Sergio Natale Maglio - Clima e migrazioni nella Puglia della colonizzazione trogloditica bizantina

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Articolo tratto alla rivista RIFLESSIONI-UMANESIMO DELLA PIETRA, Martina Franca – Luglio 2003 (N° 26) Osservazioni sull’attualità della civiltà rupestre Clima e migrazioni nella Puglia della colonizzazione trogloditica bizantina Sergio Natale Maglio (p.103) Perché in grotta? Sono passati più di quarant’anni dal Convegno del Passo della Mendola del 1962, nel corso del quale Adriano Prandi faceva segnare una svolta epocale nell’interpretazione del fenomeno rupestre pugliese. Il grande storico dell’arte in quell’occasione, infatti, riconosceva il carattere civile di molti insediamenti rupestri medioevali, che costellano le lame e le gravine della Puglia, effettuando una vera e propria svolta nei riguardi della trdizionale lettura monastica ed eremitica delle grotte pugliesi basiliane, che si era imposta sin dalla fine dell’Ottocento con le osservazioni e le interpretazioni di Charles Diehl, di Emile Bertaux, di Guillaume de Jerphanion, di Giuseppe Gabrieli e di Alba Medea. L’illuminante lezione di Prandi è stata raccolta e ampiamente sviluppata da Cosimo Damiano Fonseca e dal qualificato team di ricerca che nel corso degli anni si è raccolto intorno al coniatore del fortunato ossimoro civiltà rupestre. I risultati delle ricerche interdisciplinari, che si sono sviluppate a partire dai celebri convegni degli anni Settanta, hanno contribuito a diradare molte nebbie interpretative sul Medioevo rupestre in Puglia. Per alcuni siti, come Casalrotto, particolarmente favoriti dall’abbondanza documentaria e archeologica, dai lavori presentati in tali convegni è emerso uno spaccato completo e verosimile degli incroci storici, culturali e

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Articolo tratto alla rivista RIFLESSIONI-UMANESIMO DELLA PIETRA, Martina Franca – Luglio 2003 (N° 26)Osservazioni sull’attualità della civiltà rupestre

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Articolo tratto alla rivista RIFLESSIONI-UMANESIMO DELLA PIETRA, Martina Franca – Luglio 2003 (N° 26)

Osservazioni sull’attualità della civiltà rupestre

Clima e migrazioni nella Pugliadella colonizzazione trogloditica bizantina

Sergio Natale Maglio

(p.103)Perché in grotta?

Sono passati più di quarant’anni dal Convegno del Passo della Mendola del 1962, nel corso del quale Adriano Prandi faceva segnare una svolta epocale nell’interpretazione del fenomeno rupestre pugliese.

Il grande storico dell’arte in quell’occasione, infatti, riconosceva il carattere civile di molti insediamenti rupestri medioevali, che costellano le lame e le gravine della Puglia, effettuando una vera e propria svolta nei riguardi della trdizionale lettura monastica ed eremitica delle grotte pugliesi basiliane, che si era imposta sin dalla fine dell’Ottocento con le osservazioni e le interpretazioni di Charles Diehl, di Emile Bertaux, di Guillaume de Jerphanion, di Giuseppe Gabrieli e di Alba Medea.

L’illuminante lezione di Prandi è stata raccolta e ampiamente sviluppata da Cosimo Damiano Fonseca e dal qualificato team di ricerca che nel corso degli anni si è raccolto intorno al coniatore del fortunato ossimoro civiltà rupestre.

I risultati delle ricerche interdisciplinari, che si sono sviluppate a partire dai celebri convegni degli anni Settanta, hanno contribuito a diradare molte nebbie interpretative sul Medioevo rupestre in Puglia. Per alcuni siti, come Casalrotto, particolarmente favoriti dall’abbondanza documentaria e archeologica, dai lavori presentati in tali convegni è emerso uno spaccato completo e verosimile degli incroci storici, culturali e cultuali, verificatisi nei secoli del Basso Medioevo, a partire dalla seconda colonizzazione bizantina.

Vi è da rilevare, però, che l’abbondanza, l’evidenza e la spettacolarità dei reperti iconografici e architettonici di matrice religiosa, presenti nel comprensorio rupestre, in qualche modo hanno pesantemente condizionato gli itinerari di ricerca di questi studiosi, al di là delle loro reali intenzioni, confinando la conoscenza del fenomeno prevalentemente nel recinto del rupestre sacro, esplorato in lungo e in largo, con precisione talvolta autoptica.

Della civiltà rupestre si sono interessati, soprattutto, gli storici dell’arte e, pertanto, sono fioriti gli studi sulle decorazioni parietali e sull’interpretazione delle immagini sacre, sugli influssi e sulle ascendenze delle tempere e degli affreschi, sulle loro datazioni, sulle scuole pittoriche latine e bizantine a cui essi fanno riferimento; un’analoga gran messe di pubblicazioni, poi, attiene all’architettura e all’icnografia (p.104) dei tempietti rupestri, nonché alla loro vicenda cronologica e all’utilizzazione cultuale.

Gli studi e le esplorazioni condotti in questi ultimi quarant’anni non sono riusciti a dare, tuttavia, una risposta convincente al fondamentale interrogativo che riguarda la civiltà rupestre, ovvero sul perché gli abitanti di alcune zone della Puglia abbiano deciso a un certo punto della storia d’insediarsi in villaggi costituiti da grotte artificiali, piuttosto che in abitazioni costruite con mattoni, con legno, con blocchi di pietra e con altri materiali tipici dell’edilizia epigea.

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La novità, la particolarità e la rarità del fenomeno rupestre pugliese, dunque, non possono essere costituite prevalentemente dal trogloditismo sacro, anche perché la presenza e la frequenza di antri sacri ipogei sono ampiamente attestate e documentate in tutte le epoche storiche, presso tutte le religioni e a qualsiasi latitudine del pianeta.La vera novità, invece, sembra essere rappresentata dalle consistenti dimensioni del fenomeno del trogloditismo civile, che in un determinato periodo storico del Medioevo, caratterizzato dallo spopolamento e dall’abbandono del territorio rurale della Puglia centrale ma, anche, dalla presenza di politiche di stimolo alla sua ricolonizzazione territoriale e produttiva, ha indotto centinaia e migliaia di uomini e di donne a riscoprire l’abitazione in grotta.

Un fenomeno grandioso, questo, manifestatosi nella fondazione tra gli aridi anfratti pre-murgiani di una fitta rete d’insediamenti colonici, di villaggi e di vere e proprie città, scolpiti nella pietra, che determinarono uno iato, dopo almeno quattro-cinquemila anni, nella tradizione edilizia epigea del comprensorio.

L’importanza e la specificità del fenomeno del trogloditismo civile nella storia e nella cultura dell’uomo sono efficacemente sintetizzate da Jacek Rewerski, presidente di Històire Architecture Découverte Etude Sauvegarde (HADES), comitato scientifico internazionale associato all’International Council on Monuments and Sites (ICOMOS): Scavare la propria casa nella roccia è più facile che costruirla, ma ciò esige una notevole comprensione dell’ambiente e suppone una grande capacità di adattamento a esso. La casa sotterranea, contrariamente all’idea generale, non è una forma regressiva di architettura: è una maniera più economica;... meglio ancora della grotta naturale, è a dimensione dell’uomo e delle sue necessità. I vantaggi economici ed ecologici di questo habitat ancestrale, in particolare la sua stabilità termica, interessano anche gli architetti moderni, che vedono in esso numerose possibilità per il presente ed il futuro... Modo di vita e di architettura originale, il trogloditismo fa parte della diversità culturale del mondo... Studiare le tecniche trogloditiche vuol dire studiare dei gruppi umani, la loro storia, la loro vita particolare. La conservazione degli habitat cosiddetti “naturali” costituisce un progresso. Si tratta, al tempo stesso, di comprendere le forme di integrazione nell’ambiente che essi rappresentano e di preservarli dall’erosione... Un monumento rupestre è un tutt’uno con la terra; vive, si evolve ed invecchia con essa.1

In epoca storica la presenza di laboratori, di jazzi, di stalle, di ricoveri e di abitazioni isolate, scavati nella roccia, non costituisce una rarità nel paesaggio pugliese e italiano, tuttavia solo in limitati ambiti territoriali le grotte artificiali sono state usate intensivamente come abitazioni, formando veri e propri villaggi, così com’è avvenuto a Matera e negli anfratti carsici del Barese, del Brindisino e, soprattutto, del Tarantino.

L’esigenza di approfondire la ricerca sulle motivazioni e sulla funzionalità della scelta trogloditica nella Murgia medioevale scaturisce dalla dimensione storica ed economica di questo fenomeno antropico, che non appare irrilevante nel periodo e nelle condizioni in cui è contestualizzato.

Fornire una risposta convincente agli interrogativi sulla genesi e sulle motivazioni del (p.105) trogloditismo si rivela, quindi, di fondamentale importanza per l’indagine storica, che riguarda il rupestre e più in generale il territorio pugliese, anche per non omologare un fenomeno storico-economico-sociale così particolare e originale a un’indifferenziata articolazione locale del più generale modello di vita dell’epoca.

Le particolarità, invece, esistono e vanno rimarcate e indagate.Per chi voglia cimentarsi nella sfida il compito non è facile, perché, se il proponimento è

ambizioso, la ricerca è costellata da ostacoli pressoché insormontabili, determinati dall’assoluta carenza di dati e di fonti documentarie per tutto il periodo altomedioevale; nessuno degli studiosi contemporanei ha colpa, quindi, sicché non sono mancate le proposte e le interpretazioni del fenomeno, generalmente assunte senza la pretesa di costruire paradigmi scientifici basati sull’assenza di dati verificabili.

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Con questa nota s’intende prospettare, perciò, qualche riflessione, basata su elementi finora poco considerati dalla storiografia ufficiale della civiltà rupestre, delineando nuove ipotesi di ricerca, che, pur con i limiti ricordati, si avvalgono degli elementi storicamente accertati e dei dati scientifici a disposizione per sviluppare una lettura credibile del fenomeno storico e antropico del trogloditismo medioevale.

Le grotte sacre

Sarà bene ricordare sommariamente, prima di affrontare le vicende del nebbioso periodo altomedioevale pugliese, alcuni elementi della storia del trogloditismo, molto spesso ignorati, anche da chi si è interessato da vicino alla storia e alle vicende della civiltà rupestre.

Si tratta di ricapitolare l’utilizzo da parte dell’uomo degli antri, delle grotte e delle caverne, attraverso un uso continuo, che nel corso della storia ha visto affermarsi sia l’aspetto religioso cultuale, sia quello insediativo civile.

L’uso della grotta come tempio è diffusamente radicato in tutte le epoche e in tutte le culture, tanto che si segnalano esempi straordinari relativamente recenti, tra cui vanno annoverate le suggestive cappelle scavate dalla fine del XVIII secolo sino a tutto il XIX nelle miniere di salgemma di Wieliczka, in Polonia, riconosciute dall’ UNESCO patrimonio dell’umanità.

A titolo di curiosità va ricordato che l’ultima importante realizzazione del trogloditismo cultuale sembra essere costituita dalla Temppeliaukio Church, la grande chiesa evangelica, scavata nel granito di Helsinki, progettata dagli architetti Timo e Tuomo Suomalainen e aperta al culto nel 1969.

Nella notte dei tempi la caverna, fisicamente ubicata nel ventre nella Terra, che molte culture primitive hanno identificato nella femmina, è stata interpretata come archetipo dell’utero materno e, quindi, associata ai concetti di nascita e di rigenerazione; è, perciò, vissuta come regressum ad uterum nei miti d’origine, di rinascita e d’iniziazione di numerosi popoli.

Nelle tradizioni iniziatiche greche la caverna rappresenta il mondo.Lo spazio ambiguo di una caverna, poi, offre sì protezione e ricovero ma può, anche,

rappresentare l’ignoto e, quindi, incutere paura.Per la psiche la caverna è cavità oscura, regione sotterranea dai limiti invisibili, abisso

spaventoso da cui emergono i mostri, simbolo dell’inconscio e dei suoi pericoli, spesso imprevisti.

Dal punto di vista magico è vista come il gigantesco ricettacolo di energia tellurica delle divinità ctonie, che risiedono all’interno della terra.

All’uomo neolitico di Cro Magnon, vissuto da quaranta a trentamila anni fa, risale l’uso cultuale e religioso delle caverne, che cominciano a essere dipinte e graffite, come ad Altamira, a Lascaux, a Niaux.

(p. 106) Nella Preistoria i siti noti come santuari e luoghi sacri più arcaici sono rappresentati, generalmente, da caverne naturali; successivamente in svariate culture le caverne sono state spesso prescelte per la celebrazione di culti religiosi e di riti esoterici.

In molti casi, poi, le caverne-santuario ospitano una sorgente sacra, che può possedere proprietà guaritorie o divinatorie: l’esempio più recente in ambito cristiano è rappresentato dalla Grotta di Lourdes.

In epoca storica l’utilizzo delle caverne per fini cultuali e religiosi conosce da subito una vera e propria fioritura.

In Egitto caverne artificiali vengono scavate nelle montagne, come nel caso dei templi rupestri di Abu Simbel, databili fra il XIV e il XII secolo a.C.; spesso, però, anche la montagna è artificiale, come le piramidi, vere e proprie montagne sacre, all’interno delle quali vengono create le caverne artificiali, dove riposano i faraoni.

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Alla stessa concezione rispondono diversi tipi di tumuli preistorici megalitici, come a Newgrange in Irlanda, ovvero i tholos delle tombe micenee e i tumuli etruschi.

Le caverne cretesi dell’età minoica sembrano essere state riservate alla casta sacerdotale e ai riti misterici: a giudizio di molti studiosi il famoso Labirinto di Dedalo, collegato alla leggenda del Minotauro, probabilmente era una grotta artificiale o una galleria sotterranea utilizzata per le cerimonie iniziatiche.

La stessa mitologia greca è strettamente collegata alle caverne: il dio Zeus nasce in una caverna sul Monte Ida (Monte Dikte) nell’Isola di Creta, che in epoca minoica risulta abitata da una nutrice di piccoli; Omero parla dell’antro di Amniso, presso Cnosso, sacro a Ilizia, divinità preellenica preposta al parto, parente prossima di Artemide, detta la Levatrice; in quella stessa grotta si diceva che fosse caduto il cordone ombelicale di Zeus, sicché le donne incinte vi giungevano in pellegrinaggio per partorire.

Si credeva che le caverne dell’antica Grecia ospitassero divinità secondarie, legate alla natura: la grotta del Parnaso, sacra al dio Pan e alla ninfa Corcira; l’antro di Trofonio; l’antro di Creta, dove Epimenide trascorse quarantacinque anni; quello dove Minosse ricevette le leggi da Giove; la grotta del Monte Cilene, in cui Ermes, signore delle fiere, che regna sul mondo animale, figlio di Maia (Madre Terra), aveva visto la luce; il celebre oracolo di Delfi era in una grotta, incorporata nel tempio di Apollo; la venerata grotta di Lyttos e altre due sulle pendici dell’Acropoli di Atene.

In epoca ellenistica nelle grotte artificiali, i cosiddetti mitrei, si svolgevano i culti dei misteri di Cibele, di Dioniso e di Mitra, diffusi in ambiente romano dalla fine del I secolo a.C.

Grotte naturali, adattate artificialmente, erano i ninfei, detti anche musei, presenti nelle grandi ville romane.

I celebri templi rupestri di Petra in Giordania vennero scavati nel IV secolo a.C. dai nabatei, popolazioni arabe succedute agli edomiti nei deserti della Giordania a partire dal VI secolo a.C.

(p. 107) Il neoplatonico Porfirio (III-IV secolo d.C.) scriveva che, prima dell’uso dei templi, i riti religiosi si celebravano nelle grotte e che Zoroastro per primo consacrò una caverna al dio Mitra, creatore del mondo.

Si può considerare, pertanto, che il tempio nella Grecia antica e a Roma, stando alla testimonianza di Porfirio, rappresenti un sostituto e una metafora della caverna sacra delle religioni più antiche, essendo la cella o naos del tempio classico sprovvista di finestre, sicché lo spazio interno era oscuro come quello di una caverna.

In Asia la religione buddista elesse a santuari del Buddha le caverne indiane di Ajanta, di Ellora e di Elephanta, i cui preziosi intagli e affreschi vennero realizzati già a partire dal II secolo a.C.; al II secolo d.C. risale, invece, l’insediamento monastico rupestre di Bamiyan in Afghanistan, recentemente deturpato dalle devastazioni dei talebani, che hanno distrutto le gigantesche statue del dio.

Per quanto riguarda il cristianesimo, alcune tappe fondamentali della vita del Figlio di Dio sono segnate dalla presenza di grotte.

Eusebio (260-340) sostiene che il programma edilizio di Costantino in Palestina era incentrato sulle tre grotte collegate ai misteri fondamentali della fede: la grotta della Natività a Betlemme; la tomba scavata nella roccia vicino al Golgota; la grotta collegata all’Ascensione e segnalata dagli atti apocrifi di Giovanni nel III secolo, presso il Monte degli Ulivi, sulla quale venne costruita, sotto la direzione di sant’Elena, una chiesa visitata nel 333 dal pellegrino di Bordeaux.

In epoca altomedioevale il Santuario di Monte Sant’Angelo divenne meta di pellegrinaggio fin dal V secolo, in seguito alla leggendaria apparizione dell’Arcangelo Michele nella grotta garganica; il celebre monastero rupestre armeno di Geghart, dove, secondo la tradizione, venne conservata per secoli la lancia che ferì Cristo al costato, fu scavato a partire dal VII secolo.

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Il rapporto tra religione cristiana e grotte si rafforzò in questi secoli, grazie al fenomeno dell’eremitismo e alla diffusione della tradizione monastica basiliana nelle aree geografiche poste sotto l’influenza bizantina.

Nel IX secolo in Grecia fiorirono gli eremitaggi in grotta lungo le falde della Meteora e del Monte Athos, che divenne il centro guida della religiosità cristiana orientale nel X secolo, dopo l’insediamento di Athanase di Athos e la costruzione del primo dei grandi monasteri.

L’influenza del modello monacale, espresso dagli eremitaggi rupestri del Monte Athos, de-terminò nel Basso Medioevo la diffusione di luoghi di culto e di monasteri rupestri un po’ ovunque nell’area balcanica e del Mar Nero (Albania, Bulgaria, Serbia, Macedonia, Georgia, Ucraina), nonché in Italia meridionale, a Malta, in Etiopia, in Spagna, in Francia e nell’intero bacino del Mediterraneo.

(p.108)Il trogloditismo civile dalla Preistoria all’Età Moderna

Il trogloditismo civile è legato alle prime occupazioni di grotte naturali, verificatesi circa settecentocinquantamila anni fa, quando l’uomo riuscì a padroneggiare l’uso del fuoco.

A Chou-k’ou-Tien, presso Pechino, una caverna ha restituito resti di homo erectus e di animali carbonizzati risalenti a cinquecentomila anni fa; comunità umane, che occuparono le caverne abbastanza stabilmente, iniziarono a formarsi con l’homo neandhertalensis, ossia da centomila a ottantamila anni fa, durante l’ultimo periodo interglaciale, posto tra la penultima glaciazione Riss del Paleolitico inferiore e la successiva.

Le abitazioni trogloditiche in grotte naturali divennero pressoché comuni nel periodo glaciale Wurmiano, ossia nel Paleolitico medio (ottanta-cinquantamila anni fa) e nel Postwurmiano.

Il Neolitico è caratterizzato dalle prime tracce di adattamento artificiale di grotte naturali.Nelle grotte palestinesi di Megiddo, di Gezer e di Maresa, infatti, l’uomo neolitico ha scavato

corridoi, comunicazioni tra due o più caverne, condotti d’acqua piovana, cisterne, nicchie per lampade, fregi raffiguranti animali domestici e selvatici.

Nello stesso periodo grotte artificiali cominciarono a essere scavate nella regione cinese dello Shanxi (Banpo) per essere utilizzate come abitazioni.

Il più antico villaggio rupestre di grotte artificiali, comunque, è stato localizzato presso Beersheba in Israele e risale al IV millennio a.C.

Nel Neolitico la fine delle glaciazioni e il ritorno a condizioni climatiche più temperate determinarono un primo abbandono delle abitazioni rupestri, a vantaggio delle capanne e delle case costruite.

L’occupazione delle grotte da parte dell’uomo, infatti, divenne episodica durante l’Età dei Metalli, all’incirca dal 3000 al 1000 a.C., venendo progressivamente soppiantata dagli abitati costruiti.

A Matera, presso la Murgia Timone, sono, però, attestate fattorie rupestri dell’Età del Bronzo, ossia del periodo in cui si ritiene che siano state scavate le prime grotte artificiali sul ciglio della gravina.

Va ricordato, inoltre, che intere popolazioni restarono troglodite fino all’Età del Ferro avanzata: i liguri vivevano in caverne naturali; genti dell’Anatolia occupavano grotte artificiali, scavate nei coni di tufo di Mazaca in Cesarea, fin dal tempo degli ittiti (1900 a.C.); in Sicilia, terra ricca d’insediamenti rupestri in tutte le età storiche, i villaggi ipogei a più piani di Pantalica sono stati datati al XIV secolo a.C.; in Bretagna sono stati ritrovati sotterranei artificiali, scavati e occupati durante tutta l’Età del Ferro, probabilmente associati a strutture abitative epigee, utilizzati come magazzini per lo stoccaggio delle derrate alimentari.

In Età Classica l’abitazione ipogea sembra poco usata nell’Europa temperata, mentre si affermò, soprattutto, in alcune regioni dal clima arido e predesertico dell’Africa e dell’Asia.

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In Età Preistorica, dunque, le grotte erano state abitate dall’uomo prevalentemente per difendersi dal freddo della glaciazione wurmiana, mentre in epoche storiche più recenti le motivazioni sembrano essere esattamente opposte.

Le opere di molti autori greci e latini documentano la consistenza e la localizzazione degli insediamenti delle popolazioni trogloditiche in epoca classica.

(p. 109) Senofonte (V-IV secolo a.C.) si sofferma sulle abitazioni scavate dalle genti dell’Armenia e dell’Anatolia, mentre il trogloditismo dei popoli berberi del Nord Africa è documentato da diversi scrittori greci e latini, come Annone (VI secolo a.C.), Strabone (I secolo aC.) e Plinio (I secolo dC.).

Seneca (I secolo a.C.-I secolo d.C.) parla delle popolazioni maghrebine, che si affacciavano sul golfo della Sirte, use a vivere sottoterra per difendersi dal caldo; san Girolamo (IV secolo d.C.) testimonia lo stesso costume per gli edomiti, semiti stanziatisi dal XIV secolo a.C. a sud del Mar Morto, nella regione della futura Petra, presso l’importante centro carovaniero trogloditico che allora si chiamava Sela.

In Medio Oriente l’abitazione in grotta era abbastanza comune: la vecchia Gerusalemme e il sobborgo di Silo, sulle pendici del Monte degli Ulivi, presentavano molte abitazioni ipogee; tra Libano e Siria le popolazioni druse adoperavano le grotte per rifugio e per abitazione

Tolomeo (II secolo dC.) chiama la trogloditica la regione costiera egiziana lungo il golfo arabico, meglio conosciuta come Tebaide; Virgilio (I secolo a.C.) descrive le dimore degli sciti, occupanti la Russia meridionale, come antri ipogei, scavati nel terreno e ricoperti con tetti di paglia e legno, abbastanza simili a quelli a cui accennano Vitruvio (I secolo a.C.) per i frigi, stanziati in Asia Minore, e Tacito (I-II secolo dC.) a proposito dei nordici germani.

Nelle opere degli scrittori greci e romani che in Età Classica hanno fornito informazioni sulle popolazioni in quell’epoca abitanti in grotte, non compaiono annotazioni relative alla nostra regione.

La citazione di una mansio Spelunis, genericamente ubicata in Puglia sull’Appia Traiana, ricorre per la prima volta in alcune opere e carte del IV secolo d.C., come l’Itinerarium burdi-galense, l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana;2 questa mansio è identificata con l’insediamento rupestre di Santa Sabina presso Carovigno.3

Un’indiretta attestazione del trogloditismo in Puglia risale all’XI secolo nell’Alexiade di Anna Comnena, opera in cui la principessa bizantina, riferendosi all’esordio dell’avventura di Roberto il Guiscardo in Italia meridionale, afferma che il normanno, à la tete d’una band de brigands, viveva da avventuriero dans des cavernes tra le montagne e le colline della Longobardia.4

È da tenere in considerazione una significativa coincidenza temporale: in età medioevale, nel periodo in cui nacquero e si svilupparono consistenti insediamenti trogloditici in Puglia e in altre zone dell’Italia meridionale, come Sicilia, Basilicata, Calabria, il trogloditismo civile conobbe una consistente espansione su scala mondiale e si diffuse in nuovi ambiti, dispersi in diversi punti del pianeta, ma, comunque, generalmente in aree aride o predesertiche.

Il popolamento rupestre mondiale, dunque, fino all’Età Classica si concentrava prevalentemente nell’attuale regione climatica subtropicale temperata dell’emisfero settentrionale, posta tra il 20° e il 40° parallelo, (p. 110) comprendente Cina, India, Afghanistan, Iran, Armenia, Anatolia, Palestina, Giordania, Nord Africa.

Nel Medioevo si affermarono ulteriori insediamenti in Cina, in Cappadocia, in America settentrionale e in Messico, ossia nella stessa area planetaria, ma si registrò, anche, uno sconfinamento del vivere in grotta verso nord fino al 50° parallelo, che coinvolse l’Italia meridionale, la Spagna, la Francia, i Balcani, la Georgia e l’Ucraina, fino all’area mitteleuropea; quest’ultima è interessata dal fenomeno dei misteriosi labirinti ipogei chiamati erdstall.

Nella regione dello Shanxi, che si affaccia sul bassopiano cinese, in cui ancora oggi vivono in grotta dai quaranta ai settanta milioni di cinesi, villaggi e monasteri rupestri si diffusero massicciamente sin dal IV secolo d.C.; anche molti insediamenti rupestri della Cappadocia

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vennero scavati a partire dal IV sec. d.C. in poi, con una particolare concentrazione tra il VI e il XIII secolo; nelle Americhe i pueblos, insediamenti semi-rupestri realizzati nei ripari sottoroccia dagli indigeni anasazi della Mesa Verde, progenitori dei navahos, si formarono già dal VII secolo d.C. e furono popolati fino al XIV secolo.

La Francia conobbe fenomeni d’inurbamento rupestre nella Valle della Loira a partire dal-l’VIII secolo; in Ucraina diversi insediamenti abitativi rupestri sorsero tra l’VIII e il IX secolo.

Nello stesso periodo in Libia ebrei ibaditi s’insediavano in grotta a Gherian e nei centri vicini, mentre altre comunità trogloditiche ebraiche sono segnalate in Yemen da Beniamino da Tudela nel XII secolo.

In Georgia il grande insediamento di Vardzia risale al XII-XIII secolo, anche se la documentazione storica e archeologica attesta che la città rupestre di Uplistsikhe venne scavata già a partire dal I secolo d.C.

Tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna si collocano, infine, gli insediamenti arabi nelle cuevas della Spagna, soprattutto nella zona di Guadix e di Granata.

Climatologia e trogloditismo

Le risultanze archeologiche preistoriche e le informazioni riportate dagli autori classici con-fermano che il trogloditismo insediativo è stato praticato nel lunghissimo periodo preistorico come mezzo di difesa dai climi gelidi delle glaciazioni, mentre in epoca storica tale modello è stato generalmente adottato in aree aride o predesertiche come difesa dal caldo.

Su questa strategia di adattamento ambientale si sofferma san Girolamo ma soprattutto Seneca è assolutamente chiaro ed esplicito al riguardo: Non in defosso latent Syrticae gentes, quibus propter nimios solis ardores nullum tegimentum satis repellendis caloribus solidum est, nisi ipsa arens humus? (Forse che gli abitanti della Sirte non si riparano sottoterra, come fanno tutte le popolazioni della zona torrida che, per difendersi dal sole, non trovano altro efficace riparo se non la stessa terra infuocata?)5

L’esistenza di uno stretto rapporto tra condizioni climatiche aride e scelta dell’uomo di (p. 111) vivere in insediamenti ipogei è testimoniata dall’ultimo fenomeno di trogloditismo storica-mente verificatosi sul pianeta.

A Coober Pedy, cittadina nel cuore del terribile e infuocato deserto australiano, dalle cui miniere si estrae l’80% della produzione mondiale di opale, i tremilacinquecento abitanti vivono tutt’oggi in abitazioni ipogee, chiamate dugouts. Queste vennero scavate, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, da minatori reduci di guerra, che avevano sperimentato il comfort termico degli accampamenti trincerati, durante il conflitto mondiale in Europa; a Coober Pedy, naturalmente, anche le chiese, gli hotel e i ristoranti sono sottoterra.

La piccola cittadina mineraria australiana rappresenta ai giorni nostri un’importante conferma della tesi secondo cui l’uomo sceglie l’insediamento ipogeo in quanto funzionale alle esigenze di protezione termica in situazioni ambientali aride.

Tale tesi viene supportata dall’esame delle fasi climatiche vissute dal nostro pianeta nel corso della storia, così come vengono definite dalla moderna climatologia, mediante lo studio dei depositi di polline, degli anelli meristematici degli alberi, degli avanzamenti dei ghiacciai, dei depositi fossili e archeologici nelle torbiere e nelle morene.

L’applicazione delle conoscenze della moderna climatologia può rappresentare un’importante e innovativa chiave di lettura per la comprensione globale del fenomeno delle civiltà rupestri, naturalmente entro i limiti e con le precisazioni individuate da Domenico Novembre: L’importanza della storia del clima è da più parti ampiamente riconosciuta... il fattore climatico, dimostrato da una documentazione di carattere oggettivo e quantitativo relativa ai mutamenti significativi avvenuti nei clima o nei climata e nei corrispondenti biota, in epoca postglaciale e storica, è ormai incluso nello studio della storia. Con tale accezione non si vuole certo

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riproporre un determinismo di carattere ambientale e neanche si vuole ammettere che tutte le modificazioni ambientali abbiano origine dal clima né “che tutti i cambiamenti culturali [abbiano] una radice di carattere ambientale” e che i rapporti tra storia del clima e storia dell’uomo siano semplici e lineari. Il ruolo attribuito alle modificazioni climatiche si basa su ben noti principi ecologici. E cioè, per quel che concerne specificatamente l’uomo, sul fatto che l’ambiente fisico e soprattutto il clima possono “dare una certa inclinazione all’orientamento ed alla realizzazione di quelle serie quasi infinite di scelte e decisioni che formano il corso della storia”. In particolare, lo spostamento dei valori termopluviometrici può modificare notevolmente “la combinazione di patrimoni culturali relativi all’utilizzazione delle risorse che è caratteristica di una popolazione” facendo sostituire a certi procedimenti tecnici altri procedimenti divenuti più vantaggiosi che provocano corrispettivi mutamenti dell’habitat.6

L’escavazione di alloggi nella roccia in un periodo climatico particolarmente arido, quindi, sembra essersi dimostrata la forma insediativa più vantaggiosa in alcune aree geografiche del pianeta, sparse tra Asia, Europa, Nord Africa (p. 112) e America, soprattutto grazie alla maggiore stabilità termica degli antri scavati, rispetto agli abitati costruiti con i consueti materiali edilizi, decisamente meno coibentanti.

È opportuno a questo punto riassumere brevemente i dati climatici relativi agli ultimi millenni della vita del pianeta in base alla ricostruzione dei cicli, avanzata dal climatologo Mario Pinna, autorevole esponente della Società Geografica Italiana.7

In seguito all’ultima glaciazione, circa diecimila anni fa, il ritiro dei ghiacci cominciò a segnare una fase di progressivo riscaldamento, che culminò intorno al 4000 a.C. nell’inizio del cosiddetto optimum climatico post-glaciale, periodo particolarmente caldo della storia del pianeta, durato circa duemila anni, ossia fino al 2000 a.C.

In questo periodo la temperatura media si manteneva globalmente di 2,50÷30C più alta di quella odierna con punte di 40÷60C nelle latitudini più alte, ossia verso i poli, dove i cambiamenti climatici erano più accentuati, rispetto alla fascia temperata ed equatoriale.

Fu in questa fase calda e climaticamente propizia, a partire dal 7000 a.C., che si verificò la cosiddetta rivoluzione neolitica con la trasformazione di molte popolazioni di cacciatori e di raccoglitori in agricoltori.

Tra il 5000 ed il 3000 a.C. il clima fu notevolmente umido e piovoso ma divenne molto più arido a partire dal 3000 a.C., causando la scomparsa di molti habitat umidi e la desertificazione di vaste aree dell’Asia Minore, dell’Arabia e dell’Africa settentrionale.

Ebbe, successivamente, inizio l’epoca climatica sub-boreale, caratterizzata da inverni molto freddi, con un picco tra il 1500 e il 1300 a.C., cui seguì una nuova fase di clima caldo, che durò all’incirca fino al 900 a.C.

A partire dal X secolo a.C tornò un ciclo climatico più freddo e umido con inverni piuttosto miti e temperature estive più temperate, che si protrasse sino al I secolo d.C.

La fine dell’Età Classica assistè, quindi, tra il I e il IV-V secolo d.C., a una nuova fase climatica calda e arida.

Nell’Alto Medioevo, secondo Pinna, si registrò un ritorno del clima freddo dal V all’VIII-IX secolo.

Il termine di questo breve ciclo freddo sembra, però, doversi anticipare al VI secolo, se si condivide la teoria di Rhys Carpenter, che attribuisce lo spopolamento di vaste aree della Grecia, della Turchia e della Siria alla prolungata scarsità di piogge verificatasi tra il VII e l’VIII secolo.8

Gli studiosi concordano, però, su un successivo periodo di almeno quattro secoli marcatamente caldo, che durò fino agli ultimi decenni del Duecento.

In quest’epoca climatica più calda, definita piccolo optimum medioevale, la temperatura era mediamente più alta di 1,50-20C, rispetto ai valori attuali, con punte di 40C alle latitudini più alte, causando un accentuato scioglimento dei (p. 113) ghiacci, l’innalzamento del livello del mare e l’impaludamento di molte pianure costiere.

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La fase calda medioevale, che maggiormente interessa ai fini di questa ricerca, precedette un successivo ciclo freddo, iniziato negli ultimi secoli del Basso Medioevo e conclusosi quasi ai nostri giorni.

Il clima, infatti, intorno al 1200 si raffreddò notevolmente; gli inverni divennero molto più rigidi e i ghiacciai tornarono ad avanzare considerevolmente; tra la metà del XIV e la fine del XVI secolo il clima si mantenne fresco ma tornò ben presto una nuova fase, abbastanza lunga e rigida, denominata piccola età glaciale, che terminò solo verso la metà del XIX secolo.

Da questo breve excursus sulle mutazioni climatiche, che hanno interessato il pianeta dalla Preistoria a oggi, emerge, in relazione ai proposti problemi interpretativi sulla ragione del trogloditismo, che, già in Età Classica e talvolta in periodi non particolarmente caldi della vita del pianeta, il popolamento rupestre si verificò prevalentemente ai bordi di aree aride e predesertiche, probabilmente in alcuni casi anche per effetto della carenza di legno da costruzione ma, generalmente, per sfruttare le sperimentate proprietà termiche e isolanti del riparo in roccia.

Per queste popolazioni si può anche ragionevolmente presumere che la scelta trogloditica, in molti casi perpetuata fino a oggi, possa rappresentare il continuum di una tradizione insediativa avviatasi ai tempi dell’optimum climatico post-glaciale, quando l’area sahariana per effetto dell’azione degli alisei aveva smesso di essere una lussureggiante savana, tratteggiata nei graffiti neolitici, e aveva affrontato la fase di desertificazione.9

Il problema interpretativo del perché vivere in grotta si pone maggiormente, invece, per tutte quelle aree, come la Puglia, che riscoprono solo in età medioevale il fascino, la funzionalità e la necessità della grotta per l’insediamento d’intere comunità umane, determinando il nascere, in habitat apparentemente ostili all’insediamento dell’uomo, di un ampio intreccio di relazioni, di lavoro, di economia, di vita e di storia.

(p. 114)Le interpretazioni del fenomeno rupestre pugliese

Il piccolo optimum medioevale rappresenta, come s’è detto, una fase tra le più calde del clima del pianeta, che portò a rilevanti cambiamenti nella vita e nell’economia delle popolazioni medioevali.

Per valutare la portata del fenomeno si consideri che in quel periodo si popolarono per la prima volta alcune regioni del Nord America, mentre la Groenlandia abbondava di verdi pascoli e in altre aree del Nord Europa, come l’Inghilterra e la Scozia, l’agricoltura si diffondeva tanto da soppiantare l’allevamento del bestiame, anche con colture tradizionalmente mediterranee, come la vite, normalmente vegetante in areali temperati.

Nell’Alto Medioevo, dunque, il clima inglese era molto più caldo dell’attuale, così come sembra, d’altronde, attestato per l’Italia meridionale, dove la vite veniva coltivata in alta collina, anche al di sopra degli 800 metri di altezza.10

Altre autorevoli testimonianze storiche sugli effetti ambientali ditale caldissima temperie sono riportate da Christian Pfister e da Jurg Luterbacher, ricercatori di Storia Regionale e Ambientale presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Berna.

Per questi studiosi i rari inverni rigidi, registrati nel periodo compreso fra il 1180 e il 1300, possono aver favorito e diffuso la coltivazione di alberi subtropicali nella Valle del Po, in Francia e, persino, nella Valle del Rodano e in Germania. Tra le fonti citate viene ricordata la testimonianza resa da sant’Alberto Magno (1200 circa - 1280), il quale nel trattato De vegetalibus descrive gli alberi coltivati nella Valle del Reno, includendovi l’olivo, il melograno e il fico; quest’ultima pianta, particolarmente abbondante a Colonia e in alcune aree limitrofe, fruttificava, addirittura, tre volte l’anno, eccetto che negli autunni particolarmente freddi.11

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Lo straordinario spostamento della fascia climatica verso il centro e il nord dell’Europa, attestato dalle fonti documentarie del Basso Medioevo, permette di valutare gli effetti del-l’incombente desertificazione, che in quello stesso periodo interessava gli areali subtropicali e, quindi, il bacino del Mediterraneo.

Si può, dunque, ragionevolmente ipotizzare che tra le principali motivazioni alla base delle opzioni insediative trogloditiche, verificatesi in età medievale quasi contemporaneamente in diverse aree dell’Asia, dell’Europa, dell’America e dell’Africa, vi sia stata la necessità di un adattamento alle particolari condizioni climatiche, venutesi a instaurare negli habitat aridi e temperati durante il piccolo optimum medioevale.

La componente climatica, quindi, è da considerare tra le ragioni che possono unificare e spiegare queste scelte insediative, compiute, quasi contemporaneamente, da popolazioni stanziate in posti così lontani l’uno dall’altro.

In tal caso, come ricorda Jacek Rewerski, il fenomeno assume un certo interesse anche per i tempi e per gli architetti contemporanei, non fosse altro che per le problematiche comuni al-l’attuale fase climatica di riscaldamento del globo e di desertificazione.12

Nel corso degli ultimi decenni alcuni tra i maggiori studiosi della civiltà rupestre pugliese hanno sfiorato l’argomento della globalizzazione trogloditica medioevale, soprattutto nelle in-troduzioni ai loro studi sui monumenti e sugli insediamenti locali: Franco Dell’Aquila accenna al trogloditismo presente nel bacino mediterraneo, ossia in Africa, in Asia e in Europa;13 Nino Lavermicocca, tra i più attenti alla comparazione del fenomeno rupestre religioso e civile nell’area del Mediterraneo e nel Medio Oriente, fa rientrare i villaggi rupestri nella categoria degli agglomerati agro-urbani, città rurali in muratura o scavate nella roccia, peculiari di tutta l’area mediterranea, senza, tuttavia, avanzare al riguardo particolari approfondimenti.14

Cosimo Damiano Fonseca tende a rifuggire da confronti molto ampi per il rupestre (p. 115) pugliese, sostenendo che le similarità con esempi analoghi cappadocesi, balcanici, iberici, siculi eccetera restano finora soltanto esterne e vaghe; anche se è necessario allargare l’indagine ad altre aree che presentano similarità ed omogeneità non soltanto formali, ma specificamente culturali e storiche. E ciò ... per evitare che ci si limitasse a definire i caratteri di similarità e omogeneità solo sulla scorta di rassomiglianze morfologiche esteriori, ponendo, acriticamente, sullo stesso piano gli insediamenti rupestri georgiani di Vardzia e l’architettura ibadita di Le M’zab in Algeria oppure i siti rupestri della Renania, della regione di Karadag o della Cap-padocia e i villaggi trogloditici dell’Italia meridionale o, ancora, la facies rupestre della città di Siena con i complessi impianti dei villaggi trogloditici di Matera. Di qui il ricorso al comparativismo storiografico e alla identificazione di precise aree geopolitiche, assunte come terreno di verificabilità delle ipotesi della “vita in grotte” colte nel più ampio e articolato contesto di un identico processo di civiltà e cultura, quale fu appunto quello del mondo bizantino.15

Il modello del comparativismo storiografico venne compiutamente espresso da Fonseca e dagli illustri studiosi che nel ciclo dei famosi convegni internazionali degli anni Settanta e Ottanta presero in esame le aree della Serbia, della Cappadocia, della Sicilia e della Sardegna ma, purtroppo, molto spesso la comparazione è stata limitata ai soli fenomeni insediativi rupestri religiosi, come eremitaggi, monasteri e chiese rupestri.

Sembra calzante al riguardo una precisazione di Voiislav Djuric, espressa durante la sessione di studi dedicata all’area geopolitica serba, che costituisce l’unico riferimento di quel convegno al trogloditismo civile: Proprio come in territorio greco, tracce di vita medioevale sotterranea, in grotte o cavità formate da franamenti di massi di pietra, insistono in tutte le zone dei Balcani abitate da slavi. In un solo luogo però, sotto la stessa cittadella di Prilep, in Macedonia, gli archeologi hanno potuto identificare, nei fianchi di grossi massi franati, alcune abitazioni umane adattate alla configurazione del terreno con piccoli interventi, e riparate da un graticolato. Tutte le altre grotte dei Balcani, a strapiombo sui bordi dei torrenti o dei laghi,

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quelli di Ohrid e Prespa in particolare, sono state abitate da monaci asceti alla ricerca di un rifugio isolato propizio alla penitenza, al digiuno e alla preghiera.16

Va detto per inciso che la scarsa presenza di trogloditismo civile nei Balcani potrebbe essere spiegata dalla maggiore disponibilità idrica e dalle condizioni climatiche, sicuramente più fresche e umide, che in questa regione montagnosa e continentale si dovettero avere nel caldo periodo medioevale, rispetto alle secche e piatte terre mediterranee.

L’assenza di condizioni particolarmente aride non incoraggiò, quindi, la scelta trogloditica civile, a differenza di quella ascetica e religiosa, alimentata dall’esempio e dall’influenza atonita.

Per questo motivo, oltre a Prilep, la letteratura sembra registrare nell’area balcanica unicamente alcuni villaggi rupestri bulgari, scavati lungo i fiumi Isker e Lom.17

Il giudizio di Fonseca sulle cause del fenomeno civile del rupestre pugliese, per contro, è riassumibile nell’assunto che vi sia stata una frattura della vita in grotte tra l’Età Preistorica e quella Classica con un recupero intrapreso nel V-VI secolo dalle popolazioni meridionali, conseguente alla crisi della intelaiatura istituzionale dello stato e alla decadenza del ruolo delle città nel Tardo Antico e, inoltre, dettato da necessità di difesa per la frequente minaccia delle incursioni dal mare, per cui l’inurbamento delle gravine risulterebbe similare nelle sue motivazioni, agli insediamenti sulle alture con il relativo incastellamento delle località in seguito alla “grande paura” delle invasioni.18

Queste motivazioni configurano, secondo l’illustre studioso, un processo di aggregazione sociale nelle gravine, che dal X al XIII [secolo] aveva dato luogo a veri e propri villaggi rupestri, dove si riscontra l’esistenza di una precisa e cosciente (p. 116) struttura insediativa di tipo urbano, caratterizzata dalla stretta interrelazione fra unità con tipologie ben definite tra loro, interagenti mediante un tessuto connettivo funzionalmente articolato.19

Fonseca e molti altri studiosi, dunque, sostanzialmente propendono a considerare il fenomeno come manifestazione di una cultura non alternativa o particolare, inserita in uno specifico habitat, dal quale traeva le sue caratteristiche principali, pur essendo perfettamente integrata nel contesto socio-economico coevo: Non c’è quindi bisogno di figurarsi favolose tebaidi o sistemi d’insediamento radicalmente alternativi a quelli in uso... Da questo punto di vista, gli insediamenti rupestri non hanno di per sé connotazioni specifiche, bizantino o longobarde o altre, ma sono presenti in tutta l’area meridionale (per non parlare delle testimonianze esterne) ovunque il tipo di roccia e le tradizioni abitative ne consigliassero l’utilizzazione e l’elaborazione; naturalmente non vanno trascurati altri fattori, come la sicurezza, la viabilità, l’approvvigionamento idrico e in genere la redditività del sito e la vicinanza alle fonti essenziali per la sopravvivenza.20

Da alcuni di questi studiosi, generalmente, vengono sottovalutate la tipicità e la particolarità dell’insediamento umano in rupe e, spesso, nelle loro analisi non si pongono alcun interrogativo circa le particolari situazioni ambientali che avrebbero potuto favorirlo.

È evidente, per esempio, che nella diversità e nella specificità della vicenda trogloditica rientri a pieno titolo la creazione dell’effetto oasi, come viene definito da Pietro Laureano, quando parla di ... genti che, in presenza di condizioni ambientali rudi, impararono a gestire le rare risorse disponibili in modo non dispendioso e distruttivo. In molteplici climi e ambienti, culture dalla tenacia straordinaria hanno saputo utilizzare materiali disponibili localmente e risorse rinnovabili. Hanno impiegato l’energia del sole e le forze della natura; i principi dell’isolamento termico per difendersi dal caldo e dal freddo; la dinamica dei fluidi per raccogliere l’acqua; le leggi della biologia per la combinazione ed il riuso degli elementi necessari alla formazione di humus e di terreno coltivabile. Sono riusciti a controllare i principi sottili del vento, dell’ombra, dell’umidità per innescare fenomeni di interazione positiva. È l’effetto oasi: la creazione di isole di vita e di fertilità in un contesto ostile da cui deriva la base dell’esistenza, la realizzazione di una nicchia biologica utilizzata da altri organismi che a loro volta portano il loro contributo al sistema in un continuo circuito virtuoso. Si determina così un ecosistema basato sulla simbiosi e

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l’alleanza tra le specie, su una stretta armonia uomo-natura, un microcosmo capace di perpetuarsi rigenerandosi continuamente.21

Le altre cause, indicate dai maggiori studiosi della civiltà rupestre per la giustificazione del (p. 117) fenomeno, risultano, certamente, in gran parte credibili e condivisibili.

La vicenda degli insediamenti rurali rupestri medioevali in generale sembra originata principalmente da diffuse esigenze di adattamento alle condizioni ambientali aride del periodo storico in cui si materializzano.

Nel nostro caso particolare sembra, tuttavia, che tale fenomeno insediativo possa essere stato determinato anche da specifiche strategie politiche ed economiche, regionali e locali, tendenti alla ricolonizzazione produttiva del territorio, che favorirono ondate migratorie verso la Puglia centrale, probabilmente in grado d’ispirare il popolamento in rupe.

La Puglia nell’Alto Medioevo

Per affrontare le questioni sul tappeto si rende necessario ricostruire, almeno schematica-mente, quanto risulta dagli studi sulle condizioni di vita in Puglia durante l’Alto Medioevo, periodo nel quale si colloca la nascita del fenomeno insediativo trogloditico locale.

La ricerca storica attesta che nell’epoca imperiale romana la Puglia si basava su un’economia prevalentemente pastorale, in cui giocava un ruolo di primo piano l’allevamento delle pecore.

Una prima importante trasformazione avvenne a partire dal IV secolo d.C. con una serie di vasti disboscamenti e di dissodamenti a beneficio della più redditizia cerealicoltura estensiva.22

La ripresa della cerealicoltura, nonché la contemporanea crisi dell’allevamento e della produzione delle lane, durarono sino al VI secolo ma il modello del latifondo produttivo cerealicolo entrò in crisi tra il VI e il VII secolo a causa dell’abbandono di molti piccoli centri rurali, causato, soprattutto, dal fortissimo calo demografico e dallo scoppio di continue pestilenze, tanto che i documenti dell’VIII secolo descrivono una Puglia quasi deserta.23

La regione, come tante altre in Europa, tendeva a impoverirsi: nel VI secolo, sotto il dominio ostrogoto, Cassiodoro definì gli apuli idonei, ossia benestanti,24 mentre Procopio di Cesarea, subito dopo questi, ne descrisse già le condizioni di estrema miseria.25

D’altra parte la Puglia nel mondo classico e medioevale è considerata, soprattutto, una regione agricola, anche se la condizione contadina nella penisola salentina non sembra essere gratificante: non è in discussione l’operosità del contadino apulo, già lodata da Orazio, quanto la durezza e la scarsa redditività del lavoro dei campi in una terra sostanzialmente siticulosa, povera d’acqua, come la descrivono Varrone, Strabone e Columella tra il I secolo a.C. e il I dC.26

Cicerone nel 49 a.C. aveva già definito la Puglia come la regione più spopolata d’Italia; l’abbandono dei campi era tanto rilevante in Età Romana, da essere evidenziato da Seneca con l’espressione in desertis Apuliae e condannato da Lucano alla metà del I secolo d.C.27

(p. 118) La scarsa appetibilità del lavoro agricolo venne, pure, rilevata da Cassiodoro, il quale, parlando del commercio delle braccia dei figli di molti contadini pugliesi presso la fiera di Sala Consilina, scrisse: fanno bene i genitori a venderli, in quanto ricavano un profitto dal loro ser-vaggio. Giacché non c’è dubbio che come servi possono migliorare di condizione, passando dal lavoro nei campi ai servizi urbani.28

Nel corso della dominazione longobarda, ossia dal VI all’VIII secolo, riguadagnarono spazio gli incolti e le terre abbandonate, il pascolo transumante, l’allevamento ovino e suino, mentre cominciò a diffondersi il fenomeno dell’impaludamento lungo le coste e nelle pianure, già fonte della prosperità della regione in Età Magnogreca e Romana.29

Nelle zone interne, occupate dai longobardi, si assistè a un’accentuata ruralizzazione, che coincise con il progressivo decadimento delle città, a loro volta profondamente ruralizzate, assecondando un fenomeno comune a gran parte dell’Italia e dell’Europa.30

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E’ dal IX secolo che ripartì in tutta Europa la ricolonizzazione delle terre e la riconquista del territorio, attraverso il grandioso fenomeno dei dissodamenti, che nelle regioni mediterranee iniziò quasi sempre nelle aree collinari, prive di paludi e con terreni meno pesanti; in Puglia, regione che viveva il tempo della seconda colonizzazione bizantina, l’aggressione all’incolto cominciò dai gradini più bassi dell’altopiano delle Murge.31

Bisanzio, riconquistata la Puglia, sottraendola ai longobardi e ai berberi, i quali ultimi avevano insediato per qualche decennio degli emirati a Bari e a Taranto, attuò una politica tesa a promuovere e a gestire il fenomeno della colonizzazione.

Nel IX e X secolo in tutto il bacino del Mediterraneo bizantino lo stato, che è all’origine della rivalorizzazione del suolo, presiede alla sua ridistribuzione. La base è ancora rurale, il quadro dello sfruttamento del suolo è la famiglia: è questa che ha sostenuto quei grande mutamento rurale bizantino che fu, nel VI secolo, il passaggio dallo sfruttamento latifondista alla coltura autarchica del gruppo familiare.32

Dal VI secolo la politica agraria, svolta dallo stato bizantino accentratore, non aveva permesso lo sviluppo di potentati feudali privati.

I terreni, infatti, venivano assegnati in parte a grandi proprietari in massae, divise in fundi; in parte erano utilizzati in enfiteusi o coltivati da coloni liberi, raggruppati verso la fine del VI secolo in condumae, che rappresentavano distretti fiscali ma, anche, associazioni di contadini.33

Nel IX-X secolo, durante la seconda colonizzazione bizantina, la grande massa della popolazione rurale, partecipe dei dissodamenti delle terre, era costituita da eleuteri, contadini in-dipendenti, che non avevano obblighi fiscali, raggruppati per propria libera scelta nel comune rurale, il chorion; questo veniva a istituzionalizzarsi fiscalmente, attraverso il concretizzarsi delle iniziative spontanee di dissodamento, praticate dagli stessi eleuteri e dai monaci.34

Nel corso del X secolo iniziò anche la ripresa demografica, seguita da un vasto fenomeno d’incastellamento, che tendeva a rilanciare la riorganizzazione amministrativa e militare del territorio.

Il kastron fortificato diventò il centro organizzativo del territorio circostante, canalizzando e controllando la crescita demografica e lo sviluppo economico, coordinando e difendendo la popolazione rurale dei choria.35

Gli effetti della crescita demografica e le scelte politiche dei bizantini relative alla colonizzazione del territorio, sostanzialmente confermate dai normanni tra la fine dell’XI e la fine del XII secolo, permisero che in Puglia fossero rioccupate le pianure, abbandonate da mezzo millennio, sicché, dopo una lunga crisi, le estensioni di suolo coltivabile tornarono a essere pressoché equivalenti a quelle dell’Età Romana.36

(p. 119)L’impaludamento delle coste e delle pianure

Emilio Sereni, accennando al calo demografico che si registrò in Italia soprattutto tra VI e VIII secolo, riconosce come in questo rapidissimo declino demografico, e più in generale, in questa drammatica depressione di tutte le forze produttive sociali, abbiano avuto una parte, oltre alle nuove stragi e devastazioni della conquista longobarda, anche certi mutamenti climatici, che proprio in qua sta età segnano un momento culminante del loro ciclo. I cento anni tra il 450 ed il 550 d.C. sembrano infatti essere stati, per l’Italia e l’Europa, il periodo di una oscillazione del clima in senso caldo e umido. Tale constatazione può contribuire, da un lato, a darci conto delle grandi alluvioni che, come quella del 589, sconvolsero il paesaggio naturale stesso della val padana, dislocando addirittura il corso di grandi fiumi come l’Adige ed il Piave; può darci ragione, dall’altro, del rapido allargarsi del bosco o, rispettivamente, della palude, sui terreni abbandonati ed incolti, con la conseguente riacutizzazione, in questa età, della infezione malarica.37

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Questo studioso mette in relazione il fenomeno dell’abbandono delle terre con la mentalità longobarda, col modo stesso di vita dei nuovi invasori, col sistema agro-silvo-pastorale sul quale esso è fondato: queste popolazioni di guerrieri ed allevatori seminomadi conoscono, semmai, solo colture marginali o precarie, per le quali l’allevamento brado dei suini, degli ovini, ma soprattutto del cavallo, essenziale ai fini del nomadismo ed a quelli militari, si accompagna e si integra (come presso molti popoli della steppa eurasiatica in questa età) con le attività della devastazione e della rapina di territori abitati da popolazioni agricole sedentarie più evolute.38

E interessante a questo punto cercare di capire se la fase climatica particolarmente calda vissuta dal pianeta tra il V e VI secolo, di cui parla Sereni discostandosi dalla cronologia di Pinna, si sia effettivamente verificata e se, in tal caso, possa aver rappresentato una delle principali cause dello spostamento dei popoli nordici in Europa verso l’Italia.Paolo Diacono, che scrive la sua Historia Langobardorum alla fine dell’VIII secolo, all’inizio del libro primo, parlando delle origini della migrazione dei winili nel VI secolo dall’isola di Scadinavia, accenna a due fenomeni, che sembrano confermare questo assunto. Egli, infatti, evidenzia da una parte la forte crescita demografica dei winili e dall’altra un’accentuata invasione del mare, conseguente allo scioglimento dei ghiacci polari per la crescita della temperatura, che continuava ancora nell’VIII secolo: Quest’isola per quanto ci hanno riferito quelli che l’hanno visitata, anziché posta in mezzo al mare, dato il carattere pianeggiante delle sue coste, si può dire piuttosto circondata dai flutti marini che la invadono.39

Un innalzamento abnorme del livello del mare nell’VIII secolo sembra essere attestato da altre allarmate notazioni, pure presenti nell’Historia di Paolo Diacono: ... Si afferma che esiste un’altra voragine del genere [del tipo di quella che si ipotizzava esistesse tra Scilla e Cariddi] tra l’isola della Britannia e la provincia della Galizia. Ciò è confermato da quanto accade sulle spiagge di Sequania ed Aquitania, che due volte al giorno sono invase da così rapide maree che chi si trova poco distante dalla riva rischia di non riuscire a scampare. Sembra che i fiumi di quelle regioni, ritirandosi con corso velocissimo verso le sorgenti, (p. 120) cambino per molte miglia le loro acque dolci con quelle salate... Anche il nostro mare, e cioè l’Adriatico, per quanto meno, tuttavia invade le spiagge delle Venezie e dell’Istria, e si può credere che abbia dei piccoli gorghi nascosti come questi, dai quali le acque, ritirandosi, sono assorbite e di nuovo vengono vomitate a invadere le spiagge.40

Un’altra testimonianza sull’aridità del clima sembra essere fornita dal brano della Historia Langobardorum nel quale Paolo Diacono accenna alla riduzione della portata del fiume Istro in Dalmazia, che nella storia romana si dice fosse molto più grande di quanto non è ora.41

Le annotazioni di Paolo Diacono sembrano assicurare una sostanziale conferma alle tesi dei ricercatori moderni, che nello studio della storia, dell’economia e del comportamento dell’uomo fanno riferimento, anche, all’analisi dei fattori climatici.

Domenico Novembre, riferendosi alle tesi esposte da Pierre Alexandre, ricorda che il periodo più caldo del Medioevo è stato collocato tra gli inizi del IX e la fine del XIII secolo;42 riporta che il piccolo optimum fu caratterizzato dall’aumento della temperatura dell’aria e dell’acqua marina con fusione di masse glaciali continentali e marine, nonché dall’innalzamento graduale, sino ad un metro rispetto all’attuale, del livello del mare. In questo contesto lo studioso accenna alla possibilità che i valichi montani, resi più accessibili dallo scioglimento dei ghiacciai alpini, abbiano facilitato le invasioni barbariche.

Nella nostra regione, sempre secondo Novembre, l’innalzamento del livello marino, alterando il deflusso dei fiumi nel loro basso corso, causò la formazione di paludi e di acquitrini alle spalle dei cordoni di dune; nell’idrografia sotterranea, poi, la crescita del livello del mare portò a un innalzamento della falda salmastra e all’inquinamento delle falde freatiche dolci più superficiali, rendendole inadatte all’irrigazione e all’uso alimentare. Questa situazione determinò velocemente l’abbandono dei pozzi e delle colture, lo spopolamento costiero e la creazione di selve paludose, penalizzando quelle che una volta erano fertili pianure produttive e valorizzando

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la funzione attrattiva delle calcareniti dello zoccolo premurgiano, che consentivano la facile captazione delle falde freatiche.43

La prima e letale conseguenza dell’impaludamento fu il diffondersi della malaria, tanto che, ancora in Età Normanna i nuovi centri abitati si addensavano nell’entroterra per sfuggire al terribile morbo, che all’epoca mieteva tante vittime.44

La zanzara anofele ha continuato a imperversare per secoli in estese zone paludose della pianura tarantina, venendo debellata finalmente alla metà del Novecento, dopo circa un secolo di bonifiche, avviate subito dopo l’unità d’Italia; ancora nel 1863 un censimento delle zone paludose del settore costiero occidentale, prossime alle principali comunità rupestri di Ginosa, di Laterza, di Castellaneta, di Palagianello, di Mottola e di Massafra, evidenziava nel comprensorio almeno una trentina di aree fortemente compromesse.45

L’impaludamento delle pianure e delle coste influì anche sulla viabilità medioevale: per (p. 121) questo motivo le due principali arterie viarie d’Età Romana, la Traiana sull’Adriatico e l’Appia sullo Ionio, a partire dal VI secolo arretrarono verso l’interno su assi paralitoranei, che in entrambi i casi costeggiavano i più importanti insediamenti rupestri; per l’Appia tarantina uno dei diverticoli principali era costituito dalla via consolare, che da Palagianello conduce a Massafra.46

La triste situazione produttiva e sanitaria delle regioni meridionali nell’VIII secolo dettava a Paolo Diacono queste considerazioni: Le regioni settentrionali, quanto più sono lontane dal calore del sole e gelide per il freddo delle nevi, tanto più risultano salubri per i corpi degli uomini e adatte all’accrescimento delle popolazioni; al contrario, le regioni meridionali, quanto più sono assolate, tanto più abbondano di malattie e sono poco adatte al nutrimento delle genti.47

A proposito della Puglia, quindicesima provincia longobarda, questo stesso storico, pur ricordando l’opulenza di città come Lucera, Siponto, Canosa, Acerenza, Brindisi, Taranto e Otranto, chiosava: il nome Puglia deriva da rovina, poiché molto rapidamente per il grande calore del sole i raccolti vanno perduti, facendo risalire, così, il toponimo al verbo greco apollumi (andare in rovina).48

Il piccolo optimum medioevale attraversò due soglie climatiche di grande portata nell’XI se-colo e verso la metà del Duecento).49

Nel XIV secolo, però, si verificò una brusca degradazione, che preludeva a un forte raffreddamento e che coincise con lo spopolamento e l’abbandono dei casali e dei villaggi rupestri, anche per gli effetti di una tremenda epidemia di peste nell’ultimo quarto del secolo.

Si entrò, infatti, in un periodo fresco e umido, durato sino alla metà del Cinquecento e, quindi, nella piccola età glaciale, che, come s’è detto, si protrasse sino alla metà dell’ottocento.50

Le vicende demografiche della Puglia nell’Alto Medioevo

Il popolamento rupestre della Puglia si concentra proprio nel periodo di cresta del piccolo optimum medioevale, ossia tra i secoli IX-XIV, nel corso dei quali si registrò la nascita, lo sviluppo e in alcuni casi la morte d’interi villaggi e di città, scavati nella friabile calcarenite della Murgia.

Alcuni studiosi, come s’è detto, tendono a retrodatare al V-VI secolo la vicenda rupestre, come, per esempio, Ernst Kirsten, il quale sostiene che i grandi centri rupestri di Matera, di Massafra, di Gravina, di Laterza e di Altamura rappresentano la fuga al sottosuolo, alle gravine e lame non di facile osservazione per gli invasori arabi o anche longobardi; tale fuga sarebbe durata fino al ripristino di situazioni pacifiche sotto i normanni e gli svevi.51

Datazioni così alte, tuttavia, non sono confermate dalla documentazione archeologica, né dalle sparute cronache medioevali, se si (p. 122) escludono la citazione della mansio ad speluncas

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presso Carovigno e quella del ritrovamento di un tesoretto di monete vandale e bizantine al-l’interno di una grotta nel villaggio rupestre massafrese della Madonna della Scala.52

Tali episodi, sia pure estremamente importanti, rimangono, comunque, troppo puntuali e isolati per poter sostenere una datazione alta dell’inurbamento rupestre, considerando che la stessa Matera cominciò a fornire testimonianze archeologiche e documentario sul trogloditismo medioevale solo a partire dall’ VIII-IX secolo.53

Allo stato attuale delle ricerche non si può negare che manifestazioni stanziali in rupe possano essersi verificate sporadicamente in secoli più alti, rispetto a quelli indicati, ma le scarne notizie sul paesaggio rurale, sulla consistenza demografica e sulla situazione politica della regione non sembrano confermare tra il V e l’VIlI secolo un particolare stillicidio insediativo rupestre, né, tanto meno, la presenza di un consistente popolamento sul territorio, accentrato in grossi villaggi.

E stato calcolato che la popolazione pugliese nel III secolo a.C. ammontasse complessiva-mente a circa duecentottantacinquemila abitanti, con un indice di densità pari a 16,6 abitanti per chilometro quadrato, che corrisponde a meno del 10% della densità attuale.54

Questa cifra si era, sicuramente, di molto assottigliata nel corso della dominazione romana ma dal VI secolo con l’avvento dei longobardi si assistè in tutta Italia a un vertiginoso calo demografico,55 che portò a toccare, attorno al 700, un minimo calcolato in non più di quat tro-cinque milioni complessivi di abitanti per la penisola e per le isole; lentamente la popolazione italiana risalì a poco più di cinque milioni e mezzo nel X secolo, per raggiungere i nove-dieci milioni, prima della micidiale pestilenza del 1348.56

A fronte di questa innegabile realtà demografica, valutata su scala nazionale e attestata ampiamente dagli storici, mancano per la Puglia dati più precisi, almeno fino al periodo svevo.

André Guillou rileva che, secondo i calcoli di Karl Julius Beloch relativi al 1276, anno per il quale si conserva la globalità della documentazione fiscale, in Puglia risiedevano complessivamente centosettemila abitanti con un’indice di densità pari a 5,48 abitanti per chilometro quadrato, circa un terzo di quella riscontrata oltre millecinquecento anni prima, ossia in Età Ellenistica.57

I dati riportati da Guillou, tuttavia, contengono un errore, perché il numero citato, risultato delle elaborazioni della stima di Beloch, non è riferito al totale degli abitanti, bensì ai fuochi, ovvero ai nuclei familiari.

L’intera contribuzione del regno federiciano, a parte la Sicilia, ammontava, infatti, a 45.000 once, il che fornisce una stima totale di quattrocentomila fuochi, instaurando il rapporto di 1 oncia ogni 8,8 fuochi. Di questi, centonovemiladuecento fuochi, ossia il 27,3%, vanno attribuiti alla Puglia, così ripartiti per aree geografiche: ventinovemiladuecento (7,3%) alla Capitanata; quarantottomila (12%) alla Terra di Bari; trentaduemila (8%) alla Terra d’Otranto. La popolazione complessiva della regione in epoca federiciana potrebbe, pertanto, essere stimata, più o meno, intorno al mezzo milione di abitanti.58

A partire dal IX secolo le scelte politiche del governo bizantino, che aveva riconquistato la totalità della regione, giocarono un ruolo importante nella crescita demografica della Puglia.59

I ripopolamenti bizantini, documentati nel IX e nel X secolo, si verificano, però, almeno trecento anni prima del periodo svevo e, probabilmente, non si è molto lontani dalla verità nel valutare che nella Longobardia, all’inizio della seconda colonizzazione bizantina, dovevano (p. 123) risiedere poco meno della metà dei probabili cinquecentomila abitanti del XIII secolo, ovvero tra le duecento e le duecentocinquantamila anime con un indice di densità media di dieci-dodici abitanti per chilometro quadrato, a fronte dei 19500 chilometri quadrati di estensione del thema.

Si giunge a questa stima applicando la proporzione rilevabile dalle valutazioni di Beloch per l’intera popolazione italiana ed elaborate da Athos Bellettini, i quali indicano per il IX-X secolo una popolazione oscillante tra quattromilionicinquecentomila e cinquemilioniduecentomila, contro i dieci-undici milioni stimati per il periodo 1250-1300.60

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La lettura di questi dati demografici impone una rivalutazione della portata e dell’incisività dell’azione colonizzatrice dei bizantini, in quanto i tremila coloni inviati dall’imperatore Leone VI (886-912) rappresentavano già un bel numero, rispetto al totale della popolazione locale del IX secolo in Puglia.

A proposito dell’eventualità di un popolamento rupestre già nei secoli precedenti, si deve, invece, considerare che tra il VI e l’VIII secolo appena centocinquanta-duecentomila anime popolavano un territorio regionale di quasi 20.000 chilometri quadrati di bosco e di paludi; queste genti, inoltre, in un periodo di depressione economica e d’insicurezza sociale erano generalmente concentrate nelle città costiere e in pochissimi centri interni.

Questi abitanti dovevano avere ben poche motivazioni a insediarsi spontaneamente in grotta tra le gravine con l’arduo compito di colonizzare con tentativi sporadici e isolati un territorio difficile e inselvatichito, a parte, naturalmente, le diverse esigenze esistenziali di qualche pastore, monaco, eremita o brigante.

La colonizzazione del territorio: i kibbutz rupestri

Da più di un indizio si coglie che la svolta politica ed economica, presumibilmente legata alla forte affermazione del fenomeno insediativo rupestre, sia rappresentata dalla riconquista degli emirati berberi di Taranto e di Bari, avvenuta nel cuore del IX secolo, periodo in cui l’intera Puglia è, ormai, nelle mani di Bisanzio.

È utile, pertanto, ricostruire brevemente alcune linee portanti della politica bizantina durante la dominazione della dinastia imperiale macedone (867-1057), frangente storico che è stato definito l’età dell’oro dell’Impero Romano d’Oriente.

Le campagne, come ricorda Alain Ducellier, occupavano una posizione centrale nell’economia e nella società bizantina, sia per la loro capacità di produrre risorse e ricchezza a vantaggio delle metropoli e delle città imperiali, sia per la funzione di serbatoio di uomini destinati all’esercito imperiale.61

Risalta, in particolare, l’importanza delle aree rurali ai fini fiscali, considerando gli alti costi della burocrazia e delle spese della corte bizantina, che avevano determinato un severo controllo e il perfezionamento del prelievo contributivo, sicché l’amministrazione delle finanze si poneva come elemento vitale dell’intero sistema di potere.62

Le campagne dell’Impero Bizantino, considerate nella loro globalità, pur non risultando particolarmente arretrate per gli standard dell’epoca, denunciavano, tuttavia, una produttività relativamente bassa, soprattutto a causa di alcuni fattori naturali, come la limitatezza di pianure nelle aree balcanica ed ellenica, nonché degli altopiani dell’Asia Minore; spesso, inoltre, le pianure erano insalubri a causa degli impaludamenti e, talvolta, non venivano (p. 124) coltivate, perché spopolate. Gli agricoltori lavoravano, quindi, una percentuale irrisoria delle terre dell’impero in una situazione ambientale oltremodo difficile per la quantità dei raccolti, spesso in balia delle calamità e delle avversità naturali.63

Questi fattori non facilitavano il potenziamento della produttività dell’agricoltura bizantina, causando un’inevitabile riduzione degli attesi introiti fiscali.

Con l’ascesa al trono di Bisanzio degli imperatori macedoni venne a delinearsi una coerente strategia, tesa a rivitalizzare demograficamente ed economicamente le province rurali dell’impero, come la Puglia.

Venne, pertanto, attuata una politica d’incentivazione delle migrazioni di popolazioni rurali in aree limitrofe e/o in altre regioni dell’impero, puntando sullo sviluppo delle iniziative di colonizzazione e di dissodamento delle terre sulla falsariga dell’ampio movimento di bonifica, che interessava in quei secoli tutta l’Europa.

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Esemplare è il caso delle province dell’Anatolia, dove per il ripopolamento degli altipiani vennero favorite dapprima l’immigrazione dei siriani monofisiti dai territori dell’Eufrate, quindi quella degli armeni, soprattutto nella Cappadocia rupestre.

Questa politica ebbe particolare successo, se si considera che nel 1020 la sola città di Melitene poteva contare sessantamila abitanti in gran parte siriani, equivalenti, pressappoco, a un quarto della popolazione stimata per lo stesso periodo per l’intero thema di Longobardia; in Cappadocia dal X secolo si stabilirono, inoltre, intere tribù di principi armeni, importando i costumi feudali della terra d’origine.64

Per l’Italia meridionale tale compito si presentava più arduo a causa dello spopolamento della penisola italica, che, a differenza dell’Asia Minore, impediva il successo di politiche di favoreggiamento dell’immigrazione da parte di aree geografiche confinanti.

Un contributo migratorio alla Calabria e alla Longobardia veniva dalla Sicilia, caduta sotto la dominazione musulmana,65 ma, in realtà, il ripopolamento dei thema dell’Italia meridionale sembra essere stato attuato, prevalentemente, attraverso il trasferimento via mare di numerosi ceppi tribali e parentali armeni e mediorientali, nonché di schiavi liberati, provenienti dalla Grecia e dalle province dell’impero che si affacciavano sul Mar Nero.

Nella seconda metà del IX secolo Basilio I (867-886) fondò o meglio rifondò Gallipoli, popolandola con abitanti provenienti da Eraclea, città della Tracia, sullo Stretto dei Dardanelli;66

Leone VI alla fine del IX secolo trasferì dal Peloponneso nel thema di Longobardia tre o quattromila schiavi affrancati,67 altri coloni greci vennero, forse, inviati a Taranto, dopo la riconquista bizantina dell’880 e, più tardi, all’epoca di Niceforo II (963-969).68

Le politiche imperiali di colonizzazione furono, comunque, avviate per invertire il degrado economico, civile e ambientale del territorio, verificatosi nei secoli delle dominazioni longobarda e araba, che costituiva un serio limite allo sfruttamento economico dei territori d’oltremare: per Bisanzio, come per tutti gli imperialismi in ogni fase della storia, la conquista di nuovi territori, infatti, aveva senso solo se comportava, parallelamente alle convenienze strategiche e militari, il conseguimento di solidi e concreti benefici economici.

È stato finora poco considerato dagli studiosi che gli imperatori d’Oriente, nell’inviare nel LX e X secolo migliaia di schiavi liberati nelle regioni meridionali d’Italia, non perseguivano il fine di accrescere gli abitanti dei pochissimi centri con una certa fisionomia urbana, (p. 125) tale da raccogliere nelle loro mura la quasi totalità della popolazione del thema di Longobardia, quali Otranto, Gallipoli, Brindisi, Oria, Taranto, Monopoli, Bari, Canosa, Acerenza, Tricarico; i dinasti bizantini, al contrario, intendevano ripopolare le campagne stremate e avviare un nuovo ciclo di sfruttamento delle risorse economiche del territorio regionale, a cominciare, naturalmente, dall’agricoltura.

André Guillou coglie lucidamente il nesso intercorrente tra queste politiche colonizzatrici di Bisanzio e il popolamento rurale della Puglia tra il IX e X secolo: Mi sembra seducente collegare queste due misure di colonizzazione con l’opera di riorganizzazione dell’Italia del sud intrapresa dallo stratega Niceforo Focas, nei primissimi anni del regno di Leone VI, se non nell’ultimo anno del regno di Basilio I; mi pare certo, in ogni caso, che si tratti di disposizioni organiche. Dunque la Puglia ha accolto dei greci dal Peloponneso (suppongo che se si fosse trattato di slavi il cronista l’avrebbe riferito) e della Bitinia [sul Mar Nero] alla fine del secolo IX. D’altronde mi è stato possibile determinare che almeno la Calabria, la Lucania e la Longobardia meridionale avevano una popolazione greca considerevole, ben presto maggioritaria dopo il periodo delle bonifiche agrarie che deve collocarsi alla fine del secolo IX e agli inizi del X.69

Il melting pot risultante da queste trasfusioni demografiche, destinate alle bonifiche agrarie, evidenzia, oltre ai greci e ai longobardi, altre razze e nazionalità, segnalate sul territorio della Puglia nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo: armeni, come a Matera,70 a Bari, a Ceglie;71

arabi, soprattutto di origine berbera72 ed ebrei.73

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E’ estremamente probabile che la maggior parte degli eleuteri, che dettero inizio al dissodamento delle pianure della Puglia riconquistata agli arabi e che costituirono i primi choria all’ombra delle pareti rupestri delle gravine, rientrasse nelle iniziative di ripopolamento e di colonizzazione promosse dagli imperatori bizantini macedoni.

Molti toponimi, risalenti al periodo basso-medioevale, spesso collegati a fondazioni ecclesiastiche, testimoniano, infatti, il persistere della presenza di numerose comunità etniche dei coloni d’Oriente nell’areale rupestre pugliese: la comunità armena è attestata a Bari, dov’è la Chiesa di San Gregorio degli Armeni, a Taranto con la Chiesa di Sant’Andrea degli Armeni e a Matera con Santa Maria de’Armenis; luoghi di culto dedicati a san Nicola dei Greci sono testimoniati a Mottola, a Laterza e a Castellaneta; a Monopoli vi è la Chiesa di San Benedetto o San Michele de’ Grecis; a Palagianello la presenza dei clericis grecis Palaiani è evidenziata dalle Rationes decimarum, ancora nel 1324.

(p. 126) I contadini liberi non rappresentarono l'unica componente del movimento colonizzatore, essendo stato sottolineato il ruolo importante svolto dal monachesimo greco in molti dissodamenti di questo periodo, poiché l'attività dei Basiliani non si esauriva nell'ascesi e nella contemplazione mistica, dal momento che essi consideravano un vero e proprio obbligo morale il lavoro manuale per procacciarsi da vivere.74

Nella Puglia medioevale, a partire dal X secolo, cominciarono a sorgere numerose chiese rurali, per lo più di fondazione laicale, che, secondo l'interpretazione corrente, fornivano ai contadini un forte legame religioso, inducendoli a fissare la loro residenza nelle vicinanze delle terre messe a coltura; le fondazioni religiose, peraltro, erano spesso utilizzate nel processo di colonizzazione con gli stessi obblighi di bonifica e di miglioria per le terre beneficiarie in uso per i normali contratti agrari.75

Un aspetto secondario e poco indagato della politica bizantina nei confronti dei grandi monasteri ortodossi merita di essere ricordato, a prescindere dalle precipue caratteristiche del contributo monacale italo-greco alla colonizzazione bizantina della Puglia rurale.

Nella seconda metà del X secolo Niceforo Foca emise una serie di misure, tendenti a bloccare l'espansione del latifondo ecclesiastico, fortemente alimentato dai lasciti e dalle donazioni di fedeli ai monasteri, nonché dalle politiche di accaparramento fondiario, effettuate dai grandi ordini religiosi.

Questa situazione, infatti, infastidiva l'imperatore, perché il latifondo ecclesiastico, generalmente, limitava il razionale sfruttamento delle risorse agricole, costituendo una rendita parassitaria per il clero, fruttando ben poco al fisco imperiale a causa dei privilegi e delle esenzioni goduti dagli ecclesiastici e accrescendo la fame di terra dei contadini poveri.

Quelle leggi proibirono, addirittura, la fondazione di nuovi monasteri con esplicita eccezione per le celle e per gli eremitaggi degli insediamenti monastici, che dovevano colonizzare le zone più desolate e impervie dell'impero.76

Tali disposizioni, peraltro rimaste in vigore per pochi anni, si rivelano interessanti per due aspetti: da una parte attestano l'importanza e la considerazione in cui erano tenuti da Niceforo Foca i veri monaci, ossia gli asceti-pionieri, che guidavano la penetrazione di Bisanzio nelle province dell'impero; dall'altra potrebbero fornire una nuova interpretazione monacale alla natura trogloditica dei nostri villaggi rupestri, qualora si potesse provare che gli insediamenti pugliesi scaturirono, prevalentemente, da iniziative colonizzatrici ecclesiastiche, realizzate per impulso di tale legislazione ed effettuate nel corso della seconda metà del X secolo.

1 nuovi colonizzatori bizantini sbarcarono, così, in Puglia, regione in cui la floridezza di alcuni distretti agricoli in Età Ellenistica e Romana era stata ampiamente celebrata e lodata dagli autori classici, i quali costituivano, pur sempre, un importante riferimento per la cultura bizantina.

L'interesse dei coloni sembra si sia indirizzato, essenzialmente, sulla Puglia centro-meridionale, soprattutto sulle già feraci pianure della chora tarentina e del Brindisino, escludendo la parte

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settentrionale del Tavoliere, che non sarà rioccupato prima dell'XI secolo, ossia in età normanna.77

(p. 127) L'obiettivo primario dei coloni consisteva, presumibilmente, nel risanare e nel riportare a coltivazione quelle vaste aree pianeggianti, che avevano costituito la ricchezza delle colonie magno-greche e romane e che i ricorrenti eventi bellici, lo spopolamento e le vicende climatiche avevano ridotto al dominio dell'incolto e della palude.

Uno dei maggiori problemi di un progetto così ambizioso era rappresentato dall'impatto con le difficili condizioni di vita che i coloni dovevano affrontare nel risanare le pianure: la malaria era endemica, mieteva tantissime vittime e non poteva essere debellata se non attraverso un'ampia e radicale bonifica delle paludi; per effettuare l'indispensabile bonifica, però, gli insediamenti dei coloni non potevano essere ubicati in pianura, esposti ai miasmi degli acquitrini e all'eccessiva

1 J. REWERSKI, Il troglodita, questo sconosciuto, in Il Corriere dell'UNESCO, Firenze, marzo 1996, pp. 10 e ssg.2 Cfr. C. D. FONSECA, Il comprensorio della civiltà rupestre, Massafra, 1988, p. 25.3 Cfr. G. UGGERI, La viabilità romana nel Salento, Fasano di Brindisi, 1983, p. 359.4 Cfr. A. COMNENE, Alexiade, Paris, 1967, tome I, livre I, XI, par. 1, p. 38.5 L.A. SENECA, Lettere a Lucilio, libro XIX, lettera 90,17 (traduzione di G. MONTI), Milano, 2000, vol. II, pp. 694-6956 D. NOVEMBRE, L'ambiente fisíco, in AA.VV., Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo (a cura di G. MUSCA), Bari, l989, pp, 21-22 e nt. l. Le parti riportate tra virgolette nella citazione sono tratte dall'autore da R.A. BRYSON - C. PADDOCH, I climi nella storia, in R.I. ROTBERG - T.K. RABB (a cura di), Clima e storia - Studi di storia interdisciplinare, Milano, 1984, pp. 13-14.7 Cfr. M. PINNA, Climatologia, Torino, 1977, pp. 408 e ssg.8 Cfr. R. CARPENTER, Clima e storia, Torino, 1969, pp. 39 e ssg.9 Cfr. ivi., pp. 31 e ssg.10 Cfr. A. GUILLOU, Longobardi, bizantino e normanni nell'Italia meridionale: continuità o frattura?, in AA.VV., Il passaggio dal dominio bizantino allo stato normanno nell'Italia Meridionale - Atti del Il Convegno di Studi sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d'Italia, Taranto, 1977, p 38.11 Cfr. C. PFISTER - J. LUTERBACHER, Variazioni climatiche in Europa dopo l'Alto Medioevo: nuovi approcci e risultati, in http://www.filovia-montedagro.ch/SABB/CLIMA.htm.12 Cfr. J. REWERSKI, op. cit.13 Cfr. F. DELL'AQUILA, L'insediamento rupestre di Petruscio, Cassano Murge, 1974, pp. 5-11. (p. 146)14 Cfr. N. LAVERMICOCCA, Gli insediamenti rupestri nel territorio di Monopoli, Bari, 1977, pp. 3 e ssg.15 C.D. FONSECA, Metodi comparativi e aree geopolitiche nello studio della civiltà rupestre, in AA.W., Le aree omogenee della civiltà rupestre nell'ambito dell'Impero Bizantino: la Serbia, Galatina, 1979, pp. 16-1816 V. DJURIC, De la nature de l'ancienne peinture serbe, in AA.VV., Le aree omogenee... cit., p. 152.17 Cfr. N. LAVERMICOCCA, op. cit., p. 6.18 C.D. FONSECA, La civiltà rupestre in Puglia, in AA.VV., La Puglia fra Bisanzio e l'Occidente, Milano, 1980, p. 44.19 C.D. FONSECA, Vivere in grotta: lo spazio urbano alternativo, in AA.VV., Ambienti, mentalità e nuovi spazi ur-bani tra Medioevo ed Età Moderna, Milano, 1987, p. 64.20 P. CORSI - G. MUSCA, Il Mezzogiorno dalla riconquista bizantina al regno normanno, in AA.VV., Storia della società italiana - L'Italia dell'Alto Medioevo, Milano, 1984, p.236.21 P. LAUREANO, Giardini di pietra - I Sassi di Matera e la civiltà mediterranea, Torino, 1993, p. 41.22 Cfr. V.A. SIRAGO, La Puglia nelle 'Variae' di Cassiodoro, in Studi Storici Meridionali, Cavallino di Lecce, maggio-agosto 1986, a. IV, n. 2, pp. 141-143.23 Cfr. A. MASSAFRA - B. SALVEMINI, Storia della Puglia. Dal tardo Impero Romano al 1350, Bari, 1999, pp. 36-38.24 Cfr. V.A. SIRAGO, op. cit., pp. 138-139.25 Cfr. R. LICINIO, Economia e società nell'Alto Medioevo, in AA.VV., Storia della Puglia - Antichità e Medioevo, Bari, 1987, pp. 179-180.26 Cfr. M. PANI, Economia e società in Età Romana, in AA.VV., Storia della Puglia - Antichità... cit., pp. 108-109.27 Cfr. ivi.28 V.A. SIRAGO, op. cit., p. 147.29 Cfr. R. LICINIO, op. cit., pp. 183-184.30 Cfr. ivi, pp. 181, 184 e 186.31 Cfr. A. MASSAFRA - B. SALVEMINI, op. cit., p. 41.32 A. GUILLOU, La Puglia e Bisanzio, in AA.VV., La Puglia fra Bisanzio... cit., p. 26.

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calura, altrimenti quasi nessuno sarebbe sopravvissuto all'impresa e in pochi avrebbero ceduto alla tentazione di rischiare seriamente la vita.

L'utilizzo intensivo dello zoccolo calcarenitico pedemurgiano, che contorna le pianure di Brindisi e di Taranto spingendosi fino alla fossa bradanica, come sede dei nuovi insediamenti fu sicuramente una delle soluzioni adottate dai coloni bizantini per affrontare e per risolvere questo problema.

Gli insediamenti rupestri sorsero, infatti, in luoghi vicini alla pianura per permettere il dissodamento e la bonifica delle terre pianeggianti ma, generalmente, allineati e addensati in una fascia altimetrica compresa tra 100 e 300 metri, notevolmente più salubre del piano.78

I geologi Vincenzo Cotecchia e Damiano Grassi rilevano: Gravina, Matera, Laterza, Ca-stellaneta, Gínosa, Palagianello, Massafra, Crispiano, Statte e Grottaglie sorgono tutti ai

33 Cfr. A. GUILLOU, Città e campagna nell'Italia meridionale bizantina (VI-XI secolo) - Dalle collettività rurali alla collettività urbana, in AA.VV., Habitat - Strutture Territorio - Atti del III Convegno Internazionale di Studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d'Italia, Galatina, 1978, p. 28.34 Cfr. ivi, p. 3335 Cfr. P. CORSI – G. MUSCA, op. cit., pp. 234-23536 Cfr. A. MASSAFRA - B. SALVEMINI, op. cit., p. 45.37 E. SERENI, Agricoltura e mondo rurale, in AA.VV., Storia d'Italia - I caratteri originari, Torino, 1972, pp. 158-159.38 Ivi.39 P. DIACONO, Storia dei longobardi, Milano, 1985, p.37.40 Ivi, pp. 39-40.41 Ivi, p. 85.42 Cfr. P. ALEXANDRE, Le climat en Europe au Moyen Age, Paris, 1987, passim43 Cfr. D. NOVEMBRE, op. cit., pp. 23-27.44 Cfr. ivi, p. 30.45 Cfr. R. PERRONE, Le paludi del Tarantino occidentale prima delle bonifiche, in Umanesimo della Pietra-Verde (in seguito UdP-V), Martina Franca, gennaio 1992, n. 7, pp. 103-108.46 Cfr.: G. UGGERI, Sistema viario e insediamento rupestre tra antichità e Medioevo, in AA.VV., Habitat - Strutture... cit., pp. 124-125; C.D. FONSECA, La civiltà rupestre... cit., p. 52; P. DALENA, Strade e percorsi nel Mezzogiorno d'Italia (secc. VI-XIII), Cosenza, 1995, p. 12; R. CAPRARA, Società ed economia nei villaggi rupestri, Fasano di Brindisi, 2001, p. 113.47 P. DIACONO, op. cit., p. 37.48 Ivi, p. 89.49 Cfr. R. LICINIO, Uomini e terre nella Puglia medioevale - Dagli svevi agli aragonesi, Bari, 1983, p. 35.50 Cfr. D. NOVEMBRE, op. cit., p. 30.51 Cfr. AA.VV., Magna Grecia bizantina e tradizione classica - Atti del XVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto, 1977, p. 136.52 Cfr.: W. HAHN, Un ritrovamento di minimi dei primi anni del VI secolo d.C. a Massafra presso Taranto, in Archeogruppo 3, Massafra, 1995, pp. 29 e ssg.; R. CAPRARA, op. cit., p. 129.53 Cfr. C.D. FONSECA - R. DEMETRI - G. GUADAGNO, Matera, Bari, 1999, p. 11.54 Cfr. M. PANI, op. cit., p. 100.55 Cfr. R. LICINIO, Economia e società... cit., p. 183.56 Cfr. E. SERENI, op. cit., p. 158.57 Cfr. A. GUILLOU, La Puglia e Bisanzio... cit., p. 20.58 Cfr. K.J. BELOCH, Storia della popolazione d'Italia, Firenze, 1994, pp. 131-132.59 Cfr. V. VON FALKENHAUSEN, I bizantini in Italia, Milano, 1986, p. 53. (p. 147) 60 Cfr. A. BELLETTINI, La popolazione italiana dall'inizio dell'era volgare ai giorni nostri - Valutazioni e tendenze, in AA.VV., Storia d'Italia - I documenti, Torino, 1973, vol. 1, p. 497.61 Cfr. A. DUCELLIER, Bisanzio, Torino, 1988, p. 172.62 Cfr. G. OSTROGORSKY, Storia dell'Impero Bizantino,Torino, 1968, p. 223.63 Cfr. A. DUCELLIER, op. cit., p. 173.64 Cfr. ivi, p. 172.65 Cfr. J. GAY, L'Italie meridionale et l'Empire Byzantin, depuis l'avènement de Basile I jusq'à la prise de Bari par les Normands (867-1071), Paris, 1904, p.184.66 Cfr. A. GUILLOU, Longobardi, bizantini... cit., p. 26.67 Cfr. ivi, p. 25; v. VON FALKENHAUSEN, op. cit., p. 53.

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margini esterni dell'altopiano carsico murgiano, là dove questo si affaccia sulla Fossa Bradanica e sulle pianure di Taranto e Brindisi. Solo in dette aree, infatti, i graduali e differenziati sollevamento post calabrianí hanno prodotto apprezzabili dislivello altimetrici e quindi hanno consentito all'erosione fluviale di originare strette e profonde forre. Altrove difficilmente al parametro litologico si affianca quello morfologico, avendo i depositi calcarenitici un assetto essenzialmente pianeggiante.79

Per definire compiutamente la mappa di questo popolamento, ai centri ricordati dai citati geologi vanno aggiunti, a ridosso della piana brindisina, gli insediamenti rupestri di San Vito dei Normanni, di Ostuni, di Fasano e, risalendo verso Nord, quelli di Monopoli, di Polignano e di Castellana.

L'ubicazione strategica di villaggi e di fattorie a mezza collina, tra i notevoli dislivelli del territorio delle gravine e delle lame, facilitava di molto la tendenza all'architettura per sottrazione nelle tenere pareti di tufo dei canyon ma ciò rappresentava solo uno dei vantaggi della scelta insediativa.

La difesa degli insediamenti si avvaleva del 'fattore mimetico e, almeno per la gran parte del comprensorio jonico, di una discreta distanza dalla costa, venendosi, così, a potenziare g i elementi di sicurezza nei confronti delle scorrerie dei pirati e dei predoni provenienti dal mare.

(p. 128) Raffaele Licinio evidenzia, inoltre, che gli insediamenti rupestri potevano sfruttare i depositi alluvionali di fertilissima terra rossa nel letto delle lame, particolarmente vocati alla viti-coltura e all'orticoltura.80

Questo stesso autore aggiunge che il popolamento della fascia calcarenitica, posta a cerniera tra le pianure alluvionali e lo zoccolo di Calcare di Altamura dell'area boscosa e selvaggia della Murgia, permetteva agevolmente l'uso e il controllo di un sistema naturale di comunicazioni tra entroterra e costa, che aveva una grande importanza anche per l'esercizio della transumanza armentizia locale tra i pascoli estivi nelle boscaglie della Murgia e quelli invernali della pianura.81

Le comunità nell'insediarsi individuarono, infatti, le aree della pianura dove esercitare comunitariamente il pascolo invernale, dando a queste una destinazione pastorale, che si pro-trasse in alcuni casi per molti secoli.

Con gli aragonesi, circa cinquecento anni dopo, venne istituzionalizzata la destinazione a pascolo di una buona fetta della piana tarentina negli attuali territori di Castellaneta e di

68 Cfr.: V. VON FALKENHAUSEN, Problemi istituzionali, politico-amministrativi ed ecclesiastici della seconda colonizzazione bizantina, in AA.VV., La civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d'Italia: ricerche e problemi - Atti del Primo Convegno Internazionale di Studi 1971, Genova, 1975, p. 47; P. CORSI - G. MUSCA, op. cit., p. 232.69 A. GUILLOU, Longobardi, bizantini... cit., p. 2670 Cfr. ivi, p. 27.71 Cfr. V. VON FALKENHAUSEN, I bizantini…, cit., p. 93.72 Cfr. A. GUILLOU, Longobardi, bizantini…, cit., p. 28.73 Cfr. V. VON FALKENHAUSEN, I bizantini..., cit., pp. 95-96.74 Cfr. P. CORSI - G. MUSCA, op. cit., p. 240.75 Cfr. G. VITOLO, La conquista normanna nel contesto economico del Mezzogiorno, in AA.VV., Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno - Atti del Convegno Internazionale di Studi - 1985, Galatina, 1990, p. 85.76 Cfr. G. OSTROGORSKY, op. cit., pp. 252-253.77 Cfr. A. MASSAFRA - B. SALVEMINI, op. cit., p. 3878 Cfr. D. NOVEMBRE, Per una cartografia del popolamento rupestre in Terra d'Otranto, in AA.VV., Habitat, -Strutture... cit., p. 215.79 V. COTECCHIA- D. GRASSI, Aspetti geologici e geotecnici dei principali centri rupestri medioevali della Puglia e della Lucania, in AA.VV., Habitat - Strutture... cit., p.144.80 Cfr. R. LICINIO, Elementi dell'economia agraria del territorio nel Basso Medioevo, in AA.VV., Società, cultura, economia nella Puglia medioevale, Bari, 1985, p. 36.81 Cfr. ivi, pp. 44-45 e 48.

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Palagianello, che costituivano la Locazione di Terra d'Otranto della transumanza, regolata dalla Regia Dogana della Mena delle Pecore di Foggia.82

Il ritrovamento di alcuni villaggi epigei bizantini in Lucania, databili al X secolo sulla base dei reperti ceramici, conferma che in tale epoca gli insediamenti rurali dell'Italia meridionale venivano ubicati prevalentemente lungo e al di sopra dei corsi d'acqua, generalmente in territori posti a mezza collina, al limite dei pascoli estivi e invernali.83

Le caratteristiche dei villaggi rurali lucani, dunque, corrispondono esattamente a quelle dei contemporanei insediamenti trogloditici pugliesi.

Un altro elemento fondamentale, garantito ai coloni dall'habitat delle gravine e delle lame, era l'acqua.

Può apparire strana questa affermazione, riferita a un ambiente che era, allora probabilmente più di oggi, sostanzialmente arido e stepposo; in realtà, se a causa dell'intrusione dell'acqua salmastra, dovuta all'innalzamento del livello del mare, non si potevano utilizzare per l'alimentazione e per l'irrigazione le falde freatiche superficiali della pianura, il posizionamento dei villaggi sui gradoni calcarei in una fascia altimetrica più alta permetteva l'attingimento del liquido vitale da pozzi, che pescavano in falde freatiche superficiali non inquinate.

L'estrazione d'acqua dal sottosuolo, tuttavia, non era preminente nell'economia degli insediamento rupestri, rispetto alla raccolta delle acque meteoriche e di condensa, testimoniata dall'onnipresenza di cisterne e di acquai negli ambienti rupestri, dato che gravine e lame sono bacini idrografici in cui confluiscono le acque pluviali dei rilievi della Murgia: nella regione potrà anche piovere poco ma, quando l'evento si verifica, le acque devono per forza defluire a valle attraverso il reticolato delle forre calcaree.

Un insediamento umano non estremamente numeroso e attrezzato con una vasta ed efficiente rete di captazione, dotata di cisterne e di pozzi a campana, può, dunque, raccogliere tutta l'acqua necessaria alla sua sopravvivenza e gestirla con un adeguato sistema di razionamento, tale da garantire l'autosufficienza delle risorse idriche nei mesi caldi e secchi.

Lo stesso scavo intensivo di tante grotte nei fianchi delle strette incisioni calcaree delle Murge comporta, inoltre, variazioni nell'habitat con effetti importanti per il microclima della gravina, soprattutto in periodi particolarmente aridi.

Le grotte, infatti, come i muretti a secco, rappresentano degli ottimi condensatori e distributori di umidità nell'ecosistema della forra, secondo il meccanismo descritto dal geologo Claudio Cantelli: La condensazione del vapor (p. 129) d'acqua contenuto nell'aria risponde al principio in base al quale più aumenta la temperatura dell'aria, maggiore è la quantità di vapore contenuto per unità di volume. Durante il giorno, col procedere del riscaldamento solare, aumenta la percentuale di vapore nell'atmosfera, che si espande, penetrando nei meandri delle rocce e nei corpi naturali, a loro volta riscaldati, sino al limite della saturazione. Cessato il riscaldamento diurno, ha inizio il raffreddamento dell'aria, delle rocce, del suolo, che culmina all'alba, quando con il sole sorgente inizia il nuovo riscaldamento diurno. Per effetto del graduale raffreddamento le minute goccioline, che via via si condensano sulle superfici interne delle rocce e dei muretti, diventano soggette alla gravità e iniziano la discesa lungo i pori o le fessure, sino a raggiungere il suolo sottostante. Il terreno assorbe quest'acqua, sino a saturazione, per ridistribuirla agli apparati radicali delle piante che si spingono fin sotto ai muretti per rifornirsi del liquido necessario.84

Nel caso della grotta la funzione di rilascio di umidità nella gravina viene amplificata dal-l'azione delle correnti notturne d'aria più fresca, che, penetrando negli invasi, facilitano la

82 Cfr. I. PALASCIANO, La Dogana dal Regal Tavoliere alla Terra d'Otranto, in Riflessioni-Umanesimo della Pietra, Martina Franca, luglio 1992 (n. 15), pp. 81-92.83 Cfr. A. GUILLOU, Longobardi, bizantini... cit., p. 33.84 C. CANTELLI, Misconosciute funzioni dei muretti a secco, in UDP-V, Martina Franca, gennaio 1994, n. 9, pp. 24-25.

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condensazione dell'umidità raccolta nell'antro in minuscole goccioline; le stesse correnti d'aria trasportano e disperdono le gocce della condensa all'esterno della grotta a beneficio dei piccoli orti, che circondano le abitazioni.

Queste soluzioni di adattamento ambientale attestano l'applicazione sul nostro territorio del modello della comunità idrogenetica, considerata da Pietro Laureano come alternativa alla società idraulica.

Quest'ultima tende a rendere produttive vaste aree territoriali, grazie alla fornitura d'acqua attraverso infrastrutture e sistemi costosi e centralizzati, mentre per comunità idrogenetiche s'intendono: ... formazioni sociali basate sulla produzione idrica e organizzate secondo una logica opposta rispetto all'ipertrofia ed al dirigiamo statale. Si tratta di tipi di abitata originati in aree che non benefíciano delle grandi disponibilità dei bacini fluviali perenni, in sistemi ambientali impervi e di piccole dimensioni, ove il paesaggio frammentato impone il controllo su scala locale delle risorse. Le tecniche utilizzate sono fondate sulla combinazione vantaggiosa di disponibilità minime e sull'utilizzo di principi sottili di umidità, di fertilità e vivibilità. Appaiono in diretta continuità con le originarie pratiche di sussistenza paleolitiche e con le prime esperienze di coltivazione 'a giardino’ neolitiche, evolvendo in sistemi elaborati di conoscenze volte alla creazione e gestione di ecosistemi autosostenibili. Si formano così, ai margini delle grandi concentrazioni demografiche, piccole comunità completamente isolate o mantenenti rapporti particolari di scambio, fornitrici di prodotti rari e centri di elaborazione di procedure ingegnose. Costituiscono aree di rifugio dall'invadenza degli stati autoritari, presidi di ambienti inospitali, mercati capaci di organizzare comunicazioni lungo vie inaccessibili. Prosperano parallelamente alla crisi degli imperi e si diffondono, spesso, proprio in conseguenza delle catastrofi ecologiche da essi provocate.85

Vanno, però, sottolineate, rispetto al quadro generale disegnato da Laureano, alcune specificità (p. 130) della vicenda trogloditica medioevale pugliese, che sembra individuabile in una scelta insediativa non spontanea o casuale ma in qualche modo avviata e incoraggiata dalle politiche e dagli interessi economici dello stato bizantino sulla base di un modello, che sembra avere una metastorica analogia con la strategia dei kibbutz, attuata in Israele nella seconda metà del secolo scorso per la riconquista produttiva delle zone aride della Palestina.

La pratica di adattamento all'ambiente del trogloditismo alto-medioevale pugliese, quindi, non sembra scaturire da una tradizione culturale e abitativa autoctona ma appare veicolata, principalmente, da flussi migratori stranieri, che importano tecniche e sistemi di adattamento ambientale, storicamente sperimentati nelle aree più aride del bacino del Mediterraneo e dell'Asia Minore.

Si può comprendere, infatti, che le ascendenze culturali del fenomeno trogloditico pugliese vadano ricercate, prevalentemente, nelle aree aride delle regioni che attorniavano a sud, a ovest e a est i confini di Bisanzio, qualora si ammetta che i fenomeni rupestri locali abbiano ricevuto un'origine o, comunque, un grosso impulso dalle immigrazioni di coloni, organizzate dagli imperatori bizantini nel IX e X secolo.

La vicenda pugliese sembra in qualche modo ricalcare quella della Cappadocia, dove nella seconda metà del IX secolo, in seguito alla sconfitta dell'emiro di Melitene e alla pacificazione dell'area, si assisteva alla rinascita degli insediamenti monacali in un tutt'uno con la ripresa demografica e produttiva del territorio,86 nonché al radicamento e al rafforzamento del modello insediativo rupestre.87

85 P. LAUREANO, La piramide rovesciata - Il modello dell'oasi per il pianeta Terra, Torino, 1995, pp. 288-28986 Cfr. N. THIERRY, Monuments de Cappadoce de l'Antiquité romaine au Moyen Age byzantin, in AA.VV., Le aree omogenee della civiltà rupestre nell'ambito dell'impero Bizantino: la Cappadocia - Atti del V Convegno Internazionale di Studi - 1979, Galatina, 1981, pp. 70-71.87 Cfr. D. NOVEMBRE, Strutture spaziali e quadri socioculturali della Cappadocia "rupestre", in AA.VV., Le aree omogenee ... la Cappadocia... cit., p. 215.

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Può trattarsi, infatti, di una singolare coincidenza ma, anche, della prova di una particolare strategia insediativa della colonizzazione bizantina, constatare che nello stesso periodo, ossia a partire dal X secolo, cominciarono a essere scavate le grandi città sotterranee della Cappadocia rupestre, come Kaimakli e Derinkuyu.88

Tale fenomeno si registrò, infatti, in una fase storica di quella regione arida, caratterizzata, come in Puglia, da una ripresa produttiva e demografica, supportata dall'intervento dei coloni, in quel caso prevalentemente immigrati armeni.89

S'ignora quale sia stato il ceppo etnico prevalente negli insediamenti pugliesi ma, sicuramente, dovettero essere largamente rappresentate tra i coloni le componenti asiatica e mediorientale, che possedevano nel proprio DNA la cultura della grotta e l'inclinazione a considerarla come propria abitazione.

I particolari fattori climatici, determinati dall'innalzamento delle temperature medie, e la politica d'immigrazioni tenacemente perseguita dai dinasti bizantini, costituirono, dunque, le concause della nascita e dell'evoluzione del fenomeno trogloditico nelle nostre gravine.

(p. 131)Gli insediamenti colonici rupestri

Nel comprensorio rupestre della zona ovest di Taranto lo zoccolo pedemurgiano è costellato da una serie abbastanza regolare di grossi insediamenti, che assumono, talvolta, la facies di vere e proprie cittadine rupestri; altre volte, come avviene più spesso nel comprensorio rupestre adriatico, si registra, invece, un addensamento di fattorie e di villaggetti ipogei sparsi.

Nel primo caso si tratta degli embrioni trogloditici di città come Grottaglie, Statte, Massafra, Petruscio per Mottola, Palagianello, Santo Stefano per Castellaneta, Laterza, Ginosa, distanti l'uno dall'altro da un minimo di 4 a un massimo di 10 chilometri.

Alcune di queste grosse concentrazioni abitative sono state, sicuramente, i primi avamposti della ricolonizzazione della piana jonica e possono rientrare in una razionale Strategia insediativa dei coloni bizantini.

La presenza, infatti, di una situazione ambientale difficile e proibitiva rendeva necessaria, come nel caso dei kibbutz israeliani, l'unione e la cooperazione di tutte le forze produttive dei coloni, almeno nelle prime fasi di start up del processo di colonizzazione.

Si avvertiva, cioè, la necessità di giovarsi dell'apporto quotidiano di un buon numero di braccia sia per motivi di sicurezza e di difesa dalle scorrerie arabe, sia, soprattutto, per affrontare i problemi relativi alla realizzazione di infrastrutture comuni: scavo e modifica degli ambienti rupestri; ripristino, riparazione e manutenzione dei vecchi canali di drenaggio; opere di regimentazione e di gestione delle acque pluviali; spietramento, spianamento e dissodamento di ampie distese in pianura e a mezza collina, dove trovava un habitat particolarmente adatto l'olivo, che, sicuramente, fu tra le prime colture impiantate e praticate intensivamente dall'ondata colonizzatrice.

La presenza dell'olivo, come elemento essenziale e caratteristico nel sistema dell'oasi rupestre, e, in misura minore, della vite, è testimoniata da una gran messe di notizie e di documenti del tempo.90

Quello che è avvenuto nell'habitat rupestre per effetto dell'immane operazione di bonifica collettiva è riassunto efficacemente da Pietro Laureano: Rinnovando arcaiche pratiche e

88 Cfr. P. CUNEO, Urbanistica e ambiente architettonico della Cappadocia, in AA.VV., Le aree omogenee ... la Cappadocia... cit., p. 200.89 Cfr. G. DEDEYAN, Les arméniens en Cappadoce aux X et XI siècles, in AA.VV., Le aree omogenee ... la Cappadocia... cit., pp. 75 e ssg.90 Cfr. P. DALENA, Il territorio di Mottola nel Medioevo: tracciati viari ed insediamenti rupestri, in AA.VV., Habitat - Strutture... cit., p. 189.

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tradizioni le grotte diventano il centro di una intensa attività economica e produttiva. Sugli altipiani ricchi di essenze aromatiche si raccolgono le piante officinali che vengono trattate e conservate. Dalle grotte si trae salnitro, licheni e muffe, si organizzano cantine e laboratori Per confezionare elisir prodigiosi. La terra apulo-lucana, naturalmente arida e desolata, vivificata dal lavoro dell'uomo, diventa un giardino di vigne e ortaggi, un sistema di oasi dove l'olivo ha la funzione della palma.91

La stessa filosofia del sistema rurale del chorion, come s'è detto, presupponeva l'unione delle singole risorse produttive dei coloni: da qui la scelta obbligata di puntare su insediamenti abbastanza numerosi, che agirono da (p. 132) vettori per il ripopolamento delle regioni vicine e per lo sfruttamento economico delle risorse della terra, costituendo, quindi, il nucleo dei primi incastellamenti e, successivamente, delle prime università pugliesi.

Questo processo appare perfettamente in linea con le politiche, la cultura e l'economia di Bisanzio, visto che in tutto il mondo rurale dell'impero si assistette in questo periodo al trionfo della piccola proprietà indipendente a conduzione familiare, concentrata nei villaggi, a loro volta formati da un tessuto di case circondate da orti con intorno le vaste colture di pieno campo, al margini delle quali erano le aree a pascolo e i boschi.

La famiglia rurale tendeva all'ideale autarchico, dominante nella società bizantina: coltivava l'indispensabile orto nei pressi dell'abitazione e lavorava quote di terreno destinate alla coltura di pieno campo; le aree incolte non erano ripartite ma la detenzione di terre coltiabili conferiva a ogni famiglia diritti proporzionali sull'uso dei pascoli .92

Alcune indicazioni sull'urbanistica dei grandi villaggi rupestri, che si affacciano sullo Ionio, sono fornite dalla lettura dei resti archeologici di uno di questi: Petruscio, classico chorion bizantino, che ancora conserva, come il villaggio rupestre di Casalpiccolo nella Lama di Penziero di Grottaglie,93 il pyrgoí, ossia la tipica torre rotonda di fortificazione,94 datata al X-XI secolo e ancora in parte eretta.95

Sembra che il villaggio sia stato abbandonato intorno all'XI secolo, come testimoniano sia l'assenza di documentazione archivistica dall'età normanna in poi, sia i risultati di recenti survey archeologia, condotti nei pressi del villaggio, che escludono la presenza di ceramica invetriata, estremamente comune nella zona a partire dall'XI secolo.

Le chiese rupestri presenti in questo villaggio e negli immediati dintorni, completamente prive degli affreschi che caratterizzano nella zona le fondazioni ecclesiastiche rupestri d'epoca normanno-sveva, sono state datate da Franco Dell'Aquila e da Aldo Messina tra il X e l'XI secolo.96

Il repentino e ancora inspiegabile abbandono, cui non sono seguite ulteriori fasi di antropizzazione, di questa città scavata nella roccia permette di valutare tutti i particolari della struttura di uno dei kíbbutz medioevali, nella fase di sviluppo e di crescita durante il passaggio dall'Alto al Basso Medioevo.

A Petruscio si ritrovano principalmente tre tipologie di grotte-abitazioni: le più antiche, scavate al centro del villaggio, a pianta quasi ovoidale o semisferica, presentano ingressi molto irregolari e la loro altezza supera i 3 metri; cronologicamente intermedie sono le grotte a pianta irregolare con ingresso più modesto ma non ben definite nel taglio e nella forma; le più recenti mostrano piante abbastanza regolari e infissi rettangolari, mentre l'altezza dell'invaso generalmente non supera i 2,50 metri.97

91 P. LAUREANO, La piramide rovesciata... cit., p. 247.92 Cfr. A. DUCELLIER, op. cit., pp. 174-178.93 Cfr. S. DE ViTiS, Archeologia medioevale a Grottaglie La 'Lama di Penziero ", Grottaglie, 1988, p. 51.94 Cfr. A- GUILLOU, Longobardi, bizantini... cit., p. 35.95 Cfr. D. CARAGNANO, La ricerca archeologica negli insediamenti rupestri medioevali del Tarantino nord-occidentale, in Cenacolo, Taranto, 2000, n.s., a. XII (XXIV), p. 55.96 Cfr. F. DELL'AQUILA - A. MESSINA, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari, 1998, pp. 234-240.97 Cfr. F. DELL'AQUILA, op. cit., p. 30.

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Nel villaggio rupestre Pietro Parenzan ha rilevato e censito un centinaio di grotte artificiali: undici hanno piante vistosamente a ventaglio; trentacinque, quasi a ventaglio; diciotto, a pianta squadrata; tredici sono a base circolare, semicircolare, ellittica o semisferica; diciannove presentano piante irregolari, indefinibili o quasi esagonali.98

E’ interessante segnalare che alcune delle grotte artificiali più recenti di Petruscio, in particolare (p. 133) quelle rilevate da Franco Dell'Aquila nelle tavole VIII e X,99 presentano la conformazione caratteristica dell'unità abitativa urbana mottolese, tipica e prevalente per secoli nell’architettura spontanea e contadina, ovvero alcuove e camarine.

Tale cellula abitativa consiste in un unico ambiente terraneo quadrangolare, che generalmente prende luce solo dall'ingresso e che presenta di solito verso la parete di fondo due ampie nicchie, divise da un tramezzo, e, spesso, sormontate da un soppalco, utilizzato come deposito o ulteriore alcova: l'alcuove era destinata al riposo dei genitori e lu camarine agli altri membri della famiglia; nell'ambiente comune, antistante alle alcove, trovavano posto il focolare, i rari mobili e non di rado l'asino o la giumenta.

Questa unità abitativa, tipica dell'edilizia popolare della Murgia e diretta discendente dei modelli abitativi rupestri, ha costituito il più diffuso tipo di abitazione fino agli anni Cinquanta del secolo scorso: basta visitare il centro storico di Mottola, detto la Schíavonia, oppure i quartieri popolari di fine Ottocento e del primo Novecento (Case Nuove, Annunziata) per poter verificare la continuità dei modelli abitativi moderni con i prototipi rupestri del Medioevo.100

Nel villaggio rupestre della Lama di Penziero si ritrovano le stesse tipologie trogloditiche di Petruscio ma le case in rupe a Grottaglie sono, generalmente, unicellulari;101 a Statte, invece, la tipica casa grotta è costituita da due vani, uno dei quali usato per abitazione, l'altro come deposito o laboratorio.102

L'evoluzione dei semplici modelli insediativi altomedioevali si può cogliere con maggiore evidenza in quei centri urbani che presentano un popolamento trogloditico anche in epoca moderna, come Matera o Laterza, dove le abitazioni in grotta sono generalmente formate da più vani intercomunicanti, susseguentisi, secondo l'asse dell'ingresso, l'uno dietro l'altro.

A Matera e a Massafra, inoltre, una soluzione evolutiva,del vivere in grotta si coglie nel diffuso fenomeno della vicinanza, struttura insediativa ipogea, presente con analoghi modelli anche in Nord Africa e nella regione cinese dello Shanxi. Si tratta di ampie corti rettangolari, scavate fino a 4-5 metri sotto il piano stradale, sulle cui pareti verticali venivano aperte da tre a nove porte d'ingresso ad altrettante grotteabitazioni, solitamente monolocali; nella corte ipogea i diversi nuclei familiari fruivano di alcune infrastrutture comuni, come la scala d'accesso, la cisterna per la raccolta dell'acqua piovana, la vasca per il bucato.103

La struttura urbanistica di Petruscio sembra, invece, ricalcare abbastanza da vicino quella dei víllages désertés epigei che caratterizzano il paesaggio e l'economia rurale della Siria set-tentrionale tra il IV ed il VI secolo, quasi a confermare la riproposizione di modelli culturale e insediativi d'area mediorientale nella Puglia altomedioevale.

Si tratta di un ordito urbano abbastanza primitivo e approssimativo, pressoché casuale e pesantemente condizionato dalla morfologia accidentata delle alte pareti della gravina, decisa-mente diverso, quindi, dall'ordinata struttura urbanistica del Casale Ruptum benedettino, che si sviluppò mediante unità a schiera con giardino-ortale anteriore, disposte lungo le curve di livello, con andamento chiuso per quanto possibile e comunicazioni prevalentemente per linee concentriche, come viene evidenziato da Filiberto Lembo.104

98 Cfr. P. PARENZAN, Petruscio , la gravina di Mottola. Natura e civiltà rupestre, Galatina, 1989, p. 105.99 Cfr. F. DELL'AQUILA, op. cit., pp. 33-36.100 Cfr. S. MAGLIO, Mottola - La Gravina di Petruscio, Mottola, 2000, p. 23.101 Cfr. S. DE VITIS, op. cit., pp. 52-53.102 Cfr. A. MARINÒ, La stazione medievale di Triglie, in Rassegna Pugliese, Bari, giugno-agosto 1969, a. IV, nn. 6-8, pp. 330-336. (p. 148) 103 Cfr. R. CAPRARA, Op. cit., pp. 111 e 137 e ssg..

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(p. 134) Gran parte del Casale Ruptum venne, infatti, scavata in età normanna e, quindi, l'insediamento risenta di una concezione urbanistica e insediativa prettamente latina, rispetto alla matrice orientale e rurale, affermatasi circa due secoli prima nella poco lontana Gravina di Pe-truscio.

Gli studi di Georges Tchalenko e di Georges Tate sui víllages désertés siriani rilevano l'assenza di edifici pubblici o di spazi urbanisticamente strutturati, come avviene, fatta eccezione per le chiese, a Petruscio.

La cellula fondamentale del villaggio è, infatti, l'abitazione composta da più elementi e pertinenze, a seconda delle necessità e dell'estensione della famiglia; la casa, quindi, forma un'unità economico-sociale indipendente e autonoma dal resto del villaggio, organizzata funzionalmente per sopportare il lavoro e la produzione agricola con la relativa dotazione di frantoi, di palmenti, di cisterne, di depositi e di jazzi. Non sembrano esserci. perciò, nell'insediamento xenodochia per ospitare stranieri e pellegrini, mercati o bazar pubblici, né, tantomeno, andron, ossia edifici in cui si riunivano per le decisioni i capi della comunità.

Tutto ciò, com'è stato rilevato, non significa necessariamente assenza di vita politica o sociale: solo indica che l'organizzazione socio-economica di questa non richiedeva luoghi a ciò appositamente preposti. Ancora oggi, per altro, nei villaggi di quella zona, così poco segnati dal tempo, l'ospitalità avviene nelle abitazioni private, gli scambi si svolgono direttamente tra i membri della comunità, e la casa del sindaco è posto di incontro tra i maggiorenti della comunità. Anche l'esame in pianta dei villaggi mostra come l'organizzazione sociale non trovasse riscontro alcuno in quella spaziale: essa era occasionale e non predeterminata. Nessun impianto viario, ma solo strade e passaggi che non formano un tracciato ramificato o una trama organicamente concepita. Nessuna piazza, se per piazza si intende non uno spazio vuoto, ma uno spazio prodotto e strutturato. Insomma un tessuto discontinuo - senza centro e periferia - di isole (raramente quartieri), spazi vuoti, case semplici (che tendono a divenire cellule in accrescimento), orti, fossati... Ben più che nell'Impero Romano dunque l'impresa familiare appare decisiva e tende a sostituirsi a tutte le altre forme di raggruppamento sociale. La comunità di villaggio si riduce... ad un insieme di diritti e legami di vicinanza. Se essa conosce a Bisanzio un'esistenza duratura, lo si deve al principio della responsabilità collettiva davanti alle istanze fiscali e giuridiche dello stato, per il resto le terre sono di proprietà personale e quelle comunali non costituiscono che un fondo di riserva…105

Si può presumere, rispetto al modello siriano descritto da Mario Gallina, che le comunità rurali rupestri che si formarono in Puglia abbiano vissuto, soprattutto nei primi decenni d'insediamento, una fase di relazioni sociali ed economiche maggiormente coese e solidali per comprensibili motivi di adattamento e di sicurezza.

1 legami tenderanno, da una parte, ad allentarsi con la comunità del chorion e, dall'altra, a consolidarsi a livello familiare in una fase successiva, quando gli insediamenti cominceranno a irradiarsi sul territorio, creando una rete di piccoli centri e di fattorie rupestri, che mano a mano si spingeranno verso la Murgia, favorendo la ricolonizzazione dei terrazzamenti più interni e del territorio boscoso dell'altopiano.

(p. 135) E’ da notare, infine, che i caratteri originari defl'insediamento rurale, fortemente orientati alla connotazione familiare e parentale, si conservarono in tutte le fasi della bonifica del territorio della Puglia, caratterizzando la formazione delle masserie, che si verificò molto più tardi, ossia tra il XVIII ed il XX secolo.

Primi castelli e prime città della Puglia medioevale

104 F. LEMBO, La struttura urbanistica, in AA.VV., Casalrotto I - La storia - Gli scavi, Galatina, 1989, p. 188.105 M. GALLINA, Architettura e ambiente nella storia bizantina, in Studi Storici, Roma, 1981, n. 4, pp. 909-911.

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Gli stretti rapporti intercorrenti tra lo sviluppo degli insediamenti rurali e la politica d'incastellamento, praticata dai bizantini a partire dal X secolo, sono stati evidenziati da Pasquale Corsi e da Giosuè Musca: La ripresa demografica, iniziata appunto nel corso del X secolo, si collega strettamente all'aumento dei livelli di produzione e di consumo, in particolar modo mediante i grandi dissodamenti di terre incolte, e in generale alla configurazione dell'habitat. Riguardo a quest'ultimo problema, occorre dire che durante il X secolo si sviluppò, sia nelle terre bizantine che in quelle dei principali longobardi, un vasto fenomeno di incastellamento, non riducibile tuttavia alla crisi provocata dalle incursioni saracene e ungare (queste avrebbero raggiunto la Puglia e la Campania negli anni intorno al 940)... Le motivazioni principali dell'incastellamento... vanno piuttosto ricercate in un tentativo, promosso da signori laici ed ecclesiastici, di riorganizzazione totale del territorio. Mediante il castrum, divenuto il centro organizzativo del territorio circostante, veniva canalizzata e controllata la crescita demografica e lo sviluppo economico; la popolazione rurale vi era raccolta al fine di popolare e colonizzare il distretto di pertinenza...106

Da queste considerazioni scaturisce che ... le radici dello sviluppo economico sono nei centri rurali, molti dei quali, nati intorno a comunità monastiche nel X secolo, si sviluppano nell'XI e divengono abitati concentrati e spesso fortificati. Altri nascono, sotto amministrazione bizantina, dal chorion o territorio fiscale fondato sulla responsabilità collettiva della popolazione verso il potere politico. In questo tipo di gestione del territorio le terre coltivate e gli abitati sono fortemente integrati, in quanto parte di una stessa struttura sociale che favorisce l'urbanizzazione del sito agro urbano e il suo divenire "città ' con una sua coesione produttiva sia all'interno che all'esterno delle mura.107

La dinamica evolutiva della formazione di un kastron da un preesistente choríon rurale è stata illustrata da André Guillou, a proposito dello sviluppo delle iniziative di colonizzazione dei monaci Jonas a Tricarico e Nicodemo a Kellarana nel X secolo.108

E’ lecito supporre che le cose non siano andate diversamente per quei villaggi rupestri del Tarantino che i documenti attestano prosperare tra la fine del X e l'inizio dell'XI secolo, ancora in epoca bizantino.L'innegabile sviluppo del fenomeno dell'incastellamento nella nostra area è ampiamente documentato: il castellum bizantino di Massafra è attestato già nel 970;109 nel 1016 si rileva la presenza del vicino kastellion di Palagiano,110 che recenti studi hanno dimostrato essere identificabile con l'attuale Palagianello;111 nel 1023 Basilio Boioannes fece costruire un castello sulle rovine delle fortificazioni di età ellenistica di Mottola (unico centro interno del Tarantino che sembra essere stato popolato anche negli anni del dominio longobardo),112 evidentemente a protezione dei numerosi insediamenti trogloditici rurali del territorio, tra i quali Petruscio, le terrae Sancti Angeli, Santa Caterina, San Vito, San Sabino, eccetera; anche a Castellaneta (p. 136) potrebbe essere stata eretta una fortificazione in epoca bizantina a difesa della popolazione dei villaggi rupestri satelliti di Santa Maria del Pesco, del Padre Eterno e di Santo Stefano, qualora si riuscisse a identificare questo centro jonico con il Castellum Aneti, citato come teatro di una vittoria del Guiscardo nel 1080. 113

Il settore occidentale dell'attuale provincia jonica, soprattutto il territorio immediatamente a nord-ovest della città di Taranto, sembra, dunque, essere stato interessato dallo sviluppo di grandi choria rupestri, che nel giro di qual.che decennio avevano fatto registrare un notevole sviluppo economico e demografico, tale da necessitare in alcuni casi l'edificazione di opportune opere di difesa o, addirittura, la fortificazione di nuove cittadine per la tutela e per il controllo degli insediamenti sparsi. Quest'ultimo aspetto riguardò, soprattutto, Mottola e Castellaneta, c

106 P. CORSI - G. MUSCA, Op. cit., pp. 234-235107 Ivi, p. 256.108 Cfr. A. G U I LLOU, Longobardi, bizantini... cit., p. 34

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vennero riconosciute come sedi episcopali in epoca normanna, a testimonianza del notevole popolamento territoriale e dell'importanza economica e politica raggiunta dal comprensorio rurale trogloditico.

In altre aree dell'arco jonico premurgiano si affermarono consistenti insediamenti demici a carattere prevalentemente trogloditico, sebbene in ritardo rispetto a quelli già considerati.

1 documenti storici riportano, a tal proposito, precisi riferimenti: Grottaglie, già nell'XI secolo, era un casale fortificato a protezione dei centri rurali di Riggio, di Salete, di Mennaio, di Casalpiccolo, di Misicuro, di Fullonese;114 gli insediamenti di Crispiano e di Statte sembrano addensarsi, tra il XII-XIII secolo, probabilmente su impulso di fondazioni ecclesiastiche, come l'Abbazia di Santa Maria di Crispiano;115 Laterza viene citata come casale nel 1200, mentre Ginosa è indicata come castrum nel 1230-1231.116

Nell'attuale provincia di Taranto le comunità rupestri costituirono indiscutibilmente le prime forme di aggregazione demica stabile in età altomedioevale, al di fuori del capoluogo; già in età bizantina si originarono, quindi, i primi centri abitati, che si svilupparono in età medioevale e moderna.

Un analogo fenomeno sembra cogliersi anche sul versante adriatico dello zoccolo murgiano, nell'area compresa fra il Sud Est barese e la piana di Brindisi.

A prescindere dai consistenti insediamenti rupestri nei territori di Bari, di Conversano, di Polignano, di Monopoli e di Oria, che colonizzarono il territorio rurale di centri urbani e commerciali già all'epoca notevoli, è importante ai fini di quest'indagine soffermarsi brevemente su alcune realtà particolarmente interessanti.

Nel 1068 è nota l'attestazione del casale di Fasano,117 riferimento territoriale degli insediamenti rupestri di Lama d'Antico, di San Lorenzo, di San Francesco, di Santa Virgilia.

Ostuni, nel cui ambito territoriale insistono i villaggi rupestri di Lama Pilone, di Villanova-Mangiamuso, di Masseria Sansone con Lamaforca-Caposenne-Agnano, corrisponde (p. 137) all'oppidum Stira, segnalato da Lupo Protospatario nell'XI secolo,118 sebbene la sua esistenza sia documentata già nel IX secolo;119 la cittadina, sede vescovile, venne, poi, incastellata dai nor-manni nel 1148.120Carovigno è castellum nel XII secolo, in seguito alle opere di fortificazione normanne.121

San Vito dei Normanni, già attestata nel 963 come San Vito degli Schiavoni, probabilmente per la presenza di una consistente componete colonica di origine slava negli insediamenti rupestri di San Biagio, di San Giovanni e di San Nicola,122 venne fortificata nell'XI secolo con un castello da Boemondo d'Altavilla. 123

109 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali - Puglia e Basilicata dai normanni a Federico Il e Carlo I d'Angiò, Bari, 1994, p. 21110 Cfr. A. GUILLOU, La Puglia e Bisanzio... cit., p. 20.111 Cfr.: R. PALMISANO, Palagianello - Le origini – Il feudo, Mottola, 1993, pp. 31 e ssg.; R. CAPRARA, Op. cit., pp. 115-120.112 Cfr.: R. LICINIO, Castelli medievali... cit., p. 30; S. MAGLIO, Avvenimenti storici e sviluppo urbano della città di Mottola, Mottola, 1994, pp. 27-28 e nt. 16 a pp. 4042113 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali... cit., p. 37.114 Cfr. S. DE VITIS, Op. cit., p. 35.115 Cfr. A.V. GRECO, Statte dalle grotte alle masserie, Martina Franca, 2000, pp. 40-42.116 Cfr. E. MASTROBUONO, Castellaneta e i suoi documenti dalla fine del secolo XII alla metà del XIV , Bari, 1969, pp. 53-55 e 99.117 Cfr. AA.VV., Puglia rurale - Il territorio della collina di Brindisi, Bari, 1998, p. 57118 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali... cit., p. 29.119 Cfr. AA.VV., Puglia rurale... cit., p. 72.120 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali... cit., p. 52.121 Cfr. ivi, p. 50.122 Cfr. AA.VV., Puglia rurale... cit., pp. 96-97123 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali... cít., p. 50

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Si evidenzia, quindi, che in età bizantina sulle direttrici costiere dello Ionio e dell'Adriatico si addensarono numerosi villaggi rurali rupestri, la cui presenza e importanza imposero la deviazione delle principali arterie viarie d'epoca romana; tali insediamenti, inoltre, determinarono e/o resero necessario il popolamento dei nuovi centri abitati epigei, che vennero istituzionalizzati sul territorio dall'età normanna a quella angioina.

La presenza araba nel popolamento rupestre

Nella cartografia del popolamento rupestre tra la Terra di Bari e la Basilicata fiorirono nel corso del IX-X secolo, soprattutto le cittadine rupestri di Matera e di Gravina; già munitissima civitas nell'866, Matera venne eretta nel 967, così come Gravina, a sede di diocesi suffraganea della diocesi metropolita di Otranto.

Nel 1042 il centro lucano si rese protagonista di una rivolta antibizantina, assistendo al mas-sacro di duecento abitanti dei villaggi rupestri rurali che contornavano la civitas.124

Il munitissimo oppido di Matera, attestato nel 1133, venne descritto vent'anni più tardi da Edrisi come una città validamente difesa, bella, estesa e ben popolata, così come Gravina, altra città che il geografo marocchino di Ruggero Il riporta meno estesa ma fortemente produttiva; nel secolo successivo a quello di Edrisi Gravina è, ormai, indicata come castrum.125

Nel 1278-1279, poi, Gravina risulta essere tra le città più popolate della Puglia con una popolazione stimata in seimila-seimilacinquecento abitanti, maggiore dei cinquemilaquattrocento attestati per Taranto e di poco inferiore a quelli di Brindisi; Bari e Monopoli, che rappresentavano le maggiori città pugliesi di quel periodo storico, contavano, rispettivamente, dieci-undicimila e otto-novemila abitanti.126

Edrisi nella sua relazione del 1154 non si sofferma sull'evidente facies rupestre di Matera e di Gravina, probabilmente per la consuetudine e per la familiarità della cultura contemporanea araba con il fenomeno del trogloditismo abitativo, segnatamente nelle regioni nordafricane.

(p. 138) E’ perciò, verosimile ritenere consistente la presenza di popolazioni di origine araba e nordafricana tra i colonizzatori delle gravine, soprattutto in zone come il Barese e il Tarantino, che erano state emirati berberi per oltre quarant'anni, e che, quindi, dovevano aver registrato nella popolazione, preesistente al ritorno dei bizantini, una rilevante infiltrazione etnica maghrebina.

La componente araba nel popolamento rupestre pugliese, inoltre, è attestata archeologicamente dai rinvenimento di lucerne di fattura nordafricana, prodotte localmente sulla base di modelli d'importazione, rinvenute nelle grotte e nelle gravine di Massafra, di Ginosa e di Castellaneta.127

Molte suggestioni, inoltre, sottendono questa tesi: la possibile derivazione del toponimo della stessa Massafra, ossia massa afra; la presenza in questo centro, come pure a Matera, del fenomeno insediativo delle vicinanze, in genere datato a secoli molto più bassi (XIV-XV), ma che rimanda in modo impressionante all'architettura e all'urbanistica ipogea della tunisina Matmata.128

Roberto Caprara collega tali indizi al citato ritrovamento in ambito rupestre massafrese di monete risalenti al periodo vandalo, nonché al l'individuazione di una chiesa in rupe controabsidata nel territorio di Mottola, ricollegabile a modelli paleocristiani della stessa epoca di origine nordafricana.

124 Cfr. C.D. FONSECA - R. DEMETRI - G. GUADAGNO, op. cit., pp. 13 e ssg.125 Cfr. R. LICINIO, Castelli medievali... cit., pp. 59, 96-97 e 130.126 Cfr. A. GUILLOU, La Puglia e Bisanzio... cit., p. 14.127 Cfr. R. CAPRARA, op. cit., pp. 13 e 96-97.128 Cfr. C.D. FONSECA, Vivere in grotta... cit., pp. 64-69.

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Lo studioso, pertanto, avanza l'ipotesi che un popolamento trogloditico di matrice nordafricana si sia avuto nell'area massafrese addirittura a partire dal VI secolo, a opera di profughi dell'Africa settentrionale, appena invasa dai vandali.129

Questa possibilità è certamente degna di essere presa in considerazione ma segna, comunque, un episodio puntuale e isolato, che non va confuso con il più generale fenomeno storico dell'aggrottamento nel territorio pugliese, che si verificò sicuramente in epoca più tarda, come si è ampiamente detto.

La preesistenza sul territorio di un villaggio rupestre, tuttavia, non esclude la possibilità che questo possa aver giocato un ruolo d'incentivo e di stimolo, inducendo i nuovi venuti a preferire le forme insediative trogloditiche.

Sulla questione araba non esistono dati e documenti che testimonino in modo inequivocabile le vicende storiche degli emirati di Bari e di Taranto nel IX secolo, tali, cioè, da precisare se il rapporto con il territorio pugliese contermine alle due roccheforti musulmane sia stato improntato unicamente alla razzia delle risorse alimentari e umane delle campagne, oppure se possa avere, addirittura, promosso e avviato la ricolonizzazione delle zone rurali.

Nota, comunque, a tal proposito Giosuè Musca: ... dovunque mettevano piede per qualche tempo, i musulmani portavano una notevole prosperità agricola causata dal frazionamento dei latifondi e dalla redistribuzione della proprietà fondiaria: ciò avvenne in Sicilia, ma non possiamo dire in quale misura ciò avviene nelle terre dell'Emirato di Bari, data la brevità della conquista...130

D'altra parte, anche nel periodo immediatamente successivo alla caduta dei due emirati pugliesi, la presenza nelle campagne di popolazioni sconfitte di origine e di cultura arabe potrebbe essere stata determinante per la scelta del trogloditismo come fenomeno insediativo diffuso.

Una situazione di questo genere si verificò, infatti, nella Sicilia del XII secolo, quando antichi insediamenti rupestri abbandonati vennero ripopolati dai fuggiaschi arabi, costituendo rifugi e basi per la resistenza contro i normanni di Ruggero I.131

Parecchi secoli più tardi, a cavallo tra Medioevo ed Età Moderna, su un'altra sponda europea del Mediterraneo si registrò un analogo fenomeno di popolamento rupestre a opera di (p. 139) popolazioni nordafricane sconfitte: è il caso degli insediamenti trogloditici spagnoli, come il barrio Sacromonte a Granada e il villaggio di Guadix, che vennero scavati e popolati dai mori in rotta dopo la riconquista spagnola.

La vicenda rupestre della Sicilia costituisce un utile termine di paragone per la valutazione dell'affermazione del fenomeno del trogloditismo abitativo altomedioevale nel Meridione d'Italia, anche se, generalmente, i grossi insediamenti, presenti un po' dappertutto nell'isola, non mostrano elementi tali da permettere di fissare cronologicamente lo scavo.

La datazione tra il VII e il IX secolo, tuttavia, di alcune chiese rupestri presso Lentini e Acri,132

conferma che gli insediamenti trogloditici in Sicilia, già attestati a partire dal XII secolo a.C. in epoca arcaica e classica presso Pantalica,133 Lentini, Siracusa, Agrigento, Selinunte e Vassalaggi,134 ricomparvero nel periodo bizantino precedente alla conquista araba del IX secolo.

129 Cfr. R. CAPRARA, Il tesoretto massafrese – Introduzione al saggio del prof. W. Hahn, in Archeogruppo 3, Massafra, 1995, pp. 27-28.130 G. MUSCA, L'Emirato di Bari, Bari, 1964, p. 153.131 Cfr. J. JOHNS, Nota sugli insediamento rupestri musulmani nel territorio di S. Maria di Monreale nel dodicesimo secolo, in AA.VV., La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee - Atti del VI Convegno Internazionale di Studi - 1981, Galatina, 1986, p.233.132 Cfr. A. MESSINA, Forme di abitato rupestre nel Siracusano, in AA.VV., La Sicilia rupestre..., cit., p. 247. 133 Cfr. C.D. FONSECA, La Sicilia rupestre - Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, in AA.VV., La Sicilia rupestre... cit., p. 18.134 Cfr. D. ADAMESTEANU, Monumenti rupestri nella Sicilia classica, in AA.VV., La Sicilia rupestre... cit., p. 34.

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Questa tesi era già stata avanzata da Paolo Orsi alla fine dell'Ottocento, a proposito della vicenda del noto centro di Pantalica, anche in questo caso basandosi principalmente sulla datazione bizantina delle due chiese rupestri di San Micidiario e di San Nicolicchio.135

Gli studiosi in prevalenza ritengono che in Sicilia tale popolamento, germinato dal ceppo paleocristiano dell'ascetismo eremitico, abbia segnato, già dal V-VI secolo, il mutamento della struttura fondiaria in seguito alla crisi del sistema statale, al declino delle città costiere e alla recessione economica per il crollo del prezzo del grano; a partire dall'VIII secolo il popolamento in rupe, però, sembrò assumere una duplice fisionomia con insediamenti sia di matrice bizantina, sia di origine araba.136

La convinzione che colonie arabe siano state sicuramente all'origine degli insediamenti rupestri delle zone di Mazara137 e di Monreale,138 di Agrigento e di tanti altri centri rupestri isolani, ha indotto alcuni studiosi, come Emanuele Piro, a considerare il trogloditismo di tali centri come un portato culturale strettamente connesso all'immigrazione nordafricana.139 La recente segnalazione di una moschea rupestre a Sperlinga ha offerto l'occasione ad Aldo Messina di affermare che il trogloditismo siciliano appare sempre più legato all'islamizzazione dell'isola, piuttosto che al popolamento bizantino.140

In merito a questo aspetto della questione non va sottovalutata la segnalazione nella Sicilia bizantina di consistenti insediamenti demici e difensivi di natura trogloditica, obiettivi delle prime scorrerie degli arabi, testimoniati da Ibn Al-Athir nel XII secolo.

Nella sua cronaca sulla conquista e sulla dominazione araba dell'isola il citato storico mesopotamico accenna: alle cave espugnate presso Siracusa nell'827; all'Hisn' al Giran, ovvero la fortezza delle quaranta grotte vicino Castrogiovanni, saccheggiata nell'840; alle grotte di Q.r.q.nah, presso le quali trovò la morte nell'861 il capo berbero 'Al 'Abbas.141

Queste citazioni di fonte musulmana sembrano provare inequivocabilmente l'esistenza e il consolidamento del fenomeno insediativo rupestre in Sicilia in epoca pre-araba.

(p. 140) La vicenda rupestre medioevale siciliana sembra nascere e ispirarsi, dunque, a modelli culturali esterni al popolamento autoctono, sia che siano stati importati dalla massiccia immigrazione di greci,142 ovvero veicolati dalla penetrazione araba: questa sottolineatura è importante anche per gli insediamenti pugliesi.

E’, pertanto, azzardato affermare che il trogloditismo medioevale sia stato esportato in Puglia prevalentemente dall'immigrazione di popolazioni nordafricane ma va considerato che sicuramente questa componente etnica e culturale ha avuto un peso non trascurabile nell'affermazione del fenomeno nella nostra regione.

L'epilogo della vicenda trogloditica pugliese

Dall'XI secolo in poi la documentazione archeologica, archivistica, iconografica e archi-tettonica illuminano abbastanza dettagliatamente le vicende di gran parte dei complessi rupestri

135 Cfr. C.D. FONSECA, La Sicilia rupestre... cit., p. 19.136 Cfr. D. NOVEMBRE, Sul popolamento epigeo e ipogeo della Sicilia nei secoli XIII e XIV, in AA.VV., La Sicilia rupestre... cit., pp. 320-321.137 Cfr. M. SCARLATA, La civiltà rupestre del Val di Mazara tra habitat rupestre e insediamento urbano, in AA.VV., La Sicilia rupestre... cit., p. 288.138 Cfr. J. JOHNS, op. cit., p. 233.139 Cfr. D. NOVEMBRE, Sul popolamento epigeo e ipogeo... cit., p. 338.140 Cfr. A. MESSINA, La moschea rupestre del Balzo della Rossa a Sperlinga, in http:/Iwww.barkiey.archeo.unisi. it/NewPageS/COLLANEITESTISAMI/SAM12/48Messina. pdf.141 Cfr. F. GABRIELI - U. SCERRATO (a cura di), Gli arabi in Italia, Milano, 1989, pp. 698-699 e 701142 Cfr. D. NOVEMBRE, Sul popolamento epigeo e ipogeo... cit., p. 320.

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pugliesi; pertanto non è il caso in questa sede di ripercorrerle con una particolareggiata descrizione.

Vanno, però, ricordate per sommi capi le due versioni dell'epilogo della storia di tali insediamenti, così sintetizzabili: da una parte il declino e l'abbandono di alcuni siti rupestri tra il XIV e il XV secolo; dall'altra l'esplosione urbana, che porta alla definizione di moderne cittadine, solo parzialmente ipogee, quali Matera, Ginosa, Laterza, Palagianello, Massafra, Cri-spiano, Statte, Grottaglie.

Sembrano essere state proprio le particolari vicende storiche, ambientali ed economiche, verificatesi a cavallo tra le dominazioni angioina e aragonese, a determinare la divaricazione dei destini dei vecchi insediamenti, che avevano colonizzato i fianchi delle gravine e delle lame, bonificando i territori collinari e gran parte della pianura, avviando un nuovo corso produttivo.La crisi e lo spopolamento di molti villaggi rupestri tra XIV e XV secolo si accompagnarono al più generale fenomeno di crescita dell'importanza della città a svantaggio del contado, come si coglie dall'illuminante analisi di Raffaele Licinio: La fame, la peste nera, le malattie, le scorrerie di eserciti, lo stesso fenomeno del brigantaggio..., le fughe dai casali, le rivolte di singoli e di gruppi nelle località rurali, pesarono certamente sulla tendenza alla contrazione del numero di insediamento pugliesi. Fra Trecento e Quattrocento si verificò l'abbandono di numerose località rurali in Terra di Bari, in Terra d'Otranto, specialmente nell'area del Tarantino sud-orientale e lungo le coste del Leccese, e soprattutto in Capitanata... Sin dal secolo X, e in misura accentuata poi nei due secoli seguenti, nella tipologia insediativa della regione la forma più tipica del popolamento rurale era stata quella del villaggio fortificato. Nell'età del-l'incastellamento, che fu accelerato dalla presenza dei normanni, intorno ed a partire dal castrum ebbe luogo la conquista delle terre incolte, e dalla presenza delle fortificazioni furono contrassegnate e definite le stesse località urbane. Ma un compito importante nelle vicende del popolamento rurale fu svolto anche dal villaggio rupestre e dal casale... In un paesaggio rurale ancora dominato da ampi spazi vuoti e lasciati al pascolo, alla vegetazione spontanea, (p. 141) alle distese boschive, il villaggio con la sua torre e spesso con la sua cinta muraria, ma anche il villaggio aperto e non fortificato, avevano progressivamente realizzato una fascia di coltivazione intensiva, di orti, di vigneti, che umanizzava profondamente la campagna. Integrati nella configurazio ne naturale del territorio, come nel caso degli insediamenti rupestri o situati in prossimità di punti strategico-militari, o ancora sviluppandosi intorno ad una chiesa o ad una grangia monasteriale, i villaggi avevano rappresentato isole colturali in un rapporto di equilibrio con il nucleo urbano più vicino. Nel Duecento questo equilibrio si era sostanzialmente modificato a favore della città... Il flusso di immigrazione dai villaggi rurali nei centri urbani, che andò sempre più ispessendosi tra i secoli XIII e XIV, non può essere spiegato soltanto come il frutto di una mobilità demografica motivata dalla insicurezza delle campagne. I casali si spopolarono e i campi coltivati furono abbandonati specialmente lì dove improvvisi e ripetuti cali dei prezzi e delle rese dei prodotti principali, grano innanzi tutto, si tradussero nella rovina dei piccoli proprietari terrieri, degli enfiteuti, dei titolari dei contratti di miglioria e delle cessioni vitalizie. La crisi della piccola proprietà allodiale o burgensatica, non soggetta cioè a vincoli feudali, fu parallela alla fuga dalle campagne dei coltivatori, quei rustici che a vario titolo e con diverse modalità erano tenuti a prestazioni di giornate lavorative, di servizi, corvées o di quote di raccolto.143

A questo passo non c'è molto da aggiungere, se non alcune considerazioni su un fattore non annotato da Licinio, ovvero l'entità dell'importante mutamento climatico verificatosi in quella fase storica, che determinò, tra l'altro, una profonda crisi dell'agricoltura in tutta l'Europa.

Il cambiamento del clima favorì nel nostro territorio una generalizzata decadenza dell'uso abitativo della grotta, verificatasi a partire da quei secoli anche nelle cittadine sorte su 143 R. LICINIO, Uomini e terre... cit., pp. 151-154.

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insediamenti trogloditici, in quanto, come s'è detto, nel XIV secolo si assistette a una brusca degradazione climatica, preludio della cosiddetta piccola età glaciale.144

In generale, intorno al 1300 terminò il periodo caldo e la situazione climatica planetaria mutò radicalmente con la progressiva avanzata dei ghiacciai alpini e polari; dal 1320 le temperature medie estive e invernali in Europa scesero di circa 1,5-.- 2°C, determinando lo spostamento delle fasce climatiche verso latitudini più basse.Le conseguenze sull'ambiente delle mutate condizioni del clima fecero registrare in pochi decenni esiti catastrofici: in Inghilterra i vigneti scomparvero, mentre in Irlanda e in Scandinavia si ridussero i terreni sativi;145 in Scozia l'agricoltura, che era stata sino ad allora prospera, decadde al punto da portare la popolazione alla povertà alimentare; nell'Europa meridionale alcune zone, prima aride, furono flagellate da piogge torrenziali e dal gelo; l'Europa nord-occidentale fu afflitta da inverni estremamente rigidi e da tempeste epocali, che (p. 142) distrussero gli insediamenti in Groenlandia e in Islanda.

La piccola età glaciale terminò solo verso la metà del XIX secolo.Domenico Novembre riporta che per la Puglia il periodo particolarmente fresco e umido si

protrasse sino alla metà del Cinquecento, quando iniziò la vera e propria piccola età glaciale, i cui rigori si sentirono sino alla metà dell'Ottocento.146

t evidente che il nuovo regime climatico doveva aver mutato abbastanza rapidamente le condizioni di zona arida, entro le quali era stata maturata la scelta trogloditica dei coloni bizantini: non aveva, perciò, più molto senso rimanere nelle gravine, visto che l'acqua era abbondante in ogni zona del territorio, né vivere nelle grotte, dato che la temperatura media si era di molto abbassata in ogni stagione.

Conclusioni

In queste pagine si è cercato di fornire un'interpretazione in parte nuova della vicenda rupestre pugliese, determinata in epoca medioevale dalla scelta di vivere in grotta da parte di molte popolazioni rurali.

Queste in Puglia e in varie altre regioni del mondo reagirono, così, alle nuove e difficili condizioni climatico-ambientali, conseguenti al forte riscaldamento dell'atmosfera nel periodo arido del piccolo optimum medioevale.

Vennero, pertanto, sfruttate le proprietà termiche degli invasi di mantenere una temperatura costante e una discreta coibentazione naturale degli ambienti.

Si è, inoltre, osservato che nella Puglia centrale l'escavazione degli insediamenti rupestri a mezza collina, sui costoni tufacei delle gravine, si mostrò funzionale alla captazione delle acque meteoriche, nonché all'esigenza di posizionare gli abitati al di fuori del raggio d'azione della malaria, infestante all'epoca le pianure impaludate.

E’stato evidenziato, infine, come gli insediamenti trogloditici si siano imposti e sviluppati principalmente nel corso della seconda colonizzazione bizantina, a partire dal IX ma, soprattutto, nel corso del X secolo, in concomitanza con le politiche di sviluppo dei dissodamenti agrari attuati nelle province dell'impero dalla dinastia macedone (867-1057).

La matrice culturale del trogloditismo sarebbe, quindi, da ricercare nelle genti anatoliche, armene e mediorientali che costituirono i contingenti delle correnti migratorie favorite dagli imperatori bizantini, nonché del monachesimo pionieristico di frontiera, che guidò e accompagnò i coloni; né si può tralasciare di considerare i probabili contributi siciliani e berberi, conseguenti alle contemporanee vicende storiche, politiche e religiose del Mezzogiorno d'Italia.

144 Cfr. D. NOVEMBRE, L'ambiente fisico... cit., p. 24.145 Cfr. R. ROMANO, L'Europa tra due crisi - XIV e XVII secolo, Torino, 1980, p. 23.146 Cfr. D. NOVEMBRE, L'ambiente fisico... cit., p. 27.

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La necessità di approfondire la ricerca su questi scenari storici e ambientali non è, però, sorretta da curiosità intellettuale e/o da esigenze d'investigazione storica.

La vicenda trogloditica della Murgia medievale costituisce, infatti, un precedente storico-antropologico da considerare e da studiare attentamente, soprattutto oggi, visto che i problemi ambientali di oltre mille anni fa sembrano riproporsi con drammatica evidenza.

Gli avvenimenti climatici di questi decenni e, da ultima, l'infuocata estate del 2003, sono gli effetti di una fase di riscaldamento del pianeta che sembra ricalcare abbastanza fedelmente le dinamiche climatiche e ambientali già vissute ai tempi del piccolo optimum medievale.

Stiamo, evidentemente, vivendo una nuova fase planetaria arida e secca e alcune regioni mediterranee sono già interessate da un inesorabile processo di desertificazione, com'è attestato da tempo dai dati diffusi dai governi e dagli organismi internazionali e nazionali che si occupano di queste tematiche.147

(p. 143) E’ inspiegabile, tuttavia, come questo problema venga sottovalutato, considerando il generale disinteresse dei politici e degli operatori economici, perlopiù preoccupati ad assecondare gli interessi di lobbies e di cartelli speculativi, che minano ulteriormente i delicati equilibri ambientali di territori già fortemente compromessi.

In base alla definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta alla siccità e/o alla desertificazione, per desertificazione deve, infatti, intendersi il degrado del suolo in aree aride, semi-aride e secche sub-umide, a causa delle variazioni climatiche o dell'azione dell'uomo.

Tale fenomeno nelle sue manifestazioni estreme interessa oltre cento paesi, minacciando la sopravvivenza di più di un miliardo di persone, dato che la situazione è particolarmente drammatica nelle zone aride, dove la minaccia della desertificazione incombe sul 70% circa delle aree, ovvero su un quarto dell'intera superficie terrestre.

L'ENEA stima che in Italia circa 35.000 chilometri quadrati, ossia il 12% del territorio nazionale, presentino i sintomi della desertificazione: la regione maggiormente interessata è la Sicilia con il 36,6% del territorio, quasi totalmente compreso nelle province di Siracusa, di Enna, di Ragusa, di Trapani e di Agrigento; seguono la Puglia con il 18,9% del territorio e la Sardegna con il 10,8%.

Un avanzato processo di degradazione, tuttavia, riguarda quasi il 27% delle aree aride, semi-aride e sub-umide secche del territorio nazionale, dato che ben tredici province delle regioni Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna sono interessate da fenomeni di desertificazione.

Questa minaccia incombe, soprattutto, sulla Puglia, il cui territorio è considerato arido nella misura del 60%; tale caratteristica ambientale investe per il 54% la superficie della Basilicata, per il 47% la Sicilia e per il 31% la Sardegna. 1 processi d'inaridimento più diffusi ed evidenti sono già riscontrabili nelle province di Taranto, di Siracusa, di Agrigento e di Trapani.

Il disordinato sviluppo delle aree urbane, poi, contribuisce al processo di desertificazione sia cementificando vaste superfici naturali, sia assorbendo e distruggendo le risorse ambientali del territorio.

In ambito agricolo questo processo si manifesta con effetti più evidenti e preoccupanti: erosione superficiale; perdita di fertilità dei terreni; salinizzazione del suolo; distruzione di humus; scomparsa della copertura vegetale; abbassamento e/o esaurimento delle falde idriche; degrado dei pendii e conseguenti movimenti franosi.

Nel bacino del Mediterraneo gli esperti prevedono, inoltre, per il prossimo futuro l'estendersi dei processi di desertificazione a nuove aree per l'accrescimento e l'intensità delle precipitazioni 147 Dati e informazioni sull'avanzamento dei processi di desertificazione in Italia e in Puglia, fra gli altri, sono riportati in: http://www.minambiente.it; http://www.geologi.it; http://www.ucea.it; http://www.riade.net; http://www.laureano.it; http://www. mc link.it/com/itnet/giovani/testi/gioscien.htm; http://www.geocities.com/CapeCanaveral/Hangarl/1167/pagel.htmi.Si segnalano, inoltre, in particolare: LEGAMBIENTE (a cura di), H2zero - L'acqua negata in Italia e nel mondo, in http://www.legambiente.com/documenti/2003/0604acqua/acqua.html; R. RACIOPPO, Il deserto prossimo venturo - L'Italia meridionale è ad alto rischio: il caso dell'area tarantina, in http://www.vglobale.it.

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eluviali, ovvero per la loro diversa distribuzione o riduzione, fenomeni decisamente determinati dall'aumento delle temperature medie stagionali.

Ad accelerare il degrado, inoltre, hanno contribuito: i frequenti cambiamenti di destinazione dei suoli; la diffusione di colture incompatibili con le specificità territoriali, introdotte da talune politiche a sostegno dell'agricoltura; l'impiego per uso irriguo di risorse idriche non sempre idonee; il disboscamento e i periodici incendi boschivi; l'urbanizzazione delle aree costiere.

La costante diminuzione delle precipitazioni, specialmente in inverno, non permette più un'adeguata ricarica delle falde idriche e, inoltre, in parecchie aree a rischio della Puglia la riduzione delle piogge ha indotto un accentuato sfruttamento irrazionale e, sovente, illegale (p. 144) delle acque sotterranee, determinando nel corso degli anni il pauroso impoverimento di una preziosa risorsa, che non può più compiutamente rigenerarsi.

Nelle aree carsiche e costiere, pertanto, il processo di desertificazione interagisce strettamente con quello della salsificazione delle acque di falda, causato dal deficit tra infiltrazione efficace e prelievo indiscriminato.

L'uso per scopi irrigui di acque di falda, aventi un contenuto salino di alcuni grammi per litro, pur tollerato da alcune colture, determina, inoltre, un progressivo accumulo di sali nei campi, che di conseguenza tendono a divenire pressoché e irreversibilmente sterili.

E’ il caso della piana di Taranto, di un po' tutto il Salento e, persino, di alcune zone costiere della Toscana, nelle quali un eccessivo sfruttamento della falda idrica determina l'intrusione di acqua marina, sicché i campi vengono, sempre più frequentemente, irrigati con acqua salmastra.

I dati meteorologici segnalano che in provincia di Taranto le precipitazioni annue e, soprattutto, quelle del periodo invernale fanno registrare nel complesso un netto trend di decrescita, tale da determinare la conseguente diminuzione del surplus, ossia di quel quantitativo di acqua meteorica che, infiltrandosi nel terreno, può ricaricare la falda.

A ciò si aggiunge che nella piana tarentina negli ultimi cinquant'anni si è operata la sistematica sostituzione delle colture agricole tradizionali con quelle irrigue, dapprima oliveti e vigneti e di recente i più redditizi agrumeti.

L'agricoltura irrigua della piana tarentina, secondo stime recenti, impiega il 70% del consumo totale di acqua con punte stagionali del 90%; una buona parte della fornitura idrica per l'agricoltura proviene, peraltro, dall'emungimento della falda per mezzo di centinaia di pozzi artesiani.

L'elevata vulnerabilità alla desertificazione della provincia di Taranto, dunque, è determinata da un complesso di fattori di rischio, spesso interagenti: riduzione delle precipitazioni invernali; agricoltura e zootecnia intensive; depauperamento delle risorse idriche con salinizzazione della falda; urbanizzazione incontrollata; disboscamenti; eccessiva presenza turistica stagionale nelle aree costiere.

La preoccupante situazione in cui viviamo rende attuale, pertanto, il confronto con la best practice di adattamento ambientale, realizzata alla fine del primo millennio dai trogloditi nelle aride gravine della Murgia.

Cinzio Violante, a tal proposito, ha magistralmente sintetizzato quanto la vicenda rupestre ha rappresentato per la nostra terra e per la nostra gente: I nuovi aspetti che sono emersi nello studio della civiltà rupestre investono un settore più largo e anche più vivo di interessi, sicché con il godimento artistico di quei monumenti e di quelle espressioni figurative, si rievocano anche le memorie di una accorta opera di amministrazione e di organizzazione economica, di una oscura attività di lavoro agricolo, di un fenomeno di capillare ripresa sociale. Acquista così, incredibilmente, aderenza alla realtà concreta l'immagine con la quale Tommaso Fiore definì il pugliese un "popolo di formiche". La serietà, la previdenza, la laboriosità, soprattutto la tenacia che erano significate da questa definizione, vengono ora riscoperte nella oscura vicenda storica delle comunità rurali sotterranee, che a volte si sono sviluppate fino a diventare città, sempre hanno lentamente reso feconda l'aspra terra di Puglia e vivificato il suo paesaggio.148

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Studiare attentamente questa oscura vicenda storica può permetterci, probabilmente, di comprendere che in una situazione climatica (p. 145) difficile per l'oggi e per il domani bisogna riconsiderare con estrema urgenza tanti elementi, dati finora per scontati: il concetto di sviluppo territoriale; le fonti di approvvigionamento idrico ed energetico; le tecniche di costruzione e di coibentazione delle case; le normative dei piani regolatori; le destinazioni d'uso dei suoli; le pratiche colturali; le politiche di tutela e di ripristino ambientale.

Va, cioè, ridefinito per intero il rapporto culturale esistente tra l'uomo e l'ambiente, evitando, come insegnano i trogloditi bizantini, di confliggere con le difficoltà dell'habitat, al quale è improcrastinabile adattarsi con estrema intelligenza e con rinnovata sensibilità.

S'impongono, pertanto, all'attenzione dell'opinione pubblica per l'immediato futuro l'importanza e l'urgenza di adottare provvedimenti di tutela, capaci di preservare il territorio della Murgia dall'aggressione, dal degrado e dalla desertificazione, a cominciare dalle aree più sensibili e delicate, come quella del chimerico Parco Regionale delle Gravine.

Si attende da troppo tempo che la Regione Puglia dia l'assenso alla più ampia perimetrazione di questo parco nella speranza che la ragione consigli i nostri amministratori a ignorare, una volta per tutte, i miopi difensori di meri interessi di bottega, affinché venga tutelato e valorizzato compiutamente un habitat rupestre e ambientale fra i più interessanti e attuali del bacino del Mediterraneo.

note

148 C. VIOLANTE, Prefazione, in C.D. FONSECA, Civiltà rupestre in Terra Ionica, Roma-Milano, 1970, p. 9.