Bibliografia topografica della colonizzazione

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BIBLIOGRAFIA TOPOGRAFICA DELLA COLONIZZAZIONE, voce Reggio Calabria, vol.

XVI, Pisa-Roma-Napoli 2001, pp. 1-77.

L’oggetto della seguente recensione riguarda la voce Reggio Calabria della Bibliografia

Topografica della colonizzazione, opera meritoria per tantissimi aspetti, che ha permesso a

generazioni di studiosi di conoscere ed approfondire la storia, la numismatica, l’epigrafia e

l’archeologia di tanti siti interessati dalla colonizzazione greca. La voce in questione, firmata da

Ivana Savalli per quanto attiene solamente alle fonti letterarie, e da Chiara Michelini per tutte le

altre fonti e per la bibliografia, ci permette di valutare gli studi di settore concernenti la polis antica

di Rhegion. Il primo impatto è, dobbiamo dire, fortemente destabilizzante: le ricerche, nonostante i

tanti apporti, sembrano ancora ferme ai tempi di Georges Vallet e del suo splendido Rhegion et

Zancle, come, del resto, può riscontrare il comune visitatore del Museo Nazionale di Reggio

Calabria nelle sale dedicate espressamente alla città, di recente rinnovate ed inaugurate con molta

enfasi. Dalla disamina offerta, proprio carente sembra l’apporto dell’archeologia, nonostante

l’importanza del sito in antico, i cui interventi sono sembrati, nel tempo, dettati dall’emergenza e

dalla casualità. L’impressione generale è che lo stesso apporto di Paolo Orsi non sia stato ancora

completamente metabolizzato, e che nulla di importante sia intervenuto dopo di lui, cosa che è

invero sbagliata. Compulsando la voce della BTC, infine, spicca anche la mancata pubblicazione di

importanti scavi urbani, che potevano fornire elementi maggiori agli studiosi, ma qui rischieremmo

di addentrarci in beghe nostrane.

La voce “Reggio Calabria” è strutturata in tre sezioni: A. fonti letterarie, epigrafiche e

numismatiche; B. Storia della ricerca archeologica; C. Bibliografia. Quest’ultima parte va

certamente approvata come ben fatta ed utile: sono lì presenti praticamente tutti i titoli, e non solo

quelli maggiormente citati, degli studi che riguardano la città. L’unico appunto, che peserà

enormemente nel giudizio sulle rimanenti sezioni, è la medesima credibilità prestata ad opere

scientifiche ed a libri ed articoli firmati da volenterosi eruditi locali, che nulla hanno di fondato dal

punto di vista del metodo. Il porre sullo stesso piano ricerche basate su lunghe ricerche

metodologicamente valide e “ipotesi” estemporanee, ancorché interessanti, di studiosi come quelle

del tale che ha operato deduzioni “archeologiche” avvalendosi dell’opera di rabdomanti, ci sembra

sia oggettivamente da stigmatizzare, soprattutto per non dare un’idea errata e caotica degli studi,

come se tutto fosse nello stesso tempo vero e falso, giusto e sbagliato, affermato con forza ed

immediatamente contraddetto.

Tornando alla voce in questione, la parte dedicata alle fonti letterarie si presenta dignitosa, pur con

lievi sbavature, che andranno sottolineate. L’affermazione a p. 2, per esempio, che il confine S sia

costituito dal torrente Alice preso Melito e poi dalla fiumara Amendolea presso Bova, pur se

condivisa nei decenni scorsi da quasi tutto il mondo scientifico, è stata abbandonata di recente da

molti studiosi, per merito di almeno tre interventi, peraltro doverosamente riportati nella

bibliografia. Tali ricerche hanno cercato di chiarire come il confine all’Halex debba essere stato

presso l’odierno paese di Palizzi, identificando l’antico fiume nella fiumara Alica, e che il Kaikinos

sia certamente da porre oltre Capo Spartivento, probabilmente presso la fiumara Galati, che, ancora

oggi, segna il confine tra la Diocesi cattolica di Reggio e quella di Locri-Gerace. Certamente la

questione è ancora aperta, ma il dare conto delle più recenti teorie – non serve a questo la

Bibliografia Topografica? – ci pare permetterebbe di focalizzare i problemi irrisolti ed offrirebbe

spunti e stimoli agli storici. Nel caso in questione, infatti, è sembrato determinante nella

comprensione della politica reggina dello scorcio del V sec. a.C. la conquista del Capo Spartivento,

già Promontorio Eracleo, approdo indispensabile nelle rotte marittime tra la Grecia e l’Italia

meridionale e la Sicilia. Senza questa informazione non sarebbe possibile comprendere perché gli

Ateniesi, nella loro prima spedizione in Occidente durante la Guerra del Peloponneso, si siano

accaniti, insieme ai Reggini, per la conquista del chorion Kaikinon e poi, non essendoci riusciti,

abbiano attaccato un peripolion nei pressi del confine tra Locri e Reggio (oltre Tucidide c’è un

illuminante frammento di Filisto, nel secondo libro dei Sikelikà, tra l’altro mancante nella raccolta

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delle fonti): era importante, per il prosieguo della politica imperialista ateniese in Sicilia, assicurarsi

il controllo dei principali punti di approdo.

Il racconto delle vicende tra la rifondazione di Reggio per opera di Dionisio II e l’arrivo di

Timoleonte contiene qualche imprecisione, a volte non di poco conto. Nel 351 a.C., infatti, fu la

morte dell’ateniese Callippo a restituire ai Reggini la libertà, non il suo arrivo in città con Leptine;

nel 345 a.C. nessuna fonte ci dice che i Reggini chiesero l’alleanza di Timoleonte contro i

Cartaginesi, anzi dobbiamo presumere (ma queste cose sono state già scritte in testi citati in

bibliografia) che il vero problema fossero gli Italici istallati nell’odierna Calabria da Dionisio il

Vecchio. Lo stesso Timoleonte, poi, nel medesimo anno, non sfuggì a nessuna trappola ordita dai

Cartaginesi, bensì ad un semplice blocco navale, teso ad impedirgli di arrivare in Sicilia.

A p. 6 dobbiamo correggere un paio di affermazioni imprudenti: tra il 484 e il 480 a.C. Anassilao

non introdusse affatto la corsa delle lepri in Sicilia (certamente non lo dice Aristotele!); nel 280

a.C. non ci fu nessuna rivolta di Mamertini inviati da Roma (sic!), ma della cosiddetta Legio

Campana, che con i Mamertini di Messana e quelli di Mamertion non c’entrano nulla, tranne che

essere loro alleati.

Per quanto attiene alle fonti epigrafiche, sottolineando il refuso “Sparata” al posto di “Sperata”, ad

una prima, veloce, disamina, ci sembra che manchino all’appello alcune epigrafi, peraltro assai

note, ma forse non si può pretendere che venga segnalato tutto.

Ma passiamo alle fonti numismatiche, dove l’A. palesa lacune più gravi. Come si evincerà dalle

notazioni, ci pare che l’intero paragrafo lasci quanto meno intuire che la persona incaricata non

domini la materia a sufficienza: non sarà il caso in questione, ma troppo spesso gli archeologi

nostrani si credono capaci di fare parlare le monete come fanno con i loro venerati cocci, senza

tenere conto della professionalità specifica dei loro colleghi numismatici (ma non voglio scrivere

una Pro domo mea!).

A p. 12 la frase sibillina relativa all’assimilazione degli incusi reggini e zanclei a coniazioni di

colonie calcidesi si può spiegare solo facendo riferimento alla metrologia, e non certo alla tecnica

dell’incuso. La bibliografia adoperata andrebbe senz’altro svecchiata (l’impressione che si ricava

dalla lettura dell’intera sezione è di uno scritto già redatto cinque o sei anni fa, aggiornato

sommariamente solo nella sezione bibliografica), anche per evitare al lettore di imbrogliarsi

seguendo teorie relative agli Etruschi, che certamente non hanno coniato moneta alla fine del VI

sec. a.C.: l’importanza dei Tirreni negli studi di settore ci pare vada finalmente scemando, a parte

rigurgiti sciovinisti e campanilisti.

Un po’ di chiarezza va fatta nelle prime coniazioni reggine a doppio rilievo: visto che la città di

Zancle si chiamò così fino al 488 a.C. ca., ci sembra altamente improbabile che la monetazione di

Reggio presenti, addirittura fin dal 494 a.C., gli stessi tipi di Messana (sic!), anche perché poche

righe sopra si afferma correttamente che le coniazioni “Samie” a Zancle durarono fino al 489 a.C. Il

sistema ponderale adoperato nelle coniazioni Testa di leone/testa di vitello, poi, non è affatto

euboico-attico, ma euboico-calcidese, con tridrammi e non tetradrammi. La non comprensione di

ciò non permette di apprezzare l’impatto politico della vittoria siracusana di Imera, con

l’imposizione del sistema economico basato su quello che oggi sarebbe più corretto chiamare

standard siracusano.

Sempre a p. 13 bisogna ricorreggere l’errore della seguente frase: “Allo stato attuale della ricerca

non è facile determinare se la nuova serie di Anassilao iniziò a R.C. poco dopo il 494-493 a.C. (…)

o se invece le due città inaugurarono le nuove serie contemporaneamente nel 489-488 a.C.”. Maria

Caltabiano, citata in bibliografia, al contrario, ha dimostrato nella sua monografia l’antecedenza

delle serie reggine rispetto a quelle comuni alle due città.

Non ha nessun senso, a p. 14, l’affermazione che vi fu una zecca unica per la serie con “Giocasto”,

attribuita ad una studiosa di grande valore, quale Carmen Arnold Biucchi. La serie in questione,

invece, è comunemente creduta successiva alla cacciata dei tiranni della dinastia anassilaide nel 461

a.C.

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In modo sorprendente, dopo avere insistito a p. 15 sul peso euboico-attico delle emissioni T. di

leone/t. di vitello, l’A., dopo alcune righe afferma l’esatto contrario (peraltro, la versione corretta

della vicenda storica), con la giusta evidenza tributata alla data del 480 a.C. come cesura tra una

fase “calcidese” ed una “attica”.

Subito dopo: Anassilao, morto nel 476 a.C., difficilmente avrebbe potuto coniare moneta fino al 462

o al 466 a.C., come affermato. Non riusciamo a comprendere l’origine delle affermazioni che il

bronzo segua lo standard euboico-attico e di quella con menzione di “terzo calcidese”, alle pp. 16-

17: il bronzo è sicuramente successivo alla fine degli Anassilaidi e l’espressione oscura deve

intendersi nel senso della divisione in tre dracme dello statere calcidese.

Per il periodo seguente ci sembra che la storia degli studi sulla figura in trono, circondata da corona

d’alloro, presente sulle serie reggine di metà V sec. a.C., non tenga conto degli ultimi confronti e

delle più recenti teorie. Si sono fatte strada due ipotesi diverse: per una di queste sarebbe da

valorizzare il passaggio, nelle tipologie, tra vecchio con barba e giovane imberbe, il secondo dei

quali sicuramente Apollo, che contraddistingue le serie reggine, con la proposta di identificazione

della figura matura come Zeus; la seconda ipotesi si avvale della ripresa della medesima tipologia

della figura matura con barba su serie della Guerra Annibalica, lì facilmente identificabile come

Asclepio, e delle attestazioni di culto di Asclepio a Reggio già nel periodo degli Anassilaidi.

L’affermazione che gli stateri tetradrammi del periodo seguente, con la splendida testa di Apollo

Reggino, siano stati attribuiti a Pythagoras di Reggio diviene comprensibile se le lettere presenti

sulla moneta sono PY e non GY, come nel testo.

La parte finale della sezione è quella in cui sono contenuti i maggiori errori. La serie con Testa di

leone/testa di Apollo a capelli lunghi, attribuita da Herzfelder alla rifondazione della città con

Dionisio II è stata oggetto di una proposta di ribassamento cronologico, relativo al periodo di

Agatocle, sulla base della ripresa delle coniazioni di tetradrammi in argento in Sicilia solo in

quell’epoca e della presenza di monogrammi, che non compaiono su serie pre-agatoclee. Anche se

l’A. non condividesse la teoria in questione, ci pare che essa andava quanto meno citata, soprattutto

se la si menziona nella Bibliografia.

Vorremmo, poi, sapere dove l’A. abbia potuto ammirare le serie reggine in bronzo con Testa di

Zeus/Zeus seduto, che non ho mai visto. Lo stesso si deve dire, purtroppo, per le fantomatiche serie

di argento con Testa di Apollo/leone incedente e T. di leone/t. di Giano: esse non sono attestate nei

repertori credibili, per cui ci si sarebbe aspettata un poco più di prudenza da parte della redattrice.

Un ultimo, sofferto, accenno, alla parte finale, nella quale l’A. non si rende conto che P. Marchetti

ed il sottoscritto hanno cercato di dimostrare che le serie in bronzo reggine abbiano termine alla fine

della II Guerra Punica o poco dopo. A prescindere dalla conferma che tali teorie stanno avendo

dalle più recenti ricerche, andava forse spiegato che la situazione dei tesoretti reggini, in cui sono

presenti tutte le serie della città, testimoniano una circolazione di moneta diversa rispetto a quella

del II sec. a.C. Nei ripostigli in oggetto, infatti, c’è solo moneta reggina, o bronzo romano battuto

verso il 215 a.C., mentre la situazione successiva mostra come nell’intero Bruzio meridionale

circolavano moltissime valute, battute da molteplici zecche: è stato facile dimostrare come i

tesoretti siano del periodo della città assediata, che aveva riconiato tutta la moneta straniera in

circolazione. Un’ultima cosa: in un recente scavo urbano, delle cui informazioni ringrazio la dr.ssa

E. Andronico della locale Soprintendenza, è stata ritrovata una T. di Artemide/lira, forse la più

recente delle serie reggine, in uno strato di fine III, inizi II sec. a.C., ancora tutto da approfondire.

Ovviamente: ai posteri l’ardua sentenza, ma ci sembra rimanere valido l’obbligo di citare tutte le

teorie note, anche senza accettarle, o magari anche criticandole apertamente.

Un ultimissimo accenno pertiene alla sezione archeologica, che meriterebbe ben altro spazio. Essa

si presenta come un buon punto di partenza per indagare sulla storia di Reggio, ma, come già detto,

è stato dato credito da parte dell’A., forse a causa della giovane età, a teorie di eruditi locali, privi di

qualunque metodo, anche se in grado di pubblicare su riviste considerate scientifiche prima dei loro

interventi. Come già visto in altre parti, è da segnalare la presenza di qualche refuso (Via Lemos e

non Via di Lemnos; Piazza Campagna si chiama ancora così; Dionisio I prese Reggio nel 387 e non

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nel 397) e di qualche errore evidente: il muro del Trabocchetto, come, del resto, la porzione di mura

della Via Marina, non sono assolutamente di VI-V sec. a.C. (p. 25), ma furono erette dopo la

rifondazione della città da parte di Dionisio II, con larghi interventi di Agatocle, soprattutto per

quanto riguarda l’attenzione prestata alle postazioni per catapulte nei luoghi strategici.

L’affermazione che le mura “dal pianoro del Castello dovevano poi dirigersi verso l’alto, tenendosi

sulla destra del Vallone Orange” (p. 26) è destituita di ogni fondamento: a parte che nessuno

farebbe perno su un torrentello, avendo un burrone a strapiombo cento metri oltre, c’è poi la

constatazione, questa sì archeologica, che lo spazio a sinistra dell’Orangi è pieno di costruzioni

abitative di epoca greca e dei resti di un tempietto, ammirabili presso il Museo “Mons. F. Gangemi”

di Reggio. Anche la mancanza di torri nelle mura, descritta sempre a p. 26 non è vera: ci sono due

torri sulla Collina del Trabocchetto, ed un'altra probabile e nella porzione del muro a Collina degli

Angeli.

Non vorremmo superare i limiti, ma a nostro avviso lasciano il tempo che trovano espressioni quali

“per avviarsi poi nuovamente ad un periodo di declino” (p. 27) per almeno due motivazioni: il

concetto stesso di declino non è più accettabile scientificamente, e poi, anche a volerlo prendere in

considerazione, non ci sono fonti sufficienti per parlare di prosperità o decadenza. Anzi: quelle

poche presenti sembrano prospettare una ripresa economica e politica della città piuttosto che il

contrario.

Un ultimo accenno: nel testo non si cita bibliografia più recente del 1991 (tranne qualche eccezione

di lavori della Parra). Non ci sembra che una buona cosa per un testo di questa importanza che esce

nel 2001.

Daniele Castrizio