Bergson Ricordo Puro Ricordo Immagine&Proust Madeleine
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Introduzione_Bergson (Materia e memoria, 1896) propone rapporto fra mente e corpo fondata su un ruolo chiave della memoria, che collega la coscienza (spirituale, incorporea) alla fisiologia (il cervello). 1) RICORDO-IMMAGINE (= epifania Joyce = intermittenza del cuore Proust= claritas s.Tommaso); 2) RICORDO-PURO (= tempo reale = durata = flusso di coscienza).
Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza_«La durata [RICORDO-PURO] assolutamente pura è la forma che
prende la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, si astiene da stabilire una
separazione tra lo stato presente e quelli anteriori. Non vi è bisogno, per far ciò, di assorbirsi interamente nella sensazione
o nell'idea che passa! ché allora, al contrario, si cesserebbe di durare. Non occorre nemmeno obliare gli stati anteriori,
basta che, ricordandosi di essi, non li si giustapponga allo stato attuale, come un punto ad un altro punto, ma li si organizzi
con quest'ultimo; come succede quando ci ricordiamo, fuse, per così dire, insieme, le note di una melodia. Non si potrebbe
dire che, se tali note si succedono, noi le avvertiamo, non di meno, le une nelle altre, e che il loro assieme è paragonabile ad
un essere vivente, le cui parti anche se distinte, si compenetrano per effetto stesso della loro solidarietà? La prova è che, se
rompiamo la misura insistendo più di quanto è necessario su una nota della melodia, non è la sua lunghezza esagerata, in
quanto lunghezza, che a avvertirà del nostro errore, ma il cangiamento qualitativo, apportato da ciò all'insieme della frase
musicale. Si può dunque concepire la successione senza la distinzione, e come una compenetrazione mutua, una
solidarietà, una organizzazione intima di elementi, di cui ciascuno, rappresentativo del tutto, non se ne distingue, e non se
ne isola, che per un pensiero capace di astrarre. Tale è senza alcun dubbio la rappresentazione che si farebbe della durata
un essere, che, allo stesso tempo identico e cangiante non avesse alcuna idea dello spazio. Ma familiarizzati con
quest'ultima idea, ossessionati addirittura da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della
successione pura; e giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da avvertirli simultaneamente, non più l'uno
nell'altro, ma l'uno a fianco all'altro. In breve: noi proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e
la successione prende per noi la forma di una linea continua, di una catena, le cui parti si toccano senza compenetrarsi».
Bergson, Evoluzione creatrice_«L'esistenza di cui siamo più certi e conosciamo meglio è, senza dubbio, la nostra. Ora, che
cosa osserviamo in noi? Io constato anzitutto che passo di stato in stato. Ho caldo od ho scoperto, sono lieto o triste, lavoro
o non faccio nulla, guardo ciò che mi circonda o penso ad altro. Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni: ecco le
modificazioni tra cui si divide la mia esistenza e a volta a volta la colorano di sé. Io cangio, dunque, incessantemente. Ma
non basta dir questo: [RICORDO-IMAGINE] il cangiamento è più radicale che a prima vista non sembri. Consideriamo il più
stabile degli stati psichici: la percezione visiva di un oggetto esterno immobile. L'oggetto può sì rimanere sempre lo stesso
e io posso continuare a guardarlo dalla stessa parte, sotto lo stesso angolo visuale, alla stessa luce: l'immagine che io ne ho
in questo momento differisce tuttavia da quella avuta poco fa, se non altro perché è più vecchia di un istante. La mia
memoria è là, che proietta qualche cosa di quel passato in questo presente. Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del
tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Che cosa siamo
infatti se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, anzi prima di essa, giacché portiamo con noi disposizioni
prenatali? Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato; ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il
nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. Il nostro passato ci si rivela, dunque, nella sua interezza, con la
pressione che esercita su di noi e sotto forma di tendenza, benché solo una piccola parte di esso si converta in
rappresentazione chiara e distinta. Conseguenza di questa sopravvivenza del passato è l'impossibilità, per una coscienza,
di passare due volte per un identico stato. Le circostanze possono ben rimanere le stesse: non è più la stessa persona su cui
agiscono, perché la colgono in un momento nuovo della sua storia. La nostra personalità, che va via via formandosi
mediante il progressivo accumularsi dell'esperienza, muta continuamente; e perciò nessun stato di coscienza, anche se
resta identico alla superficie, si ripete mai in profondità».
Proust, Alla ricerca del tempo perduto_«[…] quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi
infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so
perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate madeleine, che paiono aver
avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia.
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un
cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di madeleine. Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di
focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. [INTERMITTENZA DEL CUORE] Un
piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita,
le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio
quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta
venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava
incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. È
tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa
l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa
testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia
disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso
trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando
lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a
nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi
far entrare nella sua luce.
Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce.
Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi
l'impeto con cui tenterà di riafferrarla
Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo
fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile
turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la
testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale
circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è
venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento
più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci
volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar
stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono
ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «addalena che la domenica mattina a Combray (
giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva
dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio».