].Il giurista negava che il processo formativo delle leggi implicasse il consenso di altri soggetti (cd leggi pazionate, stabilito cioè a seguito di raccordo con i rappresentanti dei ceti) perché in questo caso il principe sarebbe stato vincolato: infatti, una legge pattuita è per sua natura bilaterale e dunque non può essere abrogata unilateralmente dal principe; invece il potere assoluto ha come manifestazione immediata la facoltà di derogare alle leggi ordinarie, proprie o di un predecessore.

Nel potere di dare le leggi era compresa anche l' interpretazione. Ciò non toglieva ai magistrati l'esercizio della stessa interpretazione per adattare la norma al caso concreto, con il limite di non giungere ad un "annullamento pratico" della legge da qui, il principio per cui il giudice fosse subordinato alla legge e dovesse comunque applicarla secondo qualche interpretazione: come la dottrina medievale, Bodin riconosceva ai magistrati il potere di giudicare secondo equità.[Sul piano giuridico sembra aprirsi una ferita nell'impianto assolutistico del giurista che propose una sorta di composizione allorché, a metà strada tra filosofia politica, trattò della "giustizia armonica", nell'ultima parte dell'opera: la giustizia armonica è una sorta di concentramento della giustizia commutativa (fondato sul principio di eguaglianza) e della giustizia distributiva (basato sul principio di somiglianza e tesa a mantenere costanti rapporti di diseguaglianza). Per quanto riguarda il problema della interpretazione, questa forma di giustizia intermedia funziona così: "il principe riassume in sé l’aequitas, amministrando e correggendo parzialmente le ineguaglianze sociali, e la trasmette al magistrato come legge: l’aequitas del principe è la legge per il magistrato, ma questi, a sua volta, si propone nel suo ambito un ideale di giustizia armonica non diverso da quello del legislatore, bensì complementare". Questo è il nodo del rapporto tra legge, pronuncia del magistrato ed aequitas: "il magistrato è in potere della legge e l’equità è nell'anima del magistrato; essa arriva fino a integrare la legge nelle sue lacune; ma in realtà la retta interpretazione della legge non è che la legge stessa"].

Il potere di dare e annullare le leggi comprendeva tutte le altre prerogative sovrane: il diritto di dichiarare la guerra e concludere la pace, giudicare l'appello le sentenze dei giudici, nominare e destituire gli alti ufficiali e magistrati, stabilire imposte o esenzioni dal pagamento dei tributi, concedere grazie, modificare il valore delle monete, imporre ai sudditi il giuramento di fedeltà.

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2. Limiti del potere sovrano. Bodin utilizza principalmente la giurisprudenza medievale per elaborare la propria teoria di monarchia limitata. Si tratta di limiti abbastanza labili perché egli non era affatto disposto a concedere margine al diritto di resistenza e perché sul piano pratico era molto propenso a tener conto degli interessi dello Stato (o a dar spazio alla cd ragion di Stato).I limiti risalgono principalmente a 2 fonti:

a) il limite derivante dalla prima fonte atteneva ai comandi posti espressamente da Dio o da Lui impressi alle forze naturali; in pratica però si risolveva nel divieto per il sovrano di incidere nella più intima sfera individuale (B. non parlava di diritti naturali), a pena di rendersi colpevole di lesa maestà divina: rispetto del "naturale" stato di libertà di ogni uomo o della proprietà privata (sempre che non subentrasse un motivo ragionevole in presenza del quale era lecito un esproprio, previo compenso);

b) il limite imposto dalla seconda fonte riguardava il divieto di intervenire sulle leggi riguardanti "la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale", cioè le norme concernenti l’intangibilità del territorio dello Stato e la successione al trono.

Non era perciò previsto un diritto di resistenza contro il sovrano che violasse i predetti limiti (si ricordi che B. negava l'origine contrattualistica dello Stato). [Nella storica distinzione bartoliana tra “tiranno per mancanza di titoli” e “tiranno che violasse i limiti della carica”: nel primo caso, non si poteva parlare di resistenza al sovrano, perché il tiranno era un usurpatore e perciò teoricamente un privato cittadino; nel secondo caso, la resistenza non era ammessa perché nessun privato, neanche il magistrato, poteva arrogarsi il potere di giudicare lo sconfinamento da parte del sovrano e disobbedire ai suoi ordini].

Nel complesso La République è un'opera di teoria della politica, carica di storia, ma anche di ambiguità (specie nel linguaggio) e di oscillazioni, soprabbondante nel testo (le ripetizioni non sono rare) e prolissa.Bodin era convinto che la "politica" fosse la regina delle scienze e per il suo trattato di politica utilizzò strumentalmente sia il diritto sia la storia; infatti, è usuale in Bodin l'impiego di esempi storici per illustrare e sorreggere le proprie costruzioni [si trova anche l'affermazione che "non bisogna guardare a ciò che si fa a Roma, ma piuttosto a ciò che si deve fare". Inoltre, è da notare che il continuo uso di esempi storici come prova delle sue asserzioni era in contrasto con l'assunto di partenza che gli Stati nascono con la forza e la violenza!. Un altro teorico dell'assolutismo, Thomas Hobbes, negherà che un qualunque discorso razionale sullo Stato possa fondarsi sulla storia!].L'opera era una trattazione laica del problema del potere finalizzata a rendere ordinata la vita civile, e la cui teorizzazione si prestava a parecchie applicazioni, a cominciare dalle diverse forme che poteva assumere la sovranità. Ma è chiaro che il giurista aveva in mente la Francia del tempo. Al di là delle ambiguità presenti, è possibile scorgere nettamente la direzione indicata dall'autore: la ricerca dell'ordine che, nella realtà giuridico-politica, doveva incentrarsi sul potere dello Stato, operante a sua volta tramite lo strumento volontaristico della legge !.

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CAPITOLO 2 LA TRASFORMAZIONE DEL DIRITTO COMUNE NELLA PRASSI E NELL’INSEGNAMENTO.Par 1 Si rinnova il vocabolario: ius commune, ius municipale, ius hodiernum, ius novum, ius patrium.Nella bibliografia, da quella classica a quella contemporanea, ricorre frequentemente il concetto di IUS MUNICIPALE = nozione tendente ad individuare il complesso del diritto (ius civile) proprio di ciascun ordinamento.[Nell’esperienza romana, con “ius civile” si indicava in origine il diritto che legava i cives; nell’età postclassica, l’intero diritto dell’impero romano. Per antonomasia, la categoria del ius civile si identificò col diritto romano. Etimologicamente, era il complesso normativo di ogni specifico ordinamento (civitas)].Per il giurista umanista Jean Coras (1512-72), tutto ciò che riguardava l’organizzazione giuridica introdotta dall’uomo per le esigenze della vita di relazione era mutevole perché orientato dal criterio della pubblica utilità; esso costituiva il cd IUS MUNICIPALE = diritto proprio di ogni ordinamento. Si andava così identificando il dir. municipale col diritto positivo all’interno di ogni ordinamento (ius municipale = ius civile) (non considerandolo più come il complesso di fonti del dir. particolare in rapporto al dir. comune).

In sostanza, il IUS COMMUNE si poteva intendere in una triplice accezione:1. come diritto comune delle genti;2. come ius civile Romanorum (cioè il diritto romano raccolto da Giustiniano);3. come diritto di una civitas intesa come ordinamento.

Siamo in presenza di una comunità che si costituisce in un ordinamento sovrano; nel 1500, infatti, tra i giuristi, emerge il concetto di PATRIA = comunità resa coesa dalla finalità del bene comune e dal legame (rappresentato dal diritto) che unisce i singoli membri: si apparteneva ad una patria in quanto si sottostava ad un complesso normativo che definiva un certo ordinamento sia verso l’esterno sia verso l’interno. La particolare storia e civiltà di un certo popolo si esprimevano tramite le sue leggi. Il diritto patrio, quindi, rappresentava l’identità di ciascuna comunità e nello stesso tempo costituiva la principale garanzia di mantenimento.

Concezione che si affermò soprattutto in Francia nel clima delle guerre di religione, nella seconda metà del 1500: l’elemento religioso era divenuto motivo di divisione, perciò come elemento di coesione si fece avanti il senso di appartenenza e di sottoposizione allo stesso ordinamento.Attraverso le armi del diritto e della storia, i giuristi furono tra i fautori del sentimento nazionale (ciò contribuì anche all’emergere della sovranità dello Stato).Lo sviluppo del dir. patrio non fu lo stesso ovunque; nella Francia di antico regime fu più lento di quanto ci si aspettasse e, come ideologia, divenne meno importante una volta consolidato il potere della monarchia sia all’interno (fine delle guerre di religione) sia nei confronti della Chiesa di Roma (trionfo del Gallicanesimo). [ GALLICANESIMO = politica tesa ad affermare le libertà (cioè i privilegi da cui derivava uno status particolare) della Chiesa francese rispetto al pontefice romano; più estensivamente, la politica volta a negare l’ingerenza della Chiesa romana negli affari temporali dello Stato e la subordinazione del clero nazionale alla monarchia].A complicare il tutto, il fatto che nelle fonti si trovano adoperati anche i termini Ius Hodiernum e Ius Novum. Il IUS HODIERNUM indicava la vigenza di una regola che non c’era in passato; dunque era anche un IUS NOVUM, termine usato per indicare che quel diritto derivava dal vecchio tronco comune.Con il termine IUS PATRIUM (spesso usato nelle fonti senza distinzione con le diciture precedenti) si designava il complesso “unitario” del diritto dello specifico ordinamento.

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Par 2 Il diritto patrio e l’istituzione di cattedre per il suo insegnamento.Si commetterebbe un errore grossolano se si ritenesse che l’impulso principale al processo di affermazione del “diritto municipale” sia stato dato dall’azione dei sovrani nei loro provvedimenti istitutivi delle cattedre di dir. patrio !.Alcuni esempi: in Francia, nel 1679 fu introdotto l’insegnamento del dir. francese, in cui si insegnava il dir. delle ordonnances regie e delle coutumes; nell’area tedesca già nel 1634 si assegnò una cattedra di dir. germanico; nel 1735 a Napoli si istituì il corso di ius regni; in Spagna per tutto il 700 si sviluppò una politica di impulso per l’insegnamento del dir. patrio, dopo che nel 1713 Filippo V aveva sollecitato una maggiore attenzione per questo diritto nelle lezioni universitarie, ma la prima cattedra si avrà solo nel 1771; nel 1772 è la volta del Portogallo.Sono questi provvedimenti che riguardano ogni tipo di Stato, piccolo o grande che sia; le date della istituzione delle cattedre sono tutte relativamente tarde: quei provvedimenti vanno letti sia come impulso per promuovere dall’alto l’autonomia del dir. patrio sia come riconoscimento di una prassi già sperimentata nei Tribunali e della quale anche l’insegnamento teneva conto, in qualche misura, attraverso la considerazione del ius hodiernum.Come si era andata affermando la capacità espansiva del diritto municipale nella prassi ?.

1) Innanzi tutto, in base al principio classico medievale per cui lo statuto andava interpretato secondo il ius commune, non si voleva restringere la portata del diritto particolare, quanto “rendere intelligibile ed applicabile (lo statuto) con i soli strumenti ermeneutici disponibili, che erano quelli offerti dal ius commune”.

Nel corso del 1600, per i diritti principesco, statutario e consuetudinario, fu ammessa l’interpretazione estensiva e persino analogica, ampliandone così i campi di applicazione.

In Italia, dove il contesto di riferimento era cambiato (non più il piccolo Comune, ma le più vaste aggregazioni politiche), si tendeva comunque a riconoscere forza espansiva alle fonti di quegli ordinamenti (civitates) che, di diritto o di fatto, non fossero subordinati ad altri o fossero almeno in posizione dominante.

2) Inoltre, il diritto romano era considerato come ratio scripta, cioè come complesso di norme razionali, da cui trarre i principi dell’ordinamento e la disciplina generale degli istituti. Era compiuta una duplice operazione: a) i principi del dir. naturale, considerati troppo vaghi dal giurista positivo, erano “depurati” della loro astrattezza prendendo la forma degli istituti romanistici; b) invece, gli istituti del diritto romano, di formazione secolare e con mutevoli soluzioni in funzione di un dir. pratico, perdevano la propria dimensione storica per essere rimodellati in senso universale.Il risultato fu di procedere verso una assimilazione tra diritto romano e diritto naturale. Ciò non comportò comunque un “soffocamento” delle fonti nazionali, essendo questo processo diretto verso il Ius Novum in quanto inglobava il diritto nuovo entro la ricostruzione giusnaturalistica che prendeva le forme dal diritto romano. Tale “inglobamento” permetteva di articolare e rendere praticamente fruibile la ricostruzione razionale degli istituti ed era necessario, in quanto una società civile non può vivere solo sulla base di principi generali e astratti.In Germania, parallelamente, era messa in discussione la teoria della fundata intentio, elaborata dalla dottrina italiana in ambito processuale, recepita dalle regioni tedesche. Secondo tale teoria, il diritto particolare (consuetudine del luogo, consuet. universale, dir. statutario) prevaleva sul diritto comune, ma doveva essere provato dalla parte interessata nel caso in cui se ne richiedesse l’applicazione in giudizio; il giudice era altrimenti tenuto ad emanare la sentenza sulla base del diritto comune recepito.

Par 3 Profili della Scuola Elegante e dell’Usus modernus Pandectarum.Vale la pena di ricordare la dottrina, inizialmente affermatasi nei Paesi Bassi, detta di SCUOLA ELEGANTE, diffusasi in tutta Europa, che interagì con i vari filoni dell’Usus modernus Pandectarum, costituendo un modello di riferimento nel processo di nascita dei vari diritti patri !.

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La scuola olandese appare più duttile e fruibile, rispetto alla dottrina francese e spagnola, nonostante che i corsi della Università di Leida, appena fondata (1575), fossero finalizzati alla preparazione dei dirigenti e quadri intellettuali del nuovo Stato (staccatosi dalla monarchia spagnola) e che la professione del credo calvinista fosse un requisito indispensabile per potervi insegnare.

La Scuola Elegante era educata alla puntuale interpretazione delle fonti romanistiche; interessata più all'aspetto pratico del diritto, portata a operare un riscontro tra i testi romanistici e l'uso attuale, per individuare quanto dei primi fosse ormai obsoleto: di solito, l'accantonamento delle soluzioni del diritto romano era ricondotto alle particolarità storiche inerenti all'esperienza giuridica romana. (Tra 600 e 700 tutto ciò che non era più nella prassi giuridica era confinato nella categoria di subtilitas iuris ovvero ciò che era troppo sottile e ricercato, superfluo e perciò inutile).

Presupposto di questa operazione, la constatazione che l'uso attuale era divergente rispetto alla regola antica, per poi giungere alla giustificazione storica (che soccorreva a posteriori); spesso trapelava poi un senso di rifiuto per la regola del passato, considerata espressione di valori negativi. Si sviluppò così il genere letterario diretto alla ricerca delle antinomie tra diritto romano e norme nazionali, alla individuazione delle "leggi abrogate" [l'opera più famosa è forse il De legibus abrogatis (1649) del giurista olandese Simon Groenewegen: snodandosi nella sequenza dei titoli delle varie parti della compilazione giustinianea, il trattato indicava, legge per legge, la disciplina attuale allorché divergeva dal ius civile Romanorum l'indicazione esordiva con un hodie (oggi) e giustificata dall’appoggio ai mores (costumi) o a qualche giudicato della Suprema Corte olandese o alla letteratura pratica]. Questa tipologia letteraria si richiamava direttamente al ius novum.Altro genere letterario, si sforzava di ricostruire il diritto vigente scovando un raffronto tra i testi del corpus iuris e le norme e la giurisprudenza locali: lo svolgimento si articolava entro la dialettica tra il passato e l’oggi (olim … hodie), tra il diritto consuetudinario e il diritto comune. Queste opere mostrano l’aspetto della continuità del diritto comune in Europa, ma anche la sua sostituzione con il ius patrium. [In questo contesto, possiamo ricordare l'opera di un altro giurista pratico olandese –Van Leeuwen, la Censura Forensis : ha una chiara impostazione umanistica (concezione della giurisprudenza fatta derivare dal diritto naturale, rivendicazione della sua superiorità rispetto alle altre arti, principio della storicità del diritto, necessità di coniugare la teoria con la prassi, critica ai giuristi medievali); tuttavia ha anche aspetti innovativi: a) il tentativo di applicare la metodologia deduttiva di Cartesio (la trattazione è sempre essenziale, parte dalla definizione dell'istituto per poi passare all'articolazione della disciplina, dedotta dai principi razionali del ius commune); b) il tentativo di dare un ordine alla trattazione dividendo la materia in 5 libri più una seconda parte dedicata alla procedura (civile e criminale); c) il tentativo di guardare alla prassi anche attraverso una comparazione tra i diversi ordinamenti (prima la disciplina dei Paesi Bassi, poi degli altri ordinamenti).In tutte queste opere, c'è la consapevolezza dell'aspetto storico dell'esperienza giuridica da ciò deriva la concezione relativistica del diritto, mutevole perché costruito dall'uomo.

Più importanti per la loro straordinaria circolazione furono poi le trattazioni istituzionali di diritto romano, nelle quali fu evidente il discostarsi della soluzione giuridica vigente rispetto a quella della compilazione giustinianea in virtù di un’espressa norma locale o di un uso del foro. Questa soluzione discorde era chiamata ius hodiernum o anche modernum: comprendeva le regole derivanti dalla legislazione e dalle consuetudini territoriali, i principi sviluppati dalla giurisprudenza dei Tribunali Supremi di ciascuno Stato. [XES l’opera di Vinnius, Commentario alle Istituzioni : opera di grande successo, di cui si ebbero decine di edizioni anche fuori della Repubblica olandese fino alla seconda metà dell'800 e testo di riferimento per l'insegnamento in molte Università europee durante tutto il 1700].Non si trattava di opere rientranti in una tipologia ben definita; l'accostamento più ovvio va al genere delle differentiae [tipologia di opere diffusa sin dal periodo dei glossatori, portata a

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individuare un catalogo di differenze tra diversi diritti] e a quello dei compendi [il termine “compendio" era usato per indicare un'opera di semplificazione e di sintesi, e anche per le opere legislative che volessero eliminare le contraddizioni tra le norme].Ciò che è importante notare è la dimensione pratica delle trattazioni, insieme alla diffusa sensibilità umanistica.

Vicino ai canoni della Scuola Elegante, era la dottrina dell’ USUS MODERNUS PANDECTARUM (così denominata dal titolo dell'opera di Samuel Stryk apparsa nel 1690). Questo movimento culturale abbraccia gran parte del periodo storico compreso tra il 1500 e 1700, caratterizzato da una grande capacità espansiva perché a partire dalla originaria area tedesco-olandese, pervase l'intera scienza giuridica continentale; è evidente un certo gusto per l'impianto razionale della trattazione e la propensione a guardare al diritto nazionale, specialmente per quanto si allontanava dal diritto romano, e comunque rivolto a cogliere il diritto positivo dei rispettivi ordinamenti (è stato detto che era possibile al suo interno distinguere una corrente romanistica, una germanistica ed una giusnaturalistica).Inizialmente inseriti in margine ai corsi sul Digesto o sul Codice o richiamati nelle disputationes scolastiche, i riferimenti agli usi vigenti (mores recepti) e al ius hodiernum tesero a costituire una trattazione a sé, con un insegnamento impartito ufficialmente sia per la propensione alla utilità e concretezza degli studi sia per le esigenze provenienti dal mondo delle professioni (+ dinamico), sia per le aspre critiche rivolte alla astrattezza dell’insegnamento giuridico e al distacco tra la teoria dell’Accademia e la prassi dei Tribunali. [Un grande critico in questo senso fu il tedesco Thomasius: le sue critiche (distruttive) erano dirette contro il diritto romano come diritto dell’Impero, molto meno contro i suoi contenuti; egli insisteva per un programma di studio imperniato sul riconoscimento dell'autonomia del diritto tedesco e la sua articolazione degli studi di diritto apparve addirittura rivoluzionaria (da effettuarsi in soli tre anni!). Di opinione opposta Huber, secondo cui era importante studiare anche le parti superate (obsoleta) del diritto romano, visto che per la connessione interna del corpus iuris anche la norma non più in uso serviva a chiarire la disciplina vigente].

Concetti simili sulla necessità di stabilire insegnamenti utili e legati ai bisogni civili erano allora diffusi nelle menti più aperte. Le tensioni tra mondo dell'insegnamento (teso a generalizzare e astrarre) e mondo delle professioni (interessato alla risoluzione di casi pratici) erano decise sul piano dell'azione, ma prendendo comunque atto che i due momenti erano entrambi indispensabili per la formazione, pur essendo distinti e dotati di un proprio "statuto". 2 mondi non coincidenti, ma correlati e convergenti, sicché si può dire che tutt'oggi è valido l'antico insegnamento per cui "la teoria del diritto si insegna nelle scuole, la pratica si acquisisce nei tribunali"!.[Per Huber, ad esempio, la conoscenza teorica del diritto era basilare per l'operatore pratico, ma al tempo stesso l'insegnamento non doveva soffermarsi troppo sulle parti antiquate, non più oggetto di applicazione, bastando qualche accenno in funzione del diverso uso moderno].

Si può ritornare ora al discorso sull'insegnamento del Ius hodiernum ! . Ci si può chiedere, xes, con quanta consapevolezza ci si richiamasse ai mores antiqui: la loro antiquitas era addotta come genuina testimonianza del diritto nazionale che aveva saputo "resistere" al diritto romano, ma d'altra parte quei costumi antichi erano innalzati a base del ius modernum.Chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi era la consuetudine, nella sua funzione negativa: secondo l'orientamento dottrinale per cui la vigenza del diritto comune stava essenzialmente in un elemento di fatto (il suo uso) e non in un provvedimento autoritativo, bastava invocare una consuetudine difforme o abrogativa per dichiarare obsolete le relative soluzioni giuridiche; sicché, in quella età che solitamente è collegata al trionfo dell'assolutismo, paradossalmente si assiste al crescere dell'importanza della consuetudine. I giuristi, xes, distinguevano tra consuetudini

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particolari e consuetudini generali o universali; la stessa giurisprudenza dei Tribunali era accreditata del rango di legge, se solo si fosse conformata al precedente ovvero alla consuetudo iudicandi.In sostanza, mancando le condizioni per un diritto che derivasse unicamente dall'autorità del sovrano, la scienza giuridica faceva leva sulla fonte consuetudinaria, di cui naturalmente si dichiarava interprete.Il parametro di riferimento era sempre il diritto romano e, per certe materie, il diritto canonico con la relativa interpretatio; ma in effetti i contorni pratici della disciplina giuridica erano enucleati attraverso la giurisprudenza dei Tribunali, le legislazioni e le consuetudini della propria e di altre regioni. Certo nelle diverse regioni il parametro rappresentato dal diritto romano non ebbe lo stesso valore.La generazione successiva a quella dell’ Usus modernus pandectarum fu orientata a fondere romanesimo, giusnaturalismo e germanesimo entro una visione che ormai riconosceva un posto autonomo al diritto nazionale. Par 4 Un tema di moda: la congiunzione tra la storia e la giurisprudenza.Affinché il diritto patrio assumesse un valore forte occorreva che si facesse strada il soggetto cui quel diritto potesse fare riferimento: tale soggetto era la comunità politica = un soggetto dotato di autonomia e di memoria storica. E il senso di comunità doveva essere condiviso da singoli e gruppi!.Fu la grande storiografia del 1500-600 a far emergere questa memoria con una operazione di costruzione e idealizzazione che ebbe una proiezione immediata nel campo del diritto.X Esempio : in Germania, paese di estrema frammentazione politica, non sarebbe stato possibile parlare di ius germanicum, né stabilirne l’insegnamento, nel ‘700, se insieme non si fosse sviluppata una tendenza germanista nella storia, che ebbe come espressione significativa l'opera del medico-giurista Hermann Conring (1606-81): De origine iuris germanici (1643) dove si accreditava l'idea che ci fosse stato un originario diritto tedesco, formato da consuetudini e leggi, che aveva resistito alla sovrapposizione del “diritto straniero”. La propensione nazionalistica della storiografia del Conring ebbe grande risonanza in diversi paesi; l'autore, insistendo sulla necessità di considerare la disciplina in uso, propose di raccogliere in un piccolo libro il diritto effettivamente vigente nella prassi (egli suggeriva di trarre le fonti dalla consuetudine e dal diritto scritto, purché in uso, contenuto nel diritto romano, in quello canonico e nelle sentenze dei dottori!) (Proposta recepita dalle generazioni successive, come in Thomasius, e nelle opere degli inizi del ‘700, che posero con forza l'esigenza di una separazione, anche nella didattica universitaria, tra diritto germanico e diritto romano). L'esperienza tedesca mostra che di diritto patrio è possibile parlare anche con riferimento ad ordinamenti nei quali la centralizzazione degli apparati o l'affermazione della sovranità era debole o tarda.Il diritto patrio emergeva di volta in volta come semplice istanza di razionalizzazione e semplificazione del diritto esistente o poteva procedere per impulso del potere centrale; sempre però in corrispondenza con il concetto di comunità, della quale esso esprimeva le forme di convivenza, gli equilibri tra le forze sociali, cioè i caratteri specifici del vivere civile sotto forma di ordinamento (rifletteva la struttura istituzionale, racchiudeva i rapporti con la Chiesa, ecc.).Siamo qui di fronte al problema dei contenuti del diritto patrio! Si era diffusa l'idea per cui:

ciò che noi chiamiamo diritto pubblico è il proprium, cioè quanto attiene a ciascuna forma di governo e più in generale alla identità di ogni popolo organizzato;

il diritto privato è relativamente costante nei diversi popoli, perché sono simili gli schemi entro cui si inquadrano giuridicamente le principali operazioni del vivere civile.

Pertanto:Il diritto pubblico era considerato intrasmissibile, derivava ed era conosciuto attraverso la storia;

il diritto privato era ritenuto trasmissibile e si rivelava per mezzo della ragione.

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Ciò spiega l'interesse specifico dell'analisi storica per il diritto pubblico !.Il tema della congiunzione tra storia e giurisprudenza divenne un vero e proprio topos a cavallo tra 600 e 700, periodo in cui si diffuse la considerazione della storia del diritto come oggetto di riflessione autonoma. In sostanza, si accettava l'idea che il corpus iuris fosse un diritto del passato (altra cosa rispetto al diritto vigente), ma contenesse un tesoro di rationes.Il tema del legame tra storia e diritto attraeva gli storici, i giuristi di stampo riformatore, tutti personaggi appartenenti alla cultura riformata e attivi tra i Paesi Bassi, Germania e Svizzera, a cavallo tra 600 e 700 [XES Jean Barbeyrac (1674-1744), divulgatore dell'opera di Grozio; inaugurando a Losanna la nuova cattedra di diritto naturale e pubblico, pronunciò una prolusione sull'utilità della storia per gli studi del diritto o piuttosto sulla necessità che il giurista si formasse attraverso la conoscenza della storia che fosse innanzi tutto visione storica del mondo].

Più o meno nello stesso periodo, 1716, in Francia, il futuro cancelliere D’Agusseau compilò per il figlio un programma di lavoro rivolto alla formazione del magistrato, dove si soffermava sullo studio del diritto e della storia: dopo avere indicato con precisione i riferimenti principali di diritto romano e di diritto naturale, raccomandava di approfondire la collocazione storica dei testi, cioè la storia del diritto.

Montesquieu, da parte sua, dichiarava che occorresse illuminare la storia attraverso le leggi e le leggi attraverso la storia (con questa affermazione sintetizzava tanti diversi atteggiamenti!).

In conclusione, il diritto pubblico era visto quale espressione normativa della storia di un popolo o comunità nozione questa sviluppatasi nei paesi dell'area tedesca, per assicurare i diritti di sovranità ai prìncipi rispetto all’Impero e per garantire, entro lo Stato, la convivenza di comunità appartenenti a confessioni religiose diverse. Inoltre, la formazione pubblicistica era ritenuta essenziale per rientrare nei ranghi della burocrazia!.

Ciò spiega perché nei territori tedeschi e nei Paesi Bassi, l'insegnamento di ius modernum, di ius patrium e di ius publicum fosse già presente nel 600. Infatti, la materia pubblicistica costituiva l'ossatura portante del diritto patrio.

Il diritto patrio (o municipale) comprendeva la disciplina giuridica vigente esclusivamente entro un certo Stato e disciplinava in scarsa misura i rapporti privatistici;

il diritto pubblico nasceva come materia filosofica, riguardando i fondamenti del potere ed i doveri dei sovrani e dei sudditi, salvo poi comprendere la disciplina di apparati ed istituzioni propri della comunità politica.

Par 5 I contorni del diritto pubblico e il suo insegnamento nel rinnovato quadro degli studi universitari.

La materia pubblicistica, ovviamente, non era mai stata estranea alla sfera dell'insegnamento.

L’esigenza di formare funzionari, più che docenti, portò ad istituire e generalizzare l'insegnamento del diritto pubblico nelle Università, solo nell’area tedesca; mentre in Francia, il diritto pubblico non ebbe alcuna autonomia nei programmi didattici ancora per tutto il 1700, nonostante le spinte dei philosophes (grazie ai quali la voce "diritto pubblico" fu inserita nella Encyclopédie con una esposizione precisa e articolata).

Negli Stati italiani, la prima istituzione della cattedra (a Pisa e assegnata al giovanissimo Pompeo Neri) risale solo al 1726; si è dovuto aspettare la seconda metà del secolo perché tali cattedre avessero una certa diffusione e stabilità (Pavia 1742, Napoli 1750, Padova e Modena 1764).

È nota l'avversione di Vittorio Amedeo II per l'introduzione nelle Università di Torino dell'insegnamento di diritto pubblico: il sovrano temeva i pericoli derivanti dalla commistione tra diritto pubblico e politica, per il possibile ingresso delle discussioni politiche nelle aule universitarie. Perciò egli preferiva che giovani, già selezionati all'interno dell'aristocrazia subalpina,

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in attesa di un incarico in diplomazia, si formassero in qualche Università straniera (Lipsia, Strasburgo).

Stessa avversione mostrò il cancelliere francese Maupeou intorno al 1770: si sosteneva che un professore di diritto pubblico era del tutto inutile, visto che in ordine a quella materia le sole regole erano date dal beneplacito del re. [Montesquieu affermava che il diritto pubblico era stato tanto piegato agli interessi e alle passioni di prìncipi, che in pratica racchiudeva l'ambito entro cui essi stessi violavano la giustizia].

Allora, per la formazione regolare dei funzionari e dei diplomatici in Francia fu sperimentato un canale speciale: l’Académie politique. [Di fatto, l’Accademia fondò l'insegnamento sulle opere di Grozio e Pufendorf : il diritto pubblico avrebbe offerto le nozioni generali, da integrare con la conoscenza della storia moderna, delle lingue e dei trattati di pace. La scuola ebbe però vita breve (1712-19), essendo mal vista dall’aristocrazia e in fondo anche dal governo che preferiva avere libertà nell'assegnazione dei posti della diplomazia !].

Secondo Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), occorreva insegnare la disciplina del diritto di natura, delle genti e pubblico, ma non nella Facoltà di giurisprudenza, bensì in una apposita Accademia stabilita per la formazione dei futuri amministratori dello Stato e collaboratori del sovrano ("La scienza del diritto pubblico era una forma di giurisprudenza superiore, che insegnava i princìpi della giustizia, i reciproci doveri tra prìncipi e sudditi e l'equità stessa delle leggi").

In effetti, le preoccupazioni di Vittorio Amedeo o di Maupeou avevano un certo fondamento perché, sin dal nascere della scienza della politica, era radicata l'idea di una sua stretta connessione col diritto pubblico; anzi la posizione dei "politici" spingeva perché il giurista si occupasse solo del diritto privato (ritenuto il diritto) e perché la materia pubblicistica spettasse in esclusiva al cultore della politica.

Nel 600, era viva la concezione per cui il diritto non è tanto un comando dell'autorità quanto l'applicazione della misura del giusto nelle relazioni esterne tra gli individui di una comunità.

Il diritto pubblico aveva un aspetto soprattutto artificiale, legato all'intervento della volontà politica: una volontà che doveva operare entro le condizioni storiche che avevano determinato le istituzioni.

Nella stessa direzione di una divaricazione tra la sfera privata e pubblica di diritto agivano le tendenze giuspositivistiche del 600, che da un lato postulavano il carattere artificiale dello Stato, unico depositario della sovranità, dall'altro liberavano le relazioni entro la società civile (considerate "naturali") dal momento che gli individui erano sottoposti solo ai comandi formulati dal sovrano e per il resto potevano agire secondo il libero gioco dei propri interessi.

Era diffusa l'idea che il diritto pubblico avesse una natura differente rispetto al diritto privato, ma era pressante l'esigenza di studiarlo e di precisare le condizioni in cui la volontà del sovrano poteva legittimamente operare. [Possiamo citare l'esempio di Leibniz : sostiene la necessità di studiare la storia e la politica per chi intendesse coltivare gli studi di diritto pubblico!].

L’insegnamento del diritto pubblico nelle Università tedesche e olandesi nacque per studiare 3 sfere tra loro connesse:

1. l'uomo, considerato come individuo indipendente, ma contemporaneamente essere sociale;2. l'organizzazione e la forma dello Stato;3. i rapporti tra gli Stati.

Il diritto pubblico era una disciplina riguardante l'uomo che, dotato di diritti naturali, partecipava alla vita "delle società" : quelle considerate naturali, come la famiglia, e quelle più vaste ed artificiali come lo Stato, passando per quelle intermedie anch’esse vitali (le corporazioni di mestiere, le istituzioni locali, ecc.).

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Le tematiche di diritto pubblico erano trattate entro l'insegnamento di diritto naturale ed erano connesse con la politica in quanto consideravano l'uomo sociale, cioè in rapporto agli organismi in cui vive. La prima cattedra di diritto naturale, 1661, fu attribuita a Pufendorf; poi si moltiplicarono gli insegnamenti di quella disciplina nelle Università europee con uno spostamento dalle Facoltà letterarie, in cui la cattedra era originariamente nata, a quelle di giurisprudenza.

Negli Stati italiani, i provvedimenti riguardanti l'istituzione di corsi di diritto naturale nelle Facoltà di giurisprudenza furono emanati abbastanza tardi, ma, visti i legami tra le diverse discipline, di fatto si suppliva attraverso l'insegnamento di etica o filosofia morale: così, attorno alla metà del 700, in diverse Università, il legame tra la filosofia morale e il diritto pubblico fu dichiarato e concretamente realizzato nei corsi.

In Italia, ebbe un forte peso la crisi delle Università tra la fine del 1600 e l'inizio del 1700 una crisi in cui si rifletteva il debole peso istituzionale della cultura tradizionale e la chiusura dell’insegnamento entro circuiti cittadini (basso livello degli insegnanti, precarietà o assenza di corsi: ciò portò i canali principali di formazione alla forma delle lezioni private o istituti alternativi).

È nel secondo decennio del 1700 che si registrano le prime proposte organiche di riforma; esse preludevano alla "rifondazione" delle varie Università. Si può ricordare il progetto del letterato veronese Scipione Maffei per l'Università di Padova 1715 e Torino 1718: denunciata l'arretratezza del curriculum di ciascuna Facoltà, in nome di una riappropriazione –laica- dei compiti formativi da parte dello Stato, i progetti suggerivano una reimpostazione generale delle materie e dei programmi, che prevedeva lo studio obbligatorio delle lingue (italiano, latino e greco) e l'istituzione di una classe, o facoltà, di storia.

Per la Facoltà di giurisprudenza, Maffei proponeva di stabilire un curriculum fondato sulla espansione degli insegnamenti anche se non sull'accrescimento delle cattedre (otto o nove, come rispettivamente a Padova e Torino). [XES a Padova, le cattedre dovevano essere: istituzioni, diritto civile, diritto criminale, diritto feudale (nel cui ambito si sarebbero dovute tenere lezioni straordinarie di diritto pubblico), diritto veneto e municipale (con lezioni straordinarie di arte notaria), erudizione legale(cioè storia del diritto), diritto canonico moderno, diritto canonico antico.].

Maffei, in un parere destinato a Vittorio Amedeo, suggeriva di non limitarsi ad emulare i progrediti modelli delle Università europee, bensì di promuovere una Università diversa e tale da superare tutte le altre, dove magari si sarebbe dato spazio ad insegnamenti volti ad educare alla consapevolezza storica.

L'impatto di queste proposte fu abbastanza tenue: perché nei programmi universitari di diritto si avesse un riconoscimento generalizzato di nuove discipline, occorrerà aspettare le riforme del periodo illuminista. Fu allora che :

si diffuse l'insegnamento del diritto naturale, base scientifica della formazione del giurista; in una generale restrizione dello studio del diritto romano, a questo fu dato risalto come

introduzione generale al diritto privato e come manifestazione storica di ratio scripta; crebbe la considerazione del diritto specifico dello Stato, il quale doveva avere una

trattazione almeno come ius hodiernum ma che spesso acquistò autonomia e dignità culturale.

Si aggiunsero alcune discipline autonome, essenziali all'obiettivo pratico di formare funzionari: oltre al diritto pubblico e naturale e al diritto municipale di cui si è detto sopra, si considerino:

il diritto criminale (il cui studio autonomo si affermò nel 1500 – nell’ordine: Bologna, Padova, Perugina, Roma, Pavia, Torino-. I corsi seguivano la falsariga dei principali titoli

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del Codice e del Digesto dedicati alla materia penale, ma in quegli ordinamenti in cui vigeva una legislazione speciale emanata dal principe questa era tenuta presente);

il diritto feudale (materia che gli ordinamenti universitari cinquecenteschi ereditarono dal tardo Medioevo);

il diritto processuale (una lunga tradizione dottrinale aveva dato vita a numerosi commentari sul titolo de actionibus e dai quali erano nati specifici insegnamenti. Col tempo troviamo insegnamenti più nettamente caratterizzati che andavano sotto il nome di praxis).

A tutto questo si aggiungono altre materie pratiche, cioè finalizzate alla formazione professionale, come xes quella notoria (tradizione risalente alle scuole bolognesi duecentesche).

Par 6 Tra insegnamento e scienza del diritto.

Le novità si concentrarono nell'età delle riforme illuminate del ‘700. Potrebbe sembrare che dopo tanto parlare di diritto patrio, diritto pubblico e diritto naturale, in fondo la formazione del giurista fosse ancora ancorata allo studio delle Istituzioni e delle Pandette giustinianee, in funzione di ordinamenti ancora di diritto comune. Ma, nel seno delle nuove discipline, rivolte al diritto pubblico e al diritto naturale, c'era già "la materia" di ulteriori insegnamenti (diritto costituzionale, economia politica, statistica) che avrebbero, di lì a poco, acquistato un'autonomia scientifico-didattica.

Inoltre, nel corso del 700 si generalizza nell'insegnamento l'indirizzo storico, secondo cui erano studiati sia il diritto romano sia il diritto naturale. La cultura giuridica si orientò verso la comparazione (spaziale e temporale), ritenuta vitale per penetrare lo "spirito delle leggi" (Montesquieu sosteneva l'idea che era necessario conoscere e raffrontare le circostanze in cui quelle leggi erano state emanate).

Sicché nei programmi universitari divenne prevalente l'insegnamento di stampo neoumanistico che studiava il diritto romano nella sua storia e per i princìpi di ragione da esso deducibili: questo orientamento si era affermato solo occasionalmente tra 500 e 600, ma all'inizio del 700 si diffuse l'attenzione per i tempi e i modi di formazione del corpus iuris e del suo uso (si ebbero opere che furono vere e proprie storie del diritto, come in Thomasius).

È vero che la storia del diritto non fu insegnata in quanto tale nelle Università italiane fino all'800 inoltrato, ma è un segno della nuova sensibilità il fatto che anche i più poveri manoscritti dettati per l'insegnamento contenevano un'introduzione storica sulla formazione del diritto romano e sui suoi sviluppi (l'insegnamento autonomo della storia del diritto negli Stati italiani risale a pochi anni prima dell’Unità: 1846 e 1850 nel Regno sabaudo, 1857 per quello del Lombardo-Veneto).

Quindi, nel corso del 600 si ha una fase di snodo nell’insegnamento del diritto. Si tratta di una crisi tutta interna che riguarda il metodo e i contenuti da rinnovare. Ci fu la richiesta di una nuova formazione intellettuale e professionale. Di solito le nuove proposte provenivano dall'esterno, e non dagli impulsi delle Università, che del resto non ricoprivano più un ruolo centrale, come mostra la diaspora dei giuristi che facevano carriera nella magistratura e nella burocrazia. Sollecitazioni venivano anche dalle istituzioni, dall'amministrazione, dalla società civile e dalla attività di impulso dei sovrani.

Al centro c'era la questione della utilità dell'insegnamento. Il massimo sforzo della scienza giuridica del 600 si concentrò nel senso di aprire le proprie prospettive nel confronto con le altre scienze. Lo stesso giurista richiedeva attenzione per le altre discipline e magari contaminazioni: per dare risposte soddisfacenti, il giurista faceva ricorso alla logica nella forma delle nuove scienze e quindi della matematica e della geometria sperimentali. Grozio, Hobbes, Domat e Leibniz, tutti operanti all'esterno delle Università, Conring e Pufendorf , solo in parte impegnati nelle Università, rivelano tutti l'aprirsi degli interessi e le suggestioni tratte dal metodo matematico.

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Par 7 La giurisprudenza dei Grandi Tribunali.

Un altro settore nel quale è possibile leggere i segni della trasformazione del diritto comune è la giurisprudenza dei Grandi o Supremi Tribunali.

A volte chiamati Audiencias, Parlements, Rote, Senati, (Supremi) Consigli; esercitavano competenze variegate tra loro non coincidenti.

Per quanto riguarda la funzione giurisdizionale, emerge l'ambiguità di questi GT. Riconosciuti di solito come strumenti di accentramento e operanti perciò nei singoli Stati quali organi centrali, fungevano da Tribunali d'appello o per certe cause con competenza esclusiva. Essi perciò si ponevano come strumenti per l'unificazione del diritto entro ogni ordinamento. Ergo, per l'autorevolezza delle loro pronunce, si riconosceva alle loro decisioni una forza simile a quella della legge. Questo però sembrava prefigurare un potere concorrenziale rispetto a quello del sovrano (che innanzitutto è il potere di fare le leggi!).

D’altro canto, però, potevano esercitare anche altre funzioni (non proprie di tutti i tribunali), essendo così titolari di un potere di collaborazione di governo.

XES i Parlements francesi e, in Italia, i Senati sabaudi, il Senato milanese: esercitavano una sorta di controllo di legittimità sugli atti normativi e dispositivi del sovrano ( = cd interinazione o registrazione) per valutare la veridicità dei fondamenti fattuali su cui si basava l'atto, la conformità al principi del diritto, la salvaguardia della giustizia e dei diritti dello Stato e l’idoneità a produrre gli effetti cui era preordinato. In caso di giudizio negativo, l'atto era rinviato al sovrano, senza che nel frattempo entrasse in vigore, con le opportune rimostranze in cui si illustravano i motivi della mancata registrazione.

Talvolta i GT erano depositari di competenze politico-amministrative (xes la definizione di una rosa di nominativi per la chiamata nelle cariche della magistratura).

Tutto ciò si spiega storicamente con l'origine dei Supremi Tribunali che nascevano come Consigli che affiancavo il principe nell'azione di governo.

Per quanto riguarda la funzione unificante del diritto effettivamente svolta da questi GT si rimanda ad un grande comparatista Gino Gorla : questa funzione si svolse non solo all'interno dei singoli Stati, ma si estese all'intero diritto continentale (tesi della funzione unificante del diritto dei GT italiani e nello Stato e tra Stati). Ciò fu non tanto un dato di fatto, bensì il necessario risultato di una funzione istituzionalmente riconosciuta dall'ordinamento.

L'unificazione si sarebbe realizzata nel momento dell'applicazione del diritto (sotto forma di interpretazione); la funzione unificante avrebbe avuto anche effetti futuri perché il giudicato conteneva in sé le linee giurisprudenziali cui il Tribunale presumibilmente si sarebbe attenuto in futuro per casi analoghi.

Per quanto riguarda il valore extra-statuale delle decisioni giurisprudenziali dei GT esso va dimostrato!. Per la dimostrazione dell'assunto sulla unificazione del diritto tra Stati non è sufficiente constatare la circolazione europea di diverse raccolte di decisioni e nemmeno la citazione di pronunce di Tribunali particolarmente autorevoli in materiali giurisprudenziali di altri Stati!.

Questo perché spesso le raccolte delle decisioni pubblicate includevano non solo decisioni autentiche, ma anche reports, ovvero elaborazioni private, con inserimenti dottrinali o scelte selettive del curatore, che riportava le decisioni del Tribunale con l'indicazione degli estremi del caso sottoposto a giudizio e l'esposizione dei fondamenti (rationes) alla base del dispositivo (allegazioni, conclusioni, voti cioè pronunce dei singoli magistrati nel processo); e solo una piccola parte delle raccolte ha carattere ufficiale.

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Si aggiunga che i meccanismi processuali erano diversi e per parecchi GT non c'era l'obbligo di motivazione: il che rende oggi praticamente impossibile confrontare decisioni riguardanti diversi ordinamenti e giudicarne l'eventuale recezione in altri.

Non solo, in queste raccolte, per brevità e perché ritenuto inutile, non si usava esporre il fatto sottoposto al giudizio; nel genere delle decisiones si ritrovano opinioni e pareri privati o rielaborazioni dottrinali, a cura dell'editore, di casi sottoposti a tali tribunali.

Le citazioni di altrui decisioni erano prodotte per mostrare erudizione, suffragare, anche con ragionamento a contrario, l’usus fori, cioè l'indirizzo giurisprudenziale intrapreso dal tribunale sul caso in esame.

In definitiva, le citazioni di una pronuncia straniera rientravano nella normale prassi di una dottrina che si fondava sul diritto comune: "le decisioni erano utilizzate nei vari ordinamenti indipendentemente dalla loro tipologia e anche se straniere, come opiniones da contrapporre argomentativamente ad altre opiniones".

La citazione della decisione di un Tribunale straniero non significava recezione o circolazione extra-statuale di quella giurisprudenza: il riferimento alla decisio di un Tribunale estero indica che il principio adottato si fondava su una ratio comune, che era in sostanza di diritto naturale "positivizzato"attraverso l'uso giurisprudenziale. La citazione, allora, serviva a mostrare che c'era il consenso su quel principio e ciò era, a sua volta, adottato quale prova della sua razionalità. In sostanza, la citazione esprimeva solo il bisogno di sostenere con una "autorità" la soluzione adottata (e non comportava una “recezione” in senso tecnico !).

[XES De Luca consigliava ai magistrati di giudicare secondo le opinioni "più adatte all'uso comune" anche se di Corti di Giustizia estere. Egli guardava al giudicato dei tribunali come attuazione dell’equità e del diritto naturale; ciò non era in contraddizione con la considerazione che ogni Stato avesse un proprio diritto "comune", dato dalle norme stabilite dal principe].

Per quanto riguarda il valore unificante all'interno dello Stato delle decisioni dei GT, si può osservare che non è possibile ritenerlo come un dato istituzionale, come invece ritiene Gorla.

In primo luogo, la genesi e lo statuto dei vari tribunali erano diversi e non coincidenti erano perciò le rispettive competenze; in secondo luogo, anche negli ordinamenti in cui alla giurisprudenza del Tribunale centrale si attribuiva la forza di legge, mancavano spesso le condizioni per un’unificazione in senso proprio, a cominciare dalla disponibilità della registrazione autentica delle pronunce. È insomma una visione particolare quella che associa la posizione centrale dei GT entro lo Stato all’uniformità della giurisprudenza!.

Quello che si può riconoscere è una funzione più limitata delle pronunce dei GT, svolta di fatto e non in esclusiva, ma tendenziale: orientare l'applicazione del diritto e presentarsi "come costante punto di riferimento argomentativo nella pratica quotidiana del foro".

Solo entro questi limiti si può parlare di un ruolo di unificazione del diritto sub specie interpretationis (attraverso lo strumento dell’interpretazione). Inoltre, le raccolte di decisiones svettavano per importanza tra gli altri strumenti utilizzati nel foro e ciò per i propri caratteri, comuni alla giurisprudenza di tutti i GT:

1. centralità. La competenza, esclusiva o specializzata e d'appello rispetto alle sentenze dei magistrati inferiori, faceva sì che l'indirizzo giurisprudenziale di quel Tribunale desse la propria impronta alla pratica del diritto; stesso effetto avevano i poteri di intervento nel processo riconosciuti ai Supremi Tribunali, come xes l’avocazione;

2. autorevolezza. Essa era dovuta al prestigio derivante dall’efficienza dei meccanismi processuali adottati e dalla personalità dei membri del collegio, scelti dai sovrani tra i più

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illustri pratici del foro e docenti universitari (cd specializzazione tecnica dei collegi giudicanti);

3. uso dell’arbitrium. Il termine allude all'esercizio di un potere discrezionale: la discrezionalità era impiegata per evitare i rigori dello stretto diritto, XES nel caso in cui si potesse tener conto di elementi di fatto che inducevano ad una soluzione equitativa. In generale, l’arbitrium era il potere esercitato per ritrovare il diritto d'applicare al caso particolare.Ma quali erano i criteri-guida per limitare il ricorso all'arbitrio ?. a) il dovere di attenersi alla communis opinio (spesso di non facile individuazione e a volte dubbia); b) per i Supremi Tribunali che rivendicavano l'uso di un potere equitativo, si fece strada l'idea che dovessero rispettare le precedenti pronunce in materia. Era questo un limite che costituiva un vincolo, perché la soluzione espressa nei precedenti costituiva una legittima aspettativa di decisioni conformi, per casi analoghi anche in futuro. Al tempo stesso, però, era questo anche un segno di forza del sistema perché la determinazione dei requisiti necessari per formare un giudizio consolidato era rimessa alla giurisprudenza degli stessi Tribunali (a volte un termine decennale, a volte bastava una sola pronuncia o solo due giudicati conformi per creare il precedente).

Inoltre, il vincolo valeva per il futuro e dunque comportava una sorta di trasformazione erga omnes dell’indirizzo giurisprudenziale accolto nel precedente.

Si capisce così perché diffusamente si riconobbe che le decisioni dei GT avessero forza di legge e che i collegi giudicanti partecipassero in questa maniera all'esercizio della sovranità.

Significativa è la decisio contenuta in una celebre raccolta concernente la giurisprudenza del Sacro Regio Consiglio di Napoli, pubblicata nel 1509 da Matteo D’Afflitto, che ora esamineremo.

Par 8 L’esercizio dei poteri equitativi tra sovranità e interpretatio dei Tribunali: la Decisio 120 del D’Afflitto.

Si tratta di una raccolta privata di report, considerata affidabile per la sua sostanziale corrispondenza con i giudicati del Consiglio; è un utile strumento di conoscenza di quella giurisprudenza, grazie al fatto che è dato ampio spazio all’esposizione del fatto e ai suoi principi di prova.

Causa : la causa era stata portata in appello dalla ricorrente contro un notaio, che aveva vinto il giudizio di grado precedente; il contenzioso verteva sull'efficacia di una promessa formulata dal notaio, ritenuta non vincolante dai giudici di primo grado. Il Consiglio Supremo di Napoli rovesciò il verdetto, condannando il convenuto ad eseguire.

D’Afflitto argomenta così : in punto di diritto la semplice promessa era inefficace, per il principio del diritto romano ex nudo pacto actio non oritur (dal semplice accordo non sorge l'azione); ma il termine "promessa" era ambiguo, potendo riferirsi sia ad un semplice accordo (di per sé inefficace) sia ad una promessa vincolante (stipulatio).

Occorreva innanzi tutto accertare i fatti. Dagli atti risultava che la promessa era stata fatta perché c'erano dei testimoni. Risultava inoltre che dalla mancata esecuzione della promessa era derivato un danno per l'attrice.

Accertati i fatti, si poteva ora passare ad un giudizio equitativo. Se infatti il ius civile Romanorum non prevedeva l’azionabilità del semplice patto, almeno si poteva riconoscere il sorgere di un’obbligazione naturale, soggetta ad esecuzione in base ad un giudizio di equità del sovrano. Secondo lo stretto diritto, sarebbe stato necessario l'intervento dell'imperatore o del pontefice,

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titolari della interpretatio equitativa; ma il Supremo Consiglio ricordava che nel regno il Re esercitava poteri analoghi a quelli dell'imperatore (per la formula per cui il re che non riconosce un superiore nel proprio regno esercita poteri analoghi a quelli dell'imperatore). E poiché, a sua volta, il Sacro Consiglio "rappresentava" la persona del re, ne derivava che poteva usare i poteri equitativi nella stessa maniera dell'imperatore e del re: nel merito ciò si risolveva nella condanna del promittente ad eseguire la prestazione.

Ciò che qui interessa rilevare è la rivendicazione del esercizio di poteri sovrani da parte di un supremo tribunale e la via indiretta, tutta basata su un procedimento argomentativi logico, con cui era sovvertito il principio-cardine romano della inefficacia del semplice accordo.

In conclusione, riassumiamo i punti principali della trasformazione e rinnovamento che si realizzò in simbiosi tra dottrina, insegnamento e giurisprudenza dei Grandi Tribunali:

1. l'emergere di una concezione del diritto come espressione della disciplina normativa della comunità politica;

2. il crescere del ruolo del diritto patrio, formato da una pluralità di fonti normative e sviluppato soprattutto nella materia pubblicistica;

3. l'affiorare di nuove discipline o con autonomo statuto, che fossero oggetto anche di insegnamento (come il diritto naturale ed il diritto pubblico), che riguardavano i fondamenti filosofici del vivere organizzato, la regolamentazione delle strutture istituzionali e dei rapporti tra le comunità minori e tra Stati; mentre, le discipline più antiche (come il diritto criminale) assumevano sempre più spazio nella didattica;

4. la trasformazione del diritto comune, che avvenne attraverso una scissione: veniva separato il corpus Iuris come diritto del passato dal suo uso successivo. Così si faceva un nuovo uso del diritto romano, di cui si sottolineava il carattere razionale e se ne favoriva l'impiego come parte generale delle varie discipline; contemporaneamente si riconobbe l'autonomia della storia, quale disciplina indispensabile per la conoscenza e l’agire;

5. l'affermarsi di ordinamenti con una giurisdizione dotata anche di potere creativo del diritto e operante nella mediazione tra diritto comune e diritto statuale.

Par 9 La giustificazione di una assenza nella trattazione: lo Stato "moderno".

Nel descrivere il processo di affermazione del diritto patrio, si è parlato di usus fori, di consuetudine; mentre poco si è detto dell'azione di impulso dei prìncipi, delle politiche assolutistiche dello Stato, della sovranità assoluta e perpetua imperniata sulla funzione legislativa, teorizzata nel 500: il discorso si è incentrato sul diritto patrio e non su quello regio!.

Secondo la storiografia, i secoli dell'età moderna sono stati caratterizzati dall'affermazione dello Stato cd moderno = forma di potere caratterizzata dal monopolio del politico: una struttura centralistica nell’organizzazione e nell’esercizio del potere, capace di controllare e assorbire i particolarismi della vita sociale (comunità, corporazioni, ceti) e le loro espressioni giuridiche (privilegi, statuti).

Sul piano delle fonti giuridiche si segnala il deciso prevalere delle norme sovrane, in virtù della identificazione tra diritto e legge, quest'ultima intesa come comando del detentore del potere.

Il sovrano è assoluto (ab-solutus = sciolto dal dovere di osservanza della legge) in quanto il principale connotato della sovranità è quello di "fare" le leggi (modificarle, abrogarle, introdurne delle nuove, interpretarle) e provvedere a farle osservare in nome della ragion di Stato.

Rispetto al corpo fisico dei sudditi lo Stato sarebbe un ente retto da interessi autonomi compendiati nella ragion di Stato, e non da valori morali o religiosi.

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Sono queste idee semplificate, elaborate a partire da Machiavelli, poi sviluppate in un secolo e mezzo di elaborazioni del pensiero politico da Bodin fino a Hobbes (al quale si deve la teorizzazione dello Stato macchina artificiale).

Nell’esperienza dello Stato accentrato, talvolta si è sottolineato l'aspetto della istituzione razionale, caratterizzata dalla presenza di un'amministrazione burocratica; talvolta si è posto l'accento sullo Stato come espressione di unità politica.

Ciò che interessa è lo sviluppo di entità statuali prive di un superiore, sovrane nelle relazioni esterne e indipendenti dalla società civile nei rapporti interni: uno Stato sovrano dai poteri illimitati (salvo che la sua forza presenti problemi di esercizio nei rapporti con gli altri Stati, anch'essi sovrani), riproducendo così una società naturale (il nuovo ius gentium, ovvero il diritto internazionale moderno, sarebbe concreta espressione di questa situazione fattuale).

Certo che i modelli teorici sulla formazione dello Stato moderno, come Stato accentrato, sono altra cosa rispetto agli avvenimenti storici, cioè alla realtà!.

Lo Stato accentrato era uno Stato che esprimeva una organizzazione politica ordinata alla convivenza, "luogo di mediazione politica di forze diverse" (cetuali, corporative, religiose, cittadine). Quest'ultime non erano solo ostacoli frapposti tra l'individuo e lo Stato o resistenze all’accentramento : erano invece quelle realtà entro cui si svolgeva la vita dell'individuo e dei gruppi e soprattutto erano forze che partecipavano all'esercizio del potere.

Perciò non può dirsi, senza alcuna riserva, che lo Stato moderno sia stato costruito come una macchina artificiale (un conto è il modello elaborato da Bodin e soprattutto da Hobbes, un altro conto è la realtà). Evidente, almeno fino a tutto il 18° secolo, la dimensione convenzionale, cioè la pattuizione e la consuetudine: per tutta l'età moderna, il consolidamento degli Stati si basò sulla collaborazione obbligata tra i prìncipi e gli altri protagonisti della scena istituzionale (feudatari, enti cittadini o ecclesiastici, comunità locali ecc.).

Per restare al campo giuridico le leggi fondamentali, unitamente alle leggi divine e naturali, costituivano un limite al potere assoluto e, nella loro origine pratico-consuetudinaria, un segno di partecipazione dei ceti alla vita dello Stato ed una sorta di "costituzione" d’Antico Regime.

[L'espressione "leggi fondamentali" indicava l’insieme delle leggi dell'ordinamento cosiddette principali. Ciò implicava la coscienza della separazione tra l'ente-Stato e la persona del sovrano che lo rappresentava, e presupponeva che la comunità politica fosse organizzata secondo proprie condizioni storiche tradottesi in norme. Il concetto risaliva alle dottrine medievali (quando in realtà si parlava di "leggi del regno"), ma maturò all'interno della cultura umanistica del tardo 500. Per quanto riguarda il significato "costituzionale" dell’espressione: esso derivava da una raffigurazione dello Stato come organismo retto da regole riguardanti i rapporti tra le membra e gli organi, dotati ognuno di statuti e privilegi particolari. Tali leggi erano la colla che faceva vivere l'intero organismo.].

In questo contesto, si segnala l'affermazione della sovranità come deposito di potere svincolato da gerarchie e il rafforzamento delle prerogative principesche (in particolare, la crescita del ruolo della legislazione regia); la costituzione di apparati burocratici centrali, l’instaurarsi di forme di controllo delle periferie, la predisposizione degli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi dello Stato inteso come persona morale (finanze, milizie, ecc.).

Lo Stato di Antico Regime, invece, era strutturalmente fondato sulla partecipazione dei corpi ed era innanzitutto un luogo di mediazione, caratterizzato di conseguenza da una grande confusione delle funzioni del potere: una amministrazione che era anche giurisdizione e una legislazione che era spesso indirizzata ai privati e ai corpi; dove il consenso era tutt'altro che espressione di democrazia, essendo invece strumento di difesa delle libertà particolari (privilegi). Un ruolo importante avevano

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i giuristi: non solo quello di giustificare a posteriori il potere, ma anche creativo e talvolta di contrappeso alla volontà del sovrano.

In età moderna, l’esperienza delle istituzioni ha mantenuto continuità col passato: XES nella burocrazia, si assiste alla costruzione di un apparato centrale, diversificato nei suoi uffici, con un ceto di funzionari dotato di una preparazione specifica e rispondente ai doveri richiesti dall'ufficio;

ma a lungo il rapporto tra consiglieri e funzionari da un lato, e sovrano dall'altro, sebbene non abbia riproposto le antiche relazioni di vassallaggio, ha mantenuto connotati personali, sicché è difficile configurarlo come una pura relazione di servizio verso lo Stato. Lo stesso rapporto tra centro e periferia è stato visto come espressione del contributo dato dalle diverse autonomie (comunità, corpi, ecc) all’articolazione del potere.

Persino la teoria della ragion di Stato non può essere interpretata univocamente come strumento centrale nell’affermazione dello Stato assoluto!.

Verso la fine del 1500, nella classica opera di Giovanni Botero, è già presente una concezione della politica non solo come disciplina autonoma, ma anche come scienza da trattare a partire dall’osservazione della realtà (ovvero dalla sfera dell'essere) e non dai principi della morale e della religione (sfera del dovere essere).

Definizione di ragion di Stato, secondo Botero: intesa come "notizia di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare lo Stato".

L'opera si apriva enunciando che lo Stato è "dominio fermo sopra popoli" e poneva così subito al centro dell'analisi l'ente-Stato, esplicitamente collegato all'esercizio della ragion di Stato (ciò che Botero vuole sottolineare è il collegamento tra Stato assoluto, nato dal crollo e dalla dissoluzione dello Stato di diritto medievale, pluralistico e feudal-corporativo, e la ragion di Stato fondata sul principio di effettività).

In definitiva, è stato notato che nella visione di Botero, lo Stato svolge "la funzione pratica mediativa degli interessi particolari ": il governo principesco è il luogo dove le "differenti rationes degli interessi possono incontrarsi proficuamente".

Se si era disposti ad ammettere che la politica guardava in primo luogo all'utile della società, era però respinta l'idea che l'utilità potesse essere disgiunta dalla onestà, sicché, fino a tutto il 1600, si arrivò spesso a distinguere tra "cattiva" (o empia, o diabolica) e "buona" (o vera, o divina) ragion di Stato.

Il concetto di ragion di Stato, che nelle radici medievali presupponeva un forte motivo obiettivo (cioè una causa) per giustificare gli atti di imperio del sovrano, si arricchì di forti connotati volontaristici (che comunque si diceva fossero finalizzati al raggiungimento del bene comune): era il sovrano che in fin dei conti interpretava l'interesse dello Stato e disponeva dei mezzi relativi al suo soddisfacimento.

Per quanto riguarda l'Italia, essa appariva una realtà policentrica nelle fonti giuridiche come nelle istituzioni e nel protagonismo dei ceti; il tutto si componeva entro lo Stato, trovandovi ora una sovranità abbastanza forte, ora un disciplinamento atto a sostenere la coesione più che a stabilire legami secondo gerarchie verticali, ora magari forme intermedie di organizzazione del potere.

Sebbene in diversa misura, questo vale anche per altre esperienze. Lo vedremo ora esaminando le vicende di quello che passa come lo Stato assoluto per eccellenza, la Monarchia francese, con la sua divisione tra regione di diritto scritto e regione di diritto consuetudinario, con la partecipazione al potere (anche per la formazione delle leggi) degli Stati Generali prima e poi dei Parlements, con una ricca e fantasiosa dottrina, che non si limitava solo a supportare i programmi della monarchia (ma vi incideva in maniera significativa !!).

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CAPITOLO 3 - IL DIRITTO NAZIONALE ED IL PROBLEMA DELLA UNIFICAZIONE DEL DIRITTO NELLA FRANCIA D’ANTICO REGIME.Par 1 Il problema del diritto nazionale in Francia e la redazione delle consuetudini .L'ordinamento giuridico in Francia, all'inizio dell'età moderna, era caratterizzato da:

l'esistenza di una Monarchia, dall'antica tradizione di indipendenza, basata sul principio per cui il Re, essendo svincolato da un'autorità superiore (superiorem non recognoscens) esercitava nel regno poteri analoghi a quelli di un imperatore;

forte presenza della Fonte Consuetudinaria, specie nelle regioni settentrionali ed occidentali (DROIT COUTUMIER) dove le consuetudini avevano avuto una forza espansiva tale da essere paragonabili come fonti al Diritto Comune (= DROIT ECRIT; questo invece radicatosi come diritto territoriale essenzialmente nelle regioni meridionali).

I Sovrani, da sempre interessati a controllare il sistema delle fonti e il loro insegnamento, erano preoccupati che l'applicazione del Diritto Comune menomasse la propria sovranità: ecco xes spiegata l’ ORDINANZA di Filippo il Bello del 1312 : "il Regno era principalmente retto dalla consuetudine e non dal diritto scritto (= Diritto Romano) ; l'eventuale uso di regole del diritto romano derivava non dall’ applicazione del diritto romano in quanto tale, ma dall’esistenza di una consuetudine conforme a tale diritto e dipendeva da un permesso dei sovrani francesi". Al tempo stesso, però, il sovrano riconosceva che l'insegnamento del diritto romano era utile per sviluppare l'intelligenza, favorire la comprensione delle consuetudini francesi e chiarire il rapporto di funzionalità dello studio delle fonti romane rispetto al Droit Coutumier. In sostanza, Filippo il Bello prendeva atto della distinzione tra terre di diritto consuetudinario e terre di diritto comune, ma riconduceva l'osservanza del diritto comune ad un atto di volontà della monarchia.L'idea di un’unificazione normativa in Francia si ha già a partire dalla fine del 1400 con Luigi XI, poi Francesco I ed Enrico II (metà del 16° secolo), senza che si andasse oltre un abbozzo di raccolta di ORDONNANCES regie mai pubblicato.C'era un evidente interesse della monarchia a riordinare le fonti normative. I giuristi vicini alla corona sostenevano l'idea di un Codice di Droit Francais (= diritto francese) come complesso normativo unificato sotto l'impulso della legislazione del sovrano. [XES Le Caron fu sostenitore dei diritti della sovranità, però diffidava della fonte consuetudinaria (essendo, per lui, basata più sulla forza dell’uso e sul consenso dei forti) e propugnava un sistema fondato sul dominio delle leggi: fu autore della prima complessiva trattazione di diritto nazionale (Pandectes ou Digestes du droit francais -dedicata a diritto pubblico, privato e procedure) l'opera, per ogni istituto, fondeva le disposizioni delle ordinanze regie, le coutumes, la giurisprudenza e le rationes tratte dal diritto romano. Opera scritta in perfetto francese (presenti anche alcuni neologismi), ambiziosissima, aggiornata alle ultime pronunce delle supreme Corti].I giuristi coutumiers, invece, sostenevano che il diritto comune in Francia era quello delle consuetudini redatte per iscritto vedi l’Ordonnance di Carlo VII del 1454: tale Ordonnance, nell’ambito del progetto di riordino delle fonti normative in Antico Regime, nasceva da esigenze processuali perché mirava alla redazione delle consuetudini per evitare lungaggini e paralisi dei processi (ciò nel caso in cui una parte avesse fatto ricorso a disposizioni consuetudinarie fondate sulla tradizione orale e per loro natura controverse), quindi il suo primo fine era l’accertamento del diritto; a ciò si aggiunga l'esigenza di modernizzazione delle stesse consuetudini da realizzarsi tramite la loro redazione, per la quale l'ordinanza prevedeva un iter complesso (elaborazione di un progetto da parte di un giudice regio, sua discussione da parte dell'assemblea dei 3 ordini - clero, nobiltà e terzo stato-, ogni articolo doveva poi essere approvato separatamente da ciascun ordine e se c'era l'approvazione di tutti e 3 gli ordini, era trasmesso al Parlement per la promulgazione ufficiale).Le prime redazioni delle consuetudini furono anche oggetto di revisioni, ma si arrivò comunque alla vigilia della Rivoluzione francese che erano vigenti una 60ina di Coutumes generali e diverse

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centinaia di Coutumes locali (= riguardanti una città o villaggio all'interno della provincia cui si riferiva la relativa consuetudine generale).Di positivo, c'era l'accelerazione impressa alla semplificazione e razionalizzazione del diritto consuetudinario !.Possono distinguersi diverse posizioni:

C. Dumoulin (1500-66) propose una compilazione dei principi generali del diritto consuetudinario (droit coutumier), essendo questo, per lui, il diritto comune dei francesi visto le lacune e le disposizioni non razionali presenti nelle Coutumes.

Guy Coquille (1523-1603) cui si deve la prima proposta di istituire l'insegnamento di diritto pratico francese. Convinto che in ogni Stato, il diritto esprimesse le regole di vita della comunità, esortava a non imitare le esperienze estranee allo spirito nazionale ed identificava il diritto consuetudinario col diritto costituzionale della società.

Antoine Loisel (1536-1617) realizzò un'opera di redazione degli istituti coutumieres, stilando una sorta di manuale che, in forma di massime, costituisce il primo tentativo di esposizione dei principi autonomi del diritto francese.

Nel corso del 16° secolo, l'intervento regio fu decisivo nella redazione delle Coutumes, perché oltre a fissare per iscritto un diritto "già fatto", si colse l'occasione per introdurre nuove disposizioni si parla di una sorta di trasformazione delle consuetudini in "leggi".

Par 2 Modelli di raccolte normative : il Code Henri III e il Code Michau.Nel corso del 1500, anche all'interno degli Stati Generali (le assemblee dei tre ordini del regno -clero, nobiltà e terzo stato- periodicamente convocate dal re) furono presentate rimostranze contro la molteplicità ed il disordine dei testi normativi vigenti.Ecco perché nel 1579 Enrico III promulgò una ordonnance dove stabiliva di raccogliere e ridurre in buon ordine le norme regie ritenute utili e necessarie e di raccogliere e riformare le costituzioni locali e particolari di ciascuna provincia. L'opera fu affidata al giurista Brisson il quale consegnò il lavoro al Re Enrico III nel 1587 cd Code du roy Henry III, approvato dal re ma mai promulgato. Le norme erano raggruppate in 20 libri, suddivisi a loro volta in titoli, e riguardavano in grandissima parte materie di diritto pubblico (ordine ecclesiastico, diritti del re e della corona, cariche militari, diritto e procedura penale, procedura civile, dogane e imposte, monete, acque e foreste), e solo il 6° libro era dedicato alla materia privatistica (donazioni, rendite, successioni, rescissione dei contratti, ecc).Scopo dell'opera: accertare il diritto vigente nelle materie oggetto della raccolta la storiografia francese ha perciò parlato di un "codice a diritto costante" che teneva conto anche delle modifiche e abrogazioni successive alla promulgazione originaria.Il codice non è mai entrato in vigore, ma i sovrani fecero aggiornare la raccolta per mantenerne possibile l'uso.Enrico IV (sovrano che pose fine alle guerre di religione e tentò di instaurare un regime di tolleranza, fino al suo assassinio nel 1610) affidò la lavorazione del Code a Le Caron (giurista parigino capace di coniugare formazione culta e conoscenza-pratica del diritto vigente) 1601, nuova edizione della raccolta secondo lo stesso ordine delle materie di Brisson e comprendente gli editti fino allora emanati da Enrico IV.Nell’Epistola introduttiva al codice, indirizzata al Re, Le Caron esaltava il ruolo della legge come fonte regolatrice delle relazioni all'interno della monarchia, sottolineando come in particolare le leggi pubbliche mutassero a seconda dei tempi (mentre il diritto privato, considerato come diritto naturale, era ritenuto costante, immutabile). Da qui la necessità di raccogliere periodicamente le leggi vigenti in un Codice.

Proprio durante questi fatti, sembrava raggiungersi un certo ordine sul piano religioso, in Francia 1598 Editto di Nantes : chiudeva le lotte tra calvinisti e cattolici perché garantiva ai calvinisti la libertà di culto (tranne in alcuni luoghi come Parigi).

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L'uccisione del Re sembrò interrompere la nuova fase della monarchia, avviata proprio da Enrico IV, e a lui seguirono 2 periodi di reggenza per la minorità di Luigi XIII e Luigi XIV, in cui la sovranità fu di fatto esercitata da personaggi forti – Richelieu e Mazzarino - più inclini alla Ragion di Stato che al buon governo.Per quanto riguarda la politica legislativa si ricorda il Code Michau , emanato da Luigi 13° nel 1629 (che non ebbe successo per le opposizioni del Parlement) una vasta ordonnance di 460 articoli, senza alcuna suddivisione per titoli o materie; un complesso normativo concesso a seguito delle richieste e lagnanze degli Stati Generali per aggiornare e rinnovare la legislazione.Contenuti : vari, specialmente di diritto pubblico (xes diritto penale, amministrazione della giustizia); e pochi articoli per il dir privato (xes successioni, donazioni, materia creditizia).2 gli aspetti interessanti del Code : a) tendenza al rafforzamento dei poteri regi; b) fu l'ultimo complesso normativo dato da un sovrano francese sulla base delle richieste degli Ordini e regolante svariate materie.Luigi 14° interverrà legislativamente senza l'impulso degli Ordini e con ordinanze su specifiche materie (quella del 1614 sarà l'ultima riunione degli Stati generali prima di quella fatale pre-rivoluzionaria del 1789).

Par 3 Le ordonnances di Luigi XIV e la riforma dell’insegnamento del diritto del 1679.Le Ordonnances di Luigi 14° rappresentano un passo importante nel processo di identificazione del diritto con la legge, per diverse branche del diritto : procedura civile e penale, commercio, marina.La Storiografia italiana considera le O. (complessi normativi regi) di Luigi 14° come “consolidazioni” perché racchiuderebbero materiali non nuovi oppure potrebbero essere integrate da altre fonti normative (invece, la storiografia francese vi riconosce i connotati delle moderne codificazioni) .Molti i pregiudizi sui complessi legislativi del Re Sole:

a) la precoce emanazione, che anticiperebbe di oltre un secolo i codici moderni;b) la scarsa o nulla imitazione in altri ordinamenti (non è un modello);c) tra le diverse materie regolate dalle O. manca il diritto civile cui solitamente si associa l’idea

di codice moderno;d) le O. razionalizzano senza innovare, perché rispondono al bisogno del pratico di distinguere

rapidamente, nella massa dei testi, la regola in vigore, tra abrogazioni e desuetudini ciò , per la storiografia che parla di consolidazioni, è indice del fatto che non si tratti di codici.Conviene, perciò, esaminare le O. regie come prodotto storico dove confluiscono: i condizionamenti del passato, la capacità di Luigi XIV di tradurre in legge i propri obiettivi di riforma politica, le resistenze delle magistrature.Gli scopi della riforma della legislazione erano: unificare il diritto e affermare l’autorità regia.I primi interventi : finalizzati all’uniformità nel settore delle procedure e ad assicurare la subordinazione delle alti Corti di giustizia (ecco perché il ministro Colbert tenne fuori dai lavori preparatori i magistrati dei Parlements e la redazione del progetto fu infatti affidata a uomini strettamente legati alla Corte).

L’Ordonnance sulla procedura civile del 1667 contiene importanti disposizioni che ne fanno una sorta di “moderna codificazione a livello costituzionale”. Nel titolo 1: 1) si prescriveva che le norme regie fossero osservate da tutte le corti del regno senza che i giudici potessero escluderne o moderarne l’applicazione col pretesto dell’equità o del perseguimento del bene pubblico e con il divieto di interpretarle : in caso di dubbio sulle norme regie, il giudice doveva rivolgersi al sovrano per conoscerne l’interpretazione.Le sentenze in contrasto con la legge erano nulle e i magistrati ne rispondevano per danni.Da ciò, la separazione del potere legislativo (esercitato dal sovrano) da quello giudiziario (consistente in una mera interpretazione delle norme), con conseguente appropriazione esclusiva della produzione legislativa da parte del sovrano.

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2) Si limitavano fortemente le prerogative dei Parlements nella registrazione degli editti regi col correlativo potere di sollevare rimostranze era stabilito l’obbligo di registrare e pubblicare immediatamente la legge, salva la possibilità di presentare rimostranze successive che però non sospendevano l’efficacia delle norme. Era questo un duro colpo alle prerogative delle Supreme Corti. L’O. era caratterizzata da una diffidenza nei confronti delle magistrature, specie quelle superiori, che secondo il 1° Presidente del Parlement avrebbero dovuto costituire "le orecchie e la voce della legge" e non essere bersaglio di controlli e penalità.

Contenuti dell’O. sulla procedura : l’O. del 1667 ricalcava le linee del processo ordinario in vigore , tranne alcune modifiche marginali per ridurre le facoltà di repliche; la procedura sommaria era snellita. Teoria della prova legale = ogni prova aveva un valore prestabilito quantitativamente (in una sorta di graduazione delle certezze vincolante per il magistrato) (fu stabilito il primato di quella scritta su quella orale). + Le norme preesistenti erano tutte esplicitamente abrogate, se differenti o contrarie alle disposizioni dell’O.

Quanto alla Ordonnance Criminelle -Ordinanza sul processo la giurisdizione feudale fu largamente ridotta non rientrandovi il giudizio di appello e tutti i crimini che interessassero l'ordine pubblico; e per gli altri reati, la competenza poteva essere esercitata dai giudici regi se i giudici signorili non fossero giunti al compimento della prima fase dell'istruttoria entro il ristretto termine di 24 ore. L’O. in sostanza, recepiva le linee della procedura inquisitoria, segreta e fondata sul sistema delle prove legali giudiziali costruite soprattutto sulla confessione e il giuramento.[Il processo prendeva il via con l'accusa formulata dalla vittima o per iniziativa del procuratore del re, ma l'azione poteva essere esercitata d'ufficio da parte di ogni giudice. ……. Nella fase dell'istruzione preparatoria, il giudice sentiva i testimoni e raccoglieva le prove; l'interrogatorio dell'imputato, senza assistenza di un avvocato, era preceduto dal giuramento di dire la verità (novità rispetto all'ordinamento precedente). Nella fase decisoria, si dava lettura degli atti (non si ascoltavano più i testimoni) e delle conclusioni scritte dell'accusa. Se i giudici ritenevano che non fosse stata raggiunta la prova piena, l'imputato non era passibile della pena di morte, ma poteva essere decretata la tortura.].Era questa una normativa basata su criteri di semplificazione e di certezza; perciò fu stabilito il principio dell'appello obbligatorio “che sottraesse di fatto alla competenza dei giudici inferiori ogni decisione penale grave”. In particolare, qui dominavano le esigenze di controllare l'ordine pubblico e l'attenzione per la ricerca della verità [esisteva l’istituto dei monitori = lettere pubblicate nella parrocchia dirette a sollecitare rivelazioni riguardanti delitti, a pena di scomunica per il fedele che non ottemperasse; le rivelazioni erano raccolte dal curato e ne era consentito l'uso in giudizio].L’ impianto dell’O ., molto criticato dal pensiero illuminista, fu sovvertito in senso accusatorio dalla nuova procedura stabilita durante la Rivoluzione -1791.

Ordonnance sul commercio del 1673 l'intervento in questa materia, che riguardava i privati e tradizionalmente era lasciata all'incontro tra consuetudine e dottrina, rispondeva ad una politica dirigistica . [DIRIGISMO = concezione o prassi politica fondata sul principio dell'intervento diretto dello Stato nella vita economica del paese].Il fatto che lo Stato si fosse appropriato di questa materia non era una conseguenza della politica colbertiana, che voleva sviluppare il commercio in virtù del principio per cui la ricchezza della nazione era legata al surplus commerciale e promuovere settori (xes delle manifatture) a preferenza di altri da qui, il ricorso alle misure protezionistiche e comunque alla necessità di un intervento legislativo razionale.Nell’O. non c'era una netta cesura con la disciplina commercialistica della dottrina precedente perché l'indirizzo dirigistico non significa esclusione della fonte consuetudinaria. La stretta connessione tra politica ed economia comportava che : 1) l’economia fosse spesso assoggettata alla ragion di Stato, 2) esigenze e forme della vita economica fossero trasferite nella politica (e nella visione culturale dominante della società).

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La politica di Colbert può essere così considerata la continuazione – con i caratteri del regno di Luigi XIV- del “colbertismo permanente” che attraversò tutto il secolo da Enrico IV in poi, perciò il dirigismo del ministro non sottrasse la disciplina del commercio ai suoi autori storici.Contenuto dell’O. trattava de: la figura dei mercanti, negozianti ed apprendisti, registri contabili, società, interessi, fallimenti, giurisdizione dei consoli (che era personale, poiché riguardava i mercanti come autori di atti di commercio e non gli atti di commercio in quanto tali).Obiettivi del legislatore, nel proemio dell’O. favorire il commercio facendo leva sulla buona fede e la certezza dei rapporti e generalizzare procedure snelle di risoluzione dei conflitti.L’O. sul commercio presto si rilevò imprecisa nella formulazione e poco coerente, attaccata dalle magistrature ordinarie, fu oggetto di varie proposte di riforma. Un forte contributo alla stesura dell’O. fu data dal grande mercante Savary, ma le lacune dell’O. sono, forse, riflessione della cultura di questo personaggio (dotato di esperienza e senso pratico, ma poco aperto alla comparazione).

Ordonnance sulla marina vera manifestazione del dirigismo della monarchia di Luigi XIV, allo scopo di approntare un apparato giuridico che potesse sostenere la guerra contro l’Olanda(Colbert si proponeva di sconfiggere il predominio olandese degli scambi, sviluppare il grande e il piccolo commercio, privilegiare il prodotto francese, costruire navigli).Per realizzare questo obiettivo, Colbert voleva per la Francia una compilazione propria, in un settore disciplinato da usi internazionalmente recepiti. Lo stesso ministro assunse la direzione dei lavori e ci vollero 15 anni di lavori preparatori per arrivare ad un testo diviso in 5 libri (1° libro: Ufficiali dell’Ammiragliato e loro giurisdizione, 2°: genti di mare e mezzi per viaggiare in mare, 3°: contratti marittimi, 4°: polizia, porti e coste, 5°: pesca).L’O. sulla marina realizzava l’obiettivo di unificare, dal punto di vista francese, una materia che aveva portata sopranazionale, e che si prefiggeva, peraltro, solo il compito di riordinamento.

In conclusione, le Ordonnances colbertine compivano un riordinamento notevole di intere branche della legislazione; considerate come una sorta di mini-codici (rispetto alle successive codificazioni ottocentesche !), furono una sorta di sperimentazione, in varie materie, dell’idea che il legiferare spettasse al sovrano in via esclusiva.

Le Ordonnances sono anche un momento di affermazione del diritto nazionale. Infatti, Luigi XIV promulgò nel 1679 un Editto sull’ Insegnamento del diritto francese nelle Università, con l’obiettivo di formare giuristi pratici. Nel proemio, il Re riconosceva che i difetti dell’amministrazione della giustizia provenivano dal fatto che lo studio del diritto francese era stato molto trascurato nell’ultimo secolo, specie a Parigi; da qui la necessità di una riforma generale degli studi (imperniata sull’acquisizione dei principi della giurisprudenza , tanto dei canoni della Chiesa e delle leggi romane, quanto del diritto francese). L’insegnamento del diritto francese, però, rivestiva solo una funzione complementare per l’istruzione dei nuovi magistrati; e ai titolari della nuova cattedra si chiedeva di insegnare autonomamente i principi della giurisprudenza francese in tutti i rami del diritto.Insomma, l’istituzione della cattedra di diritto francese fu un 1° importante passo, non decisivo, per l’affermazione del diritto nazionale.

Par 4 L’opera di Domat : l’impianto generale.Domat (1625-96) poche le informazioni su tale figura di giurista, considerato uno dei padri del Code Napoleon, operò per tanti anni da magistrato fino ad essere chiamato a Parigi da Luigi XIV. Partecipò agli Grand Jours (1665), tribunali straordinari allestiti per provvedere contro gli abusi nell’amministrazione della giustizia (funzionanti dal 500 in poi prevalentemente in materia criminale), così deciso nella difesa delle prerogative regie (ecco perché poi fu chiamato a Parigi !).

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Grande religiosità, idea di ordine che doveva permeare la vita sociale e la fedeltà alle istituzioni (entro l’idea della monarchia divina), vicino al movimento giansenista: questi i tratti caratterizzanti del suo pensiero.La chiamata a Parigi del giurista, intorno al 1680, si deve all’interesse suscitato in Luigi XIV dall’abbozzo dell’opera progettata da Domat per la formazione giuridica del figlio (di cui circolava uno schema) , intitolata Loix civiles il sovrano era attirato dal progetto di unificazione del diritto (a partire dai primi principi) presentato da Domat .Domat avvertiva l'esigenza di riscrivere il diritto dato che la compilazione giustinianea appariva disordinata, con norme ormai superflue o non più in uso, unitamente all’istanza di semplificazione.Domat si era già cimentato in una prova di semplificazione del diritto romano -l'opera conosciuta come Legum Delectus (l'unica scritta il latino, che costituirebbe l'embrione delle Leggi Civili), di difficile datazione, ma comunque del periodo giovanile-universitario sin dalla premessa, è evidente l'educazione umanistica di Domat e la sua profonda religiosità cristiana, nel tentativo di spiegare perché Dio avesse scelto il popolo romano, un popolo di infedeli, per far emergere sulla terra i lumi del diritto naturale.Di nuovo c’è lo spirito cartesiano, da cui l'autore trae l’ispirazione all’osservazione sperimentale dei comportamenti umani e il metodo per disporre in ordine il diritto (definizioni, principi e verità particolari) a questo fine, era necessario cogliere i rapporti tra le cose, tutte connesse tra loro a partire dai principi primi (fonti di tutti gli altri); lo strumento espressivo adoperato era la lingua francese (perché dotata di chiarezza, precisione, esattezza e dignità : caratteri essenziali delle leggi). Si trattava non di una rivoluzione metodologica, ma di uno sviluppo del Metodo deduttivo, già usato nelle sistemazioni umanistiche del secolo precedente. Domat, infatti, non aderisce interamente al metodo o alla filosofia cartesiana; anzi, in lui, è evidente un Aristotelismo rivisto in chiave cristiana: l'autore si distacca dal cd Aristotelismo tomista medievale e al suo modello politico, perché non concepisce una separazione tra stato di natura e stato civile, considera teologicamente la condotta dell'uomo e possiede una concezione organicistica della società che è priva di meccanismi artificiali e di legittimazione pattizia del potere.Tutto ciò per evitare un Giansenismo estremista. Il Giansenismo giuridico di Domat postulava la partecipazione organica della società civile alla vita politica. Il diritto si doveva studiare come scienza perché formato da leggi naturali, immutabili e costanti.Oltre a queste ultime, ci sono anche leggi arbitrarie:

mutevoli e contingenti, rare nel diritto privato, più numerose in quello pubblico, aventi alla base presupposti derivanti dalle leggi naturali;

costituiscono soluzioni non predeterminate "naturalmente", ma date dagli ordinamenti particolari in risposta ad esigenze naturali.

Per quanto riguarda l'impianto di Domat come punto di partenza è dato un postulato: visto che l'uomo è fatto per conoscere ed amare Dio, la 1° legge è quella che comanda la ricerca del sommo bene; da essa, principio di tutte le altre, discende direttamente la 2° che obbliga gli uomini ad unirsi ed amarsi tra loro.A seguito del peccato originale, gli uomini spesso violano tale leggi, che comunque sussistono immutabili, anche perché poi interviene l'opera divina a volgere i comportamenti umani verso i fini stabiliti. È vero che i due principi basilari prescriventi l'amore verso Dio e verso il prossimo, sembrano traditi perché l'uomo cerca la felicità dei beni sensibili ed è guidato nei suoi comportamenti dall'amor proprio; e l'amor proprio porta l'uomo ad amare gli altri in quanto giovi a se stesso. Ma per Domat, l'amor proprio è utilizzato da Dio per il mantenimento della società: l'esercizio dell'amor proprio costringe gli uomini a "soggettarsi alle fatiche, ai commerci, ai legami che il loro bisogno rende necessari. Per renderli utili e conservare il loro onore ed interesse, osservano la buona fede, la fedeltà, la sincerità; l'amor proprio perciò si adatta a tutto per trovare, in tutto, il suo conto": con la conclusione che da un male Dio trae buoni effetti.Sul piano giuridico l'uomo è obbligato ad associarsi per mantenersi. La caduta del peccato l'obbliga alla pena del lavoro e allo scambio dei beni e in fin dei conti alla interdipendenza

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(concezione classica della società civile e della necessaria-naturale socialità dell'uomo. Entrano così in considerazione le regole della vita civile che, derivanti dai primi due principi, disciplinano i legami tra gli uomini. Tali legami (= obbligazioni) si distinguono in 2 specie tipiche:

1. il matrimonio, con i conseguenti rapporti tra sposi, tra genitori e figli, tra parenti e affini;2. i vincoli, che “nascono nelle diverse comunicazioni che si fanno tra gli uomini della loro

fatica, della loro industria, nei servizi…., secondo i diversi bisogni della vita” . Qui, nel suo disegno provvidenzialistico, Dio si serve di 2 vie :

l’assegnazione di ogni uomo ad un ordine sociale, con i relativi obblighi dipendenti da condizioni (status), professioni e impieghi;

il susseguirsi di congiunture che muovono ciascuno a contrarre obbligazioni particolari.

Le 2 tipologie di obbligazioni sono governate da alcune regole generali, discendenti dai primi 2 principi, dalle quali dipendono le infinite regole particolari; che sono xes :

1. ciascuno deve adempiere ai propri doveri secondo quanto richiesto dal posto che occupa;2. non si deve compiere alcuna azione che comprometta l'ordine in cui è costituita una società;3. nelle obbligazioni volontarie (contratti), le parti devono comportarsi secondo sincerità e

buona fede;4. l'esigenza di mantenimento dell'ordine impone che il privato sia subordinato al pubblico;5. poiché obbligazioni e contratti riflettono i diversi bisogni delle parti, queste possono

liberamente adottare lo schema negoziale più aderente ai rispettivi interessi, col solo limite della liceità;

6. ogni contratto deve essere lecito, cioè non può violare le leggi e i buoni costumi; ecc.Tali derivazioni dai principi primi dovevano ricevere la massima espansione, tramite un'applicazione estensiva ed essere interpretate in modo connesso, "secondo lo spirito delle leggi". L’esigenza di ordine comporta la sottomissione del singolo all'autorità, il mantenimento dell'equilibrio tra gli status sociali.Lo stato delle persone deriva da 5 qualità (onore, dignità, autorità, necessità e utilità) e determina la disposizione di ognuno nella gerarchia che risponde ai bisogni della società: le professioni necessarie (senza le quali non si potrebbe vivere - agricoltura, artigianato) si trovano al grado più basso della gerarchia.Per Domat, la società civile non è costruita artificialmente dall’ uomo per un calcolo utilitaristico e per i propri bisogni; come per tutti i giansenisti, anche per lui, è impensabile uno stato di natura anteriore alla società civile. L'ordine della società è presupposto metafisicamente e coincide con l'ordine esistente.L'uomo ha la facoltà di prospettare qualunque forma di regolamento contrattuale (purché lecito) perché infiniti sono gli affari inerenti alla sua condizione di bisogno cd dottrina dell’oggettivismo giuridico: il diritto guarda alle attività dell'uomo e non all'uomo in quanto tale.

Leggi arbitrarie: Leggi naturali:- mutabili, - immutabili,- avevano un autorità certa e determinata, - frammentate e disperse (da qui l'interesse di

Domat per la loro individuazione e messa in ordine),

- sempre evidenti perché scritte, - costruite sull'idea di regole naturali scolpite nel cuore degli uomini e perciò innate ed eterne,

- avevano effetto solo dopo la pubblicazione. - operanti senza alcun bisogno di pubblicazione,-regolavano "tutto l'avvenire e tutto il passato",- costituivano il diritto vigente ed erano i fondamenti della scienza del diritto,- non avevano però, per Domat, "la stessa estensione e lo stesso uso" ovunque.

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Per quanto riguarda la dimensione pratica del diritto, Domat:a) ricorda come in Francia vigevano 4 diverse fonti del diritto: ordonnances regie, coutumes,

diritto canonico, diritto romano il quale aveva diverso rilievo nelle 2 regioni di diritto scritto e consuetudinario.

b) Dichiarava di occuparsi delle materie (tratte dalle suddette fonti) più utilizzate e la cui disciplina risalisse alle regole naturali dell'equità.

L'ambizione era quella di esporre le linee essenziali del diritto francese vigente, considerato che entro le diverse fonti circola un unico spirito, fondamentalmente rinvenibile nelle fonti romane, espressione di ragione.Domat vede continuità tra il diritto naturale e il diritto positivo, tra i principi immutabili e le leggi arbitrarie: non c'è separazione, ma sviluppo ed integrazione.Secondo l'interpretazione di Tarello Domat si basa su 2 equiparazioni:

a) tra diritto privato e diritto naturale ed eterno, che a sua volta avrebbe il suo nucleo fondamentale nel diritto romano;

b) tra diritto pubblico e diritto arbitrario.È questa però una semplificazione perché, per Domat, anche il diritto pubblico contiene molte regole di diritto naturale espresse nel diritto romano e nelle sacre scritture; e la "naturalità” del diritto pubblico consente al giurista francese di dargli una sistemazione. In Domat, quindi, il diritto romano è considerato come un deposito di ragione o di diritto naturale immutabile [nell'esordio dell'opera, egli afferma di aver serbato dappertutto "una fedele esattezza" rispetto ai testi del diritto romano !].Inoltre, Domat ammetteva che alcune leggi naturali fossero soggette ad eccezioni o deroghe e talvolta teorizzava l'intervento della legge positiva (mutevole) per risolvere il conflitto tra 2 leggi immutabili questa sembrerebbe una contraddizione nel sistema di Domat, ma ciò si spiega per l’espressa esigenza teorica di trovare la concatenazione tra le norme e rispettare l'ordine sociale.

Par 5 Partizione e articolazione delle "Leggi Civili" e loro fortuna successiva.Nell’opera di Domat, la partizione fondamentale è tra diritto privato e diritto pubblico. La trattazione sul diritto pubblico, uscita postuma, ebbe poca fortuna perché incompleta; fu posposta rispetto a quella di diritto privato perché il diritto pubblico usava molte regole privatistiche e perché in fin dei conti riguardava solo i privati. L'opera era divisa in 4 libri : a) governo in generale, b) ufficiali e loro doveri, c) crimini e delitti, d) procedura civile e criminale.

Quanto al diritto privato, la trattazione (Trattato delle leggi) consisteva in una parte generale, abbastanza ristretta, riguardante: a) la natura, l'uso e l'interpretazione delle leggi; b) le persone, considerate nelle loro qualità naturali e civili (padre, figlio legittimo, ecc); c) le cose, secondo il loro stato naturale e in base a come sono considerate nel diritto (pubbliche, sacre, in commercio, fuori commercio, ecc).Queste materie furono premesse perché si riferiscono sia al diritto pubblico sia al diritto privato, e quindi alle due branche di quest'ultimo: le obbligazioni e le successioni.[Contenuto dell'opera: le obbligazioni erano divise in volontarie (contratti) e involontarie, con le relative conseguenze. Il libro sulle obbligazioni volontarie era introdotto da un titolo dedicato al contratto in generale. Le successioni erano trattate in 5 libri: regole comuni, bipartizione tra successioni legittime e testamentarie, disposizioni per causa di morte (legati, donazioni) ed infine istituzioni e fedecommessi].In realtà, si tratta di un'unica materia dato che le successioni erano considerate obbligazioni, efficaci dopo la morte della persona. Questa reductio ad unum dell'intera materia privatistica derivava dalla considerazione che il diritto, specie quello privato, esprimeva l'ordine naturale della società e, siccome Domat vedeva la società come un insieme di vincoli che univano gli uomini, le relazioni tra i privati erano considerate giuridicamente dal punto di vista delle obbligazioni che si creavano. Percò, le norme giuridiche disciplinavano prima di tutto le qualità delle persone e delle cose, in

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quanto presupposti per l’instaurazione dei legami nella società, e poi regolavano tali legami secondo un'ottica spaziale o temporale (successioni). Ecco perché non c'era alcuna parte dell'opera dedicata in maniera specifica ai diritti reali e alla proprietà: Domat guardava non all'individuo come soggetto di diritto, ma alla situazione obiettiva (obbligazione) creatasi nel rapporto tra individui (la proprietà era considerata di riflesso, in relazione a certi atti di disposizioni delle cose). L'originalità della partizione di Domat dipendeva essenzialmente dalla sua visione della società; ma proprio per questo motivo, cioè per la visione “sociale” del diritto come regole di relazioni nascenti da bisogni oggettivamente presenti, tale partizione non ebbe seguito. Si tratta di un'opera datata e molto legata alla personalità del suo autore: a) era datata perché risaliva ad un impianto aristotelico-tomistico, permeato dal sentimento giansenista e adeguato agli ideali della monarchia di diritto divino: alla base, c'era una concezione ontologica dell'ordine, come risulta evidente dall'affermazione per cui "la legge che comanda l'amore verso il prossimo consiste nel desiderare per gli altri il loro vero bene". Sul piano politico, si trattava di una concezione della società che, ordinata naturalmente, prevedeva lo stabilirsi tra gli uomini di legami di obbedienza verso la persona di volta in volta innalzata al di sopra delle altre; tutti i poteri erano stabiliti da Dio e l'esercizio dell'autorità era finalizzata e funzionale al mantenimento dell'ordine dato; b) era un'opera d'autore perché espressione integrale della spiritualità cristiana di Domat, convinto della identità tra verità, giustizia e diritto, pur sostenendo l'autonomia della sfera religiosa e di quella politica.Si tratta ora di capire perché un'opera così legata al suo tempo abbia avuto un vasto successo nel secolo successivo che culminò nell’utilizzazione da parte del legislatore dell'età napoleonica l'opera di Domat: offriva un modello di esposizione sistematica in cui la materia era svolta con grande perizia tecnica e chiarezza; c’era equilibrio nella trattazione, articolata ma senza la pretesa di discutere i più piccoli dettagli, in virtù dell'obiettivo di realizzare un'esposizione legata all'ordine naturale; pur essendo incentrata su un nucleo romanistico, l'opera teneva conto anche dei principi e dello spirito del diritto francese (coutumes e ordonnances); c’era equilibrio nel rappresentare i rapporti tra le azioni umane e l'ordinamento [xes nell’interpretazione delle leggi, l'autore, dopo aver distinto la legge come regola generale dal privilegio inteso come provvedimento particolare, ne trae la conseguenza che "è nella natura delle leggi non poter regolare l'avvenire in modo che provvedano espressamente a tutti gli avvenimenti che sono infiniti, … ma è solamente del dovere e della prudenza del legislatore il prevedere gli avvenimenti più naturale e più ordinari".

Par 6 La politica riformatrice di D’Aguesseau e l'opera di Pothier.Spostiamoci ora agli ambienti di governo e all’opera di Henri-Francois D’Aguesseau (1668-1751), figura che domina la scena politica del dopo-LuigiXIV per oltre un quarto di secolo. Avvocato del re, poi procuratore generale, nominato cancelliere in età ancora giovane; fu un giurista di grande cultura, nutriva grande fiducia nel "metodo" e nell'ordine geometrico. Qui è importante esaminare la sua attività di riforma della legislazione a lui si deve l'emanazione di 4 grandi Ordonnances: sulle donazioni, i testamenti, le sostituzioni fedecommissarie e la manomorta.Interessato soprattutto ai profili pratici dei problemi, D’A. muoveva innanzi tutto dalla critica allo stato di disordine dell'amministrazione della giustizia, sia per la complessità del sistema delle fonti sia per la differente giurisprudenza delle supreme Corti. Da qui l'esigenza di innovare le procedure, controllare l'operato delle magistrature ed incidere sui contenuti del sistema normativo!.Quanto ai contenuti, D’A. : 1) prevedeva di far cessare la diversità della giurisprudenza attraverso la nomina di una commissione che individuasse i punti controversi e stabilisse la relativa soluzione, da recepire poi in una legge generale; 2) proponeva di dare impulso all’unificazione legislativa; perciò per addivenire ad un codice era necessario "riformare le leggi antiche, farne delle nuove, ed unirle tutte in un solo corpo di legislazione".D’A. operava avendo alle spalle l'esempio di successo delle grandi ordonnances del Re Sole e nutrendo diffidenza verso i Parlements, i quali avevano risollevato la testa approfittando del periodo di reggenza dopo la morte di Luigi XIV e che quindi erano potenzialmente in grado di contrastare

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una politica di accentramento legislativo. Aveva una visione realista, consapevole cioè che "una delle prime regole della politica è di intraprendere solo le cose possibili"; la sua concezione del diritto era nazionalistica (non centralistica) perché animata dall'amor di patria ed imperniata sulla distinzione tra re e nazione (punti di contatto con l’idea del contemporaneo Montesquieu che era contrario all’accentramento e alla uniformità).L'obiettivo dell’unificazione del diritto doveva essere raggiunto attraverso una serie di provvedimenti legislativi dati per singoli istituti, considerati pezzi di una riforma complessiva da attuarsi perciò progressivamente.[Procedura: suddivisione delle materie in due grandi categorie, a seconda che riguardassero istituti scarsamente regolati da leggi (contratti, vendite, locazioni ecc) o disciplinati da troppe e diverse norme. Sulla prima categoria di materie, l'intervento appariva più semplice ed il cancelliere prospettava di rivolgersi a qualche eccellente giurista che potesse fare un'opera di collazione tra i principi di diritto romano e le massime della giurisprudenza pratica. Per la seconda categoria, le difficoltà erano notevoli, per il cancelliere era opportuno evitare di entrare nei dettagli e limitare l'intervento delle relative ordonnances solo per stabilire regole generali capaci di conciliare lo spirito delle regioni di diritto scritto con quello delle regioni del diritto consuetudinario].Per quanto concerne l'attuazione del programma, in D’A. prevaleva la cautela e il desiderio di procedere con gradualità. Si trattava di addentrarsi specificatamente nella materia privatistica: "il diritto privato … è considerato, in quasi tutte le nazioni civili, come una specie di diritto comune perché racchiude in effetti le prime nozioni di giustizia comuni a tutti gli uomini".D’A. studiava di iniziare dalla materia delle donazioni, per la sua semplicità e per il fatto che non c'erano qui molti contrasti tra i principi di diritto romano e quelli del diritto francese, così da facilitare l'avvio del programma generale; inoltre, decise di adottare un procedimento di elaborazione dei vari progetti normativi che dava spazio alla consultazione dei Parlements (coinvolgimento dei P. nella elaborazione dei testi legislativi solo di tipo consultivo !) (si riducevano così i rischi legati al potere di rimostranza).Il metodo adottato però ritardò la realizzazione dell'obiettivo di rinnovare e unificare la legislazione; così in vent'anni furono emanate poche ordonnances. Nel complesso, il cancelliere diede vita ad un prodotto di elevata fattura tecnica, ma frammentario e parziale.A metà del 1700, emerge la figura di Pothier, pratico del diritto, magistrato nella città natia, Orléans; ottenne l'insegnamento accademico del diritto francese, giurista polivalente che fece propria l'esigenza di fondere la formazione romanistica con la pratica del foro.Pothier ha assorbito la lezione umanistica, ma non ha interessi storici; ha vivo il senso dell'ordine ma rifugge da ogni discorso metodologico; opera in una terra di diritto consuetudinario (Orléans), di cui commenta l'edizione aggiornata delle coutumes, ma è attratto dall'idea di un'opera chiara che riordini il diritto romano e ne individui i fondamenti.Dal 1736, P. lavorava per rimettere in ordine le leggi romane; anni in cui inizia un fecondo rapporto con il cancelliere D’Aguesseau, da cui trarrà impulso per la redazione delle PANDECTAE IN NOVUM ORDINEM DIGESTAE (1748) = costituisce una sorta di ricostruzione storica del diritto romano. Obiettivo dell'opera: ri-esposizione chiara della materia romanistica, che segue l'ordine dei titoli del Digesto, ma con una certa libertà di trattazione all'interno di ciascun titolo. 2 gli elementi distintivi:

1. in testa ad ogni titolo, erano indicati i nessi con le materie svolte in altri titoli e un sommario sui fondamenti dell'argomento trattato;

2. c'erano 2 titoli particolari, il DE VERBORUM SIGNIFICATIONE e il DE REGULIS IURIS, considerati come sedi per sperimentare una trattazione monografica di regole generali, con una partizione interna che nel secondo titolo seguiva, per il diritto privato, quella classica delle Istituzioni Giustinianee

[Il DE V. S. era composto da una parte generale e poi da un’esposizione in ordine alfabetico; il DE R. I. da una parte generale, 3 parti privatistiche (personae, res, actiones) ed infine da una parte dedicata al diritto pubblico]. Siamo di fronte ad un'opera di avvicinamento del diritto romano al diritto francese.

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Il procedimento inverso, cioè la lettura sistematica del diritto consuetudinario, è svolta in un’altra opera di Pothier, il COMMENTAIRE SUR LA COUTUME D’ORLEANS = appare come un lavoro di sintesi e semplificazione di quella fonte del diritto.Il terzo filone di opere di Pothier è rappresentato dall'insieme dei TRATTATI, dei quali si è detto che il Commentario costituisca una specie di compendio. I Trattati, tra cui quello più celebre fu il TRAITE’ DES OBLIGATIONS (1761), furono il frutto dell'ultimo scorcio dell'attività di P.; pubblicati postumi, abbracciano i più svariati istituti del diritto privato (singoli contratti, successioni, diritti reali) e c’è persino un trattato sulla procedura civile e criminale. Ebbero grande successo: lingua chiara, sobri ed esaurienti; qui si avverte come il giurista fosse un pratico che padroneggiava gli aspetti teorici di ogni materia.L’esposizione iniziava con la definizione dell'istituto per poi articolarsi nelle varie problematiche: P. mostra qui di essere veramente un giurista completo perché per individuare tali discipline utilizzava ordonnances regie, coutumes, autori moderni e gli iura dell'antica giurisprudenza romana. Pothier non forza gli schemi del diritto romano per modernizzarli ed è ben lontano dal ricondurre la materia a regole esclusivamente coutumières : il suo metodo consiste nel recuperare la dimensione scientifica entro la finalità pratica.Se guardiamo ai contenuti, P. è un conservatore: tende ad accertare, sistemare e di fatto a consolidare soluzioni vigenti nell'ordinamento francese (xes l'istituto della famiglia, incentrato nel potere del marito sulla persona ed i beni della moglie).Esaminiamo alcuni istituti apparentemente neutri:

1. la proprietà = l'impianto giocava sul rapporto tra perfezione ed imperfezione, tra proprietà piena e meno piena, a seconda del grado di intensità delle diverse relazioni di appartenenza. Si accreditava come "naturale” l'esistenza di una pluralità di domini sulla cosa; la proprietà poteva essere scomposta e smembrata in tante situazioni autonome siamo di fronte al modello elaborato dal diritto comune (cd teoria del dominio diviso).

2. Il contratto = la trattazione di P. costituì il precedente al cui si rifecero i compilatori del code. L'esposizione consisteva in un'ottima sintesi di soluzioni e sistemazioni affermate già negli ambienti dell’usus modernus Pandectarum per quanto riguardava il superamento della distinzione tra patti e contratti, la sottolineatura del ruolo della volontà e così via. Era mantenuta la distinzione tra contratti consensuali e reali: non era accolta la dottrina giusnaturalistica sul consenso sufficiente a trasferire la proprietà, sicché era ribadito che i contratti consensuali non avevano efficacia reale (xes il contratto di mutuo era al solito annoverato tra quelli reali, e P. era contro la liceità degli interessi forse per la sua morale giansenista).

Par 7 Una riflessione sul mito di Domat e di Pothier.Certo è che nel processo di codificazione in Francia, un grosso spazio spetta alle opere di Domat e Pothier, attorno ai quali si è creato un mito. Guardati secondo la visuale dei compilatori del code Napoleon, sono stati letti con gli occhi del code con il duplice risultato di stabilire una linea di continuità tra la loro opera e la codificazione ottocentesca napoleonica e di estraniare i due autori dall'ambito entro cui agirono. I compilatori del codice napoleonico avevano bisogno di materiali pronti sul quale basare il proprio intervento, non legati alle particolarità del diritto locale o di fonti parziali (coutumes o ordonnances regie), ma che si ponessero come una riflessione generale sul diritto vigente, e l'opera dei due giuristi francesi si prestava magnificamente all’uso.Queste le ragioni della diffusione delle opere di Domat e di Pothier e dell’attrattiva esercitata nei confronti del legislatore napoleonico:

1. le loro opere si proponevano come costruzioni saldamente impostate e basate sull’adozione del metodo scientifico proprio della dottrina cartesiana, da qui il loro carattere di universalità. I due giuristi non erano tenuti a scrivere testi legati a programmi di insegnamento; erano entrambi di formazione culta ed il diritto romano era utilizzato come ratio unificante per la sistemazione del diritto naturale; avevano scarso interesse per la

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dimensione storica del diritto e la loro opera offriva un prodotto direttamente utilizzabile dal legislatore;

2. le opere erano bene inserite nel diritto vigente e guardavano entrambe alla prassi. E’ vero che Domat non entra in comunicazione diretta con la dottrina, ma nonostante questo egli concepì il suo disegno in funzione dell'apprendimento del diritto, orientandolo con i programmi della monarchia di Luigi XIV (fu probabilmente il sovrano a chiamare Domat a Parigi);

3. i lavori dei due giuristi si integravano reciprocamente: più costruito il testo di Domat sulle Loix civiles, teso a disporre le regole a partire dai principi; sistematica e attenta ai dettagli l'elaborazione di Pothier (culminata nella serie di Traités). (All’integrazione tra i due giuristi fece da tramite l'azione del cancelliere D’Aguesseau!).

Il legislatore napoleonico sentì di poter direttamente attingere ad un patrimonio che garantiva ordine sistematico, concretezza, partizione della materia, contenuti, definizioni e articolazione degli istituti (non a caso parte del code civil è stato trasposto quasi letteralmente dai Traités). Il compito del legislatore era quello di fare un codice generale e di ricondurre la legislazione francese ad uniformità, di far cessare la situazione eterogenea causata dalle diverse coutumes e dalla giurisprudenza delle varie Corti: era naturale cercare il diritto comune della Francia negli autori più autorevoli e moderni. Il lavoro di Domat e Pothier garantiva essenzialità del discorso, chiarezza dell'esposizione, forte riduzione e quasi eliminazione delle citazioni, uso della lingua nazionale; per utilizzare questo materiale bastava sradicarlo dal suo contesto ed inserirlo nell'architettura del nascente codice.Scomparivano le opere di Dumoulin e Le Caron perché di alcune dottrine si faceva un uso diretto, ma altre erano scartate, veniva cioè scemando l'attenzione per lo studio di altre fonti (che pure avevano promosso il disegno di unificazione) e di altri protagonisti del tempo; si apriva così la strada per la creazione del mito, affermandosi l'assoluta originalità del metodo e dei contenuti dei due giuristi francesi, visti quasi come "inventori" della forma moderna della codificazione!.

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ALLA RICERCA DELL’ORDINE - FONTI E CULTURA GIURIDICA NELL’ETA’ MODERNA- capitoli 1,2,3

Di Italo Birocchi Giappichelli Editore – Torino 2002

CAP ARGOMENTI

1 LA RICERCA DEGLI UMANISTI

1. Crisi del sistema del diritto comune.2. Il problema del riordinamento del diritto tra ratio e auctoritas.3. La proposta di Budè.4. Il tedesco Lagus.5. La lezione metodologica di Bodin.6. Universalismo e storia in alcune sistemazioni privatistiche.7. L'opera di Connan.8. Il diritto romano come ratio scripta: Doneau.9. Il "manifesto" di Hotman.10. Ancora su Bodin: il sovrano come elemento ordinante.

2 LA TRASFORMAZIONE DEL DIRITTO COMUNE NELLA PRASSI E NELL'INSEGNAMENTO

1. Si rinnova il vocabolario: ius commune, ius municipale, ius hodiernum, ius novum, ius patrium.

2. Il diritto patrio e l'istituzione di cattedre per il suo insegnamento.3. Profili della Scuola elegante e dell'Usus modernus Pandectarum.4. Un tema di moda: la congiunzione fra la storia e la giurisprudenza.5. I contorni del diritto pubblico e il suo insegnamento nel rinnovato quadro degli studi

universitari6. Tra insegnamento e scienza del diritto.7. La giurisprudenza dei Grandi Tribunali.8. L'esercizio dei poteri equitativi tra sovranità e interpretatio dei Tribunali: la Decisio 120 del

D'Afflitto.9. La giustificazione di un'assenza nella trattazione: lo Stato "moderno".

3 IL DIRITTO NAZIONALE E IL PROBLEMA DELL'UNIFICAZIONE DEL DIRITTO NELLA FRANCIA D'ANTICO REGIME

1. Il problema del diritto nazionale in Francia e la redazione delle consuetudini.2. Modelli di raccolte normative: il code Henri III e il code Michau.3. Le ordonnances di Luigi XIV e la riforma dell’insegnamento del diritto del 1679.4. L'opera di Domat: l'impianto generale.5. Segue: la partizione e l'articolazione delle leggi civili e la loro fortuna successivo.6. La politica riformatrice di D'Aguesseau e l'opera di Pothier.7. Una riflessione sul "mito" di Domat e di Pothier.

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