Bibbia e Att. 06 Muta il mio dolore in...

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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale 1 Muta il mio dolore in danza (Vivere la sofferenza con speranza) «Il piacere è spesso un visitatore; ma la sofferenza si attacca crudelmente e lungamente a noi» (John Keats). «Tu hai mutato il mio dolore in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai rivestito di gioia» (Sl 30:11) Se mi chiedessero di scrivere una lettera ad una bambina che sta per nascere, lo farei così: «Cosa hai sentito finora del mondo attraverso l’acqua e la pelle tesa della pancia della mamma? Cosa ti hanno detto le tue orecchie imperfette delle nostre paure? Riusciremo a volerti senza pretendere, a guardarti senza riempire il tuo spazio di parole, inviti o divieti? Riusciremo ad accorgerci di te anche dai tuoi silenzi, a rispettare la tua crescita senza gravarla di sensi di colpa e di affanni? Riusciremo a stringerti senza che il nostro contatto sia richiesta spasmodica o ricatto d’affetto? Vorrei che i tuoi Natali non fossero colmi di doni segnali a volte sfacciati delle nostre assenze ma di attenzioni. Vorrei che gli adulti che incontrerai fossero capaci di autorevolezza, fermi e coerenti: qualità dei più saggi. E la consapevolezza che nel mondo in cui verrai esistono oltre alle regole le relazioni e che le une e le altre non sono meno necessarie delle altre, ma facce di una stessa luna presente. Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a inseguire le emozioni... tutte anche quelle che sanno di dolore...». 1 La cultura in cui viviamo tende ad espellere la sofferenza, a negarla, esorcizzarla (talismani, amuleti, droga, alcol, ecc.), a rimuoverla o addirittura a “ucciderla” (suicidio/omicidio). I fatti di cronaca d’inaudita violenza, come quelli di uomini e donne che pongono fine all’esistenza di un genitore, di un figlio o dell’ex fidanzata o moglie, sono l’espressione violenta di una società che non accetta più la sofferenza in qualsiasi modo si manifesti. Non ci si può permettere di essere tristi, infelici, annoiati, scontenti e quindi, se capita di esserlo, ci si rivolge ai tecnici della felicità, nella speranza che trovino la pillola giusta o la ricetta giusta, che facciano sparire quelle fastidiose emozioni che proviamo. L’attuale generazione non ha imparato o non le è stato insegnato ad affrontare la sofferenza. 2 La sindrome del puer aeternus (eterno bambino), oggi così diffusa, è dovuta proprio all’incapacità di accettare la sofferenza. Non si cresce, si resta psicologicamente bambini perché invece di affrontare il dolore e la sofferenza inevitabili in questa vita 3 si preferisce evitarli. Indubbiamente a nessuno fa piacere soffrire, e tutti vorremmo per noi e per i nostri cari, una vita facile esente da qualsiasi tipo di ombra, eppure non è la cosa fondamentale. «Ciò che è veramente importante è che ritroviamo un senso alla nostra esistenza e lo realizziamo per quanto possibile, sia agendo energicamente, sia in un’esperienza umana, sia anche con un eroico atteggiamento verso la sofferenza. Niente e nessuno può limitare la libertà spirituale della persona se non è essa stessa a farlo, e nessun destino può metterci in ginocchio se non siamo disposti a piegarci» (E. Lukas). 1 Non siamo capaci di ascoltarli P. Crepet 2 I bambini sono privati del valore della sofferenza, ad ogni pianto, vero o capriccioso che sia, i genitori intervengono, per sottrarli al dolore. La motivazione, che regola tale comportamento, è: “Io ho sofferto, non voglio che i miei figli soffrano”, quindi li allevano nella bambagia, come se vivessero in una campana di vetro. In questo modo i figli non acquisiscono quella giusta dose di tolleranza e di sopportazione al dolore, e rischiano di rimanere eterni bambinoni e cercheranno sempre di evitare la sofferenza creando delle dipendenze psicologiche, ecc. 3 La sofferenza non è un optional, ma «una» condizione di vita. La sofferenza è come il sale nel mare. Essa è la conseguenza logica del peccato (Genesi 3: 1619). Per non soffrire e morire non dovevamo nascere.

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Studi  biblici  –  Past.  Francesco  Zenzale  

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Muta  il  mio  dolore  in  danza  (Vivere  la  sofferenza  con  speranza)    «Il   piacere   è   spesso   un   visitatore;   ma   la   sofferenza   si   attacca  crudelmente  e  lungamente  a  noi»  (John  Keats).    «Tu  hai  mutato  il  mio  dolore  in  danza;  hai  sciolto  il  mio  cilicio  e  mi  hai  rivestito  di  gioia»  (Sl  30:11)  

 Se  mi  chiedessero  di  scrivere  una  lettera  ad  una  bambina  che  sta  per  nascere,  lo  farei  così:  

 «Cosa  hai   sentito   finora  del  mondo  attraverso   l’acqua  e   la  pelle   tesa  della  pancia  della  mamma?  Cosa   ti  hanno   detto   le   tue   orecchie   imperfette   delle   nostre   paure?   Riusciremo   a   volerti   senza   pretendere,   a  guardarti  senza  riempire  il  tuo  spazio  di  parole,  inviti  o  divieti?  Riusciremo  ad  accorgerci  di  te  anche  dai  tuoi  silenzi,  a  rispettare  la  tua  crescita  senza  gravarla  di  sensi  di  colpa  e  di  affanni?  Riusciremo  a  stringerti  senza  che  il  nostro  contatto  sia  richiesta  spasmodica  o  ricatto  d’affetto?  Vorrei  che  i  tuoi  Natali  non  fossero  colmi  di  doni  -­‐  segnali  a  volte  sfacciati  delle  nostre  assenze  -­‐  ma  di  attenzioni.  Vorrei  che  gli  adulti  che  incontrerai  fossero  capaci  di  autorevolezza,  fermi  e  coerenti:  qualità  dei  più  saggi.  E  la  consapevolezza  che  nel  mondo  in  cui  verrai  esistono  oltre  alle   regole   le   relazioni  e  che   le  une  e   le  altre  non  sono  meno  necessarie  delle  altre,   ma   facce   di   una   stessa   luna   presente.   Mi   piacerebbe   che   qualcuno   ti   insegnasse   a   inseguire   le  emozioni...  tutte  anche  quelle  che  sanno  di  dolore...».1    La  cultura  in  cui  viviamo  tende  ad  espellere  la  sofferenza,  a  negarla,  esorcizzarla  (talismani,  amuleti,  droga,  alcol,  ecc.),  a  rimuoverla  o  addirittura  a  “ucciderla”  (suicidio/omicidio).  I  fatti  di  cronaca  d’inaudita  violenza,  come  quelli  di  uomini  e  donne  che  pongono  fine  all’esistenza  di  un  genitore,  di  un  figlio  o  dell’ex  fidanzata  o  moglie,   sono   l’espressione   violenta   di   una   società   che  non   accetta   più   la   sofferenza   in   qualsiasi  modo   si  manifesti.    Non   ci   si   può   permettere   di   essere   tristi,   infelici,   annoiati,   scontenti   e   quindi,   se   capita   di   esserlo,   ci   si  rivolge  ai   tecnici   della   felicità,  nella   speranza   che   trovino   la  pillola   giusta  o   la   ricetta   giusta,   che   facciano  sparire  quelle   fastidiose  emozioni   che  proviamo.   L’attuale  generazione  non  ha   imparato  o  non   le  è   stato  insegnato  ad  affrontare  la  sofferenza.2        La   sindrome   del   puer   aeternus   (eterno   bambino),   oggi   così   diffusa,   è   dovuta   proprio   all’incapacità   di  accettare   la   sofferenza.   Non   si   cresce,   si   resta   psicologicamente   bambini   perché   invece   di   affrontare   il  dolore  e  la  sofferenza  -­‐  inevitabili  in  questa  vita3  -­‐  si  preferisce  evitarli.        Indubbiamente  a  nessuno   fa  piacere   soffrire,   e   tutti   vorremmo  per  noi   e  per   i   nostri   cari,   una   vita   facile  esente  da  qualsiasi  tipo  di  ombra,  eppure  non  è  la  cosa  fondamentale.  «Ciò  che  è  veramente  importante  è  che   ritroviamo   un   senso   alla   nostra   esistenza   e   lo   realizziamo   per   quanto   possibile,   sia   agendo  energicamente,   sia   in   un’esperienza   umana,   sia   anche   con   un   eroico   atteggiamento   verso   la   sofferenza.  Niente   e   nessuno   può   limitare   la   libertà   spirituale   della   persona   se   non   è   essa   stessa   a   farlo,   e   nessun  destino  può  metterci  in  ginocchio  se  non  siamo  disposti  a  piegarci»  (E.  Lukas).    

1  Non  siamo  capaci  di  ascoltarli  -­‐  P.  Crepet  2  I  bambini  sono  privati  del  valore  della  sofferenza,  ad  ogni  pianto,  vero  o  capriccioso  che  sia,  i  genitori  intervengono,  per  sottrarli  al  dolore.  La  motivazione,  che  regola  tale  comportamento,  è:  “Io  ho  sofferto,  non  voglio  che  i  miei  figli  soffrano”,  quindi   li  allevano  nella  bambagia,  come  se  vivessero  in  una  campana  di  vetro.  In  questo  modo  i  figli  non  acquisiscono  quella  giusta  dose  di  tolleranza  e  di  sopportazione  al  dolore,  e  rischiano  di  rimanere  eterni  bambinoni  e  cercheranno  sempre  di  evitare  la  sofferenza  creando  delle  dipendenze  psicologiche,  ecc.  3  La  sofferenza  non  è  un  optional,  ma  «una»  condizione  di  vita.  La  sofferenza  è  come  il  sale  nel  mare.  Essa  è  la  conseguenza  logica    del  peccato  (Genesi  3:  16-­‐19).  Per  non  soffrire  e  morire  non  dovevamo  nascere.  

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I  grandi  uomini  devono  la  loro  grandezza  alla  sofferenza,  mediante  la  quale  sono  stati  forgiati  nel  carattere.  Non  si  sono  sottratti  ad  essa,  ma  l’hanno  affrontata,  sopportata  e  superata.  Hanno  pianto,  sofferto  e  vinto.  Molte  persone  si  sono  temprate  nel  fuoco  della  sofferenza,  e  spesso  la  maturità  interiore  -­‐  e  anche  quella  spirituale  -­‐  si  raggiunge  solo  attraverso  un  doloroso  processo  di  crescita  psico-­‐spirituale.    Quante  volte  é  successo,  nella  mia  vita,  di  vedere  di  più  in  una  lacrima  negli  occhi  di  uomini  e  donne,  piccoli  e  grandi!  Il  dolore  e  la  sofferenza,  non  sono  segnali  dell’ira  di  Dio  come  molta  gente  pensa,  ma  esattamente  il   contrario.   «Alcune   volte   Dio   lava   gli   occhi   dei   Suoi   figli   con   lacrime,   affinché   questi   possano   vedere  correttamente  la  Sua  provvidenza  ed  i  suoi  comandamenti»    (T.  L.  Cuyler).    «La   vita  non  è   solo   rose  e   fiori,   però   sappiamo  di  non  essere   lasciati   soli   con   i   nostri   problemi   ,  Dio   ci   è  vicino  per  aiutarci  e  ci  mette  in  condizione  di  andare  avanti  senza  dubitare».4      La  sofferenza  nella  Parola  di  Dio5    “L’obiezione  di  Ivan  Karamazov,  nel  celebre  romanzo  di  Dostoievski,  resta  per  molti   il  più  grande  ostacolo  alla  fede  in  un  Dio  d’amore:  ci  si  può  fidare  di  Dio  in  un  mondo  dove  dei  bambini  sono  torturati?  Se  Dio  è  buono,  come  può  permettere  la  sofferenza  degli  innocenti?    Testimone   della   ricerca   spirituale   dell’uomo   lungo   i   secoli,   la   Bibbia   stessa   è   alle   prese   con   questa  domanda.  I  salmi  ci  presentano  lo  smarrimento  dei  fedeli  di  fronte  alla  felicità  dei  malvagi  e  all’infelicità  dei  giusti:  «Invano  dunque  ho  conservato  puro  il  mio  cuore  e  ho  lavato  nell’innocenza  le  mie  mani,  poiché  sono  colpito  tutto  il  giorno,  e  la  mia  pena  si  rinnova  ogni  mattina…  Ma  io  a  te,  Signore,  grido  aiuto,  e  al  mattino  giunge  a  te  la  mia  preghiera.  Perché,  Signore,  mi  respingi,  perché  mi  nascondi  il  tuo  volto?»  (Salmo  73,13-­‐14;   88,14-­‐15).   Chiaramente,   la   vecchia   spiegazione   che   fa   della   pena   una   conseguenza   del   peccato   non  funziona   sempre,   esistono   innumerevoli   casi   in   cui   la   sofferenza   non   è   la   conseguenza   di   un’esistenza  lontana  da  Dio.    Nelle  Scritture  ebraiche,  la  figura  di  Giobbe  è  l’esempio  tipico  che  suscita  questo  interrogativo.  Uomo  giusto  e  pio  attraversa  molte  prove,  ma   rifiuta  di  abbandonare   sia   l’affermazione  della   sua   innocenza   sia   la   sua  relazione   con   il   Signore.   Restando   unito   sino   alla   fine   a   questi   due   poli,   Giobbe   vede   la   sua   lotta   con   il  Signore   sfociare   in   una   nuova   scoperta.   Non   si   tratta   di   una   spiegazione   intellettuale,   come   di   una  giustificazione  della  sofferenza,  cosa  mostruosa  che  Dio  non  può  mai  dare,  ma  è  piuttosto  la  rivelazione  di  un   contesto   dove   tutto   cambia   di   prospettiva.   Giobbe   comprende   che   il   tentativo   di   gettare   su   Dio   la  responsabilità  della  sofferenza  porta  a  un  vicolo  cieco,  all’errore  più  grande.  Scartata  questa  falsa  pista,   il  campo  è  ormai  libero  per  una  comprensione  più  vera.    Infatti  questa  visione  è  presente  sin  dall’inizio  della  rivelazione  biblica.  Il  primo  innocente  che  incontriamo  nelle  pagine  della  Bibbia  è  Abele,   ingiustamente  ucciso  da  suo  fratello  Caino.  A  questo  proposito   l’autore  della  Genesi  scrive  delle  parole  stupefacenti:  «Il  Signore  disse  a  Caino:  Che  hai  fatto?  La  voce  del  sangue  di  tuo  fratello  grida  a  me  dal  suolo!»  (Genesi  4,10).  Nella  Bibbia  il  sangue  è  la  vita  (vedi  Levitico  17,11.14),  e  questa   vita   annientata   dalla   malvagità   umana   ritrova   paradossalmente   una   voce.   Lungi   dall’essere  soffocato  dalla  violenza  degli  uomini,  il  desiderio  di  vita  che  abita  il  cuore  della  vittima  è  liberato  attraverso  la  sua  innocenza  ferita.  Il  suo  grido  giunge  fino  a  Dio  e  provoca  il  suo  intervento.    Questa  stessa  dinamica  è  presente  nella  storia  della  salvezza,  nel  racconto  dell’Esodo.  Quel  che  fa  scendere  Dio  sulla   terra  non  è  qualche  atto  di  prodezza  o  di  dedizione  da  parte  degli  esseri  umani,  ma  piuttosto   il  grido   che   nasce   dalla   loro   oppressione.   I   lamenti   degli   schiavi   mettono   in   moto   un   vasto   processo   di  liberazione  nel  quale  Dio  si  fa  presente  (  vedi  Esodo  2,23-­‐25).  

4  Comincia  a  vivere,  p.  37  5  Lettera  da  Taizé:  2003/6  http://www.taize.fr/it_article1202.html    

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 Con   i   profeti   d’Israele,   si   fa   un   ulteriore   passo   in   avanti.   Essi   sperimentano   fin   nella   loro   carne   che  Dio,  l’Innocente   per   eccellenza,   è   rifiutato   da   un   popolo   che   si   crede   autosufficiente.   Come  Osea   costretto   a  sopportare   con   pazienza   il   tradimento   della   sua   amata,   immagine   della   fedeltà   di   Dio   con   il   suo   popolo  infedele.  Come  Geremia  esposto  all’esclusione  e  alla  persecuzione,  «uomo  di  litigio  e  di  contrasto  per  tutto  il  paese»,  condannato  a  rimanere  solo  con  una  «piaga  incurabile»  (Geremia  15,10.17-­‐18).  Occorrerebbe  del  tempo   per   comprendere   che   quegli   uomini   ci   danno,   in   effetti,   un’idea   del   cuore   stesso   di   Dio,   quando  soffrono  per  non  essere  ascoltati  né  capiti.    Se  la  vita  dei  profeti  rivela  che  la  sofferenza  degli  innocenti  non  solo  spinge  Dio  all’azione  per  ristabilire  la  giustizia  ma  è  anche  il  luogo  privilegiato  in  cui  gli  esseri  umani  possono  entrare  nel  suo  mistero,  una  figura  misteriosa   che   troviamo   in   Isaia   40-­‐55   esprime   questa   verità   molto   chiaramente.   Si   tratta   di   un   essere  umano,  descritto  come  l’ultimo  degli  ultimi,  «oggetto  di  disprezzo»,  che  ama  e  così  prende  su  di  sé  tutta  la  malvagità  degli  altri  trasformandola  in  sofferenza  (vedi  Isaia  53).  Ed  ecco  che  quest’uomo  apparentemente  respinto  è  effettivamente  il  Servo  di  Dio,  cioè  qualcuno  che  realizza  sulla  terra  la  volontà  divina  di  salvezza.  Se  «al  Signore  è  piaciuto  prostrarlo  con  la  sofferenza»  (Isaia  53,10),  è  per  esaltarlo  davanti  a  tutti,  affinché  tutti  vedano   in   lui   l’attività  di  Dio  stesso:  Dio  riconcilia  a  sé  coloro  che   lo  rifiutano,  prendendo  su  di  sé   le  conseguenze  della  loro  infedeltà.    La  vita  di  Gesù  ci  dice  qualcosa  di  più?    Non   è   un   caso   che   i   primi   cristiani   si   siano   soffermati   su   questi   capitoli   d’Isaia,   quando   cercavano   nelle  Scritture   delle   luci   per   comprendere   la   sorte   del   loro   maestro,   Gesù.   Le   guarigioni   che   egli   compie  testimoniano   già   la   sua   volontà   di   prendere   su   di   sé   per   amore   le   sofferenze   degli   altri   (vedi   Matteo  8,16.17).  Però  è  soprattutto  il  suo  modo  d’affrontare  una  morte  atroce  che  rompe  il  cerchio  infernale  del  male.  La  condanna  di  un  giusto  che  risponde  con  il  perdono  (vedi  Luca  23,17.34)  permette  l’adempimento  del   disegno   di   Dio   che   è   quello   di   rendere   giuste   le  moltitudini   (vedi   Isaia   53,10-­‐11).   In   altre   parole,   la  sofferenza  di  un  innocente  vissuta  fino  in  fondo  dona  a  tutti  gli  esseri  umani  la  leggerezza  di  un’innocenza  ritrovata.  Il  sangue  di  Gesù  è  «più  eloquente  di  quello  di  Abele»  (Ebrei  12,24)  perché  suscita  la  venuta  di  Dio  sulla  terra  come  sorgente  inesauribile  di  una  nuova  vita.    L’ultimo  libro  della  Bibbia,  l’Apocalisse  di  san  Giovanni,  presenta  questo  processo  al  capitolo  6,  attraverso  la  sua  visione  sullo  svolgimento  della  storia  umana.  Si  tratta  di  un  libro  chiuso  da  sette  sigilli.  I  primi  quattro  descrivono   l’umanità   abbandonata  a   se   stessa,   come  una   curva   inesorabile   che  discende  verso   la  morte.  Con   il   quinto   sigillo   entriamo   nel   movimento   inverso,   l’attività   salvatrice   di   Dio.   E   questa   comincia  giustamente   con   il   grido  delle  «anime  che   furono   immolate…»   (Apocalisse  6:9-­‐11),   in   cui  bisogna  vedere  non  solo  i  martiri  cristiani,  ma  «tutto  il  sangue  innocente  versato  sopra  la  terra,  dal  sangue  dell’innocente  Abele»   (Matteo   23,35;   vedi   Apocalisse   18,24).   In   Dio,   il   sangue   degli   innocenti   diviene   portatore   di   un  dinamismo   che   contrasta   gli   effetti   distruttori   della   violenza.   La   loro   apparente   sconfitta   inaugura   un  movimento  di  liberazione  che  culmina  nella  croce  di  Cristo.    È  ciò  che  è  manifestato  dall’apertura  del  sesto  sigillo,  dove  si  parla  del  «grande  giorno  dell’ira  dell’Agnello»  (Apocalisse  6,17).  L’«ira  di  Dio»  è  la  parola  caratteristica  utilizzata  nella  Bibbia  per  esprimere  la  sua  risposta  al  peccato,  risposta  che  tende  a  ristabilire  la  giustizia  disprezzata.  Qui,  si  riferisce  all’atto  con  il  quale  Gesù  prende  su  di  sé  tutto  il  male  umano,  subendone  le  conseguenze  fino  all’estremo,  nel  suo  stesso  corpo  (vedi  1  Pietro  2,21-­‐24).    Donando  la  sua  vita  fino  in  fondo,  Gesù  condivide  la  sorte  di  tutte  le  vittime  innocenti  e  così  assicura  che  la  loro  pena  non  è  stata  vana.  Porta  le  loro  sofferenze  all’interno  della  propria  relazione  con  colui  che  chiama  Abbà,  Padre,  e  poiché  il  Padre  lo  ascolta  sempre  (vedi  Giovanni  11,42),  noi  abbiamo  la  certezza  che  questa  sofferenza   non   va   perduta.   Essa   conduce   alla   scomparsa   dell’antico   ordine   mondiale   segnato  dall’ingiustizia,   e   all’apparizione   «di   nuovi   cieli   e   di   una   nuova   terra,   dove   la   giustizia   abiterà»   (2   Pietro  3,13).   Ecco   la   risposta   definitiva,   frutto   di   una   vita   vissuta,   data   a   Ivan   Karamazov   e   a  Giobbe.   Lungi   dal  

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tollerare  anche  solo  per  un  istante  la  sofferenza  degli  innocenti,  nel  suo  Figlio  unigenito  Dio  beve  con  loro  quel  calice  amarissimo  e,  così  facendo,  la  trasforma  in  una  coppa  di  benedizione  per  tutti”.   Infatti,  verrà  il  giorno  in  cui  «Il  corpo  è  seminato  corruttibile,  e  risuscita  incorruttibile;  è  seminato  ignobile,  e   risuscita   glorioso;   è   seminato  debole,   e   risuscita   potente;   è   seminato   corpo  naturale,   e   risuscita   corpo  spirituale  […]e  come  abbiamo  portato  l'immagine  del  terreno,  così  porteremo  anche  l'immagine  del  celeste.  Or   questo   dico,   fratelli,   che   carne   e   sangue   non   possono   eredare   il   regno   di   Dio   né   la   corruzione   può  eredare   la   incorruttibilità.   Ecco,   io   vi   dico  un  mistero:   non   tutti  morremo,  ma   tutti   saremo  mutati,   in  un  momento,   in   un   batter   d'occhio,   al   suon   dell'ultima   tromba.   Perché   la   tromba   suonerà,   e   i   morti  risusciteranno   incorruttibili,   e   noi   saremo   mutati.   Poiché   bisogna   che   questo   corruttibile   rivesta  incorruttibilità,  e  che  questo  mortale  rivesta  immortalità»  (1  Corinzi  15,  42-­‐53).    Muta  il  mio  dolore  in  danza    L’uomo  angosciato  e  afflitto  ha  bisogno  di  ben  altro  che  di  parole  come:  «sentite  condoglianze»  o  «coraggio  vedrai   che   passerà»,   per   quanto   possano  manifestare   affettuosa   vicinanza.   La   retorica   non   può   lenire   il  nostro  dolore,  quando  è  profondo.  E  tuttavia  abbiamo  qualcuno  che  ci  accompagna    e  ci  guida  lungo  la  via  dolorosa  della   prova,   capace  di   trasformare   il   nostro  dolore   in   danza,   che   ci   insegna   a   vivere   la   vita   con  speranza.        Il   Signore   ci   invita   a   non   avere   paura,   perché   «quando   passerai   per   delle   acque,   io   sarò   teco;   quando  traverserai  de'  fiumi,  non  ti  sommergeranno;  quando  camminerai  nel  fuoco,  non  ne  sarai  arso,  e  la  fiamma  non   ti   consumerà.  Poiché   io   sono   l'Eterno,   il   tuo  Dio,   il   Santo  d'Israele,   il   tuo   salvatore   […]  Perché   tu   sei  prezioso  agli  occhi  miei,  perché  sei  pregiato  ed  io  t'amo  […]  Non  temere,  perché,  io  sono  teco;  io  ricondurrò  la  tua  progenie  dal  levante,  e  ti  raccoglierò  dal  ponente»  (Is  43:  1-­‐5).    Questo  brano  della  parola  ispirata  contiene  dei  preziosi  insegnamenti  sulla  natura  di  Dio  e  sul  modo  come  egli   si   relaziona   con   l’uomo   sofferente.   Egli   non   è   né   lontano,   né   vicino,   è   con   l’uomo   in   tutte   le   sue  vicissitudini  e   lo   invita  a  vivere   il  dolore  come  un’occasione  di  risanamento  e   la  nostra  afflizione  come  un  percorso   che  muta   il   nostro   dolore   in   danza.   «Dio   non   vuole   che   il   nostro   animo   sia   angosciato   da   una  sofferenza   segreta   che   ci   spezza   il   cuore;   desidera   che   ci   rivolgiamo   a   lui   nella   consapevolezza   del   suo  amore.  Molti  hanno  gli  occhi  così  velati  dalle  lacrime  che  non  scorgono  il  Salvatore  che  è  accanto  a  loro.  Egli  sarebbe  felice  di  prenderci  per  mano,  se  solo  ci  rivolgessimo  a  lui  e  ci   lasciassimo  guidare  nella  semplicità  della   fede.  Egli  è   sensibile  alle  nostre  angosce,  alle  nostre   sofferenze  e  alle  nostre  preoccupazioni.  Egli   ci  ama  di  un  amore  eterno  e  ci   circonda  di  attenzioni.  Se   resteremo  uniti  a   lui,  meditando  sulla   sua  grande  bontà,   egli   ci   aiuterà   a   elevare   il   nostro   animo   al   di   sopra   delle   tristezze   e   dei   dubbi   quotidiani   per  assicurarci  la  vera  pace».6    «Beati   quelli   che   sono   afflitti,   perché   saranno   consolati»   (Mt   5.4).   Con   questa   beatitudine   il   Signore   ci  incoraggia   a   elaborare   la   nostra   sofferenza   nel   suo   amore,   anziché   rimuoverla,   perché   «accogliendo   le  sofferenze   della   vita   con   un   atteggiamento   diverso   dal   rifiuto   potremo   scoprire   qualcosa   di   inatteso.  Invitando   il   Signore  a   vivere   con  noi   le  nostre   tribolazioni   edificheremo   la  nostra   vita  –   anche   il   suo   lato  oscuro  –  sul  fondamento  della  gioia  e  della  speranza».7        Non  dimentichiamo  che  «tutte   le  cose  cooperano  al  bene  di  quelli  che  amano   il  Signore»  e  noi  possiamo  essere  «più  che  vincitori,   in  virtù  di  colui  che  ci  ha  amati»  (Rm  8:28;  cfr  31-­‐39).  Ciò  significa  che  piuttosto  che  chiederci  «come  posso  liberarmi  dalla  mia  sofferenza?»,  dovremmo  porci  la  seguente  domanda:  «come  posso   renderla   un’occasione   di   crescita   e   di   discernimento?».   Con   la   giusta   disposizione   d’animo,   la  sofferenza   può   diventare   nelle   mani   di   Dio   uno   strumento   attraverso   il   quale   è   possibile   acquisire   la  maturità   affettiva   e   spirituale   che   ci   rende   idonei   per   il   cielo.   L’apostolo   Paolo   esorta   i   credenti   «a  

6  E.  G.  White,  Con  Gesù  sul  monte  delle  beatitudini”,  ed.  AdV,  Falciani  –  Impruneta  -­‐  (Fi),  p.    7  Henri  Nouwen,  “Muta  il  mio  dolore  in  Danza”,  ed.  San  Paolo,  Cinisello  Balsamo,  terza  edizione  2004,  p.11.  

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perseverare  nella  fede,  dicendo  loro  che  dobbiamo  entrare  nel  regno  di  Dio  attraverso  molte  tribolazioni»  (Atti  14:  22).8    Dal  dolore  alla  danza    Come  leggere  la  sofferenza,  tale  da  trasformare  il  dolore  in  un’opportunità  di  crescita?    Come  primo  passo  è  importante  capire  «che  la  guarigione  inizia  quando  sottraiamo  la  nostra  sofferenza  al  suo  diabolico   isolamento,  e  capiamo  che,  qualunque  essa  sia,  noi   la  sopportiamo   in  comunione  con  tutta  l’umanità,   anzi   con   tutto   il   creato».9   L’apostolo   Paolo   evidenzia   che   «tutta   la   creazione   geme   ed   è   in  travaglio;   non   solo   essa,   ma   anche   noi,   che   abbiamo   le   primizie   dello   Spirito,   gemiamo   dentro   di   noi,  aspettando  l'adozione,  la  redenzione  del  nostro  corpo»  (Rm  8:  22-­‐23).    Il   secondo   passo   consiste   nel   valutare   il   nostro   dolore   senza   avere   vergogna   di   piangere.   «Sembra   un  paradosso,   ma   guarire   e   danzare   iniziano   da   qui:   dal   guardare   a   viso   aperto   ciò   che   ci   causa   dolore.  Affrontiamo  quelle  perdite  rimosse  che  ci  hanno  paralizzato  e  tenuto  imprigionati  nel  rifiuto,  nella  vergogna  o  nella  colpa  […]  Cercando  di  occultare  parte  della  nostra  storia  a  Dio  e  alla  nostra  coscienza,  ci  ergiamo  da  giudici  del  nostro  passato  e  limitiamo  la  misericordia  divina  ai  nostri  timori  umani  [...]  Quando  Gesù  disse:  “non  sono  venuto  a  chiamare  i  giusti  ma  i  peccatori”  (Mt  9:13),  affermò  che  quanti  sono  coloro  che  sono  capaci  di  affrontare  la  loro  condizione  ferita  possono  essere  sanati  e  intraprendere  una  nuova  vita».10    Questo   training   implica   da   una   parte   prendere   le   distanza   dal   nostro   io   sofferente,   fragile   e   lamentoso;  dall’altra  l’oggettivazione  del  problema  e  una  maggiore  consapevolezza  dei  nostri  reali  bisogni.  11  In  questo  modo  evitiamo  la  tentazione  di   intendere  la  vita  come  un  esercizio  teso  a  soddisfare  ogni  nostro  bisogno,  che  indubbiamente  accentua  la  sofferenza  quando  non  si  riesce  ad  appagare.      Un  terzo  passo  importante  è  la  scelta  di  decidere  come  vivere  la  sofferenza.  Nella  vita  ci  sono  delle  perdite,  come   la  morte  di  una  cara  persona  o  una  malattia   incurabile.  Ad  esempio:  da  anni  soffro  di  una  malattia  degenerativa  dei  reni  e  pertanto  la  mia  funzionalità  renale  si  è  ridotta  al  punto  che  sono  stato  costretto  ad  andare   in   pensione   anticipatamente.   Come   conseguenza   della   disfunzione   renale,   per   mancata  ossigenazione  delle   teste   femorali,  ho  subito  due   interventi   chirurgici   (due  protesi   femorali),  oltre   i  primi  quattro  interventi  alla  schiena  per  ernia  discale  recidiva.  Questo  “incidente”  di  percorso  ha  cambiato  la  mia  vita  e  il  mio  stato  d’animo  e  per  una  persona  come  sono  io,  molto  attiva,  è  facile  cadere  in  depressione  o  nello  scoraggiamento.  Dopo  aver  elaborato  il  dolore,  in  preghiera  ho  chiesto  al  Signore:  che  cosa  vuoi  che  io  faccia  ora?  Come  posso  trasformare  questa  perdita  della  salute  in  un’opportunità  per  imparare  qualcosa  di  nuovo,  per  far  sì  che  questa  mia  “impotenza”  sia  di  testimonianza  ad  altri?    

8   «Le   prove   e   gli   ostacoli   sono   il  metodo   di   disciplina   scelto   da   Dio,   e   le   condizioni   da   lui   poste   perché   i   suoi   figli   giungano   al  successo.   Il   fatto  che  noi    siamo  chiamati  a  sopportare   la  prova  dimostra  che   il  Signore  vede   in  noi  qualcosa  di  prezioso  che  Egli  desidera  sviluppare...  É  oro  di  valore  quello  che  Egli   raffina».   (E.  G.  White,  “The  Ministry  of  Healing”,  p.  471).  “Siccome  il  mondo  diventa   sempre   più   malvagio,   nessuno   di   noi   ha   motivo   di   illudersi   che   non   avremo   difficoltà.   Sono   proprio   queste   che   ci  porteranno  fino  nella  sala  di  udienza  dell’Altissimo”  (Christ’s  Object  Lesson,  p.  172).  9  Henri  Nouwen,  “Muta  il  mio  dolore  in  Danza”,  ed.  San  Paolo,  Cinisello  Balsamo,  terza  edizione  2004,  p.16.  10  Idem,  p.  17  11  Il  bisogno  è  uno  dei  vocaboli  (desiderio,  impulso,  motivo,  esigenza,  ecc.)  che  designano  una  forza  localizzata  nel  cervello,  eccitabile  internamente  o  esternamente,  soggettivamente  esperita  come  impulso  o  spinta  ad  agire  alla  vita  o  a  compiere  una  determinata  azione.    Bisogni  primari:  Sono  tutti  quelli  la  cui  soddisfazione  è  indispensabile  per  la  sopravvivenza  come  mangiare,bere,dormire;  sono  bisogni  avvertiti  da  tutti  gli  esseri  viventi.  Bisogni  secondari:  Sono  tutti  quelli  la  cui  soddisfazione  non  è  indispensabile  per  la  sopravvivenza  per  l'uomo  come  andare  al  cinema,ballare,leggere;  sono  bisogni  che  si  avvertono  dopo  aver  soddisfatto  i  bisogni  primari.  Bisogni  indotti:  Sono  tutti  quelli  legati  alla  pubblicità  di  prodotti  di  consumo,  giocattoli,  ecc.,  dietro  i  quali  ci  sono  le  multinazionali.    

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Il  signore  ha  mutato  il  mio  dolore  in  danza:  continuo  a  fare  il  pastore,  ma  online  e  con  la  gioia  di  tutti  coloro  che  mi   scrivono   ringraziandomi   per   la   speranza   che   riesco   ad   infondere   nei   loro   cuori   e   per   la   gioia   di  sentire  che  una  persona  ha  accettato  Gesù  come  suo  personale  salvatore  ed  altre  che  lo  seguono  da  vicino.    «Le   perdite   possono   essere   irreparabili.   Ma   a   noi   resta   una   scelta:   come   le   vivremo?   Siamo  incessantemente   chiamati   a   scoprire   lo  Spirito  di  Dio  all’opera  nelle  nostre  vite,  dentro  di  noi,   anche  nei  momenti  più  bui.  Siamo  invitati  a  scegliere   la  vita.  Una  chiave  per  comprendere   la  sofferenza  sta  nel  non  ribellarci  ai  problemi  e  alle  croci  che  la  vita  ci  pone  di  fronte».12    Indubbiamente,  soffrire  ci  avvilisce,  ci  deprime;  ci  rammenta  con  straordinaria  efficacia  la  nostra  pochezza,  la  nostra  fragilità.  «Ma  è  proprio  qui,   in  questo  nostro  strazio,  o  avvilimento,o  disagio,  che  il  Danzatore  ci  invita  a  rialzarci  e  a  muove  i  primi  passi.  Perché  è  nella  nostra  sofferenza,  e  non  a  prescindere  da  essa,  che  Gesù  penetra  nel  nostro   sconforto,   ci  prende  per  mano,   ci   rialza  dolcemente  e   ci   invita  alla  danza.  E  noi  troviamo  il  modo  di  unirci  alla  preghiera  del  salmista:  «Tu  hai  mutato   il  mio  dolore   in  danza;  hai  sciolto   il  mio  cilicio  e  mi  hai  rivestito  di  gioia»  (Sl  30:11),  perché  al  centro  del  nostro  dolore  scopriamo  la  grazia  di  Dio».13    Il  quarto  passo  rilevante  è  la  gratitudine.14  Nel  senso  più  profondo  del  termine  significa  vivere  la  vita  come  un  dono  che  va  ricevuto  con  riconoscenza.  La  vera  gratitudine  accetta  tutti  gli  aspetti  della  vita:  il  bene  e  il  male,   la   gioia   e   il   dolore,   perché   la   vita,   dono   di   Dio,   la   si   vive   con   la   consapevolezza   della   sua   dolce  presenza  (Ebr.13:5;  Is  49:15-­‐16).      Anche  quando   la   nostra  mente  può  essere  offuscata  dalla   sofferenza  e  dal   dolore,   nel   cuore   abbiamo   la  certezza  che  il  Cristo  ci  ama.  Egli  comprende  le  nostre  debolezze  e  le  nostre  ferite,  riposiamoci  quindi  fra  le  sue  braccia.   Impariamo  ad   esprimere   con   il   cuore   e   le   labbra   le   lodi   a  Dio   per   il   suo   amore   senza   limiti.  Educhiamo   il   nostro   animo   ad   alimentare   una   profonda   speranza,   a   vivere   nella   luce   che   splende   dalla  croce  del  Calvario.  Dobbiamo  ricordare  costantemente  che  siamo  figli  del  Re  del  cielo,  figli  del  Signore  degli  Eserciti.  È  un  vero  privilegio  poter  conservare  una  serena  tranquillità.    Giobbe   nei  momenti   difficili   aveva   dichiarato:   «Maledetto   il   giorno   in   cui   sono   nato...»   (Giobbe   3:3;   cfr.  6:2,8-­‐10;  7:11,15,16).  Nonostante  Giobbe  fosse  stanco  della  vita,  aveva  nel  cuore  la  speranza  di  un  avvenire  migliore.   Infatti,   dallo   scoraggiamento   e   dall’abbattimento   più   profondo,   Giobbe   si   rialzò   affidandosi  completamente  alla  misericordia  e  alla  potenza  redentrice  di  Dio,  gridando  trionfalmente:  «Io   lo  so,  colui  che  mi  difende  è  vivo;  egli  un  giorno  mi  riabiliterà,  e,  perduta  la  mia  pelle,  distrutto  il  mio  corpo,  io  stesso  vedrò  Dio.   Lo   vedrò  accanto  a  me  e   lo   riconoscerò.   Lo   sento   con   il   cuore,  ne   sono  certo»   (19:25-­‐27;   cfr.  13:15,16).  «Poi  il  Signore  stesso,  avvolto  da  un  forte  vento,  parlò  a  Giobbe...»  (38:1)  e  fece  conoscere  al  suo  servitore  la  sua  potenza.  Quando  Giobbe  ricevette  la  rivelazione  del  suo  Creatore  si  vergognò  di  se  stesso  e  si  pentì  umiliandosi  nella  polvere  e  nella  cenere.  Allora  il  Signore  poté  benedirlo  abbondantemente  e  i  suoi  ultimi  anni  furono  i  migliori  della  sua  vita.    «Venite  a  me,  voi  tutti  che  siete  travagliati  e  aggravati,  ed  io  vi  darò  riposo»  (Mt  11:28).  Se  Gesù  rivolge  ai  suoi  figli  questo  invito,  vuol  dire  che  Egli  è  disposto  ad  ascoltarci  e  che  non  c’é  aspetto  della  nostra  vita  che  Dio  non  voglia  interessarsi:  bello  o  brutto  che  sia.  Dobbiamo,  veramente,  dirgli  tutto  e  con  tutto  il  cuore.    Per  quanto  triste  sia  stato   il  nostro  passato,  per  quanto  doloroso  sia   il  presente  se  ci  avviciniamo  a  Gesù  così  come  siamo,  deboli,  avviliti,  disperati,  il  nostro  Salvatore  ci  accoglierà.  Ci  aprirà  le  braccia  della  grazia  e  dell’amore  e  saremo  rafforzati  e  resi  capaci  di  accettarle  e  di  superarle.      

12  Idem.  p.  23  13  Idem,  p.  24  14Sentimento   di   profonda   e   affettuosa   riconoscenza   per   un   beneficio   ricevuto   e   di   sincera   e   completa   disponibilità   a  contraccambiarla  (Vocabolario  della  lingua  italiana  Devoto-­‐Oli).  

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Le  nostre  pene  quotidiane  saldamente  ancorate  a  Gesù  acquistato  un  nuovo  significato  esistenziale  e  con  il  suo  aiuto  possiamo  ancora  danzare.    «Tu   conti   i   passi  della  mia   vita  errante;   raccogli   le  mie   lacrime  nell'otre   tuo;  non   le   registri   forse  nel   tuo  libro?»  (Salmo  56:8).