Bellonci Maria-Lucrezia Borgia

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Maria Bellonci Lucrezia Borgia A mio Padre PARTE PRIMA..1 Assalto al Vaticano.1 "Il piú carnale homo".17 Contessa di Pesaro.34 Per l'amor di Dio.37 Enigmi e delitti48 La tragica duchessa di Bisceglie.66 PARTE SECONDA..85 Il terzo matrimonio.85 Secondo periodo alla corte degli Este.105 Inquietudini125 Tempo d'amore.145 PARTE TERZA..169 Congiure ed intrighi ducali169 Guerra su Ferrara.201 Tempo di pace.221 Quaderno di Lucrezia Borgia.236 Tavole di alberi genealogici238 Iconografia di Lucrezia Borgia.239 Trecento anni di seta.241 PARTE PRIMA Assalto al Vaticano Di notte, fra il 25 e il 26 luglio 1492, moriva a Roma Papa Innocenzo VIII Cibo, genovese. Su quel vecchio benigno che sembrava aver portato la sua canizie di patriarca come segno manifesto di chiarezza d'animo, si erano abbattuti per anni, più o meno palesemente, biasimo ironia e disprezzo degli uomini di governo, tutti d'accordo a giudicare peggiore di un vizio la sua abbandonata debolezza. Debole, Innocenzo VIII era stato davvero, e, meglio, cedevole in tutto all'influsso di ciascuno che sapesse imporglisi con il magnetismo della vicinanza e della risolutezza: primo fra gli altri il savonese Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, che aveva governato il Papa come si può governare uno spirito che sfugge perfino a chi lo suggestiona. Pure, legato così al giuoco delle incertezze, il pontificato di Papa Cibo aveva segnato giorni conclusivi per la storia della Cristianità. E il più glorioso era stato quel 2 gennaio 1492 che aveva visto levarsi sull'Alambra, a Granata, sotto il nitido sole dell'inverno mediterraneo, il gonfalone col

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Lucrezia Borgia

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Maria BellonciLucrezia Borgia

A mio Padre

PARTE PRIMA..1Assalto al Vaticano.1"Il piú carnale homo".17Contessa di Pesaro.34Per l'amor di Dio.37Enigmi e delitti48La tragica duchessa di Bisceglie.66PARTE SECONDA..85Il terzo matrimonio.85Secondo periodo alla corte degli Este.105Inquietudini125Tempo d'amore.145PARTE TERZA..169Congiure ed intrighi ducali169Guerra su Ferrara.201Tempo di pace.221Quaderno di Lucrezia Borgia.236Tavole di alberi genealogici238Iconografia di Lucrezia Borgia.239Trecento anni di seta.241

PARTE PRIMAAssalto al VaticanoDi notte, fra il 25 e il 26 luglio 1492, moriva a Roma Papa Innocenzo

VIII Cibo, genovese. Su quel vecchio benigno che sembrava aver portato la sua canizie di patriarca come segno manifesto di chiarezza d'animo, si erano abbattuti per anni, più o meno palesemente, biasimo ironia e disprezzo degli uomini di governo, tutti d'accordo a giudicare peggiore di un vizio la sua abbandonata debolezza. Debole, Innocenzo VIII era stato davvero, e, meglio, cedevole in tutto all'influsso di ciascuno che sapesse imporglisi con il magnetismo della vicinanza e della risolutezza: primo fra gli altri il savonese Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, che aveva governato il Papa come si può governare uno spirito che sfugge perfino a chi lo suggestiona. Pure, legato così al giuoco delle incertezze, il pontificato di Papa Cibo aveva segnato giorni conclusivi per la storia della Cristianità. E il più glorioso era stato quel 2 gennaio 1492 che aveva visto levarsi sull'Alambra, a Granata, sotto il nitido sole dell'inverno mediterraneo, il gonfalone col

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crocifisso d'argento di Sisto IV, ad annunciare che la potenza degli Arabi, otto volte secolare in Ispagna, era finita, distrutta dalle cattoliche truppe di Ferdinando d'Aragona e di Isabella di Castiglia. A questa gloria il Papa aveva sognato di aggiungere l'altra della Crociata contro gli infedeli, senza aver avuto l'energia, e ci sarebbe voluta sovrumana, di arrivare non che ad un fine, ad un principio dell'impresa. Ma la Turchia, quella Turchia minacciosa che sconfinava in armi dalle porte d'oriente, era stata tenuta a rispetto anche senza crociata, per mezzo dell'ostaggio rinchiuso in Vaticano, il principe turco Djem fratello del sultano Bajazet.

Pace, seppure imperfetta, aveva fruttato l'idea di farsi cedere il prigioniero dal generale dei cavalieri di Rodi, Pietro d'Aubusson, minacciando Bajazet, se appena si fosse mosso contro gli stati cristiani, di mandargli contro a capo di un esercito il fratello e rivale. Così, con la presa di Granata e l'ostaggio turco si arginava quel pericolo orientale che era parso ai più avveduti incalzare da vicino, Sopravvenivano però nuovi eventi: e facevano paura, specie taluni che davano segno di un prossimo sovvertimento delle cose in Italia. Troppe inimicizie che una pace artificiosa, più che sanare, corrompeva: e troppe inquietudini. Tra le une e le altre pareva dovesse vacillare anche la Chiesa; e voleva pur dire qualche cosa che, durante il pontificato di Innocenzo VIII, si fosse parlato di un trasferimento della corte papale da Roma in Francia: stava preparandosi un altro esilio di Avignone? I disordini nelle Marche nell'Umbria nelle faziose Romagne, gli intrighi fiorentini di quei Medici che non riuscivano più a mantenersi nell'equilibrio retto fino alla sua morte, nell'aprile del 1492, dal Magnifico Lorenzo, le infidatezze di Venezia, le ambizioni di Milano, e soprattutto le prepotenze e le tortuose crudeltà di Ferrante d'Aragona re di Napoli, erano i problemi che avevano messo tanto amaro nelle scorrevoli giornate di Innocenzo VIII, e che gli angustiarono gli ultimi giorni: finché, svanita ogni forza intellettiva, e ristretta la sua conoscenza alla vita sensitiva, gli si formarono nella mente soltanto i nomi consueti dei figli e dei nipoti. La famiglia era il peccato grosso di Innocenzo VIII. Frate Egidio da Viterbo gli doveva poi rimproverare nel severo latino delle sue Historiae di avere, non inventato, ma ostentato il nepotismo arrivando a celebrare nel palazzo apostolico le nozze dei suoi figli, e sedendo a convito con donne contro la prescrizione delle leggi canoniche. Questi figli non erano certo i sedici che aveva contati l'umanista Matullo per dare agio ad un suo gioco d'epigrammi, ma, come tutti i parenti di coloro che per un caso fuggitivo sono al potere, erano avidissimi e predaci; il Papa aveva protetto i due più celebri, Teodorina e Franceschetto; beni e favori erano caduti in pioggia su di loro; e tutta Roma aveva seguito, assistendo alle cavalcate pubbliche o ascoltando i racconti dei privati, le fastose cerimonie in Vaticano, fatte per solennizzare le Politicissime nozze di Franceschetto con la figlia di Lorenzo dei Medici, Maddalena, nel 1488. Nel 1489, altre nozze, quelle di Battistina, figlia di Teodorina, con Luigi di Napoli,

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nozze che avrebbero dovuto essere pegno di pace fra il Pontefice e il re di Napoli, erano state anch'esse celebrate in Vaticano, e i figli assistevano Innocenzo VIII, fin sul suo letto di morte.

Eppure, al Papa pareva d'essere incolpevole o per lo meno assolto dai suoi errori per quel morire che ora gli toccava: forse aveva ragione. Franceschetto stava al suo capezzale o nella stanza vicina (doveva più tardi scrivere che il padre gli era spirato fra le braccia), quando Innocenzo fece la pubblica confessione, presentò tutti i cardinali, raccomandando loro di scegliersi un buon successore e di perdonarlo se non aveva portato a conclusioni più elette l'ufficio che gli era stato affidato. Mangiava. La confessione avvenuta, il pontefice poteva pensare d'essere lasciato in pace: ma il 21 luglio, le rivalità più che acerbe, belluine, che s'erano maturate in quegli anni tra i battaglieri cardinali, arrivarono a farsi sentire fino dal morente, Fra il vicecancelliere della Chiesa, lo spagnolo Rodrigo Boreria che aiutandosi con la suggestione di maniere e suasive chiedeva che il Papa consegnasse Castel Sant'Angelo al Collegio cardinalizio, e Giuliano della Rovere entrato a tempo, quasi fosse di scena, a ricordare secco e precise come il Borgia fosse la potenza massima del Collegio e come consegnargli il castello volesse dire consegnargli Roma e il papato, corsero frasi di contrasto arroventato: parolacce, anzi. "Si dissero di marrani e di mori bianchi" riferiva Antonello da Salerno al marchese Gonzaga. Ma vinse il della Rovere e Castel Sant'Angelo rimase al castellano che avrebbe consegnato la fortezza solo al nuovo pontefice. Quattro) giorni dopo, il 26 luglio 1492, era aperta la successione al papato. Si sa quanto la situazione d'Italia fosse allora difficoltosa. Piccoli stati e signorie si dividevano la terra, tenendosi fra loro in una specie di pace forzosa, rotta e inquinata da guerriglia d'armi e guerriglia diplomatica. L'equilibrio di questo stato di cose, jubitoso ma necessario, era stato tenuto fino allora, navigando d'abilità tra gli scogli delle contese, da Principi e ministri laici ed ecclesiastici ai quali la divisione delle forze e dei partiti nella penisola pareva, a ragione, avesse da condurre a mali passi. Verso gli ultimi anni del Quattrocento, la minaccia delle invasioni straniere sembrava premere non solo dall'oriente ma anche, e peggio, dal nord dell'Europa, dalla Francia. Pacificata ed unita all'interno da Luigi XI in un regno fortissimo, la Francia non faceva mistero delle sue pretese sul regno di Napoli che considerava usurpato dagli aragonesi a casa d'Angiò, come, meno palesemente per il momento, considerava francese di diritto il ducato di Milano, per eredità di Valentina Visconti, sposata ad un Orléans. Il nuovo re Carlo VIII, successore di Luigi XI, cercò dunque di influire sul conclave per aver favorevole ai suoi desideri di conquista napoletana il Papa Borgia e si appoggiò al più forte nemico di Napoli, lo, zio, tutore e faccendiere del giovane duca di Milano, Ludovico Sforza detto il Moro. Ricco, e forte di una presunzione che non un dubbio mai temperava, lo Sforza non temeva allora nulla e nessuno: la sua mano si faceva sentire in tutti gli affari

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di stato della penisola: da ogni parte erano suoi, relatori, amici, gente di negozi, spie: e in Vaticano s'accampava ai suoi ordini il fratello Ascanio Maria, cardinale di gagliarde ambizioni politiche, più intelligente che sottile, liberale, rischioso, un vero milanese. Con il cardinale Sforza s'erano appunto uniti in un partito stretto ai danni di Napoli tutti i nemici di re Ferrante d'Aragona, il quale si difendeva, alleato con Giuliano della Rovere e con i suoi seguaci. La fatale discordia fra Napoli e Milano, che doveva aprire la via alle invasioni straniere, e che nessuna alleanza matrimoniale, nessuna opera pacificatrice aveva potuto comporre, stava per risolversi in una lotta nella quale i contendenti avrebbero rovinato libertà e indipendenza degli stati italiani.

I due partiti, Milano e Napoli, radunarono dunque il grosso dei cardinali intorno ai loro capi, Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere. Ascanio e gli scrutini del conclave lo hanno dimostrato non aveva pretesa di essere eletto, giovane di appena trentasette anni e certo che nessuno avrebbe tollerato le armi del papato in mano ad una potenza già troppo cresciuta come quella di Ludovico il Moro. Giuliano della Rovere era meno giovane, ma la sua ora politica doveva ancora venire, ed egli lo sapeva: senza contare che fra i cardinali era forse colui che per il suo carattere aspro e tutto Punte riscuoteva il maggior numero di odi e di inimicizie. Tutti e due si fecero grandi elettori: Giuliano, del cardinale Giorgio Costa portoghese, vecchio ottantenne, gagliardo, maestoso e visto volentieri da molti perché la sua grave età faceva prevedere prossima l'alba di un altro conclave (invece il Costa visse ancora più di quindici anni); Ascanio, di un napoletano ostile a re Ferrante, il cardinale Oliviero Carafa, o, se questi gli fosse mancato, di Rodrigo Borgia vicecancelliere della Chiesa.

Rodrigo Borgia era dunque un nome dato per poco nella borsa delle previsioni, la sua candidatura essendo citata dagli informatori contemporanei di scorcio, come se non avesse probabilità di riuscita. Non sappiamo che cosa egli pensasse di questi pareri nella sua fine testa valenzana, e se li favorisse per aver mano libera nelle sue manovre. certo, desideri e ambizioni lo avevano volto, e non solo da allora, al trono pontificio, se già nel 1484, al tempo del conclave di Innocenzo VIII, s'era provato con intrighi e promesse ad ottenere la tiara: non c'era arrivato. Ora, dopo otto anni, più ricco ancora, meglio secondato dalle circostanze, e rappresentando in mezzo ai partiti estremi un partito non certamente napoletano, ma nemmeno del tutto milanese, tornava animoso e silenzioso a tentare la scalata. Ad Ascanio l'interesse di avere un Papa che gli fosse dedito faceva pensare che nel peggiore dei casi, e visti gli opulenti benefici che gliene sarebbero venuti, anche la creazione del Borgia sarebbe stata utile ai suoi piani; e il suo errore, in questo calcolo, non era di ragionamento, ma di psicologia. Previsto tutto, una sola cosa gli era sfuggita: e cioè che non ce l'avrebbe mai fatta a

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reggere al suo volere un uomo dal giuoco volpino come Rodrigo Borgia. Il 6 agosto 1492 s'iniziò il conclave dopo un coraggioso discorso di Bernardino Carvajal sui mali che flagellavano la Chiesa. Si viene al primo scrutinio. Rodrigo Borgia conta sette voti, nove il Carafa, cinque Giuliano della Rovere, sette il Costa, sette il Michiel cardinale di Venezia: queste le votazioni più importanti. é notevole che Ascanio Sforza non avesse nemmeno un voto, segno che aveva dato anche ai suoi più fidi un indirizzo preciso. Votazione nulla; il popolo che era in attesa sulla piazza di San Pietro torna a casa. Secondo scrutinio: Rodrigo raggiunge gli otto voti, il Carafa resta a nove, cinque ne ha Giuliano della Rovere, sette il Michiel. Sono le nove del mattino, nella calma estiva tutto sembra stagnare. I conclavisti addetti alle particolari persone dei cardinali votanti si tengono segreti, tuttavia qualche notizia si diffonde, e trasformandosi dilaga; ad ogni ora partono cavallari e cavalieri a portare le notizie per tutta Italia. Carafa? Michiel? Costa? Intanto, sotto l'ordine apparente, gran fermento è nel conclave: la lotta fra i due partiti è tanto decisa quanto inutile: l'uno non riesce a sgretolare la compagine dell'altro, Ascanio non cede, Giuliano sta saldo. é questo il momento di Rodrigo Borgia: poche ore, e il mondo sarà suo. Che avvenne quel 10 agosto che fu veramente la gran giornata del vicecancelliere? Come seppe egli insinuare nell'animo di tutti i cardinali la necessità di accordarsi sul suo nome? La sera stessa il Borgia può contare su diciassette voti, raggiunge e passa, cioè, i due terzi necessari per la maggioranza: la notizia arriva all'orecchio di Giuliano della Rovere: egli la pesa, vede che non c'è più niente da fare. "Allora," racconta l'oratore ferrarese "vedendo non poterla né vincere né impattare", si acconciò "presto e con grado" alla causa nemica. Capitolò: ed ebbe per sé un'abbazia, rendite varie, l'importantissima legazione di Avignone, la fortezza di Ronciglione: questa, sulla strada del nord, avrebbe fatto riscontro al roveresco castello di Ostia che guardava il mare. Sorvegliate così le vie d'accesso a Roma, il cardinale di San Pietro in Vincoli poteva presumere di sorvegliare da vicino i movimenti del nuovo pontefice. Giorno e notte durò il lavoro mosso dalla coperta strategia di Rodrigo, Borgia. All'alba dell'11 agosto, i romani, che in numero assai scarso per l'ora mattutina erano nella piazza di San Pietro, videro cadere i mattoni dalla finestra murata, e sentirono una voce che annunciava, sommo gaudio, l'elezione del vicecancelliere Rodrigo Borgia al trono pontificio. Si sarebbe chiamato Alessandro VI: al quarto scrutinio aveva avuto l'unanimità dei voti. Fino a qual limite questi voti fossero legittimi, e cioè quanto si sia peccato di simonia nel conclave del 1492, sarebbe troppo lungo dibattito, e fuori da questa storia. é certo che Rodrigo Borgia aveva trovato il suo miglior aiuto nell'intransigenza politica dei due maggiori contendenti del conclave: ma è anche certo che egli conquistò con doni doviziosi la maggior parte dei cardinali, e che ognuno ebbe la sua parte in quel gran festino. Il giro del denaro fu così agitato, che il banco degli Spannocchi depositario dei Borgia era per fallire: e, se i muli carichi d'argento condotti dalla casa di Rodrigo a

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quella di Ascanio Sforza, e descritti dall'Infessura, sono da mettersi fra le amplificazioni leggendarie, piena questa di colore coreografico e simbolico, bisogna però convenire che traffico simoniaco ci fu, e che come fatto morale concordava in tutto con i precedenti della vita di Rodrigo Borgia. "Il nostro animoso pontefice" scrive poco dopo l'elezione, il 31 agosto, Giannandrea Boccaccio corrispondente del duca di Ferrara "già si dimostra quello che è ed è sempre stato," Volpi curiali, questi corrispondenti, avvezzi a guardar dentro le cose con la crudezza della pratica e della conoscenza, sapevano che pensare dello spagnolo, rifacendosi ai suoi precedenti di vita e di famiglia.

La famiglia Borgia era originaria di Játiva presso Valencia in Ispagna, piccola città che stacca contro un cielo da maiolica persiana le sue case basse e bianche, abitata da gente di sangue misto spagnolo e arabo, pesante, ricco, possente nella voluttà. I Borgia venivano d'antica stirpe del luogo, e avevano dato nei secoli uomini di guerra e di governo: erano grossi personaggi provinciali assai stimati nelle corti di Castiglia e d'Aragona, attivi e vivaci, legati fra di loro in una tribù familiare, come in una comunità israelitica. Si sposavano spesso tra parenti, quando non s'imparentavano nobilmente, per dare splendore al proprio nome come avevano fatto aprendo la loro casa a Sibilla Doms di sangue d'Aragona. Ma la fortuna più vasta dei Borgia cominciò solo con Alonso Borgia, Papa Callisto III. La sua storia è avventurata: arrivò ultimo in una casa dove erano già quattro sorelle, si diede alla carriera ecclesiastica per vocazione, e scelse lo studio della giurisprudenza, appassionandosi alle sottili formule del diritto canonico ed ecclesiastico, le più serrate forme del pensiero legislativo. La profezia del domenicano Vincenzo Ferreri che, avendolo sentito predicare, gli annunciò grandi fortune, cadde certo su di lui come il buon annuncio che tutti i giovani aspettano con la fiducia, ma anche con i segreti timori e le sperdute timidezze dei vent'anni. Su questo precedente, Alonso Borgia progrediva: assunto come segretario di re Alfonso d'Aragona, fu mandato ambasciatore a Papa Martino V, al quale il sottile prete valenzano rese molti servizi, principalissimo quello d'indurre l'antipapa Clemente VIII a rinunciare alla dignità usurpata. Si ebbe come riconoscimento il vescovato di Valencia, che doveva poi diventare quasi un feudo ereditario borgiano. Meriti e costumi gli valsero la dignità cardinalizia; e finalmente l'otto aprile 1455, vecchio di settantasette anni, gottoso, ma non stanco di brigare fra lotte e cupidigie, arrivò al trono pontificio quasi inaspettatamente per tutti e anche per lui. Onesto, buon sacerdote, convinto dei suoi gesti e delle sue intenzioni, Callisto III non andava però molto in là con la mente nei problemi d'alta politica né, soprattutto, in quelli della vita della cultura e dell'arte. L'ostinata sordità del suo temperamento, il poco suo gusto delle letterature classiche in quel Quattrocento appassionatamente latinista e grecista, lo dettero per barbaro agli umanisti italiani che lo accusarono, con qualche ragione, di aver fatto togliere oro e argento dai codici miniati del Vaticano per servirsene

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come metallo da moneta nella crociata contro gli infedeli. Ma se una scusa alla sua maniera troppo risolutiva gli poteva essere valida, questa era l'urgenza, sensibilissima in quel tempo, della guerra contro la soverchiante Turchia. La scimitarra del turco e l'amore per la famiglia furono i pensieri dominanti della sua vita: perché, come Innocenzo VIII, anche Callisto III nel nepotismo cadeva in tentazione e in debolezza, tutta l'indulgenza e tutta la comprensione che di solito gli mancavano, sorgendo in lui come una fioritura spontanea non appena appariva uno del suo nome a commuovergli il sangue. Non aveva figli, perché è dubbio che fosse nato da lui quel Francesco Borgia che fu più tardi arcivescovo di Cosenza; ma sorelle, nipoti, cugini, parenti di ogni grado, sì, che invasero Roma come terra da saccheggio, fra l'odio del popolo. Grandi favoriti furono i nipoti, Pedro Luis e Rodrigo, figli di una sorella di Callisto, Isabella, sposa ad un jofré Borgia, e quindi due volte Borgia per via materna e Paterna. Rodrigo, avviato alla carriera ecclesiastica, vi si trovava benissimo; cardinale a venticinque anni, con la protezione dello zio era salito al posto e al titolo di vicecancelliere della Chiesa, "un altro papato", come diceva golosamente un contemporaneo: prelato sontuoso, eloquente, amabilissimo, era il solo della famiglia che riuscisse a vivere con un antagonio senza essere odiato; suo fratello Pedro Luis, invece, che riuniva una quantità stragrande di incarichi e di uffici era fra l'altro capitano generale della Chiesa e prefetto di Roma , si faceva detestare da tutti, e subito e infallibilmente non appena apparisse. Il furore e l'odio contro di lui avevano ragione di crescere, e crescevano al coperto. E un giorno il Papa si ammala: la sua agonia è lunga, magnificamente lugubre, alla spagnola: attorniato dai parenti, dagli elemosinieri e dai suoi più fidi conterranei, fra candele accese giorno e notte, fra lunghe salmodie egli giace ormai fuori dalla vita mentre per la città si levano i primi tumulti. Pedro Gis non è sicuro, capisce di essere vicino a dover rendere conti, pensa a rimedi eroici, disegna piani di resistenza. Ma gli è accanto Rodrigo, con la sua mano prudente, per la prima volta avvertibile e riconoscibile. E l'ultimo giorno di vita di Callisto, il prefetto di Roma, il capitano generale della Chiesa fugge, assistito e protetto dal cardinale Rodrigo e dal cardinale veneziano Barbo che lo accompagnano fin sulla via di Ostia e lo lasciano lì a lottare contro la sfortuna e il pericolo: inseguito dagli Orsini, abbandonato dai suoi stessi soldati, forzando la propria energia e il destino, arriva a chiudersi nella rocca di Civitavecchia fra gente fida, aspettando il momento di tornare a Roma. Là un'oscura morte doveva prenderlo il 26 settembre 1458. Rodrigo intanto, tranquillo ed animoso in mezzo al tumulto popolare, si recava in San Pietro a pregare per il Papa morente: lo proteggeva la porpora ma ancor più e meglio il suo prestigio. Lasciò che si saccheggiasse il suo palazzo, convinto che in questa rapina si sarebbero sfogati gli spiriti più turbolenti, e non soffri d'altro, mentre venivano uccisi e perseguitati perfino gli amici italiani dei Borgia, perfino i loro soldati mercenari. Quando l'ultima fiamma vitale vacillò sul viso di

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Callisto, e tutti ebbero paura, tutti lo abbindolarono, parenti familiari amici, le sorelle stesse, Rodrigo rimase, ed assisté, solo, al trapasso del vecchio pontefice. Troppe ragioni aveva il Papa che venne dopo, Pio II, Enea Silvio Piccolomini, l'uomo artista e ragionativo, l'elegante umanista di Corsignano, per dover favorire casa Borgia: ragioni di gratitudine il Piccolomini non era di quelli che dimenticano verso Callisto, e verso Rodrigo stesso dal quale aveva avuto il voto decisivo per la sua assunzione al papato. Eppure proprio di questi tempi, e di mano del pontefice toscano, è uno fra i documenti che parlano più chiaro sulla vita di Rodrigo, la lettera di ammonizione che, nel giugno 1460, Pio II gli mandava a Siena da Bagni di Petriolo. "Abbiamo udito" scrive Pio II in un latino mosso con fluida e distesa eleganza "che tre giorni or sono parecchie donne senesi si sono radunate nei giardini di Giovanni Bichi, e che tu, poco curando la tua dignità, sei stato con esse dall'una alle sei del pomeriggio, avendo per compagno un cardinale, il quale se non per il decoro dell'apostolica sede almeno per l'età avrebbe dovuto tenere a mente i suoi doveri. Ci hanno riferito che si ballò in modo poco onesto: nessun allettamento amoroso è mancato, e tu ti sei condotto come un giovane secolare. La decenza ci vieta di precisare ciò che accadde, cose delle quali il solo nome è sconveniente alla tua dignità: ai mariti padri fratelli e altri congiunti che avevano accompagnate le giovani donne fu vietato di entrare perché voi poteste essere più liberi nei divertimenti che voi soli con pochi familiari presenziaste ordinando e dividendo le danze. Si dice che a Siena non si parli di altro e che tutti ridano della tua leggerezza... Se il corteggiare donne, mandar loro frutta, a quella che prediligi vini delicati, tutto il giorno essere spettatore di ogni genere di divertimenti, e infine allontanare i mariti perché ti sia possibile prenderti ogni libertà, se tutte queste cose siano tali che si addicano alla tua dignità lasciamo giudicare a te stesso. Per cagion tua siamo biasimati, e biasimata è la memoria di tuo zio Callisto per averti affidato tanti incarichi ed onori... Rammentati la tua dignità, e non voler fra i giovani e le fanciulle riscuoter fama di uomo galante..." Tentar di interpretare queste parole come l'eco di un grosso pettegolezzo è un'impresa assurda che pure è stata tentata. E del resto il fatto era di dominio pubblico se l'addolorato pontefice aggiungeva: "Qui a Bagni dove sono molti ecclesiastici e molti secolari tu sei diventato la favola di tutti". A conferma l'oratore mantovano Bartolomeo Bonatto mandava una lettera da Siena ai marchesi di Mantova in quello stesso luglio 1460. Narra la storia della scandalosa festa, che era, egli ci informa, un battesimo, e fa il nome di quell'attempato compagno dei piaceri borgiani così severamente censurato da Pio II. Era questi monsignor di Roban, e cioè il sessantenne, ricchissimo e mondanissimo cardinale d'Estouteville che era stato rivale di Pio II nel conclave del 1458. Allora, per complottare a favore del francese, alcuni cardinali si erano riuniti nelle latrine: luogo, chiosava poi lo stesso Pio II, che sarebbe stato adattissimo ad un pontefice di tal genere. Buon cronista, svelto e attento, il Bonatto dice:

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"Altro non mi accade di scrivere a V. S. se non che essendosi oggi fatto qui un battesimo... ad un gentiluomo di questa terra, al quale sono intervenuti compari Mons. di Roban, e il Vicecancelliere [R. Borgia. : invitati ad un orto del compare [ivi si condussero, e lì fu portata la figlioccia ed eravi tutto quello che di buono ha questa terra, ed è stata una bella festa ma non v'è entrato nessuno che non porti chierica... Un senese piacevole che non poteva entrare, fatta ogni esperienza a cerchio, disse questa parola: "Per Dio, se quelli che nasceranno fino ad un anno venissero al mondo coi panni dei padri, sarebbero tutti preti e cardinali"." Siena spiegava allora, sotto un cielo di prima estate, l'arazzo festevole tessuto già nei versi di Folgore di San Gimignano che vedeva per le strade andare "in su ghirlande ed in giù melarance" gettate, queste, per gaia sapida e fanciullesca dalle giovani donne affacciate ai balconi o incorniciate dall'arco gotico delle finestrette. In questo paesaggio che è tutto a scala di toni lirici, o che si passi dai giardini seminati di gigli sotto le ombre vellutate dei cipressi, alle vie alle piazze, o che si giunga alle chiese dove ancora vive lo spirito umanamente allocato ed angelico di Santa Caterina, Rodrigo Borgia doveva provare con le cose sensibili quella corrispondenza di simpatia vitale che, anche se non discende in profondità, muove ad una calda maturazione i sensi e l'anima. I suoi felici trent'anni attiravano le donne, al dire dell'umanista Gaspare da Verona, "come il ferro la calamita"' e lo portavano a farsi un codice delle regole di galanteria che significavano meglio la carnalità dei suoi appetiti: che cos'era, infatti, l'invio di frutta rara e di altro alle donne che gli piacevano, se non il Inedo viti delic istintivo agli uomini sensuali di partecipare anche fisicamente. La lettera di te alla vita della creatura che li innamora.

Pio II aveva colto giusto, e si può pensare come arrivasse ingrata fra tanta effusione di godimenti; ma Rodrigo rispose subito con argomenti tanto accorti, che, se non riuscì ad ingannare il pontefice, lo dispose però a minor severità. Il Papa, del resto, non voleva altro che assolvere il suo cardinale vicecancelliere da tutte le censure; e sembra di vederla, nella sua replica seria e ferma, questa volontà di perdono che non esclude tuttavia il rammarico per ciò che era accaduto durante il soggiorno senese di Rodrigo: "Ciò che hai fatto" egli dichiara "non può essere senza colpa, benché posSa essere assai meno biasimevole di quanto mi fu riferito". Abbia dunque per l'avvenire maggior prudenza: in quanto a lui lo perdonava, e lo assicurava che finché avesse agito bene gli sarebbe stato padre e protettore. é evidente che questa lettera non contraddice affatto l'altra del giugno; anzi, vi si ripete chiaramente che le azioni di Rodrigo non si possono giustificare come lo spagnolo avrebbe voluto; e vi si palesa un senso di malinconia per quello che avverrà in seguito e che il Papa intuisce sapendo di non poter impedire: Rodrigo, per mostrarsi pentito, partì da Siena ed andò a confinarsi nelle solitudini di Corsignano. Là faceva mostra di castigarsi: e meno per

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mortificare le sue esuberanze che per dar loro la via, guidava tra i boschi le colline e i monti dell'Appennino toscano strenue battute di caccia, per le quali i marchesi di Mantova suoi amici gli mandavano bracchi e sparvieri addestrati. Nel ringraziarli appunto, il cardinale confessava che senza la loro liberalità gli sarebbe toccato "vivere in ozio e senza alcun piacere" e "sopportare l'affanno del nostro cammino per questi aspri e silvestri valli". Dove si vede quale fosse per lui il linguaggio del penitente. Rodrigo Borgia sale dunque al trono pontificio con la maestà e la sicurezza degli eletti dalla fortuna, toccando appena (quei sessant'anni che negli uomini ben condizionati sono di conquista della maturità umana. Più che un cervello possente gli si deve riconoscere l'intelligenza degli affari di stato, la padronanza delle cose ecclesiastiche e giuridiche, e l'intuito politico rapido e giusto Non ha appreso la grande oratoria da Cicerone come era in uso fra i porporati del tempo, ma il suo latino è mirabile d'estro di vigore e di eleganza, e il suo linguaggio, sia latino che italiano o spagnolo, è sempre tocco da un dono nativo di grazia; bello per varietà d'accenti, per improvvise aperture melodiche e patetiche, persuasivo per la suggestione del tono che, imponendo una verità personale, riesce a smemorare dalla verità assoluta. Nell'apparire e nell'incedere egli cerca e spiega effetti da teatro, istrioneggia quasi: e sempre genialmente, con dignità ed imponenza che porpora e gemme rilevano stando su di lui come sul loro luogo naturale. Rodrigo Borgia non ha nulla di un Antinoo: la sua bellezza, composta su tutt'altri motivi che non la giustezza e la proporzione dei lineamenti, si manifesta soprattutto in un'espressione di virilità, luminosa e insolente ad un tempo, che splende in ogni suo moto, erompe dalle labbra piene, e si assomma, concludendosi, nell'ampia curva del naso che dà come il grado della sua forza e della sua sensibilità. A sessant'anni ama ancora le donne in un modo potente e schietto; e i suoi figli li segue con passione, si cerca e si ritrova in loro quanto più sono belli e vitali, li vede fiorire nel compiacimento di tutto il suo essere che farà dire ai contemporanei: "Mai si vide il più carnale homo".

Nel 1492, il figlio primogenito di Rodrigo, per il quale il padre aveva fatto creare in Ispagna il ducato di Gandia, e che si era chiamato Pedro Luis come lo zio, è morto; e morta è anche Jeronima entrata sposa nella nobile casa romana dei Cesarini. Isabella, un'altra figlia, vive tranquilla sposata al nobile romano Pietro Matuzzi. Questi tre figli erano _nati da donne sconosciute alla storia; ma i beniamini, coloro che esaltano i pensieri di Alessandro, sono i quattro giovinetti, Cesare, Juan, Lucrezia e Jofré. Vannozza Cattanei è la loro madre: la donna più a lungo amata e sempre protetta da Rodrigo Borgia vive nell'ombra, e sembra non avere nessuna influenza diretta sul suo gran protettore: ha amato, è stata amata, i suoi figli crescono come agili pioppi in riva al fiume dell'amor paterno. Cesare è sui diciotto anni, veste abito ecclesiastico, e forse nella mente del padre deve diventare il terzo Papa Borgia; Juan, che ha sedici anni ed ha ereditato il

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ducato di Gandia dal fratello Pedro Luis, è destinato alle armi; La dodicenne Lucrezia vive confidata all'educazione di una cugina del Papa, Adriana Mila Orsini; al piccolo Jofré non si sa ancora che porterà l'avvenire; intanto, i suoi undici anni sostengono titolo e rendite di canonico ed arcidiacono di Valencia.

Vannozza, che la lunga passione del cardinale Borgia ha allietato di molte gioie e di una buona agiatezza, conforto agli anni non più giovanili, li vede spesso, ma non vive con loro: la sua vita è regolata da obblighi sociali di convenienza e di dignità. ha sempre abitato in casa di sua proprietà ed è stata, salvo che in brevi periodi, regolarmente maritata, prima, forse solo legalmente, con un Domenico d'Arignano, "ufficiale della Chiesa", poi con un milanese, Giorgio della Croce, sposato da lei intorno al 1480. Con questo marito., al quale ella aveva dato anche un figlio, Ottaviano, era vissuta in una casa in piazza Pizzo di Merlo, una buona casa, vicina a quella del cardinale Borgia, con la facciata sulla piazza e quindi con quella luce e quel sole che troppo spesso maniavano nelle strette vie della Roma medievale, provvista di numerose stanze, di cisterna, e perfino di un orto che Vannozza doveva amare come amava le sue fresche vigne suburbane. Qui Vannozza aveva abitato alcuni anni; ma, morto il marito, e poco dopo il figlio Ottaviano, si era rimaritata ed era andata ad abitare in piazza Branca nel rione Arenula, iniziando una nuova vita di sposa presso l'ultimo eletto, il mantovano Carlo Canale venuto di corte cardinalizia, celebre di una piccola celebrità regionale tra un gruppetto di amici letterati, tra i quali il Poliziano nientemeno gli aveva dedicato il suo silvestre Orfeo. Dono di nozze che aveva accompagnato il terzo matrimonio di Vannozza era stato, oltre una dote di mille ducati d'oro, una carica per lo sposo alla corte pontificia; né si creda che egli fosse scontento ed umiliato e accettasse la sua posizione considerandola il salvataggio da un fallimento: anzi, se ne faceva forte, tanto da prendere, con gli stessi marchesi di Mantova, un tono senza dubbio ossequioso, ma che non escludeva un certo sentimento d'autorità.

Quasi certamente Vannozza era di famiglia lombarda, mantovana, o meglio, bresciana. Sua madre era certa Menica che, in un documento del 1483, dice di essere in tarda età e vedova di Jacopo Pittore; e suoi parenti stretti, probabilmente cugini, erano i figli di maestro Antonio da Brescia. In costui dovremo riconoscere con quasi assoluta certezza quel maestro Antonio da Brescia "marmoraro" che lavorava in palazzo Venezia fregiando alla lombarda i marmi che andavano a ornare porte finestre camini e cisterne per il palazzo e per il giardino di Paolo II. Una famiglia di artisti, seppure modesti, ma di una certa dignità se un figlio di Antonio, Giovan Battista, diventò poi canonico di Santa Maria in via Lata. Maestro Antonio da Brescia era morto prima del 1483; doveva essere stato lui il personaggio maggiore della famiglia difatti era esponente di un gruppo di artigiani e la sua memoria era molto stimata; di Jacopo l'oscuro pittore padre di Vannozza i

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registri non ci indicano le opere. Tutti e due appartenevano a quel nutrito nucleo di lombardi, scultori, ingegneri, capomastri, marmorari e decoratori, che erano scesi dal nord a lavorare, a gara con le maestranze toscane, nei palazzi e nelle chiese della nuova città papale. Può darsi che Vannozza sia nata a Roma; certo alla sua origine ella doveva il modo di accettare le cose proprio delle donne lombarde, realistico, ma arioso e senza debolezze, e quel ricco e sincero sangue che le dovette dare oltre la bellezza un prestigio fisico, rispondenza femminile alle esuberanze del Borgia. Da lui era stata amata a lungo; e amata ancora in un'età per quei tempi avanzata, cioè quando aveva toccato i quarant'anni. Le era nato allora jofré, l'ultimo figlio di Rodrigo, e la sua relazione col cardinale datava certo da più di un decennio: quasi un matrimonio, insomma. E come una moglie morganatica, Vannozza aveva avuto intorno a sé una corte poco chiassosa, ma ricca e ben fornita che la seguiva ovunque, quando ella si recava d'estate, o ai primi annunci delle epidemie che annualmente si diffondevano nella città, in castelli di proprietà del Borgia ben muniti e ben fortificati, a Nepi, o, più volentieri, a Subiaco. Qui Rodrigo, che come tutti gli uomini forti e che credono nel futuro sentiva la necessità e il gusto di costruire, aveva riedificato la grande rocca sulle stesse mura medievali dalle quali gli abati feroci e rissosi di Subiaco avevano vinte o perdute tante battaglie. In questa dimora aereata, ampia e Sicura, Vannozza disponeva la sua vita e la sua corte, attendendo che il cardinale la raggiungesse. A guardare dall'alto della rocca, nei giorni dell'attesa', ella vedeva appena più in basso il leggendario stratificato monastero, con i suoi contrasti e i suoi ricordi di santi di imperatori di monaci pacifici o guerrieri, chiuso e compatto a covare il santuario scavato nella roccia: sacro labirinto istoriato di pitture che, per il loro mosso distendersi sulle pareti inclinate, prendono, nelle immagini, apparenza di fuggitive allucinazioni. E le notti pagane di luna, affacciandosi dalle torri merlate. poteva fantasticare di vedere, in fondo alla stretta valle corsa dallo scintillio ghiaccio dell'Aniene, i nudi affusolati de le veneri demoniache varcare il ponticello con i loro piedini biforcuti e salire al monastero, secondo la leggenda di San Benedetto, ad assaltare la pace e la virtù dei monaci. Rabbrividiva di tentato piacere, Vannozza? O, positivo spirito lombardo, si rideva delle apparizioni?

A Subiaco, pare, nell'aprile del 1480, nacque la bambina bionda che doveva portare nella storia il nome di Lucrezia Borgia. L'indicazione del luogo è nella Storia Subiacense di don Alessandro Tummolini, studioso attendibile, che comPose la sua opera sugli archivi del monastero di Subiaco e si valse anche di una cronaca manoscritta Ricordi sopra i cardinali commendatari citata anche da altri storici, ma o, smarrita. Non c'è ragione di mettere in dubbio il racconto del Tummolini, tanto più che egli, parlando della nascita di Cesare avvenuta anche questa nella rocca, si scusa con i cittadini di Subiaco di rivelare che la loro città ha avuto il disonore di veder venire al mondo

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Cesare Borgia, quel mostro; ma, conclude, la verità storica è questa. Con i suoi capelli chiari e gli occhi di un azzurro grigio già così dolce, la bimba intenerì il cuore del padre, che a vederle quella faccina rosata tutta lieta e aperta al riso, doveva sentirsi, lui bruno e vigoroso, un necessario baluardo a tanta abbandonata fragilità; e ognuno conosce come il cuore di un padre si fonda ad una tale tenerezza. Non si sa se a Roma Lucrezia sia stata educata in un monastero, ma poiché predilesse quello delle domenicane di San Sisto sulla via Appia, è supponibile che fin da bambina vi si ritirasse almeno per le preparazioni spirituali alle grandi feste religiose. E certo dal convento le vennero quel senso della dignità che la salvò dal naufragio nei giorni di peggiore smarrimento, quella sua religione di una sincerità senza sospetto di dubbi, quel suo amore delle preghiere dell'odor d'incenso e dei canti sacri. Il chiostro, sua terra d'approdo nelle tempeste degli anni giovani e degli anni maturi, non vorrà dire per lei il ritorno alla fede, quanto il ritorno alla sua prima fede: e la vita le sembrerà sempre assicurata, là fra il sussurro delle voci bianche e il riposo di ogni facoltà sensibile in un mondo privo di incrinature sensuali. Figlia di un cardinale potentissimo, ella sarà stata tenuta in grande considerazione; e nemmeno per un momento dovette andar riflettendo sulla singolarità della sua posizione nel mondo, se non per compiacersene come di un privilegio. Vedeva andare e venire per il Vaticano Teodorina Cibo con le figlie Battistina e Peretta, le donne della casa papale di Innocenzo VIII, rispettate ed onorate come principesse legittimo; figli di cardinali si incontravano da ogni parte e non differivano dai figli di principi; ed ella era certo superba di appartenere ad una famiglia che contava fra i suoi antenati un Papa, tanto legata a cose e a persone di chiesa, da sentirsi innalzata per virtù della religione ad una gerarchia superiore ad ogni altra.

Lucrezia somigliava al padre nel suo modo gioioso d'aver fede in tutte le promesse del futuro: aveva come il padre la linea sfuggente del mento, ma questo difetto si ingentiliva e si sminuiva in lei fino a darle la grazia di un'adolescenza perpetua: bionda con occhi chiari colori che sembrano testimoniare le origini nordiche della madre esile di Persona, la tenuità della sua apparenza era rinvigorita dal drogato sangue spagnolo che le dava consistenza e calore. E spagnola si sentiva, Lucrezia, educata da quella Adriana Mila Orsini nipote di Rodrigo Borgia, che doveva parlarle della terra di Spagna come di una terra di leggenda: ascoltandola, la piccola Lucrezia ricreava una sua fiaba come tutti i bambini che nelle parole di chi sa parlar loro di una Sua nostalgia seguono non le cose raccontate, ma i propri sOgni; e, forse più volentieri degli studi umanistici nei quali come tutte le donne nobili del tempo fu istruita, ella imParava la lingua spagnola e danzava le danze del suo paese col passo scattante delle ragazze catalane. Giusto epilogo di tutta una preparazione dovettero sembrarle dunque le trattative, cominciate nel 1491, di un matrimonio fra lei e Un giovane nobile di casa valenzana.

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Il primo atto ufficiale della vita di Lucrezia è infatti un fidanzamento: il 26 febbraio 1491 il notaio Camillo Beneimbene stendeva con la sua mano esperta di tutti gli affari borgiani le tavole nuziali fra la bimba Borgia e don Cherubino Juan de Centelles signore di Val d'Ayora nel regno di Valencia. Il contratto scritto in lingua catalana prometteva una dote di 30.000 "timbres, parte in denaro parte in ornamenti e gioie, dono alla sposa del padre e dei fratelli: ella doveva recarsi dentro l'anno a Valencia dove, nel termine di sei mesi, si sarebbe concluso il matrimonio. Pareva dunque che il destino di Lucrezia fosse stabilito e vicino, e che presto ella avrebbe preso la via della Spagna: ma non erano passati due mesi da quel primo contratto matrimoniale che si stendevano nuovi patti tra lei e don Gaspare d'Aversa, conte di Procida, giovane di quindici anni, di famiglia valenzana. Ragioni e speranze ambiziose avevano probabilmente spinto il cardinale Rodrigo ad eleggere questo nuovo fidanzato per sua figlia. é quasi certo che Lucrezia non conosceva né l'uno né l'altro dei suoi pretendenti, ma sapeva, e non c'era ragione che glielo tacessero, di essere fidanzata. Quale nome, Cherubino o Gaspare, ella abbia dato ai suoi sogni adolescenti, anzi infantili, non si sa; forse nessuno, perché ad undici anni, sia pure precoci, si sogna vasto e confuso senza riferimento alle cose reali, inventando il futuro, e sentendo solo il terrore la baldanza e l'inafferrabile acerbità della vita: tutto allora, del nostro corpo e del nostro spirito, c'ingombra e ci atterrisce; e per dimenticare questa sgraziata crescita di noi stessi, ci si guarda intorno a scoprire un modello di vita riuscita nel quale si esaltino, placandosi, ammirazione ed immaginazione. Se Lucrezia cercò anche lei un tale riferimento, Dovette venirle naturale fermarsi su una delle due donne che le vivevano da presso, straordinarie tutte e due, ma dubbiosamente esemplari, Adriana Mila Orsini e Giulia Farnese. Con i loro nomi cominciano i romanzi di Alessandro VI. Da Pedro de Mila venuto in Italia al tempo di Callisto Borgia sull'ondata spagnola che aveva allora invaso il palazzo apostolico, era nata, forse a Roma come il suo nome classico potrebbe far supporre, Adrian, Mila. E a Roma si era stabilita, sposando Ludovico Orsini della gran tribù orsine. Nel 1481 nel Piccolo feudo di Bassanello presso Viterbo 9 ella era vedova con un figlio giovinetto chiamato col nome di famiglia Orsino, e guercio "Monoculus Orsinus", Così lo definisce il cerimoniere del Vaticano , che avrebbe avuto in mente di rimanere nella storia con la fama di marito ingannato. Le sue nozze avvennero il 21 maggio 1489: quel giorno, il notaio dei Borgia, Camillo Beneimbene, alla presenza del cardinale di Santa Maria in Portico Giambattista Zeno ' del vicecancelliere Rodrigo Borgia, di prelati, nobili e parenti delle case Orsini, Farnese e Borgia, univa in matrimonio il giovane Orsino con la "magnifica ed onesta fanciulla" Giulia Farnese.

Giulia veniva da una famiglia di antica nobiltà di provincia che signoreggiava alcune terre intorno al lago di Bolsena, Capodimonte Marta,

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Isola Farnese, terre belle e fertili, non tali però da permettere ai signori di esse una vita da grandi. Nel castello di Capodimonte si viveva tra il fasto del nome e la semplicità di una esistenza quasi patriarcale; ma il sangue Farnese era arrivato a quel grado di maturazione che accorda ed esalta tutti i doni naturali; e basta un'occasione perché cominci l'ascesa della famiglia alla grandezza. Nel 1489, morto Pier Luigi Farnese, vivevano i suoi quattro figli, Angelo il capo di casa, dedito come i signori del tempo all'arte militare, Alessandro protonotario, già su quella via che lo doveva portare al papato (sarebbe stato, allora, Paolo III) Girolama sposata ad un Pucci di Firenze' e Giulia, l'astro della casa, così giovane e splendente che, appena arrivata a Roma, fu nota e chiamata solo col nome di Giulia Bella. Di questa mitica bellezza che doveva restare all'origine della gloria farnesiana, si era innamorato caldissimamente l'allora cardinale Rodrigo Borgia. Egli stesso aprì il suo palazzo alle nozze della fanciulla che avVennero nella "camera delle stelle" forse detta così dalla decorazione delle volte. Quel palazzo era famoso per il fasto dell'arredamento; e, signoreggiando il proprio fasto, nonché i Propri contraddittori sentimenti, drappeggiato nella sua Porpora. il Borgia doveva con l'intensità. dello sguardo peSare su tutti, sposi compresi: I quali, però, giovani com'erano, e per la loro giovinezza in certo modo innocenti, si vendicarono di tante splendide sopraffazioni volendosi un curioso bene. Orsino era certo inferiore per ogni verso alla moglie; ma aveva, come si vedrà meglio più avanti, il fascino della vittima disarmata. Si è a lungo dubitato che la relazione del Borgia con Giulia fosse veramente anteriore al suo pontificato; ma ora dubitare non è più possibile. Sarà proprio, difatti, Rodrigo Borgia ad affermare, scrivendo di suo pugno qualche tempo più tardi, che Adriana lo aveva "servito" di Giulia quando egli era ancora cardinale. La complicità, dunque, datava da lontano; come Adriana vi avesse inclinato, non sappiamo; né, ed è ancora più arduo, come avesse preso questo partito da mezzana, proprio lei, madre dello sfortunato Orsino.

Altro problema: era vero che Adriana amasse Giulia come lasciava vedere? Tra suocera e nuora, l'accordo, lo stupefacente accordo, si manifestava apertamente con una semplicità che, se non era candore, era almeno naturalezza. Per quale oscuramento, per quale sordità di coscienza questo poteva avvenire? Ci potrebbero essere spiegazioni umane alle quali giungere seguendo i sotterranei dell'analisi: e si potrebbe anche arrivare a scoprire in questi rapporti una misura, una intelligenza delle cose, una pietà, perfino, che andava dall'una all'altra e rendeva soccorritrice la loro intesa: se non era invece, come probabile, specie in Adriana, cinismo di chi ha fatto i conti e si attiene ai risultati. Il fatto è che le due donne vivevano insieme di buon animo: e insieme le trovano sempre i visitatori, o che si tratti di raccomandate al Papa amici e parenti o di ricevere ambasciatori od inviati per affari di corte. Giulia si fa amare; e Adriana dirige lei l'intrigo, con la sua intelligenza vivace e tenebrosa, con il suo estro sicuro degli affari. Donna

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spedita, ha preso la risoluzione di sacrificare il meglio a patto che il Papa paghi in beni materiali il sacrificio, e in questo senso non cesserà mai di raccomandare Orsino in Vaticano. Avrà finito col pensare che il capriccio di Rodrigo sarebbe passato e i beni sarebbero rimasti. Nel novembre del 1493> Giulia Farnese è la favorita quasi ufficiale del Borgia: a lei, come ad Adriana e come alla bambina Lucrezia si rivolgono oratori e principi per ottenere favori e privilegi dal Papa. E tutte e tre si fanno compagnia nel palazzo ceduto loro dal cardinale di Santa Maria in Portico, Giambattista Zeno, che l'aveva fatto costruire nel 1494, contiguo al Vaticano a sinistra dell'entrata del Palazzo Papale: da una casa all'altra il passo era agevole; e si poteva anche comunicare per via di chiesa, passando dalla cappella privata del palazzo direttamente in San Pietro, per una porta che metteva nella Cappella Sistina. in questa bella dimora che aveva una loggia d'onore al primo piano, e che si deve immaginare scompartita come i palazzi dell'ultimo Quattrocento romano, con le finestre ad arco tondo o a crociera e le file di stanze fresche e regolari, viveva fra tutto il suo seguito di compagne e di ancelle la corte femminile cara al cuore di Alessandro VI. Là egli trovava riunite le donne che muovevano in lui la tenerezza paterna o l'ardore dei sensi o quella strana amicizia mista di complicità e di intricate affinità, Gli bastava pensarci per sentirsi dilagare nel sangue un immenso riso.

Tutte le corti cristiane, a malincuore o no, avevano mandato ambasciatori a prestare giuramento di fedeltà e d'obbedienza al nuovo pontefice: vi furono a Roma cortei, processioni, archi di trionfo istoriati con distici latini per i quali si erano messi in opera gli ingegni dell'Accademia Romana, _grandi funzioni in Laterano e in San Pietro, dozzine di discorsi, sulla fattura dei quali gli umanisti esercitarono al microscopio la loro critica letteraria. Cerimonie affollatissime: erano quelle le occasioni per i primi scandagli sulla probabile condotta politica del nuovo Papa; gli informatori andavano a caccia di idee seguendo anche minimi indizi, scovavano i favoriti nuovi per tenerli d'occhio e per sollecitare fra quelli amicizie ed alleanze giovevoli nel futuro, disegnavano piani e tentavano pronostici. Oltre le feste del Papa c'erano, e non meno ricche di notizie per i bracchi politici, le feste dei cardinali, prime quelle di Ascanio Sforza che si lasciava volentieri chiamare "vicepapa" e corteggiare di conseguenza, e sfoggiava argenterie doviziose, prodigandosi cortese ed autoritario secondo il suo nuovo potere. Perfino Giuliano della Rovere volgeva a suo profitto la decisione di far feste e, arrivando a Roma gli ambasciatori del re di Napoli, faceva rappresentare con gran lusso in loro onore l'Anfitrione. Giuramenti e discorsi erano accompagnati anche da doni: la lontanissima Svezia mandava cavalli di razza e pellicce rare le quali servirono probabilmente per foderare i mantelli di broccato di Lucrezia e di Giulia. Tutto questo traffico occupò in estate, sino al principio di autunno, menti e penne degli oratori e degli informa: tori. In generale, i capi di governo e il popolo non erano, come si crederebbe,

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scontenti del nuovo eletto nel quale vedevano il sottile diplomatico che trent'anni di vicecancellierato avevano reso esperto di ogni maneggio, e che nessuno avrebbe potuto cogliere di sorpresa. Ma, memori dell'invasione spagnola al tempo di Callisto III, tutti temevano il suo nepotismo e sorvegliavano la sua vita privata. "Il Papa ha promesso di far molte cose a riformazione della corte, cassare i segretari e molti uffici tirannici, e tenere i figlioli lontani da Roma, e farà promozioni lodevoli, e dicesi che sarà glorioso pontefice", scrive da Firenze Manfredo Manfredi il 17 agosto; ma, se qualcuno si illuse, prestissimo tutti seppero quanto queste parole, pronunciate nella gioia delle prime giornate pontificali, fossero state ingannatrici e vane. A schiere, i Borgia invasero il Vaticano: quelli che erano a Roma e in Italia arrivarono per primi, seguiti da quelli di Spagna, uomini, donne, bambini, famiglie intere, gente tenace ed avida di quella fortuna che l'altro papato aveva già portato alla casa, piccolo popolo che avvolgeva intorno al suo capo le spire lente della parentela.

Alessandro VI andava svelto: già subito dopo la sua elezione aveva trasferito il suo arcivescovato di Valencia al figlio Cesare; e il 31 agosto, in concistoro segreto nominò cardinale suo nipote l'arcivescovo di Monreale, Giovanni Borgia. "Ha condotto così bene la cosa" notava Giannandrea Boccaccio "che tutti i cardinali lo hanno insistentissimamente supplicato per questa promozione." Il collegio cardinalizio non diffidava ancora profondamente del Papa, e del resto erano quelli i giorni che vedevano piovere i benefici borgiani sui cardinali elettori: sarebbe stato troppo pretendere che proprio i parenti del Papa fossero esclusi dalla distribuzione. Il nuovo cardinale alloggiò nel palazzo apostolico essendo, dice uno dei nostri oratori, "uomo prestantissimo e da far faccende", da poter dare, dunque, mano al Papa, in qualsiasi occorrenza; e due mesi dopo un altro Borgia prendeva stanza in Vaticano, Rodrigo, cugino di Alessandro VI, chiamato al Posto, fino allora tenuto da Domenico Doria, di capitano delle guardie di palazzo. Tanti Borgia dovevano far argine alla potenza di Ascanio Sforza, e Perciò Giuliano della Rovere che se ne era accorto per primo aveva caldeggiato l'elezione cardinalizia di Giovanni Borgia. Non mise molto a capirlo il cardinale milanese, e a far la scoperta che gli sarebbe toccato di giuocar d'astuzia con lo spagnolo; già circolava il giudizio che Alessandro VI sarebbe stato "pontefice che si governerà nelle azioni secondo il suo parere e senza rispetto di persona". Anche Ascanio abitava in Vaticano, presso il Papa, sorvegliandolo da vicino perché non avesse a sfuggirgli, ed era inquieto, sentendo aria di pericolo, Il giro delle notizie non prometteva bene. "Qui si pratica da molti di far parentado con il Papa [per mezzo di quella sua nipote [così era talvolta indicata Lucrezia nei primi mesi di pontificato di suo padre]: ad ogni uomo se ne dà speranza. il re [di Napoli] anche vi concorre." Ma non gliene lasciò il modo, al re di Napoli il cardinale Ascanio, che conosceva bene la predilezione del Papa per quella figliolina perché non

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cercasse di legarla al partito degli Sforza. Milano aveva allora per duca, erede diretto della famiglia Sforza, il misero Gian Galeazzo Sforza, giovane malato, logorato, anzi, dai piaceri e dai libertinaggi concessigli se non procuratigli dal suo tutore e zio, Ludovico il Moro. Ludovico era uno di quegli uomini nei quali la brama del potere morde più acutamente dello stesso desiderio di vita: e aveva sposato una donna, Beatrice d'Este della casa ducale di Ferrara, che queste ambizioni rinforzava delle sue che erano quasi feroci. Non ancora ventenne, quando Alessandro VI salì al trono, Beatrice d'Este era già certa delle sue mete, sicura delle strade che bisognava seguire per arrivare in fondo. Donna di gran capricci, di grazie rare, di raffinatezze intellettuali ' di caparbio orgoglio, odiava su tutto al mondo colei che le rubava, a suo parere, il primo posto di princiPessa a Milano, la generosa Isabella d'Aragona, moglie di Gian Galeazzo. E se non si può dar colpa ad una donna dei grossi avvenimenti di poi, forse necessari in quel momento storico, è vero però che, se vi fosse stato bisogno di qualcuno che spingesse il Moro a chiamare gli stranieri in Italia per schiacciare e disperdere l'odiata dinastia aragonese, non si sarebbe potuto trovare nessuno più adatto di Beatrice. Ella era l'anima, ed un'indemoniata anima, della lotta che gli Sforza avevano impegnato contro il regno napoletano; e, benché forse con un'ombra di gelosia (non esiste, credo, nemmeno una lettera di Beatrice a Lucrezia fidanzata e sposa), consentì anche lei al progetto di Ascanio per non lasciarsi sfuggire un pegno di tanta importanza come la figlia del Papa. Ascanio passò subito in rassegna la sua famiglia nei rami diretti e in quelli 'collaterali: e qui si incontrava con uno Sforza di secondo grado, Giovanni, che portava il titolo di conte di Cotignola, era signore di Pesaro, piccolo feudo papale al confine tra la Marca e la Romagna, e pareva riassumere in sé il carattere e i caratteri che ci volevano. Il giovane, di ventotto anni, vedovo di una Gonzaga, Maddalena, educato umanisticamente, di aspetto quasi insignificante (il "quasi" è a suo vantaggio) ma di una certa eleganza nel modo di presentarsi e di vivere, era sensibilissimo alle suggestioni della vanità, e più ancora a quelle dell'interesse; e dedito, quasi prono, alla sfarzosa prepotenza dei suoi parenti di Milano. Più vi pensava, più il cardinale Sforza si lodava di quella scelta: il matrimonio sarebbe costato poco alla famiglia, perché il signore di Pesaro aveva stato piccolo ma indipendente: si sarebbe trattato, tutt'al più, di aggiungere alle rendite della sua terra una condotta militare nell'esercito milanese; e il Papa avrebbe contribuito anche lui a far ricco l'avvenire del genero. Con queste promesse, e con altri argomenti di famiglia, si poteva esser certi che lo Sforza di Pesaro avrebbe seguito le vie che gli sarebbero state indicate. Le seguì, infatti.

Immediatamente, Giovanni Sforza fu chiamato a Roma:

vi giunse in incognito, verso la metà di ottobre del 1492, e prima di entrare in città si fermò da Ascanio nella rocca di Nepi che era uno dei

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maggiori regali fatti dal Borgia al suo grande elettore. L'ultimo giorno di ottobre entrò in Roma dove andò ad allogoiare in casa del cardinale di San Clemente, Domenico della Rovere, in Borgo, fu ricevuto dal Papa e forse anche visto da Lucrezia, tutto in grandissimo segreto, tanto che perfino i più sperimentati informatori misero qualche tempo prima di comprendere il senso di questi maneggi. Giannandrea Boccaccio, sulle prime, credeva che lo Sforza fosse venuto a Roma a trattare una causa per la dote di una "Madonna Costanza", e anzi giudicava che la stessa Madonna Costanza, "s'era giocata la dote sua" viste le gran Protezioni e i favori che ora lo Sforza poteva ottenere per tramite del Potentissimo Ascanio, Ma poi, "ora son chiaro della pratica" scrive, dando esatte informazioni sul matrimonio che si stava concludendo in Vaticano. Un altro che era stato chiaro della pratica, ancor prima dell'acuto vescovo di Modena, era uno dei fidanzati di Lucrezia, ormai non tenuti più in conto dal Papa che vedeva già i suoi figli insigniti di poteri, imparentati con case principesche, fondatori di dinastie. Se don Cherubino de Centelles era stato quieto, don Gaspare d'Aversa informato a tempo, e magari da persona alla quale il progetto del matrimonio sforzesco non andava a sangue, arrivò a Roma e vi si trovava negli stessi giorni di Giovanni Sforza. Con una prudenza che gli stava benissimo, il signore di Pesaro si teneva celato e non usciva se non di notte; e al contegno del cauteloso favorito, lo spagnolo opponeva il suo, tutto diverso: aveva il suo contratto in tasca ' e, sostenuto e spalleggiato dal padre, domandava udienze che non gli erano concesse, faceva di gran braveggiate alla spagnola, dichiarava ad ognuno che volesse udirlo d'esser risoluto a non cedere, e di avere dalla sua il re di Spagna: se non gli si fosse resa giustizia, si sarebbe appellato a tutti i potenti della cristianità. Erano appelli di fantasia; gli ascoltatori, gente scaltrita da anni di una diplomazia da equilibristi, stavano a sentire, domandandosi probabilmente quanto questa ribellione sarebbe costata al Papa. Pare, ma non è notizia del tutto attendibile benché assai probabile, che gli costasse tremila ducati d'oro: e certo, Alessandro VI avviluppò in una tale rete di temperati rifiuti e di finte concessioni i due spagnoli padre e figlio, che l'otto agosto si stendeva un atto non tanto di scioglimento quanto di rinvio dei patti matrimoniali: nell'atto era una clausola per la quale il giovane Valenzano si obbligava a non sposarsi per un anno, affinché "sopravvenuti momenti più propizi" le nozze fra lui e Lucrezia avessero potuto aver luogo. Che cosa pensasse Alessandro VI mentre dettava questa clausola, è difficile immaginare: se ne servì, forse, per tendere un tranello nel quale cadde, e non troppo facilmente l'ostinato fidanzato perché lasciasse intanto libera Lucrezia. Giovanni Sforza, dal suo Lato, a chi gli parlava di don Gaspare, diceva di esser tranquillissimo; e ritornato a Pesaro mandava a Roma il suo procuratore messer Niccolò da Saiano, addottorato nel giure allo Studio di Ferrara, una persona furba come ci voleva, a stringere gli accordi. Il destino di Lucrezia era ormai fissato: sarebbe stata contessa di Pesaro, Per Ferrante d'Aragona, questa nuova

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prova della potenza milanese in Vaticano fu un colpo duro. Il vecchio re, in Castel Nuovo, davanti alla cordialità e alla fantasia di quel panorama fra mare e Vesuvio, sentiva vicina la decadenza della propria dinastia, e pur con la certezza di non poterla salvare da solo, si teneva in una vita amara e robusta, già pronto alle difese disperate. Comprese, a questo punto, che bisognava agire di persona, e mandò a Roma il suo secondogenito, Federico, principe di Altamura, uno dei più stimati personaggi di casa d'Aragona, ben diverso dall'erede al trono. Alfonso di Calabria, del quale tutti conoscevano la cupa crudeltà: doveva, Federico, prestare obbedienza a nome del re, e gettare cautamente le basi di un'alleanza matrimoniale che bilanciasse quella sforzesca. Il giovane colto principe, amico dei letterati e degli studi, venne volentieri a Roma dove alloggiò in casa dei cardinale Giuliano della Rovere in piazza Santi Apostoli, presso la roccaforte protettrice di casa Colonna: fra grandi onori fu ricevuto da Alessandro VI, che gli donò una spada benedetta, e stette con lui volentieri. La festevolezza e intelligenza di Federico erano fatte per piacere al Papa, ma non tanto da fargli dimenticare i propri, piani e i propri interessi; la missione dell'aragonese doveva fallire ed egli tornare a casa carico di onori e di disillusioni. A dir vero il momento era malissimo scelto: il grande alleato del re di Napoli, il cardinale Giuliano della Rovere, aveva fatto al Papa, in quei giorni, il tiro di favorire l'acquisto, da parte di Virginio Orsini, di alcuni possedimenti fra i più importanti per la sicurezza del papato, Cerveteri ed Anguillara, che potevano sorvegliare la via fra Roma e Civitavecchia: quando si sarà detto che l'Orsini era capitano generale delle truppe di re Ferrante e che il nuovo feudo era stato acquistato con denaro aragonese, si sarà compreso quale pericolo rappresentassero quelle sentinelle avanzate di Napoli nel territorio della Chiesa. Alessandro Vi se ne era lamentato in concistoro, ma Giuliano della Rovere era insorto, gridando con la sua vociona che il pericolo non era poi così grave come se le stesse terre fossero cadute in mano di un parente di Ascanio Sforza. Questa scena aveva irritato il Papa; e Giuliano, che ne conosceva le ire segrete, se n'era fuggito ad Ostia riparando in quella fortezza costruita nello stile robusto e netto delle architetture militari del Quattrocento dal fiorentino Baccio Pentelli. Tutto parlava di guerra intorno ad Alessandro VI, ed ogni giorno avvenivano disordini ai confini dello stato pontificio. Per garantirsi e per impaurire i nemici, mise in pratica l'arte di prevenire, e pensò ad una lega difensiva dello stato della Chiesa, lega che fu, nemmeno a dirlo, maneggiata da Ascanio Sforza e che comprendeva Milano Ferrara Siena e Mantova: fine dichiarato dell'alleanza era la difesa del Papa da ogni tentativo probabile di invasione napoletana. Alla pubblicazione della lega, che avvenne il 25 aprile 1493, re Ferrante capì che le cose per lui si mettevano al peggio, e scrisse al re di Spagna, suo cugino, una lettera che è un appello disperato di aiuto, e insieme un atto di accusa contro la condotta pubblica e privata del pontefice del quale si denunciano ignominie e libertinaggi. Poi, partita la lettera, il re cercava di conquistarsi colui che aveva tanto gravemente accusato con

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l'offerta di magnifiche alleanze matrimoniali per annullare, se possibile, gli effetti della minacciosa lega. Pensava, re Ferrante, di legare a doppio filo il Papa, dando cioè moglie e stato a due dei suoi figli: a Cesare, il primogenito, che benché fosse arcivescovo di Valencia aveva ricevuto solo i primi ordini e avrebbe potuto lasciare senza scandalo l'abito ecclesiastico (il giovane confessava di non aver disposizioni per lo stato religioso), offriva una principessa aragonese che portasse in dote il principato di Salerno: a Jofrè, il minore, altra principessa della stessa casa e altra dote. Era difficile immaginare però che Ascanio Sforza avrebbe lasciato compiersi un atto così importante senza molto lottare, e il progetto su Cesare cadde; quello su Jofré fu differito; e intanto si portava avanti attivamente il matrimonio sforzesco di Lucrezia. Fra tanti intrighi Ascanio capiva che bisognava far presto ad assicurarsi almeno lei. Il conte di Pesaro era in preparativi nuziali: si sentiva un Personaggio importante, aveva avuto per mezzo del Papa una condotta ed un alto grado nell'esercito milanese, con un buonissimo soldo; era invidiato per questa sposa che gli avevano in tanti conteso, nuova nuova, anzi addirittura acerba, e che aveva nelle mani adolescenti il cuore del padre. Sapeva che ella possedeva vesti e gioielli da strabiliare una sola veste, quella da sposa, sarebbe costata quindicimila ducati, che le sarebbero stati fatti gran doni, e che gioielli magnifici avrebbe sfoggiato il fratello di lei, quel duca di Gandia che era il più elegante e fastoso giovane di Roma. Figurare almeno quanto loro, pensava il conte di Pesaro, era un dovere di cortesia verso i nuovi parenti: ma i suoi forzieri non essendo da tanto, egli pativa già d'umiliazione. Gli mancava soprattutto una collana d'oro, lavorata a cesello e a sbalzo, uno di quei lavori degli orafi del Rinascimento che erano come l'insegna della potenza della ricchezza e del gusto di chi li portava. Giovanni si decise a domandare in prestito la collana al marchese di Mantova, fratello della sua prima moglie; e al Gonzaga non parve vero di mandargli alcuni dei più raffinati gioielli della sua collezione per rendersi grato colui che era destinato a diventare "il figliolo caro, vivente Alessandro VI". A Roma, intanto, appena messer Niccolò da Saiano ebbe sposato per procura Lucrezia il 2 febbraio 1493, e sottoscritto a nome del suo signore i patti nuziali, la sposa cominciò a ricevere gli invitati e gli oratori delle case principesche che venivano a farle visite augurali. assistita dal Saino, e, naturalmente, da Adriana Mila che spiegava in questi colloqui la sua magniloquenza spagnolesca e il suo genio d'intrigo. Al vescovo di Modena che era andato a complimentare la novella sposa da parte del duca e della duchessa di Ferrara, e che si adoperava in tutti i modi per il cappello cardinalizio di Ippolito d'Este secondogenito del duca, Adriana come al solito rispose lei: disse che col Papa aveva più volte ragionato di tale faccenda, e che le speranze erano più che buone; e concludeva con un "ad ogni modo lo ordineremo cardinale" che ostentava, nel pittoresco plurale e sa di maestà e di complicità, il proprio linguaggio delle favorite. Si capisce come i tredici anni di Lucrezia sparissero sotto questa brillante tutela. Parve per un

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momento che il suo destino mutasse, perché si seppe e circolò per tutta Italia la notizia che il Papa stava trattando in Ispagna le nozze della figlia con il conte di Prada. Era invece solo un'abile finta per sviare chi voleva mettere ostacoli al matrimonio sforzesco, un tranello nel quale caddero i relatori d'allora sono caduti gli storici di Poi, compreso il Gregorovius. In una lettera finora sconosciuta> Giannandrea Boccaccio informa il duca di Ferrara di una confidenza avuta dal cardinale Ascanio "sul sigillo confessionis": "a buon fine, e per molti ragionevoli rispetti si passa questa cosa segreta [il matrimonio sforzesco], mentre si è mostrata pratica di maritarla in Ispagna". Infine, dopo aver fissato le nozze per il 23 aprile giorno di San Giorgio, e averle rimandate a maggio, si fissò la data per il 12 giugno 1493. L'estate romana è calda, ma ariosa: quando il cielo appare di un azzurro così teso che la speranza di una nuvola cade da sé contro quella purità arida e fonda, d'improvviso un vento, che ha l'arguzia e la velocità del fiato marino, guizza nei minimi angoli e nelle stradette della città, solleva le cose e gli animi con un movimento scherzoso quasi un motivo musicale di fantasia. Questo motivo doveva accompagnare bene la cavalcata nuziale che la mattina di domenica nove giugno giungeva alle mura di Roma, e che appariva davvero degna del genero di un gran Principe. L'aprivano i palafrenieri in gonnelli di broccato la continuavano schiere di fanciulli vestiti di seta a colori, la allietavano e le aggiungevano spensieratezza e brio le facezie di un buffone, prete Mambrino, Il vestito di velluto con berretta d'oro. In gran numero i familiari dei cardinali andarono fuori di Porta del Popolo ad incontrare lo sposo, al quale l'ambasciatore veneziano fece un discorsino di saluto dimostrando così la paterna benevolenza della Repubblica verso il confinante staterello di Pesaro. Poi tutti si misero in cammino fra lo strepito gioioso, dei piri e dei trombetti: il vivace corteo, luccicante nell'ampio sole, passò sotto il palazzo di San Alarco, Per Campo dei Fiori se ne venne al ponte di Castel Sant'Angelo, e di lì in Borgo, deviando leggermente per fare la sfilata sotto il palazzo della sposa, Lucrezia era pronta da un pezzo, acconciata dalle proflube mani di Adriana Mila: aveva ricevuto gli auguri e le congratulazioni delle gentildonne romane venute a farle festa, e sentito, forse per la prima volta nella sua vita, la confusione inebriante di essere al centro di tutti gli sguardi e di tutte le premure. Ma appena venuta l'ora, e si erano uditi lontani i primi squilli dei trombettieri, le donne e le fanciulle avevano preso posto alle finestre lasciando la sposa sola sulla loggia al posto d'onore. In un momento la piazza si popola, vengono avanti gli staffieri i ragazzi i familiari dei cardinali gli ambasciatori, e in mezzo a questi lo sposo: gli sguardi di tutti gli uomini, dal minimo paggio al più severo ambasciatore, si volgono al palazzo di Santa Maria in Portico; là, nel gineceo papale, Giulia Farnese della quale è tanto sussurro ("de qua est tantus sermo"), là le parenti di Innocenzo VIII, le Orsini, le Colonna, le altre gentildonne famose; e là questa Lucrezia, che il Papa ama "in superlativo grado", si mostra al sole con i suoi lunghissimi capelli biondi che dalle spalle così tenere sotto il pesante

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broccato le scendono come sinuosi serpentelli d'oro fino ai fianchi di bimba. Giovanni Sforza frena il cavallo, si ferma sotto la loggia, il suo sguardo incrocia quello di Lucrezia, per un momento il loro incontro è quello da uomo a donna, da donna a uomo. Ma lo sposo sa la sua parte, e sa come deve compiersi il gesto cortigiano dell'inchino verso la finestra dove splende quella testa ingemmata: di lassù, Lucrezia risponde con la sua riverenza d'etichetta; e la comitiva riprende il cammino, passa in Vaticano dove il Papa attende circondato da cinque cardinali. Il conte di Pesaro entra, s'inginocchia alla maestà di quel suocero straordinario, e in un breve discorsetto latino gli offre se stesso la persona e lo stato. La risposta è amorevole: terminato il ricevimento ufficiale, il giovane e il suo seguito prendono alloggio nel palazzo del cardinale di Aleria presso Castel Sant'Angelo.

Qui s'incontra, e bisogna fermarsi a considerarlo, il cerimoniere della corte pontificia, Giovanni Burckard, detto italianamente il Burcardo. Questo tedesco di Strasburgo, che aveva comperato per quattrocento ducati d'oro la sua carica e che viveva tra le camere e le anticamere del Vaticano, è celebre per aver annotato in un diario in lingua latina (alquanto grossa) tutte le cose importanti che, mentre esercitava il suo ufficio, gli passavano sotto gli occhi: dovrebbe essere dunque, benché il suo sguardo sia spiritualmente miope, uno dei più importanti testimoni della vita borgiana a Roma: se non che gli storici ancora si domandano se la sua testimonianza debba essere accettata, e fino a qual punto. Bisogna dire subito che il Burcardo pare che ci si metta di volontà ad imbrogliare i giudizi: a chi sfogli pazientemente il suo diario, il Liber Notarum inzeppato dalle minutissime descrizioni di cerimonie e di ordinamenti di etichetta, viene naturale fidarsi, e riconoscere in questo spirito pedante ed ordinato la rispettabilità e la serietà del funzionario onesto, e dunque attendibile; ed è così che si arriva senza accorgersene alle pagine magre e rare, ma di fuoco, che testimoniano le più gravi cose contro i Borgia compresa Lucrezia. Il Burcardo non fa mai pettegolezzo, non discute mai, raramente dice la sua opinione; ma appunto in questa ostentata ritenutezza di linguaggio e d'indagine sta il suo vero enigma: non si può dubitare di lui, è chiaro, quando per più di mille foglioni egli pazientemente ha dimostrato di sapersi tenere nei limiti del suo ufficio: e, se è vero che portando in quell'ambiente un'anima limitata di puritano egli poteva travisare il senso delle cose, nemmeno questo argomento regge per confutare la verità del suo racconto quando si deve pur riconoscere che dalla sua penna non escono accuse contro i Borgia, ma solo fredde accurate e in certo modo castigatissime descrizioni d'oscenità alle quali ha, da cerimoniere, forse anche assistito. Non è possibile in una storia dei Borgia lasciare da parte il Burcardo tanto più che quasi sempre le cose da lui narrate trovano esatto riscontro nelle corrispondenze dei contemporanei, i quali, per certo, non conoscevano affatto l'esistenza del diario burcardiano. Il cerimoniere di

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Strasburgo entra nella nostra scena il mese di giugno 1493: è lui l'ordinatore dei cortei e dei ricevimenti, un vero regista occupato particolarmente a disciplinare la cerimonia nuziale della figlia del Papa.

Le camere nuove del Vaticano, dove già il Pinturicchio aveva cominciato a dipingere paesaggi e giardini e quelle scene floreate che sembrano voler provare l'esistenza di un'umanità nobile levigata e pittoresca, erano ornatissime ma non ingombre di mobili: la decorazione, oltre che ai colori delle incorniciature, era affidata ai tappeti d'oriente che coprivano il pavimento, alle tappezzerie di seta appese tutt'intorno sotto le pitture: sgabelli e scanni, cuscini di velluto erano disposti in ordine; e su tutto si elevava il trono del Papa, anzi i troni del Papa che erano due, uno nella sala grande dove si sarebbero fatte le rappresentazioni, ed uno in una saletta piccola dove si sarebbe svolta la cerimonia. Al duca di Gandia toccò di andare a prendere la sposa, ed egli era uomo da far molto bene questa parte decorativa: aveva indossato, per festeggiare la sorella, una straordinaria "turca alla francese", lunga fino a terra, di panno d'oro riccio, con le maniche del giubbone ricamate fitte di perle grossissime; e si era ornato di una collana di rubini e perle, e di una berretta con un gioiello raggiante.

Venne l'ora della cerimonia, la mattina del 12 giugno, e per prime arrivarono le gentildonne invitate, tanto eccitate da quella giornata di festa che, nell'impeto dell'entrare, dimenticarono in molte di inginocchiarsi davanti al pontefice, con scandalo del Burcardo che vedeva in questa distrazione segni di grave anarchia morale. Otto cardinali attendevano intorno al Papa l'arrivo dello sposo che era stato mandato a prendere "con tutta la baronia" da uno stuolo di prelati, e che arrivò vestito anch'egli di una turca alla francese d'oro riccio: e, se non portava i gran gioielli del duca di Gandia, aveva però sul petto la collana prestatagli dal marchese di Mantova, collana che fu riconosciuta immediatamente dall'ambasciatore mantovano. Subito dopo lo Sforza, fecero una comparsa da melodramma, scivolando in sala da una porticina segreta tra muro e muro, i due figli maggiori del Papa, Juan, che accompagnata la sorella nelle stanze interne del Vaticano veniva ad aspettarla tra gli altri, e Cesare nella sua semplice veste vescovile contrastante di molto con il pomposo vestire del fratello. Sull'abito del duca di Gandia ci fu molto da dire ' non essendo facile nemmeno in quei tempi vedere tutte insieme indosso ad una sola persona gemme per il valore di cinquantamila ducati, quasi un miliardo. Le stanze dell'appartamento Borgia non sono grandissime, e quel pubblico tanto straordinario quanto era straordinaria l'adunata in quel luogo, vi si affollava; grandi cariche civili e militari vi erano rappresentate, correvano nomi celebri, voci varie e curiosità ardentissime: gli ambasciatori non avevano occhi abbastanza acuti per vedere e per annotare tutto. Si annuncia la sposa: appare, vestita ed

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ingioiellata, bella, e forse, più che bella, commovente per quel suo modo di giocare ad essere donna che la rivela candidamente bambina, Una galante fanciulletta negra, di un bel nero lucido, guizzante come una lucertolina, le sorregge lo strascico sontuoso secondo la più raffinata moda del tempo. A fianco di Lucrezia, sono, da un lato Giulia Farnese sulla quale gli occhi di tutti si fermano avidamente abbagliati, e dall'altro la figlia del conte di Pitigliano, Lella Orsini, che per aver sposato il fratello maggiore di Giulia, Angelo, è entrata nella famiglia Farnese. Seguono: la nipote di Innocenzo VIII, Battistina d'Aragona marchesa di Gerace, tanto elegante da essere chiamata "inventrice di tutte le mode femminili del suo tempo", anche lei con la sua negretta al servizio dello strascico, e le altre nobili dame, in tutto centocinquanta, Le sale, già colme, ora straripano: ci sono tutti i Borgia, naturalmente, e Ascanio Sforza che trionfa col suo fedelissimo Sanseverino a lato, e cardinali arcivescovi baroni romani, senatori, conservatori, nobili italiani e spagnoli, oratori, il capitano della Chiesa, il capitano di palazzo, ufficiali e guardie. Lucrezia si avanza col suo passo leggero, messo da un ritmo interiore ("porta la persona così soavemente che par non si mova" dirà più tardi un relatore), e anche Giovanni Sforza si fa avanti: i due sposi si inginocchiano sui cuscini d'oro ai piedi del Papa, e subito, nel silenzio fattosi d'intorno, si sente la voce del notaio Beneimbene rivolgere la rituale domanda. "Voglio, e di buona voglia", risponde lo Sforza, e "Voglio" fa eco Lucrezia. Il vescovo di Concordia, nome augurale, infilò gli anelli, mentre il conte di Pitigliano teneva alta sulle teste degli sposi la spada snudata. Toccò poi allo stesso vescovo di fare un discorsetto molto ben composto sulla santità del matrimonio, che non si poteva pensare né più adatto né più inutile. C'erano in giro quei fuochi di complicità, quasi di licenza amorosa, che si accendono anche nelle più riguardose feste nuziali, e che per i temperamenti e le abitudini della gente borgiana dovevano giungere per gradi ad affocare l'aria. Non aveva compreso niente, dunque, chi aveva preparato come rappresentazione teatrale i Menesmi di Plauto, nella originaria lingua latina, ed era facile immaginare che la commedia non avesse fortuna. Il Papa stesso interruppe a metà la recitazione, mosso forse da uno sbadiglio che vedeva formarsi su una bocca femminile amante troppo più delle cose moderne che delle antiche. Invece, fu ascoltata volentieri la rappresentazione di un'egloga in onore degli sposi, composta da Serafino Aquilano, "molto polita" dice un relatore, volendo intendere ornata classicamente di riferimenti simbolici e mitologici, riferimenti che il poeta, abile mezzano del proprio ingegno, sapeva animare con una grazia abbandonata e cantante ancor oggi sensibile nei suoi versi migliori. Serafino era un favorito delle corti dell'ultimo Quattrocento, e da quel vivere di corte in corte aveva derivato una sua infallibile bravura a scoccare le allegorie intrecciando i nomi e le parentele le aspirazioni e i desideri dei principi che gli commettevano il lavoro: ne venivano fuori lusinghieri e chiari indovinelli che avevano l'interesse immediato delle cose attuali. Infine, e doveva

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arrivare a tempo, ci fu il rinfresco, giudicato ricco di cibi ma privo di "cose pompose" e cioè di trionfi gastronomici. Si passavano i dolci, i marzapani, i confetti, fra le risa delle donne contente di dare alfine spettacolo di se stesse, e si seguiva l'etichetta che voleva serviti prima il Papa e i cardinali, poi gli sposi le donne i prelati e gli altri invitati. Ciò che restava non era riportato in cucina, ma dalle finestre gettato al popolo che, gridando, applaudiva: così si perdono più di cento libbre di dolci, nota il Burcardo con un sospiro.

La sera ci fu il convito che segretamente il Papa dava in onore degli sposi: intimo, e perciò più interessante per la lista dei nomi che tutti gli ambasciatori ricercavano, mossi meno da curiosità che dal loro dovere di relatori. Importava assaissimo sapere quali fossero le persone che il Papa avrebbe prediletto. La cena si dava nell'aula pontificia, parata con i paramenti delle cerimonie: e alle vesti cardinalizie si alternavano le vesti e le famose spalle femminili di Teodorina Cibo, di sua figlia Battistina marchesa di Gerace, di Giulia Farnese, di Lella Orsini, di Adriana Mila; v'erano poi Ascanio Sforza, il Sanseverino, il nuovo cardinale Borgia, Giulio Orsini signore di Monterotondo, il cardinale Colonna col fratello giovinetto, il conte di Pitigliano, i fratelli di Lucrezia, più, naturalmente, gli sposi: una ventina di persone scelte. Verso mezzanotte, la cena che era stata "gagliarda" finì, e subito si avanzarono i camerieri portando i doni di nozze: pezze di quei broccati milanesi famosi in tutto il mondo, più due anelli magnifici, avevano mandato Ai Sforza di Milano alla nuova parente; il cardinale Ascanio aveva fatto un dono solido, e, come genere, quasi borghese: un completo "apparecchio da credenza" cioè un servizio da tavola di argento massiccio, che comprendeva tazze scodelle piatti, piatti da portata, un bacile col suo boccale, una confettiera e due coppe, tutto, dorato o no, di sottil lavoro; altri doni fecero i fratelli di Lucrezia, il duca di Ferrara, il cardinale Borgia, e il protonotario Lunati. Dopo la sfilata di quelle dovizie, cominciò il grosso del divertimento; si ripresero le commedie, alternate da musiche e da balli, e forse si udirono allora le note del più gran musico del tempo, quel Josquin de Prés, fiammingo, che era al servizio di Alessandro VI. L'allegria, con l'andar delle ore, si alzava di tono, progrediva, raggiungeva e sorpassava la licenza: tutti i contemporanei accennano senza possibilità di equivoco alla mondanità di questa festa. Ma è ancora da ripetere la storia delle confetture versate nel petto delle donne? Il cronista romano Stefano Infessura che scrive il pepato racconto non ha una voce molto attendibile: lo troviamo in fallo in molte pagine, ed è probabilissimo che lo sia anche in questa; e del resto egli stesso dice nella sua cronaca che, dopo cena, il Papa gettasse in segno di grande letizia dei confetti "in sinu multarum mulierum" ciò che si può intendere nel grembo delle donne, in un giuoco di lancio e di rilancio. Se questa scena veramente vi fu, i confetti non caddero tutti lontani dalle scollature femminili, e qualche parabola più ardita poté dare occasione ad uno

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scherzare un po' libero, che, anche a voler immaginare liberissimo, è sempre cosa diversa dall'orgia collettiva e sfrenata. Da aggiungere che, tra le dame invitate, Lella Orsini Farnese era nota come un modello di amor coniugale, tanto da aver stabilito col marito (e sembra una storia da ballata romantica) che, quale dei due fosse sopravvissuto all'altro, avrebbe dovuto chiudersi in un monastero, morire al mondo; e toccò a lei, giovane ancora, appena l'anno dopo le nozze di Lucrezia. Anche le donne di casa Cibo, seppure di costumi non regolari, non erano però sfrontate; né Adriana Mila; né, e non sembri un paradosso, Giulia Farnese. Detto questo, e tenuto conto dell'ora tarda, dei vini, della musica che alle nature voluttuose apre i mondi sensitivi più che i mondi spirituali, e soprattutto del fatto che nelle feste di sposalizio erano di regola le arditezze perché le nozze non avessero il dispregiativo di fredde, non è possibile fare ipotesi sui limiti nei quali possano essersi tenuti i convitati, e occorre lasciare a questa notte il suo calore e il suo colore. Ai contemporanei, poi, non si farà il torto di aver mandato a male così copioso soggetto di discorsi: si accetterà invece alla lettera l'affermazione dell'ambasciatore di Ferrara, Giannandrea Boccaccio, il quale, dopo aver descritto nozze e cena, senza tuttavia accennare al fatto dei confetti, conclude: "Qui se ne fa un cantar di Rolando" e cioè un poema di commenti, richiamo letterario che resuscita d'un colpo alla mente le tradizioni colte e cavalleresche delle corti settentrionali d'Italia.

Lucrezia, bisogna immaginarsela mentre guardava intorno con i suoi occhi incantati e ridenti, compresa e magari divertita della sua parte di sposa. Tra la scioltezza arguta di Giulia Farnese, vera trionfatrice della serata, la superba vitalità del padre, la bellezza e l'eleganza del fratello Juan, la potenza oscuramente affascinante dell'altro fratello Cesare, aveva da ammirare: ma di quel marito per il quale le si facevano tante e così nutrite feste, che cosa avrà pensato? E di se stessa? Nessuno si è mai domandato, prima di chiamarla a giudizio, come e in quali punti la vita sua propria poteva accordarsi in lei con la vita rappresentata: ma poiché il Papa stesso ci informerà tra poco che i due sposi non furono tali che di nome almeno fino a metà novembre del 1493 (dobbiamo supporre che sia stata la acerbità fisica della bambina a far rimandare l'intimità delle nozze) ci si potrà domandare quali idee e quali commozioni dovettero germogliare in quel l'adolescente, all'alba del tredici giugno, quando ella tornava, dopo quasi ventiquattro ore di eccitazioni nel suo letto di bimba. Lasciando la veste di sposa, si sarà rallegrata, lei, così amante degli abiti sontuosi, del ricco guardaroba che avrebbe posseduto, avrà intravisto tutte le sorprese che le sarebbero toccate dall'indomani; ma come le avrà sostenute, poi? E nei giorni seguenti, che tremore di emozioni, scoprirsi un'importanza nuova, ricevere omaggi, riverenze, suppliche, inchini, trovarsi nelle mani questo insospettato dono, il potere. Forse, proprio per l'affannoso seguirsi di queste sorprese, e per la trepidazione di tener bene il suo posto, Lucrezia non ebbe il tempo di

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maturare in se stessa; e, sposa prima d'avere la coscienza d'essere donna, messa a vivere nel palazzo di Santa Maria in Portico la parodia di una vita matrimoniale, dovette sentire anche lei il disagio morale e fisico che Giovanni Sforza non arrivava a mascherare. Da queste nozze bianche che solo una ragione politica aveva precipitate, comincia l'esistenza oscillante di Lucrezia quale era imposta a lei dalle circostanze e dalle ambizioni dei suoi familiari, ma quale ella accettava e sarebbe andata sempre meglio accettando. Non nella sua debolezza, ma nella fatalità intima dei suoi assensi ognuno dei quali è una capitolazione, sta il vero dramma di Lucrezia: e, a questo lume, il suo modo di non voler conoscere e di non voler sapere quello che le accade dintorno appare una difesa femminile, nata dall'istimo, misera, ma patetica e coraggiosa. Innalzarsi tanto da giudicare il padre ed i fratelli non lo potrà mai, meno per incapacità di giudizio o per tenerezza di cuore, che per una verità più violenta ed elementare: perché anche lei è una Borgia, e sente anche lei la forza di quel sangue che le fa impeto e che si dà ragione da sé, fuori da ogni morale, brutalmente e splendidamente. Solo in tempi più tardi, dal disordine della sua anima che sta fra la religione e la sensualità, fra la volontà di una vita disciplinata e l'ardente anarchia dei desideri, saprà levarsi a intraprendere contro il padre, contro il fratello o contro il suocero duca di Ferrara quelle sue ribellioni che la condurranno, sola fra i Borgia, a salvarsi. Ora, a tredici anni, bambina che si piega a tutte le potenze maschili della sua casa, si piace tanto della vita qual è, da non sentire nemmeno il gravame e la falsità del nome e del titolo di contessa di Pesaro.

"Il piú carnale homo"

Inquieto, re Ferrante d'Aragona aveva seguito dalla sua reggia di Napoli le feste dell'alleanza tra gli Sforza e il Papa. Non aveva mandato ambasciatori in Vaticano; e rispose appena, con una letterina cancelleresca, al signore di Pesaro che gli aveva partecipato le sue nozze con Lucrezia, stando ad aspettare, nella speranza di rifarsi, i responsi dell'ambasciatore spagnolo don Diego Lopez de Haro. Re Ferdinando il Cattolico, in risposta alle sollecitazioni del re di Napoli, aveva inviato il Lopez in Italia con amplissimi poteri, e con aperte intenzioni di lagnanze e di minacce contro il capo della Chiesa. Don Diego arrivò a Roma i primi giorni di giugno, e alloggiò nel bel palazzo del cardinale di San Clemente in Borgo, sotto i soffitti allora rabescati dal Pinturicchio: avrebbe dovuto essere in incognito e segretissimo; ma la sua presenza era così conosciuta, che tutti capirono perché il pontefice, contro il parere dei cardinali, volesse far passare la processione del Corpus Domini, torcendo il cammino, sotto la casa abitata

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dall'ambasciatore. Farsi vedere nel trionfo del suo altissimo ministero e delle sue insegne e risvegliare così nello spagnolo orgoglio di patria, entusiasmo religioso e ammirazione umana, era una delle sue felici improvvisazioni. Inebriato di se stesso, Alessandro VI volle poi che la processione passasse sotto le finestre di Lucrezia e di Giulia: anzi, come sottolinea qui la cronaca, di Giulia "sua". Trascorsero dieci giorni prima che lo spagnolo entrasse ufficialmente a Roma, tempo che servì ai due avversari per scambiarsi spie ed intermediari, per tentar di scoprire le intenzioni e le posizioni reciproche; di qua e di là si affilarono le armi. E il 16 di giugno, il Lopez fece la sua entrata ufficiale gli andarono incontro il duca di Gandia e il conte di Pesaro in cavalcata sontuosa, "come se fossero due re". Il figlio del Papa non perdeva l'occasione di far risplendere le sue costellazioni di gemme; e il conte di Pesaro sfoggiava i suoi stallieri vestiti di casacche d'oro, e la sua nuova albagia di piccolo provinciale salito in potenza all'improvviso. I due giovani si presero in mezzo l'ambasciatore e lo accompagnarono fino alle sue stanze, dalle quali egli mosse subito ai colloqui del Vaticano che furono faticosissimi, e portarono a difficili svolte: una dietro l'altra, senza prendere fiato, Alessandro VI le superava tutte. L'effetto dell'interesse che il re di Spagna prendeva alla casa regnante di Napoli, e del quale Diego Lopez faceva gran vanto, si cominciò a vedere nel contegno del pontefice che parve guardare con occhio più benigno agli Aragonesi Appena le buone notizie di queste disposizioni arrivarono a Napoli, il re credette di poter stravincere e mandò di nuovo a Roma il figlio Federico per riprendere il progetto matrimoniale di jofré si sapeva oramai che Cesare era destinato al cardinalato, "omnino cardinalabitur", e per convincere Alessandro VI ad abbandonare la lega contro il regno napoletano. Federico trovò il Papa assai ben disposto, e venne con lui agli accordi nuziali che riguardavano la personcina non ancora dodicenne del figlio minore del Papa, jofré Borgia, un fanciullo, al dire dell'oratore fiorentino, veramente "di un bello e grato aspetto". Su questo adolescente stava un interrogativo poiché il Papa confidava ai suoi più intimi, ed anche ai meno intimi, di non crederlo suo figlie, sebbene l'avesse riconosciuto con una bolla regolare: e doveva avere ragioni personalissime per ritenerlo nato da un'infedeltà di Vannozza col marito o per accusare l'antica amante di tradimento. é da supporre che il re di Napoli non sapesse niente delle riserve che Alessandro VI faceva in questo caso sulla propria paternità, o che, sapendolo, non vi credesse; altrimenti, non avrebbe sollecitato con tanta premura le nozze di jofré con la nipote, la bellissima Sancia d'Aragona, figlia naturale dell'erede ' al trono, Alfonso. Ci si era dati poca pena per disporre di lei già destinata ad Onorato Caetani, nipote del conte di Fondi: sciolto rapidamente il matrimonio, appena rassegnato, si era data in cambio al Caetani una figlia naturale del re stesso, donna Lucrezia d'Aragona, e offerta Sancia ai Borgia; e le trattative, patrocinate da Giuliano della Rovere che era tornato in campo, troppo felice di battere sul suo terreno l'avversario sforzesco, progredivano; tanto, che i napoletani

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incoraggiati dalla benevolenza papale giunsero a lamentarsi di essere impediti nelle loro pratiche pacifiche dalla vigilanza che il cardinale Ascanio faceva sentire sensibilissima fra le mura vaticane, e chiesero al Papa di allontanarlo come era stato loro promesso. Alessandro VI rispondeva con una certa ironia ipocrita che il trasloco di Ascanio gli pareva senza difficoltà, ma a patto che fosse volontario: poiché quanto a lui, "non caccerei mai," diceva "non solo Sua Signoria Reverendissima, ma non un cane da casa mia". Stava arrivando per il cardinale Sforza il tempo di sopportare.

Troppo tardi gli Sforza avevano pensato ad una sposa del loro partito per Jofré, disegnando per lui una assurda investitura dello stato di Bologna dove regnavano i Bentivoglio, gente risolutissima, e doveva saperlo più tardi anche quel Papa d'acciaio che fu Giulio II, a difendere la propria, signoria. Le nozze napoletane erano ormai stabilite. La sposa porterà in dote, per sé e per i suoi discendenti, in perpetuo, il principato di Squillace e la contea di Coriata con tutte le terre e le fortezze pertinenti, le quali frutteranno diecimila ducati di rendita annua; il re di Napoli prenderà al suo servizio jofré, lo farà educare secondo le consuetudini della sua corte, famosa, anzi esemplare per usi cavallereschi, e gli darà ventimila ducati all'anno; il Papa manderà alla sposa doni in gioielli per diecimila ducatí, e il contratto si terrà segreto fino a Natale. Quando tutto è stipulato, e sono riuniti notai e testimoni, alla presenza del Papa e del principe Federico, si chiama Jofré che avanza con il passo ardito e reticente insieme che hanno i bambini delle case potenti.

Le nozze avvengono per procura: il principe Federico rappresenta la nipotina Sancia, e durante tutta la cerimonia lettura delle formule giuridiche e scambio degli anelli improvvisa una così comica parodia napoletana dei timori e delle timidezze verginali di una sposina, che tutta l'assemblea, primo il Papa, ride grasso e di gusto. Infine, il nuovo parente abbraccia i Borgia presenti, e si fanno quelle dimostrazioni d'amicizia che, se possono servite al legarsi di simpatie personali, lasciano le situazioni politiche al punto di prima. Ma al sommo di tutte le trame di Alessandro VI, era Juan il bello, Juan l'amato, Juan il cuore stesso del padre. Non si poteva avere "migliore né più espediente intercessore" di lui, per ottenere i favori papali, diceva il marito di Vannozza, Carlo Canale, ai marchesi di Mantova, sollecitando doni di cavalli delle celebri scuderie gonzaghesche per colui che egli chiamava con la più lieta disinvoltura del mondo "il mio figliastro". Juan poteva pensarsi destinato a grande avvenire, poiché aveva ereditato dal fratello maggiore Pedro Luis non solo il ducato di Gandia ma anche la fidanzata Maria Enriquez, e con questa, che era cugina del re di Spagna, la protezione regale. Di Pedro Luis, morto in età troppo giovanile per aver lasciato ricordo di sé, sappiamo che era stato valente nelle armi, servendo sotto la bandiera del Re Cattolico: forse aveva ingegno militare; mentre colui che gli era venuto a succedere

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non aveva né le qualità per diventare il grande condottiero che sognava suo padre, né quelle per diventare semplicemente un buon capitano. Dal limite della sua avventatezza Juan Borgia liberava i suoi desideri, risoluto a godersi l'ottima parte che gli era toccata nella vita, e a passare il tempo in compagnia delle donne che gli piacevano: cortigiane che rispondessero al suo temperamento disordinato, o fanciulle e spose, che, ben guardate com'erano, eccitassero in lui il senso dell'avventura e gli dessero l'illusione di saper vincere qualche grossa battaglia, il solo genere di guerra che gli andasse a verso.

Al duca di Gandia pareva da desiderarsi tutto ciò che poteva costringere alla sorpresa e all'ammirazione un pubblico qualsiasi: in una parola era tanto vano quanto possibile, con in più una grossa punta di snobismo. Si può pensare dunque se trovasse fatto a suo modo il personaggio più pittoresco che fosse allora in Roma, e cioè il principe turco Djem che viveva in Vaticano, ostaggio del Papa, Djem aveva un viso che, se non era così diabolico come apparve ad Andrea Mantegna, esprimeva però una lenta e come assonnata, ma sottile, crudeltà asiatica. I contrasti fra il bruno della pelle e la chiarità degli occhi quasi sempre socchiusi, solo a volte accesi da luci bianche, fra l'indolenza degli atteggiamenti e l'agilità delle membra pronte allo slancio, la sua disposizione e la sua resistenza all'orgia e ai piaceri, tornavano così bene agli ideali fantastici e viziati di Juan, che vestirsi, almeno vestirsi come Diem, gli sembrò necessario. Meno scandalizzati che curiosi, e con un guizzo dello spirito di Pasquino nei corrimenti mormorati ad angolo di bocca, i romani vedevano il Papa muovere a visitar chiese, in gran comitiva di curiali e di armati, preceduto dalla croce, davanti alla quale cavalcavano su due cavalli gemelli il duca di Gandia e il Gran Turco: tanto il prigioniero quanto il suo compagno avevano abiti orientali, e, in testa, il turbante dei nemici della cristianità. Così fra un gran luccichio d'armi e d'ornamenti il Papa passava per la città. Il colore di Roma, allora un tono d'ocra basso e caldo pennellato e fermato dal tempo sulle facciate e sulle absidi delle chiese, sui palazzi e sulle casupole, e fin su per le torri che portavano dal medioevo la loro arroganza partigiana, faceva da sfondo esaltando splendori ed esotismi della cavalcata. Le donne venivano ad affacciarsi, s'inchinavano alla benedizione pontificale, fingevano d'inorridire alla vista del turco sul quale correvano storie d'amori sadici, e sorridevano volentieri all'immagine del sedicenne duca di Gandia: a lui, i sorrisi e gli sguardi davano una ragione di più per sentirsi glorioso. Juan doveva dunque, sposando la cugina del re di Spagna, entrare in una fra le più grandi case regnanti d'Europa: è facile immaginare quanto il Papa gli avesse aperto credito perché le nozze riuscissero splendide. "Abita sotto casa mia, in una bottega," scrive l'informatissimo Giannandrea Boccaccio "un singolare orefice, il quale già da mesi non ha fatto altro che legare gioie in anelli e collane e di qualunque apprezzata sorte. Tutto mi mostrava: infinite

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perle grosse, rubini diamanti smeraldi zaffiri e balasci in perfezione." Ogni cosa per il duca di Gandia: e non solo gioielli, ma pellicce di lince di zibellino di ermellino di vaio, e broccati e Velluti e rasi, e arazzi e cortinaggi e argenterie e tappeti empivano i forzieri alcuni dei quali erano dipinti e istoriati con varie figurazioni compresa quella di Adamo ed Eva. il Papa dirigeva lui la preparazione del corredo, della persona, e, per quanto poteva, dell'animo del figlio. Gli aveva messo a fianco due custodi di sua gran fiducia, don Ginés Fira e Mossen Jayme Pertusa; e in Ispagna lo avrebbe raccomandato alla vigilanza del vescovo di Oristano suo parente. Pena la scomunica, il Pertusa e il Fira avevano l'incarico di sorvegliare da vicino il giovane, e di riferire le sue gesta al padre; e inoltre tutti avevano le orecchie la testa e le tasche colme di istruzioni lunghissime e particolareggiatissime che regolavano la vita di Juan dal momento del suo sbarco in terra spagnola in poi con una minuzia che rivela in Alessandro VI l'umana conoscenza della vita e degli usi spagnoli; nonché la sua saviezza e il suo equilibrio. é chiaro da queste istruzioni che il Papa non si fidava di Juan: troppo insiste, infatti, nella proibizione di uscir di notte, di giocare ai dadi, di toccar le rendite del suo ducato senza il benestare dei suoi consiglieri; e troppo insiste a raccomandargli di trattar bene la moglie e di farle buona compagnia. Accompagnato dai voti orgogliosi e inquieti del padre, il 2 agosto Juan partiva: non era ancora arrivato a Civitavecchia che lo raggiungeva un messo del Papa, latore di una nuova lista di istruzioni, tra le quali quella di attendere minutamente al modo di vestire, di curare la carnagione e i capelli, e soprattutto di mettere i guanti per non levarli più fino a Barcellona: la salsedine guasta la pelle, spiega il preveggente padre, e al nostro paese si fa gran caso delle mani belle. Il 4 agosto Juan si imbarcava su una delle quattro galere che formavano il suo corteggio, e il 24, scortato dai suoi consiglieri e custodi approdò a Barcellona: là erano, la sposa col padre, quel don Enrico Enriquez; cugino del re, "persona sapientissima ed espertissima" che, qualche mese prima, nel marzo, s'era fatto un tal caso di coscienza della moralità papale, che il Datario Giovanni Lopez aveva dovuto scrivergli dal Vaticano una curiosa lettera di giustificazione e di esaltazione del Borgia, smentendo tutte le "sinistre informazioni" e dichiarando: "Il tempo darà ragione di questa gloriosa vita". Persuaso, se non del tutto almeno abbastanza, don Enrico conduceva ora la figliola sedicenne incontro a quello sposo che arrivava, bello, ridente, colme le mani guantate di doni, incarnando davvero per una ragazza il sogno insipido e adorabile del principe azzurro. Il matrimonio avvenne nei giorni che seguirono, a Barcellona, presenti re e regina di Spagna con la loro corte: dopo le nozze gli sposi restarono qualche tempo a Barcellona per passar poi a Valencia e più tardi in Gandia.

Dalla Spagna però arrivarono presto a Roma relazioni pessimiste sui comportamenti nuziali di Juan. Pareva che egli, incurante della sposa al

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punto da non aver nemmeno consumato il matrimonio, la lasciasse sola per andar di notte in giro con alcuni compagni scappati. In più s'era speso in due mesi duemilaseicento ducati d'oro fra giochi e ribalderie, e aveva tentato di mettere mano alle rendite del ducato. Arrivate le notizie al Papa, si può pensare se questi si risentisse: temeva più d'ogni altra cosa, e con ragione, la collera del re di Spagna che non avrebbe certo sopportato il disprezzo di Juan verso la sposa di sangue reale. Con questo timore, e sollecito com'era della vita rappresentativa dei figli, Alessandro VI scrisse il 30 ottobre da Viterba a Juan una lettera piena di grossi rimproveri. Altra lettera gli fece scrivere sullo stesso argomento da Cesare Borgia, aggiungendo nella minuta qualche riga di sua mano; e dallo stesso cardinale fece scrivere anche a don Enrico Enriquez, padre della sposa, una lettera finora sconosciuta, piena di proteste assicurazioni garanzie. Subito Juan rispose lungamente al padre spiegandosi. Aveva avuto, se l'ebbe, un po' di paura per la collera paterna; ma egli chiamò questa paura, angoscia, anzi, "la maggiore angoscia che avessi mai provato". Non riusciva a capire come il Papa avesse potuto prestar fede a "sinistri rapporti scritti da alcuni malevoli contro la verità", quando il suo matrimonio era stato più che consumato come potevano testimoniare l'arcivescovo di Oristano, Mossen Pertusa, Fira, e altre persone di fiducia di Alessandro VI. E del resto non ricordava il Papa che gli erano stati riferiti il giorno e l'ora. magari il minuto, della consumazione del sacramento? Quanto alle passeggiate notturne, queste sì che erano vere, ma non gli pareva d'aver fatto gran male in compagnia di don Enrico suo suocero e parente del re, e di altri "cavalieri e persone probe e molto onorate, passeggiando per la marina come si costuma in Barcellona". Quest'ultima frase, con l'accenno ai costumi della terra nativa, doveva persuadere il cuore spagnolo di Rodrigo Borgia, assai più d'ogni altra scusa: era stata messa lì apposta. "Quello che più mi affanna, è che V. S. abbia prestato credito a cose che non hanno aspetto di verità", aggiunge Juan, e la sua aria di virtuoso calunniato non inganna nessuno, come non ingannò certo nemmeno Alessandro VI; dopo quelle non importava gran che al Papa purché fosse certo che e si conducesse vigorose riprensioni il figlio gli obbedisse da marito, se non buono, regolare.

Altre lettere si scambiavano padre e figlio, quasi sempre l'uno rimproverando, l'altro giustificandosi. Prodigalità senza grandezza, egoismo, e vacua superficialità di giudizio rivelano le lettere di Juan, in contrasto con l'indulgenza paterna, ma illuminata, di Alessandro VI: il quale non riusciva ad essere tranquillo, nonostante le assicurazioni scritte e riscritte dal figlio, e dovette respirare meglio quando nel febbraio 1494 gli venne di Spagna l'annuncio che stava per nascere l'erede del ducato di Gandia. Scomparsi i dubbi, sicuro ormai dell'avvenire di Juan, il Papa si dette con lo stesso zelo a provvedere per il figlio maggiore. Non si poteva avere minor vocazione religiosa di quanta ne avesse, e lo confessava, Cesare Borgia. Ma con il

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fallimento del progetto matrimoniale di re Ferrante d'Aragona, svanita la speranza di evadere dall'ambito della vita ecclesiastica, egli parve accettare la via che il padre gli aveva segnato: quella, o un'altra, l'importante per lui era di trovarsi presto ad un posto di dominio che potesse toglierlo dalla servitù di una situazione mediocre, e dargli modo di orientarsi nel suo cammino; che sarebbe stato fuor dai soliti. Già in quel tempo Cesare doveva far l'esperienza di quanto corresse fra le sue aspirazioni e la realtà avendo imparato da un pezzo a dissimulare e ad aspettare. Perché, avviato fin dall'infanzia per una via che non gli corrispondeva in nessun modo, vedendo che il Papa destinava il potere temporale e la gloria delle armi al fratello Juan del quale conosceva l'inettitudine, Cesare Borgia dovette comprendere, almeno un ventennio prima di quel che lo comprendano gli altri uomini, d'essere solo, e dovette sentir crescere smisuratamente in sé, con la vigoria giovanile, l'arsura dell'ambizione e la freddezza del pessimismo. Rancori e delusioni che andava raccogliendo via via, gli servivano meglio a straniarsi dal mondo, ad oggettivarlo; e così nel silenzio, primo ed ultimo rifugio dei contrariati, si svolgeva quella complicata giovinezza, pervertita forse da sensibile in crudele, e mostruosamente illuminata da una chiaroveggenza troppo precoce. Cesare ebbe in sorte di sapere tutto e troppo presto di suo padre, delle grandi e calorose debolezze, delle passioni familiari che s'accendevano nel petto di Alessandro VI: e questa seconda vista che gli dava a conoscere come avrebbe potuto infallibilmente prevalere, fu per lui di natura perduta diabolica. La solitudine gli piacque, gli servi da fortilizio: ci si calò dentro, con il coraggio disumano di bastare a sé. votato alla sua idolatria del potere.

Pure, a quest'anima ardita che credeva di meritate il premio di un trono, era contrastata anche la porpora cardinalizia perché una legge antica la vietava ai bastardi, e fossero pure di sangue reale. Tra fatti ed intenzioni, si venne ad un accomodamento. Nella bolla di legittimazione di Sisto IV, Cesare era chiamato figlio di vescovo e di donna maritata; e poiché i figli di donna maritata appartengono giuridicamente al marito di lei, si provò che Cesare aveva per padre un Domenico d'Arignano ufficiale della Chiesa, in quei tempi marito di Vannozza. Proclamato Cesare legittimo, il Papa fece stendere una bolla che gli toglieva il difetto di nascita, e gli concedeva di portare, per propria benevolenza, il nome dei Borgia: nello stesso giorno però, il settembre 1493, con un procedimento che doveva rinnovare qualche anno dopo, Alessandro VI firmava un'altra bolla, destinata a rimanere segreta, per rivendicare a sé la paternità di Cesare. Proprio da questi documenti è partita l'indagine sulla successione delle nascite dei due fratelli: perché nella seconda bolla, Alessandro VI asseriva che, dopo la morte dell'Arignano (avvenuta sul finire del 1474 o al principio del 1475), essendo Vannozza rimasta vedova, gli era nato da lei Juan, dando da concludere che Cesare fosse il maggiore e Juan il minore. Altre prove attestano la

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primogenitura di Cesare: una bolla di Sisto IV che dà a Cesare, nel 1480, sei anni: un breve di Innocenzo VIII del 1484 che gliene attribuisce nove: la testimonianza dell'umanista tedesco Lorenzo Behaini che fu maggiordomo di Alessandro VI fino alla sua assunzione al papato, e che alla morte di Cesare nel marzo 1507 lo dice vissuto trentuno anni e mezzo. Infine, la testimonianza dello storico spagnolo Zurita che racconta come Cesare stesso, nel concistoro del 1498, affermò essere stato il fratello Juan minore di lui.

Questo dato di fatto è un punto di fuoco per la storia di Cesare Borgia. Si dovrà riconoscere una ragione ferocemente logica alla sua impazienza, declinante poi nell'odio verso colui che gli rubava anche i diritti della primogenitura, rastrellando per sé tutti i benefici terreni dei quali poteva disporre il Papa, Chi conosce qualche cosa della vita, sa che in una comunità familiare nulla s'incide malignamente nell'animo dei figli maggiori come vedersi preferiti i minori, specie se la preferenza è mal posta. Finché c'era stato Pedro Luis le cose erano tornate giuste: al primo dei nati dal Borgia il feudo principale della famiglia, al secondo il potere ecclesiastico, al terzo come al quarto, un avvenire in minore, da cadetto, ma il sovvertimento delle cose, avvenuto dopo la morte di Pedro Luis e che portava in primo piano un inetto> doveva essere insoffribile a Cesare e dare fiamme alla sua gelosia. Già anche la bolla che lo faceva figlio dell'oscuro Arignano doveva cuocergli, all'orgoglioso. Quando le cose furono pronte, il Papa riunì all'improvviso il concistoro il 18 settembre con i pochi che si trovava vicini, e fece approvare per prima cosa il processo di legittimazione di Cesare: figurarsi se qualcuno avrebbe potuto opporsi; e chiusa questa parentesi, con la sua voce sonora e con la più amabile grazia pontificia che sapesse spiegare annunciò: "Signori Cardinali, disponetevi e preparatevi: dopodomani che è venerdì, vogliamo eleggere i nuovi cardinali". Tutti s'inchinarono: sembrava difficile discutere una proposta che era un ordine ed aveva un tono tanto naturale; pure, il cardinale Carafa si alzò e animosamente chiese al Papa se avesse ben considerato l'utilità di queste nomine. Tale utilità, rispondeva il pontefice, spettava a lui solo valutare; e rimase fedelissimo alla sua idea, per nulla scosso dalle proteste che i più coraggiosi ebbero modo di fare, fermi nel dichiarare che non volevano per compagnia cardinali "di quella sorte che voleva il Papa". "Mostrerò loro chi sia Alessandro VI" diceva poi il Borgia irritatissimo, parlando di quegli oppositori, e "se persevereranno, farò per Natale tanti cardinali nuovi a loro dispetto quanti mi sarà possibile, e per questo non mi cacceranno da Roma." Minacciato il riottoso collegio, si venne poi alle nomine, con la sparuta schiera dei cardinali presenti: e, approvato da soli undici voti, fu eletto un manipolo di porporati, a capo dei quali stava Cesare Borgia, seguito da Alessandro Farnese fratello di Giulia, da Ippolito d'Este di Ferrara, dal Lunati di Pavia, dal Cesarini, da un francese da uno spagnolo e da qualche altro, in tutto tredici, buon rinforzo al potere del Papa

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e indebolimento sicuro dei cardinali vecchi: questi ultimi, specie quelli che si erano astenuti dal viaggio a Roma protestarono che non avrebbero mai riconosciute le nuove nomine per legittime: invece, forzati, e non potevano farne a meno, a riconoscere il figlio del Papa, dovettero di conseguenza riconoscere anche gli altri cardinali nuovi: e piegarsi così in tutto al volere di Alessandro VI.

Per re Ferrante, alle più felici speranze dell'estate erano seguiti giorni grigi. Insonne, il vecchio re cercava di capire qualche cosa nel sommosso flusso del pensiero politico del Papa; e, sebbene sapesse che l'ambasciatore di Carlo VIII venuto di Francia a Roma a chiedere l'investitura del regno napoletano per il suo re era stato mandato indietro a mani vuote, pure si inquietava della buona intesa che gli pareva regnasse fra il Papa e gli Sforza. Ascanio era sempre potente, il suo declino, benché già avvertibile, non poteva ancora apparire ad occhi lontani dal Vaticano. il re di Napoli aveva sollecitato il suo ambasciatore perché offrisse in suo nome al pontefice doni e privilegi per jofré,, quando fosse venuto a Napoli a sposare donna Sancia; ma l'ambasciatore aveva un bel presentare elegantemente le proposte: riceveva parole. Per di più, Cesare Borgia, che tutti chiamavano Valentino o addirittura Valenza, dal titolo del suo arcivescovato di Valencia, si metteva in relazione diretta con il capitale nemico di Napoli, Carlo VIII; e la fortuna di casa Sforza pareva accrescersi smisuratamente per le nozze di Bianca Maria Sforza con l'imperatore Massimiliano d'Austria. Fra tante notizie buie, il re di Napoli se ne moriva "sine luce sine cruce sine Deo" dice il Burcardo: certo, sconsolatissimo.

A Ferrante d'Aragona vizioso e violento, ma che aveva in sé qualche cosa di splendido e di fatale come un re maledetto, e lasciava fiorire in mezzo ai suoi vizi l'amore delle arti e delle lettere, succedeva il figlio Alfonso, duca di Calabria, assai più rozzo e grossolano di suo padre, e di una ferocia senza magnanimità. Il Regno di Alfonso II non fu cattivo: d'improvviso, Alessandro VI gli fu favorevole e prometteva ampiamenti a tutti i suoi figli. Dal Vaticano partirono pure, l'inizio del giorevole. Preso al laccio dagli immensi benefici del il nuovo re, diede due ordini: uno al cardinale Giovanni Borgia, che andasse a Napoli portando la bolla pontificia d'investitura per il nuovo re e lo incoronasse a nome del Papa; l'altro a Jofré, che si avviasse a sposare la sua principessa. Partirono: il piccolo Borgia era accompagnato da Virginio Orsini capitano generale delle truppe aragonesi e dall'intera sua nuovissima corte a capo della quale stava don Ferrando Dixer con la carica di governatore. A lui il Papa aveva affidato, oltre la tutela del figlio, una cassetta di gioielli per Jofré ed una per la nuora. Sancia d'Aragona, è facile capirlo, non poteva essere contenta, e le sue consolazioni venivano, se mai, dal ragionamento: si guardava allo specchio i suoi sedici anni che splendevano di una bellezza già famosa: bruna in volto e di capelli neri, i

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suoi occhi glauchi dovevano essere di quei chiari occhi meridionali che si aprono sotto le ciglia ombrose con un tale potere di evocazione fatata, da far pensare al mare di Capri sotto gli scogli violetti. La madre di Sancia, una napoletana di famiglia nobile, madonna Tuscia o Trusia Gazullo, aveva avuto da re Alfonso questa figlia e un maschio anch'egli bellissimo, Alfonso, allevati come figli legittimi in casa reale. Con tanto bulicame di sangue nelle vene, Sancia si sentì tutta agghiacciare al pensiero di quello sposo che le mandavano da Roma: che cosa può rappresentare un bambino di tredici anni per una donna di sedici, e di quei sedici anni? Senza osare ipotesi da romanzo, ci si potrebbe qui domandare se Sancia avesse conosciuto Onorato Caetani che era stato il suo primo fidanzato: e certo, anche se non lo aveva amato, si era abituata al pensiero di sposare un uomo valido, non un bambino. Da pensieri disillusi Sancia poteva passare a pensieri ambiziosi, e poiché questi contavano poco per una donna come lei, a pensieri segreti di rivalse: e qualche cosa le avranno potuto suggerire i consiglieri o le consigliere che non mancano mai presso le persone potenti, se non gliela suggeriva, e meglio, il suo senso sveglio delle cose, Il piccolo Jofré mandato ad incontrare da Federico d'Aragona e dal fratello di Sancia il quattordicenne Alfonso, si presentò e la sua ardita adolescenza non dovette fare cattiva impressione nemmeno alla mal disposta Sancia: fu accarezzato da tutti, messo alla pari con gli altri principi reali, e il 7 di maggio 1494 chiamato alle nozze in Castel Nuovo, presenti il re, il principe Federico zio della sposa, il cardinale di Monreale, dodici donne e donzelle di Sancia e pochi nobili. Alla domanda rituale del vescovo di Tropea il ragazzino rispose con infantile precipitazione da far sorridere; ma si sorrise poi di ammirazione quando comparvero i regali presentati da don Ferrando Dixer: collane di perle perfette, un gioiello di rubini di diamanti di grosse perle oblunghe, e una fila di anelli, quattordici, di diamanti di rubini di turchesi, ogni specie di pietre preziose; e poi, pezze di broccato d'oro, di velluto e di seta, e ornamenti scelti da chi se n'intendeva. Sancia, alla vista dei begli oggetti, dovette sentirsi risvegliare un genio allegro e ottimista: nulla le piaceva come apparire bene in una festa ed eccitare passioni o desideri; e sapeva che feste ne avrebbe avute a volontà, prima fra tutte l'incoronazione di suo padre. Proprio una cerimonia fastosa: l'immaginazione più corrotta nell'amore del simbolo non potrebbe trovare tanti riferimenti eroici gloriosi e cavallereschi, né dare ad ognuno di essi maggiore onore ed importanza di quanto fosse d'uso alla corte aragonese. Tutti gli oggetti dell'incoronazione uno per uno, corona bacile scettro spada, avevano un proprio cerimoniale che al Burcardo, venuto a Napoli al seguito del cardinale Borgia, non parve vero di trascrivere e descrivere con una quasi lirica pedanteria. Alfonso II fu unto e consacrato re in Vescovado con tutta la solennità e tutti i riti; poi, pubblicate le indulgenze concesse dal Papa, ascese al trono preparatogli presso l'altare maggiore, e, al suo fianco, un gradino più in basso, sorse la figura dei Pontano, coronata di capelli candidi su fronte serena, a pronunciare il

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discorso regale che un araldo trasmetteva parola per parola, scandendo le sillabe, alla folla.

L'11 maggio avvenne la cerimonia religiosa delle nozze di Jofré: Sancia fu condotta all'altare dal padre, nella cappella reale di Castel Nuovo dove il vescovo di Gravina disse la messa che non era affatto semplice. Una delle cerimonie era questa: il vescovo dopo essersi comunicato baciava sulla bocca il diacono, il diacono passava il bacio allo sposo, e lo sposo alla sposa. Finite messa e benedizione, si andò ad un concerto di "musica singolare e di tutta perfezione" poi ad un lungo pranzo; e, infine, riscaldati gli spiriti e venuta la sera, jofré andò ad aspettare la sposa nella sua nuova dimora che era a pochi passi da Castel Nuovo; e con lei, giunta poco dopo in compagnia del re e del cardinale Borgia, salì alla camera nuziale.

Qui, donne e donzelle, la corte femminile di Sancia, stavano preparando lo scenario della cerimonia notturna: le loro mani svestirono non solo Sancia ma anche jofré e li coricarono insieme nel letto, scoprendo loro il petto fino alla vita, come era prescritto dal cerimoniale. Entrati a questo punto il re e il cardinale di Monreale, uscirono le donne, e i due alti personaggi si spassarono, secondo il costume dell'epoca, a burlare gli sposi e ad ammirare come "il principe stava grazioso e animoso... che avria pagato una bella cosa perci gli altri lo avessero visto come l'ho visto io". Raccontava così il cardinale Borgia. Mancava poco all'alba quando, benedetto il talamo novello, re e legato sotto una gran pioggia lasciarono il palazzo. Un altro sposo di casa Borgia, il conte di Pesaro, cominciava in quei tempi a vivere inquieto. Due mesi di commedia matrimoniale dovevano essergli sembrati lunghi a passare, se aveva preso tanto volentieri la scusa della peste che girava per Roma nell'estate del 1493, per chiedere al Papa licenza di tornare al suo lido adriatico: e poco dopo, il 2 o 3 agosto partiva, lasciando Lucrezia sola nel palazzo di Santa Maria in Portico. E l'avventura borgiana aveva già l'aria di tornargli male almeno economicamente, se nei primi giorni del settembre chiedeva al suocero un anticipo di cinquemila ducati perché, insomma, gli era forza pagare ai mercanti le spese fatte nei preparativi di nozze. Ricevuta questa lettera, il Papa ne aveva fatto argomento di lunghi discorsi col cardinale Sforza, "super boc ad longum loculi sumus cuin dilecto filio nostro Ascanio" scrive egli stesso al genero il 15 settembre 1493; ed avevano insieme stabilito che verso il 15 ottobre, quando l'aria sarebbe stata più leggera e salubre, il conte di Pesaro sarebbe dovuto venire a Roma per consumare il matrimonio con sua moglie Lucrezia: "Convenimus quod, postquam X aut XV die futuri mensi . sociobris, quando aer erit frigidior et salubrior, ad nos venturus es pro totali consumatione matrimoni cum eadem uxore tua". Allora, gli sarebbero stati pagati, non cinquemila, ma tutti i trentamila ducati della dote, e, in più, il Papa avrebbe provveduto nel modo migliore al suo appannaggio. Che rispondesse subito. Il pontefice stesso

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dunque a dirci nel suo breve che tra Lucrezia e il marito sino a quel momento non c'era stata "la copula". Perché? Certo qualche cosa in queste righe che sembrano così limpide fa pensare: senza contare che per informare lo Sforza della possibilità di un matrimonio effettivo sarebbe bastata un'ambasciata più discreta, magari segreta, e ammettendo che Alessandro VI volesse di proposito dare al ritorno del genero un significato di riconoscimento ufficiale del suo grado di marito, l'assicurazione del pagamento totale pare messa lì con un tono di lusinga come se si trattasse di un allettamento, di un premio. E peggio fu quello che seguì: l'invito così esplicito, e al quale un uomo appena desideroso di chiarire la sua posizione, anche soltanto per obbligo umano, avrebbe immediatamente consentito, non fu ascoltato dallo Sforza, che seguitò a starsene a Pesaro per tutto l'ottobre, e che solo dopo il 10 novembre si metteva in cammino per Roma, i familiari del Vaticano sapevano benissimo, allora, che lo Sforza veniva "a far reverenza alla Santità di N. S., e ad accompagnarsi in tutto con la sua consorte", ma di questo "accompagnarsi" nessuno dà conto. Era, si capisce, festa intima: non tanto festa però per lo sposo, se, dopo Natale, tornò ancora a Pesaro, e solo alla fine di gennaio si decise a metter fine ai suoi andirivieni e a stabilirsi nel palazzo di Santa Maria in Portico, vicino alla moglie. Potevano già andare in giro ambigue ombre ad inquietare Giovanni Sforza. E lui non si sentiva sicuro, soffriva di essere un pavido immesso in un'epoca e in un ambiente nei quali occorreva coraggio perfino a respirare. Fra il timore del Papa e il timore dei suoi parenti di Milano, tremando ad ogni vento di discordia, respirando ad ogni atto di amicizia che si muoveva fra loro, con la scarsa autorità di un principe consorte, autorità che egli non aveva nemmeno l'arroganza di imporre e di sostenere, la sua posizione che poteva parere splendida era assai meschina. Taceva, non avendo forza di ribellarsi; e come tacesse appare da un episodio inedito che rivela lo stile dell'uomo.

Fra quelli che lo Sforza si prendeva il lusso di patrocinare con il potente aiuto di Lucrezia, c'erano i Gonzaga di Mantova, fratelli della sua prima moglie, Maddalena Gonzaga, pervicaci nella caccia al cappello cardinalizio per un loro, il protonotario Sigismondo. Appena i Gonzaga certi che Giovanni Sforza si era stabilito a Roma, no un inviato, Giorgio Brognolo, a sollecitare dal signore di Pesaro l'appoggio delle loro pratiche. Protetto "gagliardamente" dallo Sforza, l'inviato mantovano venne ai piedi del Papa a perorare con più calore che poté la causa del protonotario. Blandamente, il Papa prometteva; facendo intanto dire dal datario, Giovanni Lopez, frasi allusive all'erario esausto e alla guerra imminente per le quali appariva esservi bisogno di ben altro che di chiacchiere. Fra una pratica e l'altra si cercava di tirare avanti la faccenda, all'insaputa di Ascanio Sforza per il quale la riuscita del Gonzaga sarebbe stato "il coltello nel cuore".

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Ma un giorno, il conte di Pesaro chiamato all'improvviso dal cardinale milanese, si sente rovesciare sul capo una pioggia di rimproveri e di rabbiosi sarcasmi. Ascanio non sa persuadersi che il cugino gli sia sfuggito ed abbia adoperato quel po' di potenza che gli viene d'acquisto a favore dei Gonzaga "nemici di casa nostra". Scuoterlo, cavargli di bocca i perché e i come, e confutarli, sarebbe già diverso dal vedersi Il davanti un uomo impaurito che parla e si giustifica debolmente da sciocco. Non che Ascanio sopravvalutasse il parente di Pesaro, ma il momento era per gli Sforza così pericoloso, da stringerli a stare uniti e vigilanti nelle loro difficili posizioni. "Si trova tanto occupato ed affannato di mente e d'animo per le grandi cose che si trattano al presente... che non ha né tempo né capo..." scriveva in quei giorni Giannandrea Boccaccio del cardinale Sforza ed aggiungeva:

"Gli ho gran compassione e c'è da averne certamente... io mi meraviglio che possa resistere". Preso in mezzo a tanti affanni, Giovanni si ebbe dunque la raffica di "crudeli parole" che si meritava, e che lo lasciò sgomento: crescendogli lo spavento, l'incauto signore di Pesato andò a far la spia di questa scenata al Papa, con mille suppliche di non farne parola ad Ascanio, "Quell'Ascanio è un mai uomo, e tutto il mondo non lo contenterebbe", commentò Alessandro VI, licenziando il genero con buone promesse: non aveva intenzione di mantenerne nemmeno una.

Tornando a Lucrezia, sarà forse questo il momento di osservare che fra tutte le avventure umane quella del matrimonio è la meno indagabile, e perciò la più misteriosa. Fra due amanti, le relazioni sono, almeno essenzialmente, dichiarate, scoperte; ma fra marito e moglie si stabiliscono nel segreto dell'alleanza coniugale, e possono essere complicate da infinite ragioni, interesse, orgoglio, pudore, ombrose vergogne e tenerezze. Chi saprebbe dire ciò che avveniva fra lei e il marito? Più tardi, qualcuno affermerà che il loro accordo pareva indubbio, e si riferiva alle manifestazioni di onore che Lucrezia faceva pubblicamente al marito. Ma quali che fossero le sue notti di sposa, le giornate della contessa di Pesaro erano gremite di feste di conviti e di cerimonie. Il palazzo di Santa Maria in Portico chiudeva fra le sue mura quattrocentesche una corte attivissima e intrigante dove convenivano ambasciatori e gentiluomini inviati da principi per trattare affari: "La maggior parte di coloro che vogliono conseguire grazia dal Papa passa da questa porta" diceva un relatore. Lucrezia possedeva le sue cassette piene di suppliche e di memoriali, e immaginiamo che Adriana e Giulia avessero le loro. Le tre donne sgranavano i loro giorni in comune di buon animo, godendo senza rivalità i favori del pontefice, il quale non le dimenticava mai e spartiva con loro i doni di cose prelibate che arrivavano in Vaticano: nella quaresima del 1494, ad esempio, carpioni e formaggi del mantovano mandati dai Gonzaga furono divisi dal Papa fra Cesare Borgia e le donne;

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Giulia e Lucrezia si ebbero due forme di formaggio per una. A Lucrezia era lecito anche accettare doni di maggior valore, perfino gioielli: non così a Giulia, che, per un certo rispetto formale di dignità, il Papa non voleva fosse considerata palesemente come la sua favorita: anche le suppliche non erano mandate a lei direttamente, ma passavano per mano di Adriana Mila che si fingeva fosse l'intermediaria. A Santa Maria in Portico, Giulia abitava con Lucrezia e con la suocera Adriana, avendo con sé la figlia Laura, di due anni, che si diceva nata da Alessandro VI, e per la quale si disegnavano già alleanze matrimoniali, nella speranza che il Papa pensasse a dotarla riccamente. In quel tempo la bellezza di Giulia era già di leggenda. Lorenzo Pucci, suo cognato, in una lettera al fratello Giannozzo, racconta: "Andai in casa di Santa Maria in Portico a veder madonna Giulia; la trovai che s'era lavato il capo, ed era insieme con madonna Lucrezia figliola di Nostro Signore, con madonna Adriana accanto al fuoco... Madonna Giulia si è ingrassata e fatta bellissima: in mia presenza si scapigliò e si fece acconciare i capelli, i quali gli andavano insino ai piè, ed ha i più belli; e si abbigliò con un cuffione di rensa e con una certa rete sottile come fumo con certi profili d'oro che invero pareva uno sole... Aveva un fodero addosso alla napolitana e così madonna Lucrezia, la quale dopo un breve intervallo andò a cavarselo e tornò poi con una veste foderata quasi tutta di raso pavonazzo".

A metà del 1494 la tribù delle donne si preparava a lasciare Roma per accompagnare Lucrezia nel suo dominio di Pesaro. Giovanni Sforza viveva nell'ansia per la politica napoletana e cioè antimilanese ed antifrancese che il Papa mostrava di voler seguire. Pareva indubbio che Alessandro VI si mantenesse fedele a re Alfonso, e cercasse come meglio poteva di convincere il re di Francia ad abbandonare l'idea della conquista di Napoli. Carlo VIII aveva invece tutt'altri progetti, e già nel marzo aveva scritto al Papa essere sua ferma intenzione venirsene in Italia alla conquista del regno napoletano: allora avrebbe alloggiato, addirittura "domesticamente" in Vaticano. Alessandro VI cercava ancora con abili ambascerie di arginare queste imperative volontà quando era accaduto il fatto nuovo e definitivo: Giuliano della Rovere, abbandonati il partito napoletano e gli aragonesi, e passato alla causa francese per opera di Ascanio Sforza, aveva lasciato la sua fortezza di Ostia e si era imbarcato per raggiungere la sua legazione di Avignone, e cioè per andare in Francia. Il passaggio del Della Rovere dal partito napoletano al partito milanese, e la sua andata alla corte di Carlo VIII, furono decisivi: quel re vide chiaramente, nelle imprudenti parole del cardinale savonese, quali facilità di conquista gli si offrissero, quali disordini fossero in Italia, quali insanabili debolezze nel regno di Napoli, e diede ordine di radunare l'esercito. Da parte sua, il Papa si preparava a resistere; e proprio i preparativi guerreschi sgomentavano l'animo del genero, che sentiva, nonostante le continue assicurazioni del suocero, il suolo di Roma

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sfuggirgli sotto i piedi. Che la paura dia ai timidi vampe di temerarietà è risaputo: mosso dai propri impulsi Giovanni Sforza sale ogni giorno in Vaticano, né si stanca di chiedere con lo sguardo e con la voce che cosa sarà di lui e della sua famiglia nel conflitto che già si annuncia, e come potrà cavarsela, parente e capitano stipendiato dai signori milanesi, e genero del Papa: tanto si lagna della situazione, che un giorno Alessandro VI, spazientito da tanti interrogativi, gli risponde accusandolo di voler prevenire le sue decisioni. Giovanni tace, ma, il temporale francese avanzando, egli soffre tutte le angosce lontano dal suo guscio pesarese: finché, forse per consiglio di qualcuno più furbo di lui, ricorre ad una finta, cambia discorso, convince il Papa che è arrivato il momento di far conoscere ai pesaresi la loro contessa, la signora desiderata e attesa dal suo popolo. Ragione troppo lusinghiera e legittima perché il Papa non l'accolga subito, tanto più che la peste faceva nuove stragi per la città. Lucrezia ebbe dunque il permesso di partire, ma non sola: l'avrebbero accompagnata Giulia Farnese e Adriana Mila, sia perché Pesaro non le sembrasse terra d'esilio, sia perché anche le altre donne stessero lontane dal contagio, sia per altri motivi che coincidevano con questi e li rafforzavano. Una corte numerosa di fanciulle e di donne le seguiva; fra esse Lucrezia Lopez figlia del datario, e la spagnola Juana Moncada, quest'ultima addetta specialmente a Giulia Farnese. Il Papa salutò le sue donne teneramente; ma il colloquio più importante e complice lo ebbe con Adriana, con la quale concertò le istruzioni per il viaggio, e quelle per l'epoca e i modi del ritorno, che sarebbe dovuto avvenire dentro il mese di luglio. Il 31 di maggio le tre donne col loro corteggio partirono da Roma. Il viaggio della comitiva fu lungo, ma non certo noioso dati i caratteri della vivida Giulia, della festosa Lucrezia e della fervida Adriana. Per le campagne dell'Umbria e della Marca, la cavalcata arrivò alla selvosa Fossombrone, terra di quel ducato d'Urbino dove splendevano la mite stella umanistica di Guidobaldo di Montefeltro, e l'araldica e pallida bellezza di sua moglie Elisabetta Gonzaga. Né i duchi, né i loro familiari andarono incontro alla figlia e al genero del Papa temendo forse dell'epidemia romana, ma fecero preparare dai loro sudditi cortesi accoglienze. E l'otto di giugno, la quattordicenne contessa di Pesaro entrò nella città di suo marito apparecchiata a trionfo, e stipata da un popolo curioso che si riprometteva da questa donna possente grossi privilegi. Fu una giornata disgraziatissima: una pioggia di primavera, tutta rabbuffi e ventate, si riversò sulla cavalcata spegnendo lo scintillio dell'oro e dell'argento, scomponendo la bella eleganza delle acconciature. Fra un'acquata e l'altra passano in fretta, bagnate e tremanti, la contessa, le donzelle, il seguito: viene giù qualche fiore, le poche corolle subito color di fango, danno la malinconia dei sacrifici senza gloria. Arrivate al palazzo, la sposa si chiude in camera, fa accendere camini, aprire forzieri; fra la confusione e l'umidità, "per questa sera non si attese ad altro che ad asciugarsi" scriveva l'indomani Giovanni Sforza al suocero. Non importa: il giorno dopo c'è sole chiaro e lavato, le donne hanno nell'animo la

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frenesia leggera delle vacanze, accettano tutto un programma di balli, di rappresentazioni, e si divertono a sbalordire quel pubblico di provincia col lusso delle loro vesti. Alle feste verrà Caterina Gonzaga di Montevecchio, superba della sua discendenza e celebre per la sua bellezza: le nobili del paese non si temono, ma questa lombarda impensierisce Giulia e Lucrezia. Che debbano dividere con lei gli onori del trionfo? Le due giovani donne cercano le vesti più ricche, si acconciano "alla pontificale", si consigliano, si ammirano aiutate da Adriana, che, lei, è fuor di gara. Quando Giovanni Sforza viene a prenderle, anch'egli indossando un vestito di tessuto prezioso, che allegria guardarsi tutti e tre e sentirsi brillare gli occhi nel presentimento del successo. Soddisfatta, Giulia notava nel suo vivace linguaggio dialettale: "Pareva che avessimo spogliata Fiorenza di broccati, e tutti li circostanti stavano spantati [stupefatti". La festa era affollatissima, le nobili donne del paese furono presentate, si avanza la Gonzaga, Lucrezia e Giulia fingono mondano e ridente interessamento mentre la esaminano e la analizzano tra un discorso e una danza. Bella? Lucrezia sorride fra sé, e guarda Giulia che le risponde accennando appena; e il giorno dopo, Lucrezia scrive al Papa descrivendogli "le bellezze" di Caterina: è alta, sovrasta Giulia di ben sei dita, ha bella e candida carnagione, bella persona bella mano, ma "ha brutta bocca e denti bruttissimi, occhi bianchi e grossi, il naso più brutto che bello, la faccia lunga, brutto colore di capelli, ed ha molto cera da uomo, ha buono ed accomodato parlare; io l'ho voluta veder ballare, della qual cosa non mi ha molto soddisfatta; in fine, in ogni cosa è minore della fama sua".

Quanto agli spettatori, ressa Lucrezia per il suo rango al posto d'onore, essi si battevano chi per la romana chi per la lombarda. E a questa battaglia di corte dobbiamo un ritrattino di Giulia, del tutto inedito e preziosissimo perché ce la dipinge nel suo tipo di bellezza con i suoi precisi colori. Lo ha tramandato fino a noi un dottore apostolico, un po' umanista come tutti in quel tempo, Jacopo Dragazio; il quale, dopo le feste di Pesaro, mandava da San Lorenzo nelle Marche una lettera a Cesare Borgia "patrono" suo, narrandogli i particolari della battaglia mondana. E diceva fra l'altro: "Un colorito bruno, occhi neri, viso rotondo e un certo ardore (quidam ardor) ornano Giulia" a riscontro della candidezza e degli occhi azzurri della Gonzaga. Un'altra lettera mandava nello stesso tempo Giulia a Roma, con un indirizzo un poco troppo frivolo per un pontefice: "Al mio unico signore". Narra anche lei le feste e i ricevimenti con un'aria di modestia capziosa piena di civetteria. Il Papa, assicura Giulia, stia tranquillo, la sua Lucrezia è benissimo maritata e si comporta a meraviglia, Pesaro è città ancor più civile di Foligno, tutti sono affezionati allo Sforza: di continuo si balla si canta si suona e si va in maschera. Ma non creda, Sua Santità, che per questo lei, Giulia, ed Adriana, siano in letizia: ahimè, "essendo assente da Vostra Santità, e dipendendo da quella ogni mio bene ed ogni mia felicità, non posso con nessuno mio piacere e soddisfazione gustare tali piaceri perché

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dove è il mio tesoro, è il cuore mio". Citando una frase del Vangelo di Luca, Giulia sentiva nelle parole sacre il profumo inebriato degli incensi. "Tutto è burla se non stare ai piedi di Vostra Santità, e chi dicesse il contrario saria ben baggiano" prosegue. E più realisticamente: non le dimentichi, Sua Santità, dopo averle confinate tanto lontano, e le faccia tornare presto; e scriva qualche volta e si ricordi di quanto lei gli è serva "fedelissima". Giulia conclude, ringraziando il Papa dei nuovi favori accordati al cardinale Farnese suo fratello. Poi, "per non tediarlo", ella lo lascia. Altro che tediarlo: Alessandro VI risponde, di fuoco, che le lettere di lei quanto più sono lunghe e prolisse, tanto più gli sono grate per mettervi più tempo a leggerle: queste parole, che a vent'anni tutti hanno scritto o ricevuto, gli uscivano dalla penna a sessantadue. Anche Giulia aveva mandato la descrizione della Gonzaga in un'altra lettera che non è arrivata fino a noi; ma se, da maliziosa, ella aveva fatto soltanto lodi della rivale, il Papa, capita la civetteria, le rispondeva: "Nel diffonderti a narrare le bellezze di quella persona che non sarebbe degna di scalzarti le scarpe, conosciamo che ti sei portata con gran modestia e sappiamo perché l'hai fatto: perché essendo tu informata che ognuno che ci ha scritto dice che quando tu le eri apresso lei pareva una lucerna vicino al sole: facendola tu assai bella, noi comprendiamo la perfezione tua; della quale veramente mai ne siamo stati in dubbio, e vorremmo che così come noi conosciamo chiaramente questo, così tutta tu fossi destinata e senza mezzo, e dedicata a quella persona che più di ogni altra ti ama. E quando avrai fatto questa deliberazione, se fino ad ora non l'hai fatta, ti conosceremo non meno savia che perfetta". Amore e gelosia, dunque: quale fosse il rivale che impediva al Borgia di possedere "tutta e senza mezzo" Giulia, non è detto; ma per gli sviluppi che ebbe poi questa storia, si può pensare, quasi con certezza, che fosse il marito di lei, quell'Orsino Orsini, confinato in un esilio per nulla rassegnato a Bassanello. "Orsino ancora raccomando alla Santità Vostra" scriveva proprio in quei giorni, sempre da Pesaro, Adriana Mila, ricordandosi alla sfuggita di quel figlio sacrificato mentre protestava di non pensare che a vivere sotto l'ombra del Papa. E compiva l'ufficio di informazioni un intimo borgiano mandato apposta dietro alle donne papali, Francesco Gaget canonico di Toledo, che sapeva molti segreti vaticani, e che aveva anche assistito alle nozze di Giulia con Orsino Orsini. Il Gaget, oltre ad essere compiacente come la sua funzione richiedeva, era svelto, acuto, abile nell'arte di diPanate con l'esercizio della logica i capricci ed i grovigli femminili, pur restando di qua dal rispetto e dalla considerazione. E si capisce che le donne facessero di lui gran caso: "Per conoscerlo affezionatissimo schiavo di Vostra Santità, ed anche per le virtù e di portamenti che fa verso di noi lo raccomando quanto posso a Vostra Beatitudine perché riconosca la sua ferventissima servitù con fargli qualche bene", scriveva premurosa Lucrezia al padre. E Giulia: "Si porta [il Gaget1 tanto bene e con tanta diligenza che in vero non sarebbe possibile a dirne tanto quanto in effetto è, sì che la Santità Vostra l'abbia per

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raccomandato, che San Gerolamo non credo fosse meglio di lui d'onestà". Se il Gaget era un San Girolamo, Giulia non esitava a scegliere lietamente per sé l'aureola di Santa Caterina. Ed eccola infatti assicurare al Papa: "Poiché la Santità Vostra mi scrive esortandomi a far quello che è il mio debito, di attendere all'onestà, non faccio risposta a lungo, perché di tal cose voglio che l'effetto sia quello che risponda, sicché sia certissima la Santità Vostra che io si per l'onor mio sì per amore Vostro, la notte e il dì non penso ad altro che a mostrar d'essere una Santa Caterina, se possibile". E qui il condizionale è savissimo.

Il Gaget faceva dunque da informatore e da relatore del Papa: peccato che le sue lettere siano quasi tutte smarrite. Al Borgia le notizie non parevano mai bastanti; egli non scriveva biglietto senza lagnarsi della trascuraggine e del pigro ricordo che mostravano aver di lui le donne: si può immaginare che tempesta si levò, quando, alla fine del giugno 1494, fu diffusa per Roma la notizia di una mortale malattia di Lucrezia. Alessandro VI, tremando per tutte le sue sensibili fibre paterne, mandò di volo missive ed ambasciate a Pesaro, finché a rassicurarlo non giunse una lettera autografa di Lucrezia con il racconto del male che aveva sofferto. E il Papa subito a risponderle caldamente: "Donna Lucrezia, figliola carissima: veramente tu ci hai dato quattro o cinque dì dolorosi e pieni di grave affanno per le cattive e acerbe novelle che sono state divulgate per tutta Roma che tu eri morta, ovvero caduta in tal infirmità che nessuna speranza si aveva della vita tua. Puoi pensare quale dolore sentiva lo animo nostro per il cordiale ed immenso amore che ti portiamo quanto a persona in questo mondo, e fin a tanto che abbiamo visto la lettera che ci hai scritto di propria mano mai siamo stati con la mente riposata. Ringraziamo a Dio e a la gloriosa Nostra Donna che ti abbiano scampata da ogni pericolo e sii certa che mai staremo contenti finatanto che personalmente ti abbiamo visto".

Per affrettare questo ritorno a Roma, e per sistemare gli affari dello Sforza che volgevano al peggio, Alessandro VI propose alla figlia che il conte di Pesaro lasciasse il servizio dei milanesi i quali erano poco puntuali nel pagamento e sempre meno lo sarebbero stati nel futuro procedendo la guerra contro re Alfonso di Napoli alleato della Chiesa. Prenda dunque il comando di una schiera d'armati napoletani e l'avverta subito delle sue decisioni. Era un brutto momento per il signore di Pesaro: dipendeva in tutto dal Papa come feudatario e come genero; ma, e il Papa non ne aveva probabilmente un'idea abbastanza precisa, si sentiva intimamente legato ai suoi parenti milanesi né poteva risolversi ad abbandonare la loro causa. Fra queste alternative, lo Sforza non seppe decidere che una cosa indegna: accettava cioè il comando di un reggimento napoletano con il soldo relativo, e nello stesso tempo cominciava il giuoco pericolosissimo di informare gli Sforza milanesi sulle forze e sulle mosse dell'esercito nel quale militava: più

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che spionaggio, alto tradimento, meritevole di morte secondo le regole militari di ogni tempo e di ogni paese. Lo Sforza era impauritissimo di ciò che faceva, come provano le sue lettere: ed in una, infatti, del 2 agosto 1494, egli, dopo aver assicurato Ludovico il Moro di aver dato tutte le notizie possibili intorno ai movimenti di truppe del duca di Calabria in Romagna all'inviato sforzesco Raimondo de Raimondi, aggiungeva che se qualche cosa di queste notizie fosse trapelato, egli si sarebbe trovato in pericoli mortali.

Lucrezia non dovette sospettare nulla di queste manovre: e ad Alessandro VI, se fiutò qualche cosa, come è probabile, non parve mai opportuno manifestarlo, se non per qualche allusione. Il Papa, pur fra le preoccupazioni della imminente calata francese, continuava a sentire così viva la nostalgia delle sue donne, da scrivere ad Adriana Mila di affrettare, se poteva, il ritorno di tutte. Discretamente, "Madama Nipote" doveva informarsi se Giovanni Sforza avesse intenzione di tornare a Roma. In forma di suggerimento il pari dava le sue istruzioni: se Giovanni non faceva menzione del ritorno, dovevano essere Adriana e il Gaget a parlarne: molto cautamente, però. Lucrezia avrebbe dovuto partire con loro e Giovanni restare a Pesaro per mettere in ordine la sua gente d'armi. Lui stesso (il Papa) avrebbe mandato qualcuno a scortare la comitiva. Perché "massime adesso che vengono li Franciosi per mare e per terra non ci par bene che in simil tempo vi trovate a Pesaro per la moltitudine di gente d'arme che si ritroverà in questo paese". Era un sollecitare ansioso. Alessandro VI aggiungeva che, secondo la risposta di Adriana, avrebbe modificato la data e la durata di un suo incontro politico col re di Napoli nei dintorni di Roma; e fu, questo, il convegno di Vicovaro nel quale si strinsero, il 14 luglio 1494, i patti di alleanza tra il pontefice e Alfonso II. Probabilmente questa lettera, scritta l'8 di luglio, non arrivò nemmeno nelle mani di Adriana, o, se vi arrivò, fu letta con uno spirito che in quel momento non era di complicità e di obbedienza. Da Capodimonte, terra nativa di Giulia, arrivavano in quei primi di luglio continue fitte lettere per lei: annunciavano che suo fratello Angelo, capo della famiglia Farnese, era malato gravemente, e che sentendosi presso a morire pregava la sorella per mezzo del cardinale Alessandro di tornare immediatamente se voleva vederlo ancora in vita. Giulia decise subito di partire; ma questa decisione doveva essere contraria agli ordini e alle disposizioni papali, se Lucrezia e suo marito parvero quasi atterriti all'idea del suo viaggio e fecero di tutto per trattenerla: riuscirono solo ad ottenere un breve indugio, finché non fossero arrivate altre notizie; ma, giunte queste, e più gravi delle precedenti, Giulia non volle più ascoltare né ragionamenti né parole, né la stessa autorità del Papa invocata da Lucrezia; e presa con sé Adriana Mila, seguita da Francesco Gaget e da piccola comitiva, all'alba del 12 luglio cavalcò in fretta verso il lago di Bolsena.

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L'annuncio della loro partenza, sebbene dovuta a motivi tanto legittimi, mandò Alessandro VI in un furore per lo meno strano. Dal Vaticano arrivarono a Lucrezia e a suo marito severi rimproveri per aver permesso alle due donne di allontanarsi. Poiché Giovanni Sforza era in quel momento ad Urbino dove stava spiando il duca Guidobaldo di Montefeltro e le forze aragonesi al suo comando, rispose Lucrezia, narrando come erano avvenuti i fatti; ma questa lettera che ella non aveva potuto scrivere di sua mano avendo un braccio malato, ebbe pochissima fortuna presso il Papa. Egli seppe vedervi tutto: trascuratezza, inganni, notizie truccate e diverse da quelle mandate in un'altra lettera di Lucrezia stessa a Cesare Borgia, e soprattutto poco amore filiale, non dimostrando ella nessun desiderio di tornare presso il padre. Il breve, portato a Pesaro da messer Lelio Capodiferro, altro iniziato ai segreti familiari dei Borgia, era accompagnato da un'ambasciata a voce, ancor più severa e particolareggiata, che suscitò in Lucrezia una "grandissima malinconia". Le relazioni con un padre così ombroso nelle sue manifestazioni d'affetto erano, come si vede, difficilissime. Lucrezia si scusava con la sua graziosa aria ragionevole, facendogli osservare che, se la sua lettera precedente gli era parsa dissimile dalle altre, non si doveva stupire, perché era stata scritta da un cancelliere, e, naturalmente, lo stile di un cancelliere è differente dallo stile di una donna. Rileggesse le sue parole, poi, e a mente fredda le confrontasse con quelle scritte a Cesare per convincersi che non differivano in nulla; e stesse sicuro del suo affetto, poiché ella non desiderava "se non di continuo stare a li piedi di Vostra Beatitudine, de la qual cosa umilmente e quanto posso la supplico che me ne faccia degna perché fin ch'io non ci arrivo non starò mai contenta". Carezze e blandizie, ed ecco il toro spagnolo ammansito. Altra cosa fu per Giulia: arrivata a Capodimonte, ella aveva assistito il fratello Angelo in agonia, confortando quelle ultime ore, e confortando poi il dolore della vedova Lella Orsini, che doveva qualche tempo dopo prendere il velo fra le Murate di Firenze. Ed eccoci allo sconcertante rivolgimento. Compiuto l'ultimo atto d'amor fraterno, Giulia non accenna a muoversi dalla sua terra, e sembra starvi a suo agio in compagnia della madre, della sorella Girolama Farnese Pucci, del cardinale Alessandro, di Adriana Mila e di Francesco Gaget, senza dare ascolto ai richiami del Papa che la rivuole a Roma. Che cosa la consigli a prendere una posizione che contrasta con tutto il suo contegno e con le sue lettere di un mese prima non si sa: certo non ragioni politiche, perché in quel momento gli Orsini erano alleati, e reputati i più fidi, del re di Napoli e del Papa. Dopo tanti abbondanti sì, Giulia scocca ora all'improvviso il suo no come un colpo di balestra e apre un capitolo affocato del racconto borgiano. Tra Orte e Viterbo, poggiando più a nordest verso Orte, sta Bassanello, feudo degli Orsini, povero borgo di antica origine militare, fondato su una collinetta di poca altezza come su un basamento. Prima ragione e difesa del luogo, il bel castello a pianta quadra, arrotondato negli angoli da lisci e robusti torrioni quattrocenteschi, domina la folla delle casette pietrose, ed è, con la

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chiesa romanica dal campanile lanciato fino ad un sesto piano di finestrette e con la cinta di mura medievali, il segno di un passato combattuto e sofferto per ambizioni più impegnative e meno serene del buon raccolto e della grassa vita del gregge. La solennità e la maestà della vallata, che porta in sé il flusso del Tevere in un silenzio colmo di miti, si aprono sotto le finestre alte dei castello: e filano via allo sguardo, pigre e diritte, le strade dalle quali Orsino Orsini, nel concitato autunno del 1494, guardava gli arrivanti, sia che li portasse il nord, Capodimonte, o il sud, Roma. Quale fermento avesse messo in Orsino quella stagione che doveva vedere per la prima volta dopo secoli gli stranieri in Italia è difficile stabilire; o meglio, sarebbe facile se ci si potesse riferire ai sentimenti spontanei ed umani di un marito offeso, gelosia, ira, orgoglio piagato e vendicativo; ma come mai tutto questo gli faceva tumulto ora, quando almeno da due anni l'Italia intera conosceva gli amori del Borgia e di Giulia? Si può supporre che se ne fosse accorto per ultimo, benché l'ultimo, e perfino dopo le relazioni degli ambasciatori alle loro potenze, sembri davvero l'ultimissimo. Pure, fosse così, o non ne potesse più di uno stato di cose impostogli dalla schiacciante strapotenza del Papa, Orsino ora si ribellava; e aveva scelto bene il momento. A lui, come tutti gli Orsini militante con una forte squadra al servizio del re di Napoli, alleato di Alessandro VI, era stato comandato già dai primi di settembre di portarsi con le sue milizie in terra umbra per raggiungere il campo aragonese del duca di Calabria. Giulia stando allora a Capodimonte sotto le ali del fratello cardinale e in compagnia di madama Adriana, si sarebbe detto che egli potesse andar sicuro. Sicuro non andò, invece: poiché, saputo da qualche suo informatore che Alessandro VI stava trafficando per farsi venire Giulia a Roma, giunto a Città di Castello si era fermato: per curarsi, diceva lui. Poi, zitto e rabbioso, e covando in sé tutte le furie, s'era avviato verso casa.

Orsino piantato a Bassanello rappresentava davvero per il Papa un ostacolo fortissimo all'andata di Gíulia dal castello di Capodimonte a Roma: ostacolo morale s'intende, perché non solo Alessandro VI aveva il pudore delle apparenze, e pur non sacrificando nulla delle sue voglie cercava di espugnare per mano d'altri le posizioni bramate, ma sapeva che in un momento così delicato, mentre il re di Francia stava venendo in Italia con l'intenzione, suggeritagli dai tanti nemici del Papa, di deporlo dal soglio pontificio, gli scandali non gli sarebbero tornati utili. Bisognava ridurre al proprio volere Orsino, o almeno il cardinale Alessandro Farnese fratello di Giulia. Per cominciare, il Papa tentò una manovra aggirante. Sapeva che casa Orsini, tutta agli ordini del suo capo il gran conestabile del regno di Napoli, Virginio, gli era in quel momento devotissima: da quel lato fece dunque muovere qualche cosa per la quale toccò a Giulio Orsini signore di Monterotondo, forse, dopo Virginio, il più importante personaggio della tribù dell'orso, di prestare il suo nome per una lettera che è la prima chiave di

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questo imbroglio. Il Pastori, che ha scoperto il documento, è caduto in grossi errori: e prima d'ogni altro in quello dell'attribuzione: perché, vedendo il foglio datato da Monterotondo, e trovandolo senza firma, ha pensato che fosse stato scritto dal signore del luogo, Giulio Orsini: logicamente; ma poi, passando a voler identificare il destinatario, ha avventato il nome proprio del capo degli Orsini, Virginio, e s'è trovato fuori di strada, come appare subito a chi legga il foglio:

"Ursino, etc. Dal campo m'è stato scritto come la tua squadra è giunta senza di te, dicendo che sei rimasto a Città di Castello per un male che t'era sopravvenuto: la qual cosa è stata molestissima al duca di Calabria perché gli è stato riferito che per non venir in campo hai finto di essere ammalato, e per tanto ti confortiamo che per onor tuo e per purgare questa contumacia tu vada subito dal duca di Calabria il quale siamo certi per ogni rispetto ti farà onore e carezze." La prima parola è già per sé dimostrativa: non era assolutamente nell'uso epistolare dei tempo, e specie fra due della stessa famiglia, di intestare la lettera al cognome comune; si deve tenere per certo che la persona alla quale questo foglio era diretto aveva il prenome di Orsino: chi poteva essere, dunque, se non il marito di Giulia? Tanto meglio, e in un modo lampante, la sua identità si rivela da quel che segue:

"Essendo noi in campo alla Fara ne viene novella come la rocca di Ostia per tradimento era stata presa da questi Colonnesi e Sabelleschi al che subito montassimo a cavallo e siamo venuti a Roma per confortare il Papa perché non perdesse l'animo e fosse costante ne la impresa e non si lasciasse voltare dai nemici. In questa nostra venuta credendo trovar madama tua madre e tua moglie qua, desideravamo di parlare a tutte e due e pregarle e confortarle che non lasciassero un momento il Papa e lo tenessero gagliardo e fermo in questa nostra impresa per servigio del re di Napoli. E pertanto è necessario e così ti pregamo e astringemo che tu scriva immediatamente a tua madre pregandola e comandando espressamente a tua moglie che se ne vengano immediatamente a Roma insieme e con tutto ingegno e arte confortino il Papa perché stia saldo a questa impresa e che se loro comprendessero che niente vacillasse ce lo faranno intendere a ciò con tempo possiamo provvedere a le cose nostre. E perché questa cosa importa assai, ti mandiamo il presente nostro staffiere per il quale ci risponderai e aviserai dell'ordine che hai donato. De Monterotondo ai XXI de settembre." Servizio di stato, e la maestà del re di Napoli, e l'incarico segreto di spionaggio, ce n'era abbastanza per coprire altre ragioni, ma chi ci credeva? Giulio Orsini non pare qui contentarsi di esortare il parente ad andare al campo lasciando così libera la via alle donne; ma pretenderebbe che lo sfortunato marito avesse da procurarsi il suo danno comandando lui stesso, sotto mostra di ragioni Politiche, il viaggio a Roma della madre e della moglie. Qui è la dimostrazione finale, perfino troppo facile; poiché le due

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designate non possono essere che Adriana Mila e Giulia, le sole donne di casa Orsini che Alessandro avesse a cuore: aggiungeremo che la madre di Virginio Orsini sarebbe stata quella Francesca Orsini, severissima savonaroliana, che tutt'al più poteva pregare per la deposizione di un Papa poco conforme alla religione predicata dal gran frate ferrarese; e che la moglie, Isabella Orsini, non solo non aveva mai avuti influssi in Vaticano, ma probabilmente non vi aveva mai messo piede. Altre ragioni porta questo foglio, che, pur essendo minori, servono da riprove: Virginio Orsini non era a capo di una semplice squadra, ma di mezzo esercito pontificio; egli non era tale da essere passibile di riprensioni e di ingiunzioni da parte di Giulio, a lui gerarchicamente inferiore: "Madama" era un appellativo che si dava solitamente ad Adriana Mila come ad altre dame di origine forestiera, le italiane essendo chiamate "madonna": e così via.

Resta da chiarire ora perché questo documento si trovi nell'archivio pontificio invece di trovarsi, se mai, nell'archivio di casa Orsini. E anzitutto si osserverà che la lettera non era destinata ad essere spedita, ma è solo una minuta, come dimostrano le cancellature, la mancanza di soprascritta, di firma, di tracce di sigillo. Bisogna supporre che Giulio Orsini, sollecitato da qualcuno di corte pontificia, e scritto il suo foglio, abbia poi mandato in Vaticano la minuta perché Alessandro VI verificasse fino a qual punto gli Orsini gli erano dediti; e questa, per essere l'ipotesi più discreta e più facile, si terrà come base di tutte le altre. Ma si può anche supporre che l'Orsini abbia scritto la minuta a Roma dove dice di essere andato, e magari in Vaticano, o addirittura sotto gli occhi e sotto dettatura di Alessandro VI. Gli indizi che portano a queste supposizioni sono psicologici: e il primo è che nella frase "credevamo di trovare tua madre e tua moglie qua" l'avverbio indicherebbe che lo scrivente fosse a Roma e non a Monterotondo; e l'altra che nella frase "ti pregamo e astringemo" la parola astringemo sostituisce quella cancellata di "comandamo" che veniva molto più naturale, essendo la sua formula abitudinaria d'imposizione, alla bocca del pontefice. Si dirà che il luogo di provenienza della lettera non ha grande importanza, ed è vero; ma sgranata la fila delle ipotesi, viene più naturale arrivare alla definitiva, questa: che il nome di Giulio Orsini e il luogo di Monterotondo stiano qui in funzione di schermi: perché la lettera è certo di mano di Alessandro VI; e fu scritta da lui stesso, proprio in Vaticano.

Gli indizi psicologici accennati già basterebbero a dare sospetto: ma ben più, e definitivamente, ci dicono i confronti calligrafici. Alessandro VI aveva, come hanno tanti, scrittura varia, più rotonda o più distesa, più acuta o più serrata, quasi sempre inclinata verso destra, raramente diritta, sovente facile da leggere, a volte, soprattutto nella scrittura spagnola, serrata e complicata in un fitto e intricato ordine. L'apparenza di queste scritture può darle a prima vista per dissimili: basta però un'osservazione appena attenta

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per apparentarle tutte, compresa la lettera ad Orsino Orsini: e arrivati a questa conclusione, si ha subito la riprova. Il documento è infatti inserito in un gruppo di lettere la più parte inedite, tutte riferentisi al pontificato di Alessandro VI nel periodo 14931494. Furono ritrovate fra vecchissime carte sopra un armadio a Castel Sant'Angelo da un archivista secentesco, Giambattista Confalonieri. Sulla lettera, il Confalonieri non ha dubbi: e la indica come una minuta scritta di mano dello stesso pontefice e diretta ad Orsino "minuta manu eiusdem Pontificis pro litteris scriptis ad Ursinum", Fu il Borgia dunque a comporla, architettò lui il piano di far chiamare le donne per affari di stato, facendo mostra che gli Orsini si volessero valere di loro per spiare le mosse papali. Forse fece poi copiare lo scritto e lo spedì a Giulio Orsini perché a sua volta lo mandasse da suoi staffieri al parente di Bassanello: forse non lo spedì nemmeno: comunque, e benché il colpo fosse abile, effetti non se ne videro. Ai primi di ottobre, infatti, abbandonata ogni idea di campagne militari, Orsino stava rintanato a Bassanello dove, messa a riscontro la vicina protezione delle mura del suo castello con la lontana autorità del Papa, gli parve di poter reggere, e osò la ribellione. Fece sapere alla madre, alla moglie, e al cardinale Farnese, di voler ad ogni costo farsi venire Giulia da Capodimonte a Bassanello: altrimenti avrebbe riempito il mondo di scandali, e ci andassero pure i suoi averi e anche mille vite. Un linguaggio così, benché inadeguato alle forze di chi lo usava, impensieriva i Farnese, inquietava Adriana Mila che non poteva dimenticarsi d'essere la madre di Orsino, e conciliava forse al guercio ribelle l'animo della vivace e generosa Giulia. Lei, a Capodimonte, era avvertita delle furie maritali dal più fido consigliere di Orsino, frate Teseo Seripando, che protestava nelle sue missive di mandare le sue informazioni per il bene comune dei due sposi: un modo da furbo per scusarsi di fare la spia. "Veggo il signor Ursino" diceva il poco letterato ma assai svelto frate "stare con la mente travagliata e in grande dispiacere del vostro non venire; sospetta che più presto vogliate andare a Roma che venire qui, di modo che mi ha ragionato che se tale errore fosse per voi fatto, lui non lo sopporterebbe e spenderebbe mille vite se tante ne avesse, e roba, e quel che ha; sicché lo veggo stare molto malcontento, e fulmina e fa cose inusitate. Io, per l'obbligo che ho a tutti e due, cerco di placarlo e di distoglierlo da questa opinione: non basto per niente perché lui ha deliberato [che] se tutto il mondo intervenisse, voi non dovete andare a Roma e dovete venire a Bassanello; e quando altramente si faccia, lui fa come il diavolo." Le diavolerie di Orsino trovandosi a campeggiare senza contrasti diretti, ed essendo di quelle che prendono alimento da se stesse, crescevano: e d'altra parte cresceva l'insistenza del Borgia nel richiamare Giulia, a tal punto che il cardinale Farnese, tutto vergognoso di questa storia da invasati, mandò madama Adriana a Roma perché provasse a salvare qualche cosa dell'onore di Orsino e dei Farnese. Non salvò nulla: e se ne dovette tornare a Capodimonte il 14 ottobre, "Dio sa quanto stracca" dice lei stessa e con l'inesorabile risposta del Borgia:

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Giulia a Roma. A questo punto, il cardinale Farnese ebbe un moto spirituale di sdegno e si rifiutò al volere del Papa: il futuro Paolo III, che la voce di Pasquino aveva chiamato Cardinale della Gonnella e anche cardinale Fregnese, aveva una dignità fondamentale, che, sebbene velata da interessi e da ambizioni, ripugnava a complicità così vili. Già aveva scritto qualche giorno prima al Papa che lo avrebbe servito sempre da buon figliolo "nelle cose possibili". E questa volta, non di sua mano, ma per mezzo di Adriana Mila, fece sapere al Borgia che tutto avrebbe voluto fare per lui, salvo ciò che gli si chiedeva: "per vergogna dell'onore, che par gli sia [al cardinale] grandissimo mancamento venire in rottura con Orsino per simile cosa e così scopertamente". Le stesse cose riferiva quello stesso giorno Francesco Gaget, sempre alle spalle e all'ombra di Giulia, vigilando in nome del suo padrone. Andare contro Orsino, dice il Gaget, parrebbe poca cosa al cardinale per servire Sua Santità, ma non per un motivo che darebbe scandalo e infamia alla sua casa. Piuttosto, consiglia dopo molte argomentazioni, perché non si fa chiamare a Roma il marito di Giulia alla presenza di Virginio Orsini, e non gli si ordina di andare al campo? Sarebbe cosa facilissima, tanto più che gli Orsini sono ora cosa del Papa: partito Orsino, ogni strada sarà libera alle donne; ma per carità faccia presto, perché da Bassanello le sollecitazioni stanno diventando ingiunzioni, e tra poco non vi saranno più scuse da inventare.

Intanto, Alessandro VI aveva mandato un arcidiacono, Pietro de Solis, provvisto di un esplicito breve che ordinava ad Orsino di lasciar partire la moglie per Roma; ma arrivato l'arcidiacono a Capodimonte qui era stato trattenuto, e poi rimandato a Roma. E il 19 ottobre l'aveva seguito lo spagnolo Navarrico, altro iniziato ai segreti borgiani, con lettere di Adriana, di Francesco Gaget e di Giulia. Il cardinale appariva da queste lettere fermo nel voler evitare la rovina morale della sua casa, non consentendo alla sorella di andare a Roma contro il volere del marito: Adriana, pur mostrandosi afflitta, non vedeva come poter risolvere la situazione, e Giulia faceva un capriccio meraviglioso, che, come donna, le stava benissimo. Irritata dalle contese, ella poteva anche essere stata incuriosita e toccata dall'ardire di quel marito che, tradito da tutti, madre moglie parenti, s'era atteggiato alla resistenza verso un nemico di quella portata. Se era davvero quella donna sveglia e sensibile che si diceva, la sua stessa bellezza le doveva parere un dono più adatto ad un coraggioso che ad un prepotente: anche lei sentiva, e in questo caso era nel suo diritto, la febbrile anarchia, che una volta almeno nella vita di una donna persuade ad una propria rivoluzione? Fatto sta che ella dichiarò al Papa che non si sarebbe mossa da Capodimonte senza il consenso del marito.

Ed eccolo ora, il Papa con queste lettere portate da Navarrico tra il 19 e il 20 ottobre. Di là dai fogli di carta, egli vede le posizioni incatenate dei

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suoi avversari, serrate e difese contro il suo desiderio; ma non per questo il desiderio gli cade, anzi si infiamma e giganteggia, diventa aspra necessità, e gli fa gustare meglio quel calore di passione che allontana la vecchiaia quasi rimandandola a tempi indefiniti: tutto amorosa ira, vuole combattere; e, nella concitazione, prende sul suo tavolo una lettera qualsiasi, ne strappa la parte non scritta sulla quale è tracciato l'indirizzo "Sancti.mo D.N.ppe", e rapido scrive: A Giulia per prima.

Giulia ingrata e perfida; una tua lettera abbiamo ricevuto per Navarrico, per la quale ci significhi e dichiari come l'intenzione tua non è di venire senza la volontà di Orsino e benché fin qui comprendessimo l'animo tuo cattivo e di chi ti consiglia, non ci potevamo in tutto persuadere che usassi tanta ingratitudine e perfidia verso di noi avendoci tante volte giurato e data la fede di star al comando nostro e non accostar Orsino, che adesso voglia fare al contrario e andar a Bassanello con espresso pericolo della tua vita: non potrò credere che [tu] lo faccia per altro se non per impregnarti un'altra volta di quella equia [o aqua parola di dubbia interpretazione ma di sicuro effetto spregiativo di Bassanello e speriamo in breve che tu e la ingratissima madama Adriana vi accorgerete del vostro errore e ne porterete la penitenza condegna. E nientedimeno per tenor della presente sub pena excomunicationis late sententiac et maledictionis eterne ti comandiamo che non ti debba partire da Capo di Morite o da Marta né manco andar a Bassanello..." Scomunica, scomunica. Inutili preghiere e imposizioni, il Papa impugnava la potestà pontificia. Quanto all'accusa che egli faceva a Giulia la quale dopo avergli tante volte giurato di non accostare più Orsino (era arrivato a questo punto d'insofferenza gelosa) voleva ora andare a Bassanello, bisognerà vederci un esempio di furore amatorio, per il quale attribuire alla donna amata desideri ignobili e prendersi il diritto del disprezzo, è il solo modo di rivalersi sulla forzata delusione del proprio sangue. Sono queste le accuse che provano certo grado di passione, e dopo le quali gli amanti sentono più corroborante il ristoro fisico di chiedere perdono. Più importante, per la storia, è la dichiarazione di Alessandro VI sulle precedenti relazioni intime fra Giulia e Orsino che avevano già fruttato "un'altra volta" la maternità di Giulia. Ora poiché non si conoscono altri figli di lei fuorché la piccola Laura che già abbiamo incontrata e che si diceva figlia di Alessandro VI, a meno di non supporre un bambino di Giulia morto in età infantile o addirittura non nato, si dovrà, secondo questa lettera, correggere la tradizione e fare della bambina una Orsini autentica che la madre, da scaltra, faceva magari tacitamente passare per figlia del pontefice per renderle più splendido l'avvenire.

Il secondo biglietto è per madama Adriana, non meglio trattata, anzi trattata peggio della nuora: "Havete scoperto il vostro cattivo animo e

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malignità" scrive il Papa profetizzandole pentimento e penitenza; ed anche lei è minacciata di scomunica. Ma nel terzo biglietto, al cardinale Farnese, il Papa ritrova la dignità formale dell'espressione, e si calma, solo lamentandosi che il cardinale di tanti benefici e benevolenze sue si sia così presto scordato: gli manda però, affinché Giulia non vada a Bassanello e affinché lui possa scusarsi con Orsino, un breve composto a questo ufficio, e l'esorta ad obbedirlo. E infine quarta ed ultima, la lettera più lunga (fino ad oggi sconosciuta) è quella a Francesco Gaget: qui il linguaggio del Borgia ritrovandosi a suo agio nell'espressione valenzana alla quale egli frammischia italiano latino e spagnolo, si stempera e si dilunga: egli si duole di tutti, del Gaget per cominciare, di madama Adriana che dopo avergli fatto tante promesse "tota si es voltada", dichiarando espressamente che non vuole "menar qui Julia contro la voluntat de Ursino". A Capodimonte, figurarsi, si preferisce "quella zimia [scimmia] de Ursino a nosaltres". Il Papa informa il Gaget di aver visto anche la lettera che fra Teseo Seripando ha mandato da Bassanello a Giulia e ha capito tutto della cattiva volontà di lei. Qui lo straordinario documento sale di tono per raggiungere il suo estremo e sconcertante valore nella frase alla quale abbiamo già accennato dove Rodrigo ricorda senza perifrasi che Adriana al tempo in cui egli era cardinale lo "serviva de Dulia" contro la volontà stessa di Orsino, pronta a tutto ciò che egli voleva. E all'improvviso, ora, tutti ardivano ribellarsi? Ma avrebbero visto con chi avevano da fare: se Giulia e madama Adriana sceglieranno di compiacere Orsino saranno scomunicate; scomunicato Orsino; e scomunicato anche Ranuccio Farnese cugino di Giulia. Riferisca dunque il Gaget le sue ultime decisioni alle donne: immediate. Brevi a destra e a sinistra, anatemi saettanti, la cancelleria vaticana aveva da lavorare per Giulia. E lei, la Bella, chiusa nell'alto castello di Capodimonte costruito a strapiombo sul lago di Bolsena a dominare la mozartiana innocenza di quelle rive, dovette sentirsi prima ferita, e poi come donna che sapeva ragionare saviamente, persino consolata da quel che avvenne. Passato il tempo nel quale le era stato dato di guardare a se stessa come ad una rara ed intangibile meta di avventurosi desideri maschili, quando fu costretta a rientrare nella vita d'ogni giorno, vi si acconciò con grazia, rassegnandosi alla sommaria e precipitata conclusione del suo romanzo. Vi si acconciò con più facilità, forse, perché in Orsino era proprio la qualità dello spirito a far difetto: uno come lui che aveva osato mettersi contro il Papa, avrebbe potuto anche aver la forza di cavalcare con un seguito di bravacci verso Capodimonte e di farsi consegnare secondo il suo diritto la sposa, senza che i Farnese potessero rifiutargliela. Invece, nonché osato, egli non aveva mai pensato alla possibilità di un gesto simile: e doveva essere già stanco del suo atteggiamento di rivoltoso, se l'arcidiacono rimandato a Bassanello da Alessandro VI ebbe buona accoglienza al castello di Orsino, e vi restò lungamente a ragionare: dopo di che tornò a Roma, portando al Papa una letterina del marito di Giulia: "Io arcidiacono ostensore della presente mi ha

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presentato un breve di V. S.tà, e a bocca mi ha riferito alcune cose di sua parte. E ho inteso molto ben il tenor di detto breve". Par di sentire, nel crollo spirituale del vinto, l'abbandono amaro, appena ironico dell'ignavo. Orsino non scriveva a lungo: il Papa avrebbe dall'arcidiacono saputo quanto fosse grande ogni sua "buona volontà": si trattava di capitolazione, o per lo meno di un principio di capitolazione, poiché solo il mese appresso Giulia e Adriana partirono per Roma. Del resto anche lui cercò di trarre profitto dalla sua sconfitta e il 28 novembre, senza ricordarsi d'aver proclamato di voler perdere tutti i suoi beni piuttosto che umiliarsi, chiedeva al Papa grosse somme di denaro come già aveva avuto altra volta, per pagare le sue truppe che, prive del soldo, diceva, non volevano marciare. Le truppe riunite degli Orsini stavano subendo allora strani impedimenti: e si annunciava, a linee sempre meglio definite, il gran tradimento orsinesco che avrebbe distrutta ogni possibilità di resistenza degli aragonesi. Ma infine le donne erano libere e si aprivano loro le vie di Roma: i sofismi di Giulia svanirono come la resistenza di Orsino, sgominati gli uni e l'altra dalla volontà del Borgia; e se verso la fine di novembre le donne erano ancora a Capodimonte, un informatore già annunciava come esse fossero "a disposizione e volontà del R.mo legato" in attesa di un uomo di fiducia, Messer Anichino, che le doveva accompagnare "dove vorranno andare" e cioè, si sottintende, a Roma. Mentre questi casi accadevano tra il lago di Bolsena, Bassanello e il Vaticano, e Lucrezia nel suo piccolo stato di Pesaro viveva quieti giorni provinciali dietro il riparo del gran dorso appenninico, l'Italia conosceva i primi terrori delle invasioni straniere. Il re di Francia era venuto giù con un esercito avvezzo alla guerra, rotto alle asprezze dei climi, resistente ai disagi, avido di conquiste, forte di una forza barbara e irruente, raccolto sotto le bandiere sulle quali spiccavano le scritte "Misso a Deo" e "Voluntas Dei". Carlo VIII, piccolo e deforme, che gli italiani battezzarono subito "Re Petito", aveva nella sua grossa testa il più imbrogliato vivaio di storie classiche mitologiche cavalleresche e amatorie che si potesse immaginare. Nell'impresa d'Italia egli vedeva soprattutto una sua evasione personale, un viaggio alle isole della felicità, che gli avrebbe dato finalmente modo di vivere le avventure eroiche e voluttuose sognate già nella sua fanciullezza, e sognate pur tuttora nella corte casta e severa dove imperava il genio pio della sua bella moglie Anna di Bretagna. Questa principessa, che aveva portato alla corona francese la provincia di Bretagna ed era molto amata dal suo popolo, aveva grande influenza sullo spirito disordinato di suo marito: eppure nemmeno lei aveva potuto farlo rinunciare a quella guerra che il popolo francese non desiderava, ma che era suggerita al re con insistite sollecitazioni da alcuni suoi consiglieri che vedevano in essa un mezzo sicuro di arrivare rapidamente a grandi fortune. i due consiglieri più ascoltati di Carlo VIII, il gran siniscalco Stefano di Vex e Guglielmo Brionnet vescovo di Saint Malo, ambiziosissimi e avidissimi, si facevano aiutare dai discorsi più che persuasivi degli esuli napoletani di partito angioino passati in Francia per

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salvarsi dalle persecuzioni di re Ferrante, i quali, con la mentalità polemica dei fuorusciti che non ammettono evoluzione o cambiamento d'animo nei popoli, giuravano e spergiuravano che v'era a Napoli un partito angioino fortissimo e desideroso del ritorno alla signoria francese. Dall'Italia stessa aggiungevano le loro sollecitazioni Ludovico il Moro e Giuliano della Rovere: perfino il Savonarola dal suo pulpito fiorentino chiamava il re Cristianissimo a riformare la Chiesa. Tratto da queste voci e dalle sue aspirazioni, il 29 agosto 1494, Carlo VIII aveva salutato a Grenoble la regina Anna, e il 3 settembre era in terra italiana.

Re ed esercito ebbero buone accoglienze dai duchi di Savoia; e attraversato il Piemonte andarono a fermarsi ad Asti, proprietà del re di Francia, accampando nella cittadella oltre la quale si allarga la vasta campagna intorno al Tanaro con Alessandria ben munita tra le nebbie della piana fluviale. Dalla fortezza piemontese, i francesi potevano vedere, nei giorni chiari, dietro le loro spalle, le grandi Alpi lontane, e potevano sentire, a quella visione, un richiamo alle loro case d'oltremonte. Ma era ancora troppo presto perché certi richiami potessero su quegli uomini che si stavano godendo come un anticipo di bottino il tepido sole italiano di settembre, e che non conoscevano preoccupazioni sentimentali. Per cambiare la loro natura non era certo bastato dare ad una compagnia che aveva per grido di guerra "Diable" l'ordine di inalberare la bandiera con l'immagine di San Martino. Semplici soldati, parvero agli italiani, disabituati da troppi anni alla guerra, mostri orrendi e crudeli: gonfiata e romanzata, la fama della loro terribilità correva la penisola, e già tutti tremavano.

Contessa di Pesaro

Le notizie fecero presto a diventare gravi: e subito furono gravissime. La flotta francese> condotta da Luigi d'Orléans aveva battuto l'aragonese a Rapallo; e intanto erano convenuti ad Asti, oltre al cardinale Giuliano della Rovere, Ludovico il Moro ed Ercole d'Este duca di Ferrara, a far omaggio a re Carlo. Beatrice d'Este, moglie del Moro, si fece trovare a Novi in mezzo alla sua corte ornatissima di donne belle, di poeti, di artisti, di musici e di letterati, e spiegò per il re di Francia intelligenza spirito e grazia, qualità che sostituivano e componevano in lei, vittoriosamente, la bellezza. A Carlo VIII brillavano gli occhi, la sola cosa brillante che possedesse, mentre domandava galantemente a Beatrice il suo ritratto. Fu uno scambio di cortigianerie: il re di Francia offrì un pittore del quale non ci è stato tramandato il nome, e Beatrice, volendo che lo stesso re scegliesse la veste nella quale ella doveva

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posare, fece sfilare in corteo sontuoso i suoi vestiti come bandiere della sua battaglia. Nella mente fantastica di Carlo VIII si riflettevano ancora tante ricchezze e tante eleganze, quando a Pavia avvenne il suo tragico incontro con Isabella d'Aragona moglie di Gian Galeazzo Sforza, e figlia di re Ferrante; in lei, che pur sapeva il re di Francia venuto in Italia a combattere la sua famiglia d'origine, poteva un senso tanto alto della regalità e della giustizia, da condurla a prostrarsi ai piedi del re supplicandolo di salvare la discendenza legittima degli Sforza suo marito e i suoi figli contro l'usurpazione di Ludovico il Moro; e forse, proprio perché parve che Carlo VIII fosse scosso da quella figura e da quegli accenti, appena un mese dopo Gian Galeazzo moriva all'improvviso. Si parlasse o non di veleno, Ludovico salì allora al trono ducale di Milano con Beatrice trionfante.

L'esercito francese andava intanto verso Napoli per Piacenza e per Sarzana, dove il signore di Firenze, Pietro dei Medici, offriva al re le chiavi delle piazzeforti più importanti della Toscana: questo gesto. non gli fu propizio, perché il popolo fiorentino, istigato dal Savonarola, si rivoltava, metteva a sacco il palazzo mediceo, e cacciava tutti i componenti della famiglia dalla città. Fra Girolamo venne poi di persona a Pisa per incontrare il re di Francia al quale tenne un linguaggio di gran dignità, chiamandolo inviato da Dio a riformare la Chiesa, ma nello stesso tempo esortandolo alla clemenza verso gli italiani, e specie verso i fiorentini, se non voleva che la collera celeste si volgesse contro di lui. Fra mille feste, Carlo VIII entrò a Firenze: doveva uscirne portando con sé il mentito titolo di "Restauratore della libertà fiorentina" e dodicimila fiorini d'oro.

Alessandro VI mostrava un suo coraggio. da tutte le partigli venivano meno gli appoggi, e i Colonna ed i Savelli portavano la loro guerriglia fin sotto le mura di Roma. I romani, disavvezzi alla vera guerra, non sentivano solidarietà nazionale, ubbidivano ognuno alla propria fazione che poteva essere orsinesca sabellesca o colonnese, mai italiana. Invano il Papa cercò di scuoterli e di suscitare in essi qualche spirito guerriero: finì per chiamarli buoni soltanto alla parata, incuranti dell'onor loro e di quello delle loro donne, e si proclamò, con i suoi spagnoli, difensore di Roma; avrebbe dimostrato cosa volesse dire aver l'animo grande. Ma nonostante la sua fortuna, o forse proprio per quella, Carlo VIII non si sentiva il coraggio di attaccare il capo della Cristianità. il suggerimento che gli era stato dato e intensamente ripetuto dal cardinale Giuliano della Rovere, di fare indire un concilio per deporre il Papa, non lo persuadeva affatto. Temeva che le potenze europee si risentissero o prendessero pretesto per risentirsi, e sapeva che la stessa regina sua moglie lo avrebbe disapprovato, insieme con tutta la Francia cattolica. Meglio assai sarebbe stato per lui guadagnarsi il Papa pacificamente, tanto più che, conoscendo il Borgia, non pareva impossibile che avesse a cambiare bandiera. Ascanio Sforza, pieno di

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speranza e di persistente fiducia, fu mandato a Roma a fare al Papa un quadro netto e tendenziosamente pessimista della sua posizione: la minaccia del concilio gli era illustrata da uno che sapeva probabilmente a quali fatti reali ci si sarebbe potuti riferire per provare la simonia, la prima delle accuse che avrebbero motivato la deposizione del Borgia. Per sei ore consecutive i due avversari si fronteggiarono e si parlarono senza perifrasi; ma il Papa, o che si irritasse di vedersi incalzato così da vicino, o che fosse veramente riconoscente agli aragonesi, rimase fermo nei suoi propositi, e finì con una dichiarazione: perderebbe la tiara piuttosto che abbandonare re Alfonso. Né una seconda ambasciata mandatagli dal duca di Ferrara, sullo stesso argomento, ebbe miglior esito; e l'ambasciatore, l'umanista pesarese Pandolfo Collenuccio che ricominciò per suo conto e con la più sottile arte sillogistica ad enumerare le perdite ed i guadagni che avrebbe potuto fare il Papa, si ebbe la stessa risposta: Alessandro VI non sarebbe mai stato schiavo del re di Francia. Verso la fine di novembre, Ascanio, che ritornava a Roma per insistere sulle trattative, fu imprigionato e tenuto in ostaggio a Castel Sant'Angelo; ma intanto l'esercito francese avanzava con tale rapidità da aggiungere alle preoccupazioni del Papa un affanno di natura sentimentale: si trattava di Giulia Farnese. Cambiato o domato l'animo del signore di Bassanello dalle imposizioni papali e non fu una resa facile perché, anche dopo la risposta remissiva dell'Orsini, Adriana Mila scriveva da Capodimonte al Papa un biglietto ansioso e pieno di oscure apprensioni Giulia poteva finalmente riprendere la via di Roma, accompagnata dalla sorella Girolama Farnese Pucci e, nemmeno a dirlo, da madama Adriana. Il 29 novembre le tre donne si misero in carrozza seguite da una comitiva di trenta cavalli: la cavalcata avanzava rapida nel mite mattino di primo inverno, quando, d'improvviso, una schiera di soldati armati sbarrò la via; inutile e pericoloso ogni tentativo di difesa, convenne rendersi prigionieri agli assalitori che erano soldati francesi dell'avanguardia di Carlo VIII, al comando di quell'Ivo d'Allègre che pareva destinato alla cattura delle belle donne. I galanti francesi, incuriositi e contenti della preda, portarono le donne a Montefiascone, dove furono trattate benissimo, come attestò graziosamente la bella Giulia e come è facile credere; ma la notizia, portata a Roma da un inviato francese che chiedeva come d'uso il prezzo del riscatto, fu crudele per il Papa. Tutti i cavalli del mondo gli parvero lenti a portare i tremila scudi richiesti dall'inviato: e ad accompagnarli, per più sicurezza, fece partire subito il suo cubicolario più fido Giovanni Marrades. Non pago, si rivolse perfino a quelli che riguardava in quel momento come sospetti, gli sforzeschi Sanseverino; e dal cardinale Federico che era a Roma, fece scrivere lettere di sollecitazione al fratello Galeazzo di Sanseverino militante sotto Carlo VIII; di più, un breve gli scrisse personalmente. Dei premurosi uffici da lui svolti presso il re, c'informa Galeazzo stesso; appena ricevuto il breve papale, dice il capitano lombardo, "mi trasferii al prelato cristianissimo re: e ripetuto alla Maestà sua il caso della cattura delle prelate

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madonne... la pregai con quelle parole e modi che giudicai espedienti a voler gratificare la bontà vostra della loro liberazione: il re mi rispose benignamente che non solamente voleva che fossero liberate ma che prima di sera avrebbe mandato un suo uomo di conto per accompagnarle a Roma". Quando seppe che le prigioniere liberate stavano per arrivare, Alessandro VI, gettandosi dietro le spalle con una ventenne facilità ogni pensiero politico, si preparò a riceverle, e volle essere per quella sera il più possibile galante e bello. Cercò nel suo guardaroba un giubbone di velluto nero a liste d'oro che vestiva e snelliva ad un tempo la sua pinguedine, finissimi stivali valenzani, una ricca sciarpa spagnola, un berretto di velluto; e cinse infine il pugnale e la spada, un po' per uso di difesa ma più perché il trapasso dalla animata compagnia militare, brillante di armi, alla sua compagnia, non sembrasse alla bella donna la fine scolorita di un'eccitante avventura. Colei per la quale si facevano tante pazzie, arrivò dunque seguita fino alle porte di Roma da una scorta di quattrocento francesi: di notte, a lume di torce, il Papa vide il viso bruno di Giulia ridergli con un saluto amoroso; e i cronisti dicono che Giulia passò la notte in Vaticano. Con un temperamento così ricco, si capisce che Alessandro VI sapesse tener fronte senza avvilirsi anche ai gravi fatti che seguirono. I francesi si avvicinavano, nelle loro mani cadeva Civitavecchia si chiudeva così per il Papa anche la possibilità di fuga per mare alla quale s'era per un momento pensato, se in Vaticano si erano imballati tappeti ed argenterie e, a dare il colpo finale, pensarono gli Orsini, passando nel dicembre con improvviso tradimento ai francesi, e offrendo al re di Francia come quartier generale la rocca di Bracciano. A non sapere quanto contasse poco nella famiglia Orsini la voce del marito di Giulia, verrebbe fatto di pensare che egli abbia avuto parte in questo rivolgimento di cose, più che gravoso, fatale ai piani di resistenza del Papa. Non è cosa probabile: e non è nemmeno certissimo che a Bassanello si fosse in disposizione di godere ore consolanti e saporose di vendetta. Così, Alessandro VI rimase solo con le scarse truppe aragonesi e i pochi spagnoli, in mezzo ad un popolo apatico, senza alleati validi, e fu costretto, e non aveva scampo, a dare il passo ai francesi per il regno napoletano. Re Alfonso gli offriva invano la fortezza di Gaeta e la fuga: Alessandro VI quanto a fortezze non fidava che in Castel Sant'Angelo, e quanto a soldati temeva di tutti: non accettò. Dalle finestre di Belvedere il Papa guardava, per i vasti prati sotto il Castello, pascolare i cavalli di re Carlo. Liberato lo Sforza, si finì in un accordo, Il 31 dicembre 1494, aperte le porte, Carlo VIII entrò a Roma, e il suo esercito sfilò per sei ore con i suoi duemila cinquecento nobili vestiti riccamente di stoffe e gioielli italiani la più parte fiorentini, con le schiere dei balestrieri guasconi, piccoli, vivaci, tutti nervi e brio, gli arcieri, i mazzieri, le artiglierie; la tumultuosa armata che, traboccando dalla strettissima via Lata, sembrava per contrasto immensa, accompagnò il re fino al suo alloggio nel palazzo San Marco, l'attuale palazzo Venezia; e sulla piazza, ai lati del portone decorato nello spirito più misurato del rinascimento italiano, si schierarono i cannoni.

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Trentamila uomini giovani, in una città che aveva un numero di cittadini poco più che doppio, portavano un immaginabile squilibrio: in più quegli uomini, sentendo in loro arbitrio la città inerme, si davano senza scrupoli a saccheggiare case e palazzi', a rapire donne, a rubare ogni cosa che capitasse loro sottomano. Il re di Francia fece drizzare sulle piazze forche che avrebbero dovuto parlare eloquentemente, ma era eloquenza d'accademia, e le rapine continuavano. La casa di Vannozza, per esempio, in Piazza Branca, fu una di quelle messe a sacco più selvaggiamente, e, ricca e fornita com'era, dovette dare un buon bottino ai predatori, e in più la soddisfazione di rubare ad una favorita di qualità così straordinaria.

Dov'era in quel momento Vannozza? La tradizione secondo la quale ella, scovata oltraggiata ed ingiuriata dai soldati francesi in casa sua, avrebbe poi eccitato il figlio Cesare a vendicarla, è incerta e nessun documento, né la logica delle cose, la confermano. é presumibile, anzi, che non si sia fatta trovare in casa, già da prima messa in salvo dal prudente marito, magari su consiglio di Alessandro VI: e poteva essere anche lei rifugiata a Castel Sant'Angelo come vi fu in altri momenti temporaleschi per i Borgia. Che il Papa non dimenticasse la madre dei suoi figli e continuasse a vederla anche dopo la sua elezione al soglio pontificio, è stato rivelato da tre preziosi bigliettini di mano di Vannozza stessa, che sono custoditi nell'Archivio Segreto Vaticano. Almeno in uno dei bigliettini, il secondo, c'è un riferimento indubbio. é una richiesta di udienza: Vannozza prega il Papa di riceverla perché ha da dirgli "molte cose delle qualison certa V. S. ne avrebbe pigliato piacere" e soprattutto VUOI venirsi con lui ad "allegrarsi del bello figliolo che è nato al signor duca". Ora, in casa Borgia, non essendovi allora che un duca, Juan di Gandia, ed avendo egli avuto da Maria Enriquez un figlio, l'erede, nel novembre 1494, è chiaro che il bigliettino si riferisce a questo avvenimento, e sarà dunque o della fine del novembre stesso o dei primi giorni del dicembre successivo. Vannozza viene fuori da questi fuggitivi accenni più vigorosa che mai, attiva e realistica "Pater Santo" dice "sto mal contenta perché la S. V. mi fa il bene e altri se lo gode" e per nulla immiserita nell'abito di supplicante. Il suo chiedere udienza è di una che sa di ottenerla: e il giorno e l'ora degli incontri li stabilisce Carlo Canale, sempre dispostissimo a portare ambasciate dal Papa alla moglie e viceversa.

Gente così scaltrita nell'arte di vivere riparata, immaginarsi se si lasciasse cogliere allo scoperto. Tanto poco è probabile, che mi par da riferire a questo episodio il primo dei bigliettini di Vannozza, scritto da Roma e, al contrario degli altri, in terza persona: "Vannozza supplica umilmente a li piedi di Sua Santità che la voglia ascoltare domani sera, perché tanta paura li è entrata in core che omnimod vele partire quanto più presto potrà". Si riferiva questa paura alla calata dei francesi? é assai verosimile: in ogni modo, se questo bigliettino non dà la certezza che Vannozza fosse in quel

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tempo fuori di Roma, dà almeno la prova della sua abitudine a stare in guardia non appena spirasse aria di minaccia, epidemia o guerra: e con una ragione di più si può affermare che l'incursione nel palazzo di piazza Branca sia stato saccheggio di robe e non violenza di persone. Ci si potrà anche domandare che cosa avvenisse in quei giorni di un'altra e più cara donna del Borgia, Giulia Farnese. Non è affatto probabile che Castel Sant'Angelo riparasse anche lei in quel momento troppo delicato per gli affari papali. Stava serrata nelle case dei Farnese a Roma?

Esiste una lettera che può illuminare da vicino certi conflitti di caratteri e di sentimenti scritta dal vescovo di Alatri Jacobello Silvestri e da lui indirizzata al suo "signore" Mariano Savelli, militante coi francesi e imparentato stretto con casa Farnese. In uno stile agitato e nervoso che rivela l'ansia di uno che misura i pericoli vicini, il premuroso vescovo informa il Savelli di aver avuto dal cardinale Farnese l'ordine di adoperarsi perché Giulia se ne parta da Roma al più presto. Giulia, dapprima "in durata" a non voler muoversi, s'era alfine arresa alle esortazioni e si dichiarava pronta a partire non appena avesse cavalcature a sufficienza e buon accompagnamento. "Pertanto," aggiunse il Silvestri "prego V. S. si acceleri a maridare a soddisfarla che in vero mi pare male che lei stia qui; e potrebbero accadere delle cose che sarebbero di poco onore a tutti: come avviso anche il si consunga che la sorella stia in V. S. le mandi il modo di farla partire."

cardinale Farnese il quale Roma.

Per l'amor di Dio

Dunque, Orsino non la dava vinta: e, meglio che Orsino, il cardinale fratello di Giulia.

Vediamo qui il futuro Paolo III mostrare tanto tormentoso cruccio della relazione di Giulia col Borgia che val la pena di salvarlo dall'accusa di cieca complicità. Fu uno che dovette piegarsi ad imposizioni di forza: ma il fatto di soffrirne così a vivo ("si consuma" dice il vescovo di Alatri) lo riscatta moralmente. Di questi tempi è pure l'informazione fiorentina "intendo che a Madonna Giulia si fanno anelli per mille ducati, e il povero cardinale non ha da vivere", che dà un preciso e amaro ragguaglio sulla situazione del Farnese. Il quale, assai più sollecito di Orsino, teneva gente di sua fiducia alle poste per strappare, appena lo potesse, la sorella al Borgia. In quel

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momento, poi, dovevano muoverlo timore e orrore di quel che sarebbe potuto accadere se in Roma i francesi fossero venuti a conflitto col Papa. Gente d'armi e in tanto numero quanta si conduceva dietro Carlo VIII non si sa che possa portare, pensava giustamente il cardinale già abbastanza ferito dai frizzi e dalle ironie che avevano corso l'Italia quando Giulia era stata presa prigioniera. Come reagì il Savelli, se questa lettera gli giunse, non sappiamo. ma dal fatto che il foglio si trova ora nell'Archivio Vaticano, dobbiamo dedurre che sia stato intercettato da gente papale e dato in mano ad Alessandro VI. Chi doveva pagare in questa congiuntura non era il cardinale Farnese: pagò il suo partigiano, il vescovo di Alatri, al quale si misero in conto i maneggi antiborgiani e le simpatie sforzesche, quando, qualche tempo dopo, fu chiuso in Castel Sant'Angelo e lì dimenticato fino alla morte di Alessandro VI "per essere venuto in sospetto ai Borgia". Giulia, poi, parti davvero? Non v'è nessuna traccia dei suoi passaggi a Roma e a Capodimonte in quel tempo; ma appunto perché non si parla di lei durante la permanenza dei francesi in Roma si dovrà concludere che era riuscita a mettersi al riparo. Chiuso nella gran fortezza sul Tevere, il Papa aveva intanto capito quali pericoli portasse il soggiorno dei francesi nella città e come diventasse necessario, in un modo o nell'altro, farli sloggiare al più presto. Negoziati dunque con una certa urgenza, si firmarono presto gli accordi per i quali era concesso al re di Francia e al suo esercito il passaggio per gli stati pontifici; gli erano dati, oltre la fortezza di Civitavecchia, due ostaggi, il principe turco Djem, e il cardinale di Valencia, Cesare Borgia: quest'ultimo avrebbe seguito l'esercito francese in qualità di cardinale legato. Così, il 6 gennaio il re venne in Vaticano ricevuto da Alessandro VI con quella radiosa e carezzevole maniera che era la prima delle sue qualità di uomo e di politico. Si ebbe una quantità di complimenti e il cappello cardinalizio per il suo Brionnet; poi fu condotto nelle stanze nuove dell'appartamento Borgia, fresco delle decorazioni pittoriche del Pinturicchio e della sua scuola.

Esposto a tramontana, l'appartamento Borgia sembra oggi a chi lo visiti un luogo bello, ma immerso in oscura tetraggine: la luce vi si diffonde penosa, impedita anche nelle mattinate di giugno da un cornicione fortemente aggettato sovrapposto alle finestre e arginata dalle due ali di fabbricato a destra e a sinistra del vasto cortile. Ma in quel tempo, non v'erano cornicioni né esistevano costruzioni alte intorno; e un libero verdeggiare di giardini si apriva allo sguardo fino a monte Mario, distesa aromatica di aranceti e di pini, che lasciava al sole pomeridiano, fino al tramonto, la via aperta per giungere all'oro e agli smalti dell'opera pinturicchiesca. Grandi finestre a crocera, nitide di proporzioni, incorniciavano in chiari spazi geometrici il paesaggio; per contrasto, le porte erano piccole e strette; sicché, entrando, la persona del pontefice avvolta nel vasto manto d'oro doveva riempire di sé tutto il vano, e apparire inquadrata dai marmi rabescati come un'immagine dipinta che per virtù soprannaturale

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si staccasse dalla parete a muovere fra i mortali. I mortali oltremontani, però, non parevano affatto intimiditi dalle dignità papali: ammiravano, sì, ma volevano, con la curiosità ragionatrice propria dei francesi, rendersi conto di tutto e non avevano nessun rispetto per il cerimoniale. Il Burcardo li vedeva, attonito e sbalordito, entrare al bacio della pantofola papale senza ordine e con "grandissima furia"; e poiché gli era impossibile disciplinare le questioni di precedenza, e dare una regola alla successione dei nobili e dei capitani, si decise infine a domandare consiglio al Papa, avendosi in risposta una spallata. A fine di gennaio i francesi lasciarono Roma: il 26, il re di Francia era venuto in Vaticano ricevuto con grande solennità dal Papa e dai cardinali, fra i quali si teneva Cesare Borgia. Fu chiamato il principe turco Djem, e consegnato al re che lo, accolse con molte amabili dimostrazioni e parole d'amicizia. Partirono finalmente. Alla testa leggera e romantica del re francese parve inebriante questo viaggio a capo di un'armata in trionfo, per un paese che, quell'anno, di febbraio era in fiore, alla conquista di un regno, avendo come ostaggi un principe orientale e un cardinale figlio di Papa. Altre consolazioni lo aspettavano: e prima, a Marino, la notizia che il re di Napoli, Alfonso II, era fuggito in Sicilia lasciando il trono nelle mani del figlio Ferrandino principe di Capua. "Uomo coraggioso non fu mai crudele" si commentò intorno ricordando le atrocità di Alfonso; e quella fuga, patente dichiarazione di viltà (il re s'era portato dietro il tesoro della Corona) che era un indizio molto chiaro dello sfacelo aragonese, diede, se ve n'era bisogno, nuovo alimento all'arroganza dei francesi che si preparavano a far l'entrata dei conquistatori, quando a Velletri un colpo di scena mise in agitazione l'esercito: Cesare Borgia aveva mosso la sua silenziosa mano.

Il cardinale di Valencia cavalcando al seguito del re di Francia aveva mostrato affabilità e curiale riserbo che non potevano dare sospetto: ma, sicuramente al corrente delle ragioni che presto avrebbero cambiato le sorti francesi in Italia, e forse d'accordo col padre, e 'gli aveva già ordinati in mente certi suoi piani, in attesa del momento opportuno per tradurli in atto. L'occasione gli si dimostrò pronta a Velletri; qui, aiutato da alcuni nobili che gli mostrarono i passaggi segreti che sono la provvidenza dei fuggiaschi, Cesare riuscì ad allontanarsi; e lasciatasi dietro Roma, si diresse a Spoleto dove si fermò ad aspettare. Irritatissimi, i francesi tempestavano di proteste il Vaticano: "Il cardinale ha fatto male, molto male", si sentono dire da Alessandro VI che scuote il capo; e quando sperano di rivalersi saccheggiando il bagaglio del fuggitivo, sotto le ricche coperture dei carri non trovano che stracci: burla amara per Carlo VIII al quale sapeva male di essere stato giocato da un cardinaletto di vent'anni. L'esercito avrebbe addirittura con uno spirito di vendetta assai primitivo messo a sacco la città, se Giuliano della Rovere, vescovo di Velletri, non fosse riuscito a calmare la tempesta. Pieni d'ira e di rancore, i francesi avanzavano senza trovare contrasto; solo la rocca di Monte San Giovanni preparò una resistenza seria;

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e gli abitanti che per disgrazia loro si erano difesi furono sconfitti e massacrati con una ferocia che par quasi ostentazione di crudeltà bellica. Spaurita, Capua aprì le porte; e, visto inutile ogni tentativo di resistenza con un esercito quale aveva, pavido ed infedele, Ferrandino fuggì ad Ischia e i francesi entrarono a Napoli, increduli essi stessi della loro straordinaria avventura. Si rinnovarono allora, sotto il Vesuvio, le delizie di Capua; e mentre i francesi impigrivano di voluttà al sole napoletano nelle feste allegre che la primavera meridionale trasfigurava in saturnali pagani, il Papa preparava attivamente la rivincita. Tutti gli stati italiani si erano accorti, tardi ma in tempo, che cosa volesse dire lasciar liberi i valichi alpini allo straniero: così non l'avessero dimenticato mai. Ludovico il Moro, deluso nella speranza di vedere Alessandro VI deposto dalla dignità papale, diceva beffardamente che il re di Francia, anziché riformare la Chiesa, avrebbe dovuto riformare se stesso. Venezia s'era prospettato il pericolo di un predominio francese in Italia; e lo stesso pericolo temevano anche fuori d'Italia il re di Spagna e l'imperatore Massimiliano. Una lega fra queste potenze fu presto stabilita, e il 12 aprile 1495 pubblicata e festeggiata. Per non essere preso prigioniero nel regno conquistato, Carlo VIII ordinò il ritorno verso le Alpi; ma prima di abbandonare la città che gli aveva dato i fasti spirituali del trionfo, si fece incoronare re di Napoli, con tutte le cerimonie spagnelesche delle quali era tanto curioso e, nel senso ingenuo della parola, divertito. Poi, radunato l'esercito e lasciato un presidio in Napoli, riprese a marce celeri la via del nord. Questa armata di fuggiaschi che risaliva l'Italia era tuttavia così temibile, che Alessandro VI, consigliato anche dai cardinali, decise di non aspettarla a Roma; e benché Carlo VIII lo assicurasse di propositi amichevoli, anzi devoti, egli, seguito da tutta la curia, si portò prima ad Orvieto, e di lì a Perugia, dove fra le mura alte e munite della città umbra stava al sicuro. Il re di Francia, del resto, aveva altro da fare in quel momento, che corrergli dietro: sapeva che l'esercito della lega lo stringeva da presso accerchiandolo, e affrettava sempre più il passo. A Poggibonsi vide farglisi incontro il Savonarola che già lo aveva chiamato inviato di Dio e che ora virilmente lo rimproverava di aver tradito la sua missione di riformatore della Chiesa. Pentito o indifferente che fosse, Carlo VIII non ebbe tempo di pensarci su, occupato com'era con i suoi generali in calcoli di strategia militare per evitare, se fosse stato possibile, lo scontro con l'esercito nemico. Non lo evitò: appena fuori dai valichi dell'Appennino, sul fiume Taro presso Fornovo, le avanguardie francesi trovarono la via sbarrata dai pontifici e impegnarono subito, seguite dal grosso dell'esercito. quella famosa battaglia che doveva rendere tanto eloquenti alcuni umanisti italiani e tanto giustamente dubbiosi gli storici di allora e di poi. Si può dire che inutilmente quella battaglia fu dura, e inutilmente vi si spiegò il valore dei capi, compresi i due condottieri supremi, il marchese di Mantova da parte dei confederati, e il re Carlo VIII da parte dei francesi: qualche cosa, indecisione che somigliava a leggerezza, dappocaggine che confinava col tradimento, inquinò

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persino la purità degli atti singoli di valore guerresco; e finalmente il re di Francia arrivò ad aprirsi il passo, pur lasciando sul terreno morti e feriti in grandissimo numero, e, in mano ai mercenari, le bandiere i cavalli le artiglierie i gioielli tutto il bottino fatto in Italia, compreso l'albo con i ritratti delle belle donne che avevano allietato le notti del conquistatore. La rotta dei francesi fu disastrosa, ma passò il re Franco, Italia, a tuo dispetto.

Era il 6 luglio 1495. Strettosi intorno quello che rimaneva del suo esercito, Carlo VIII si ritirò in fuga precipitata, ma in ordine, fino ad Asti, dove si fermò per fare i conti; non erano conti lieti, e Anna di Bretagna avrebbe avuto da lamentarsi a nome di tutte le vedove francesi, lei che si era tanto opposta a quest'impresa. Ma una rivincita morale sulla lega non mancò al re di Francia, poiché gli riusciva di indurre Ludovico il Moro a staccarsi dagli alleati e a firmare una pace separata: dopo questo gesto, che avrebbe dovuto essere un ammonimento alla debolezza dei confederati, Carlo VIII ripassò le Alpi e i francesi se ne tornarono alle loro case. Fra questi gravi avvenimenti la contessa di Pesaro stava portando i suoi quindici anni verso le ombre che sarebbero restate per sempre sulla sua vita. A fianco del marito, il quale giorno per giorno aveva informato i parenti di Milano sulle forze e sui movimenti dell'esercito aragonese, era vissuta al riparo della tempesta francese, seppure in affanno per le sorti del padre. Ma, equilibrata com'era e con quel suo senso robusto ed ottimista delle cose, cercava di avviare pensieri e commozioni per vie tranquille e liete: trattava il matrimonio di una sua donzella spagnola, Lucrezia Lopez con il medico di corte Gian Francesco Ardizi, e doveva pensare volentieri a vestiti ed a gioielli se nominava suo procuratore messer Lorenzo Lauti da Siena, che nell'atto notarile è detto suo consigliere perché le acquistasse a Venezia una quantità di grosse perle. Nel palazzo comitale ella abitava di preferenza la stanza detta "della palla"; e tra la sua piccola corte si abituava a parlare ordinatamente, ad ascoltare con benignità e senza impazienze, esercitando il potere secondo il costumato ideale cortigiano di una gentildonna del Rinascimento. Riceveva visite, come quella del duca Guidobaldo d'Urbino il quale la invitava insieme col marito nella letteratissima reggia d'Urbino; o andava, se i giorni erano propizi, per i dintorni di Pesaro costeggiando il mare Adriatico fra colori e riflessi, sostando nella fastosa Villa Imperiale o nella villa di Gradara con le sue mura turrite che scendono verso il piano come quinte scenografiche in prospettiva. Il settembre e l'ottobre del 1494 erano passati per Lucrezia in solitudine, perché il marito militava, o fingeva di militare, al seguito del duca di Calabria; ma, all'approssimarsi dell'inverno, e proprio mentre il Papa tentava le ultime difese contro Carlo VIII, il conte di Pesaro era tornato ai suoi alloggiamenti per far svernare i soldati: entrassero pure i francesi a Roma, egli, certo d'accordo col Moro, stava con le sue otto squadre al sicuro. Questa situazione, però, sarebbe presto diventata insostenibile ad uno stipendiato del Papa; ed è facile capire come respirasse

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il signore di Pesaro, quando i fatti politici si capovolsero, e, per gli effetti della lega contro Carlo VIII, diventarono alleati, insieme con Venezia, i due che erano arbitri del destino di Pesaro, Alessandro VI e Ludovico il Moro. Ogni problema risolto, e così felicemente, si apriva al marito di Lucrezia l'insperata possibilità di entrate al servizio della lega con uno stipendio altissimo garantito e pagato dall'opulenta Repubblica di Venezia. Subito si cominciarono le trattative, e l'8 febbraio 1495 il Papa mandava a Giovanni una raccomandazione per il doge Agostino Barbarigo perché lo facesse entrare a servizio dei confederati; ma poiché nel fuoco dell'entusiasmo il conte di Pesaro mostrava di voler andare a Milano ad intendersi con Ludovico il Moro, il Papa gli ingiunse, pena la scomunica, di non muoversi, avendone probabilmente abbastanza di pasticci e di inganni sforzeschi. Giovanni si sfogava allora a scrivere lettere d'ammirazione ferventissima per il Moro: "Si come sono sforzesco, così volevo vivere e morire con V. E." dice; e quanto a vivere, era forse vero. Ma a Venezia, dove le informazioni erano state sempre ottime ed esatte, perché libere, si persisteva a non dar valore al braccio del signore di Pesaro. Ed egli lamentandosene, il Papa parlò finalmente chiaro e gli mandò il 29 aprile 1495 un breve pieno di considerazioni severe. "Sono" diceva "gli esempi passati, specialmente dell'anno da te trascorso presso il duca di Calabria, a far dubitare gli altri che tu non sia per fare nel futuro le stesse cose: e questa è la causa della dilazione poiché da tutti si crede che tu curi non il bene delle milizie, ma i tuoi comodi; e devi considerare che i denari dello stipendio che ti si danno non sono da usare in cose superflue o in agi per te, ma in buoni soldati armi e cavalli... poiché, certo, se il duca di Gandia per i suoi stipendi servisse noi stessi così come finora tu hai fatto, non lo vorremmo avere al nostro servizio. Ti esortiamo dunque ad astenerti dal mercanteggiare stipendi, e a disporti a servir bene ed integralmente per quello che ti sarà dato, mettendo da parte sfoggi e vanità [omissis pompis et vanis picturisl." La lettera di un censore.

Il genero del Papa non poteva però essere lasciato fuori da una distribuzione di incarichi, e finì, dopo la ramanzina, per essere ingaggiato dalla lega ai primi di maggio. Il 9 maggio partirono da Roma verso Pesaro due brevi: in uno, c'erano i rallegramenti per l'ottenuta carica e l'ordine di portarsi immediatamente nell'Urbe con tutte le genti che si ritrovassero pronte, nell'altro la sollecitazione della partenza di Lucrezia, da troppo tempo differita: tanto più, aggiungeva Alessandro VI, che messer Lelio Capodiferro intermediario diretto fra Pesaro e Roma lo aveva assicurato che Lucrezia desiderava ritornare presso suo padre. L'affetto del Borgia era di qualità così imperativa da fargli dimenticare che in quella Italia corsa da eserciti, quello francese che tornava verso il nord e quelli della lega, si potevano dare difficoltà gravi al viaggio di una dama. Se egli stesso, a fine di maggio, era andato ad Orvieto e di li a Perugia per sfuggire re Carlo, tanto più era logico

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che lo Sforza esitasse a mettere per vie malsicure la moglie; ma il 6 giugno, da Perugia, giunse un altro nervosissimo breve: raggiungessero il Papa in Umbria, subito. Non avendo più modo di temporeggiare, la comitiva si mise in via; e il 16 giugno, dopo un fortunato viaggio, Lucrezia arrivò a Perugia accompagnata dal marito, scortata da ottanta cavalieri, ricevuta da oratori, da familiari e dal Papa che affettuosamente stette ad aspettarla alle finestre del palazzo pontificio e la salutò con la sua più ampia benedizione. Si può pensare quante feste le fece: il genero ebbe la sua parte, ma dopo quattro giorni di vita perugina fu fatto tornare al suo esercito e al suo stato per tenersi pronto al comando della lega. Lucrezia restò a Perugia.

Dagli spalti rilevati della città, ella poteva fermare il giovane sguardo sul paesaggio umbro: e sentire anche lei come da quell'orizzonte, spaziato in profondità attorno alle curve tenere delle colline, scenda ai sensi una virtù armoniosa che li accorda ad un tono inusato. La crudeltà di certe dolcezze sembra davvero essere nata in Umbria e aver ragione da quel vaporare dell'aria su una terra che nasconde, sotto linee caste, misteri, segreti, e tutte le diavolerie etrusche: ma appunto perché i confini sono sfumati ed ardue le limitazioni tra il bene e il male, confusi insieme nella grazia angelica degli spazi, in questa terra fermentano le reazioni integre, le volontarie abdicazioni, gli ardori intatti di quella mistica che va tanto alto col frate d'Assisi. Fonti così limpide s'immagina però che non si confacessero alla sete dei Borgia: i quali, se andavano a visitare la santa del tempo e del luogo, Suor Colomba da Rieti, potevano anche portare nella loro visita un sincero fervore religioso; ma per ritrovarsi poco dopo a loro modo con i Baglioni, feudatari della città, uomini e donne belli come semidei, sanguinari sensuali incestuosi, il capo dei quali, Gian Paolo, viveva maritalmente con la bellissima sorella. Come feudatari e signori, i Baglioni sentivano il dovere di convitare la figlia del Papa con la sua corte, ed il Papa stesso. E così, tra un convito e un ballo si venne all'autunno.

Ma dopo Fornovo, ripassate le Alpi i francesi e cominciata l'epoca dei ritorni ritornava Alessandro VI a Roma, tornava Ferrandino d'Aragona sul suo trono di Napoli senza terre del ristretto nelle presidio francese quasi opposizione interne al comando del Montpensier e di Virginio Orsini; tornò anche Lucrezia nel suo palazzo di Santa Maria in Portico libera ormai dalla tutela di Adriana Mila, e l'inverno s'iniziò bene: Giovanni Sforza, venuto in ottobre a Roma per fermarvisi, vi stette con la moglie fino al febbraio assistendo a tutte le funzioni papali e alle feste che Lucrezia timidamente cominciava a dare nel suo palazzo. Il 26 febbraio vi fu ricevimento in onore di quattro nuovi cardinali, nominati nell'ultimo concistoro, tre dei quali spagnoli; la contessa di Pesaro scese a riceverli fino in fondo allo scalone incontrandoli nel vestibolo dove i quattro eleganti porporati lasciarono le loro grandi cappe scarlatte; scambiati saluti e complimenti, donne donzelle

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prelati e gentiluomini nei vestiti di velluto e di seta colorata risalirono lo scalone fra il vivace e sommesso brusio delle adunate cortigiane. Pochi giorni dopo si poteva incontrare, nei salotti del palazzo di Santa Maria in Portico, Francesco Gonzaga marchese di Mantova, il vincitore di Fornovo, Capitano generale della Chiesa, andato a salutare la più potente tra le donne di Roma. Ai sedici anni di Lucrezia, intatti nello splendore che nessuna sventura aveva ancora toccato, il marchese di Mantova, alto, snello, col suo viso bruno e la bocca viva e sensuale tra la piccola barba buia, apparve come un eroe, ed un eroe vittorioso. Di questa apparizione ella doveva ricordarsi in anni più tardi meglio ancora che dei discorsi "piacevoli" che il Gonzaga le fece per tutta la visita, e cioè galanti ed allegri come erano in uso nella sua fiorita corte di Lombardia. Ma se Lucrezia lo ascoltò volentieri, e anche se paragonò quella vena ricca e festosa alle meschinità del marito pesarese, non dovette avere nessun presentimento di quanto questo Gonzaga avrebbe contato un giorno nella sua intima vita.

In quel marzo Giovanni Sforza aveva già lasciato Roma, poiché il Papa, deciso a liberare tutto il regno di Napoli dai francesi, mandava verso il sud l'esercito della lega: toccò dunque allo Sforza di andare a Pesaro a mettere in ordine le sue milizie per condurle al comando dei capi ritornando a Roma verso la metà di aprile. Ma vagavano per il Vaticano indecifrabili foschie: "Il signor di Pesaro forse ha in casa ciò che altri non pensano" scrive il 28 aprile 1496 il corrispondente mantovano Giancarlo Scalona, uno dei più prudenti a parlare. E il 2 maggio aggiungeva essersi lo Sforza allontanato, disperatissimo, lasciando la moglie "sotto il manto apostolico", e dando a credere che mai più sarebbe tornato a Roma. Con quell'animo angosciato, il marito di Lucrezia partiva per la campagna napoletana, arrivava a Fondi, e poi il 20 maggio a Benevento, tenendosi lontano dai luoghi di combattimento: non si ha notizia che prendesse patte alla battaglia di Atella, l'ultimo tentativo di affermazione compiuto dagli scarsi presidi di Carlo VIII; caduta anche questa fortezza, e sgombrata la Campania dai francesi, alla fine di agosto Giovanni Sforza era a Napoli: e di lì, girando al largo da Roma, forse per la via d'Abruzzo, se ne andò dritto a Pesaro: dove rimase.

Questo serpentino itinerario dà ragione punto per punto ai pronostici nei quali s'era avventurato lo Scalona. Che cosa avesse visto, che sapesse o credesse di sapere il conte di Pesaro è un oscuro groviglio del quale però Alessandro VI conosceva il bandolo se, invece di inquietarsi, mandava al genero il 17 settembre una lettera mitissima, quasi affettuosa, per invitarlo al ritorno. "Siamo meravigliati" scriveva "che quando il duca d'Urbino e altri che non hanno come la tua Nobiltà, affinità con noi, vengono di loro volontà a servirci, tu ricusi di servirci... e ti esortiamo che, ricevuta la presente, in qualunque luogo tu sia, venga a noi, conducendo con te quanti più soldati potrai...* Gli si pagherà tutto, anche la parte di stipendio che il duca di

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Milano non gli ha pagato ancora, e si provvederà alle sue mansioni e ai suoi stipendi futuri; ma venga subito, in ogni modo. Si ripete qui l'offerta di denaro col tono di allettamento benigno su fondo perentorio, come già nel 1493 quando il Papa aveva invitato il genero alla consumazione del matrimonio con la figlia. E come allora lo Sforza non raccoglie l'invito. Apparentemente imperturbabile, il Borgia tornò a scrivergli; ma senza esito. Passò settembre, venne ottobre, si andava verso l'inverno e il conte di Pesaro non si muoveva da casa sua.

Intanto a Roma la vita nella corte papale si alzava di tono e coinvolgeva irresistibilmente Lucrezia. Lei sapeva certo qualcosa delle disperazioni di suo marito: ma comunque le giudicasse non sembrava patirne troppo se appariva volentieri in pubblico e se dava a vedere di aspettare ansiosamente l'arrivo del fratello jofré richiamato da Napoli insieme con sua moglie, la principessa di Squillace.

Una cosa le nozze avevano rivelato a Sancia d'Aragona:

e cioè che, non avendo un marito valido, non aveva nemmeno un valido padrone, e poteva sentirsi libera nella sua condizione di gentildonna sposata. E di questa libertà nel suo palazzo napoletano, presso Castel Nuovo, aveva cominciato ad usare con l'intemperanza del suo carattere e della sua giovinezza. Là, intorno ai principi di Squillace, si era andata formando una di quelle corti miste, nelle quali si seguivano le regole di etichetta e di cavalleria spagnole, con la larghezza di misura e la libertà di interpretazione italiane. Jofré aveva sempre il suo "governatore", don Ferrando Dixer, e aveva uomini di camera, Francesco Marrades, fratello dell'amatissimo cubicolario di Alessandro VI, e Diego; compagni e paggi, un cappellano, un maggiordomo, un segretario, un maestro di casa uno di sala e uno di stalla con i loro aiutanti; in più tamburini, mulattieri, staffieri, cuoco, sottocuoco, sguattero, credenziere, compratore, dispensiere: una corte fornita. La famiglia particolare di Sancia era meno numerosa; sue compagne erano madonna Covellina (dò i nomi perché hanno il gusto dell'inedito), madonna Diana, madonna Ceccarella ed una vedova addetta alle cose di camera. Loysella Bernardina Francesca e due fanciulline acerbe erano le donzelle; due donne d'aiuto, Gertrude e Cassandra, e due schiave negre che dovevano dare al corteggio un'aria esotica e fiabesca, un paggio, Annibale, un gentiluomo, messer Cecco, staffieri, ragazzi e famigli completavano la compagnia; la quale faceva parlare di sé, e tanto, e in così vari modi, che qualcuno andò a riferire ad Alessandro VI cose molto gravi sui disordini morali e materiali del palazzo napoletano.

Ecco il Papa in allarme: egli, che le sue più ardite libertà cercava di coprire con una condotta formalmente dignitosa, esigeva che dignitosissima

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fosse quella dei figli nella loro famiglia, come si è già visto per il duca di Gandia. A Napoli arrivarono presto inquieti e fulminanti i brevi papali: si accusava Sancia di ricevere uomini nelle sue stanze, assistita in questi convegni dalle sue ragazze che per loro conto non parevano impastate di virtù; tutta la corte, poi, era accusata di indisciplina e di costumi liberi e licenziosi. La compagnia napoletana, che non era certo innocentissima, si sentì per reazione addirittura candida di fronte alle troppo gravi accuse, e si riunì subito a consiglio sotto l'autorità di mastro Antonio Gurrea il maggiordomo.

Quei cortigiani fecero presto a stringere la loro lega difensiva: e prima di tutto, onore alla principessa, giurarono che nella camera di lei nessuno aveva visto entrare altri uomini oltre quel "messer Cecco, compagno della signora, un uomo dabbene e antico che passa li sessanta anni": e proseguivano testimoniando sulle "donzelles et dones honestes y bonas" le quali, come tutti i cortigiani, portavano ai loro signori "quello honore e reverentia come se fossero los Principe lo rey, e la Principessa la reyna". Detto questo, e sentita l'opinione di ciascuno, mastro Antonio Gurrea, preso un vasto foglio di carta, scrisse la sua testimonianza particolareggiata, aggiungendoci quella del "perfetto governo della casa" che era stato, il Papa ne fosse certo, ed era "al presente, così buono, che migliore né maggiore potrebbe essere", e dichiarando che se qualcuno avesse detto il contrario sarebbe stato "un vile e malo uomo e degno di gran punizione". Su questa base, gentiluomini e no, scrissero di propria mano uno per volta la loro testimonianza, dichiarandosi pronti a sostenerla in ogni modo contro il malevolo informatore, e il cappellano don Giovanni Murria ratificò tutto: lo stranissimo documento di garanzia, messo insieme il 17 giugno 1494, fu mandato immediatamente a Roma a tranquillare il Papa, e messo fino ad oggi a dormire in archivio. Ci credesse o no, in quel momento Alessandro VI aveva troppe occupazioni e preoccupazioni per dare molta importanza ai fatti della nuora napoletana. Ci ripensò più tardi, e incuriosito dalla fama di tanta bellezza volle vederla e richiamò gli sposi a Roma. Il re e la regina di Napoli, timorosi dell'incostanza politica di Alessandro VI, e memori dei patti matrimoniali che stabilivano la dimora di Sancia a Napoli anche se jofré fosse andato a Roma, disapprovavano questo viaggio. Pure, al comando del Papa bisognò obbedire, e nella 'primavera i principi di Squillace partirono verso Roma. Da principio, Lucrezia non fu contenta; ed era ancora tanto nuova al vivere, ed in particolare al vivere di corte, che lasciò capire la sua inquietudine. L'arrivo della principessa "comincia ad ingelosire la figlia del Papa e non gli piace punto" dicono infatti ali attenti e malevoli informatori, aggiungendo poi essere evidente in lei il timore del paragone. Si può pensare, dunque, se Lucrezia mettesse cura ad abbigliarsi la mattina del 20 maggio preparandosi ad accogliere la cognata: il suo seguito fu sceltissimo, le dodici donzelle bene adorne, i due paggi forniti di mantelli magnifici e di

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cavalli coperti di broccato d'oro e di broccato rosso. L'incontro fra le due cavalcate, che i familiari dei cardinali, la compagnia delle 'guardie di palazzo, gli oratori italiani e stranieri avvivavano di movimento e di luci, fu teatrale. La principessa arrivò verso le dieci del mattino di maio, con un corteo regale, rallegrato da quattro buffoni di palazzo e da due buffoni aggiunti, montando un cavallo parato di velluto e raso nero a liste, vestendo l'abito cittadino, nero, dei paesi meridionali, con grandi maniche. Lucrezia, su cavallo parato di raso nero, le venne incontro, e le due giovani donne si baciarono con molte cerimonie. Poi, il corteo si mise in marcia. Precedeva, cavalcando, jofré con la sua graziosa aria insolente, lo sguardo che le carezze della moglie avevano reso lascivo, ben pettinati i lunghi capelli dai riflessi color di rame, il volto abbronzato dal sole mediterraneo, stretto in un corsaletto di raso nero, simile ad un paggio da novella galante. Tra Lucrezia e l'ambasciatore spagnolo seguiva Sancia, ben dipinta, sbocciata, girando intorno lo sguardo arrogante e vivace. Ci fu un movimento di delusione fra coloro che avevano dato troppo credito alla leggenda di quella "bellissima creatura", Però, "sia come si voglia" aggiungeva un informatore, "la pecora in gesti ed aspetti si disporrà facilmente alla voglia del lupo". E passando Loysella, Bernardina e Francesca, le donzelle di Sancia, il commento era questo: "Esse non degenerano punto dalla maestra, sì che si dice pubblicamente che sarà una bella scola". Alessandro VI stava ad aspettare con l'impazienza di un giovane che l'arrivo di una donna bella può far sognare. Dagli sportelli della finestra scrutava la piazza, e solo, quando vide l'avanguardia della cavalcata si mise al suo posto, circondato dai cardinali. Passano alcuni minuti, vengono dalla sala vicina suoni di armi, sussurrii di sete e di voci commiste e finalmente Sancia entra col suo modo spavaldo, per nulla intimidita, lei figlia e sorella di re; con il marito si inginocchiò, chinò la testa bruna a baciare il piede del Papa. Poi, la festante corte napoletana entrò a fare reverenza al pontefice fra la pompa mondana e sacra dell'assemblea, e tutti presero i loro posti, jofré presso il fratello Cesare, e Sancia e Lucrezia su due cuscini di velluto rosso posti sui gradini del trono pontificio: il Papa le guardava dall'alto, da un lato l'ala bionda dei capelli di Lucrezia, dall'altro l'ala nera dei capelli di Sancia, le sentiva circondate dal rispetto e dalla considerazione che rende quasi preziose le belle e giovani donne. Era nel suo elemento, fra loro arbitro e padrone, e svolgeva la sua facondia in discorsi giocondissimi che le facevano ridere: sotto il cielo d'oro figurato nelle storie di Iside, fra i miti e i simboli orientali, tutto fluiva e si confondeva per lui nel felice paganesimo dei sensi. A Sancia fu riconosciuta parte sovrana nella corte papale, sebbene la sua sovranità non fosse diretta come quella di Lucrezia: ella contava più di una favorita per il suo titolo e per le sue parentele regali, ma assai meno di una nuora nel significato pieno della parola. A conoscere meglio di tutti la propria situazione era Sancia stessa che non mostrava per questo di odiare e di maltrattare il principino suo marito; anzi, lo accarezzava insidiosamente, lo difendeva, lo viziava.

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Non lo amava, una donna così non potendo amare che un uomo più ribelle più facinoroso e più protervo di lei: e doveva finire per accorgersi che le era vicino uno che queste qualità aveva anche in troppa abbondanza, il cognato cardinale, Cesare Borgia. Fra due scontenti di quella fatta il riconoscimento e l'intesa non dovettero andare alla lunga:

Sancia si buttò nell'avventura come per una rivincita: e che qualche spirito bizzarro agitasse il suo sangue aragonese, si vide negli episodi di vita giornalieri fin dal suo primo stabilirsi nella città papale, il giorno della Pentecoste, 22 di maggio, si celebrava in San Pietro una funzione alla quale erano intervenuti il Papa con la sua corte cardinalizia e tutte le donne di casa Borgia con Lucrezia e Sancia alla testa: officiava un cappellano spagnolo, al qUale l'essere ascoltato dal primo pubblico del mondo cattolico doveva parere una grossa ragione per sentirsi importante e considerato. Cadevano pigri i petali della sua rosa teologica, mentre le donne, in piedi, si stancavano e tutti, compreso il Papa, annoiati e spazientiti appena sopportavano per la reverenza del luogo sacro la dissertazione. Ad un tratto, sullo sfondo grigio della noia, si mosse qualche cosa, e si videro Sancia e Lucrezia nelle loro vesti che non riuscivano a nascondere fra i piegoni l'agilità dei corpi giovani, salire gli stalli dei canonici di San Pietro dove di solito si cantavano gli evangeli. Tutte le donzelle si arrampicarono al seguito delle signore, e di qua e di là ci fu un gran da fare a mettersi a posto, ad accomodare i vestiti, a farsi piccoli saluti risi e sorrisi, fingendo esagerata attenzione verso il predicatore, mentre occhi e viso lampeggiavano di accenni da burla: il Papa dovette divertirsi anche lui a questa insurrezione, dopo tutto una fanciullaggine; ma il rispetto delle formalità era allora così sentito, che il fatto parve avvenire con grande disonore "ignominia et scandalo nostro et populi" come dice il Burcardo. Il prete di Strasburgo non sapeva più raccapezzarsi con questa Sancia che veniva a intorbidare l'aria già fin troppo mossa del Vaticano, con la sua faccia da follie; perché, si sente benissimo che l'idea dell'invasione dei luoghi sacri venne alla principessa aragonese, e che Lucrezia la seguì come una bambina invitata al gioco e che ci sta volentieri, ma che non avrebbe mai, da sola, timida e rispettosa delle costumanze ecclesiastiche com'era, mosso il primo passo.

Lucrezia e Sancia diventarono dunque amiche; se le loro relazioni erano rette e temperate da una naturalissima circospezione questa non arrivava però alla gelosia, l'una e l'altra avendo avuto il felice istinto di capire subito quanto i loro campi fossero diversi. Così, come con Giulia Farnese, Lucrezia, calmato il disagio del paragone, sentiva rinvigorito e come rassicurato dall'imperio e dall'autorità del carattere di Sancia il suo godimento nelle feste del Vaticano: là, balli e musiche si seguivano. E invano a Firenze, dal suo pulpito di San Marco, il Savonarola lanciava contro le donne papali l'ammonizione del profeta Amos: "Audite verbum oc, vaccae

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pinguae quae estis in monte Samariae", Né Alessandro VI né la sua famiglia (nemmeno, allora, Lucrezia) si lasciavano raggiungere dall'austerità di questo linguaggio, e il destino del gran frate ferrarese era di non potere nulla contro la muraglia borgiana e di perire nel tentativo di una conquista e di una riforma impossibili. Già ancora prima di quel tempo, confrontando l'infiammato corso della propaganda savonaroliana con la vita e la natura del pontefice si poteva capire che non vi era da gettare ponti fra le due parti, e prevedere, poiché la potenza massima era nelle mani del Papa e il Savonarola non ammetteva transazioni, il rogo del 23 maggio 1498.

L'adunata dei Borgia intorno al loro capo continuava, e faceva dire nei circoli politici che il Papa si andava tirando in casa tutti i figli per non esser solo alla prossima invasione dei francesi già annunciata dal nord. E a dar valore alle voci, venne la notizia, nell'estate del 1496, che il Papa aveva richiamato dalla Spagna il duca di Gandia.

Non è facile definire il carattere politico di Alessandro VI; quando si sarà detto che in lui, come in tutti gli uomini, vivevano in embrione molti individui distinti e diversi, non si sarà ancora chiarito per quale stimolo diventassero attive nel suo spirito le forze molteplici che vi si agitavano e che facevano dire ai contemporanei: "li Papa ha dieci anime". Alessandro VI aveva soprattutto capito, al tempo della calata francese, la difficoltà di avere, in tempi critici, alleati che non tradissero: da ciò, l'idea di fondare una potentissima dinastia borgiana che potesse bastare ad un vasto fronte di difesa veniva logica, e (dava al suo nepotismo una ragione che non era solo smisuratamente affettiva. Inoltre, cadeva ora il momento per il Papa di ricordare i funesti effetti del passaggio di casa Orsini ai francesi, ed egli era deciso di dare a quella potente famiglia una lezione che sarebbe stato il primo episodio di un più vasto progetto di sterminio dei baroni romani che minacciavano continuamente con le loro turbolenze lo stato della Chiesa: all'impresa contro gli Orsini navigava appunto il duca di Gandia.

Se Alessandro VI non s'ingannava sulle qualità morali del Ciglio, e sapeva usare con lui il verbo ammonitore, pensava però che magnificenza e lussuria fossero in un uomo d'arme, e giovane, eccessi di un temperamento straricco, da ammettere, e anzi, salvati i diritti della famiglia, quasi da ammirare. Con questo giudizio si univa nell'animo del Papa quello ottimistico sul valore e sulle capacità militari di Juan che gli erano parse tali da fargli chiamare il figlio in Italia al tempo della venuta di Carlo VIII, come se al duca di Gandia fosse bastato mostrarsi in campo per aver partita vinta. Erano stati sogni; e nel 1494 e nel 1495 Juan non si era mosso di Spagna. Ma dopo la partenza del re di Francia, il richiamo del Papa si fece così imperioso, che gli convenne imbarcarsi, lasciando sola la duchessa Maria Enriquez Borgia con il piccolo figlio Juan II e tuttora incinta, in quel castello

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di Gandia che, in mezzo ad una piana limitata da linee lente di monti, stava a dominare il corso di un fiumicello dal nome sinuoso di Serpis. La casa dava un senso di solidità antica, raccolta in quadrato intorno alla corte che bifore e trifore poggiate su esili steli di colonnette fiorivano appena nella severità dei muri. Per la nobile scala scoperta che poggiando fortemente sulle arcature di sostegno portava al primo piano, nel salone d'armi tutto a travature dipinte, il duca di Gandia saliva con l'insolenza dei suoi vent'anni, mentre dietro agli sportelli delle finestrette lo seguiva forse, nero e lampeggiante, lo sguardo di sua moglie. Le armi dei Borgia, il toro e le fasce, che si incontrano spesso ancor oggi a Roma, erano laggiù dipinte o scolpite sotto un cimiero leonino e si ripetevano sulle mura e sul portale e sulle torri; solo nella cappellina, il palchetto ducale era vigilato da due angeli che sorreggevano lo stemma regale di Maria Enriquez, i castelli di Castiglia e il leone aragonese. Qui era il regno della duchessa di Gandia, e qui ella cominciò quelle preghiere ardenti e tristi che dovevano durare per tutta la sua vita, mentre il duca, agli ultimi di luglio 1496, con il suo solito appetito di vita che nessun presentimento turbava, si disponeva a veleggiare verso l'Italia come verso la terra di tutte le avventure.

Dieci agosto, giorno di San Lorenzo: e Juan Borgia fece la sua entrata a Roma arrivando da Civitavecchia. Le famiglie dei cardinali gli erano andate incontro con le consuete cerimonie, e Cesare stesso aspettava il fratello alla porta portuense per accompagnarlo con tutti gli onori al palazzo apostolico dove Juan era ospitato. Quanto a entrate solenni, i Borgia erano maestri, e questa fu da ammirare per lo sfarzo delle genti papali e per quello assai più sfoggiato delle genti del duca. Il quale, su un cavallo baio bardato "di fregi d'oro e campanin d'argento", con un cappello in testa di velluto rosso ornato di perle, e indosso un giubbone di velluto bruno con le maniche e il petto ricamati di gemme e di perle, riusciva a stupire un pubblico che pure di lussi s'intendeva.

Il futuro sterminatore degli Orsini si ebbe in anticipo quanti trionfi volle, mentre il Papa gli preparava esercito ed artiglierie, e faceva venire a Roma, come luogotenente dell'esercito, il duca Guidebaldo d'Urbino, uomo esperto nell'arte militare ma senza furori d'ambizioni che avrebbero potuto nuocere alle aspirazioni borgiane, e noto per un nome che era garanzia di serietà. Nell'ottobre 1496, tutto era pronto, e il duca di Gandia, nominato capitano generale della Chiesa, cinto di spada preziosa, ornato di gioielli, insignito di vessilli con le armi della Chiesa e le armi del Papa e del bianco bastoncello del comando, partiva per la campagna militare; e cominciò subito a mandare con una certa disdegnosa albagia di gran condottiero le prime notizie ' che, per caso, o per avveduta tattica dei nemici, furono buone. Dieci castelli caddero in mano dei pontifici con pochissimo contrasto,

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e li fecero vittoriosi e speranzosi: ma arrivato l'esercito in vista di Bracciano, lì si fermò.

Guidava la difesa del potentissimo castello una delle donne guerriere delle quali il Rinascimento italiano tanto si lodava, Bartolomea Orsini, sorella del gran Virginio, insieme col marito, il più brutto contorto e valoroso uomo d'Italia, Bartolomeo Alviano; dalle finestre altissime sventolava come una sfida al Papa la bandiera francese. Juan Borgia guardava di lontano il pentagono delle torri, un monumento di superbia umana, e doveva pensare che veramente era scomodo stare accampati alla pioggia senza gale d'oro sui vestiti e penne sulle berrette galanti; sospirando d'impazienza, preparava piani di guerra assurdi o puerili, o componeva editti che incitavano alla diserzione e al tradimento i soldati nemici. Quella vecchia gente d'armi, benché assediata, sapeva ridere di tanto ingenue trappole; e se l'eco del loro riso di beffa si propagava per tutta Italia, lasciando indifferente Juan, dava fremiti di combattività al Papa che tempestava di messaggi la sua pigra armata. Finalmente, questa si mosse all'attacco di Trevignano a nord di Bracciano; ma, preso il castello, i mercenari del duca di Urbino e quelli di Juan si contesero con tante liti il bottino che bisognò combattere per dividerli; e intanto, un esercito radunato con denaro francese al comando di Giulio e Carlo Orsini attaccava i pontifici in una battaglia nella quale si impegnava il duca di Urbino con la lealtà che gli era propria, finché non fu fatto prigioniero, Al duca di Gandia bastava una feritina per dichiararsi fuori combattimento e farsi portare in salvo; e l'esercito papale, privo dei suoi capi, lasciò il passo ai nemici che raggiunsero presto gli assediati.

Alla prima notizia arrivata a Roma, il Papa ebbe una crisi terrificante: infuriò, inveì, dichiarò che in questa guerra avrebbe impegnato anche la mitra pontificale; ma poi, pensatoci sopra, capì che non era per lui il momento di violentare le cose e che meglio gli sarebbe convenuto accettare la pace e prendersi quello che gli offrivano gli Orsini, e cioè Cerveteri e Anguillara, e 50.000 ducati d'oro. E prigioniero duca di Urbino si sarebbe finto di dimenticarselo e si sarebbe lasciato in mano nemica, chiuso nella rocca di Soriano, ad aspettare, paziente e sdegnoso, che la famiglia gli pagasse il prezzo del riscatto. Mentre per Roma si trovavano affissi cartelli che incitavano chi avesse avuto notizie di un certo esercito della Chiesa a riportarlo al duca di Gandia, questi, senza un pensiero al mondo, aveva ripreso i suoi programmi di feste e di avventure e doveva pensare che, poiché per fortuna la guerra era finita all'inizio del carnevale, sarebbe stato peccato sciupare un tempo così propizio ai divertimenti; come sarebbe stato peccato non accorgersi che in Vaticano c'erano due occhi di donna ridenti ed aggressivi, quelli di Sancia d'Aragona, che parevano fatti apposta per eccitare alla conquista un uomo di pochi scrupoli. Che cosa ci fu fra i due cognati non è chiaro: fosse già stanca, Sancia, d'essersi data un padrone nel

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cardinale di Valencia, o semplicemente amasse il gioco rischioso delle rivalità, o si vendicasse, affermandosi tre volte nuora, del suocero che l'aveva voluta nuora soltanto per metà, pare certo che stesse al gioco di Juan. Il Papa, per suo conto, subiva così perdutamente il fascino del figlio, che non gli addebitava nemmeno la recente rovinosa sconfitta, riguardandola come una disgraziata avventura, sulla quale Juan si sarebbe preso mille rivincite, Se Cesare aveva contato su quella umiliante campagna per vedere il fratello diminuito agli occhi del padre, dovette presto disilludersi: egli, Cesare, era sempre meglio apprezzato ed amato; ma l'altro restava il dilettissimo, colui che doveva portare nel futuro la gloria militare del nome borgiano. E se è vera la passione capricciosa di Juan per Sancia, come non pensare che nell'animo trafitto d'orgoglio di Cesare non crescessero il rancore e l'idea di imporsi, sia pure ferocemente, a ciò che gli si palesava un errore di destini? Molte cose tragiche maturavano in quel 1497 alla corte papale. Dal maggio al dicembre 1496, il Papa non era riuscito a convincere Giovanni Sforza perché tornasse tra le mura del palazzo di Santa Maria in Portico; e sì che lo considerava sempre al suo servizio e gli stipendi correvano se nel mese di novembre lo aveva invitato a collegare le sue truppe con quelle del duca di Gandia muovendo contro gli Orsini. Fedele ai suoi principi, lo Sforza, radunata poca gente d'armi, non era uscito dalla sua città, contentandosi di mandare al Papa un cancelliere, Geronimo, perché spiegasse le ragioni del suo star fermo. Alessandro VI fingeva corriva mansuetudine accettando scuse e ragioni, e rispondendo il 30 dicembre 1496 di aver tutto capito e considerato: quello che gli importava, si vede bene da queste lettere, era che il genero si decidesse a tornare, e voleva portarlo a questa determinazione per gradi, usando tanta benevolenza da disarmarlo, Quando il momento gli parve maturo, e fu il 5 gennaio 1497, gli mandava un breve intimandogli che dentro quindici giorni si presentasse a Roma: e lo Sforza, trovandosi alle strette, "per non indurre Sua Beatitudine a maggiore indignazione", scrive egli stesso il 15 gennaio al duca d'Urbino, partì da Pesaro.

A Roma, trovò l'ambiente rischiarato, o almeno si cercò a forza di buone maniere di fargli credere che così fosse, tanto il Papa e i fratelli Borgia gli si prodigavano in "buone dimostrazioni e grandi carezze". E Lucrezia stessa "ora si trova ben contenta e impazzisce di lui" dice un corrispondente. Impazzire era troppo, ma certo lei che amava tanto la vita decorosa, e che era quella "dignissima madonna" che i relatori di quel tempo, anche i meno benevoli verso i Borgia descrivono, godeva di quel ritorno che la rimetteva al suo rango legittimo, mentre il marito compariva nelle feste e nelle cerimonie quasi alla pari con Juan e con Cesare: per prima, cadeva nel tranello dell'amorevolezza di Alessandro VI, né voleva altro che cadervi. Si vedeva Giovanni Sforza assistere alle funzioni papali, come il giorno della Purificazione, o partecipare alle cavalcate d'onore come al ricevimento

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ufficiale in Roma di Consalvo. di Cordova, e la domenica delle Palme in Vaticano accogliere dalle mani del Papa la palma benedetta, subito dopo il duca di Gandia, sui gradini del trono pontificio. C'era da meditare per lui su quel dono di pace, se stava già sull'avviso; e come non ci sarebbe stato? Alle diffidenze antiche, avevano dovuto aggiungersene nuove, ed essere queste e quelle rafforzate da ragioni politiche. La potenza degli Sforza a Roma era ormai sul declinare, non perdonando loro, il Papa, l'alleanza prima e la pace separata poi, con i francesi. E benché il cardinale Ascanio si battesse in campo aperto e in campo chiuso per arginare il disfavore del pontefice, ed ogni tanto si illudesse di aver riconquistato il suo posto di vicepapa, sempre più gli interessi dei Borgia divergevano dagli interessi della casata milanese. La mattina del venerdì santo, il signore di Pesaro si alzò all'alba e andò a salutare la moglie; ebbe con lei un breve colloquio e disse che sarebbe andato a confessarsi a San Grisostomo in Trastevere o a Sant'Onofrio sul Gianicolo, e che avrebbe fatto poi il giro di penitenza delle Sette Chiese, data la solenne maestà del giorno. Invece, montato a cavallo con pochissima comitiva, prese la via della campagna romana, passò l'Appennino e giunse alla sua Pesaro tutto spaventato, e, come dice egli stesso, "per il cavalcare presto molto stracco". Un fugone, insomma. Subito si parlò di veleno per certi doni che si diceva essergli stati mandati; e con questi sospetti si accorderebbero almeno nel senso le cronache pesaresi di Bernardo Monaldi e di Pietro Marzetta che accennano al disegno borgiano di togliere di mezzo Giovanni Sforza. La prima di esse narra che essendo un certo Giacomino, familiare dello Sforza, in camera di Lucrezia, ella lo facesse nascondere dietro la spalliera della sua scranna perché assistesse ad un suo colloquio col cardinale Valentino dal quale sarebbe risultato che i Borgia avevano deciso l'assassinio del signore di Pesaro. Andato via il Valentino, Lucrezia avrebbe detto al cameriere di riferire tutto al suo padrone. Non sarebbe un ostacolo alla credibilità di questo racconto la sua facile teatralità perché la realtà si manifesta in ogni specie di rappresentazione: ma come mai Lucrezia, che vedeva il marito tutti i momenti e che ebbe il suo saluto prima della fuga, si sarebbe servita di un'architettura così pericolosa di testimonianze per avvertirlo. di minacce che gli sovrastavano? Il signore di Pesaro non era così temerario da aver bisogno di incitamenti estremi per mettersi in salvo. Più sobria, la narrazione dell'altro cronista pesarese, il Monaldi, dice che il Papa aveva fatto disegno di ritogliere la sposa al signore di Pesaro, o ammazzarlo:

"ma esso, ciò risaputo dalla moglie, sopra un cavallo tornò qui". Ad ogni modo anche se la storia di Giacomino e della scranna fosse vera, non vorrebbe dire gran che: l'importanza delle due cronache pesaresi consiste invece nell'affermazione concorde che sia stata Lucrezia a svelare una congiura familiare quale che fosse al marito: il che prova che nei cronisti, i quali scrivevano tutti e due alcuni anni dopo gli avvenimenti, avendo cioè

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misurate di essi tutte le conseguenze, era rimasta la convinzione non solo dell'innocenza di Lucrezia ma della sua alleanza col marito.

"Del dubbio di veleno non trovo altro fondamento e credo che non fosse vero" dice uno dei più informati relatori, l'arcidiacono Gian Lucido Cattanei qualche giorno dopo la fuga del signore di Pesaro. Tutta la curia romana, messa in rivoluzione da questo avvenimento che si prevedeva ricco di sviluppi impensati, seguiva le manovre d'attacco del Papa e quelle di difesa del genero, già convinti, i più abili, che questi non avesse più a tornare a Roma. Escluso il dubbio di veleno, subentrava un pesante interrogativo: quali ragioni avevano indotto alla fuga il genero del Papa? Il sabato santo, i segretari dello Sforza rimasti a Roma si recarono in visita ufficiale dall'oratore milanese, Stefano Taverna, e spiegarono la partenza improvvisa del loro signore con un generico "malcontento" che egli avrebbe avuto del suocero: lo stesso giorno il Taverna riferiva al duca di Milano visita e discorsi, aggiungendo, per conto suo, di credere che vi fosse sotto qualche cosa di più grave, riguardante "la pudicizia della moglie", ciò che aveva prima indotto il signore di Pesaro "in grave mala contentazione, e poi a fare una partita di questa sorta". Finiva con una notizia: Giovanni, prima di partire, aveva lasciato ad un suo fido un memoriale nel quale pregava insistentemente Lucrezia di raggiungerlo a Pesaro nella prima settimana dopo Pasqua. A Pesaro, Giovanni Sforza si aggira tutto solo e pieno di paurosa ira e di amara vergogna, nel palazzo comitale, per quelle camere che due anni prima la giovane contessa, chiara e senza ombre, aveva animato della sua presenza. L'aspetta, vuol credere che verrà; e ad una lettera di Ludovico il Moro che gli chiede anche lui spiegazioni della fuga da Roma, risponde che gli manderà presto, con le spiegazioni desiderate, un messo di sua fiducia; non prima però che gli sia arrivata una certa risposta da Roma: la risposta di Lucrezia. Ma il signore di Pesaro doveva essere non poco sconvolto per dare alle sue speranze vie così strane: come era possibile che il Papa gli avrebbe lasciato andar dietro la figlia, per restarsene solo ed offeso? Invece di lei, i primi di aprile, il messo altre volte gratissimo allo Sforza, messer Lelio Capodiferro, arrivava a Pesaro portando un breve papale datato il 20 marzo, ponderato, ma deciso: "Quanto ci siamo doluti dell'inopinata tua partenza dall'Urbe, può considerarlo la tua prudenza," diceva "e poiché ad un fatto di tal sorta ci pare che nessun altro rimedio possa far riparo, ti esortiamo quanto più possibile, se brami di essere sollecito del tuo onore, che tu voglia ritornartene subito qui". Forte della sua lontananza, lo Sforza rispose brusco che gli si mandasse la moglie: calmissimo, il Papa gli fece sapere che non sperasse mai più di rivederla se prima non si fosse restituito a Roma; e lo ammoniva di non provarsi a resistergli, perché così il cardinale Ascanio come Ludovico il Moro s'erano intesi con lui.

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Il conte di Pesaro stava mandando invece lettere su lettere al duca di Milano e al cardinale Sforza, e fidava di essere aiutato, senza pensare che la necessità politica avrebbe forzato i suoi parenti ad agire secondo una ragione che si sarebbe trovata a non essere la giusta. Per gli Sforza la situazione era davvero d'imbarazzo, ed essi se la cavavano cercando di coprire con parole la loro voglia di starsene il più possibile neutrali: per prender tempo, e il cardinale e il duca si davano a chiedere e a richiedere spiegazioni e chiarimenti sulle veritiere ragioni di quella misteriosa dipartita: ed era questo invece il punto sul quale il signore di Pesaro insisteva a star zitto. Solo il 12 di maggio egli scrisse al Moro che, insomma, quando Ascanio sarebbe venuto in pellegrinaggio a Loreto, come aveva promesso, avrebbe confidato a lui il tutto, "e questo faccio per non voler pubblicare questa cosa". A quale "cosa" impubblicabile si riferiva? Il suo andar prudente, la sua ostinazione a tacere, sicuro com'era che le sue parole sarebbero state gravissime, rivelano che egli aveva già allora certe sue spaventose certezze e che se le teneva in petto badando a non lasciarsene sfuggire un fiato per terrore delle conseguenze che avrebbero potuto portare. Bisogna riferire questi suoi timori alle parole del Taverna quando accennava alla fallente "pudicizia della moglie", e risalire agli accenni dello Scalona nell'aprile e nel maggio 1496? Intanto, viste inutili preghiere ed imposizioni, Alessandro VI decideva di risolvere la situazione: e mandava a Pesaro fra Mariano da Genazzano, generale degli Agostiniani, il ferreo nemico del Savonarola, predicatore rotondo e fascinoso, un poco troppo avvocato per un uomo di chiesa, ma in questo caso proprio quello che ci voleva. Da tanto ambasciatore, lo Sforza seppe che cosa gli si chiedeva probabilmente ciò che ancora non s'aspettava, l'annullamento del suo matrimonio con la figlia del Papa. Per alleviare la gravezza della domanda il Papa indicava due soluzioni: o dichiarare di non aver mai consumato il sacramento, o sostenere che le nozze con Lucrezia non erano valide perché la sposa non era mai stata legalmente prosciolta dagli antecedenti patti matrimoniali con don Gaspare da Procida. Soprattutto, la volontà papale era che "per niente Giovanni Sforza avesse a congiungersi con la prelata madonna Lucrezia la quale voleva mandare in Ispagna".

Mentre il signore di Pesaro ascoltava le parole che dovevano poi diventargli sentenza, avveniva per Lucrezia un risveglio, il suo primo, alla crudezza degli avvenimenti. Se pensò di raggiungere il marito, e se si interpose con il padre e con i fratelli non si sa: le parve minor male per sé e per il marito accettare il divorzio? Certo aveva accettato, se il 26 maggio il Papa mise le firme sotto i brevi di presentazione di frate Mariano, e quelli di intimazione al divorzio indirizzati l'uno e l'altro al genero; ma doveva essere per lei tempo di crisi perché il 6 giugno, all'improvviso, ella cavalcava con tutte le sue donne e la sua corte verso il Circo Massimo. passava sotto i ruderi ancora in piedi del Settizonio, il palazzo a sette piani di Settimio

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Severo, e andava a fermarsi in vista delle rovinate Terme di Caracalla che disegnavano nell'aria la spezzatura possente della grande architettura imperiale. Là di fronte alle Terme, esisteva tra orti e vigneti, immerso in un'aria arcaica di quiete, un convento di monache domenicane dove entravano fanciulle nobili che rinunciavano alle pompe mondane: il rischio, per le più fragili di esse, era di rinunciare anche all'esistenza, essendo malsana l'aria del luogo in quei tempi fortemente malarico; ma la paura della morte non sovrastava la loro vita come una condanna che desse alle giornate peso di malinconia. Serene, e, ancor meglio, convinte di dover essere serene, le abitatrici di San Sisto trovavano tra il lavoro, la musica, la meditazione e la preghiera, l'ordine spirituale che può dare ad una donna il convento, una delle rare comunità femminili rette da gerarchie nette e rigorose. é comprensibile, come doveva più tardi accennare la badessa, che l'arrivo di Lucrezia e della sua corte scompigliasse questa lindezza di costumi, portando dentro le mura di San Sisto passioni e pensieri mondani: ma non si poteva rifiutare l'entrata alla figlia del Papa.

Si diceva che Lucrezia volesse farsi monaca: e si diceva anche che fosse entrata in convento senza avvertire il padre, "insalutato hospite" come scriveva Donato Aretino in una sua corrispondenza. Invece, Alessandro VI, parlando con Ascanio Sforza il quale gli era andato a domandare la causa di quella reclusione, aveva affermato di aver mandato egli stesso la figlia a San Sisto "per esser loco religioso ed onestissimo", volendo che stesse lì fino a che il marito di lei non fosse venuto ad una decisione. Ma perché, allora, le mandava il 12 di giugno una schiera di armati comandati dal bargello, per toglierla dal convento? "Il Papa le ha mandato il bargello per averla" informa il Cattanei, e si può immaginare se, al rumore delle armi, i cuori delle vergini, suor Serafina, suor Paolina, suor Cherubina, suor Speranza, avranno palpitato. Era badessa, in quell'anno, suor Girolama Pichi, donna fattiva e coraggiosa; toccava a lei parlamentare con i soldati e con il loro capitano: che cosa dissero e che cosa fecero quelle donne per non obbedire al pontefice? E l'ordine era venuto proprio da lui? Sono tutti interrogativi: pare certo, però, che Lucrezia rimanesse in convento. In una vita di preghiera ella dimenticava contatti e contrasti con quegli uomini tempestosi fra i quali le era dato in sorte di dover vivere. La chiesa semplice, ad una navata, intrecciava sopra il suo capo confidenti travi color rosso-bruno: dall'abside, le pitture trecentesche e quattrocentesche, storie di santi, sviavano la sua fantasia e calmavano la sua ansia con la pacatezza di un racconto di fede. Uscendo dalla chiesa, nel chiostro romanico che aveva visto il miracolo di una resurrezione operato da san Domenico, ella poteva incontrare suor Cecilia, l'elegante monachina che portava camicia di lino fine e possedeva scarpe, scarpini, pantofole, perfino una pelliccia, e suor Ippolita Pucci col suo giovane viso asciugato dalle lunghe discipline, e le altre monache dai bei nomi che ancora oggi si leggono nelle cronache del monastero. Veniva dalla

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vicina via Appia lo zoccolio dei cavalli di comitive nobili o guerresche, e l'orecchio ne accompagnava e seguiva l'eco fin nella lontananza remota. Piangeva, Lucrezia? E qual'era il senso di quel pianto, a quali presenze si riferiva a quali paure a quali magnetismi o ripugnanze di sangue? E a quali consensi forse crudeli per il suo corpo esile di giovanissima?

La pace di quell'esilio le faceva forse sperare di essere dimenticata, mentre il suo nome e le più segrete cose della sua vita empivano i carteggi e accendevano i commenti.

Enigmi e delitti

Mentre Lucrezia riparava quel che poteva del suo pudore fra le mura di San Sisto, frate Mariano da Genazzano arrivava a Pesato, e cominciava con Giovanni Sforza lunghi e sofistici ragionamenti per disporlo alla dissoluzione del matrimonio. Il conte di Pesaro li sosteneva con la forza della disperazione, ma spaventato ed irritato di fronte alla freddezza dialettica del suo interlocutore, andava perdendo terreno ed argomenti ad ogni passo: concluse chiedendo una settimana di tempo per riflettere; e, salito a cavallo, andò a Milano a chiedere consiglio a Ludovico il Moro. Di questi giorni deve essere la domanda di divorzio che Lucrezia figurava di avere indirizzato al Papa, concepita secondo le decretali di Gregorio IX, nelle quali si stabiliva che una moglie potesse chiedere il divorzio dal marito, se, passati tre anni dalle nozze, il matrimonio non fosse stato consumato. La domanda di Lucrezia era scritta in latino, e di essa non conosciamo che poche frasi riportate poi nel carteggio degli interessati: bastano. Diceva, fra l'altro, che la sposa "in eius [di Giovanni Sforza] familia per triennium et ultra translatata absque alia sexus permixtione steterat nulla copula carnali consunctione subsequuta, et quod erat parata iurare et iudicio obstetricum se subiicere". Lucrezia firmò di propria mano.

In Vaticano, ora, il cardinale Ascanio Sforza si stava ascoltando ogni sorta di proteste e recriminazioni contro il suo entrata in casa del marito vi era vissuta per più di tre anni senza congiunzione carnale e senza copula, era pronta a giurarlo e a sottomettersi alla visita di un ostetrico". parente, non solo dal Papa il quale giurava di essere pronto a soffrire "le cose estreme" piuttosto che restituirgli Lucrezia, ma anche dal duca di Gandia e dal cardinale Valentino che insieme "uscivano in parole severissime per dimostrare che mai più consentirebbero che sua sorella venisse più nelle mani del signor di Pesaro". Ascanio Sforza sopportava tutto con la fredda

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pazienza che hanno gli uomini politici quando decidono di sopportare; e del resto egli e Ludovico il Moro avevano già abbandonato il parente provinciale, sacrificandolo alla necessità che avevano di non inimicarsi il Papa: se ancora fingevano di sostenere le sue ragioni, era più per dare ai Borgia l'impressione di combattere contro volontà forti quanto le loro che per sollecitudine verso Giovanni. In quel momento Alessandro VI era fortissimo, e perseguiva con la consueta gagliardia i suoi disegni gloriosi per il figlio Juan. Il 7 giugno, in concistoro, dichiarò essere sua intenzione di dare al figlio in feudo per sé e per i suoi discendenti la città di Benevento con tutte le fortezze e pertinenze. I cardinali, eccetto il Piccolomini, acconsentirono, sapendo quanto fosse inutile la resistenza, ma non così l'ambasciatore spagnolo che, preso da scrupolo religioso, si gettò pateticamente ai piedi del pontefice scongiurandolo di non voler alienare i beni della Chiesa. Ecco Alessandro VI annuvolarsi tutto, eppure condiscendere a spiegare benignamente che non si trattava di grandi beni, e che le stesse terre erano già state vendute a privati al tempo di Niccolò V. E, insistendo l'oratore che non facesse tale donazione per non dar "malo esempio", il Papa incollerito gli disse "levati in piedi", e rimandò la deliberazione dopo la partenza dell'insolente spagnolo che osava farsi paladino delle cose ecclesiastiche contro il capo della Chiesa, Juan disponeva presso il Papa di un favore infinito; e veniva naturale che i partiti politici tentassero di valersene, i più intraprendenti per primi, e dunque l'attivo cardinale Ascanio. Farsi di Juan un amico sarebbe stato per i milanesi un colpo così fortunato che era peccato non provarcisi. Ci si provarono; e, se al cardinale Sforza andò a male il tentativo, non fu tanto per inabilità sua o per volere diretto del duca, quanto per cause che muovevano in quest'ultimo da origini a tal punto grossolane e puerili, che non si sarebbero mai potute, ragionando, prevedere. Quando si sarà detto che il cardinale Ascanio parlava il linguaggio politico degli uomini, e che il duca di Gandia non conosceva se non quello del suo egoismo e della sua vanità, egoismo e vanità senza lume di intelligenza, si comprenderà facilmente quello che ci fu tra i due, e che illustra bene un episodio avvenuto nel palazzo del vicecancelliere in quei primi giorni del giugno 1497.

Una sera lo Sforza teneva convito splendidamente, fra uomini di conto, ed era con essi il duca di Gandia. Pronto di parola, e sicuro della sua intangibilità, il figlio del Papa cominciò a schernire i convitati e giunse a chiamarli "poltroni a tavola"; al che uno degli offesi rispose tranquille parole che ricordavano quella tale origine bastarda del duca. Juan si levò di scatto, e mentre intorno si credeva di dover assistere ad una contesa d'armi, egli, uscito dal palazzo di Ascanio, si presentò al padre. Alessandro VI agì in un modo terribilmente risolutivo: incurante della franchigia cardinalizia, mandò una schiera di soldati a forzare la porta di Ascanio, fece prendere l'uomo dalla lingua vivace, e, senza tener conto delle esortazioni alla riflessione e alla clemenza, lo fece immediatamente impiccare.

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Questo gesto che parrebbe vendetta elementare, reazione ferma, non è facilmente spiegabile in Alessandro VI, noto per la tolleranza dei pettegolezzi e dei libelli che lo bersagliavano: Roma è terra di uomini liberi, diceva. Ma l'avere avuto l'insulto per oggetto il duca di Gandia, aver fatto a lui quel viso stravolto, e messo in quegli occhi l'accusa contro il padre", accusa che infiammava la domanda della vendetta, dovette essere per il Borgia umiliazione così cocente del suo orgoglio e del suo amore paterno, che solo l'ostentazione di una superiorità alla quale nessun mortale avrebbe attentato invano, poteva sminuire e medicare. Dopo questa prova di forza, infatti, Juan, ripresi tutti gli spiriti, se ne andava in giro inebriato di sé, senza dar peso ai consigli di cautela che gli dava il padre, e impegnandosi alla cieca in mille intrighi. Oltre l'amicizia per Sancia, sospetta come tutte le cose che lo riguardavano, si diceva che fosse innamorato di una fanciulla nobile e bellissima, la figlia del conte Antonio Maria della Mirandola, ferrarese, e che cercasse con ogni mezzo di arrivare fino a lei. Non si sa se vi riuscisse> perché la ragazza era ben guardata; parve tuttavia significativo che un gentiluomo della famiglia del cardinale Sforza, certo Jaches al quale ella era stata offerta in matrimonio con ricche promesse di doni e di dote, pur amando la fanciulla, avesse sempre ricusato di sposarla.

Così, di festa in avventura giunse il 14 di giugno. Lucrezia era da otto giorni chiusa nel suo ritiro di San Sisto, quando Vannozza Cattanei fece un gran convito ai suoi figli maschi: si può supporre che questo convito non fosse cosa rara, ma che frequentemente la madre radunasse intorno alla sua mensa i figli con i parenti di casa Borgia. Era il principio dell'estate; e Vannozza che s'intendeva dell'arte di stare in compagnia, preparò la sua festa non nel palazzo di città, ma all'aperto, in una vigna che possedeva tra la chiesa di San Martino ai Monti e la chiesa di Santa Lucia in Selci, invitando Cesare, Juan, il cardinale Borgia di Monreale, e alcuni familiari intimi. Il convito, presieduto da una donna che portava ancora in viso i segni di una bellezza capace d'imperio e che sapeva indulgere assai largamente, dovette essere piacevole. Cesare, in veste laica, ostentava come al solito la sua maniera di velluto; e il duca di Gandia era l'eroe della festa con le sue borie e le sue spavalderie sostenute ed esaltate dai cortigiani e dai familiari. Accanto al duca di Gandia comparve ad un tratto un uomo mascherato: ma intorno non c'era chi mostrasse d'impensierirsene, e si sussurravano anzi accenni a storie amorose, segrete come tutte le imprese passionali di un gentiluomo. A notte alta finì la cena e i convitati, salutata Vannozza, si mettevano in cammino per ritornare alle loro dimore: andavano in gruppi, ciascuno con il suo piccolo seguito, verso il Vaticano, quando presso il palazzo del cardinale Ascanio, nel rione di Ponte, il duca di Gandia si fermò, e preso con sé un palafreniere, e fattosi salire in sella l'uomo mascherato, si avviò nella notte ad un suo convegno, senza ascoltare le esortazioni di chi lo

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consigliava a farsi seguire da uomini armati. L'eco della spavalda risata del giovane duca fu l'ultima cosa che parenti e familiari intesero di lui vivo. In piazza degli Ebrei il palafreniere fu fatto fermare con questa istruzione: che, se dentro un'ora non avesse visto nessuno, se ne ritornasse pure a palazzo. Roma buia e deserta, tutte le case serrate, un'ombra fitta che qualche rara lanterna, più paurosa delle tenebre, rompeva ogni tanto con un cerchio giallo di luce: l'animo del palafreniere non sarà stato del tutto tranquillo mentre aspettava nella piazzetta deserta; non erano tempi che dessero sicurezza e chi si aggirasse di notte, solo; e intanto il duca di Gandia era scomparso nell'ombra, chiamato dalla voce imperiosa delle potenze mortifere.

Venne il 15 di giugno. Il Papa pensava alla nuova incoronazione regale che sarebbe avvenuta a Napoli, dove re Ferrandino era morto giovanissimo per il troppo amore, si diceva, che aveva voluto dimostrare alla sua sposa e zia Giovanna d'Aragona. Le ore del mattino passarono tra questo e quell'affare, e il duca di Gandia non comparve. Il Papa, avvisato dagli spagnoli, stava in ansia, ma si faceva volentieri consolare dal pensiero che già altre volte Juan, destatosi a giorno fatto in casa di qualche bella troppo conosciuta professionalmente, vi era rimasto fino a sera per non farsi veder uscire di là: decenza formale che il Papa approvava per primo. Mai la giornata lenta e luminosa di giugno parve tanto ingrata al pontefice; infine, venuta la sera e l'ombra, l'angoscia si fece più grave. Gli spagnoli correvano le strade a spada tratta senza altro risultato che quello di spaventare i cittadini e di fare uscire dai loro covi le genti degli Orsini e dei Colonna sempre pronte ad aumentare i disordini. Si ordinarono le ricerche; e il primo risultato fu il ritrovamento del palafreniere, che, ferito a morte, non poté parlare: alla crudeltà di questo indizio tutti capirono che il duca di Gandia era perduto. Le ricerche continuarono, si metteva la città in moto; ed ecco che un barcaiolo dalmata, di nome Giorgio, che dormiva la notte in una barca ormeggiata fra le sponde cespose del Tevere, sorvegliando di là un suo deposito di legname, press'a poco nel punto dove è oggi la chiesa di San Gerolamo degli Schiavoni al ponte di Ripetta, parlò. Il suo racconto fu questo: la notte fra il quattordici e il quindici di giugno aveva visto venire, dalla via che costeggiava l'ospedale degli Schiavoni, due persone che a passi cautissimi esploravano la via ed i dintorni. Sparirono un momento, per ricomparire e ripetere a palmo a palmo il loro esame; poi, dopo una pausa, si era visto avanzare un uomo che cavalcava un cavallo bianco tenendo dietro di sé, attraverso la sella, il peso di un cadavere che due palafrenieri uno a destra e uno a sinistra reggevano in equilibrio. Il pauroso cavaliere si avanzava fino al fiume, e, voltato il cavallo, dava un ordine al quale gli uomini rispondevano facendo scivolare con una certa loro scellerata bravura il corpo inerte dalla groppa dell'animale, e lanciandolo rapidamente in acqua. Si era udito il tonfo, e, chiara, la voce del cavaliere che domandava se l'avevano gettato bene. "Signor sì" rispondevano gli altri. Il cavaliere si

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volge, guarda il fiume che passa lento sotto di lui, distingue qualche cosa sull'acqua, riconosce l'ampio mantello del morto che si è gonfiato d'aria e come una vela funebre sembra trascinare il corpo per la riviera d'Acheronte, dà ordine che quella traccia si annulli, sta a guardare le sassate vigorose che gli uomini lanciano verso il bersaglio. Tutto è sommerso, gli uomini spariscono, la notte ritorna innocente. Quanto a denunciare il fatto, il dalmata disse di non averci nemmeno pensato; dalla sua barchetta aveva visto gettare nel fiume almeno cento cadaveri dei quali nessuno si era mai dato pena. Anche tenendo conto di ciò che ci poteva essere di bravata nell'affermazione di uno che per la prima volta in vita sua si sente ascoltato, bisogna concludere che quella barchetta era un osservatorio spaventoso. Da quel momento il Papa fu fuori di sé: non voleva credere a quella morte che ormai tutti davano per certa, e aspettava la prova. Il Tevere, frugato da cento reti, interrogato da mille occhi, rispondeva la sera stessa restituendo il cadavere del duca di Gandia sfigurato da nove grandi ferite una delle quali gli aveva recisa la gola, e insudiciato dai rifiuti che lo avevano avviluppato in un manto di melma. Fu portato a Castel Sant'Angelo, spogliato, lavato, rivestito degli abiti ducali. E a notte, il cadavere scoperto, bello di quella disperante bellezza che hanno a volte i morti giovani, fu portato in sepoltura a Santa Maria del Popolo, seguito dai familiari, da preti, da nobili e da gente spagnola, una turba senza ordine agitata in moti d'angoscia e di tragedia. Al lume di centoventi torce, fra gli ululati i pianti e le preghiere, uscì correndo il fantastico corteo da Castel Sant'Angelo, e su tutti i pianti si levò l'urlo paterno che da una finestra buia del Castello chiamava il figlio perduto. La sepoltura fu fatta a Santa Maria del Popolo, forse in una cappella a destra del transetto dove era già il corpo del primo duca di Gandia, Pedro Luis. L'uno e l'altro furono poi, sotto Giulio II, trasferiti in Gandia per aver là il composto riposo al quale hanno diritto, un diritto a tutti e benedetto, tutti i morti, Il Papa era come se gli. avessero data la tortura: per due giorni e due notti non mangiò non bevve non dormì, visse solo comunicando col proprio dolore ed esprimendolo nel pianto profondissimo che gli veniva dalle essenziali ragioni di vita. Uno stato di dolore così acuto presupponeva però una reazione, e questa avvenne, aiutata, evocata anzi, dal desiderio di giustizia. La polizia pontificia incominciò subito le ricerche: il primo sospettato fu il cardinale Ascanio Sforza questo sospetto era fatto per piacere al Papa e, poiché il cadavere era stato ritrovato nelle vicinanze di una casa campestre sforzesca, se ne ordinò la perquisizione. Il cardinale mostrò sopportazione e abilità, consegnando ai perquisitori le chiavi stesse dei suoi palazzi, lodando il provvedimento e ritirandosi poi, con porporata dignità, presso l'ambasciatore milanese Stefano Taverna. si pensava, ed era naturale pensarvi, che il cardinale Ascanio avesse voluto vendicare l'impiccagione del suo commensale che aveva osato chiamare bastardo il duca di Gandia; sebbene gli Sforza avessero in quel momento altro da fare che darsi alle vendette private. Il duca di Gandia aveva molti nemici, anzi non aveva che

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nemici: chi aveva ordito l'assassinio sapeva e contava appunto sulla molteplicità delle accuse, tutte verosimili, per disperdere e confondere le proprie tracce. Ma Ascanio Sforza fu presto messo fuori causa: anzi, Alessandro VI giunse a mandargli delle scuse per certe minacce che gli erano state fatte dal Valentino e dai più fidi del duca, dicendole proferite nell'impeto del dolore. Successivamente, scartato Ascanio, si passò a sospettare di Guidobaldo di Montefeltro duca d'Urbino che era stato lasciato in mano nemica senza riscatto, al tempo dell'impresa contro gli Orsini, sospetto subito annullato conoscendosi troppo l'animo altero e leale del Montefeltro. Le accuse trovarono miglior indiziato in Giovanni Sforza, il marito di Lucrezia; e parendo non bastare l'odio naturalissimo che egli poteva avere per il duca che si era mostrato così severo nei suoi giudizi contro di lui, si disse perfino che lo Sforza sapesse di relazioni incestuose avute da ' Juan con la sorella. Fatti gli accertamenti e i confronti, apparve però chiaro che il conte di Pesaro, anziché cercare vendette, era allora a Milano presso Ludovico il Moro a chiedere aiuto per riavere la moglie né aveva potuto incaricare il fratello Gian Galeazzo dell'assassinio, poiché questi non si era mosso da Pesaro. Il 19 giugno il Papa non dubitava più degli Sforza di Milano e di Pesaro, né del duca d'Urbino, e lo dichiarava solennemente in concistoro. In quel concistoro si visse fra l'alta tragedia e il melodramma. Fu forse la prima volta e l'unica, nella storia della Chiesa, che un Papa, rivestito delle insegne pontificali in un'assemblea cardinalizia alla presenza di ambasciatori, pianse con parole a volte blasferne la morte di un figlio: "Un colpo più forte" diceva egli con la sua grave e sonora voce spagnola "non ci poteva toccare, perché noi amavamo il duca di Gandia sopra ogni altra cosa al mondo... Daremmo volentieri per i nostri peccati perché il duca di Gandia non meritava una morte così terribile e misteriosa... Si è sparsa la voce che ne sia autore Giovanni Sforza: noi siamo convinti che sia innocente, e ancor meno colpevoli sono Gian Galeazzo Sforza e il duca d'Urbino...". A queste frasi seguivano parole di pentimento e propositi di vita santa. Il Papa annunciava una riforma completa in Vaticano, una scrupolosa diligenza negli uffici sacri, una severa vigilanza perché le cose mondane non passassero la soglia del palazzo apostolico. "D'ora in poi i benefici saranno conferiti solo a chi li meriti: vogliamo rinunciare al nepotismo e cominciare la nostra riforma da noi stessi." Doveva essere toccato al vivo, Alessandro VI, perché si confessasse così, e gli sembrassero nulla le cose alle quali teneva più fortemente, la famiglia e la tiara. Ala qualunque tono abbia dato alle sue drammatiche dichiarazioni, si deve riconoscere che il Borgia s'innalzò per un momento all'altezza di riformatore della Chiesa. Nominò una commissione di ecclesiastici di pura virtù, con a capo il cardinale Costa, e dette ordine di studiare tutti i punti di una grande riforma; accettò una lettera di ammonitrici condoglianze del Savonarola, forse il solo scritto del domenicano che egli abbia letto e sentito a fondo. E intanto, col volgere delle ore, con l'avvenire dei fatti e dei giorni, gli si attenuavano per gradi le crudezze della

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prima angoscia. Continuava la ricerca dei colpevoli: i tieri sette triregni nel richiamarlo in vita più sospettati erano gli Orsini, i nemici di Juan nella disgraziata impresa di Bracciano, ed anche questo sospetto andava a genio ad Alessandro VI. Ma perché gli Orsini che avevano sconfitto il duca di Gandia si sarebbero messi ad un'impresa di così poco frutto? Se il Papa poteva credere che si era voluto togliere di mezzo il futuro conquistatore dei feudi orsineschi, non lo si crederà noi, sapendo quanto poco gli Orsini stimassero le folgori militari di Juan Borgia. Poteva esserci, è vero. contro i Borgia tutti, un odio di fazione che voleva una vittima, ma è una ragione che dà nel vago, tanto più che allora fra gli Orsini e il Papa era tempo di pace. Poiché il mistero era profondissimo, non si finiva più di girargli intorno con le ipotesi: si parlò della vendetta di un marito tradito, e si giunse ad accusare il conte della Mirandola, padre della fanciulla che Juan aveva desiderata. L'individuo mascherato che aveva trascinato il duca nell'agguato mortale sarebbe stato, si diceva, quel Jaches familiare di casa Sforza che non aveva voluto sposare la ragazza; se questo fosse vero, bisognerebbe vedere nel giovane gentiluomo un innamorato tradito e temerario. Erano romanzi, del resto non troppo inverosimili. Fra dicerie e sospetti, inventati e forse anche avvalorati ad arte, il conte della Mirandola corse rischio di essere imprigionato, ma poi non si parlò più di lui. Le relazioni contemporanee giocano sui nomi degli Orsini e degli Sforza, riprendono magari le accuse contro il cardinale Ascanio, oppure accennano a qualche cosa di molto oscuro, ad una trama di "gran maestro" e alle difficoltà e pericoli che potevano esserci per chi volesse parlare schietto. Passo su passo ci si affacciava al nero specchio della verità. Si delineava per i più una certezza e con essa un nome: Cesare Borgia. Con un'arte che poteva parere sprezzatura ed invece era calcolo esatto delle cause e degli effetti, fingendo di non occuparsi delle cose di governo, di non applicare "il cervello a faccende", Cesare era riuscito a conquistarsi, oltre l'affetto, la fiducia e la stima del padre. Aveva lavorato a fondo. e tutti si erano accorti di questi progressi. Durante la campagna contro gli Orsini, quando Cesare in una partita di caccia troppo vivace verso le Tre Fontane aveva rischiato di cadere in mano delle vaganti bande orsinesche, qualcuno aveva scritto che, se il Valentino fosse stato preso prigioniero, quella era la volta che si sarebbe vista la creazione di un nuovo Papa in Roma, significando cioè che il pontefice sarebbe morto di dispiacere. Ma Cesare conosceva la sua situazione fin troppo di preciso perché potesse crescere in sé speranze che lo aiutassero ad illudersi, e sapeva che mai avrebbe avuto il primo posto nell'animo del padre fino a che fosse vissuto il duca di Gandia al quale andavano di diritto per volere paterno gli onori delle armi e il potere di capo di stato. Se Cesare era amatissimo e Stimatissimo, Juan era idoleggiato: e il cardinale Valentino aveva un bel vedere grande e lontano, e disegnare a linee vaste un avvenire di gloria fra guerre e trionfi e un regno da creare in tempi nuovi con un governo agile vivo intelligente quale egli sentiva di saper

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istituire; sempre, fra lui e i suoi desideri c'era l'ostacolo di quel fratello, che non solo gli avrebbe impedito ogni conquista, ma avrebbe guastato anche per sé tutte le occasioni, sciupate possibilità, rovinati piani con la sua fatale inettitudine. Mostruosa, ma una logica ci sarebbe nella risoluzione di Cesare di toglier via il fratello dal suo cammino. Il problema è se lo tolse o no.

"Di nuovo ho inteso che de la morte del duca di Gandia fu causa il cardinale suo fratello... e detto avviso di detta morte l'ho da buonissimo luogo" scriveva da Venezia il 22 febbraio 1498 Giovanni Alberto della Pigna al duca di Ferrara. La colpevolezza di Cesare parrebbe da questo documento indubbia, e indubbia parve ai contemporanei, tra gli altri al Sanudo e al Guicciardini. Pure, alcuni storici la discutono ancora. Non esistono prove sicure, dicono: ed è vero. Ma l'arsa ambizione di Cesare, la sua insensibilità al delitto, il rancore di vedersi messo in secondo piano, il disprezzo per la viltà del fratello, la prepotente brama del potere, possono essere indizi convincenti come prove. E soprattutto, nella incertezza e nella confusione delle ipotesi, in questo viluppo che ancor oggi non si riesce a districare, par di riconoscere, inconfondibile, lo stile di Cesare Borgia che si vale di mille circostanze una per una studiate e vagliate per fare del delitto un'opera chiusa e finita in se stessa; isolata, anzi murata da ogni parte nel silenzio, coperta ed impenetrabile. Il colpevole non fu mai trovato perché non doveva essere trovato: era davvero, come dicevano gli informatori, troppo "gran maestro". Ancora più difficile, forse, è dedurre che cosa pensasse il pontefice. Già dal 5 luglio, e cioè appena venti giorni dopo il delitto, ordinò che cessassero le ricerche della polizia, facendo congetturare ragionevolmente intorno che egli avesse in sé la certezza di tutto. Ma dissimulava, dicono i relatori. Sapeva già troppo? Cesare mostrò in quei momenti di saper misurare i tempi: era stato nominato i primi di giugno cardinale legato per l'incoronazione del nuovo re di Napoli (a Napoli dal 1494 al 1498 erano stati incoronati quattro re) Federico, fratello di re Alfonso II. Il 22 luglio Cesare partì; e calcolava forse che, radunandosi gli indizi contro di lui, quando il Papa fosse arrivato al punto di sospettare o di immaginare, egli sarebbe stato non solo lontano, ma in carica così importante, che accusarlo, se in uno scoppio d'angoscia il Papa fosse arrivato a questo estremo, avrebbe significato il disonore della famiglia e il disonore della Chiesa. I primi d'agosto era a Capua, ammalato di febbre: in quei giorni, e precisamente il 7 agosto, Sancia e jofré furono fatti partire da Roma diretti al loro principato di Squillace dimostrando così il Papa di tener fede ai suoi propositi e di non voler più intorno a sé figli e parenti. 2 da credere che la vista di quella nuora che aveva forse innamorato il duca e provocato in Cesare anche la scintilla di una maligna gelosia, dovesse riuscire insoffribile ad Alessandro VI il quale provava per i figli l'amarezza e il disgusto che danno le cose che si sono amate con troppa passione e che ci hanno traditi. Via dunque le donne, via anche Lucrezia; tornava il progetto di mandarla in Ispagna, sposa a qualche

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nobile di laggiù. In Vaticano sarebbero entrati solo i prelati che discutevano le nuove riforme. Musici, attori, adolescenti, siano allontanati.

I giuochi e le cacce cessino.

Il Papa non alienerà i beni della Chiesa.

I cantori siano onesti.

Cominciavano ad allinearsi uno per uno i primi punti del faticoso ordinamento. Ma alla fine d'agosto i lavori non parvero più al Papa così urgenti, si allentarono; e in settembre, colui che due mesi prima aveva scritto al re di Spagna di voler rinunciate al papato e chiudersi in un convento, non che aver l'animo al gran rifiuto, ha già messo da parte ogni idea di vita severa. L'uccisore del duca di Gandia sarà ricercato, ora, solo per apparenza di giustizia; e i Borgia riprenderanno le loro macchinazioni.

Ai primi segni di umore mondano del Papa, Cesare si era mosso da Napoli ed era ritornato a Roma, ricevuto alle porte da uno stuolo di cardinali con i loro familiari, come si conveniva ad un legato pontificio di quell'importanza. Fu notato però che, giunta la cavalcata al palazzo apostolico ed essendo già cominciato il concistoro, il Papa non volle che si interrompesse la discussione che volgeva su una comune causa per ingiurie tra il rettore dell'università e il vescovo di Vienna. Il Valentino fu fatto aspettare mezz'ora in anticamera; ancora più notato il saluto freddo del Papa che si restrinse al solo bacio rituale non accompagnato da nessuna parola di saluto: tanto ritegno voleva dire qualche cosa? Ad ogni modo, se qualcuno sperò che il nepotismo di Alessandro VI fosse al tramonto, Cesare sapeva già che avrebbe vinto. Non passò molto, e tutti lo seppero.

La morte del duca di Gandia non fece sperare a Giovanni Sforza di riavere la moglie. Si è visto come i sospetti avessero per un momento raggiunto anche lui: giudicato innocente dal Papa, non per questo gli si veniva incontro con offerte e determinazioni migliori di quelle che si erano avute fino allora. Il 21 giugno, appena cinque giorni dopo l'assassinio, Alessandro VI aveva fatto chiamare il cardinale Ascanio, e, pur fra le lacrime per il figlio perduto, aveva trovato modo di raccomandargli una pronta azione presso il parente di Pesaro perché il divorzio avvenisse subito e senza scandali; e gli ricordava che la via della concordia era da preferire alla via della giustizia; benché anche quest'ultima potesse andare spedita. Parole. Giovanni Sforza non per nulla aveva avuto ed aveva vicino uomini addottorati nello studio del giure come quel Niccolò da Saiano che aveva frequentato la celebre università ferrarese; e sapeva benissimo che, se egli non avesse dato il proprio consenso al divorzio, questo non sarebbe potuto

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avvenire in modo regolare: sciolto per forza, con una sentenza arbitraria, sarebbe stato, per Lucrezia, il disonore. Con questa sicurezza, ma mezzo disperato per la difficoltà di combattere con un nemico troppo forte, Giovanni era arrivato a Milano travestito ed in incognito; ma Ludovico il Moro, che era abile e che sapeva quante spie avesse il Papa, volle che il parente comparisse pubblicamente con le insegne del suo grado dando così carattere ufficiale alla visita. Nelle giornate che seguirono si capì ancora meglio che il Moro intendeva trattare la disgraziata avventura del cugino pesarese alla leggera, non volendo che il Papa avesse occasione per volgersi apertamente contro casa Sforza a favore di quei francesi che si mostravano ora tanto risoluti a far valere la loro qualità di eredi al ducato di Milano. Primissimo pensiero del Moro fu dunque di dichiarare a chi gli veniva intorno, diplomatici ed oratori, che Giovanni era a Milano senza nessun fine politico, ma solo per esser consigliato ed aiutato nelle sue faccende matrimoniali. Messo sulla via di considerare questo fatto quasi uno scherzo, il duca di Milano mostrava di divertircisi con una curiosità che, a forza di voler parere interesse e premura, arrivava alla indiscrezione più oltraggiosa. Cominciò col domandare al cugino che cosa ci fosse di vero nell'affermazione del Papa sulla sua mancata consumazione di matrimonio, e, poiché se l'aspettava, stette a godersi lo scatto del signore di Pesaro e la sua risposta, brutale: il suo matrimonio era stato consumatissimo e più di mille volte. Anzi, scoppiò finalmente Giovanni come uno che non ne poteva più, egli aveva da dire una cosa: il Papa gli aveva tolto Lucrezia non per altro che per tenersela lui, libera alle sue voglie. Era certo questa la cosa terribile ed innominabile alla quale egli aveva accennato nelle sue lettere senza osare di scriverla; e, una volta detta, da uno che aveva vissuto la vita intima del Vaticano e che si supponeva, a ragione, informatissimo, come si poteva ribatterla? Il Moro, pago di averla ascoltata, pare che non domandasse precisioni, forse per prudenza. Fece finta di niente; ma comprendendo che qualche cosa bisognava escogitare, propose al parente una transazione pratica e ridicola insieme: si trattava di far venire Lucrezia a Nepi, proprietà del cardinale Ascanio, e di andare a raggiungerla in quella terra neutrale sotto scorta e con guardia di gente molto fidata: e sarebbe avvenuto là un convegno d'amore dimostrativo verificato da autorevoli testimoni borgiani e sforzeschi. Giovanni si rifiutò, non si sa se per paura della prova che in un essere nervoso poteva anche fallire, o per paura di ferro o di veleno. E il Moro venne fuori con un'altra idea, persuadere lo Sforza a fare alcune "prove con donne" lì a Milano stessa, e alla presenza del cardinale legato Giovanni Borgia. Ma il conte di Pesaro rifiutò anche questa proposta: se era nauseato bisogna dire che aveva ragione. Finì, il Moro, per domandargli come mai il Papa gli facesse simili accuse quando era noto che la sua prima moglie, Maddalena Gonzaga, era morta di parto. "Vedi pur," rispose il conte di Pesaro "dicono che la feci ingravidate da un altro." Erano dialoghi che sarebbero stati benissimo in una Mandragola o in una Calandria. Il Moro ci si spassava senza pietà; e che non

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gli importasse nulla del cugino provinciale prova una sua dichiarazione fatta all'ambasciatore ferrarese in Milano, Antonio Costabili, nella quale, dopo aver narrato proposte e risposte di quel colloquio, affermava essere sua opinione che se a Giovanni Sforza fossero stati dati due tratti di corda lo si sarebbe sentito confessare "di non aver mai usato" né con la sorella del marchese di Mantova, sua prima moglie, né con Lucrezia, "perché se fosse potente, avrebbe fatto qualche prova per levarsi da questo carico", e soggiungendo che se il giovane "non temesse di essere costretto alla restituzione della dote, non sarebbe molto difficile farlo acconsentire al divorzio".

Non era forse vero; ma il Moro parlava così per dimostrare anche attraverso le relazioni di privati di tenere dalla parte del Papa: e il dono della dote di Lucrezia, offerto e poi fatto dal suocero al genero, era piccola indennità a confronto dell'offesa che lo Sforza riceveva dai Borgia. A lenire il suo orgoglio così aspramente piagato, dovettero venirgli assai grate le offerte fattegli proprio in quei giorni dai parenti della prima moglie, i Gonzaga, di un nuovo matrimonio nella loro casa. Lo Sforza faceva rispondere con molti ringraziamenti, rimandando il discorso dopo lo scioglimento di quello che egli chiamava l'infelice suo "papalesco matrimonio", sul quale sperava in breve di far luce "per non imbrattar sé e gli altri". Intanto pregava i signori di Mantova di tenere segretissime le loro intenzioni perché avevano da fare, e lo sapevano, con gente che si muoveva "tra possanza e veleno". Quanto a lui, tornato da Milano a Pesaro, più incerto che mai e con la delusione nuova e cocente dell'inutile visita al Moro, in una sola cosa teneva fermo: negava il consenso al divorzio.

"Non voglio assentire a questa dissoluzione, la quale da Dio in giù nessun uomo con ragione potrebbe fare, e quando acconsentissi non sarebbe valida per le cose che sono seguite fra me e la prelata madonna Lucrezia come più diffusamente ho detto al Signor Duca di Milano, le quali per adesso non mi curo di dire e ne anche dirò se forza non mi sarà fatta..." scriveva lo Sforza al cardinale Ascanio; e continuava con più energia: "Ma quando Nostro Signore mi vorrà far forza e non giustizia, come Sua Santità pare che cerchi, io prima vorrò perder lo stato e la vita propria che l'onore, e dirò senza rispetto, benché mal volentieri, quello che una volta ho detto al Signor duca e che è la propria verità, acciò che ogni uomo intenda che tutte le giustificazioni sono dal canto mio". é chiaro che lo Sforza ribadiva qui l'accusa d'incesto ed è chiarissimo che ci credesse davvero. Gli storici borgiani, che repugnando ad un sospetto mostruoso hanno dato alle piene parole del signore di Pesaro il valore di una grossa calunnia lanciata nel più caldo dell'ira per vendetta contro i Borgia, non hanno forse considerato abbastanza che tutto il contegno dello Sforza, dalle mille reticenze dei primi tempi, dalle allusioni misteriose alla causa della sua fuga fino alla sua confessione a Milano e ai continui riferimenti di poi, stanno a provare una

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certezza che era in lui, viva presente e maledetta. Che ragioni avesse di questa certezza, la questione è qui.

Alessandro VI era un uomo d'istinto, fin troppo espanso nelle sue manifestazioni d'amor paterno; sentiva, cioè, questo amore senza trasposizioni spirituali, come se lo muovessero solo le immagini reali dei suoi figli, il loro aspetto i loro gesti la loro voce le loro persone. Si ricorderà il suo delirio per il duca di Gandia che par quasi accecamento d'innamorato e che si ripeterà poi per Cesare. Per Lucrezia si aggiunga quella tenerezza che tutti i padri sensibili hanno verso le figlie che sembrano loro, fra i più robusti frutti dei maschi, quasi il fiore del loro sangue, e si capirà come l'amo,re del Papa per la figlia potesse dare le vertigini ad un uomo tepido come il signore di Pesaro. Ad avanzare con l'indagine, e a toccare da presso questo punto, il più rovente della vita borgiana, ci si potrà anche domandare se Giovanni Sforza avesse qualche cosa di più che indizi e sospetti e se gli fosse toccato vedere negli occhi del suocero luci torbide da far rabbrividire; ma se lo Sforza, pur mantenendo l'accusa al Borgia, salvava la moglie, tanto è vero che cercava alla disperata di riaverla con sé, si avranno ragioni di credere che ella dovesse essere salvata, o che nulla fosse accaduto e tutto si limitasse a sospetti, o, nella più infernale ipotesi, che in lei fosse solo l'errore di uno smarrito e soggiogato assentimento; la coscienza il desiderio e la responsabilità dell'incesto restando, se mai, dall'altra parte. Il pontefice mostrava del resto il più chiaro viso d'innocenza: seguitava a sollecitare gli Sforza di Milano perché lo appoggiassero col loro parente, e, per arrivare al consenso del genero, gli faceva scrivere di tutto torneando fra regole, ragioni giuridiche, scuse, scappatoie (fu detto perfino poter valere come causa d'insufficienza fisica il "maleficio particolare") con tanta prestezza e facilità da irretire anche gente più abile dello Sforza. Finalmente, sulla motivazione di validità del matrimonio antecedente di Lucrezia con don Gaspare d'Aversa, il signore di Pesaro pronunciava il "sì" che fece respirare tutti in Vaticano; non ci voleva altro che quel primo assentimento perché gli altri s'incatenassero e non ci fosse più scampo alla resa.

Il cardinale Alessandrino Giovanni Antonio San Giorgio, il cardinale di Santa Prassede Antoniotto Pallavicino, e l'umanista ferrarese Felino Sandeo auditore di Rota, istruivano il processo di divorzio. E appena giunse la risposta di Giovanni, il Papa fece chiamare a sé, in presenza di Ascanio Sforza, il cardinale Alessandrino che era uno dei canonisti più sottili ed autorevoli del Vaticano e gli fece leggere lo scritto del signore di Pesaro. Il cardinale lesse, e scuoteva il capo: poi affermò che le proposte contenute in quel foglio non erano "né giuste, né oneste, né secondo i termini giuridici", poiché veramente il matrimonio non si poteva sciogliere che in due modi: o per mezzo di una sentenza dei cardinali commissari, o con il consenso delle due parti per mezzo di una bolla papale. Alessandro VI, sospirando, diceva

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che ognuna di queste parole lo feriva nella sua delicatezza, e si faceva sentire lungamente discorrere dell'onore suo e della figlia e della necessità che il divorzio fosse fatto in modo che il nome dei Borgia restasse senza macchia. Poi, per amore, affermava, del duca di Milano e del cardinale Ascanio, concludeva che si sarebbe rimesso pazientemente a quale dei due partiti il genero eleggesse. E, riferiva il cardinale Sforza in una lettera al cugino, "per estendere la clemenza sua sommamente, e dimostrare in quanta estimazione e benevolenza ha la casa nostra, il Papa era contento di rimettere alla S. V. [Giovanni] il pagamento di tutta la dote e farne un dono". Se egli non avesse accettato, la clemenza si sarebbe convertita in severità. Naturalmente non si parlava più della motivazione di divorzio riferita alla preesistente promessa matrimoniale fra Lucrezia e don Gaspare d'Aversa: anzi, non era nemmeno il caso di menzionarla, ora che il cardinale Alessandrino. l'aveva condannata nei termini di ingiusta e disonesta. Tratto così dal primo assenso al secondo, Giovanni Sforza rispose scegliendo la via per lui meno aspra, quella della sentenza che lo avrebbe dispensato dalla confessione d'impotenza. Ma a questo punto il Papa mostrava meraviglia e malcontento di ciò che gli pareva calcolato indugio, e cominciava a lagnarsi fortemente facendo comprendere di sospettare che lo Sforza agisse così per intralciare le nuove nozze che già si trattavano per Lucrezia in Vaticano. E, insistendo lo Sforza su quel punto, di non volere cioè per nessuna ragione sottoscrivere la frase che era diventata il suo incubo "quod non cognoverim Lucretiam", l'ambasciatore di Ludovico il Moro, Stefano Taverna, finì per non mostrare più le lettere di Giovanni in Vaticano perché il Papa "non si perturbasse e scandalizzasse". Il pontefice, aggiungeva il Taverna scrivendo al suo duca, non desiderava nulla più ardentemente di questo divorzio e del fatto che apparisse chiaro come la figlia fosse stata lasciata "intatta dal signor di Pesaro per poterla con questa opinione collocare ad altro marito". Finalmente, dopo mesi di andate, di ritorni, di ambasciate e di proteste, Ludovico il Moro inviava a Giovanni un suo uomo di fiducia, Tommaso Torniello, per avvertirlo che se non avesse obbedito in tutto al Papa avrebbe anch'egli cessata la protezione sullo stato di Pesaro. Era la rovina, e il carattere dello Sforza non avrebbe sopportato altro: venne alla capitolazione che non ne poteva più. Il 18 novembre 1497, vi fu riunione nel palazzo comitale di Pesaro: il priore dei domenicani, Padre Mattia da Ponte Corona, e il maestro di teologia Padre Paolo Antonini da Vercelli, nei loro abiti neri e bianchi prendevano posto accanto al saio bigio di Alessandro da Fano, teologo dei frati minori francescani; v'era il fratello di Giovanni, Gian Galeazzo, il dottore "in utroque" messer Leonardo Dolce da Spoleto, messer Lelio Maddaleni Capodiferro, Ludovico Cardano; e scriveva il rogito lo stesso notaio che aveva quattro anni prima steso l'atto di procura a Messer Niccolò da Saiano perché sposasse Lucrezia a nome del suo signore. E venne finalmente anche il conte di Pesaro, che, se non era pallido di sdegno, doveva essere pallido di rassegnazione e ripetersi ad unico conforto ciò che

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aveva già scritto al Moro: "Se Sua Santità vuol farsi una giustizia a suo modo io non gli posso contraddire: faccia quello che vole, Dio è al disopra". Era duro dover firmare: pure, alla presenza di tutti i testimoni, egli firmò. L'amplissimo mandato, diretto ad Ascanio, Sforza, includeva la frase dichiarativa di nullità maritale e su questa base dava al cardinale piena facoltà di fare le pratiche occorrenti alla dissoluzione. Così Giovanni Sforza aveva ceduto; e non gli serviva ad altro che ad uno sfogo personale scrivere e riscrivere nei giorni appresso al duca di Milano di aver firmato solo per obbedire alla volontà dei più potenti di lui. A Roma, il cardinale Alessandrino, il cardinale di Santa Prassede e messer Felino Sandeo cercavano le formule impeccabili per ammantar di toga peccati e bugie. E mentre tanta gente si affaticava intorno ai casi della sua persona, e si muovevano da tutta Italia i nuovi pretendenti alle sue nozze, la protagonista di quei discorsi si stava chetamente sviando per conto proprio.

A San Sisto, Lucrezia aveva saputo la morte di Juan, e appassionata com'era della famiglia doveva averne sentito dolore e smarrimento. Alla sua inceppata adolescenza, quel fratello elegante e brioso che incantava l'immaginazione e che animava le feste del Vaticano era certo apparso tale da poter contare per lei in ogni caso, nei giorni futuri. Si può supporre, e si ricorderà l'interesse di Juan per la sorella che, con la facile benevolenza degli uomini ricchi e fortunati verso le donne della propria casa, Juan le avesse fatto grandi promesse di aiutarla per risolvere l'irritante problema del suo avvenire, fra le altre, quella, ripetuta dai relatori subito dopo la fuga del conte di Pesaro, di portarla con sé nella terra dei sogni borgiani, in Ispagna. Morte improvvisa e crudele, incertezza ed isolamento erano seguiti a tanti progetti: e per di più il Papa le aveva dato l'impensato castigo di tenerla lontana, al bando dal suo dolore. Aveva, Lucrezia, una tale conoscenza dei suoi fratelli da indovinare chi fosse l'autore del delitto? Immaginava o sospettava? Troppo naturale, in ogni caso, che perduta in un raggiro di idee buie, accettasse il filo che la sua giovinezza chiedeva per riprendere un cammino quale che fosse.

Dal Vaticano a Lucrezia andavano e venivano alcuni messi di fiducia, per lo più spagnoli, scelti dal Papa fra i suoi più stretti camerieri: che uno di questi, Pedro Caldes o Calderon chiamato familiarmente Perotto, avesse l'incarico particolare e più assiduo delle ambasciate fra padre e figlia, spiegherebbe meglio i fatti che avvennero poi, resi possibili dall'affettuosa suggestione di una presenza giornaliera. La carica di cubicolario poteva portare in alto chi avesse saputo giovarsene, come aveva portato Giovanni Marrades al vescovato; e Pedro rinunciò forse ad un avvenire fortunato quando si accorse di amare quella Lucrezia, il matrimonio della quale era un affare tanto importante da toccare non solo i privati ma anche * il pubblico d'Italia". Aveva un viso, Pedro, che Lucrezia era avvezza a vedere con la

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confidenza che si ha per le persone senza sospetto, e che si sentono essere dalla nostra parte; era spagnolo, parlava il linguaggio delle sue nostalgie; si aprivano agevoli dunque le vie perché dalla confidenza e dall'amicizia si arrivasse a scivolare nella tenerezza e poi nella passione. Si amarono, Pedro e Lucrezia? Sembrerebbe di sì, stando alle testimonianze frammentarie ma concordi dei contemporanei: e proprio questa storia così segreta, che dobbiamo ricostruire faticosamente da pezzi di lettere e di cronache, fu probabilmente la più importante perché si definissero e formassero in Lucrezia spirito e carattere. Certo, a lei che usciva dalla convivenza con il conte di Pesare, uomo se non addirittura frigido come gli avevano fatto confessare, almeno tepido e forse sessualmente sviato, il calore di una passione giovane poteva dare lo stordimento immemore degli amori profondamente istintivi.

Se è vero che Lucrezia cedesse in tutto al suo spagnolo, ella doveva sapere però fin da principio che non v'era speranza di avvenire per lei e Pedro insieme nel mondo. E nulla è più malinconico e inebriato di un amore che ad ogni incontro deve essere fine a se stesso, senza mai riferirsi a un domani. Pure, un domani ci fu; l'amore dei due complici era stato tanto imprudente che Lucrezia dovette accorgersi di portarne in sé la conseguenza. S'immaginano bene lo spavento e il tremore della giovane donna, la quale, forse con l'aiuto e il consiglio della sua compagna prediletta Pantasilea, cercava, e ci riuscì per un pezzo, di nascondere il suo stato sotto le ampie vesti e sopravvesti invernali. Ma non s'immagina, invece, di che qualità sia stato il suo coraggio, quando il 22 dicembre 1497, giorno della promulgazione della sentenza di divorzio fra lei ed il conte di Pesaro, ella comparve in Vaticano ad assistere alla lettura del solenne documento che la dichiarava fanciulla intatta. Comparve, ascoltò, sorrise: e rispose, ringraziando, in latino "con tanta eleganza e gentilezza che se fosse stato un Tullio non avrebbe potuto dire più argutamente e con maggior grazia" scrive Stefano Taverna l'ambasciatore milanese. Questo parallelo fra Lucrezia e Cicerone, incongruente com'è, mostra però quale impressione di libera grazia ella riuscì a suscitare. Anche a voler credere che avesse imparato il suo discorsetto a casa, come poteva essere tanto calma da infilare senza errori i periodi latini, e quei periodi latini? Anche lei sapeva ritrovare il filone borgiano del coraggio e della dissimulazione? O niente di ciò che i relatori riportano su quel suo amore clandestino era vero? Vuol dire molto, tuttavia, che Perotto fosse già per i Borgia una cattiva spina: e ancor più che a toglierla si risolvesse Cesare Borgia in persona. La collera del Valentino, quando si venne alla scoperta dei fatti, aveva una sua ragionevolezza, poiché aver liberato la sorella dal conte di Pesaro per servirsi di lei nei suoi piani politici, e vederla compromessa da un subalterno era cosa da bruciarlo a vivo. Così un giorno, Cesare, trovato Perotto presso le stanze papali, gli andò addosso a spada sguainata: e poiché quello s'era schermito fuggendo, lo

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inseguì per tutto l'appartamento con la lama alle reni, finché arrivarono, inseguito e inseguitore, ai gradini del trono pontificio: lì, sotto gli occhi del Papa che aveva invano steso il lembo del manto a proteggere il suo familiare, lo ferì: "e il sangue saltò in faccia al Papa" scrive l'ambasciatore veneziano. Non si sa se la ferita fosse mortale: un'altra informazione del relatore bolognese Cristoforo Poggio dice il 2 marzo 1498 che "Perotto, primo cameriere di Nostro Signore, non si ritrovava più, essendo in prigione per avere ingravidata la figliola di S. S,tà M.na Lucrezia". Il Burcardo annota invece nel suo diario che il cadavere dello spagnolo era stato trovato, mani e piedi legati, nel Tevere; e nel Tevere, lo stesso giorno era stata trovata anche la donzella Pantasilea. Sempre a stare alle informazioni dei relatori, in marzo il bambino di Lucrezia era nato. "Da Roma accertasi che la figliola del Papa ha partorito." Il dispaccio è datato 18 marzo 1498. Le lacrime che Lucrezia poté piangere appartengono a lei sola. Sono storia, invece, le successive candidature matrimoniali che si susseguirono in Vaticano ancor prima che fosse nota la sentenza di divorzio dal suo primo marito. Il Papa e il Valentino facevano il vaglio e l'esame di ogni domanda: non per nulla erano scesi nella lotta contro il signore di Pesaro, e l'avevano portata attraverso difficili vie ad una conclusione per essi vittoriosa. Lucrezia, di nuovo libera, avrebbe servito le loro nuove ambizioni. Chi dava l'abbrivo e il tono a queste ambizioni era, adesso, Cesare Borgia. Nel suo soggiorno napoletano egli aveva visto da vicino quella dolce terra e quella corte che pur in decadenza meritava sempre l'aggettivo di splendida; e aveva formato e concretato nel proprio animo e nel proprio ragionamento quel giudizio sul regno di Napoli, e cioè sul suo smembramento fra i baroni ribelli e i partigiani e sulla sua debolezza civile e militare, che doveva dargli la speranza di potere lui, bastardo e oscuro, ma risoluto e avvedutissimo, impadronirsi in parte o in tutto del regno aragonese. Si ripeté con insistenza, e per mesi, che Cesare avrebbe rinunciato al cardinalato e sposato Sancia d'Aragona, mentre Jofré avrebbe preso in cambio il cappello rosso; saltarono fuori, però, ostacoli così gravi al cambiamento di marito della giovane donna si ricorderà che un cardinale ed un re avevano assistito alla consumazione del suo matrimonio e a tal punto crebbero, frattanto, le ambizioni dei Borgia, i quali potevano aver riflettuto che Sancia, nella sua qualità di figlia illegittima, non avrebbe portato il marito molto vicino al trono, che presto non si parlò più di lei: e pensieri e disegni di Cesare si orientarono e presero forma definita in una figlia legittima di re Federico di Napoli, che viveva alla casta corte della regina Anna di Bretagna, in Francia, dove compiva la sua educazione di gentildonna. Carlotta d'Aragona aveva intatto l'ideale blasone d'ermellino che avrebbe dovuto servire ai Borgia; e subito Cesare iniziò e fece iniziare al Papa un prudente carteggio con la corte di Francia per saggiare gli umori del nuovo re Luigi XII, successo a Carlo VIII, morto in giovane età il 7 aprile 1498. La politica dei Borgia è in questo momento una navigazione fra scogli traditori: le pretese di Cesare su Carlotta d'Aragona presupponevano

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un'amicizia per lo meno apparente con il padre della fanciulla, il re di Napoli; ma amicizia molto più calda ed impegnativa bisognava dimostrare al re di Francia dal quale ancor meglio forse che dai genitori di Carlotta dipendevano le nozze, per due ragioni: perché ella stava in terra francese sotto la protezione della regina vedova di Carlo VIII, e perché Luigi XII aveva manifestato senza equivoci le sue intenzioni facendosi proclamare, il giorno della sua incoronazione, re di Francia e di Napoli. Procedere con il favore di due che si contendevano un regno, e contenderlo loro, sia pure in parte, era un'impresa da perderci la testa, e guai a perderla. Alessandro VI aveva di che impiegare il suo ingegno a tessere intrighi diplomatici di una sottigliezza sempre vicina a spezzarsi: per aver amici gli aragonesi, o per intimorirli secondo i momenti, si adoperava anche il nome di Lucrezia.

Il traffico di proposte e di sollecitazioni matrimoniali intorno alla diciottenne divorziata sta a provare che le accuse del conte di Pesaro, credute o non credute che fossero, non avevano fatto paura. Tuttavia nemmeno questo era del tutto vero, se proprio in questa circostanza troviamo un documento che ci mostra come già da allora, prima dunque degli odii politici dovuti alla furia conquistatrice di Cesare Borgia, Lucrezia era già segnata a dito, coinvolta nelle foschie sensuali della sua famiglia. L'importanza del documento è data dalla sua contemporaneità e dalla sua qualità d'informazione privata, anzi segreta; sconosciuto dagli storici antichi e recenti fino ad oggi. Parve ad un certo momento che il figlio del principe di Salerno, il bello e ardito Antonello Sanseverino fosse uno dei favoriti nella gara nuziale. Il re di Napoli allarmato di un progetto che, data la dedizione dei Sanseverino al re di Francia, rischiava di immettere insieme Francia e Borgia nel Reame, mandò due suoi inviati al padre del supposto sposo. Gli inviati parlarono cautamente; non il principe di Salerno che affermò netto che non avrebbe mai accolto nella sua casa una donna qualificata come la figlia del Papa "la quale era pubblica fama che avesse dormito con li fratelli". Quanto dovesse riuscire amara questa dichiarazione al re di Napoli siamo per vederlo. Nel febbraio 1498, Francesco Orsini duca di Gravina era uno dei candidati che parevano avere maggior fortuna e che il Papa sembrava appoggiare con benevolenza per dimostrare, si diceva, la sua convinzione dell'innocenza degli Orsini nell'assassinio del duca di Gandia. Alla gara convenne anche uno degli Appiani signore di Piombino; e d'altra parte Ascanio Sforza, al quale la prima esperienza di matrimonio sforzesco di Lucrezia non aveva insegnato nulla, cercava nella sua casa un nuovo marito per lei, e proponeva Ottaviano Mario figlio di primo letto di Caterina Sforza la guerriera contessa di Forlì. Il Papa non pareva scontento di questo progetto e chiedeva per il futuro genero la signoria di una città indipendente, Imola, per esempio, annodando e disfacendo, secondo i giorni, le trattative. Ma il pretendente che i Borgia avevano davvero a cuore e al quale fingevano di non interessarsi troppo era un altro: si trattava di un aragonese, Alfonso,

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figlio illegittimo di re Alfonso II e di madonna Tuscia Gazullo, unico fratello di Sancia. E Papa si faceva sentir dire di non lodargli "né l'ingegno né la qualità" e invece era proprio su di lui che i Borgia puntavano dritto. Gian Lucido Cattanei che aveva fiuto sicuro, dopo aver detto delle simulate ritrosie di Alessandro VI affermava che "il Papa uccella la brigata in questo e in altro, di maggior importanza", aspettando, per decidersi, la risposta dalla Francia perché "di là pesca assai cose al suo proposito". Pescava con tenacia, e, pareva, con fortuna. Luigi XII si mostrava disposto ad aiutare il Valentino purché il Papa aiutasse lui, e prima di tutto concedendogli il divorzio dalla moglie, la brutta e Pia Giovanna di Francia che gli era stata imposta per autorità paterna e con la quale egli giurava di non aver consumato matrimonio. Su queste basi, di qua e di là dalle Alpi comprendendosi benissimo, si filava a ciel sereno verso un accordo; e, non appena parve al Valentino di essere abbastanza appoggiato nella speranza di sposare Carlotta d'Aragona, anche il matrimonio di Lucrezia fu deciso: ella sarebbe stata il primo tramite con Napoli e avrebbe sposato Alfonso d'Aragona al quale il re di Napoli avrebbe donato il titolo di duca, la terra di Bisceglie, e una ricca rendita. Per suo conto, Lucrezia portava una dote 40.000 ducati d'oro maggiore di quella che aveva lasciato in mano al primo marito; era pattuito che gli sposi avrebbero abitato a Roma nel palazzo di Santa Maria in Portico.

Lucrezia dovette essere contenta. Per aver già sentito Sancia parlare del fratello e per avergli dato dunque un posto nel suo mondo d'immagini, non se lo trovava sulla via come un estraneo, all'improvviso: sapeva che era uno dei più bei giovani d'Italia, grazioso di modi e di dolce carattere, e gli era grata di darle un titolo di vera nobiltà e un nome addirittura regale che la imparentava con figli e fratelli di re. Si sentiva già pesare addosso tutte le sue storie: scandalo il divorzio, scandalo l'avventura con Pedro Calderon, scandalo la sua vita in Vaticano, quella vita oscuramente borgiana perturbante per ogni immaginazione. Stava formandosi a Roma e in Italia l'opinione pubblica per la quale il cronista veneziano Girolamo Priuli chiamerà più tardi Lucrezia la più gran puttana che fosse in Roma, e il cronista umbro Matarazzo la presenterà come colei che portava il gonfalone delle puttane. Così il Priuli come il Matarazzo, che vivevano lontani dalla corte vaticana, riferivano non da testimonianze dirette ma dalle voci popolari antiborgiane e i loro scritti non hanno valore di verità provata: la vita intima di Lucrezia poteva svolgersi in un'aura ancora più tenebrosa, obbedire ad una fatalità ancora più orribile di quella denunciata dai suoi accusatori, ma non era la vita facile e materiale di una cortigiana libertina. I relatori dei vari stati italiani ai quali non era sfuggito il fatto pur tanto segreto di Pedro Calderon non parlano mai neppure per incidenza di altri amori di Lucrezia. E del resto, dove si era più informati e più sottili, per esempio a Napoli, si capiva così bene che il solo problema della vita romana di Lucrezia stava nelle sue relazioni. familiari, che i poeti fedeli alla dinastia aragonese piegarono

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l'arabesco del loro elegante latino unicamente alle violente accuse lanciate da Giovanni Sforza. Domanderà il Pontano:

Ergo, te semper cupiet, Lucretia, Sextus?

E il Sannazaro comporrà il celebre epitaffio che moltiplica le infamie:

Hic )acet in tumulo Lucretia nomine, sed re

Tais. Alexandri filia, sponsa, nurus.

Da Napoli arrivava ora quell'inerme diciottenne al quale l'umanista Fausto Evangelista Capodiferro presagiva che non gli sarebbero valsi né il nome né la stirpe regia a trarlo immune da quell'avventura. Verso la metà del luglio 1498 Alfonso d'Aragona giunse a Roma, trovò pronta la sposa e si avviò alle nozze che furono celebrate nell'appartamento Borgia. Non c'era gran gente questa volta: i familiari del Vaticano, il cardinale Sforza al quale la nuova alleanza del Papa con i suoi amici napoletani non dispiaceva affatto, i cardinali Giovanni Borgia e Giovanni Lopez, il vescovo Giovanni Marrades. Il capitano spagnolo Giovanni Cervillon tenne la spada snudata sulla testa dei giovani sposi durante la celebrazione del rito. Cominciarono poi le feste: ma fu un inizio infelice, perché, entrando in Vaticano i familiari di Cesare e quelli di Sancia, si accese tra questi e quelli una baruffa per ragioni di precedenza ma, per la quale trovarono da sfogarsi gli umori maligni dei loro; signori: fra il crepitio delle insolenze spagnole e napoletane due vescovi si presero "molti pugni" e lo stesso Papa finì per trovarsi "nel mezzo delle spade", in un contrasto così agitato che i servi del pontefice fuggirono, si arrivò a rivederli in ordine solo molto tempo dopo. Tutto si placò poi in una lunghissima cena, seguita da balli e rappresentazioni che durarono fino all'alba: si vide Cesare venire sulla scena e farsi ammirare in un travestimento da "unicorno" simbolo di purezza e di lealtà. Per suo conto il Papa fece: 1 "E così, Lucrezia, sempre ti brama il Sesto Alessandro?"; 2 "In questa tomba giace una che ebbe il nome di Lucrezia ma che fu una Taide. Di Alessandro figlia, sposa, nuora." "cose da giovine". Si seppe nei giorni seguenti che Alfonso e Lucrezia si erano piaciuti: il Papa sorrideva. Luigi XII chiamava Cesare Borgia cugino e gli faceva splendide promesse: aveva gran bisogno del Papa perché il suo matrimonio con Giovanna di Francia fosse sciolto e gli fosse libera la via a sposare la donna che amava e che gli conveniva politicamente, quella bella, savia, accorta regina Anna, vedova di Carlo VIII, che gli avrebbe portato in dote la ricca provincia di Bretagna. Il 29 luglio 1498 Alessandro VI nominava una commissione perché discutesse ed esaminasse il caso di divorzio; ma il re di Francia sapeva già che, se egli avesse aiutato Cesare a formarsi uno stato, tutto si poteva dare per risolto. Progetti ed iniziative di Cesare si fermavano però di qua dal suo stato ecclesiastico: parlare di matrimonio da

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parte di un cardinale ancora insignito della porpora era veramente troppo anche per i Borgia. Così, il 17 agosto Cesare si presentava in concistoro vestito di quella porpora cardinalizia che da mesi non indossava più, e chiedeva di parlare ai pochi cardinali presenti, più o meno rassegnati ad assistere a quel fatto "non udito mai". Aiutandosi con un foglietto, forse scritto d'accordo col Papa, egli cominciò a dire di non avere mai avuto vocazione per la vita religiosa alla quale era stato costretto, e domandò che per la salvezza della sua anima gli si concedesse di tornare a vivere da laico: allora, egli diceva, si sarebbe messo subito al servizio della Chiesa, e sarebbe andato anche in Francia, di persona, cercando così di evitare all'Italia la seconda invasione francese. I cardinali rimisero ogni potere ed anche ogni responsabilità al Papa; e stettero a sentire Alessandro VI che, spiegando tutti i toni sonori e patetici della sua bella voce, faceva molte ponderate considerazioni sulla gravità del caso e sulla saggezza che occorreva a deliberare. Fatto il peggio, Cesare dovette respirare un'altra aria mentre gettava quella veste rossa che tanto gli era pesata, e se ne andava a passo spedito incontro all'ambasciatore francese, Luigi de Villeneuve barone di Trans, arrivato a Roma quel giorno stesso recando un atto del suo re per il quale Cesare era nominato duca di Valenza: "Una bella città sopra il Rodano nel Delfinato dove è studio pubblico... presso Lione, verso Avignone due giornate, e che gli frutterà diecimila scudi..." scriveva al marchese di Mantova il suo informatore. Il cardinale di Valencia sarebbe stato dunque duca di Valenza col medesimo nominativo "acciò che questo suo primo nome non si perda né si scordi" soggiungeva, con un fiato d'ironia, il Cattanei Intanto, quasi a secondare la sua inclinazione verso i francesi e per conquistarsi gli Orsini, amicissimi di Luigi XII, Alessandro VI stringeva alleanza con quella famiglia facendo_ sposare la giovinetta Jeronima Borgia, sorella del cardinale Giovanni Borgia, con Fabio figlio di Paolo Orsini. C'era stata un po' di contesa intorno a questa ragazza che Lucrezia avrebbe voluto maritare ad un napoletano per poterla avere compagna il giorno che ella avesse dovuto seguire a Napoli il marito e che anche i Colonna chiedevano per uno di loro. Ma vinse l'Orsini, e il cardinale Borgia dichiarava appunto in quella occasione essere queste nozze fatte soprattutto "per assicurare quelli poverelli Ursini della imputazione già ad essi data della morte del duca di Gandia".

Povero duca di Gandia: era inutile che mandasse il suo spettro con tanta frequenza ad atterrire le sentinelle di Castel Sant'Angelo nelle sere senza luna. A Roma era già dimenticato. Nemmeno suo padre, preso ora dall'amore per Cesare, mostrava di ricordarlo se, come possiamo argomentare dai carteggi del tempo, ai primissimi del 1498, aveva tentato di fare al re di Spagna la proposta tanto strana quanto illegittima di passare a Cesare il titolo e i beni del duca di Gandia: si può pensare con quale animo la duchessa vedova Maria Enriquez Borgia, che aveva nel figlio Juan II l'erede

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diretto del ducato, avesse appreso le intenzioni del suocero. Il re di Spagna aveva risposto che non vi si pensasse neppure, e aveva anzi allora fatto dire a Cesare di essere contrarissimo alla deposizione della porpora già da lui annunciata. Più tardi fece ripetere in Vaticano, e in tono perentorio, che, restasse inteso, i beni del duca non dovevano passare al Valentino; e continuò a difendere così i suoi parenti, sapendo d'essere solo alla difesa: non aveva detto infatti il Papa di non curarsi dei nipotini Juan II e Isabella, perché li considerava parenti più prossimi al re di Spagna che a lui? Se si pensa che Maria Enriquez era solo cugina di Ferdinando il Cattolico, mentre era nuora del Papa, si resterà sorpresi di questa strana valutazione di parentele. Ma il Papa stava in quei giorni abbandonando la Spagna sotto la suggestione del Valentino il quale aveva ormai stabilito di buttarsi al nord, ai francesi. Già, seguendo l'indirizzo francofilo, era stato promesso a Giorgio d'Amboise arcivescovo di Rouen, favorito di Luigi XII, il cardinalato, e gli intrighi con la corte di Francia erano ad un punto così minaccioso per la penisola da far dire agli italiani che, se padre e figlio avevano confermato la rovina d'Italia, lo Spirito Santo non li aveva però aiutati nei loro consigli. Si stabilì la partenza di Cesare che sarebbe stato accompagnato dal Villeneuve e dalla migliore nobiltà spagnola che si era potuta trovare: i preparativi personali del Valentino sono celebri<, e celebre il suo saccheggio delle botteghe di Roma dove non era restato drappo di seta d'oro o d'argento, celebri le sue catene d'oro, i suoi cavalli fatti venire, i più belli, dai famosi allevamenti gonzagheschi. A vedere tanti splendori l'animo sensitivo di Alessandro VI si rallegrava tutto: "Se ne sta il Papa tanto allegro quanto al mondo si possa esprimere" dicevano i relatori. E poiché si sentiva robustamente sostenuto egli si prendeva volentieri l'insidioso piacere di usare modi carezzevoli verso gli Sforza che dalla politica francofila del Papa erano minacciatissimi. Mentre Cesare spendeva pazzamente, il Papa si anticipava con l'immaginazione l'ingresso della spettacolosa cavalcata in Francia, e ne godeva: tanto lui quanto il figlio, nella loro pomposa gravità spagnola, ignoravano il ridicolo, e ordinando il corteo pensarono a tutto meno che alla misura: ci sarebbe voluta più versata esperienza e minore febbre di apoteosi, per resistere alla tentazione di sfolgorare agli occhi di un re di Francia. I begli abiti stavano bene al Valentino come a tutti i Borgia; ed era vero che egli fosse di corpo bellissimo, muscoloso e fine, armonioso nel disegno delle giunture e delle membra atte e scarse. Ma il viso, sul quale le emozioni non arrivavano ad affiorare, era sciupato da uno sfogo di quel mal francese che aveva preso a Napoli e che periodicamente gli rifioriva, Appunto per questo sfogo egli aveva differito il suo viaggio in Francia non volendo mostrarsi malamente segnato ad una fanciulla da conquistare, e solo il primo di ottobre era finalmente partito, uscendo da Roma per i giardini vaticani. Aveva indosso damasco bianco e oro, e si drappeggiava in un tabarro di velluto nero tagliato sui modelli francesi. Il suo volto era inquadrato dalle ciocche di una "capilliata pcsttza", una parrucca, che doveva servire

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probabilmente a nascondere la tonsura dell'ex cardinale. Cavalcava un cavallo baio. Portava con sé la bolla papale che concedeva il divorzio al re di Francia, e la bolla di nomina cardinalizia per Giorgio d'Amboise.

Del suo viaggio si parlò per un pezzo in Italia, e dei suoi cavalli ferrati d'argento che diventarono subito leggendari. Ma, arrivato in Francia, non trovò le cose piane come s'aspettava. Era stato preceduto da una fama scandalosa, e i cattolici provinciali ed austeri della Francia medioevale guardavano abbagliati ma sgomenti come si guarda un genio maligno, lui, col suo corteo e con i forzieri che contenevano il peccaminoso divorzio dalla pia regina Giovanna. Quando la cavalcata arrivò a Chinon, dove era il re con la sua corte, e fece la solenne entrata sfoggiando bardature d'oro, vesti colorate, gemme, tessuti contesti di fili brillanti, la popolazione restò a bocca aperta, ma gli uomini di spirito e gli uomini di corte conclusero che "era veramente troppo per un piccolo duca di Valentinois". Cesare fu invitato a corte, ospitato con tutti gli onori, ma del matrimonio con Carlotta d'Aragona si parlava in modo vago, tanto che egli, fino e sospettoso com'era, non voleva consegnare al re la bolla di divorzio se prima non si fosse deciso qualche cosa sulle sue nozze; infine, dovette darla, e assistere il 6 gennaio 1499 allo sposalizio del re con quella schiva Anna di Bretagna che per mesi e mesi, fosse stata civetteria o vero scrupolo, aveva opposto al matrimonio con Luigi rifiuti ed impedimenti, dicendo esser di troppo buona famiglia per diventare cortigiana di Francia. Diventò invece regina per la seconda volta, e se ne trovò benissimo. Cesare, intanto, approfittava delle feste nuziali per corteggiare Carlotta d'Aragona donzella della regina sposa, e con il suo lusso e tutte le grazie affabili che sapeva sfoggiare, pare che cominciasse a vincere l'ostinazione della figlia del re di Napoli, benché ella avesse affermato fino allora che per nulla al mondo voleva essere chiamata "la cardinala": si diceva che la fanciulla avesse fatto capire d'essere per suo conto non lontana dal consenso, a condizione però che suo padre assentisse, ciò che poteva essere anche un mezzo da furba per sfuggire senza un rifiuto troppo brusco alle insistenze del corteggiatore (forse già da allora Carlotta era innamorata di un barone francese che sposò qualche mese più tardi). Che fosse un mezzo buono si vide subito, perché re Federico ricusò nettamente il consenso, e i suoi ambasciatori furono, almeno apparentemente, licenziati dal re di Francia "a bruto comiato".

Luigi XII parve desolato, ma non gli si crederà del tutto:

a chi segua con occhio attento i particolari del combattuto soggiorno del Valentino in Francia, appare evidentissimo quello che aveva detto un cardinale a Roma e cioè. che il re di Francia teneva il Valentino come ostaggio per avere il Papa favorevole nella sua prossima campagna in Italia. Per di più, i francesi, vedendo Cesare spatriato e solo, facevano dello spirito

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dicendo che questa volta "il figlio di Dio" non avrebbe potuto fuggire come aveva fatto a Velletri. E, ricordando così la qualità di ostaggio che egli aveva avuto al tempo della spedizione di Carlo VIII, mostravano quale considerazione, per lui mortificante, essi avessero del suo soggiorno in Francia. Cesare si accorgeva di essere impigliato in una rete maligna, ma si ostinava a dominare gli avvenimenti e a dominarsi, mentre i suoi gentiluomini che non avevano la sua volontà non nascondevano la loro ansia: uno di essi, "uomo di grande ingegno" che scriveva a Roma narrando dei grandi onori fatti dal re al Valentino, concludeva di dubitare "non siano fra qualche anno simili a gli onori fatti a Cristo il dì degli olivi che poi il venerdì lo posero in croce"; se il paragone era irriverente, non aveva per questo minore significato.

Questa figura di fidanzato venuto inutilmente da lontano, un Jaufré Rudel da ridere, era ingrata all'orgoglioso Valentino e lo sarebbe stata a chiunque: a marzo la sua situazione era immutata, gli si offrivano ora l'una ora l'altra principessa francese senza mai arrivare ad una conclusione; e il Papa incominciava ad usare verso il re di Francia un linguaggio risentito. Buon politico, Alessandro VI capiva che quel viaggio del Valentino minacciava di diventare per i Borgia una sconfitta morale: correva voce che ben cinque re di corona si fossero degnati di scrivere al re di Francia perché il sangue reale di Carlotta non "si avesse a forzare"; da un avventuriero, si sottintendeva. Il Papa era così irritato che ad un certo momento pensò perfino di far tornare dalla Francia il Valentino e di dargli per moglie una principessa italiana, legando con quelli d'Italia i suoi destini: diceva di "voler maritare Cesare in Italia e con quella [Italia] essere". Le nostalgie italiane di Alessandro VI ci sono attestate da vari informatori nello stesso tempo, e si può pensare che cosa sarebbe stato in quel tempo per la penisola un Papa che l'avesse difesa dalle invasioni straniere. Ma la realtà era, invece, che il Papa non aveva in quel momento nemmeno l'autorità di richiamare il figlio poiché i francesi non l'avrebbero lasciato partire: così come stavano le cose, conveniva fingere di trovar buono il loro giuoco. Lucrezia, a Roma, sconfinava nel cuore paterno. Si lasciava vivere lietamente con quel marito gaio e sentimentale, un vero napoletano, che si occupava di politica appena il poco che ad un uomo è necessario. Teneva corte, riceveva poeti e letterati, cardinali e principi, e sotto la sua protezione timida, ma appassionata, cominciava a formarsi il piccolo partito aragonese che riuscì più tardi a dare ombra al Valentino. Da lei si recava Ascanio Sforza nei momenti di più grave incertezza politica, e ancora prima di essere ricevuto in Vaticano, per concertare meglio le difese contro i francesi. Lucrezia, come la maggior parte delle donne, non amava la politica, anzi la detestava, e di questa scabra e difficile arte non capiva nulla; pure, aveva troppo vissuto tra uomini di comando per non aver imparato l'arte di muovere, nell'agitato mare delle ambizioni familiari, i propri interessi. Basterebbe l'assiduità di Ascanio Sforza

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presso i giovani duchi di Bisceglie per provare che Lucrezia cercava di aiutare, con i parenti di suo marito e gli alleati di casa d'Aragona, i milanesi e gli spagnoli. Questi ultimi, per conto loro, non stavano per nulla quieti, Già gli ambasciatori portoghesi si erano lamentati senza perifrasi della condotta francofila e nepotista del Papa, quando era sopravvenuta una numerosa ambasceria spagnola capitanata da Garcilasso de Vega, uomo tanto disposto ad essere insolentissimo in nome del suo re, da minacciare il capo della Chiesa di concilio, di deposizione dal trono pontificio e di riforma. Preso di fronte, Alessandro VI non si fece sopraffare nemmeno un momento, e reagiva restituendo ingiuria per ingiuria contrapponendo alla propria simonia l'illegittimità del regno di Ferdinando ed Isabella, e all'accenno della morte del duca di Gandia riguardata come indice del castigo divino, i castighi ancora più gravi che affliggevano i reali di Spagna nella loro prole. Spagnoli e portoghesi insieme finirono per ripetere, gridando, di non voler più considerare in Alessandro VI il capo della Chiesa, e uno di essi aggiunse parole così irriverenti che gli fu minacciato il bagno nel Tevere. L'asprezza dei colloqui mandava in furia il Papa, ma pareva rinnovargli le energie; si sarebbe detto che, a litigare con i suoi conterranei nel linguaggio nativo, il suo impeto crescesse di tono e di calore. Infine, vista la necessità di gettare acqua sui fuochi e di blandire gli spagnoli nella loro, persistente mania di dichiararsi difensori dell'integrità territoriale pontificia (era un atteggiamento che nascondeva anche la ragione politica di avversare i francesi nelle loro pretese sull'Italia), decise di restituire solennemente il ducato di Benevento alla Chiesa togliendolo agli eredi del duca di Gandia, il che finiva per essere, se si consideri lo scarso interesse che il Papa aveva per i nipotini, un dispetto al re di Spagna. Con questa ed altre piccole concessioni di carattere religioso, Alessandro VI cercava di prendere tempo, e intanto dava feste a Lucrezia e al suo giovane marito, né perdeva la voglia di divertirsi: verso la fine di gennaio prese parte insieme con il cardinale Borgia, il cardinale Lopez e Alfonso di Bisceglie ad una gran battuta di caccia che aveva come meta Ostia e la circostante boscosa campagna, ricca di selvaggina intorno a Castel Porziano. Tornarono il primo di febbraio in corteo venatorio tra la muta trepidante dei cani, seguiti dai familiari che portavano trionfalmente "cervi e capre", la faticata preda di caccia. Nello stesso febbraio il Papa si faceva vedere con Lucrezia ai balconi di Castel Sant'Angelo che davano sul ponte, aspettando di veder passare le maschere per ridere dei loro lazzi popolareschi: pare però che quell'anno il carnevale non fosse molto animato perché, diceva un corrispondente, "il Papa e madonna Lucrezia possono stare quanto vogliono in castello per farsi vedere, che alla fine non passa se non qualche giuraddio disgraziato". Ma ragioni di sorriso, Lucrezia le sapeva trovar sempre. Era per lei quel tempo felice, amoroso, che tutte le donne hanno conosciuto una volta le fortunate più volte nella loro esistenza: quando qualche cosa di più che l'inebriamento del vivere solleva da terra portando passi e pensieri attraverso un mondo seminato di miracoli. Una

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nuvola trascorre, e le si tenderebbero le braccia; col sole in gola si ride di meraviglia; e per una goccia di pioggia sospesa ad un rametto fioccoso, si empiono gli occhi di lacrime e di arcobaleni. Naturale che Lucrezia, così disposta, cercasse aria e luce fuori dalle case in gruppo della città: e doveva essere uno dei solari giorni che ha l'inverno romano, quasi inquietanti di apollineo splendore, quel 9 febbraio 1499 che vide la duchessa di Bisceglie e le sue donzelle avviarsi in gita di piacere alla vigna del cardinale Lopez. Lucrezia era incinta di due mesi, ma non se ne ricordava certo mentre proponeva alle compagne di rincorrersi per i viali. Lei vola via, le altre la inseguono: non fa caso al declivio del terreno, il piede le s'impunta, la pianellina si rivolta, ed ella cade, trascinando sopra di sé la donzella che le è più vicina. Rimase tramortita. Portata a casa, "la notte a nove ore disperse, maschio o femmina non so" dice il Cattanei. Il Papa fu addoloratissimo, ma doveva consolarsi assai presto, poiché Lucrezia ed Alfonso erano giovani, ardenti e si amavano:

appena due mesi dopo una nuova maternità si annunciava: l'ampio paterno cuore di Alessandro VI batteva i suoi ritmi pieni. Altro motivo di allegrezza gli venne a primavera da quella Francia che già gli aveva cominciato a dar pensiero: il 16 maggio 1499 era giunto in gran fretta un messaggero di Cesare di nome Garzia annunciando che il matrimonio del Valentino era stato concluso e consumato. La sposa era Carlotta d'Albret "la più galante dama della sua terra", figlia del re di Navarra e parente del re; aveva fama di essere bellissima sebbene un italiano che ebbe a vederla qualche anno più tardi la definisse "assai più umana che bella" volendo intendere che ella avesse più grazia espressiva che armonia di lineamenti. E del resto può anche darsi che sia sfiorita presto, come accade a certe bellezze delicate. Il matrimonio non era avvenuto facilmente perché il padre della fanciulla, il rozzo e severo Alain d'Albret, non si voleva persuadere che ad un uomo di Chiesa, un ex cardinale, Potessero essere permesse le nozze, ed era bisognato mostrargli ed illustrargli la bolla papale che dichiarava Cesare sciolto da ogni impegno ecclesiastico perché se ne convincesse. V'erano stati poi ostacoli e diffidenze, vinti gli uni e le altre dai doni che con una prodigalità da gran principe il Valentino offriva ai suoi futuri parenti, dalle promesse di onori e di benefici ancora più ricchi, e soprattutto dalla volontà di re Luigi il quale si era anche preso l'arbitrio di promettere al fratello di Carlotta, Amanieu d'Albret, il cappello cardinalizio. Le nozze erano avvenute a Blois il 12 di maggio, e, all'alba del 13, appena informato della battaglia notturna fra i nuovi sposi, Garzia era saltato a cavallo, arrivando a Roma in quattro giorni, ma così stanco da non poter reggersi in piedi nemmeno alla presenza del pontefice: gli fu concesso di stare seduto purché raccontasse presto e con più particolari possibili gli avvenimenti. Il racconto durò sette ore: cominciava dalle trattative matrimoniali, e comprendeva tutto: la relazione dell'accordo, dello scambio degli anelli, delle cerimonie,

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delle feste, quella della notte nuziale con una consumazione del sacramento addirittura sestuplice della quale il re si era congratulato fra gagliarde risa col Valentino, dichiarandosi più che battuto su quel terreno; e la descrizione del gran convito dato dal Valentino al re alla regina al duca di Lorena e alla più alta nobiltà cortigiana di Francia, tanta e tanto gran gente, che, non bastando le sale del palazzo, si era improvvisato il convito in un vasto prato scompartito da arazzi tesi fra pennoni, e si erano formate così "sale e camere" che avevano per soffitto il cielo tenero di maggio, per tappeto l'erba di primavera e per pareti le tappezzerie fiorate e colorate.

Gran festa e gran riso in Vaticano: Cesare è l'uomo più contento del mondo, ha fatto doni alla sposa per ventimila ducati di gioielli di broccati di sete preziose. Il matrimonio valentinesco è un tema che si abbellisce di nuove variazioni per ogni persona che venga in Vaticano, amico o nemico, perché ne goda o perché ne tema. Il Papa si fa portare alcune cassette di gioielli, con le sue mani grasse e sensibili fruga fra le pietre preziose, fa valere il tono sanguigno di un rubino, il lampo freddo e tagliente come un riflesso sottomarino di uno smeraldo, l'oriente fluttuante delle perle, la preziosità degli opali: i suoi doni alla nuora. Dimentica tutto quello che ha detto contro il re di Francia, e ride del duca di Milano e di Ascanio Sforza che fanno mostra di non credere al pericolo imminente dell'invasione francese, nonostante la proclamazione recentissima della lega fra Luigi XII e Venezia per dividersi il ducato di Milano. "Si guardi, il Moro e non faccia come quel buon uomo di re Alfonso" diceva ridendo Alessandro VI riferendosi all'invasione di Carlo VIII, e ricordando che anche Alfonso II aveva negato che i francesi sarebbero arrivati, fino a che non li aveva avuti alle porte di Napoli.

Per gli aragonesi il cielo si oscurava ancora una volta: e poteva essere la definitiva. Se Lucrezia avrebbe presto ricominciato ad essere inquieta, Sancia era già inquietissima, e lo dimostrò apertamente appena ne ebbe l'occasione. jofré Borgia, come se avesse voluto affermare con i fatti la verità della sua discendenza borgiana, dal Papa talvolta smentita, seguiva le lezioni di turbolenza dei suoi fratelli, e se ne usciva spesso di notte accompagnato dai suoi spagnoli a far gazzarra per la città e a molestare perfino la ronda notturna delle guardie cittadine. Una notte, passando per il ponte di Castel Sant'Angelo insieme con venticinque spagnoli, per insolenza o per calore di sangue insultò il bargello e si prese una ferita in una coscia da uno dei verrettoni arrugginiti dei soldati di ronda che per poco non lo mandò "a ritrovare il duca di Gandia nel Tevere".

Sancia, a vedersi arrivare il marito ridotto così, e in pericolo di vita, sentì rifluire in sé tutti i rancori contro la famiglia papale; e non le parve vero di correre in Vaticano a sfogarsi non si sa se contro il principino suo marito o

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contro il Papa che permetteva alla sbirraglia di volgere le armi contro il proprio figlio. Il Papa avrà risposto che jofré aveva avuto in fondo ciò che si meritava a molestare i birri, ma non per questo gli riuscì di quietare Sancia. E chi ce l'avrebbe fatta con la sua foga di napoletana, la sua protervia d'aragonese, la sua furia di donna? La lite fra Alessandro VI, fermo e massiccio nella bianca veste pontificia, e la giovane donna bruna dagli occhi incandescenti, fu lunga, e si effuse in parole "molto alterate e poco onorevoli dall'una e dall'altra parte". Dopo questo diverbio, parlando con gente di fiducia, il Papa ebbe ancora a ripetere di essere addolorato per l'onore della casa non perché Jofré fosse suo " figliolo vero "; e chissà che il disconoscimento della sua paternità gli sia scappato di bocca anche nella lite con la nuora alla quale non sarà mancata una risposta mordente. Intanto l'alleanza con i francesi e la soddisfazione che il Papa mostrava di essa, inacerbivano sempre più gli ambasciatori di Ferdinando il Cattolico, i quali, nel tenebroso immaginare della loro fantasia, erano arrivati ad accusare il Papa di essersi fatto venire di Francia polvere da sparo e palle di cannone in certe botti da vino. Infine, vedendo che con le proteste non avrebbero nemmeno scalfito l'ostinazione papale, avevano deciso di tornare in fretta al loro re a riferire sulla situazione d'Italia, perché provvedesse vigorosamente; e alla vigilia della loro partenza Garcilasso de Vega così concludeva il suo colloquio con Alessandro VI:

" Padre Santo, io mi parto e vado in Spagna: spero [che] mi verrete dietro non in nave né armata onorata ma in burchiello, se, per grazia, lo potrete trovare..." Non si poteva essere più concisi e più irrispettosi, ma il Borgia rispondeva abilmente con promesse e proteste, nascondendo appena la sua soddisfazione di vedere andar via quella gente che gli legava le mani e gl'impediva la completa libertà d'azione nelle sue strette trame con la Francia. Appunto queste trame che s'ispessivano e andavano verso conclusioni prevedibiii, avevano dato da riflettere a qualcuno molto vicino al Papa, ad Alfonso di Bisceglie: egli doveva sapere benissimo come volgevano le cose, avvertito com'era da Ascanio Sforza, da ambasciatori spagnoli e napoletani, e da sua sorella Sancia. E benché il Papa badasse ad ostentare la propria neutralità, e affermasse che re Luigi mirava solo al ducato di Milano, e che egli non gli avrebbe mai permesso di toccare Napoli, tutti sapevano che faceva così per prender tempo, " per temporezar " dice il Cattanei. Alla fine di luglio il cardinale Ascanio Sforza lasciava la città per andare a combattere i francesi a fianco del fratello Ludovico, trovando la forza di farsi vedere, e forse essendo realmente, " allegro e di buon animo " per la speranza di far presto un ritorno da trionfatore. Lo aiutava a persistere nell'ottimismo il pensiero che qualche cosa stava per accadere, a gran dispetto di Alessandro VI? é molto probabile che, data l'amicizia dello Sforza con casa Bisceglie, egli avesse istruito il marito di Lucrezia sui tranelli e sui pericoli che potevano venire dai Borgia, ricordandogli, come aveva già

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ricordato parlando con altri, l'esempio di Giovanni Sforza. Ad ogni modo, dovette apprendere con soddisfazione la notizia che Alfonso d'Aragona la mattina del 2 agosto 1499, salito a cavallo con poco seguito, era fuggito da Roma invano inseguito fino a notte dai birri del Papa, riparando a Genazzano terra dei Colonna amici di re Federico. Di lì si sarebbe mosso per tornare a Napoli, non senza aver mandato prima lettere e sollecitazioni alla moglie perché lo raggiungesse.

Lucrezia, saputa la cosa, dette in un gran riso nervoso:

sentiva il ridicolo di queste storie di mariti che fuggivano lei debole, lei disarmata, come se avesse il volto mortale della Gorgone. " Ancor più se ne riderà il signor di Pesaro " si diceva in giro: proprio per questo, e perché ella era incinta di sei mesi, il suo dolore fu in quel momento più che mai vergogna e umiliazione. Il Papa lanciò fulmini contro re Federico e contro tutta casa d'Aragona e si prese la rivincita di ordinare immediatamente a Sancia che se ne ritornasse a Napoli con la motivazione che se il re non voleva lasciare le cose sue presso il Papa, questi non voleva le cose del re in casa sua; rimandava la principessa, e così ognuno si sarebbe tenuto i suoi. Fece questo " con pochissima grazia " tanto da minacciare Sancia, che non voleva partirsene, di farla " buttar fuori " per forza, dandole così vera cacione di risentirsi nel suo orgoglio principesco. Chissà che ella non abbia incitato jofré a seguirla come faceva, da Genazzano, Alfonso con Lucrezia?

Perfino l'oratore milanese Cesare Guasco dovette sopportare le lagnanze del Papa su Alfonso che era fuggito, e su re Federico che lo aveva fatto fuggire; al che il milanese aveva risposto che spettava a lui, Papa, rimuovere le cause di questa fuga, e che, secondo il suo parere, rimandare Sancia nel reame era aggiungere male a male. Ma, ostinato il Borgia, Sancia partì. E per Lucrezia tutta in lacrime " non fa che piangere " dicono gli informatori il Papa inventò qualche cosa di nuovo, la nominò cioè governatrice di Spoleto e di Foligno, una carica da cardinale o da alto prelato. La relazione fra i pianti di Lucrezia e la sua nomina apparirà sottilmente psicologica come appariva certo al Papa mentre firmava il decreto, quando si rifletta alla condizione delle cose e al carattere della figlia di Alessandro VI. Il Papa temeva, dice un informatore, che i figli gli fossero " sviati o rubati ", e per di più voleva mostrare al re di Napoli che egli sapeva vivere anche solo. Né voleva umiliarla, quella Lucrezia così amata: nulla di meglio, dunque, che imprigionarla in una dignità altissima, lei che alla dignità era tanto sensibile. Mai ella avrebbe osato offendere la maestà della sua carica con una fuga alla quale avrebbe sentito di non aver più diritto quando la sua personalità fosse non più quella di una sposa abbandonata alla quale è lecito, anzi è doveroso raggiungere il marito, ma quella di un ufficiale dello stato con respon' sabilità gravi, in un momento di guerra

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imminente. Il Papa pensava anche che a Spoleto, più di cento chilometri a nord di Roma, Lucrezia sarebbe stata ancor più lontana da Alfonso; senza contare che, dovendo il governatore di quella città abitare nella rocca chiusa e cinta di mura, ella sarebbe stata isolata anche materialmente, e le sarebbe stato quindi impossibile comunicare di nascosto col marito lontano. Quanto a Jofré, che aveva a corte quella posizione tollerata che si è vista, avrebbe seguito la sorella e sarebbe stato accompagnato da sei paggi che avevano tutti giurato di tenergli gli occhi addosso. Era dunque prigioniero, il che voleva dire che anche la sorella governatrice lo era, quantunque in quel modo onorevole e riparato. Il mattino dell'otto agosto, Lucrezia e jofré partirono alla testa di un corteo che il Papa aveva personalmente curato, seguito da quarantatré carri per la maggior parte di Lucrezia, composto di nobili, tra i quali il giovane Fabio Orsini, di donne, di donzelle, di soldati e di servitori: di carcerieri, insomma. Il Papa, per un riguardo alle condizioni della figlia, le aveva donato una lettiga con materassi di raso cremisino ricamato a fiori, con due cuscini di damasco bianco ed un baldacchino, e aveva aggiunto, nel caso che Lucrezia avesse voluto viaggiare seduta, una poltrona imbottita di raso e fiorita di ornati con il suo sgabello per appoggiare i piedi, innestata in modo ingegnoso alla sella. A salutare la governatrice di Spoleto, venne il Papa sulla loggia della benedizione, mentre Lucrezia e jofré uscivano cavalcando dal palazzo di Santa Maria in Portico a capo del loro corteo. Splendeva affettuosamente nel sole d'agosto la gran faccia di Alessandro VI, quando fratello e sorella, giunti sotto la loggia, si tolsero gli ampi sombreros e s'inchinarono in atto di rispettosa sottomissione, sicché la chioma bionda di lei e i capelli di mogano del piccolo principe brillarono nello stesso raggio. Il Papa alzò tre volte la mano alla benedizione e stette a guardarli lungamente.

Fino al ponte di Castel Sant'Angelo, Lucrezia, accompagnata dall'ambasciatore napoletano, stette a colloquio con lui illudendosi di corrispondere, per quel tramite, con il marito lontano. Poi, si trovò in mezzo alla sua cavalcata, sola nel fittizio titolo che mal copriva l'umiliazione di essere una sposa abbandonata. Eppure, se qualche cosa teneva sveglio il coraggio della duchessa di Bisceglie, dovette essere in lei la coscienza della sua posizione politica e la volontà di condursi virilmente; poiché solo con l'esercizio attivo del potere ella avrebbe potuto dimostrare agli altri e a se stessa d'essere stata chiamata a governare non per ripiego di famiglia ma per utilità dello stato. Pensava ad Alfonso; si ripeteva, sperando meglio, che le ultime parole dell'ambasciatore di Napoli erano state ottimiste; e già le conclusioni dovevano apparirle meno nebulose, confortate e quasi soleggiate dalla grazia ora arcadica ed ora brusca del paesaggio. Abbracciata dal frondoso amore del verde, la strada verso Spoleto si dilunga fra campi pratini castagneti boschi: finché al sommo di un pendio, conduce alla visione della Rocca spoletina, isolata dalla città sottostante, ancorata sulla verde marea delle foglie. Contro l'azzurro specchiato del cielo umbro, l'architettura

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di Matteo Gattapone ha appena il tempo di rivelare nel suo disegno quadrato una forza ammonitrice e difensiva che subito, scendendo la via, la rocca scompare: e riapparirà poi molto più tardi, a capo della intera città, culmine naturale all'ascesa concorde delle case costruite a scaglioni come per un ordinamento militare.

Con un gesto legittimo, Lucrezia presentava ai notabili spoletini i brevi di nomina emessi dalla cancelleria papale, dava udienza, riceveva magistrati nel salone d'onore che apriva le sue finestre sui due cortili a dominare la vita degli armigeri e quella dei castellani. Ascoltava i discorsi di coloro che le parlavano di questioni municipali e regionali, graziosa e paziente esaminava suppliche ed ascoltava ricorsi; ma certo la sua ansia segreta andava ai messaggeri che venivano dal sud. Sapeva che le cose si rasserenavano: il 20 agosto era partito da Roma per Napoli un capitano spagnolo caro ai Borgia e agli Aragonesi, che era stato uno dei testimoni alle sue nozze, Giovanni Cervillon. Andava per conto di Alessandro VI presso re Federico a trattare il ritorno del duca di Bisceglie, animato da buonissime speranze e munito di ottime promesse per l'avvenire di Alfonso. Il re di Napoli, pur non essendo persuaso da tanti discorsi, li ascoltava, e poteva sentir meglio in essi, riferiti così dalla bocca di un soldato leale, quella sincerità che sperava dal Papa. Dopo molte discussioni e assicurazioni, si venne a stabilire che verso la metà di settembre Alfonso avrebbe raggiunto la sposa. L'ultimo tentativo che la casa aragonese faceva perché il Papa ritornasse amico e protettore, doveva risolversi in un sacrificio.

La tragica duchessa di Bisceglie

I francesi vennero giù alla conquista di Milano nell'estate del 1499, passando di luglio, al fresco, le Alpi, e marciando dritti sulla città lombarda, dove Ludovico il Moro, decifrati finalmente i segni della realtà, cercava in fretta un aiuto e un piano di difesa, non riuscendo a trovare né l'uno né l'altro. Aveva contato sull'alleanza di Massimiliano d'Austria, ma questi. occupato a guerreggiare con gli svizzeri, lo lasciò solo. Solo, in un momento di guerra, voleva dire perduto, non essendo lo Sforza di quelli che sanno piegare la mente dalla forma politica a quella militare; e gli era morta da due anni la moglie Beatrice, la giovane ferrea principessa estense che gli avrebbe certo ispirato in quel momento forza per resistere e difendersi. Stretto ad oriente e ad occidente dalla lega franco-veneziana, egli non trovò di meglio che fuggire nel Tirolo presso Massimiliano, seguito dal cardinale Ascanio al quale non avevano servito l'armatura ageminata e nemmeno la volontà e

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l'ardire. Milano aprì le porte ai francesi, e guardò sfilare, acclamando, il re di Francia e il suo esercito, fieri del loro facile trionfo.

Seguivano il vincitore anche molti principi italiani che speravano, con l'offerta della loro amicizia, di risparmiare ai loro stati i danni del ciclone straniero: v'erano i rappresentanti dei Savoia, del Monferrato, di Saluzzo, di Mantova e di Ferrara; e v'era, dietro il re, Cesare Borgia respirando l'aria italiana che gli ridava autorità e coscienza di se stesso, lontano da quella Francia dove aveva avuto così amaro soggiorno. Gli doveva bruciare tuttora il ricordo delle commedie satiriche messe in iscena dagli studenti di Parigi, con la rappresentazione del suo matrimonio: tanto ingiuriose per lui e per il pontefice, che Luigi XII aveva mandato a Parigi il Gran Cancelliere e il conte di Ligny perché lo scandalo cessasse. Seimila studenti in armi accolsero i due inviati: libertà di satira o rivolta era il loro grido. E al re convenne partire da Blois per andare a pacificare i giovani giudicandoli forse non tanto pazzi quanto, in quel momento, inopportuni. Alessandro VI rientrato in tutta la sua sicurezza, ora che sapeva il figlio vicino, diceva di sperare che il caro re Luigi venisse a Roma per assistere alla messa di Natale in San Pietro; rispondendo con un sorriso agli avvertimenti dei cardinali, uno dei quali ebbe a dirgli bruscamente che i re di Francia non erano visitatori da augurarsi con tanta sollecitudine, e gli ricordò come si fosse dovuto al tempo di Carlo VIII lasciare Roma fra continui pericoli ed affanni. Degli Sforza fuggitivi, il Borgia rideva addirittura, e fingeva di compassionarli: " Poveri uomini, " diceva " avrebbero avuto bisogno del duca Francesco; lui non si sarebbe fatto cacciar così ". Ma intanto aveva accettato il dono di Nepi che Ascanio aveva mandato ad offrirgli, quella Nepi che era stata uno dei pingui regali fatti da Alessandro VI al suo grande elettore; ed in più, non mancava verso gli Sforza di " buone parole e cattivi fatti". A vedere la fuga del suo alleato e l'invasione di Milano, il re di Napoli stava in angoscia e afferrava alla disperata tutti i partiti che gli venivano sottomano per suscitare paura o amicizia nel Papa, arrivando a minacciare che, se il pontefice non lo avesse protetto dai francesi, avrebbe chiamato in proprio aiuto i turchi: poteva essere, se lo avesse fatto, un pericolo gravissimo per la Chiesa, e Alessandro VI ne era così certo che stava attento a non farsi vedere dai napoletani troppo legato con i francesi; c'erano giorni, anzi, che pareva andare in amore con gli Aragona, con la Spagna e con Napoli, e trovava nel suo sacco tanta semina d'illusioni che riusciva a dare ad ognuno un respiro ed una speranza. Mosso da queste illusioni, Alfonso di Bisceglie venne poco dopo la metà di settembre da Napoli in compagnia di un Pignatelli, antico favorito di re Ferrante; non entrò in Roma, ma, girando qualche chilometro fuori dalle mura della città, cavalcò verso Spoleto, dove giunse la sera del 19 settembre. L'incontro fra i due sposi, sebbene forse alla prima ombrato d'impaccio, si chiarì presto al sorriso di Lucrezia troppo contenta di sentirsi ancora una volta al sicuro per non voler comunicare intorno, imporre, anzi, la sua gioia: e fu subito bello per

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tutti e due vivere nel settembre illimpidito dal vento che portava l'odore fresco e selvaggio del vicino Monteluco, e trascorrere da loggiato a loggiato, o da cortile a cortile, e uscire a cavalcare pei dintorni, rientrando a sera, annunciati dallo squillo dei trombettieri e dal trepestio dei cavalli in volata, felici di essere stanchi e giovani e di desiderare la beatitudine muscolare del riposo. Quattro giorni finirono presto: il 23 settembre, la governatrice di Spoleto, avendo accanto il marito e con sé il suo seguito sul quale ora signoreggiava senza equivoci, abbandonava la città, lasciandovi due rappresentanti, Antonio da Gualdo e Antonio Piccinino, e la memoria della sua apparizione. Si recava a Nepi, nel castello ora tornato di proprietà del Papa, e doveva trovare là a benedirla lo stesso Alessandro VI, immagine radiosa dell'affabilità paterna. Quella settimana fu buona per tutti: il Papa vedeva tanto sorriso sul volto della figlia da empirsene gli occhi; e per Cesare già disegnava la signoria di un territorio vastissimo, che proprio in quei giorni si era delineato e andava man mano precisandosi in linee geografiche nella sua mente. Il futuro regno borgiano non sarebbe stato più Napoli dove il re di Francia non avrebbe permesso antagonisti, ma una bella e ricca provincia dell'Italia centrale, la Romagna.

I signori che governavano le città romagnole, feudatari della Chiesa da secoli, avevano con la Santa Sede rapporti regolati da leggi così complicate che, si può dire, ogni giorno ne violavano qualcuna. Fu gioco facilissimo per il Papa, tornato a Roma il primo di ottobre, dopo aver regalato alla figlia la terra e la rocca di Nepi, stendere una bolla nella quale si dichiaravano decaduti dai loro feudi i signori di Pesaro Imola Forlì Faenza Urbino e Camerino, per non aver pagato regolarmente le decime dovute alla Chiesa. Appena pubblicata la bolla, Cesare, che stava ad attenderla, mise in ordine l'esercito, rinforzato da milizie francesi, e scese da Milano verso la Romagna.

Lucrezia con il marito tornò a Roma il 14 ottobre godendosi il tepido trionfo della sposa soddisfatta. Tutta la casa era occupata nei preparativi di festività un poco sospesa che accompagnano le nascite nelle case principesche: e circa quindici giorni dopo, il primo di novembre, un piccolo maschio dormiva nella sontuosa culla che gli era stata preparata nel palazzo di Santa Maria in Portico. Si ordinò subito il battesimo. Il figlio di Lucrezia doveva essere battezzato, se non addirittura di mano papale almeno di mano cardinalizia, e con un tale apparato da soddisfare la brama di fasto e di cerimonie che avevano i Borgia. L'11 novembre sedici cardinali in gruppo si radunavano nella cappella del palazzo di Santa Maria in Portico dove ornamenti tappezzerie e ricami non bastarono a nascondere all'occhio del meticoloso Burcardo un buco nella tovaglia d'altare. Lucrezia, un poco pallida ma splendente di quella bellezza immateriale che hanno le giovani madri felici, era seduta nel suo letto ornato di raso rosso e fregiato d'oro, in una stanza parata di velluto di quel colore d'anemone azzurro che allora si

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chiamava alessandrino. Un'aria sussurrata di letizia era per tutta la casa, dalle sale parate di broccati e di arazzi, e coperte nei pavimenti di tappeti, alle scale e all'atrio; non si vedevano più i muri sotto i riflessi serici delle stoffe. L'arte del Rinascimento e l'esotismo di lontane e fantastiche reminiscenze spagnole convenivano insieme nella finitezza soffice e segreta dell'arredamento. Sfilarono, al letto della sposa, quaranta cerimoniose gentildonne, vennero ambasciatori, e prelati oratori ed amici. I cardinali passarono direttamente dalla cappella del palazzo in quella adiacente che era la cappella di Sisto IV, la Sistina. Michelangelo non aveva ancora lanciato a vivere sulla volta e sulle pareti i protagonisti del suo gran dramma pittorico, ma, sulle pareti, già Botticelli aveva dipinto le diafane figlie di Jetro; già il Perugino aveva segnato pause musicali di spazi nell'affresco della Consegna delle chiavi; e fra Carnevale, traducendo in pittura i disegni di Luca Signorelli, aveva immesso alla vita dell'arte quella figura di giovane seduto che brilla nella sua pagana seminudità, come l'eroe di un mito siderale. Quel giorno la parete di fondo, la vasta parete che regge ora il Giudizio michelangiolesco, era stata ornata di un pallio d'oro al quale stava addossata una tribuna di broccato d'oro: gran tappeti coprivano il pavimento. Il corteo cominciò Presto a formarsi: preceduto dagli scudieri armati del Papa, dai cubicolari vestiti di panno rosato, da musici tamburini e pifferi, si avanza Giovanni Cervillon il valoroso soldato spagnolo, l'amico di casa Aragona e di casa Borgia, il mediatore fra re Federico e il Papa, portando sul suo braccio di guerriero, ripiegato nel gesto intimamente rispettoso che sanno mostrare certi uomini di guerra, il neonato dalla faccina rugosa confusa nello scintillio dello splendido broccato d'oro foderato d'ermellino che lo ricopre; ed ecco, a due a due gli scudieri con gli oggetti sacri, il bacile il boccale la saliera: tutto d'oro, tutto rilucente, tutto prezioso. Seguono il governatore di Roma e il governatore imperiale, il gruppo degli oratori, i prelati a due a due in lunga fila. Arrivati all'altare, il Cervillon dà il bimbo a Francesco Borgia arcivescovo di Cosenza che lo porta presso la conca battesimale d'argento ornata d'oro dove, dalla mano austera del cardinale napoletano Carafa, il neonato è battezzato. Si chiamerà Rodrigo, come il nonno.

Assistevano alla cerimonia molte ragazze e donne che, per vedere meglio il bambino, avevano occupato gli stalli cardinalizi in prima fila, mentre i cardinali, trovati presi i loro posti, erano stati obbligati a sedere nelle ultime file e ad appoggiare i piedi, con quel freddo, sul terreno nudo; e il Burcardo annotava e deplorava. Finita la cerimonia, il bimbo fu affidato per il ritorno a Paolo Orsini, come nuovo e più forte segno di amicizia fra il Papa e la casa orsinesca; fu notato però e fu certo la più superstiziosa fra le donne a comunicare agli altri l'apprensione nervosa di un cattivo presagio che in questo passaggio il piccino, fino allora quieto e tranquillo, cominciò il pianto che durò per tutto il tempo del ritorno, fin che fu sul braccio dell'Orsini. Ma pifferi e tamburi soffocavano ogni lagno con la loro voce di giubilo; e

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Lucrezia quando si ebbe il suo bambino piangente e congestionato non dovette smettere il suo sorriso. Una settimana dopo il battesimo del piccolo Rodrigo arrivò a Roma in incognito Cesare Borgia accompagnato dal cubicolario favorito di Alessandro VI, Giovanni Marrades: smontò in Vaticano dove il Papa stava ad aspettarlo, e stette a colloquio con lui tre giorni fitti fitti di relazioni di progetti di discussioni di accordi. Avrà visto certamente Lucrezia, Alfonso e il bambino, l'idillio vaticano, ed ascoltate dal padre parole sul nipotino che, per essere troppo entusiaste, gli parevano di cattivo suono. D'aragonese, Cesare poco sopportava: e non solo perché non aveva dimenticato il disdegno di Carlotta d'Aragona e di re Federico, ma anche perché sapeva che Luigi XII era fermissimo nell'idea di conquistarsi il reame di Napoli, e che l'aiuto dei Borgia a quest'impresa era la prima e necessaria condizione posta dal re di Francia alla propria condiscendenza verso di lui. Chi ricerca dalle origini la formazione di sentimenti che maturano poi in tragedie può con qualche ragionevolezza pensare che già da tempo e da quella visita datasse nella mente del Valentino, se non un progetto, almeno un vago disegno di tagliar via il ramo aragonese che minacciava l'ambiziosa fioritura del cespo borgiano. Lucrezia legata troppo teneramente al marito, e il Papa preso anch'egli nel giro delle tenerezze, avrebbero contrastato certo la disfatta totale degli aragonesi: ora, il Valentino sapeva di avere troppe cose, troppi uomini e troppe circostanze nemici per poter combattere anche in casa. Perché egli non si sentisse minato gli occorreva che in Vaticano si tenesse fermo per lui con una dedizione completa, senza contrasti. Da parte sua, Lucrezia, per non dover difendersi, insisteva a non voler capire.

Di questi tempi comincia il periodo acuto del terrore borgiano. Anni, nei quali il Tevere, già abitualmente quella sinistra fossa mortuaria che si sa, nascondeva e restituiva a tempo, spagnoli, uomini di Chiesa, capitani, servi, soldati, e, spesso, i favoriti dei Borgia. Se il Valentino aveva mostrato già dal tempo del duca di Gandia di sapersi liberare da ogni ostacolo quale che fosse, ora, avviati i suoi piani per una via fortunata, doveva essere più inesorabile nel procedere, senza curarsi delle vittime che gli cadevano ai piedi. Nel 1499 si era trovato nel Tevere, chiuso in un sacco e con le mani legate, uno spagnolo, conestabile della guardia, già gran favorito di Cesare: questa morte torturata, della quale sola. causa era stata " saper troppe cose ", era appena un principio. Verso la fine del 1499, Giovanni Cervillon, il capitano spagnolo amico degli Aragona, pochi giorni dopo aver condotto il piccolo Rodrigo di Bisceglie al fonte battesimale, chiedeva al Papa di poter lasciare Roma per tornare a Napoli dove aveva moglie e figli e dove contava di mettersi a disposizione di re Federico: assai mal volentieri la licenza fu data; ma essendo il Cervillon di quelli informatissimi dei segreti vaticani oltre che dei segreti militari dello stato pontificio, e avendo mostrato di non aver ritegno a parlar chiaro sembra che avesse pubblicamente commentato e deplorato la condotta di Sancia d'Aragona alludendo probabilmente agli

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amorosi raggiri fra lei e il Valentino i suoi amici temevano per lui e gli ripetevano con insistenza che si guardasse. Lo spagnolo, bravo e imprudente, rideva; ma dovevano andargli a male riso e coraggio, poiché la sera del 22 dicembre, uscendo dopo un convito dalla casa di don Teseo Pignatelli, suo nipote, fu ucciso a sciabolate, prima che gli fosse possibile togliere la spada dal fodero. Seppellito in fretta la mattina dopo all'alba nella chiesa di Santa Maria in Traspontina, in Borgo Nuovo, non fu permesso a nessuno; riporta il Sanudo, di vedere le sue ferite.

Fece riscontro alla morte del Cervillon un'altra morte ancora più misteriosa nel campo stesso di Cesare Borgia, in Romagna: la vittima fu un portoghese, Ferdinando d'Almeida vescovo di Ceuta, uomo di vita assai poco limpida, ambiziosissimo, avido e avaro, che in Francia aveva aiutato il Valentino, non sappiamo a quali patti, a stringere le pratiche nuziali con Carlotta d'Albret, e in Italia lo seguiva da vicino, certo meno per amicizia che per vigilanza. Spia del re di Francia, ricattatore, uomo ambiguo per certo. Un giorno si poté osservare un gran movimento intorno alla stanza del vescovo e si notò il palese e quasi ostentato andirivieni di medici di chirurghi e di infermieri, che portavano fasce e unguenti da medicazioni: si sparse la voce che l'Almeida fosse stato ferito in battaglia; era invece morto: di veleno, si disse. Intanto le conquiste militari di Cesare progredivano: era stata presa Imola dove Dionigi di Naldo, capitano della contessa di Forlì, aveva resistito quanto aveva potuto, venendo poi a patti con le truppe franco-pontificie e passando al servizio del Valentino. E il Papa si faceva sentir raccontare " con gran riso e pompa " come il figlio si fosse presentato fra i primi assalitori fin sotto le mura di Imola, coperto solo dal targone; e come in tutta la guerra egli si dimostrasse gagliardo e di buon cervello, e come si facesse correre dietro tutti i soldati per essere lui così liberale e ricco. L'eroe di questi racconti si metteva in quei giorni ad un'impresa dura, l'assedio di Forlì: la città e la rocca erano difesi da Caterina Sforza, ritenuta la donna più coraggiosa d'Italia in un'epoca che dava facilmente donne di tempra guerriera. In Caterina, " crudelissima, quasi una virago " come la definisce non senza un palpito di ammirazione un contemporaneo, rivivevano le qualità militari del gran condottiero Francesco Sforza suo avo, Il fuoco, le armi, la lotta non svegliavano in lei orrore romantico da superare in un delirio guerresco, ma erano considerati per il loro valore preciso, di mezzi per arrivare ad una conquista o per assicurarsi una difesa. Vedova del primo marito, Gerolamo Mario, aveva sposato un semplice gentiluomo, Giacomo de Feo, e quando questi le era stato ucciso da una fazione partigiana, aveva cavalcato a capo di uno squadrone di soldati fino al quartiere degli uccisori, ordinando per rappresaglia lo sterminio di tutte le genti di partito avverso, compresi donne e bambini. Eppure, non le descrizioni di quelli che la videro, " una donna da bon tempo, allegra ", né le sue mani delicate " come uno zibellino ", tenute morbide a forza di unguenti soavi, e poco anche il suo

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volto che nei ritratti è quello di una dama risoluta e attenta a se stessa, destinata ad ingrassare, farebbero supporre in lei la robustezza della muscolatura e del sangue che la rendeva infaticata e vibrante; alta sulle mura, sembrava l'allegoria della guerra. Appena il Valentino si avanzò su Forlì, Caterina preparò le sue difese, visitò le fortezze, e, mandati i figli in luogo sicuro, visse ora per ora con una rigorosa passione l'ultimo atto della sua potenza feudale. La resistenza al soverchiante esercito del Valentino doveva però durare poco: mentre ancora, da una finestra, tra il fumo e la luce degli incendi, la contessa di Forlì ordinava, dirigeva, incitava la difesa, la colsero i nemici entrati da un'altra parte e la presero prigioniera. Ma nemmeno il dolore furioso della disfatta annebbiava lo spirito di Caterina, la quale senza un minuto di indugio si dichiarava, sì, prigioniera, ma consegnava la sua persona in mano del re di Francia: non ci voleva altro per entusiasmare i francesi che avevano da ammirare tutto in una volta il valore la bellezza la dignità e il coraggio di una gentildonna. Ivo d'Allègre, il capitano francese che già qualche anno prima sotto Carlo VIII aveva fatto in Italia un'altra prigioniera d'eccezione, Giulia Farnese, avrebbe tenuto volentieri sotto la sua guardia la contessa, magari per poi liberarla; ma il Valentino s'intestò di averla, e infine bisognò lasciargliela contro assicurazioni e promesse di buoni trattamenti. Si disse e si ripeté, a quanto sembra con una certa verosimiglianza, che Cesare volesse porre a quella arditissima donna tutti i gioghi, compreso quello della voluttà: certo la tenne qualche tempo presso di sé, e poi la mandò a Roma non in catene come raccontò la leggenda, ma onorevolmente, scortata dal capitano pontificio Rodrigo Borgia. Fu alloggiata dal Papa sotto buona guardia in Belvedere, lieta villa fra pini ed aranceti, e qui onorevolmente servita e benissimo trattata. Solo più tardi fu portata, per risparmio di spese, a Castel Sant'Angelo: in un luogo e nell'altro ella, senza smentire un momento la sua fierezza, stava " ammalata di passion di core " ma per nulla avvilita, anzi addirittura " indiavolata ". Cesare Borgia si faceva riconoscere anche dai nemici una mano attiva e ferma di buon generale, necessarissima tra quelle genti dispari che, specie dopo la conquista di Forlì, prendevano da tutto pretesto per discussioni e liti. La discordia era feroce fra italiani e francesi poiché questi ultimi non volevano saperne di riconoscere autorità ai comandanti italiani, e si comportavano con tanta superbia da voler parere ognuno " il re di Francia in campo ". Il Valentino faceva " miracoli, attenta la difficoltà del tempo, diversità di animi e altre contrarietà ", diceva il Cattanei. E, con la capacità di condottiero, Cesare mostrava anche capacità di governatore, amministrando secondo giustizia le terre conquistate, cercando di risparmiare agli abitanti le ruberie e le prepotenze, pubblicando editti che dimostravano una positiva attenzione al diritto civile. La Romagna, avvezza da secoli ai signori feudali avidi e prepotenti per tradizione, guardava quasi stupita questo inizio di buon governo: non ci si meraviglierà, dunque, se più tardi Forlì e Cesena rimasero fedeli al Valentino nel momento della sua

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disgrazia. Pochi giorni dopo la presa di Forlì, ancora una morte intorno ai Borgia; e questa volta toccò ad uno di famiglia, il cardinale Giovanni Borgia detto il Minore che, venendo in Romagna verso Cesare per rallegrarsi con lui delle nuove conquiste, fu assalito a Fossombrone da una fortissima febbre che in qualche ora lo portò alla fine. Questa morte fu giudicata anche dai contemporanei, benché il Papa e Cesare ne facessero gran manifestazione di cordoglio, assai sospetta: ragioni, nessuno ne accenna, ma non è da stupirsene perché nella tribù dei Borgia non si faceva risparmio di segreti mortali. Non furono, se mai, ragioni di denaro, poiché il cardinale era provvisto di buone rendite ma assai più di debiti. Beni e debiti, e anche il cardinalato, passarono poi subito al fratello di Giovanni, Ludovico Borgia, cavaliere di Rodi, uomo di costumi galanti e di guardatura losca: e del morto portato a Roma in fretta, e seppellito alla svelta senza lapide in Santa Maria del Popolo, non si parlò più, essendo questo discorso, come tutti i discorsi di morte, molestissimo al Papa. Spina su spina, in quei giorni Ludovico il Moro con l'aiuto delle truppe di Massimiliano ritornò nel suo stato, acclamato dal popolo che aveva avuto tempo di accorgersi quanto è preferibile un governo nazionale quale che sia, ad un governo straniero. Il cardinale Ascanio annunciava questo ritorno in una fervida lettera lasciando indovinare sotto le formule di rispetto e di devozione filiale l'umana gioia della rivincita. Al Papa questa lettera bruciava le dita. Il cambiamento di scena sforzesco portò una sosta anche nelle conquiste di Cesare che già si era diretto verso Pesaro e aveva iniziato con l'ex cognato, Giovanni Sforza, impauritissimo e attento solo a salvare quello che poteva del suo piccolo dominio, trattative per avere a patti la città. Naturalmente, la notizia del successo milanese venne a ridare sangue anche all'anemico coraggio del conte di Pesaro, e a fargli ritirare ogni parola di negoziati. Il Valentino, fermato nella sua marcia, vedeva partire senza far parola le truppe francesi che abbandonavano la Romagna per correre a marce forzate in Lombardia, sfogando gli umori facinorosi fino allora compressi, in ruberie e scorribande dovunque passavano. Obbligato a concedersi tregua, Cesare annunciò che sarebbe andato, con una larga rappresentanza dell'esercito, a far l'entrata trionfale in Roma.

"Altro non mancherebbe se non porre i quattro prigionieri sul carro trionfale come se si fosse conquistato un regno ", si cominciò subito a mormorare, satireggiando, per Roma, mentre si osservavano i preparativi delle feste ordinate dal Papa; ma nessuno dei prelati, nobili, dignitari, ambasciatori, mancò il 26 febbraio 1500, a porta del Popolo, ad attendere il Valentino. L'entrata fu più che solenne, sorprendente, e dovette soddisfare la passione dello spettacolo che aveva guidato il Valentino ad immaginarla: perché fu certo una trovata, e una vera invenzione da regista, intonare tutta la coreografia su un motivo funebre, il recente lutto di casa Borgia, quel lutto tanto sospetto. Già i cento carri che precedevano le milizie, coperti da spessi drappi neri ricadenti ai lati, panneggiamento da catafalco, davano il primo

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annuncio luttuoso; e l'esercito lo confermava, marciando senza suono di trombe e di pifferi, in un silenzio strano e selvaggio rotto dallo zoccolio precipitoso dei cavalli e dal rotolio lento e sordo delle artiglierie. I soldati venivano a cinque a cinque, lanzichenecchi del Papa, guasconi, svizzeri, spiegando le bandiere sulle loro file, in un disordine incalzante; duecento svizzeri avevano giubbe di velluto nero e berretti con fosche piume da uccelli notturni; cinquanta staffieri, vestiti di velluto nero e panno nero, formavano gruppo compatto dietro il quale, preceduto da jofré Borgia inebriato d'ammirazione per il fratello, e da Alfonso di Bisceglie, sospiro di tutte le donne, veniva, solo, Cesare Borgia in un abito di velluto nero ornato di una collana semplice, ma perfetta di disegno di lavoro e di materia. Seguivano i familiari, vescovi, preti, altri nobili e curiali; e la strofa conclusiva era affidata alle sopravvesti di panno bruno che portavano, infilate sulle lucide corazze, i mercenari di Vitellozzo Vitelli. Ma se il corteo avanzava mantenendo la formazione militare, un fazioso eccitamento correva tra le file, faceva litigare i lanzichenecchi del Papa con gli svizzeri, l'araldo del re di Francia con gli araldi di Cesare, e sinanche oratori e ambasciatori per questioni di precedenza; infine, i soldati del Vitelli si misero a far tanto tumulto e a volteggiar tanto alla guerriera, che i prelati del seguito non riuscirono a regger le file, e dovettero tornarsene in gruppetti, a casa. Passando sotto palazzo Massimi e per Campo dei Fiori, la negra cavalcata sboccò poi a Castel Sant'Angelo crepitante di fuochi pirotecnici, ordinati in modo che agli scoppi e alle fiammate lanciate dai torrioni rispondessero a volta a volta altri scoppi e altre luci, rivelando figure monumentali di guerrieri in corazze luminose qua e là sugli spalti del castello; in ultimo, il motivo sperso del bombardamento si fuse in uno scoppio solo: cadevano le imposte delle case vicine, tremavano i muri, mentre Cesare Borgia entrava in Vaticano. Per Lucrezia fu quello un momento da gioire; era ancora senza sospetti, o almeno sperava di poter venire, con l'aiuto del Papa, ad un accordo che risparmiasse i suoi aragonesi. Si sentiva forte anche lei, più che mai amata dal padre che le aveva fatto acquistare la città di Sermoneta con il castello e le terre intorno, tutti beni allora tolti ai Caetani, amici di re Federico d'Aragona. La Chiesa aveva bisogno di denaro, diceva il Papa, e Lucrezia figurava di aver corrisposto alla Camera apostolica ottantamila ducati per l'acquisto di quella terra. Il ducato di Bisceglie, Nepi, Sermoneta e i possessi intorno a Spoleto formavano la corona ducale di Lucrezia, per la quale ella poteva davvero sentirsi signora. Dalla nascita del piccolo Rodrigo le era tornata in viso, forse un po' velata, la luce dell'anno prima, quando era appena sposa di Alfonso: poteva rifiorire anche d'orgoglio quando, il primo gennaio 1500, andava per suo conto ad inaugurare l'anno del giubileo, ordinando una cavalcata d'onore perché l'accompagnasse alla devota visita di San Giovanni in Laterano. Cinquanta cavalieri le aprivano la via, seguiti dal cappellano di casa, il vescovo di Carinola, affiancato a destra da un barone

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romano e a sinistra da uno che non s'immaginerebbe di trovar qui, il guercio marito di Giulia Farnese, Orsino Orsini.

In quel passaggio d'anni, dal 1494 al 1500, fra Giulia e il Borgia eran corse vicende più caute che nei primi tempi della loro relazione. Ella era ancora in favore nel 1497; e il 14 agosto 1499 Cesare Guasco, oratore milanese, riferiva: " Madonna Julia è ritornata alla S.tà di N.S. ". Ritorno da un viaggio, o ritorno di fiamme amorose? Fosse quel che si voglia, era però vero che Giulia, sorte e schianto di tutte le donne d'amore, stava vedendo illanguidire la passione che le aveva dato tanto potere. Se ancora nel 1500, essendo il Papa colpito da un attacco di febbre, si diffondeva per Roma una poesia satirica, Dialogo fra il Papa e la morte, nella quale Alessandro Vi invocava la sua Bella, si trattava certamente di una satira retrospettiva: nel 1500, infatti, tutti i corrispondenti, parlando di lei, la chiamano " Madonna Gulia già favorita del Papa " testimoniando, dunque, che il suo cielo d'astro sul cielo borgiano s'era chiuso. Ma se il cardinale Alessandro Farnese era, come era, sempre ai primi posti nelle cerimonie e nelle manifestazioni borgiane, e se Orsino appariva ora così intimo di casa Bisceglie, si può supporre che Alessandro VI conservasse per Giulia una tenerezza protettiva quale, in misura più larga, aveva conservato per Vannozza, dimostrando così ancora una volta che nel suo cuore anche i ricordi restavano attivi. Quanto ad Adriana Mila, pur avendo ella, con l'ascesa prepotente di Cesare, dovuto ridurre di molto i suoi influssi sul Papa, era tuttavia in grazia e bene ascoltata, e deve aver messo anche lei la mano in questa delicata congiuntura, riuscendo ad aiutare il Borgia ad allentare le relazioni con Giulia e a chiuderle per gradi, senza che fossero pronunciate parole ingrate per tutti. Orsino, dunque, sì; ma Giulia non è nominata nel corteo d'onore del giubileo del 1500 al seguito di Lucrezia, né doveva esserci: è probabile che in quel tempo ella stesse a Bassanello o a Capodimonte aspettando di ricomparire in città più tardi, come infatti ricomparve bellissima e festeggiatissima. Al povero Orsino doveva toccare invece una sorte che sembra la conclusione grottesca della sua vita coniugale: proprio quell'anno nel quale la moglie pareva essergli ritornata, ed egli poteva cominciarsi a godere, lei vicina, i benefici delle sopportazioni passate, morì all'improvviso, per un solaio che gli rovinò addosso mentre dormiva. Non si ebbe parole di rammarico da nessuno: a Roma la notizia correva con questo spietato commento: " Sarà la ventura della moglie a mutar pasto".

Le favorite del Papa restavano ora in penombra o addirittura in ombra; e in luce piena appariva Lucrezia quale si mostrò quel primo giorno del secolo nuovo, a fianco del marito, seguita da un gruppo di donne e di donzelle, " servite " alla maniera spagnola, la più cavalleresca, da nobili e da cortigiani. Alessandro VI che amava gli spettacoli belli era andato a godersi da Castel Sant'Angelo il passaggio della comitiva e la guardava sfilare se non

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proprio " a laude ed onore della Santa Romana Chiesa ", come commentava il Burcardo, certo a gran consolazione propria.

I doni e le ambasciate che andavano dal Vaticano al palazzo di Santa Maria in Portico erano li a dimostrare il pensiero costante del Papa per la figlia: ai ricevimenti ai balli alle rappresentazioni e alle prediche, era lei la prima e la più desiderata ospite. Ed ella cominciava allora a distillare per sé il piacere di radunare e di convitare una corte di persone, scelte secondo il proprio gusto, sia uomini di chiesa o uomini politici del suo partito aragonese , sia letterati ed artisti che la corteggiassero in poesia o in prosa. in italiano o in latino, secondo lo stile cortigiano del Rinascimento. A Lucrezia, tanto acerba prima, e poi travolta nell'avvampata vita borgiana, nei segreti mortali della famiglia, e nelle logoranti asprezze del suo divorzio, era mancato il tempo per ordinare sotto il suo segno una corte letterata. Ma la sua educazione non poteva essere stata estranea alle correnti delle letterature classiche e dell'umanesimo, anche se ella aveva subito il loro influsso trasformandolo e travisandolo romanticamente: sapeva il latino e lo parlava anche, e conosceva un po' di greco; e la poesia le piaceva, sebbene fosse un piacere, il suo, più sensitivo che intellettivo. Il Petrarca, inteso come favoleggiato amatore, era il nume delle donne del Rinascimento; e vien da sé che Lucrezia possedesse anche lei il suo codicetto del Canzoniere scritto a mano su carta pergamena e coperto di cuoio rosso, con le chiusure e gli ornamenti dorati. Non era solo la moda del tempo a proporglielo, ma anche la sua disposizione alla cadenza melodica del verso o meglio ancora, forse, la sua passionalità ansiosa e sentimentale: le stesse ragioni che la portavano, dunque, e senza nemmeno farle sentir troppo lo stacco, ad amare le invenzioni di alcuni imitatori petrarcheschi suoi contemporanei a cominciare da Serafino Aquilano. Il moto di grazia, la lindezza di parola che il poeta abruzzese dava al suo stornellare sembravano fatti per l'intendimento poetico di Lucrezia.

Non mi negar signora di porgermi la man;

ch'io vo da te lontan, non mi negar signora.

Una pietosa vista può far che al duol resista

quest'alma afflitta e trista e che per te non mora.

Non mi negar signora...

L'Aquilano ebbe fortuna con i Borgia, visse alla loro corte, fu protetto da Alessandro VI e dal Valentino. Aveva scritto per Lucrezia al tempo delle nozze sforzesche un'egloga elegantissima, ed è anche probabile che gli

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fossero aperte le porte del palazzo di Santa Maria in Portico in quegli ultimi tempi della sua vita; frequentava il Vaticano, metteva mano alle rappresentazioni di commedie e di egloghe per le quali Alessandro VI aveva una passione arruffata, ma viva. Qui, nelle stanze del Papa, Lucrezia avrà anche incontrato qualcuno degli umanisti che facevano parte di quella " Accademia Romana " che si gloriava di aver avuto per fondatore il severo razionalista Pomponio Leto. Non fosse altro che in segno di riconoscenza verso i Borgia, e per ottenere meglio protezione dal pontefice, erano in molti a scrivere versi per Lucrezia; né avrebbero lasciato solo Antonio Flaminio a comporre per lei una poesiola latina per consigliarla a non spargere di unguenti profumati la sua bella capigliatura d'oro per non scurirla, consiglio più da parrucchiere che da poeta. La compagnia umanistica era larga: v'erano Battista Orfino da Foligno, Tommaso Inghirami detto il Fedra, il Marso, e quell'Antonio Mancinelli, raffinatissimo epigrammista che non ebbe affatto a soffrire, come si è raccontato e si racconta ancora, la mutilazione della lingua per ordine del Valentino, ma fu, al contrario, uno fra gli esaltatori del nome di Alessandro VI. Qualche cosa di più c'è da dire su Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro, accademico romano. Strano modo, egli aveva, di tenersi in relazione con la famiglia papale: in un volumetto manoscritto che si conserva alla Biblioteca Vaticana leggiamo, foglio dietro foglio, poesie laudative sui Borgia ed epigrammi avvelenati che li trafiggevano. Pare che l'umanista coltivasse in sé certi rancori contro Alessandro VI che, alle sue richieste di benefici, aveva fatto rispondere dovergli bastare come premio la gloria poetica. Rancore, insolenza, iracondia, e una insofferenza non tanto romana, quanto, direi, romanesca, si accordavano bene in lui che, come poeta, aveva poi un modo vivo ed elegante di tagliare e di concludere epigrammi: tanto vivo, che gli poteva capitare a volte di travolgere nella satira, con un piglio di rissosa ironia, anche se stesso. Per Lucrezia il Capodiferro tempera spesso la sua penna, trova accenti teneri e accenti esaltanti, mette in poesia il compianto per l'aborto del febbraio 1499 attribuendolo alla fatale gelosia di Venere. Si volta pagina: ed ecco le allusioni alle lunghe notti di lei vigilate da fantasmi incestuosi, ecco i riferimenti fin troppo chiari a Mirra a Biblis e a Pasifae innamorata del toro. Altre relazioni di Lucrezia con gli umanisti romani non si possono stabilire, sebbene il fatto che più tardi si venisse nello stesso " Studio " a discussioni sulle doti di altre dame confrontate con lei, mostri che ella avesse a Roma un forte partito tra i letterati: ed è anche più difficile collegare il suo nome con quelli degli artisti viventi in quell'epoca a Roma, il Pollaiuolo ad esempio, o Michelangelo, e persino con il Pinturicchio il pittore laureato di casa Borgia. Il Pinturicchio dovette raffigurarla in più disegni, e lo fece certamente per dipingere il suo ritratto con quelli dei suoi fratelli in una serie di affreschi a Castel Sant'Angelo, oggi, per disgrazia, perduti. é molto probabile che ci si possa far l'idea di come apparisse Lucrezia in quel tempo, guardando la Santa Caterina della Disputa pinturicchiesca, nella sala

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dei Santi delle stanze Borgia in Vaticano, e ritenuta per tradizione il ritratto, magari idealizzato, della figlia di Alessandro VI: una figura di adolescente incappucciata di capelli d'oro, lunghissimi, dall'espressione tra assorta e intenta come di chi si affaccia a guardare la vita; ed è vero che qualche cosa in lei si fa chiamare col nome di Lucrezia, irresistibilmente. Venendo poi ai raffronti con le medaglie, con la tavola di Corno e con quella di Nimes, la somiglianza con questi ritratti più tardi non si smentisce; più o meno pieno secondo l'età, è sempre lo stesso viso ovale, ma irregolare nella linea sfuggente del mento, sempre la stessa bocca morbida, lo stesso sguardo aperto e vago; anzi, nella medaglia detta dell'Amorino bendato, si riscontrano perfino la stessa attaccatura di capelli e la stessa pettinatura. L'esilità mansueta della figura, la sua compostezza un poco rigida fra la gente intorno mossa in atteggiamenti snodati, sono proprie di una bimba cresciuta troppo presto e troppo presto chiamata alla pompa delle vesti da grande, abito di velluto rosso e manto azzurro, tessuti sontuosi, quasi impropri alla sua acerbità. Voglio dire che, se non è questo il suo ritratto dal vero, è di sicuro per noi l'allegoria di Lucrezia; come nello stesso affresco suggerisce il nome di Cesare la figura dell'imperatore Massimino, non solo per il profilo assai simile al profilo gioviano, base dell'iconografia di Cesare, ma per il disegno della persona non adagiata sul trono, anzi appena appoggiata, pronta e scattante nello stiramento felino delle membra. Erano già negli occhi e quindi nel pennello del Pinturicchio, modelli straordinari, visi e corpi bellissimi, i figli del Papa, e senza che egli se ne avvedesse gli si trasfiguravano nelle immagini? O si riferiva ad essi di proposito in ritratti a memoria, che potevano anche essere atti d'adulazione verso il pontefice suo protettore? Per nulla avventata appare l'ipotesi che suggerisce il nome del duca di Gandia per il giovane ritto sul cavallo bianco, all'estrema destra dell'affresco, vestito all'orientale. Tra Lucrezia e il Pintuticchio, un legame di gusto esisteva: ed era lo stesso compiacimento per un'arte decorativa, figurata di simboli, tornita e levigata nel disegno e nel colore: tutti e due amavano veder splendere oro su oro, sulle volte e sulle pareti, ed oro a pioggia fin dentro le pitture; l'arte di Michelangelo non poteva legarsi per nulla con tali gusti: e sarebbe tema da racconto ma non risulta vera una visita di Lucrezia allo studio del grandissimo toscano, da poco arrivato a Roma e da poco autore della nitida ed olimpica Pietà di San Pietro. Lo stesso silenzio è nei documenti sui musici preferiti da Lucrezia nel periodo romano della sua vita, musici che formarono in lei, più che la cultura, la passione musicale che ella teneva da Alessandro VI, e che doveva poi mostrare a Ferrara: ma in Vaticano ascoltò certo le composizioni di Josquin de Prés, il limpidissimo compositore e sonatore fiammingo stipendiato dal pontefice: josquin fu alla corte vaticana fino al 1494, e suonò nelle cerimonie sacre e in quelle profane per i Borgia, ma senza, pare, averne grossi compensi se tanto si mortificava di portare abiti dimessi in una corte dove l'oro pareva livrea.

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Lucrezia, come tutte le dame e i principi del RinasciMento, apprezzava la buona eloquenza, ed era avvezza al parlare ornato. Alla corte del padre aveva potuto sentire gli oratori celebri che Alessandro VI invitava, gli umanisti, l'Inghirami, il Marso, il Sabellico, o i predicatori, fra Mariano da Genazzano, frate Egidio da Viterbo, o i due fratelli ciechi che venivano di nobiltà fiorentina, Aurelio e Raffaele Brandolini dell'ordine degli eremiti agostiniani, famosissimi. Aurelio era morto di peste nel 1497. E a Roma era rimasto a vivere il fratello Raffaele, che era stato un tempo precettore di Alfonso di Bisceglie e aveva conservato per il giovane allievo l'affetto protettivo del buon maestro. Poiché il Brandolini era sicuramente di simpatie aragonesi, è quasi certo che frequentasse il palazzo di Santa Maria in Portico, e certissimo, come vedremo, che almeno qualche volta si sia trovato con colui che chiamò più tardi con tanto pietosa compassione " l'infelice adolescente ".

Uno che frequentava i Bisceglie era Vincenzo Calmeta, compagno ed amico dell'Aquilano, più uomo di corte e d'intrighi che artista, come aveva dimostrato alla corte di Ludovico il Moro e come mostrò poi alle corti di Roma ed Urbino; ed era di casa un altro poeta, Bernardo Accolti, al quale dobbiamo una testimonianza, rara, sulla vita di Lucrezia a Roma. Bernardo Accolti di Arezzo, detto pomposamente l'Unico Aretino o semplicemente l'Unico, era, come gli altri suoi compagni, un poeta appena mediocre ma gustato dalle corti e dalle piazze per certa sua felicità di improvvisatore: a Roma, quando egli, corrugata la fronte e atteggiata la maschera glabra ad un'espressione concentrata improvvisava e declamava i suoi versi, si chiudevano le botteghe, tanta folla correva ad ascoltarlo. Per niente modesto, egli si sentiva così fiero degli applausi che gli toccavano, da mettersi terzo nella scala dei valori poetici dopo Dante e il Petrarca. Faccia di bronzo, dunque; ed era del resto un uomo che viveva scriveva e si scaldava a freddo, e possedeva due doti da grande attore: veloce comunicativa, e talento meraviglioso per divertire le corti, il che vuol dire soprattutto divertire le donne; tra queste, da toscano avveduto> egli badava a scegliersi come ispiratrici le più potenti, e s'innamorava di esse, platonicamente, s'intende, arieggiando il modello petrarchesco, e illudendole, incredule e tuttavia lusingate, di rappresentare nel mondo la bella parte di Laura. Faceva l'innamorato respinto, pativa affanni, ripulse, versava lacrime, si nutriva di gocce di speranza, e metteva tutto in versi, così che le sue poesie sembrano una vacua parafrasi del canzoniere petrarchesco. Questo mestiere non era infruttuoso, si capisce: di perdere tanto tempo a vagheggiarle, le dame lo ristoravano con protezione doni e benefici, tutte cose che egli si manteneva poi con mezzi, meglio, che virili, brutali, come provò una volta, quando, assalito in casa dai suoi nemici, si difese con tanta diabolica energia da ferire un centinaio di persone.

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Nel 1499 e nel 1500, questa specie di brigante letterario era a Roma e vedeva Lucrezia così frequentemente e familiarmente da poter scrivere che faceva l'amore con lei: il solito amore platonico e cavalleresco, s'intende. E un giorno che l'aveva vista entrare, probabilmente ad un ricevimento in Vaticano, fra i rappresentanti delle due nazioni antagoniste, Francia e Spagna, aveva composto su questo argomento un sonetto che dovette essere molto grato a Lucrezia la quale non sognava che accordi pacifici meglio se avvenuti sotto il suo segno. La significativa dedica dice: " M. Bernardo Accolti agli ambasciatori di Francia e Spagna avendo loro in mezzo la figliola di Papa Alessandro VI con la quale lui jaceva all'amore ".

Ambigua costruzione di periodo e ambiguissimo " lui" forse non del tutto casuale. Il petrarchesco amore dell'Accolti per Lucrezia cominciava già, del resto, a fare storia fra gli umanisti romani, una di quelle storie da letterati di corte sulle quali s'intendevano tutti e come intenzione e come significato. Ed era usuale costume accademico che Evangelista Capodiferro scrivesse una poesia innamorata su Lucrezia dando alle sue parole la voce e la passione dell'Unico Aretino. " De Lucretia Borgia Alexandri pont. Max. F. loquitur Unicus " scriveva infatti il Capodiferro a capo della sua composizione. E cominciava: " Nacque una volta una Lucrezia più casta della Lucrezia antica: questa non è figlia d'uomo ma nata dallo stesso Giove ". Se si tiene presente che gli umanisti chiamavano per traslato Giove il pontefice, si vedrà qui l'esaltazione di una paternità che con il progredire del tempo era sempre più proclamata. E parrà strano a molti che Lucrezia fosse definita la più casta delle donne, lei con tutto quel passato che a diciannove anni le pesava addosso: se per castità non si volesse intendere la naturalezza di un'indole fervida ma né viziosa né intemperante. Lucrezia non aveva le smanie e i capricci di una Sancia d'Aragona, e si era sempre contentata dei suoi mariti finché le era riuscito di tenerseli. Con Alfonso di Bisceglie, che sembrava un Melisco uscito dagli arcadici vagheggiamenti del Pontano e del Sannazaro, è naturale che la sua sorte le sembrasse buona. Se ancora, dietro le quinte di una scena ordinata, si nascondessero i drammi oscuri che il signore di Pesaro aveva denunciato, è un mistero che lei voleva segregare nel fondo di se stessa, e, potendo, cancellare.

A Roma, Cesare, mentre attendeva che il re di Francia riconquistasse il ducato di Milano, passava di visita in visita dall'uno all'altro cardinale, fra i più potenti, usando parole e proteste di ubbidienza, e ritrovando nel dialogare con loro tutte le scaltrezze del linguaggio curiale. Ma quelle visite diplomatiche lo occupavano assai meno dei divertimenti. giostre balli conviti mascherati, nei quali passava giorni e notti: prese parte al carnevale che fu quell'anno animatissimo e ricco di carri trionfali, alludenti ai fasti romani imperiali; né, come si può supporre, si faceva mancare compagnia di donne. Di quest'epoca deve essere stata la relazione con quella Fiammetta Micheli di

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Firenze detta " del duca Valentino " che lasciò il suo nome ad una piazza nel quartiere del Rinascimento a Roma. Fiammetta apparteneva alla classe delle cortigiane ed ebbe, tra le sue compagne, un destino fortunato perché (ce ne informa Pietro Aretino nei suoi aggressivi " Dialoghi ") riuscì a farsi un posto onorevole nel mondo così da pervenire ad una vecchiaia e ad una morte da signora ricca e stimata, e da possedere perfino una cappella nella chiesa di Sant'Agostino. Di Fiammetta ci è arrivato anche il testamento datato il 1512 che conferma la sua agiatezza e la buona riuscita della sua esistenza: leggendo questo documento non si supporrebbe che la donna pedante e minuziosa, una vera casalinga fiorentina, che si preoccupa di spartire con tanta giustezza di centesimi i suoi beni fra i parenti, e che ordina messe per sé, per il padre. per la madre e anche per la nonna, sia stata la compagna più che allegra delle notti di Cesare Borgia; ma è immaginabile che lei non pensasse davvero a far dire messe mentre sceglieva vestiti e gioielli da sfoggiare alle feste del suo signore. Che lo amasse, come cortigiana, è inutile domandarselo: poteva e non poteva essere; ma accorta e scaltra fu certo: e chissà se le servì il discriminatore ingegno toscano per capire quale dannata malinconia fosse in quell'uomo che, mentre tramava un cupo delitto, diceva con uno scherzare lugubre di dover morire presto secondo una profezia che si portava dietro dall'infanzia?

L'ambizione era nel Valentino una febbre asprigna; e l'inerzia alla quale era costretto la incattiviva aumentando le sue ragioni di essere nemico a tutte le cose che non si lasciavano governare dalla sua mano. Se egli dava fiamma all'amore paterno di Alessandro VI con la sua decisa audacia e con la sua bravura di generale rabbrividendo d'orgoglio il Borgia doveva pensare di aver dato la vita ad un vero aquilotto artigliato, Lucrezia inteneriva il padre, arrivava al fondo delle sue facoltà di commozione, e aveva poi il bimbo, al quale non invano era stato messo il nome di Rodrigo, e l'alleanza di Sancia d'Aragona, che ritroviamo in quest'epoca, perdonata e in favor nuovo, nella corte vaticana. Non solo; ma Lucrezia teneva allora presso di sé una donzella adolescente, bellissima, la quale aveva preso il posto di Giulia Farnese come favorita del Papa e che le sarà stata certo amica e partigiana. Combatteva con tutte le armi: le fossero almeno bastate. Nell'aprile del 1500 il Papa pronunciava una sentenza che fece scandalo nel mondo cristiano: il divorzio fra re Ladislao d'Ungheria e Beatrice d'Aragona, sua moglie. Questa principessa aragonese, figlia di re Ferrante, era andata giovanissima in Ungheria, sposa al gran re umanista Mattia Corvino. Rimasta vedova, aveva creduto di conservarsi il trono, fra molti calcoli, ambizioni e reticenti speranze, sposando il successore alla corona Ladislao, il quale dopo averla trascinata nell'inganno di un matrimonio non valido aveva chiesto a Roma l'annullamento delle nozze, e l'aveva ottenuto, nonostante la strenua difesa della regina da parte del re di Spagna e del re di Napoli. Alfonso di Bisceglie, nipote della ripudiata Beatrice, sostenne come poté le parti di lei, e si

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rassegnò male a patire la sconfitta, se, alcuni giorni dopo la sentenza, fu udito distintamente nella carriera del Pappagallo, attigua all'appartamento papale, rammaricarsi ad alta voce con l'ambasciatore di Napoli per il torto fatto alla sua casata. Il giovane duca mostrava arditezza e imprudenza a parlare così: e se era tanto legato alla sua famiglia, è più che logico che tenesse fermo per quanto poteva, con l'aiuto di Lucrezia, nelle difese contro i francesi. La prova degli influssi che i due Bisceglie esercitavano sul Papa la danno i corrispondenti del tempo, come il Cattanei, il quale ripeteva più volte che la condotta di Alessandro VI oscillava di continuo tra la Francia e la Spagna, poiché egli era di qua e di là legato da " parentati e stati, talmente che a tutti è sospetto". Milano cadde di nuovo in mano francese dopo una battaglia disastrosa per gli sforzeschi; e Ludovico il Moro, che aveva tentato di fuggire travestito, fu preso prigioniero, e condotto dai francesi nel castello di Loches in Turenna dove morì nel 1508 abbeverato di amarezze. Anche Ascanio, il possente cardinale, colui che era stato il vicepapa, fu catturato e chiuso nelle carceri di Bourges che gli si sarebbero aperte solo dopo la morte di Alessandro VI: la fortuna di casa Sforza era così frantumata, e i Borgia dovevano appoggiarsi sempre più alla Francia. In breve, tutti seppero che i francesi si preparavano a scendere verso il sud, alla conquista di Napoli. Era l'anno del giubileo, l'anno che vide a Roma moltitudini di pellegrini, e fra gli altri uno che doveva provocare nella Chiesa il grande scisma occidentale, Martino Lutero. Il Papa si prodigava in ricevimenti, funzioni, cerimonie e ambascerie, e sebbene la sua robustezza non lo avesse salvaguardato da una sincope calatagli addosso d'improvviso all'inizio di giugno, con il suo solito ottimismo egli era il primo a non curarsene. Il giorno di San Pietro, 29 giugno, rimesso benissimo, stava nella sala dei Pontefici, ultima dell'appartamento Borgia, ad aspettare le visite dei suoi figli, rallegrandosi di passare con loro un buon pomeriggio. Si era già messo al suo posto, sul trono sotto il baldacchino, e aveva per compagnia due sole persone, il vescovo di Capua e un cubicolario di nome Gaspare venuto forse al posto del disgraziato Perotto, quando si levò all'improvviso un gran vento seguito da pioggia e da grandine grossa " come fave ", tempesta d'estate. Subito il cubicolario e il vescovo si erano dati a chiudere le finestre fino allora aperte sul fresco dei giardini vaticani; lottavano col vento, tentando di unire le imposte, e fu un minuto per loro, ascoltare un gran boato seguito da rovinoso fragore, volgersi, e vedersi dietro, riparati essi sotto il profondo vano dei finestroni crociati, in una nube di polvere nera, uno sconvolgimento di muri e di travi sotto i quali pontefice e trono parevano inabissati. Il palazzo è a rumore: " il Papa è morto, il Papa è morto " si grida, e subito la voce vola per la città, chiama rumore d'armi, fa rinserrare la gente dentro casa, chiudere le porte del Vaticano ben guardate da sentinelle; intanto, radunati operai, e impugnati picconi e pale, la gente papale cerca, se possibile, di salvare il pontefice. Le macerie fanno montagna perché il fulmine che aveva prodotto il guasto, passato nell'appartamento soprastante

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a quello di Alessandro VI dove abitava solitamente il Valentino allora per caso assente, aveva fatto crollare tre soffitti. Si lavora in silenzio, solo ogni tanto qualcuno chiama " Padre Santo ", e tutti stanno ad ascoltare se giunga qualche risposta. Silenzio: finalmente, aperto un varco fra le rovine, si vede il trono pontificio e un lembo del manto papale: " Padre Santo " chiamano ancora i familiari, e già credono di non aver mai più a sentire la voce del Borgia. In fretta, ancora più rapidi, scansano stoffe e macerie, e lo scorgono sul suo trono, stordito, ma perfettamente sano, tolta qualche piccola ferita superficiale che gli fa sanguinare viso e mani. Lo portano a letto, gli cavano sangue, ed ecco sopraggiungere la febbre e il timore di un'infezione. Lucrezia è al capezzale del padre, lo cura, lo assiste, subisce volentieri la volontà del malato che vuole presso di sé soltanto lei, il Valentino e il fido cardinale di Capua: già Alessandro VI è salvo, guarisce. Non sono passati otto giorni che, di là dalla paura e da ogni pensiero di ammonizione divina, parla, disegna nel futuro, fa chiamare a sé l'ambasciatore veneziano perché possa riferire che il pontefice romano è vivo, ben vivo, e per raccomandare Cesare alla Repubblica, già tanto in guardia e in sospetto per l'impresa di Romagna, da parer tentata di mandare rinforzi propri alla difesa di Faenza e di Pesaro. Probabilmente Cesare stesso ha suggerito al padre di provocare questa visita, e cerca di scalfire a forza di buona grazia e di proteste di devozione l'orgoglio e la gelidità dell'ambasciatore. Ma quante siano arti e sottigliezze, non gli risparmiano una lezione. Finita la visita alla quale erano stati presenti Lucrezia, Sancia, Jofré e la donzella favorita dal Papa, accompagnando l'ambasciatore, il finissimo Polo Capello, attraverso l'appartamento vaticano verso l'anticamera, il Valentino gli aveva preso il braccio con un'affabilità che voleva essere signorile e confidenziale insieme; e gli aveva mormorato in aria d'abbandono: " Ambasciatore. ho veduto il pericolo che ho corso: non voglio più dipendere dalla sorte e dal volere del Papa; e ho deciso di darmi tutto alla Signoria di Venezia ". Il veneziano aveva risposto che mettere le cose proprie sotto la protezione della Repubblica era buonissima idea; e fingendo di ricambiare confidenza per confidenza, aveva aggiunto: " Senza il Papa, non ve n'è per quattro giorni dei fatti vostri ", che era, oltre un parlare spietato una pungentissima verità.

Saggiata la diffidenza di Venezia, tutt'al più riducibile ad una misurata neutralità, si ritornava fatalmente all'orientamento verso il nord. La Francia, dunque; e via tutto ciò che tenesse sia pure per un filo dall'altra parte, Napoli e la Spagna. Ogni ora vedeva crescere nel Valentino l'inquietudine: acuita, questa, dagli incontri quotidiani con Alfonso che, visto da vicino, appariva come l'incarnazione della giovinezza e poteva stimolare in lui, insieme con la gelosia politica, non solo il rancore per il sangue aragonese, ma anche quell'animosità di qualità difficile a definire, che certi fratelli sentono per i mariti troppo amati dalle sorelle, e che, prendendo vie maligne, può arrivare all'odio. Nella mente di Cesare Borgia il disegno

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prendeva linee decise, seguiva una logica, si ammagliava in una trama, diventò necessario, fu urgentissimo: prima che Alessandro VI tornasse a reggere gli avvenimenti con mano valida, Alfonso era condannato.

In Vaticano, Lucrezia ancora vigila la convalescenza del Papa assistendolo nelle sue paterne tirannie, aiutata in quest'opera da Sancia d'Aragona, che, a forza di spirito, cerca di aiutare anche lei la causa aragonese e riesce intanto a far passare meglio le giornate chiuse, tutte spezzettate in cure, discorsi, faccende di governo e di casata. E una sera come un'altra, il 15 luglio 1500, Alfonso di Bisceglie è andato a visitare moglie e sorella, trattenendosi a cena col suocero per finire in famiglia la giornata estiva. Ad un'ora di notte qualche cosa del lungo crepuscolo ancora permane a schiarire un fondo remoto d'aria e Alfonso, salutati i familiari, esce dal Vaticano, passando dalla porta sotto la loggia della benedizione, accompagnato da un gentiluomo di camera, Tommaso Albanese, e da uno staffiere: vanno a passo quieto verso il palazzo di Santa Maria in Portico, guardando appena alcune figure ammantate stese sui gradini di San Pietro, mendicanti o pellegrini. Spettacolo di tutti i giorni, in quell'anno di giubileo, si vedevano arrivare a file, a gruppi o isolati, i cristiani di tutta Europa, che venivano a prendere a Roma il perdono promesso alla loro fede; e molti di essi, sia per voto, sia per povertà, dormivano a cielo aperto presso San Pietro, sentendo forse, mentre posavano il capo sulla terra che aveva visto il martirio dell'Apostolo, la commozione dell'antico sacrificio fluire nel rigoglio della fede rinnovata. Un riposo da qualificare benedetto.

Ma il duca di Bisceglie si è appena avanzato sulla piazza, che, ad un segnale soffiato rapido, alcuni fra i dormenti si tirano su d'improvviso, circondano i tre uomini, chiudono loro ogni via di fuga, e si fanno addosso al giovane aragonese, con le spade in aria. Subito Alfonso si mette in guardia, comincia a difendersi: bravo, coraggioso, ben preparato, la sua difesa che mostra la tecnica dell'eccellente scuola d'armi napoletana, avviva la rabbia degli assalitori incalzanti da presso. I ferri si flettono, scattano, s'incrociano, si toccano: al giovane duca cade il manto, cadono i ricami d'oro dell'elegante salone, cadono lembi di camicia tagliati dall'acciaio che apre la via al sangue; infine cade egli stesso coperto di ferite alla testa alla spalla e alla coscia, e già i nemici gli sono sopra per trascinarlo verso i cavalli che si sentono scalpitare vicinissimi e che lo devono forse portare verso il Tevere ripetendo in tutte le fasi la tragedia del duca di Gandia. Ma ci sono i due compagni, bisogna farne conto; mentre lo staffiere mette a prova la sua voce chiamando al soccorso e cerca di trascinare il corpo sanguinoso del suo padrone prima verso il palazzo di Santa Maria in Portico, poi, visto che là è tutto un minaccioso muover d'ombre, verso il Vaticano, l'Albanese copre splendidamente la ritirata, battendosi " da paladino " col furore del diritto, la precisione dell'uomo d'armi e la volontà estrema della disperazione. Corrono

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minuti di angoscia fra il palpito delle spade, le grida, i gemiti, il chiamare perduto e disperato: infine, tardi, ma in tempo, si aprono le porte del Vaticano, al primo oscillare dei battenti mettendo in fuga le ombre assassine. Quando la guardia papale esce fuori, già si sentono lontani galoppare i cavalli. Così, raccontano i contemporanei, Alfonso d'Aragona, portato a braccia dai soldati, coperto di sangue, lacero, col viso della morte, si mostrava sulla porta della sala dove Lucrezia stava conversando ancora col padre e con Sancia. Quel poco di fiato che gli rimaneva, egli se lo reggeva fra i denti per denunciare il suo aggressore: " disse che era stato ferito: e disse da chi ", riferisce il Sanudo. Lucrezia svenne. Ma che vi siano dei momenti nei quali ogni mostra di debolezza diventa colpa, ella lo capì subito non appena fu rinvenuta. Presso che finito per la perdita del sangue che gli correva via da tutte le parti, il ferito giaceva senza più sensi, né era possibile trasportarlo fuori dal Vaticano. Lucrezia ebbe dal Papa, il quale mostrava sgomento e terrore, una stanza dell'appartamento papale, e medici, e sedici guardie fide e il permesso di chiamare subito l'ambasciatore napoletano, e facoltà di far venire da Napoli medici e chirurghi di re Federico. Tenne Sancia presso di sé, e, febbricitante e sconvolta, preparò il meglio che seppe le sue trincee. L'alba del 16 luglio 1500 trovò Roma già commossa dagli avvenimenti notturni. La prima luce che scese a rivelare la forma delle cose vide guizzar via per piazza San Pietro un ragazzo chiamato Baboyno, paggio del poeta cortigiano Vincenzo Calmeta, che, sotto gli occhi delle sentinelle vaticane, raccoglieva le testimonianze del duello, la cappa tutta tagliuzzata di Tommaso Albanese, i ricami d'oro caduti dai vestiti di Alfonso. Scivolava poi, Baboyno, lungo i muri di Borgo, e doveva respirare inebriato quell'ora, quel pericolo, quell'avventura resa palpitante dal fagottello insanguinato che reggeva tra le mani col proposito di portarlo ad uno di quelli che erano stati attori nella tragedia della sera prima, Tommaso Albanese, rifugiato a curarsi le ferite sotto la protezione di Vincenzo Calmeta.

Il fatto che l'Albanese avesse scelto come asilo la casa del poeta, è significativo di due cose: primo, delle relazioni fra i Bisceglie ed il Calmeta, il quale non si sarebbe preso un carico così grosso, e mettiamo anche che fosse amico personale di Tommaso senza forti ragioni di amicizia e fondatissime speranze di ricompensa da parte di Lucrezia; secondo, della poca voglia che il ferito mostrava d'andare a curarsi a casa propria, o, peggio, nel palazzo di Santa Maria in Portico. Qui e là, avrebbe potuto raggiungerlo, infatti, la mano di colui che aveva preparato e diretto l'agguato, e che poteva essere iratissimo di aver fallito tutte le sue vittime. L'Albanese aveva visto e sapeva " chi " aveva fatto il colpo, e proprio per questo la sua vita non era sicura; ma difficilmente sarebbero venuti a raggiungerlo in casa del Calmeta amico di principesse, di dame, di signori, di letterati di tutta Italia, lingue agili che non ci avrebbero messo molto a parlare, a comporre epigrammi e a passarsi le deplorazioni, se si fosse

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violentata la porta di un poeta. Privilegio non d'arte, ma direi di stampa, il Calmeta, pur non possedendo la sibilante ferula che rese irresistibili i ricatti di Pietro Aretino, poteva godere anche egli di una specie di franchigia conferitagli dal timore della sua corrispondenza che era larghissima: e del resto ci si poteva benissimo intendere con lui che conosceva il viver del mondo e sapeva attenersi alle regole della discrezione. Scrivendo proprio in quei giorni alla duchessa di Urbino e facendole la relazione del delitto, il Calmeta non riporta infatti nessuna parola come uscita dalla bocca del ferito che aveva in casa, anche quando dichiara " chi abbia fatto far questo, da ogni uomo si stima il duca Valentino ". E si può scommettere che la prima stima, la più probativa era partita da Tommaso Albanese. Più o meno dichiarata, eguale certezza avevano tutti gli oratori; se Francesco Capello diceva cauto " per Roma s'è divulgato che sono stati tra loro medesimi [i Borgia perché in quel palazzo è tanti odi nuovi e vecchi e tanta invidia e gelosia e di stato e d'altro che è necessario spesso nascano di simili scandali ", il Sanudo scrive " non si sa chi abbia fatto l'assassinio ma si dice sia stata la stessa mano che ammazzò il duca di Gandia ". Il cronista napoletano Notar Giacomo segnala al 15 luglio la notizia e aggiunge che " l'aveva fatto fare il Valentino per invidia ": e il Cattanei, giocando sulle reticenze, è più chiaro di tutti: " Il mandante del delitto è certo uno che può più di lui, signore e nipote di re vivo, figlio di re morto e genero del Papa": come dire il Valentino. Alfonso di Bisceglie era stato messo intanto in un luogo della torre Borgia e precisamente nella prima sala dell'appartamento affrescato dal Pinturicchio, dove ancor oggi, dalle lunette dipinte, alcune mezze figure di Sibille stanno a reggere cartigli con un'aria, più che da profetesse, da mezze incantatrici tra svaporate e ambigue. Il Papa che aveva " ricevuto affanno dalle ferite di don Alfonso " si era affrettato a chiamare l'ambasciatore del re di Napoli, perché assistesse alle medicazioni, alle quali presiedeva, pallida e arsa di febbre, ma risoluta, Lucrezia con Sancia a lato. Le due donne dormivano su letti improvvisati, a pochi passi dal ferito, lo assistevano, preparavano per lui il cibo con le loro mani, su un fornello da campo perché " non fosse attossicato ". Erano di guardia, fuori dalla stanza, i medici del Papa e i pochi fidatissimi di casa Bisceglie, fra i quali un gobbetto, prediletto da Alfonso: ad essi si aggiunsero presto, mandati da re Federico, due celebri medici napoletani, messer Galiano de Anna, chirurgo, e messer Clemente Gaetula, fisico, accolti da Lucrezia con quell'effusa riconoscenza che si immagina; e forse in quei giorni arrivò per sua sfortuna a Roma, se non v'era già da prima, uno zio del giovane duca, fratello di madonna Tuscia, Giovanni Maria Gazullo, destinato ad una fine da tragedia. Ed ecco trascorrere la vita d'incubo di quell'estate vaticana; perché se Alfonso si poté presto dire salvato dalle molte cure e dalla propria robusta giovinezza, per Roma non v'era chi si facesse illusioni sulla sua futura sorte: " Le ferite non sono mortali se nuovo aiuto non sopraggiunge " aveva scritto il Calmeta, e si comprende di quale tristo aiuto egli parlasse. Cesare era stato a visitare il

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cognato e si diceva avesse mormorato fra i denti che le cose non riuscite a desinare sarebbero riuscite a cena: dette o no, queste parole gli si potevano attribuire senza errore tanto più che il Papa stava abbandonando del tutto Alfonso. La prova l'ebbe l'inviato veneziano al quale Alessandro VI, dopo gran discorsi sull'innocenza di Cesare, stretto dalle precise argomentazioni del suo interlocutore aveva finito per dichiarare che se il Valentino avesse lui vibrato il colpo, era segno che Alfonso se l'era meritato. Non si sa che cosa volesse far supporre il Papa con queste parole, quali oscure colpe di complotti e di ribellioni attribuire ad Alfonso, che, solo e spatriato com'era, non poteva che manifestare spiriti aragonesi, naturalissimi in lui aragonese, specie assistendo di giorno in giorno agli atti politici che preparavano la rovina della sua casa: certo è che il Papa dava a vedere di aver ammesso come giustificazioni i torbidi cavilli di Cesare, e di considerare sempre meglio il caso di Alfonso d'Aragona come un problema fastidioso del quale era da augurarsi più che un risolvimento, una liberazione. Lucrezia dal fondo della torre Borgia percepiva la silenziosa marea di pericolo che avanzava verso la sala delle Sibille se aveva già stabilito con re Federico di far partire Alfonso per Napoli appena egli avesse potuto viaggiare, pensando forse di accompagnarlo ella stessa o di raggiungerlo in un secondo tempo. Al ferito, ora che stava meglio e che rimuoveva i passi per la stanza arrivando fino alle finestre aperte sui freschi giardini vaticani, dovevano venir facili e come alleviati e legittimi i progetti di una vita propria nella sua Napoli o nella terra di Puglia: e il panorama di Bisceglie, impostato sui Normanno, presso quel mare Adriatico che ha già, dopo il promontorio del Gargano, l'odore e il colore orientale dello Jonio, doveva essere per lui un'immagine di prospera rivincita su quel presente così avaro e crudele. La convalescenza favoriva il ravvivarsi del suo spirito, e anche la tenerezza per la moglie, in quel momento la sua sola difesa: ma gli cresceva, naturalmente, col crescere delle forze, l'odio verso il suo persecutore. Era vero che Alfonso, vedendo passare per il giardino il cognato, gli avesse tirato con la sua balestra? Probabilmente fu un'invenzione del Valentino. Ma nel gruppetto aragonese i rancori dovevano tradursi in parole se non in propositi. Come ascoltassero, ed ascoltavano sicuramente, Lucrezia e Sancia che si trovavano a dover condannare l'una il fratello l'altra l'amante, è un problema drammatico che sconvolse le due donne fino ad indurle nell'errore estremo. Quel giorno, dice l'oratore fiorentino, " la moglie e la sorella di Alfonso non erano in camera perché vedendolo sollevato e guarito, erano ite poco innanzi a visitar certe loro donne ". L'oratore veneziano, invece, asserisce che il Valentino in persona, entrato nella camera delle Sibille, ne fece uscire a forza sorella e cognata per rimanere solo col giovane aragonese. La più verosimile delle due versioni è apparentemente la seconda, perché non s'immaginerebbero Lucrezia e Sancia così fuor di ragione da abbandonare il loro ferito per una visita di donne. Ma nemmeno la versione veneziana persuade. Senza contare che non il Valentino fu attore scoperto nel dramma ma don Micheletto

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Corella suo mandato, torrioni medievali del castello di Pietro il ci si domanda come mai il Valentino se voleva usare la forza avrebbe atteso il risanamento di Alfonso. per liberarsi di lui, quando tutto gli sarebbe stato tanto più facile nei giorni confusi ed agitati subito dopo il ferimento. Se Cesare lasciò maturare i tempi, lo fece a ragion veduta: e perché il padre, meglio persuaso dalle sue argomentazioni e dalle ragioni politiche antiaragonesi, si volgesse del tutto contro Alfonso dando garanzia di lasciar correre i fatti quali che fossero, e perché la sorella fosse portata ad avere fiducia nelle cose e ad allentare la vigilanza così da lasciargli l'agio di scegliere le occasioni. Eppure, tra la relazione del fiorentino e quella del veneziano un filo di legame esiste: e se ne trova il capo in un'altra relazione, il valore della quale non è soltanto di partire da persona informata e scrupolosa, ma soprattutto di rispondere alle molte verità che compongono la realtà e la logica delle cose. La lettera perché si tratta di una lettera datata da Roma e diretta a Firenze, si deve alla penna o meglio al dettato del famoso umanista e più famoso predicatore cieco, il fiorentino Raffaele Brandolini che era stato, come già si è detto, precettore di Alfonso di Bisceglie, L'aver avuto presso il giovane duca un ufficio di confidente autorità e l'essere legato con gente aragonese, principalmente con gli stessi Bisceellie, dà al Brandolini autorevolezza d'informatore. L'equilibrio morale dell'uomo garantisce la probità dei riferimenti; e del resto il suo racconto concorda nella sostanza con gli altri, e in più li completa e li spiega.

Nel pomeriggio del 18 agosto, il duca di Bisceglie stava dunque nella sua stanza con il suo gobbetto e alcuni altri pochi, quando Cesare Borgia mandava una squadra d'armati al comando di don Micheletto Corella, con l'ordine di arrestare quanti si trovassero presso il cognato per rispondere di complotto antiborgiano preparato, diceva l'accusa, d'accordo con casa Colonna. Furono presi ed imprigionati tutti gli uomini del giovane duca, compresi messer Clemente il medico e messer Galiano il chirurgo. Il colpo, per essere fulmineo e ancor più per essere difficile da parare, lascia Lucrezia e Sancia, subito accorse, senza fiato: ma per un momento:

perché, appena riavutesi, eccole a chiedere spiegazioni di questa violenza: " muliebriter objurgant " dice il Brandolini nel suo bel latino, rendendo bene la concitata indignazione femminile. Ma, contro la loro stessa attesa, don Micheletto risponde come uno che non sia lontano da rendere conti: ha fatto ciò che gli è stato comandato, dice, ma veramente non ha cognizioni esatte, non sa nulla: quasi si scusa. Non ci vuol altro che la sua incertezza perché le due donne credano di poter dominare la situazione, e insistano nelle proteste: alla loro foga sempre più don Micheletto tentenna e si mostra dubbioso; finché pare risolversi e piegarsi ad un consiglio: perché non vanno dal Papa, a due porte di distanza, e non sollecitano da lui l'ordine di liberare i prigionieri prima che siano condotti in fortezza?

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La soluzione proprio per essere così agevolmente suggerita, anzi quasi improvvisata, non dà sospetto di tranelli: ma come mai poterono accettarla Sancia e Lucrezia che conoscevano il Valentino e che stavano in guardia? Come mai non venne loro in mente che, accadesse quel che poteva accadere, la presenza di almeno una di loro era necessaria per garantire ad Alfonso la vita?

Bisogna ammettere che le due donne non fossero più sotto gli incubi e avessero ripreso una certa sicurezza confortata e rafforzata dalle assicurazioni del Papa e dalle maniere ingannevoli del Valentino. In Lucrezia, c'era, ci doveva essere, la disposizione a creder bene del fratello contro tutto. Lo amava: ed anche se sapeva che certi odi tra uomini vogliono il sangue, poteva aver pensato che, guarito di sua mano ciò che Cesare s'era provato a rovinare, la partita poteva dirsi chiusa; tanto più che la progettata partenza di Alfonso per Napoli voleva dire che casa d'Aragona rinunciava a lottare per mezzo di lui, e che i Bisceglie avevano in animo di vivere ormai da privati. A Cesare, il Vaticano: in cambio, i patti erano sottintesi, Alfonso avrebbe vissuto. Quanto a Sancia, se a Lucrezia certi argomenti parevano così persuasivi, non c'era ragione che non paressero tali anche a lei: la principessa aragonese non sapeva che fosse discernimento, e per fidarsi o per non fidarsi, per fare o per disfare, ella seguiva l'estro e l'impulso del momento, meglio ancora se si trattava di ribellarsi e di reagire ai fatti immediati: era insomma una confusionaria, e passionale per di più. Comunque, le due donne (e qui sta l'accordo tra il relatore fiorentino che le dice uscite di camera volontariamente e il veneziano che le vuole costrette ad uscire) trovato buono il parere di don Micheletto, volano dal Papa lasciando Alfonso solo: per un momento, dicono. Non lo vedranno mai più Perché, appena sgombrata la via e chiusa la porta, don Micheletto s'avanzava calmo e feroce verso l'alcova dove. quale viso levasse s'immagina, era il marito di Lucrezia L'inviato fiorentino riporta che il giovane, ancora vacillante si alzasse in piedi, e par di vedere nel suo repentino gesto un angosciato tentativo di protesta contro l'inumana morte che gli si stava avvicinando. Alfonso cadde, con la mano alzata come domandando grazia: e tutto finì presto nel silenzio della torre borgiana. Che Alfonso sia morto, Lucrezia e Sancia lo capiscono subito non appena, tornando dalle stanze del pontefice, vedono gente d'armi a sbarrare la porta: e mentre don Micheletto osa una spiegazione e parla di una caduta accidentale che avrebbe cagionato al giovane duca emorragia seguita da morte, le due donne si sentono trascinate nella conclusione atroce di quel dramma, prese alla gola dal tradimento delle persone e delle cose, battute e schiantate dall'orrore chiamano pietosamente il dolce marito il caro fratello, empiono la casa di femminei ululati. Ma, piangessero a loro voglia, non ebbero nemmeno, pare, il permesso di vedere il corpo dell'assassinato, come

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non ebbero il permesso di seguire il modesto funerale fatto fare in gran fretta la sera del 18 agosto. Al lume di venti torce, con poca compagnia di frati oranti sottovoce, l'arcivescovo di Cosenza, Francesco Borgia, colui che pochi mesi prima aveva offerto all'acqualustrale il piccolo Rodrigo, accompagnò il duca di Bisceglie ad oscurissima sepoltura in Santa Maria delle Febbri, piccola chiesa presso San Pietro che sorgeva nel luogo occupato poi dalla sacrestia della Basilica. Dove era finito ed inutile ogni decoro mondano, le parole piene e significative della religione portavano la pietà, la speranza, la promessa di giustizia. " Il Papa sta di malavoglia sì per la natura del caso e per il re di Napoli, sì perché la figliola si dispera " scriveva il Cattanei, e lo stesso affermano da tutte le parti relatori e cronisti ai quali arrivava l'eco della disperazione di Lucrezia. Oltre il dolore, l'irrisione, ella dovette soffrire che il Valentino, due giorni dopo la morte di Alfonso, andasse a visitarla facendosi accompagnare da cento alabardieri fino alla porta della camera vedovile perché apparisse a tutti come egli avesse da guardarsi contro nemici e complotti e congiure che si tramavano tra le mura di casa Bisceglie. Voci che accreditassero queste pretese trame cercavano di prendere vigore, lanciate dalla gente del Valentino, ma cadevano subito, sgonfiate: e lasciava tutti freddi l'annuncio che i familiari di Alfonso fossero ancora tenuti in Castel Sant'Angelo dove il Valentino diceva volerli far esaminare a fondo per mandar poi il verbale del processo a tutte le corti italiane e specie alla Signoria Veneta così che ognuno si rendesse conto da quale nemico gli era stato necessario liberarsi. Questo verbale " mai non venne ", dice il Sanudo, sottintendendo che non avrebbe mai potuto venire.

L'ambasciatore di Napoli che, insieme con l'ambasciatore spagnolo e con il cardinale Costa, aveva preso la via del Vaticano per domandare al Papa giustificazione dell'assassinio, trovò un Alessandro VI che era realmente, o simulava d'essere, affranto di stupefatto dolore, ma tanto presente a se stesso da deviare il discorso per sentieri traversi e coprirsi da ogni attacco diretto. Impossibile ottenere da lui spiegazioni concrete, i tre furono costretti ad ascoltare scuse e deplorazioni: e, " poiché il caso è successo e non si può rimediare " come concludeva asciutto l'oratore fiorentino, finirono per contentarsi. I familiari del duca di Bisceglie, arrestati il 18 agosto, passavano intanto attraverso file di ore e di giorni paurosi: c'era di che, se, come si diceva, erano stati messi alla tortura perché confessassero il preteso complotto; ma non essendovi da confessare nulla, si finì per dar loro la via e per lasciarli tornare a Napoli, cosa che, per chi era stato preso nella morsa di Castel Sant'Angelo, aveva del miracolo. Non tutti tornarono, però: pochi giorni dopo l'assassinio di Alfonso, fu trovato morto sui prati di Castel Sant'Angelo, Giovanni Maria Gazullo fratello di madonna Tuscia, zio del duca di Bisceglie; probabilmente si era fatto tacere uno che avrebbe avuto molto da dire.

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Lucrezia fu lasciata a disperarsi sola con Sancia: i pianti che le dilavavano il viso, e che ella non si curava di nascondere, finirono per infastidire il Papa il quale non poteva persuadersi che ci si potesse dare tanta angoscia avendo vent'anni e tutte le probabilità di nuove fortune. 2 di allora l'informazione di Polo Capello ambasciatore veneziano: " Prima, era in grazia del Papa madonna Lucrezia sua figlia [la] quale è savia e liberale, ma adesso il Papa non l'ama tanto ". In quel momento, era vero, Alessandro VI non l'amava affatto e guardava di sbieco quella figlia che si ostinava a lacrimare il giovane marito con una vergogna acre e pudica, con un affannoso rimpianto e forse con il rimorso d'aver rappresentato per lui la cattiva sorte. Ma, e questo il Papa non poteva capirlo, proprio la forza, l'irruenza e la legittimità del suo pianto salvavano Lucrezia di fronte a se stessa, e le impedivano di sentirsi scaduta da ogni dignità, davvero umiliata. Finché con le sue lacrime si ribellava, anche a costo di allontanare da sé il favore papale, anzi allontanandolo di proposito, ella non era complice, era meno Borgia che Aragona, si sentiva dalla parte del diritto offeso tutta innocente. Consolarsi non poteva e non voleva; ma venne il momento che non le riuscì più di sopportare nemmeno la vista dei luoghi presso il Vaticano, né quella della pietra che chiudeva così miseramente il corpo di Alfonso, e desiderò di andare lontano. Chiese ed ottenne di ritirarsi nella sua terra di Nepi, e partì il 30 agosto con una comitiva di seicento cavalli: e, attraverso la campagna romana, per la via Cassia, e poi per la via Amerina, il 31 agosto arrivò in vista della città etrusca alta sul suo basamento, circoscritta nel disegno delle sue antichissime mura. Nepi è un luogo da piangervi bene. Il simbolo dell'antico serpente Nepet che diede nome alla città, sembra esprimersi dalla tristezza feconda e lenta del suolo, sul quale vanno fumando, focolari di magie che aspettano lo stregone etrusco, misteriose sorgenti medicinali. La rocca di Nepi, ricostruita sull'antichissima del duca Toto da Rodrigo Borgia all'epoca del suo cardinalato, aveva, su questo panorama di umore sacro e malinconico ' lo spicco e l'equilibrio delle costruzioni militari del Rinascimento; dominava con i torrioni rotondi e le terrazze, la verde, stillante campagna, e apriva la porta con un invito di pace, lo stesso che Lucrezia aveva accolto un anno prima, arrivando da Spoleto accanto ad un Alfonso ritrovato. Ora, al rotolio del Rio Falisco, nelle graziose stanze del primo piano affrescate di fiori su fondo chiaro, o nelle stanze più alte dei torrioni, istoriate di scudi e d'armi borgiane e borgianearagonesi, ella radunava tutti i suoi ricordi e sentiva quanto potevano: piangeva, tentando fra le lacrime un sorriso quando vedeva il piccolo Rodrigo; per tutta la vita le pareva di dover piangere e di dover esser sola, avendo chiuso le porte all'avvenire. E invece, a Roma, già si preparavano per lei altre nozze e altri destini.

Riconquistato il ducato di Milano, e distrutta alla radice casa Sforza, il re di Francia si ricordava dei patti col Valentino e dava ordini ad un forte

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nucleo di truppe francesi di tornare in Romagna. E da Roma, Cesare Borgia, sicuro di avere il Vaticano ai suoi voleri, ora che nessuno era lì a deviare i suoi influssi dall'animo del padre, si preparava ad incontrare i reggimenti francesi forte egli stesso di diecimila uomini, ben pagati, bene armati, trattati con una larghezza che al Papa pareva sciupio. Ottimi capitani di case nobili italiane, Orsini e Savelli di Roma, Baglioni di Perugia, Vitellozzo Vitelli di Città di Castello, ed altri, erano stati assoldati con i denari dati di cuore o per lo meno di buona voglia dai nuovi cardinali eletti il 25 settembre 1500. Appena dopo la loro nomina, i nuovi cardinali erano stati convitati da Cesare Borgia ad una gran cena nelle stanze sopra l'appartamento Borgia, dove qualche anno dopo Raffaello avrebbe dipinto la Disputa e la Scuola d'Atene. Tanti porporati alla tavola del Valentino gli riconoscevano e gli rafforzavano la potenza e il prestigio: potenza e prestigio crebbero, quando, ancor prima che egli lasciasse Roma, gli ambasciatori di Cesena vennero a Roma e pregarono il Papa in concistoro di dare la loro città in feudo al Valentino da essi esaltato per la sua liberalità e prudenza e per essere uno dei primi uomini d'arme del mondo: tutte, come diceva il Cattanei, " pappolate ". Avuta così a buon prezzo Cesena, le truppe di Cesare e dei suoi alleati mossero compatte verso Pesaro dove, tra un batticuore e uno spavento, viveva giorni agitati il marito divorziato di Lucrezia.

Anche se la fine di Alfonso d'Aragona gli poteva aver dato un certo amaro ristoro d'esser fuori da quei pericoli, Giovanni Sforza non aveva però molte ragioni di contentezza. Aveva stentato a consolarsi dalla sua disavventura con Lucrezia, tanto che nel 1499 un informatore veneziano riferiva ancora: " Il signor di Pesaro patisce male la separazione dalla moglie ". Aveva visto la disfatta di quelli che gli erano sempre parsi invincibili, i suoi possenti cugini milanesi, ed ascoltava con terrore gli avvisi che gli facevano chiara la sua sorte vicina. All'avanzarsi del Valentino proteste ed appelli a tutte le potenze volarono dalla cancelleria pesarese, ma per lo Sforza era tempo di perdere, e di perdere male. Quando egli vide che i nemici stavano per arrivare abbandonò la rocca e la città e riparò dal fratello della sua prima moglie, Francesco Gonzaga, a Mantova, dove s'andava radunando un gruppetto di fuorusciti di qualità. C'erano milanesi fuggiti all'invasione francese, sforzeschi dunque, e fra questi, raccomandata dall'imperatrice Bianca Maria Sforza moglie di Massimiliano, Lucrezia Crivelli la bellissima amante di Ludovico il Moro che girava il mondo con il diploma amatorio datole dal duca insieme con ricche donazioni, compenso delle " ingenti voluttà " avute in sua gioconda compagnia. La Crivelli aveva con sé un bimbo nato da queste giocondità di gran pregio. E c'erano i fuorusciti dagli stati papali, come Guglielmo Caetani signore di Sermoneta spogliato dei suoi averi dai Borgia. Lo Sforza si aggiungeva in buon punto a questi: e si può pensare se in una corte spiritosa e letterata come era quella di Mantova presieduta dalla marchesa Isabella d'Este Gonzaga, le frecciate contro i

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Borgia avessero punte avvelenate. Da Mantova, come da Ferrara, da Firenze, da Bologna e da Siena si seguiva la marcia del Valentino cercando di indovinare le direzioni future. Si vedeva questo fortunato conquistatore, con l'aiuto del re di Francia e con l'appoggio del Papa frantumare signorie secolari che tutti erano abituati a considerare successioni dinastiche inamovibili; ed era naturale che si temesse per l'avvenire, quando, conquistata la Romagna, il Valentino si sarebbe guardato intorno cercando dell'altro. Firenze? Bologna? Siena? O più a nord, la pianura padana, Ferrara e Mantova? Correva voce che il Papa ripetesse volentieri una profezia zingaresca che gli aveva promesso la paternità di un re d'Italia: erano compiacenze che mettevano paura. Ci si può figurare, dunque, come arrivassero grate all'orecchio di quegli esuli in pena le notizie delle difficoltà incontrate dal Valentino sotto le mura di Faenza dove, dopo la presa di Pesaro, l'armata borgiana aveva messo assedio. Faenza era difesa da Astorre Manfredi principe diciottenne, di quei costumi leali e gentili che danno ad un giovane l'apparenza di arcangelo: egli si difese per mesi, sostenuto dalla fede e dall'amore dei suoi sudditi e dall'ammirazione, ahimè solo platonica, di tutta Italia. Infine, per risparmiare alla sua città saccheggio e distruzione venne ad un accordo con Cesare Borgia e gli si diede in pegno insieme con un suo cugino. Non immaginava, il bell'adolescente, che gli orrori risparmiati ai suoi cittadini li avrebbe sofferti sulla sua persona, prigionia, disonore, obbrobrio, e infine la morte.

Presa Faenza, e avuti in pegno i signori della città, parve che il Valentino muovesse su Bologna: si diceva, anzi, che il re di Francia avesse chiesto al Papa di impadronirsi di quella terra per darla poi in feudo al Valentino; ma Bologna era un ostacolo durissimo, e i Bentivoglio, signori della città, riuscirono a liberarsi per il momento dal pericolo offrendo a Cesare la proprietà di Castel Bolognese, una ricca rendita annua e cinquecento uomini d'armi per la sua guerra. Anche Firenze seguì l'esempio dei bolognesi e fu lasciata alla sua pace, mentre l'esercito conquistatore girava al largo verso Piombino e con quella velocità fulminea che era stata di Giulio Cesare, e che Cesare Borgia imitava di proposito, s'impadroniva di città terre e castelli.

All'esercito del Valentino non mancava nulla, nemmeno, sotto dura disciplina, lo sfoggio pittoresco dei costumi. I soldati si tiravano dietro genti infinite, mercanti che facevano ottimi affari i giorni delle paghe, e preti, e musici, e letterati che dovevano poi versificare guerre e vittorie, e donne che prendevano su di loro per pochissima mercede il compito di ricreare il guerriero stanco, moltitudine d'ogni specie che non ha ancora trovato il suo illustratore. Su tutti, la figura di un genio del Rinascimento, il più sfrenato avventuriero dell'intelligenza che sia mai venuto al mondo, Leonardo da Vinci. " Sia libero il passo " scriveva il Valentino " al nostro prestantissimo e

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dilettissimo familiare Architetto e Ingegnere generale. " Ed ecco, l'ingegnere generale studiare il defluvio delle acque nelle città conquistate, inventare macchine da guerra, e con la stessa cura e la stessa applicazione disegnare in un suo libretto la forma inusitata di una casetta di campagna, o il sistema di legamento a festoni delle vigne romagnole, o ascoltare il suono dell'acqua in una fontana riminese, o risolvere come ancor oggi si vede il problema del canale navigabile di Porto Cesenatico. Cesare sapeva scegliere i suoi uomini, raro merito specie in un principe di fortuna. Non aveva per nessuno sentimento d'affetto e nemmeno di amicizia, fermo com'era di qua dalle correnti sentimentali, chiuso e compatto nelle sue ambizioni. Ma davvero tanto e così chiuso? Accenni di incertezze, presentimenti di morte precoce venivano anche a lui, ponendogli i problemi umani dell'essere e del divenire: erano tormenti, quelli di Cesare, che egli, forse perché li soffriva intensamente, cercava di far tacere con la varietà e la continuità delle azioni, anche amorose. Non dimenticava in mezzo alle sue guerre la moglie francese, Carlotta d'Albret (che già il Papa aveva cominciato a chiamare in Italia) con la quale teneva a mostrarsi splendido: curava egli stesso i doni che le spediva, come nel dicembre del 1501 molte cose di pregio acquistate nel primo emporio d'Europa, a Venezia; cera purissima lavorata, confetti bianchi, zuccheri fini, sciroppi, nove botti di malvasia, spezie orientali, arance e limoni, e panni di ogni sorta. Ma Cesare non si considerava affatto legato a lei da doveri di fedeltà, e nessuno si stupiva che fosse così: a Milano si era innamorato di una giovane donna nobile, Bianca Lucia Stanga, tanto che nel luglio 1501 pareva addirittura che se la volesse far venire in Romagna. E intanto, si svolgeva e si risolveva in un mistero concitato la storia della bella Dorotea. Mentre aspettava la resa di Faenza, Cesare era andato per il carnevale del 1501 alle feste della corte d'Urbino, invitato o meglio tollerato dai duchi di Montefeltro. La fama che precedeva il Valentino era di tale natura, che, appena egli ebbe messo piede ad Urbino, si disse che aveva tentato di avvelenare i suoi ospiti, cosa difficilmente ammissibile soprattutto per ragioni di circostanze, Si era divertito agli spassi elegantissimi di quella corte dove le invenzioni dell'intelletto contavano meglio e più degli sfarzi e delle rappresentazioni macchinose: e aveva conosciuto, tra le molte donzelle che compivano la loro educazione cortigiana presso quella perfetta dama che era la duchessa Elisabetta, una graziosa lombarda, Dorotea da Crema, di nobile famiglia mantovana, promessa sposa a Gian Battista Caracciolo capitano dell'esercito veneziano; se ne era innamorato: amore, pare, senza corieiusioni del genere che il Valentino sollecitava, data la buona guardia che si faceva alle ragazze in corte d'Urbino, specialmente in occasioni di visite sospette; e la ragazza era per giunta virtuosa, un eccitamento di più alla voglia di uno che anche in amore voleva sentire la battaglia. Respinto e sconfitto, se ne tornò al campo il Valentino; e il dieci febbraio mosse da Urbino una comitiva nuziale che conduceva Dorotea al marito passando per Cervia, terra della repubblica veneziana: andava tranquilla e lesta per la

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campagna, tutti i viaggiatori stando con la mente a pensieri di feste e di nozze, quando sulla strada di Cervia fu assalita da un gruppo di cavalieri comandato da uno, che sebbene avesse, al dire di uno degli scampati, una benda su un occhio per confondere le somiglianze, si riconosceva benissimo per il Valentino. In un attimo, prima che si avesse il tempo di far atti di difesa, tutti furono messi fuori di combattimento, e la bella Dorotea, strappata ai suoi legittimi sogni, portata, capelli al vento e lacrime agli occhi, in vera figurazione di rapita, sulla groppa di un cavallo, fino ad un rifugio innominato. Per raffinatezza di costume, e per riguardo alla nobiltà della fanciulla, i rapitori portarono via anche una delle donzelle. Nascoste le donne, si può immaginare quale fosse la loro sorte.

Intorno a questo fatto violento crebbero subito scandalo ed indignazione: il re di Francia mandò al campo di Cesare Luigi de Villeneuve e Ivo d'Allègre a protestare; Venezia mandò a sua volta ambasciatori, risoluti a chiedere soddisfazioni per il Caracciolo il quale faceva gran chiassate e diceva di voler lasciare il servizio della Repubblica bastandogli l'animo di mettersi da solo alla ricerca della sposa: questa partenza sarebbe stata gravosa per Venezia che aveva disposto allora le sue truppe nel Friuli al comando appunto del Caracciolo per prevenire una possibile incursione dell'imperatore Massimiliano. Ambasciatori andarono anche a Roma, in Vaticano: il Papa deplorava, negando che il figlio si fosse messo in questo imbroglio, e Cesare, calmo e sicuro, finiva per ammettere di saper qualche cosa della faccenda, che era passata, diceva lui, fra Dorotea e il capitano don Diego Ramirez il quale aveva anche ricevuto in dono dalla fanciulla alcune camicie ricamate. Non sapeva altro, però; don Diego era scomparso dal campo, né si conosceva dove si fosse rintanato: a suo tempo lo si sarebbe punito. Quanto a lui, Cesare, non capiva perché lo accusassero tanto insistentemente, quando sapevano tutti che donne non gli mancavano davvero; e questo era tanto ben detto ed entrava tanto bene nel quadro delle cose quali dovevano essere, che francesi e veneziani si accontentarono di queste scuse anche se non le credettero affatto. Non così il Caracciolo, che a Venezia, in pieno consiglio, dava in alte proteste minacciando le più fantasiose vendette. Non ci fu verso di rintracciare la fanciulla la quale dopo molti pianti subì l'avventura; senza rassegnarsi, però. A Lucrezia non era stata risparmiata la vista del fratello avviato alle nuove fortune. Nella sua Nepi ella aveva dovuto ospitare per una notte Cesare, con una parte, la più brillante, del suo esercito, ascoltare anche non volendo parole di vita e di guerra, strepito di armi, propositi vivi, allusioni a prossime nozze, tutte offese al suo dolore. Pure, era inutile negarlo, quel passaggio di genti gagliarde aveva cominciato a sviare i suoi pensieri e le aveva lasciato scontentezza vaga, distratta agitazione; soprattutto inquietudine. Per pianto la mia carne si distilla, forse il più bel verso fra quelli che il poeta napoletano ed aragonesissimo Jacopo Sannazaro stava componendo in quegli anni per la

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sua Arcadia, e certo uno dei versi che esprimono meglio lo struggimento sensuale della malinconia, avrebbe potuto essere il motivo col quale il dolore di Lucrezia si era fino allora accordato, Il palpito del sangue accompagnando le lacrime, ognuna di esse cadeva densa, e la teneva in una vita amara e calda che rispondeva in un senso negativo, ma pienamente, alla sua vita affettiva di prima. Tutto era andato bene finché la solitudine e gli abiti da vedova e la vista del piccolo Rodrigo senza padre le avevano giorno per giorno ravvivato, rinarrandolo, il suo passato. Ma partito l'esercito di Cesare, fra squilli e fanfare, ella avrà sentito, ritrovandosi con se stessa, un disagio assai diverso da quel dolore scatenato e puro che l'aveva tanto e a buon diritto fatta lacrimare. Ricominciavano gli smarrimenti; e le insidie potevano venire dalle cose innocenti, dalla carezza sensibile del sole settembrino, dal sapore sugoso d'un frutto, da una gemma portata per ricordo e che ad un tratto dismemora dai suoi significati, diventa nuova, ricrea fantasie allegre che l'anima sospesa e percossa intende fuggevolmente e che subito rifiuta, disperata.

Sarebbe presto venuto il tempo di fare progetti: e già il Papa, al quale non pareva vero di mettersi a trattare nozze, la politica che gli andava più a verso, ascoltava volentieri in Vaticano gli inviati di coloro che, appena un mese dopo la morte del duca di Bisceglie, chiedevano in matrimonio la vedova dell'assassinato. Tra questi coraggiosi vi fu, patrocinato da Cesare, un francese, Luigi di Ligny, cugino amatissimo del re di Francia. Il Ligny, gran signore com'era, sarebbe stato dispostissimo a sposare la figlia del Papa "per denari e per cappelli cardinalizi farebbero questi francesi ogni cosa", commentava il Cattanei a patto che gli si passasse una dote favolosa e l'investitura di Siena dalla quale sarebbero stati banditi i Petrucci tiranni della città. Ma Lucrezia stessa aveva messo fine ad ogni trattativa dichiarando che mai per nessuna ragione sarebbe andata in Francia. Fece allora la sua ricomparsa uno che già nel 1498 le si era offerto, Francesco Orsini duca di Gravina, che con ottime speranze mosse dalla sua terra meridionale a metà di ottobre 1500, e passò il ventisei di quel mese a Trani, dove era arrivata già, con grande cavalcata e carri pieni di robe, una sua giovane amante per entrare nel monastero di Santa Chiara: la rottura così evidente di una relazione era fatta per essere notata e riferita. Il duca di Gravina giunse a Roma il 6 dicembre, accolto cortesemente dal Papa che cominciò a trattare con lui come del resto aveva trattato fino allora, senza concludere nulla, con Ottaviano Colonna. Il Gravina poteva pensare di aver il campo libero secondo le sue speranze, se verso la fine di novembre si davano per certe nei circoli vaticani le nozze. Essendo il futuro sposo vedovo con due figli, si sarebbe stabilito che i bambini entrassero nello stato ecclesiastico con ottimi benefici, parte ceduti dal ricchissimo cardinale Orsini, parte dati dal Papa; così, i soli figli futuri dei nuovi sposi avrebbero avuto in eredità titoli e ducato. Ai primi freddi autunnali Lucrezia era ritornata in città riprendendo una vita che le

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doveva ancora ripugnare nel palazzo di Santa Maria in Portico. Un giorno, quando al Papa parve opportuno, fu chiamata in Vaticano e le fu fatta la proposta del matrimonio col Gravina, dopo un discorsino amorevole composto lì per lì dal Papa con la sua solita grazia. Lucrezia stette a sentire, e pareva calma: ma nessuno ci dice che espressione avevano i suoi occhi mentre rispondeva con un rifiuto. "E perché?" domandò il Papa, più curioso di sentire la risposta che sorpreso. Ma, invece delle prevedibili risposte da vedova non voler ella rimaritarsi per non averne voglia, e per dedicarsi soltanto al figlio Lucrezia rispondeva forte alla presenza di tutti: "Perché i miei mariti sono malcapitati". "E partì corrucciata" soggiunge il Sanudo.

Il duca di Gravina, a sentire la negativa, andò in furore:

si prendeva giuoco di lui, il Papa, che non sapeva imporsi alla figlia? Aveva ragione di sospettare perché se Alessandro VI avesse davvero avuto caro il progetto di nozze orsinesche non avrebbe esposto il suo candidato ad un rifiuto che, conoscendo Lucrezia, prevedeva, anche se non in quella forma. Ma conveniva al Borgia che intorno alla figlia gli aspiranti fossero molti per aumentare il pregio del suo consenso e per essere più libero nei suoi maneggi, secondo il suo antico e sempre buon sistema. Si ritirava fuori e si rispolverava dunque anche il progetto di nozze spagnole, e si faceva partire da Roma nel febbraio del 1501 un vescovo, con l'incarico di concluderle: il pretendente era un "certo, conte" e avrebbe dovuto essere un partitone se al mediatore si prometteva in premio il cardinalato. Ma era un progetto fondato? Il traffico intorno a Lucrezia infittiva dimostrando che le nozze con la figlia del Papa invogliavano tuttora. E intanto, il re di Francia, colui che il Valentino considerava il suo più fido alleato, se la rideva delle manie matrimoniali borgiane, e parlando con l'ambasciatore ferrarese diceva essergli stato riferito come il Papa cercasse di dar la figlia al marchese di Monferrato con la promessa di fargli avere la munitissima Alessandria sul Tànaro, la regina della vallata padana superiore. Questo promettere ad altri cose tanto difficili da ottenere, che pareva a Luigi XII patente ridicolo, era invece un segno di fiducia assoluta nella propria fortuna, e un punto di partenza nella psicologia dei Borgia. Lucrezia aveva dunque rifiutato il conte di Ligny, Ottaviano Colonna, Francesco di Gravina, ma perdendo di risolutezza ad ogni diniego: la meditazione e la ricerca interiore le erano servite soltanto a condursi per gradi ad una nuova risoluzione. A vent'anni non aveva più modo d'illudersi né d'avere confidenza nemmeno con se stessa: già sapeva che per superare le malinconie, i disgusti, le caliginose inquietudini, gli ardori tempestosi e le gelidità stanche e disperate della sua natura, non aveva che un modo: patire tutto, andare al fondo dei sentimenti, scontarli nelle minime inflessioni con la pazienza delle donne che hanno eletto per sé d'essere savie. In questo oscuro e coperto struggimento, un'esistenza può consumarsi tutta: ed esige la solitudine, quella solitudine

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che Lucrezia amava, interrotta però da avvenimenti che apportassero poi ricchezza e calore al ricordo. Ma perché un'assimilazione della vita così difficile e urgente potesse avvenire, ella aveva bisogno di sentirsi sicura almeno fisicamente, di non tremare ogni giorno chiedendosi all'alba quale nuova minaccia stesse per soverchiarla. Ora cominciava a capire che sicurezza, se non pace, era da cercare fuori di Roma presso uno che fosse forte almeno quanto suo padre e suo fratello, e che avesse un avvenire distaccato da quello di Cesare. Ben conchiuso pareva alla sua mente solo il destino di una donna negli attributi di signora e di sposa, a capo di una corte, regnante; e pur non pensando a giudicare i suoi e quindi a condannarli, quei Borgia tutti del suo sangue e della sua razza, per la prima volta con la sua coscienza di donna accettava la necessità di abbandonarli: di tradirli, anche.

Fine parte prima.

PARTE SECONDA

Il terzo matrimonio.

Appena un mese dopo la morte del duca di Bisceglie, mentre Lucrezia piangeva a Nepi, era stato "buccinato" per lei in Vaticano qualcosa su Alfonso d'Este primogenito del duca di Ferrara e cugino per via materna del giovane aragonese ucciso da poco nella torre Borgia. Pareva un nome gettato lì a caso come se ne gettavano tanti, per vedere se riuscissero con la forza dell'evocazione ad aprire la porta di uno splendido futuro; tutti essendo persuasi, poi, che Alfonso d'Este avrebbe voluto "andar più alto", perché alla superba famiglia ferrarese, una delle più antiche e delle più potenti d'Italia, sarebbe parso indecoroso scendere fino ad una donna della fama di Lucrezia e di quella "casata privata" come disse poi il Guicciardini, volendo intendere di insignificante dinastia. Ma, presa Faenza, e cresciuta e consolidata la potenza di Cesare Borgia, tutti i signori italiani, specie quelli che erano, come

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gli Estensi, feudatari del Papa, si trovarono. a dover temere davvero l'espansione borgiana e a cercare di garantirsi la pace tentando di assicurarsi l'alleanza e l'amicizia col pontefice. Sicché, quando nel febbraio 1501 il cardinale di Modena, Giambattista Ferrari, scrisse al duca Ercole d'Este, proponendogli il matrimonio di suo figlio Alfonso con Lucrezia, e magnificandogli l'alleanza e la sposa, nessuno si meravigliò che i progetti diventassero trattative, e che queste avanzassero con probabilità di fortuna. Probabilità, non certezze; perché non era cosa facile per Lucrezia entrare in una famiglia che aveva fino allora saputo sceglier alto in fatto di spose. Il regnante duca Ercole era vedovo di Eleonora d'Aragona figlia di re Ferrante di Napoli; e il suo primogenito Alfonso, anch'egli vedovo, aveva sposato in prime nozze Anna Sforza, sorella di Gian Galeazzo duca di Milano, nel momento di maggiore fortuna della casa milanese; due principesse di famiglie regnanti, senza altra storia da quella dei loro mariti. A Ferrara, e anche nella confinante Mantova dove regnava la sorella di Alfonso, Isabella d'Este sposata al marchese Francesco Gonzaga, si sapevano tutte le storie dei Borgia, e si sapevano nelle versioni più crude: ricorderemo che il documento del tempo di Giovanni Sforza, con l'accusa di amori incestuosi fatta dallo Sforza al Papa, si trova in una lettera mandata al duca Ercole d'Este dal suo ambasciatore milanese; e la notizia della nascita del misterioso bambino di Lucrezia nel marzo del 1498 è nella corrispondenza mantovana. Tutti gli Estensi rabbrividirono dunque nel loro orgoglioso sangue, quando seppero che quel matrimonio stava piacendo tanto al Papa, e che Lucrezia sembrava inclinarvi anche lei: il duca Ercole messo subito in guardia era uomo capace di giocar sottile cominciò a passare parole di difesa ai suoi ambasciatori, e serrò le file delle spie che avrebbero dovuto informarlo a tempo delle manovre vaticane. E, appena gli fu riferito che uno degli oratori del re di Francia, Luigi Villeneuve barone di Trans, veniva a Ferrara per commissione del Papa e su preghiera del duca Valentino, ad intavolare le trattative, cercò di fermarlo per via con una controffensiva: facendogli sapere cioè che Alfonso era già impegnato con il re di Francia per una giovane vedova francese, Luisa d'Angouléme, duchessa di Foix. L'abile parata veniva in ritardo; il Villeneuve, arrivato a Ferrara i primi di maggio, mostrò d'avere di che dare il cambio alle proposte, e offrì, se il primogenito di casa d'Este era davvero destinato ad una sposa francese, di trattare per la figlia del Papa un matrimonio con il secondogenito del duca, l'inquieto e ancora disoccupato don Ferrante, bello come un San Giorgio; purché, naturalmente, il padre lo avesse fatto signore di stato indipendente, creandogli la signoria di Modena e una rendita da principe. Questa proposta ha l'aria di essere stata una finta che doveva servire a far certi gli Estensi sull'ostinata volontà del Papa d'imparentarsi con loro, essendo noto a tutti che, nonché smembrare il suo stato, il duca Ercole avrebbe voluto aumentarlo e che per questo appunto correvano tra Ferrara e la vicina repubblica di Venezia relazioni a filo di rasoio per la contesa sul Polesine di

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Rovigo. Quanto alla rendita, il duca di Ferrara era avaro, e teneva tutti i suoi figli, specie i cadetti, in una dipendenza economica severissima; figurarsi se avrebbe aperto la borsa ad un appannaggio del genere di quello che il Papa avrebbe preteso. Preferì, Ercole, riportare francamente la questione sul primogenito pensando che in un modo o nell'altro avrebbe evitato il matrimonio. Era vero che Lucrezia, questa volta, non s'era mostrata contraria: cedeva al desiderio del porto calmo, e le mura di Ferrara parevano prometterle la risoluzione di una storia piena, fino allora, di dannati incontri. Tutto stava saldo nel dominio estense: antica e nobilissima la casa; forte lo stato in posizione di fortuna fra l'Italia centrale e quella settentrionale, percorsa la terra dall'ampio Po provvidenza fertile delle terre; ordinate L'amministrazione e la giustizia; famosa e celebre in ogni parte d'Europa l'Università, lo Studio; bella la città, decorativa la Corte educatissima nelle arti, pittura poesia scultura musica teatro danza. Si capisce che il quadro non era poi perfetto anche nei particolari, perché Ferrara era uno stato d'uomini vivi e non una repubblica ideale: ma che fosse uno stato ben costituito lo giudicavano tutti in Italia compreso il Papa che, nel concistoro dell'8 maggio 1501, si dilungava a parlare di Ferrara come di un feudo personale. Il consenso dei Borgia su Ferrara era unanime; anche il Valentino che considerava l'alleanza con gli Este un appoggio alle sue conquiste di Romagna cominciò subito a scambiare con i figli di Ercole, specie con il cardinale Ippolito, doni e cortesie che furono molto notate. Ferrara si gloriava d'essere sotto la protezione del re di Francia, da quando Niccolò III aveva avuto il privilegio di aggiungere alle aquile estensi i gigli francesi; e Alessandro VI, per aver libera la via anche da quella parte, fece presto ad ordinare ad un suo inviato di passare le Alpi e di andar diritto per le vie fiorite dal bel mese di maggio a Chálons a parlare con Luigi XII. Il messo parte, cavalca, arriva in corte, è alla presenza del re, trova Luigi XII disposto a cortesia, contento di aver stabilito proprio in quei giorni la conquista di Napoli, un nuovo regno da aggiungere alla propria corona. L'inviato dei Borgia, che è stato bene istruito, fa capire che il re di Francia finirà per avere la sua Napoli; ma solo se il Papa vorrà, poiché l'investitura del Reame è in mano del pontefice, quella investitura senza la quale non si può parlare di regno legittimo. E le truppe del Valentino non saranno necessarie all'esercito di Sua Maestà Cristianissima? Un'ombra sul fine viso celta di Luigi XII denuncia il fastidio di riconoscere queste verità; ma tutto si muta in sorriso quando l'inviato di Alessandro VI fa intendere che, per disporre bene gli animi in Vaticano, basterà che dalla corte di Francia partano sollecitazioni alla corte estense perché il matrimonio di Lucrezia con Alfonso d'Este possa avvenire. Salvati i suoi interessi, il re di Francia si sente di trattare le questioni italiane con una certa leggerezza di mano e di parola; assicura dunque il messo borgiano di essere favorevolissimo alle nozze estensi, e pronto a patrocinarle; ma ripartito il messo per Roma con la risposta, chiama l'ambasciatore ferrarese, e gli dà consigli e suggerimenti d'altro genere. La

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tattica che gli Estensi devono seguire è secondo lui quella di prendere tempo, mettere ostacoli, trattare cautamente, senza però rifiutarsi: dicano di sì, mostrino di entrare nei piani del pontefice e di starci, fino a che in Francia ci sarà bisogno del Vaticano; penserà poi lui stesso, re Luigi, a liberarli dalle promesse; e ricordino che la duchessa di Foix è sempre dispostissima verso il primogenito di Ercole d'Este. Come? diceva fingendo di meravigliarsi il re, la prudenza del duca di Ferrara aveva bisogno di consigli? E perché questo non riusciva a comprenderlo Alfonso acconsentiva a legarsi con la famiglia Borgia?

Altro che acconsentire: Alfonso d'Este si rabbuiava tutto all'idea delle nozze con la Borgia, e per non pensarci lavorava a dirigere le sue fonderie di cannoni e si divertiva alla grossa, come era suo uso, in conviti di giovani e di cortigiane. Trattative e difese intorno alla questione matrimoniale erano affidate al duca Ercole che aveva armi abbastanza affilate per combattere con il giocoliere spagnolo; eppure, Alfonso non aveva potuto fare a meno di consegnare a Michele Remolino, un fidissimo borgiano addetto strettamente all'impresa matrimoniale, il proprio ritratto per la fidanzata. Il quadretto era partito, stava venendo a Roma, sarebbe arrivato nel palazzo di Santa Maria in Portico a rappresentare una promessa di cose concrete. il colpo grosso che era riuscito a Luigi XII era il trattato di alleanza tra Francia e Spagna, unite insieme alla conquista del regno di Napoli. Ferdinando il Cattolico aveva abbandonato anche lui gli Aragona napoletani, suoi cugini, e si era accordato con il re di Francia per una trista e impolitica spartizione dell'Italia meridionale che sarebbe dovuta avvenire così Napoli, Terra di Lavoro e Abruzzi sarebbero andati alla Francia; Puglie e Calabria alla Spagna. Amico, complice anzi, il Papa, i due eserciti stavano arrivando, l'uno al comando del maresciallo d'Aubigny, dalle Alpi, l'altro sulle navi sorelle della "Pinta" e della "Santa Maria" di Cristoforo Colombo, dai porti spagnoli, A Cesare Borgia convenne, secondo i patti, interrompere le sue imprese personali e tener dietro al d'Aubigny, lasciando in Romagna, ormai per decreto papale sua terra e suo ducato, gente fida con ottimi presidi e buone regole amministrative. Alla fine del giugno 1501 era a Roma, così di malavoglia da non aver nemmeno voluto mettere insieme un po' di parata d'onore: "Va malcontento e dubbioso" scriveva il Cattanei, "perché è in aria lui e le cose sue: se i francesi vincono, non lo stimeranno: se perdono, e altri superasse i francesi, sta male..." e qualche giorno dopo, 8 luglio: "Non si potrebbe dire quanto malcontento va il Valentino, sì per non aver grado e condizione sopra gli altri, sia perché crede essere ostaggio...". Il malcontento di Cesare aumentava anche per le notizie che venivano dalla Germania e che descrivevano l'imperatore Massimiliano furente dell'accordo franco-spagnolo e della parte che in tale accordo aveva il Papa, e minacciante di scendere in Italia anche lui, per far svaporare in un soffio lo stato di Romagna, castigando tutte insieme le ambizioni borgiane. E poi, quella vigilanza che gli

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facevano sentire i francesi, i quali non si tenevano dallo spiare e dal commentare le fasi della sua marcia mormorando sul suo "andar ritenuto", gli doveva essere insoffribile. Riandava per la stessa strada di sei anni prima, al tempo di Carlo VIII, e si scontrava ad ogni passo con ricordi irritanti, che si facevano ancor più irritanti per risentirli non come cose antiche e superate ma similmente vive, come allora. Erano quelli i veri momenti che potevano far dubbioso il Valentino sulle sue costruzioni e le sue conquiste e gli potevano mostrare spietatamente la inaderenza storica e le fatali debolezze della sua opera. La rabbia che gli covava dentro si sfogò nella presa di Capua, sanguinosissimo fatto d'armi seguito da più sanguinoso saccheggio. All'avvicinarsi del nemico francese, re Federico fuggì ad Ischia, e venne poi ad un accordo con Luigi XII accettando di esiliarsi in Francia dove fu accolto con tutti gli onori e dove morì qualche anno dopo. E Napoli fu di nuovo francese e di nuovo suonarono canti, sfolgorarono gioielli e conviti, si assiste insomma ai saturnali dei vincitori. Ora Cesare pareva rianimato e trionfava in feste, in mascherate e in compagnie di donne: finché cadde ammalato ed ebbe paura. Sentiva intorno a sé l'odio dei napoletani, temeva di qualche nemico, e forse, se era ancor viva, di madonna Tuscia Gazullo la madre di Alfonso di Bisceglie. Ripeté allora, senza nemmeno fare il confronto, il gesto della sua vittima e si fece mandare da Roma due medici, specificando bene i loro nomi; sotto le loro cure, guardato da gente che gli era fida perché da lui aspettava tutto, cercò di ritrovare sanità e coraggio.

A Roma, Lucrezia meditava sul ritratto di Alfonso d'Este:

era un giovane robusto, dal viso leale, tolta un'ombra di stranezza fra ciglio e ciglio, contrassegnato dal cospicuo naso estense come da un sigillo araldico. I capelli lunghi, spartiti in mezzo al capo e ricadenti in profluvio ondoso sulle orecchie, ingentilivano i lineamenti privi di morbidezze; gli occhi, di un color misto tra il castano il verde e il grigio, non avevano scintilla né acutezza espressiva; ma proprio quell'aria lenta e possente di virilità, e quindi di scarsa disposizione alla mutevolezza delle impressioni sentimentali, doveva rassicurare Lucrezia e darle il convincimento che, compiuti i propri doveri di sposa e di donna, egli l'avrebbe lasciata vivere con se stessa. Doveri, Lucrezia li riconosceva volentieri, se ne circondava come di una catena. Nata e vissuta fino allora fuori legge, niente le pareva invidiabile come essere soggetta ad una disciplina che le desse la misura di quanto fosse rigorosamente difesa la sua posizione sociale. Cambiare stato e paese, sradicarsi, e sia pure con dolore, soffrire a fondo i distacchi delle altre giovani donne nobili, entrando finalmente nel mondo delle regole comuni, le pareva il destino naturale che le era stato finora negato dalla congiura degli astri. Sì, Alfonso, gli Estensi, il castello di Ferrara, tutto andava bene, il conto tornava giusto; ed era inutile svagarsi ponendosi delicati problemi di adattamento e di equilibrio da risolversi poi. Più aveva modo di pensarci, più

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Lucrezia si faceva di Ferrara un Eliso che prendeva maggior pregio dal fatto di aver porte così difficili: e, con una pertinacia. nuova in lei, insistita e ribadita, sollecitava continuamente il padre, perché disbrigasse presto gli accordi delle nozze. Costretto dalle ambasciate borgiane, e soprattutto dalla necessità di aver favorevole il Papa, il re di Francia aveva dovuto mostrar di appoggiare i disegni di Alessandro VI, mentre sottomano faceva con gli Estensi le riserve che si sono viste: ma, passando i giorni, e restando il pontefice arbitro delle sorti francesi a Napoli, anche le riserve caddero, e Luigi XII finì per dire francamente che insomma, se gli Estensi dovevano venire a questa alleanza, cercassero almeno di ricavarne il maggior utile possibile. Era un consiglio tanto significativo quanto superfluo, che servì solo ad inanimire il duca Ercole perché le sue prime richieste dotali fossero così enormi da far ribellare il Papa; ma se Ercole era duro come nemico, era poi come amico durissimo; diceva di venire alle trattative solo per compiacere il re di Francia, e di essere deciso a concluderle se le condizioni fossero tali da soddisfare il suo onore: era, in parole povere, ricordare ai Borgia la distanza che divideva casa d'Este dagli avventurieri spagnoli. Aggiungeva, il duca, di non chiedere poi né cose impossibili, né cose in qualche modo simoniache, poiché, sebbene egli non fosse "pontefice ma secolare e peccatore", nondimeno non voleva far cosa che non fosse "canonica e legittima". Con queste proteste, perfidissime, perché alludevano ai traffici simoniaci del Vaticano, il duca svelava quale fosse il suo animo, quando in quegli stessi giorni scriveva in lettere ufficiali: "Dio ha toccato il cuore a Sua Santità a illuminarla a mettere il suo sangue in casa mia" e "Dio volesse che ne fossi degno". Il Remolino, in gran viaggi da Roma a Ferrara, trattava la nuova parentela col sorriso sul labbro già certo che per vedere Lucrezia contenta il Papa "se ben gli andasse la mitria pontificale" avrebbe ceduto su tutto, non appena si fosse abituato all'idea di dover cedere. Agosto finiva, e i nostri relatori notarono che Lucrezia aveva fatto tirar fuori le sue argenterie ne possedeva a quintali e in esse si faceva servire i cibi: e poiché, secondo l'uso spagnolo di allora, una vedova non aveva diritto di mangiare in vasellame nobile, ma solo in piatti di terra, si dedusse che ella si considerava non solo uscita dall'anno, ma anche dallo stato di vedovanza. Rinverdivano le ghirlande della promessa sposa; ed ella si ordinava il suo terzo corredo, senza smarrirsi, forse, nel confronto con gli altri due, ma anche senza ardere in sogni da fidanzata: volontà, cura, esperienza le suggerivano le scelte migliori, e una sorta di freddezza ambiziosa e lucida che le veniva dritta dal ragionamento la faceva attenta e sagace. Mai ella si era interessata alla politica come allora: dalle sue stanze passava in Vaticano, ascoltava gli ambasciatori, si faceva corteggiare diplomaticamente, inventava uno sguardo che, per venire non dal sentimento ma dall'intelligenza, aveva uno splendore acuto e nuovo. Il Papa, a vederla così, tornava a riamarla, le rinnovava ogni favore, risentiva unita e qui s'ingannava la compagine dei Borgia. E per mostrare agli Estensi il valore della donna che si sarebbero

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presi in casa e per dare a lei una prova stragrande di affetto, pensò di lasciarle, durante un suo viaggio per le terre della Chiesa, il governo del Vaticano con facoltà di aprire tutte le lettere che non si riferissero a cose ecclesiastiche, e di provvedere a suo modo su tutto. Partito Alessandro VI, si vide Lucrezia prendere posto nelle sale Borgia, chinare alle pergamene la testa profumata e gemmata, comporre il pensiero ad idee scabre di governo. Si capisce che per quanto addentro ella fosse nelle intricatissime faccende vaticane finiva qualche volta per smarrire l'orientamento; ma che importava? Importava che tutti la vedessero elevata al grado inconsueto di viceregina del Vaticano. Da parte loro, i cardinali mostravano di avere inteso ottimamente, e di entrare senza scandalizzarsi nello spirito di questa rappresentazione, come seppe dimostrare il cardinale Giorgio Costa, alla prima occasione. Il Costa, magnifico vecchio di ottantacinque anni ("molto stimato a corte, parla aperto contro il Papa, e il Papa se la ride e non gli risponde", così lo descriveva Polo Capello), doveva avere per Lucrezia una stima che partecipava dell'ironia ma anche di una quasi paterna benevolenza, se proprio in quel settembre 1501 egli dichiarava in pieno concistoro di acconsentire a favorire gli Estensi per un riguardo a Lucrezia. E Alessandro VI sapeva quel che faceva, quando prima di partire aveva raccomandato alla figlia di consigliarsi col vecchio cardinale ogni volta che le venissero dei dubbi sulle deliberazioni da prendersi. Infatti, capitato a Lucrezia un incidente, che le parve gravissimo, ella mandò a chiamare il cardinale Costa e gli espose il caso. Ecco il canuto prelato scintillare: ha capito subito che Lucrezia è in equivoco, e si diverte a vederle quel viso serio e intento. La cosa è da considerare, dice; ma, quando il Papa propone in concistoro materia da discutere, c'è sempre qualcuno> il vicecancelliere o altro cardinale, che trascrive proposte e registra voti: bisognerà trovare chi faccia l'ufficio. Zelante, Lucrezia risponde di saper scrivere, lei, e di disporsi volentieri. Allora, "interrogavit Ulisbonensis [il cardinale di Lisbona, il Costa]: Ubi est penna vestra?". All'allusione saporosa che voleva rimettere la figlia del Papa nei suoi limiti di donna, il riso passa dal cardinale a Lucrezia e per tutto il palazzo apostolico se ne tramanda la vibrazione. Tornato a Roma, il Papa, contento del suo viaggio e della prova di Lucrezia, si dispose alla resa, ascoltò con pazienza le condizioni di Ercole, finì per accettarle e per stabilire i patti: la sposa avrebbe portato a Ferrara centomila ducati, i castelli di Cento e della Pieve di quasi altrettanto valore, tolti, contro ogni diritto, alla diocesi di Bologna; gioielli vesti argenterie tappeti broccati arazzi e oggetti preziosi per altri settantacinque mila ducati, più i doni che le sarebbero stati fatti; la riduzione del tributo annuo che Ferrara pagava al Papa, da quattromila ducati a cento; l'investitura di Ferrara per tutti i discendenti in linea maschile di Lucrezia e di Alfonso; l'arcipresbiterato di San Pietro al cardinale Ippolito d'Este terzogenito del duca; e benefici minori. Erano grossi bocconi: e solo guardando il viso di gioia della figlia, il Papa riusciva a passar sopra all'amarezza di quel saccheggio e ad essere, nonché ad apparire, felice. Così,

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mentre Lucrezia cominciava a spogliare Roma e Napoli di broccati e di velluti, come avevano già fatto il duca di Gandia alla vigilia delle nozze spagnole e il duca Valentino alla vigilia delle nozze francesi, si stipulava in Vaticano il 16 agosto 1501 il contratto matrimoniale che il Remolino portava a Ferrara, raggiungendo il duca Ercole in una sua preferita dimora campestre, a Belfiore; e là tra quelle mura dove l'arte vigorosa di Ercole de Roberti aveva lasciato il segno severo e spirituale della sua pittura, il matrimonio fu concluso. Una dorata sera dell'autunno 1501, il 4 settembre, arrivò a Roma, morto di fatica, il messo che portava la notizia delle conclusioni di Belfiore. Tutte le bombarde e i fuochi di Castel Sant'Angelo parvero poco al Papa per partecipare al popolo il nuovo trionfo della sua famiglia: furono fatti "spari e fuochi come per l'elezione del Papa". Lucrezia si risentiva al principio della vita: più pompa possibile, più cortei, più oro, più splendori, ella vuole offrire al marito ferrarese. Comincia il 5 settembre: ordina un corteo di cinquecento dame e cavalieri; si veste tutta d'oro riccio tirato, un tessuto pesante di metallo prezioso, e va, seguita e preceduta da vescovi e fiancheggiata dagli ambasciatori di Francia e di Spagna, verso il tempio prediletto dai Borgia, Santa Maria del Popolo. Affronta la breve scalinata, entra dalla porta rinascimentale e avanza fino all'altar maggiore dove risplendeva di accenti angelici, ombre e luci bianche, la pala marmorea donata alla chiesa da Alessandro VI: qui prega: qui ringrazia la mano divina che l'ha aiutata. Quale fosse la lettera della sua preghiera e quali nomi vi fossero inseriti e in quale significazione sono domande gravose: chissà se vi compariva, e come, il nome del duca di Bisceglie? Non era tempo di malinconie: il ritorno a palazzo, nel color di rosso e di rosa del tramonto romano, fu ancor più trionfale dell'andata, tra due file di popolo che s'era dato la voce della cavalcata, e veniva a godersela, mentre i buffoni di Lucrezia facevano la grida alle bellezze e alle virtù della loro signora: suonava il campanone del Campidoglio, quello che aveva chiamato a raccolta i partigiani di Cola di Rienzo; e stavano per alzarsi, invitati dai primi pallori della sera, gli steli dei fuochi d'artificio. Non era chiuso il giorno, che già correva da Roma a Ferrara la fama della cavalcata e dell'apparizione di colei che era stata chiamata per la prima volta in quell'occasione "duchessa di Ferrara": era vero che duchessa di Ferrara ella non sarebbe stata ufficialmente finché rimaneva in vita il duca Ercole; ma non essendovi nella casa estense la moglie del duca, si poteva, con un minimo di tolleranza, passare alla nuova sposa il titolo del quale i Borgia erano così ghiotti; le si era infatti passato. E "Viva Papa Alessandro! Viva l'illustrissima duchessa di Ferrara! Viva! Viva!" gridavano anche nei giorni seguenti per Roma, mettendoci tutta la loro voce, i buffoni che si erano presi in dono la magnifica veste d'oro che Lucrezia aveva portato per la cavalcata d'onore. Ma proprio quando tutto pareva definito, cominciò per lei lo snervamento del dubbio. Se il re di Francia aveva mostrato di condiscendere alle nozze, scontentissimi erano i veneziani antagonisti di Ferrara, e che si trovavano ad avere ai confini romagnolo e

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ferrarese, alleati, gli Estensi e i Borgia. All'imperatore Massimiliano crescevano le furie per questo imparentarsi degli Este feudatari imperiali per Reggio e Modena con i maggiori responsabili della rovina sforzesca. Si annodavano lente le insidie, rese più gravi di quel che fossero dalle troppe congetture che se ne facevano sopra: ed era evidente che Lucrezia, messa sull'avviso da queste e da quelle difficoltà, aspettava con impazienza gli inviati che il duca Ercole aveva fatto partire da Ferrara sul finire della prima settimana di settembre perché definissero in tutto le questioni dotali. Gerardo Saraceni ed Ettore Bellingeri, espertissimi ambedue nel jiure e nelle arti diplomatiche, giunsero a Roma il 15 settembre scendendo al palazzo di Santa Maria in Portico dove sarebbero stati alloggiati. E così, "senza avviso alcuno, credendo di andare a riposare, fummo condotti alla presenza della duchessa dove benignamente accolti l'assicurammo della ineffabil letizia e grandissima contentezza di V. E. Ul duca Ercole] col singolare amore che li porta', e l'insaziabile desiderio che ha di vederla e le perfette disposizioni di accontentarla: con molte e assai dolci parole. E da S. Signoria [Lucrezial graziosamente e dolcemente e sapientemente ci fu risposto", scrive il Saraceni la sera stessa ad Ercole. Ma, dopo i complimenti, presto si venne agli affari. C'erano da regolare il pagamento della dote, la bolla d'investitura ai futuri discendenti di Lucrezia, la riduzione del censo, e soprattutto la cessione di Cento e della Pieve di Cento. Il distacco delle due terre dalla diocesi di Bologna non si poteva fare senza avere prima l'assenso dell'arcivescovo di Bologna, Giuliano della Rovere; e questo era uno degli ostacoli. Non che l'irruente cardinale di San Pietro in Vincoli fosse ora nemico al Papa, ché, anzi, il 19 novembre 1499 aveva suggellati a Roma i patti e le bolle di accordo con il Borgia e aveva anche acconsentito ad un matrimonio che unisse gli interessi delle due famiglie, tra suo nipote il giovinetto Francesco Maria, figlio di Giovanni della Rovere prefetto di Roma, e la appena dodicenne Angela Borgia, sorella del cardinale Ludovico, e cugina di Lucrezia. Si era sicuri dunque che il Della Rovere avrebbe acconsentito, ma, essendo in viaggio tra Milano e la Francia, bisognava mandarlo a raggiungere da messi di fiducia, ed aspettare la risposta senza impazienza: per questa, come per le altre faccende, la procedura ecclesiastica andava di minuzia in minuzia. Ogni giorno gli inviati del duca di Ferrara vedevano Lucrezia o il Papa, o. tutti e due: quasi mai Cesare, che si rendeva raro, e se riceveva si faceva trovare sdraiato sul letto, lasciando i visitatori, chi più chi meno, sconcertati dai suoi modi che palesavano una sovrumana impassibilità sotto la quale si sentiva guatare, vigilante, un pensiero felino. Manifestava anche lui sentimenti di amicizia, d'affetto anzi per gli Este, è vero; ma il Saraceni ed il Bellingeri si trovavano senza dubbio più in chiaro alla presenza di Alessandro VI e di Lucrezia. Con un senso di stupore che non sapeva se diventare o no ammirazione, essi vedevano la figlia del Papa a fianco di un cardinale, seguita da donne da donzelle da vescovi e da "gente assai", passare dalle sue stanze al Vaticano, incontrata da alti personaggi, per

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esempio l'ambasciatore spagnolo, che le s'inchinavano e le chiedevano come un privilegio di accompagnarla fino al trono pontificio. Là, presso il padre, appena un gradino più in basso, ella trovava il suo posto di principessa, e assisteva al passare delle pergamene dotali e alle discussioni, licenziato tutto il seguito e presenti soltanto i due ferraresi, il segretario papale Adriano Castelli da Corneto, Messer Troche una delle anime nere borgiane, e Agostino Huet familiare di Cesare, il solo degli agenti dei Borgia nel quale il duca di Ferrara avesse fiducia. Oppure, se non era presso il Papa, vedevano Lucrezia sola a Santa Maria in Portico, "star tanto male volentieri a Roma quanto sia possibile", dicevano. E si poteva esser certi che la conversazione sarebbe andata a finire in una domanda, sempre la stessa: quando sarebbero venuti a prenderla da Ferrara? I due ferraresi, da veri avvocati, si davano a cavillose illustrazioni di concetti per farle intendere la verità senza di. chiararle apertamente le intenzioni del loro duca che erano di non muovere un solo cavaliere da Ferrara se tutti i patti dotali non fossero stati prima adempiuti: sempre, poi, con la segreta speranza che il tempo portasse intanto a maturazione qualche cosa che lo liberasse dall'obbligo del matrimonio borgiano. Si facevano dunque a spiegare; e la spiegazione era un rigiro di pretesti. Se il duca di Ferrara, dicevano. non avesse dovuto avere nulla dal Papa, tanto era' il suo desiderio di avere la nuora, che l'avrebbe già mandata a prendere. Ma dovendo avere quanto gli era stato promesso, gli sembrava più opportuno che ogni cosa gli fosse data prima che lei partisse da Roma, in modo che, una volta arrivata a Ferrara, ella non dovesse importunare Sua Santità con le sue richieste. Ricordasse che tutto questo "differire si fa a Suo beneficio": e sollecitasse il Papa a concludere al più presto. Non potendo altro, Lucrezia diceva di rimettersi al "prudentissimo pensiero e giudizio" di Ercole. Ma sobbolliva. Da Ferrara piovevano domande e domandine, poiché nello scrivere e nel pretendere il duca non conosceva limiti né pudori, parendogli di aver fatto abbastanza quando aveva ringraziato Lucrezia e l'aveva chiamata "avvocata" sua. Tra suocero e nuora si iniziava allora una lotta coperta che era determinata dai loro propositi: quello di Lucrezia di forzare il passo, e quello del duca di renderglielo difficile, e farglielo ad ogni modo pagare caro: il duca di Ferrara approvava certo la premurosa sottomissione della nuora ma pensava anche che ella compisse il minimo dei suoi doveri (e un affare per lei) a compiacerlo nelle sue richieste. Fra le quali c'erano, si può dire ogni giorno, domande di privilegi ecclesiastici.

Brevi ai frati cistercensi, brevi per certe decime, brevi per assoluzioni e dispense. Vinceva la freddezza del duca di Ferrara solo certa sua rigida e cerebrale religiosità che lo aveva indotto ad una corrispondenza di spiriti e di epistole con il Savonarola. E si contavano due anni, ormai, da che aveva girato per l'Italia la notizia del rapimento di suor Lucia da Narni santa monaca di un monastero domenicano di Viterbo, rapimento ordinato dal

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duca d'Este. Lei consenziente, e con l'aiuto di un suo fratello, Cassio Brecorelli, la monaca era stata portata via nascosta in una cesta di verdura come in un racconto boccaccesco, suscitando strida e pianti delle monache viterbesi. Giunta a Ferrara, il duca le aveva fatto costruire un monastero tutto nuovo, con due chiostri e una chiesina, rallegrato da un verdissimo orto; e là, dove tutti i venerdì si rinnovavano sulle palme della monaca i segni delle stimmate, egli andava a venerarla e a consigliarsi con lei perfino nelle cose gelose dello stato; forse, presso quel fiammeggiare bianco d'amor divino suor Lucia era davvero nella grande tradizione mistica dei santi umbri il vecchio duca sentiva finalmente la felicità spirituale del disgelo. Ma a suor Lucia, nel bel convento nuovo, mancavano le monache; ed ella faceva tanti pii racconti delle sue compagne di Viterbo, che Ercole, preso dal desiderio di avere un gruppo di donne sante a Ferrara, si decise a mandare a Roma un suo inviato, Bartolomeo Bresciani, con una lista di monache da far traslocare a Ferrara, naturalmente con l'aiuto e l'intercessione di Lucrezia. Come sapessero concordarsi nell'Estense passione religiosa ed avarizia, provavano le parole da lui scritte alla nuora di attendere cioè egli più "alle cose dell'anima come è questa che a le altre, e le cose dell'anima si debbono abbracciare con ogni possibile fervore ed efficacia" a confronto con le istruzioni al suo inviato al quale non si dava denaro perché, le monache venendo a Ferrara al seguito della sposa, "non accadrà fare altre spese per esse".

Il Bresciani, arrivato a Roma l'11 ottobre, trova una Lucrezia anche in questo fervorosa: ella ha già parlato al Papa delle monache e prende su di sé con parole speditive la riuscita della faccenda: farà lei, e in brevissimo tempo. Come il padre, ella è duttile d'intuito, sa prendere l'aspetto e il viso che si adattano meglio al carattere di quelli che vuole conquistarsi; e, se con il Saraceni e il Bellingeri, gente di toga e di penna, si è mostrata donna d'affari, tanto da far loro scrivere al duca informazioni come "la duchessa mi par conosca il fatto suo e non desidera se non soddisfare V. Ex. e il signor suo marito" e "mi pare sia molto prudente e savia e più atta a sbrigare faccende che andar a sollazzo", con il Bresciani che doveva essere più caldo e cordiale, ritrovava la sua gaiezza, gli si mostrava allegra e ridente e finiva per entusiasmarlo. "Ho trovato una madonna gentile e dabbene e ha un ragionare eccellente" scrive fin dal primo giorno il Bresciani a Ferrara. Ma, invece di chiarirsi, l'affare delle monache si va nei giorni appresso intorbidando. Non c'è verso che le donne richieste, sette di Viterbo e due di Narni, vogliano acconsentire a muoversi:

bisogna accerchiarle di lontano, intraprendere la conquista dei padri loro, far venire a Roma, per parlamentare, la priora suor Diambra, con la sua compagna suor Leonarda. Le due domenicane arrivano accompagnate da frate Martino ex confessore di suor Lucia, protestano col padre generale del

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loro ordine, affermano che le suore "per esser belle e di buon parentado" non saranno a nessun patto fatte partire così "alla abbandonata" dai loro familiari. A San Pietro, sotto l'altare della Veronica, le incontra il Bresciani guardato malissimo dalla priora che lo accusa di voler disfare il convento di Viterbo. Infine, Lucrezia le fa chiamare dal Papa che lancia loro dall'alto del suo seggio un "siete mandate a Sua Signoria il duca di Ferrara" che le lascia lacrimanti ma non persuase. Due giorni dopo, con la scusa che il Papa non ha definito il numero delle monache che partiranno, ricominciano la difesa: suor Leonarda non verrà perché ha la madre vecchia e inferma; suor Beatrice è sciancata; suor Felicita è idropica, suor Apollonia "mai i suoi lascerebbero andare": offrivano dunque di mandare quattro monache. "La III.ma madonna ed io siamo stati in battaglia con queste monache ostinate più che il diavolo" dice il Bresciani; e narra di Lucrezia, "questa madonna graziosa", che aveva usato "rabbuffi e piacevolezze per potere voltarle", parlando "con tanta umanità che non si potrebbe di più". Ma quelle, dure. Infine Lucrezia vinse, e si ebbe le nove monache, le sette di Viterbo compresa la sciancata che non era sciancata e l'idropica che non era idropica, le due di Narni, più due secolari: andò il Bresciani stesso a Viterbo e se le condusse dietro trionfante.

Qui il Saraceni e il Bellingeri, e il Bresciani, e la corrispondenza appuntata sulle righe del protocollo con il duca Ercole; là il Papa e il Valentino, presenze di peso; nel palazzo di Santa Maria in Portico, il piccolo Rodrigo di Bisceglie; Lucrezia aveva da manovrare fra problemi di ogni qualità; e dopo aver discusso, ricevuto, scritto e pensato e provveduto tutto il giorno, cambiava anima nelle feste che il Papa dava quasi ogni sera per lei in Vaticano. Insieme col Valentino, tutto pace ed amore per la sorella, ritrovava i ritmi delle danze francesi romanesche italiane e spagnole, e li seguiva con la felicità di chi si sente liberare dalle cure terrestri per grazia di un'arte difficile: danzava tanto da farsi venire la febbre, ma poi, partendo il Papa e arrestandosi la successione delle feste, ritornava a star bene e ad essere inquieta; due volte fu lasciata dal padre arbitra delle faccende vaticane e certo perché i ferraresi la vedessero, come la videro, insediata in quell'ufficio. Eppure le cose stentavano. Il 10 novembre il Papa aveva mandato ad Ercole, in nome proprio e del duca di Romagna, Agostino Huet, per úi i luoghi di Russi Granarolo e Solarolo che gli consegnarono si davano in pegno fino a che non fossero compiute le trattative di Cento e della Pieve. Ercole aveva anche tentato il colpo di far includere nei pegni Porto Cesenatico, evidentemente per metter mano anche per breve tempo su un porto dell'Adriatico, ma Alessandro VI aveva rifiutato, né durante il corso delle trattative si era potuto tenere dal dire "che V. Ex. non procedesse da mercante". Facesse pure l'offeso il duca d'Este, lo sfogo era naturale al Papa che si sentiva troppo premuto dalla stretta estense. La "ciera turbata" e la "furia" del Papa mentre si sfogava col Saraceni e col Bellingeri finivano però

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col durare poco, sentendosi egli sempre il più forte. Ma a fine novembre accadde un incidente grave. Si trattava dell'imperatore Massimiliano, il quale aveva fatto seguire le lettere irose dell'agosto da un'ambasciata portata a Ferrara dal suo segretario, il lombardo e sforzesco Agostino Semenza, ostilissima al matrimonio di Lucrezia e di Alfonso. Spedita a sua volta dal duca Ercole a Roma la relazione di quell'ambasciata con quella della sua risposta, il Papa andò in furore: se la prese con tutti, con il Semenza che s'era inventato lui, diceva Alessandro VI, l'ambasciata, con il duca Ercole che l'aveva ascoltato senza cacciarlo via, ed infine con l'imperatore del quale diceva di non aver paura. Tutta casa Borgia fu sossopra per l'intervento imperiale si sentì il duca Valentino pronunciare parole altere. Lucrezia, invece, si faceva vedere "molto afflitta e attristata" per queste cose: "Anche lo Ill.mo Don Alfonso" dice il Saraceni, le aveva scritto "circa questo molto a proposito al quale S. S.ria risponde". Questa lettera, oltre l'affanno di Lucrezia, sta a provare che, al contrario di quanto finora si è creduto, esisteva fra Lucrezia e il fidanzato estense una corrispondenza epistolare diretta; non che questa dovesse essere tale da portarli l'uno verso l'altro e avvicinarli in un primo tentativo di conoscenza reciproca, limitata com'era a complimenti d'etichetta e a trattazioni di affari; ma che sia esistita in qualsivoglia termine, è senza dubbio per Lucrezia un'umiliazione di meno. Se ella domandasse poi informazioni su Alfonso ai ferraresi non si sa, e forse non lo faceva perché essi l'avrebbero riferito nelle loro minuziose relazioni al duca: era invece il Papa a tirar sempre fuori il discorso del genero. Era vero che fosse bello e ben fatto, e perfino più alto del duca Valentino? Gli piaceva l'esercizio delle armi? E, domandava Alessandro VI, perché mai se ne stava "così tacito"? "A S. S.tà pareva che gli si dovesse avere rispetto avendosi a fare faccende", chiedere cioè la sua opinione, e che insomma S. S.tà avrebbe pensato lui "a provvedergli". Abituato a subire senza spiegazioni il dispotismo del figlio Cesare, "un poco stranetto" come egli stesso lo definiva con una peritanza timorosa, gli dovevano sembrare quasi innaturali i limiti netti che dividevano in casa d'Este gli attributi del duca regnante da quelli del suo stesso erede. Intanto arrivavano a ondate a Ferrara lettere che si riferivano al matrimonio: Lucrezia, ricevuto dal re di Francia un foglio di congratulazioni con due parole autografe del re, si affrettò a farne copia e a mandarla agli Estensi, ai quali dovette fare mediocre impressione: più grati erano forse i dispacci le congratulazioni e le assicurazioni che sia gli inviati ferraresi, sia persone autorevoli di ogni nazionalità mandavano agli Estensi. Tutti gli amici di Lucrezia si erano fatti avanti per garantire di lei: il cardinale di Salerno aveva scritto di propria mano grandi elogi; un agente spagnolo, Giovanni Martinez, aveva riferito al Saraceni l'ottima opinione che i reali di Spagna avevano della figlia del Papa che riguardavano "come figliola"; e per suo conto l'ambasciatore di Spagna mandava in ottobre da Roma rallegramenti incondizionati e parlava della sposa in tono lirico dicendo riunite in lei "eccellenti virtù, ottime maniere e degne qualità". Ercole

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ringraziava, e con l'ambasciatore usciva in una frase curiosa: diceva di credergli non solo per la sua testimonianza, ma anche per la testimonianza di molti altri che definivano Lucrezia "virtuosa". Sulla parola "virtù" insistevano tutti. Alfonso d'Este leggeva le lettere: leggeva e s'imbruniva. "Don Alfonso ha ben avuto una grandissima mosca [broncio]," diceva un suo familiare "ma bisogna avere pazienza." In questa pazienza egli si esercitava dando conviti al padre e agli amici, e svagandosi nei preparativi per i quali già si cominciava a "spendere alla gagliarda" da uomini e donne della casa ducale. Cominciava in giro il discorso delle vesti ordinate dalle dame, per esempio una di panno lionato che aveva "del superbo e del galante" per madonna Angela d'Este, che era fra le più belle dame del ducato; si diceva che madonna Diana d'Este, ancor più bella, lei, di Angela' si metteva in ordine di parata; e che Lucrezia d'Este la primogenita illegittima del duca aveva ordinato tredici abiti di broccato d'oro e d'argento. Ma il discorso più frondoso è sulla sposa. é una delle più galanti dame che esistano, assicuravano quelli che l'avevano vista; e che è bellissima e che è ricca, aggiungevano altri: "Dio voglia che sia così" concludeva il coro speranzoso dei cortigiani. Le donne si passavano informazioni sui vestiti e sulle fogge della nuova duchessa: si sapeva per esempio che ella si ornava in un modo fastoso ma non sovraccarico e che usava aggiungere alle scollature degli abiti una pettorina o "gorgerina", di velo chiaro il più delle volte bianco, che le copriva il petto fin quasi alla gola. Più che un segno di verecondia in allarme, era, questo, un accorgimento d'eleganza per isolare il viso dai riflessi troppo impegnativi dei tessuti laminati o allucciolati, o da quelli, troppo schiaccianti per una creatura fragile, dei velluti, e perché, in virtù di quella pausa, si alzasse di tono l'impasto roseo della pelle e delle gote, illimPidisse l'azzurro grigio degli occhi, riprendesse splendore e libertà l'oro dei capelli (Lucrezia portò gorgerine, variandole, per tutta la vita). Si sapeva che ella non acconciava i capelli in riccioli ma semplicemente sciolti sulle spalle, appena ritenuti in treccia, o pettinati in quella semplice foggia che si vede sia nell'affresco del Pinturicchio alle Stanze Vaticane, sia nella medaglia fatta a Ferrara e detta dell'Amorino bendato. E qualcuno descriveva il suo portamento tutto di spalle, diritto, dignitoso: "porta la persona con tanta soavità che par non si mova"; camminava, cioè, con la sostenutezza e la grazia muscolare delle danzatrici. Passano i giorni: il Papa loda Ercole, loda Alfonso, chiamando l'uno un grande duca e l'altro un bellissimo giovane; loda Ferrara; loda la sorella di Alfonso, Isabella d'Este Gonzaga, "innalzandola sino al cielo di virtù e di bellezza" e la cognata di lei, Elisabetta Gonzaga duchessa d'Urbino paragonandole a Lucrezia; concedeva, mandava, prometteva, faceva ammirare le meraviglie del corredo della sposa, specie le perle che ella amava e che riempivano i suoi forzierini A vedere tanto sperpero di ricchezze c'era però chi mormorava; un cardinale, per esempio, che non ebbe scrupoli di dire in viso ad un ferrarese parole di biasimo sulla enormità delle concessioni dotali fatte dal Papa e pagate, in massima parte,

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dalla Chiesa. I Borgia non rispondevano neppure. Avevano studiato da un pezzo l'itinerario della comitiva che sarebbe venuta giù da Ferrara passando per la Toscana e avrebbe fatto poi, al ritorno, la via della Romagna attraverso le terre del duca Valentino il quale, come aveva riferito don Ramiro de Lorqua governatore della Romagna, voleva che la sorella si fermasse in tutte le città del suo ducato, e specialmente a Rimini. Si erano fatte anche liste e listine della comitiva personale della duchessa, prima di tutte quelle delle donne e donzelle che andavano a Ferrara con il proposito di rimanervi e formare il nucleo della corte personale di Lucrezia. Temendo una corte troppo numerosa di gente forestiera, il duca Ercole aveva fatto avvertire la nuora che non portasse molte donne perché a Ferrara avrebbe trovate infinite fanciullie della nobiltà per sua compagnia; ma Lucrezia, pur facendo mostra d'obbedienza, aveva radunato una ventina di donne, senesi perugine spagnole napoletane e romane; fra queste pare che ci fosse una ragazza amatissima dal Valentino e chiamata dal poeta Evangelista Capodiferro, Drusilla, forse la Camilla romana nominata dai documenti. Dame nobili, poche: se ne contavano solo tre, Adriana Mila sempre vittoriosamente alla testa degli avvenimenti con la tenacia di certe donne mature piene di salute e di convinzioni, Jeronima Borgia moglie di Fabio Orsini, e Orsina Orsini, moglie di Francesco Colonna il mite cavalleresco signore di Palestrina che sperò forse, ma invano, di risparmiarsi, con questo atto di omaggio alla figlia del Papa, la confisca dei beni che la sua famiglia stava subendo dai Borgia. Oltre le donne, Lucrezia si portava dietro una corte numerosa, capeggiata dal maggiordomo Lorenzo Lanni, e composta del segretario Cristoforo Piccinino, di un maestro di sala, due cappellani, guardarobiere, baciliere, e sarti cuochi fabbro sellaio credenziere sorvegliante lettore ("Martin che legge il libro") dieci palafrenieri dieci paggi cinquanta mulattieri e gente di corte; e si ritrova qui il nome di quel Navarrico antico familiare dei Borgia, messaggero fra Giulia Farnese e Alessandro VI al tempo del gran capriccio papale del 1494. Il seguito maschile della nobiltà era splendido: quattro oratori avrebbero rappresentato Roma, delle case Del Bufalo, Paluzzi, Massimi, Frangipane; c'era don Giulio Raimondo de Mila nipote del Papa, Ranuccio Farnese cugino di Giulia, Francesco Colonna da Palestrina con un seguito personale di venti persone, gente dei Fabi dei Tamarozzi dei Crescenzi dei Marcello dei Pichi. Quanto a prelati, Lucrezia avrebbe avuto con sé tre vescovi, di Venosa, di Carinola e di Orte, e aveva fatto pesare come cosa inconsueta e grandemente onorifica che sarebbe andato ad accompagnarla, almeno per tutto il territorio della Chiesa, un cardinale, Francesco Borgia arcivescovo di Cosenza: anzi, riferiva il Saraceni, Lucrezia gli aveva confidato di sperare che il "cardinale venirà insino a Ferrara perché fu fatto cardinale per istanza di S. S.ria [Lucrezial ed è una bona persona di casa Borgia: e vecchio". Cesare Borgia mandava i suoi gentiluomini, duecentoVenti, con l'incarico di fermarsi a Ferrara per aspettarvi Carlotta d'Albret che avrebbe dovuto arrivar giù di Francia,

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richiamata insistentemente da Alessandro VI perché si stabilisse col Valentino nel ducato di Romagna, mettendo così nel nuovo stato borgiano il suggello della famiglia e della dinastia. Fra gli uomini di Cesare c'erano spagnoli, don Ugo di Moncada che doveva diventare più tardi il primo viceré del regno di Napoli, don Giovanni Castiglio, don Francesco Ventimiglia, uno dei Marrades, Giovanni o Francesco, carissimi tutti e due ai Borgia, il navigatissimo Michele Remolino che aveva condotto le trattative per il matrimonio fertarese, Don Jofré de Mila altro nipote del Papa. Francese era monsignor d'Allègre, senza dubbio quell'Ivo d'Allègre che aveva corso l'Italia dalla calata di Carlo VIII in tante avventure di guerra e di galanteria; italiani erano invece, romani, napoletani o di altra provincia, Domenico Sanguigna, Mario e Virgilio Crescenzi, il cavaliere Orsini, G. B. Mancini, Gian Giorgio Cesarini, Ottaviano da Campo Fregoso, Gentile da Napoli, Marco Antonio da Napoli, Giuliano da Cosenza, Tiberio Brandolini e molti altri. Compiva la compagnia un gruppo di venti trombettieri, quattro buffoni spagnoli, un musicista, Niccolò da Padova, con un suo compagno, in tutto duecentoventi cavalieri che con quelli di Lucrezia avrebbero formato un seguito di più che cinquecento persone. Anche la comitiva ferrarese sarebbe stata ampia e nobilissima, dicevano il Saraceni e il Bellingeri, anticipando i nomi che avrebbero figurato nella lista; ma benché l'intervento dell'imperatore Massimiliano non fosse stato che una sparata senza conseguenze, da Ferrara non si muoveva nessuno. Inutile sperare di essere.là per Natale, ormai: era passato ottobre, passava novembre, si era alle porte di dicembre e tutto stagnava; Lucrezia cercava di sorprendere la verità negli occhi dei ferraresi, e intanto seguiva la sola tattica abile, mascherando di dolcezza la volontà che sentiva ogni giorno più risoluta di lasciare presto Roma. L'accoramento le giovava, ed ella d'istinto v'inclinava con una mansueta tristezza: e un giorno, alla presenza di monsignor Sabbino disse al Saraceni che se non avesse sposato Alfonso d'Este aveva in animo di non voler più sentir parlare di nozze, e di volgersi ad altra vita, di chiesa: e il monsignore, citato come testimonio di questi propositi, li confermava. Giorni fra nebbia e sole: e c'era per di più la spina di Rodrigo di Bisceglie, il piccolo aragonese che muoveva le sue corsettine infantili tra le mura del palazzo di Santa Maria in Portico. Lucrezia aveva (deciso su di lui) tra l'amor materno e la ragione tenendo da questa parte. E un giorno, a Gerardo Saraceni (il problema del duchetto di Bisceglie dava ombra a Ferrara) s'era fatto trovare certo di proposito il bambino nelle stanze della madre, per avviare così semplicemente un discorso scottante. Allora Lucrezia, facendo forza alla sua voce, era riuscita a dichiarare all'inviato ferrarese che il bimbo sarebbe rimasto a Roma: che avrebbe avuto una rendita di quindicimila ducati annuì, tanto ricco dunque, da non dar pensiero per il suo avvenire; e che la sua tutela sarebbe stata affidata allo zio Francesco Borgia cardinale di Cosenza. Tutto dunque era risolto. Il piccolo Rodrigo si legava a casa Borgia e, aumentando la fortuna della sua casa, sarebbero aumentate le sue. Già il Papa, con una bolla del 17

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settembre 1501, gli aveva assegnato Sermoneta tolta ai Caetani con la corona delle terre e dei castelli vicini che figuravano acquistati da Lucrezia per 80.000 ducati pagati alla,sede apostolica. Gli altri possedimenti di Lucrezia verso Civitacastellana e nei Castelli Romani, con Nepi al centro, erano stati ceduti quel giorno stesso e con la stessa bolla ad un altro bambino della casa, Giovanni Borgia, l'oscuro Infante Romano.

L'ambigua fatalità dell'Infante sta nella coincidenza delle date che annunciano la sua presenza nel mondo. Al primo di settembre 1501 mentre a Belfiore si concludeva il matrimonio estense di Lucrezia, il Papa sottoscriveva una bolla, anzi due bolle; nella prima egli rendeva nota la legittimazione del nobile Giovanni Borgia, Infante Romano, come nato tre anni prima dal duca Valentino e da una donna libera; nella seconda, ritrovando il procedimento già usato al tempo dell'elezione di Cesare a cardinale, si riprendeva la paternità del fanciullo e lo dichiarava nato da lui e dalla stessa donna libera, e questo, diceva, per togliergli qualsiasi impedimento al possesso futuro dei beni che gli spettavano di diritto. Che cos'era questo schermeggiare e perché messo i peccati? "Le leggi in opera se non per coprire e riparare, canoniche" scrive il Gregorovius "proibivano al Papa di riconoscere un figlio": ma il Pastor che si è informato alla fonte, e cioè dai canonisti vaticani, gli obietta che non esisteva nessuna legge di questo genere. Poté essere un tentativo di salvaguardare almeno formalmente la dignità pontificia; certo la seconda bolla restò segreta se il bambino fu creduto negli anni immediatamente seguenti, sicuramente fino al 1508, figlio del duca di Romagna, imbrogliando le cose tanto da non farlo riconoscere in certi suoi passaggi per lo stato ferrarese. Più tardi, e certo nel 1517, invece, egli sarà ufficialmente figlio del Papa, fratello minore di Lucrezia. Per che cosa possa entrare Lucrezia in questo intrigo, parrebbe difficile supporre: avrebbe avuto una risposta da dare, lei, a chi si domandava chi fosse la madre dell'Infante? "Una certa romana" dice il Burcardo, e su questa indicazione qualcuno ha creduto di poter fare il nome di Giulia Farnese: ipotesi stordita. Non ci sarebbe stata ragione infatti per Giulia, regolarmente maritata e con un marito che aveva così bene accettato di essere paziente, di far trafugare e nascondere un figlio, quando, al contrario, ella faceva volentieri parlare di paternità borgiana riferendosi alla piccola Laura Orsini la quale, forse, non aveva nemmeno un filo del sangue di Alessandro VI. Negli anni che seguirono poi, nessuno dà notizia che Giulia si occupasse del fanciullo borgiano: e sì che avrebbe potuto farlo, essendo vedova, o almeno avrebbe potuto lasciarlo fare da una che aveva modo di coprire questo interessamento con ragioni di parentela, Adriana Mila. Chi se ne occupò invece, costantemente, e prese su di sé affanni e pesi della sua educazione, fu un'altra: Lucrezia. Le storie dei Borgia sono così pericolosamente congegnate che, dove cade un sospetto leggero, sorge subito un sospetto grave; e qui la gravità va tanto in profondo, da precipitare

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in un momento l'immaginazione e il giudizio di chi non si tenga fermo al gioco dei documenti. Da tali documenti una cosa si rivela certa: e cioè la concordanza delle date tra la bolla pontificia di legittimazione dell'Infante> e il dispaccio che informava della nascita di un bambino spurio di Lucrezia: qui e là è il medesimo 1498. C'è relazione, identità, anzi, fra le due nascite? L'Infante era nato da Lucrezia? Ed ha un significato che la legittimazione sia avvenuta nel settembre 1501 proprio mentre si concludevano i patti nuziali con gli Este, quasi che si fosse voluto con quel documento a doppio schermo togliere ogni ombra sulla figura della fidanzata? Lucrezia, andando alle nozze ferraresi, ordinò la divisione in parti eguali dei suoi beni fra Rodrigo di Bisceglie e Giovanni Borgia; e da documenti fino ad oggi inediti apprendiamo che lei proteggeva tanto l'Infante Romano, da farselo venire a Ferrara, quando avvenne la catastrofe borgiana, per tenerlo presso di sé e sorvegliare la sua crescita. Era, insomma, il suo, amore di sorella, di zia, o di madre? E si dovrà rifare qui il nome di Pedro Calderon e ricordare l'infelicissimo amore di Lucrezia con il cubicolario assassinato da Cesare sotto gli occhi del Papa? Non sarebbe certo strano che Alessandro VI per liberare la figlia nel futuro, e per darle modo di occuparsi del bambino e farlo partecipare alle fortune dei Borgia, l'avesse inserito con una legittimazione nella schiera dei figli suoi propri. Il fatto che più tardi gli Este permetteranno a Lucrezia sia pure malissimo volentieri e manifestando una tolleranza non del tutto benevola di tenersi a Ferrara il fanciullo, dimostra che se essi avevano contro di lui ragioni di poca simpatia non erano però ragioni nefande. E dico nefande per venire risolutamente all'ultimo sospetto che sta sull'Infante: essere lui cioè il figlio del Papa e della donna romana libera (aveva allora divorziato dal signore di Pesaro) che sarebbe stata Lucrezia. Ipotesi così fatte, oltre ad essere mostruose, sono di difficile discussione, poiché s'immagina bene che i documenti non le provino: e quanto agli argomenti induttivi è questo, e mai, il momento di guardarsene. Comunque, una verità di questo genere non porterebbe a snaturare i significati nella storia dei Borgia; e ad ammetterla, però, che senso avrebbe l'episodio degli amori fra Pedro Calderon e Lucrezia? Se lo spagnolo non fosse stato responsabile della maternità di lei, a che la sua morte? Si dovrà congetturare che il Calderon sia stato colpevole di sapere troppe cose, e messo a tacere per questo? Il mistero dell'Infante Romano si può indicare nei suoi termini, ma risolvere no; e forse è meglio per tutti, Lucrezia compresa. Una densa ventata di energia composita si leva in questa fine del 1501 dalla Roma dei Borgia. Il Valentino trascorre dal Vaticano al campo militare di Romagna, arrivando qua e là subitaneo e così scomparendo. Nella cancelleria apostolica si distillano le bolle di legittimazione dell'Infante Romano, e le bolle per le concessioni dotali alla sposa Lucrezia e sempre per lei le fratesche concessioni di privilegi ecclesiastici destinati ad appagare l'avida religiosità del duca di Ferrara. Nel palazzo di Santa Maria in Portico si ostenta una minuziosa operosità femminile e cortigiana incorniciata da un rosario di

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preghiere; e nello stesso tempo scoppiano bramosie che vorrebbero includere ogni senso vitale e che si esprimono in affocate scene come la cena delle cinquanta cortigiane. Avvenne la sera del 31 ottobre, vigilia d'Ognissanti, nelle stanze del Valentino in Vaticano. Il Burcardo ci dà la data; e la stessa data conferma uno svelto informatore fiorentino Francesco Pepi raccontando di un malore che aveva impedito al Papa di scendere in San Pietro per le funzioni dei Santi e dei Morti: "non però" aggiunge "gli impedì domenica, vigilia d'Ognissanti, di vegliare fino a dodici ore di notte con il duca Valentino, il quale aveva fatto venire in palazzo cinquanta cortigiane "cantoniere" e tutta la notte stettero in veglia in balli e riso", L'informatore fiorentino fa i nomi del Papa e di Cesare; ma interviene il Burcardo e raccontando la scena nel suo puntiglioso latino cronachistico aggiunge il nome di Lucrezia come terzo convitato di famiglia. Era domenica, di sera; si cenò lietamente: a cena finita entrarono le cinquanta cortigiane e cominciarono a danzare a ritmi di musica con servitori e giovani di casa; prima vestite, e poi nude "primo in vestibus suis deinde nude", Crescendo la notte, la scena si arroventa; e il regista della festa ad un certo momento fa mettere in terra i candelabri della mensa, accesi. Restano in ombra i commensali; e tra le fiamme basse delle candele le donne nude, carponi "super manibus et pedibus" devono raccogliere in gara le castagne lanciate sul pavimento: assistono e incitano il Papa, Cesare, e "domina Lucrezia sorore sua". Per il finale si immagina una gara con doni di vesti di scarpe e di berrette per chi si sarà congiunto con più meretrici; le quali sono così "in aula publice carnaliter tractatae arbitrio presentium"; e i premi distribuiti ai vincitori. Chi ha seguito fin qui gli accordi fra gli Este e i Borgia e ha visto con che impaccio procedessero, non riesce a trovare relazione fra una Lucrezia ansiosa di mostrarsi perfetta, una Lucrezia che mobilitava tanti suoi amici perché scrivessero di lei ad Ercole d'Este, martellando sulla parola virtù, con questa Lucrezia della vigilia di Ognissanti. E prima di tutto, oltre ogni questione di moralità, ci si domanda come mai ella affidasse la sua fama al segreto delle mura vaticane senza pensare che ci fosse rischio grosso a farsi vedere da servitori e da cinquanta donne dedite ad una professione commercialissima; in quei giorni aveva alle spalle gli inviati ferraresi, dei quali almeno due abitavano sicuramente nel palazzo di Santa Maria in Portico: qualunque discorso poteva arrivare alle loro orecchie. Le corrispondenze quotidiane del Saraceni del Bellingeri e del Bresciani che la sera del 31 ottobre scriveva ad Ercole d'Este di aver visto Lucrezia quel giorno e di averla trovata "gagliardissima" nel servirlo e nell'ubbidirlo, non accennano neppure vagamente a questa cena. Si dovrà dunque dubitare che sia avvenuta, ed attribuirla magari ad una leggenda nata nelle anticamere del Vaticano e diffusa poi volentieri tra i nemici dei Borgia? O la cena avvenne, ma fu solo tra uomini del Valentino, una sfebbrata di calore nella quale si liberavano gli umori sanguigni di gente d'armi fra una guerra e un'altra? Potrebbe darsi che Lucrezia sia stata invitata dal fratello alla prima

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parte della cena, e che poi, ella assente, si sia proceduto alla seconda parte del programma. Ci sarebbero ragioni di sostenere che l'informazione del Burcardo pecchi di inesattezza e che ad ogni modo non sia sufficiente a costituire un'accusa, se non si trovasse nel diario burcardiano, a pochi giorni di distanza, la narrazione di un altro episodio dello stesso colore. L'undici novembre 1501, di mattina, alcuni legnaiuoli conducevano verso porta Viridaria due giumente cariche di legna, quando presso il Vaticano si videro circondati da servitori del Papa che, liberate le bestie dal loro peso, le rinchiusero nel primo cortile del palazzo apostolico: dove, fatti uscire quattro stalloni dalle scuderie, avvenne una selvaggia scena di monta che da una finestra sopra la porta del palazzo il Papa e Lucrezia guardavano "cum magno risu et delectatione". é difficile negare tutto: sia il Burcardo maligno quanto si vuole, si deve ricordare che il cerimoniere di Strasburgo teneva ad essere preciso ed esatto anche di fronte a se stesso; non solo, ma che, a voler imbottire il suo libro di testimonianze contro i Borgia, avrebbe potuto, appena liberando la mano, avere il giuoco, facilissimo. é vero invece che egli di Giulia Farnese parla appena, e quasi mai di Vannozza, e mai del divorzio di Giovanni da Pesaro con Lucrezia, tutti scandali maneggevoli che facevano mulinare cervelli e discorsi in Vaticano e per Roma. Raccontando la scena dell'11 novembre e la cena delle cinquanta cortigiane, egli non avverte come altre volte di non essere stato presente, e ciò fa supporre che assisté all'una e all'altra scena magari dal filo di una porta socchiusa o dietro lo sportello di una finestrina. Non può essere una calunnia il racconto burcardiano: del resto confermato non solo dal fiorentino Francesco Pepi ma anche dallo storico umbro Matarazzo e da quel veemente atto di accusa contro i Borgia noto col none di "lettera a Silvio Savelli".

Non si insisterà ancora una volta sulle drogature pesanti del sangue di Alessandro VI. Ma solo con l'immedesimazione carnale nelle creature nate da lui, si può spiegare lo stato mentale che univa senza scosse padre e figlia mentre assistevano a scene di quella qualità: e non si dimenticherà un'altra cosa, essenziale: se essi vi assistevano avendo trascorso i limiti dei pudore e del riserbo, le sapevano guardare, però, con un distacco altero, come spettacoli fuori dell'ordinario che potevano divertire per un momento le loro immaginazioni, ma che non sarebbero mai arrivati a sminuire in nessun modo la loro superiorità di principi. "Alle nostre pari" dirà in tutt'altra occasione ma con lo stesso spirito orgoglioso la duchessa d'Urbino "è lecito ciò che non è lecito alle altre, per non essere noi soggette a censure." Il Burcardo, poi, parla di queste due scene come di due fatti isolati, ché se fossero stati più frequenti non avrebbe mancato di registrarli; e pensando che esse avvennero nell'ultimo periodo di fidanzamento di Lucrezia, mentre ella attendeva da un giorno all'altro di essere condotta a Ferrara, potrebbe venire in mente di interpretarle come spettacoli di iniziizione matrimoniale che non avrebbero offeso una donna già sposata due volte. Dati i tempi e i

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costumi che non rispettavano, specie nelle case principesche, i segreti di alcova, non parrebbe cosa tanto assurda: vedremo che il Papa si augurava con insistenza quasi maniaca la fecondità delle nozze della figlia, e che lo stesso Ercole d'Este, rigido e religioso com'era, aveva ordinato in occasione delle feste nuziali a Ferrara una commedia "sporcissima" fra le altre che non erano pulite. Rappresentazione per rappresentazione, insomma: quella, di un realismo bruto, questa, trasferita in azione teatrale.

Né del 31 ottobre, né dell'11 novembre a Ferrara si mostrava di saper nulla. 1Ma l'anno stava per finire, si entrava in dicembre, ed Ercole d'Este invece di mandare a prendere la sposa chiedeva benefici ecclesiastici per don Giulio, il suo prediletto bastardo, e, addirittura, il cappello cardinalizio per il suo stretto consigliere il toscano Gian Luca Castellini da Pontremoli. Ad osservare l'indugio, non c'era chi in Italia si tenesse dalle chiacchiere, fiutando cose torbide: lo sapeva il Papa, e se ne lagnava: e lo seppe anche Ercole che fu costretto a mandare al suo oratore fiorentino una lettera di spiegazione sull'indugio della comitiva, perché si fermassero le ciance in corso a Firenze. Secondo il duca, si ritardava solo perché i gentiluomini non erano ben pronti avendo dovuto mutare l'equipaggiamento di panni da mezzo tempo in panni invernali. La resistenza estense era però agli ultimi atti: già Ercole, che aveva in novembre fatto sapere confidenzialmente all'imperatore Massimiliano che, essendo avanzata la stagione e malsicure le strade, teneva per certo di aver scampato fino a primavera il matrimonio borgiano, gli faceva scrivere dichiarando di non potere assolutamente rimandare le nozze senza venire in aperta e manifesta rottura col Papa. Dava intanto gli ordini definitivi ai gentiluomini ferraresi, scriveva a Lucrezia di sollecitare il compimento dei patti matrimoniali perché "ogni indugio porta pericolo"; e, messo da parte il parlare cerimonioso, imponeva ai suoi inviati che stessero attentissimi alle conclusioni papali, poiché egli era uomo da far tornare indietro la comitiva senza la sposa, se le cose non fossero andate a suo modo. E finalmente doveva venire il momento; tutto era pronto, tutto concesso, tutto compiuto; non avendo più ragione per differire, il duca Ercole fu costretto a dare il via: l'8 dicembre 1501 partiva da Ferrara l'avanguardia della cavalcata nuziale composta degli spenditori e dei siniscalchi che provvedevano l'alloggio e il cibo per la compagnia, la quale, secondo l'uso, viaggiava ospite dei territori attraversati. E il giorno dopo, il duca di Ferrara, montato a cavallo, si diresse insieme col figlio Alfonso verso il bel palazzo della Certosa, dove aveva stanza il cardinale Ippolito, terzo genito del duca. Ad Ippolito, appunto, insieme con i due giovani fratelli don Ferrante e don Sigismondo d'Este, era stato dato l'incarico di guidare la comitiva nuziale, lo sposo rimanendo a Ferrara: poi, mentre Lucrezia condotta dai due Estensi sarebbe venuta a tappe verso la sua nuova patria, il cardinale si sarebbe fermato a Roma. Quella mattina, 9 dicembre, i cavalieri d'onore della nuova duchessa si misero in ordine di marcia, attraversarono la città, passarono

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ammirati dal popolo per la piazza grande davanti alla cattedrale, arrivarono fino al ponte di Castel Tedaldo sul braccio del Po che cingeva le mura di Ferrara come un ampio fossato di difesa: qui il duca Ercole ed Alfonso, che avevano accompagnato la cavalcata, si arrestarono; e, salutati il cardinale e i fratelli, stettero a guardare la sfilata che spariva galoppando per la via di Bologna. ci si era davvero, ora, nell'avventura, né le inquietudini erano tutte finite; ma il duca, tornando al castello, doveva rassicurarsi pensando di avere spedito gente tanto abile e fida e sottile che nemmeno i Borgia sarebbero riusciti a sopraffarla.

La testa sulla quale il duca Ercole contava di più era quella del suo consigliere l'avvedutissimo gobbo Gian Luca Castellini da Pontremoli, colui che sapeva ogni cosa sul prossimo matrimonio, sugli animi e sui dubbi estensi, e ogni cosa, parola per parola giuridicamente, delle lunghe trattative che aveva discusso per conto del duca con i ministri del Papa. Molto si poteva far caso anche di Niccolò da Correggio, gentiluomo che equilibrava in sé qualità di uomo di guerra, di consigliere politico, di poeta e di umanista, e del conte Uguccione dei Contrari, primo barone del ducato e marito di diana d'Este, cugina di Alfonso. Ercole fidava meno nei propri figli, troppo giovani (Ippolito aveva venticinque anni e Ferrante ventitré) e sconosciuti ancora al suo giudizio come la maggior parte dei figli ai loro padri; ma sapeva che, come estensi, e sotto la guida dei loro consiglieri più anziani, avrebbero d'istinto condotto bene le cose. Sicuro di questo, anche per una mente severa come quella di Ercole c'erano motivi di soddisfazione a rifare col pensiero la lista dei nobili che componevano il resto della comitiva: c'erano, oltre i figli del duca, tre rappresentanti di casa d'Este, Niccolò Maria vescovo di Adria, Meliaduse vescovo di Comacchio, ed un cugino di Alfonso, Ercole d'Este; e c'era la migliore nobiltà ferrarese, il conte Federico della Mirandola, il vecchio conte Albertino Boschetti, il conte Rainaldo del Sacrato, e altri conti a paia, Giovanni e Jeronimo Roverella, Annibale e Antonio Bevilacqua, Gerardo e Guido Rangoni, e rappresentanti delle grandi case Pio di Carpi, Calcagnini, Trotti, Costabili, Perondoli, Nigrisoli, Dall'Arpa, Turco, Bonlei, Pendaglia, Muzzarelli, Malucello, De Petrati, Fontanella; c'erano Carlo e Lorenzo Strozzi del ramo ferrarese della celebre casata fiorentina, Antonio Feruffini, Galasso della Sale e Gherardo Reberti capitani ducali, il tesoriere Giovanni Ziliolo, Francesco Bagnacavallo al quale erano stati consegnati i gioielli tradizionali di casa d'Este che avevano adornato Eleonora d'Aragona ed Anna Sforza e che erano stati ora rimessi fuori, in parte montati su disegni inediti per la nuova sposa. Sulla questione dei gioielli c'era stato da discutere nelle trattative di nozze. pare che Lucrezia ed Alessandro VI avessero avuto per un momento l'intenzione di vendere o disfare tutti quelli che Lucrezia già possedeva, cosa che non andava a genio ad Ercole, il quale temeva che ad alienarli ci si avesse a perdere. Lucrezia aveva fatto rassicurare il suocero dicendo che avrebbe portato con sé tutte le sue gioie

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ed altre ancora e s'era avuta in cambio la promessa delle famose gemme estensi. Se non che il vecchio duca parlando così non era sincero: e, giocando di furberia anche in questo, aveva ordinato ai suoi gentiluomini di consegnare il tesoro alla sposa senza nessuna formula di donativo ("ad personam"), salvo per l'anello matrimoniale; e ciò, diceva, perché se la duchessa avesse "a mancare" i gioielli restassero in casa d'Este. Dettando l'istruzione intorno ai gioielli, Ercole aveva voluto dunque assicurarsi che, se per caso Lucrezia fosse morta, il tesoro estense sarebbe rimasto in casa, senza che nessuno dei Borgia (non si dimentichi che Lucrezia aveva un figlio) avesse avuto da levare voci di diritti ereditari. Cavalcano i ferraresi verso Roma: il 10 dicembre entrano a Bologna ricevuti da Giovanni. Bentivoglio e dai suoi figli, uno dei quali, il primogenito, Annibale, doveva seguire la cavalcata fino a Roma tentando di rimettere a nuovo col pontefice un'amicizia già smagliata e malissimo ricucita. Al primo annuncio della partenza, Alessandro VI spicca due brevi di contentezza e di congratulazioni datati l'8 dicembre, uno Per Ercole ed uno per il cardinale Ippolito: spianata ogni ruga, fa chiamare il Saraceni e il Bellingeri e si espande in Mille festevolezze rammemorando (ora i ricordi ferraresi gli sono tutti senza spine) "di quando era giovane e delle cose fatte a Ferrara al tempo del duca Borso", per venire poi alla rassegna delle opere di Ercole. Gli saltano in mente grilli curiosi: chi è più alto, chiede, lui o il duca Ercole? Il Saraceni risponde di non saper giudicare così alla lontana, ma di sapere che il suo duca lo sopravanza in altezza. Ed ecco che il Papa si alza per misurarsi col ferrarese "e si ritrovò che S. S.tà era più alta". E il Borgia tutto contento. Si, aggiunge, avrebbe proprio voluto rivederlo quel caro duca; e ripete, come ha già accennato più volte, forse anche per quietare qualche cosa che dentro di lui dolora al pensiero della separazione dalla figlia, che vuole andare presto a Ferrara: ama Ferrara, si capisce, e Alfonso lo ama poi come figlio e lo reputa unico al mondo: non gli bastano le parole ad esprimere la contentezza.

La cavalcata toccò a metà dicembre Firenze; il 17 era a Poggibonsi, la sera del 17 a Siena, il 20 costeggia il lago di Bolsena, è ormai in terra pontificia. Lucrezia accelera i preparativi: sono questi i momenti che se manca un filo ad una gonnella fra le cento, se una cucitura tra le mille ha ceduto, una donna non conosce più appoggi, si sente per un momento sbattuta e sommersa nelle correnti del disordine spirituale. Ma il corredo di Lucrezia è perfetto: ben piegare, pronte nella stiratura impersonale degli oggetti nuovi, le sue duecento camicie, alcune delle quali ricamate d'oro e di perle, tolgono il respiro alle donne che sono ammesse ad ammirarle e a quelle che ne sentono parlare. Dei vestiti si favoleggia addirittura; né la fantasia ha bisogno di soccorrere quella straordinaria descrizione delle vesti; velluto broccato raso tessuti misti a fili d'oro e d'argento, a strisce a festoni a balze fitte di perle, a catenelle a foglie a fiori, a fregi d'oro battuto e smaltato e gemmato: anche la più povera donna può sentirsi addosso un riflesso di

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splendore e ravvivare il grigio della sua giornata quando racconta di quel vestito che costa 20.000 ducati, quasi trecento milioni della nostra moneta, di quella balza che va sui 15.000 ducati e di quel cappello sui 10.000: non c'è nemmeno da invidiare, ma solo da bearsi nel racconto che squilla come l'epopea dei corredi nuziali e che fa restare intenti donne, popolo, ambasciatori, principi, letterati. Per poco, passando avanti al palazzo di Santa Maria in Portico, non si vedono fiammeggiar di diamanti le finestre.

Il 22 dicembre 1501 la comitiva ferrarese lasciatosi dietro Ronciglione era arrivata a Monterosi, piccolo borgo sulla via Cassia a sudest di Nepi, davanti al quale declina la gran pianura vagamente ondulata della campagna romana. Sulle strade insisteva ormai da più giorni il cattivo tempo: e il paesaggio, acquattato sotto la pioggia, tradiva meglio che sotto il sole una maligna violenza sotterranea che nelle acque dello squallido laghetto di Monterosi diventava lividura e faceva presentire l'ostilità e la minaccia degli elementi. Qui, come per tutta la campagna romana, la storia parlava: e narrava che, presso le rive del laghetto vulcanico, era avvenuto nel 1155 l'incontro fra l'imperatore Federico Barbarossa e Papa Adriano IV, quando l'imperatore, troppo superbo della sua dignità, aveva dapprima rifiutato di reggere la staffa al pontefice per piegarsi poi ed accompagnarlo a piedi da staffiere, accettando così la sudditanza alla potenza spirituale della Chiesa. A questo ricordo di capitolazione imperiale dovevano consolarsi, ammettendo che avessero bisogno di essere consolati, Ippolito d'Este e i ferraresi che avevano considerato il matrimonio borgiano come una disgrazia della dinastia. Ma forse, per tutti, il pensiero più importante era allora d'arrivare al coperto: si fermò una parte della compagnia a Monterosi, e fu alloggiata nel palazzo cardinalizio; gli altri si distribuirono in luoghi vicini; e il cardinale con i fratelli e le maggiori personalità si spinse più a sud, a Formello, distante appena venticinque chilometri da

Roma: lì, nel palazzo baronale o sotto i tetti delle raccolte case quattrocentesche, adunate intorno ai campaniletti Sant'Angelo e di S Lorenzo, a piedi attesero a riposarsi e disporre l'entrata.

Il 23 dicembre, dopo giorni e giorni di pioggia, sorse col sole: al tempo chiaro, voltatosi nella notte (s'era forse levata una di quelle subite tramontane che si mettono d'impegno a ripulire il cielo da tutti i fiocchi bianchi e grigi) i ferraresi di qua, per le dimore improvvisate nella campagna romana, e i borgiani di là, dentro le mura di Roma, tiravano fuori i vestiti da festa: e forse qualcuno cantava. Fin dall'alba cavalli e cavalieri percorrevano le vie d'ingresso a Roma: alle otto del mattino ponte Milvio vedeva radunati i cinquecento fermatisi ad aspettare i cerimonieri del Papa che si fecero attendere un paio d'ore. così solo verso le dieci la cavalcata si mosse, ognuno tenendo rigorosamente un posto segnato col compasso

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dell'etichetta. Aprivano il corteo i familiari del cardinale d'Este e dei suoi fratelli, i familiari dei gentiluomini che s'erano portati un bel vestito da indossare (quelli che non avevano il bel vestito furono messi in coda con gli stallieri) e venivano poi a volta a volta i gentiluomini, il cardinale fra don Ferrante e don Sigismondo , i due vescovi estensi Meliaduse e Niccolò Maria, il nuovo ambasciatore ferrarese a Roma monsignor Beltrando Costabili, il consigliere ducale Gian Luca Castellini da Pontremoli, altri notabili, e poi altri familiari, e staffieri e gente di scuderia. Passato ponte Milvio, s'incontrarono le rappresentanze del cardinale di Monreale Giovanni Borgia, del cardinale Costa e del cardinale Sant'Angelo che venivano a scusare i loro padroni i quali, per età avanzata o per malattia, non avevano potuto muoversi, porgendo a loro nome saluti e complimenti. Da quel momento non si fece che incontrare gente: il governatore di Roma, il senatore, il conservatore, il reggente della Cancelleria, abbreviatori apostolici dei maggiori e dei minori, scrittori apostolici, tutta la "famiglia" del Papa: infine presso piazza del Popolo si assistè all'arrivo della cavalcata del Valentino, "e qui vedemmo molti bei corsieri dei quali studiosamente ci fu fatta mostra col farli andare innanzi e indietro più volte di lato", notava Gian Luca da Pontremoli sottolineando i peccati di vanità del Valentino. Immediatamente dietro, comparve Cesare in persona fra ottanta alabardieri in giallo e nero, colori del Papa, vestito superbamente su di lui "non si vedeva se non oro e gioie" montato su un cavallo "che pareva avesse l'ali", seguito da quattromila uomini a piedi e a cavallo. Vi furono abbracci e cerimonie; poi il Valentino si affiancò ad Ippolito e i fratelli estensi vennero dietro, rispettivamente con gli ambasciatori di Francia e di Spagna. Monsignor di Adria ebbe vicino il governatore di Roma, il vescovo di Comacchio il segretario pontificio Adriano Castelli che era lì anche come rappresentante del re d'Inghilterra; e al Castellini toccò la compagnia dell'ambasciatore veneziano che gli veniva parlando con la puntuta scaltrezza che gli era propria, e con mille complimenti fatti apposta per tener sospeso l'animo del consigliere ducale. Alla porta del Popolo ci fu il saluto del Collegio cardinalizio, forte di diciannove membri, un vero concistoro; e, rifatti discorsi inchini e cerimonie, "venimmo al palazzo apostolico per il cammino più bello di Roma, con suoni di trombe: e pive: e corni". Appena i primi cavalli posero piede sul ponte di Castel Sant'Angelo tuonarono le bombarde; e fra lo strepito che faceva impennare i cavalli e giocare d'abilità i cavalieri, si arrivò a piazza San Pietro; qui si congedarono gli ambasciatori e parte dei cardinali; gli altri salirono dal Papa. Avvenne un'entrata confusa, ma elettrizzante: il Papa, ricevuto il bacio al piede e alla mano dal cardinale Ippolito, se lo prese tra le braccia e lo baciò espansivamente, e così fece con don Ferrante e don Sigismondo d'Este; tutti i gentiluomini furono poi ammessi a toccare la pantofola, e vi si precipitarono con tanto impegno che il Castellini ebbe tagliata la via finché il segretario del Papa non gli fece strada d'autorità. Come nei suoi momenti migliori, Alessandro VI splendeva di un dovizioso sorriso: parlava,

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affascinava, conquistava; e infine, data la benedizione a tutti e fatte accendere torce a dozzine perché s'era ormai fatta notte, li mandò alla sposa.

Nel palazzo di Santa Maria in Portico vennero solo i principali della compagnia ferrarese condotti dal Valentino. Era gente prevenuta e fina; ma quando, entrati nell'atrio, videro comparire sullo scalone Lucrezia composta nell'abito di broccato del suo preferito colore morello (un bruno scurissimo tendente al violaceo), coperte le spalle da un manto d'oro foderato di zibellino, chiusi i capelli da una reticella di seta verde ingioiellata, e ornato il collo di una gran collana di perle e rubini, tutti dovettero sentire che ella vinceva. Lucrezia sapeva preparare i suoi effetti; e per dare un'araldica alla sua apparizione aveva inventato di mostrarsi non sola, ma al braccio di un gentiluomo vestito di nero (nessuno sapeva chi fosse) coronato austeramente di venerandi capelli bianchi. Fatti gli inchini e i saluti, ella convitò tutti, fu amabile e riservata, si mostrò premurosa con i consiglieri del duca, premurosissima con i più temibili; ebbe un'aria di sottomissione quando sentì parlare di Ercole e di Alfonso, un'aria sempre contegnosa ma più ridente e sciolta con Ippolito e con i fratelli d'Este, fece il miracolo di intonarsi al modo di ciascuno. "é una gentil madonna e graziosa" dissero di lei anche i più difficili. La festa si chiuse con doni di coppe, bacili, piatti d'argento che Lucrezia fece offrire per raccomandarsi al ricordo dei suoi futuri sudditi. La relazione sulla quale si è narrata l'entrata della comitiva estense a Roma è inedita e assai più minuziosa e viva di quella fino ad oggi seguita, del Sanudo, con la quale del resto, salvo che nei particolari, concorda in tutto. La sera stessa, 23 dicembre, Gian Luca Castellini scrive segretamente al duca Ercole: "La sposa è di bellezza competente, ma i buoni gesti e modi suoi l'aumentano e fanno parere maggiore, e in conclusione mi pare talmente qualificata che di lei non si debba né si possa sospettare cosa sinistra: ma, da presumere, credere, e sperare sempre ottime operazioni... Vostra Celsitudine e così il signor don Alfonso ne avranno buona soddisfazione [perché] oltre che [ella] ha ottima grazia in ogni cosa con modestia venustà e onestà non meno è cattolica e mostra di temere dio...". Non solo questa testimonianza doveva avere valore per gli Este, ma valore essenziale; era attesa per regolarsi nel futuro, e magari, se fosse stata sfavorevole, per vedere di rompere con un pretesto gli accordi. Il dispaccio del Castellini dice in aperte lettere che a Lucrezia non si potevano attribuire quelle cose "sinistre" che più o meno tutti a Ferrara dovevano ancora temere. Ed ha la sua importanza un'osservazione facile a farsi per chi esamini il carteggio dell'archivio di Modena: di lettere del Castellini al suo duca il 23 dicembre, ce ne sono due: una, la lunghissima relazione della cerimonia d'entrata a Roma, è in doppia copia scritta di mano cancelleresca solo firmata e corretta qua e là dalla mano del Castellini; l'altra, con la testimonianza su Lucrezia, è interamente autografa, senza nessuna

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intromissione di segretari, e tutta, e solo, dedicata alle notizie sulla nuova sposa: lettera dunque confidenziale, segretissima, diretta a rispondere alle ansiose domande che tuttora si dovevano porre Ercole e suo figlio, fatta per portare loro la certezza della decenza morale della sposa. Il duca fidava nel giudizio del suo consigliere, 'giudizio freddo e oggettivo, "senza passione", quanto nel proprio. Gli Estensi con i loro gentiluomini di camera alloggiavano chi nel palazzo di Santa Maria in Portico chi in Vaticano, e chi in quel Belvedere dove Caterina Sforza era stata prigioniera l'anno avanti, prima di passare a Castel Sant'Angelo per essere infine liberata e mandata a stare a Firenze. Gli altri del seguito, nobili minori e familiari, furono collocati Presso gente della curia che se ne lamentava assai e che si prestò così malamente da obbligare alcuni ospiti a trasferirsi in una locanda; e chissà che qualcuno non sia capitato in una delle più note che erano di proprietà di Vannozza Cattanei e che costituivano il suo maggior reddito, quella della Vacca, del Biscione, o della Fontana. Gli ospiti erano festeggiati e favoriti dal Papa, il quale, a vedersi intorno tanta vigorosa e raffinata nobiltà, e ad immaginare la figlia regnante su di essa sentiva muoversi in petto orgoglio e commozione: faceva annunciare che avrebbe detto per i ferraresi messa solenne data la benedizione in San Pietro con indulgenza plenaria, e che altro? mostrato le reliquie della Santa Lancia e della Veronica. Al programma religioso si aggiungeva il programma mondano, stipato un po' di tutto, balli commedie rappresentazioni danze di scena, allegorie, e che si sarebbe arricchito di cortei carnevaleschi, avendo il Papa, con editto speciale, anticipato il carnevale, perché il popolo potesse partecipare della sua letizia paterna. Ognuno dei Borgia stava alla sua parte: il Papa riceveva e intratteneva gli Estensi, li faceva sedere presso di sé insistendo perché stessero a capo coperto, si faceva vedere alle funzioni solenni con tanto apparato e imponenza e maestà da affascinare anche i più riottosi. Il Valentino si era fatto amico del cardinale d'Este e lo iniziava ai pepati godimenti delle grandi cortigiane romane, lo conduceva in maschera, faceva parte con lui e con pochi altri ferraresi del suo altero spirito con una condiscendenza rara.

Natale passato devotamente, il 26 dicembre Lucrezia diede nelle sue camere a Santa Maria in Portico un ricevimento, circondata dalla sua corte e da cinquanta gentildonne romane acconciate con "i drappi in testa" "alla loro foggia" che doveva essere press'a poco quella dipinta da Raffaello qualche anno dopo nella Velata. Ma, meglio che sulle romane, i ferraresi posarono lo sguardo sulle donzelle di Lucrezia che sarebbero venute via con la loro signora, discussero le loro grazie e quando ebbero finito per convenire che le ferraresi non avrebbero sfigurato al confronto, salvato così l'amor proprio regionale, cercarono di avvicinarle e di corteggiarle. Suonava una leggera musica di flauti e viole; per prima, scese a preparare gli animi al ballo la donzella Nicola, una senese favorita di Lucrezia che, insieme con un

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gentiluomo valenzano, danzò mostrando l'eleganza spiritosa delle donne della sua terra. Poi, danzò con don Ferrante d'Este Lucrezia, bellissima nel suo vestito a strisce di raso nero e di tessuto d'oro, con le maniche strette intorno alle braccia e tagliate in modo da far uscire a sbuffi leggeri la camicia di lino sottilissimo che temperava la severità di quel nero e di quell'oro: intorno al collo lo stesso lino increspato e ricamato formava gorgerina, sostenendo e placando lo splendore di una grossa collana di gemme; una fila di rubini le accendeva granellini di brace sulla fronte al riflesso mobile delle torce. Lucrezia danzava su quella musica che le guidava i passi ed il pensiero; nei movimenti, una luce abbrividente correva per le strisce d'oro, si frangeva alle rive di raso nero, passava dal broccato nei capelli, le fermava negli occhi una scintilla di sorriso. finiva la danza, cominciava un'altra musica, si ammiravano le virtuosità da ballerina di una ragazza catalana, e qualcuno notava che la cugina della duchessa, quella appena quindicenne Angela Borgia fidanzata a Francesco Maria della Rovere, era una bellezza da tenere d'occhio. Il tono di questa festa era smorzato ma le gentilezze ritenute e quel po' di freddezza servivano a meraviglia perché il Castellini scrivesse ad Ercole nuove assicurazioni sulla duchessa: ella, diceva il consigliere ducale, aveva promesso che non avrebbe mai fatto arrossire suo padre di lei; e si poteva crederle per la grande "bontà onestà e discrezione sua", virtù che si palesavano ogni giorno meglio nella sua conversazione; ed era bello, concludeva la lettera, vedere come in casa sua si vivesse "più che cristianamente, religiosamente". Con queste di Gian Luca Castellini, informazioni e testimonianze partivano ogni giorno da Roma dirette a Ferrara; scriveva Ippolito, scriveva don Ferrante, scriveva don Sigismondo; e i fratelli estensi non scrivevano solo al padre ma anche alla loro sorella Isabella marchesa di Mantova alla quale il pensiero della bella e ricchissima cognata metteva addosso fremiti combattivi. Né Isabella era donna da contentarsi delle lettere fraterne, sapendole affidate il più delle volte alla mano dei segretari, o, anche se autografe, riassuntive e generiche, come sono in genere le lettere degli uomini: ci voleva per lei uno che sapesse riferire con precisione minuzia ed acutezza, e che sapesse guardare con occhi senza veli di cortigianeria; e aveva trovato chi faceva per lei in un familiare di Niccolò da Corregaio che aveva mansioni di buffone segretario e uomo di fiducia presso il suo signore. Avrà avuto un nome; ma era conosciuto solo con l'appellativo "el Prete" e così si firmava nelle sue lettere. Il "Prete" accettò subito di informare la marchesa di Mantova sulla cognata: "Io seguirò la ex.ma madonna Lucrezia come fa il corpo l'ombra" scriveva "e dove gli occhi non potranno attingere andrò col naso". Le lettere del "Prete" sebbene non ci siano arrivate in gran numero mostrano che egli tenne fede alle sue promesse e si meritò i ringraziamenti della marchesa che lo chiamava il suo "buon segugio". Era lui, il "Prete", che mandava le indiscrezioni sulla "gran pompa di vesti e d'oro" di Lucrezia, e che andava curiosando perfino dai ricamatori romani per poter descrivere una veste

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"tutta carica di ricami di lavoro d'oro, battuto e smaltato" concludendo che la sposa portava "un pozzo d'oro": ed era lui che osservava e criticava le donzelle, e scopriva la bella cugina di Lucrezia: "una Angella che è assai bona" come dichiarava senza un minimo di perifrasi.

Ma non erano solo informazioni di genere descrittivo che aspettava il duca di Ferrara: gli affari contavano per lui, e su questi il Castellini si diffondeva lunghissimamente nelle sue quasi quotidiane relazioni. Già dal 20 dicembre essendo partito il Bellingeri da Roma per andare a prendere possesso delle terre date dal Papa per cauzione dei patti dotali, erano rimasti il Saraceni e il consigliere del duca a sorvegliare le conclusioni. Provvedevano con tanto scrupolo, che la sera del 28 dicembre avevano avuto da contrastare con il notaio Camillo Beneimbene e il suo compagno Pandolfo, sulla forma dello strumento dotale: una questione da avvocati, che il Papa aveva risolto subito, ordinando che ci si attenesse al criterio dei ferraresi, e "dimostrando col core aperto non temere di alcun caso avverso" e cioè di nessun tranello. Fatto l'istrumento, tutto era pronto per le nozze di procura; e il 30 dicembre la cerimonia si svolgeva alla presenza di cardinali e ambasciatori, dei nobili ferraresi e del Papa. Vestita di velluto cremisi e di broccato d'oro foderato d'ermellino, Lucrezia arrivò fra don Ferrante e don Sigismondo d'Este seguita dalla sua corte e da cinquanta gentildonne romane, annunciata da trombe e trombette. Ascoltò la lettura dell'atto matrimoniale, poi il discorso d'occasione fatto abbreviare con un gesto dal Papa, ebbe l'anello nuziale dalla mano di don Ferrante che glielo consegnava a nome di suo fratello Alfonso, e rispose limpidamente di accettarlo. E appena registrato l'atto, il cardinale Ippolito si fece avanti attillatissimo nella sua porpora fuori ordinanza, I capelli lunghi ben lisciati dai pettini d'avorio che doveva alla sorella Isabella, seguito da Giovanni Ziliolo che portava il cofano delle gemme. Detto un bel discorsino, senza, naturalmente, nessuna formula di donativo, si aprì il cofano, e le gemme cominciarono a passare dalle mani del tesoriere a quelle del Papa e di Lucrezia, fra i commenti e le spiegazioni del cardinale, di don Ferrante e del Castellini: "e fu fatto ben gustare la preziosità e la grandezza del presente, così a la S.tà di N. S. a i cardinali come alla prelata madonna Lucrezia per modo che fu grandemente lodato... E anche lo Ill.mo Ferrante si adoperava assai in dimostrare la perfezione e bontà delle gioie". Quando tanti discorsi si furono calmati, e gli occhi di quelli che guardavano ebbero abbastanza valutato quegli splendori in ducati (settantamila disse il cardinale di Santa Prassede), Lucrezia fece sentire la sua voce e il suo giudizio, ammirando si, i gioielli, ma soprattutto "gli ornamenti e i lavori quali erano intorno alle gioie", la fatica d'arte, dunque; e rivelava così, senza saperlo, quasi liberandosi dal peso della ricchezza, la sua discendenza materna, quelle preziose stille di sangue d'artisti che le venivano dal nonno Jacopo pittore, dal prozio Antonio da Brescia marmoraro, sensibili come tutti gli artisti lombardi al lavoro minuto e

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fiorito dell'oreficeria. Non era finita la cerimonia, e i cardinali stavano ancora offrendo i loro regali di nozze, che cominciavano in piazza San Pietro le feste: si dava l'assalto ad un finto castello, con tanta foga che ci furono venti feriti; ma chi ci badava, se perfino in Vaticano, nell'ardore delle feste di quei giorni, il Papa stesso si trovò urtato da "furia di moltitudine"? finito lo spettacolo di piazza, Alessandro VI si regalò la delizia di veder danzare nelle sue stanze la figlia col Valentino, numero straordinario, tutto per lui. Entrarono poi nella danza le ragazze di Lucrezia a due a due, in un disegno coreografico che durò un'ora durante la quale il Papa continuamente rise. Seguì una commedia, interrotta da una sola parola del Papa, "noiosa", e poi un'egloga, scritta forse da uno dell'Accademia romana che non doveva essere né l'Accolti né il Calmeta poiché i due poeti cortigiani avrebbero riempito dei loro nomi le orecchie dei presenti. Infine, licenziato il gruppo degli invitati, rimasero Estensi e Borgia in convito intimo.

Il giorno dopo, l'ultimo del 1501, il Castellini era di nuovo in Vaticano a parlamento col Papa: sveglio e agile, il gentiluomo toscano cercava di portare avanti senza che si nuocessero l'una con l'altra la propria nomina cardinalizia e la completa esecuzione dei patti dotali, esecuzione della quale si era preso col suo duca tutta la responsabilità. Aveva visto la bolla della remissione del censo e riscontrate le firme dei cardinali, per assicurarsi che fosse inoppinabile, aveva visto anche le altre bolle, e sapeva che tutte, piene ed in ottima forma, sarebbero state affidate a Lucrezia perché le portasse lei ai suoi nuovi parenti; ma gli restava una cosa da dire al Papa, certo concertata con Ercole d'Este, e della quale non si sentiva troppo sicuro: gli uscì di bocca, la sera del 31 dicembre.

quando, avendogli il Papa annunciato che il primo di gennaio sarebbe cominciata la numerazione dei centomila ducati d'oro in contanti, egli affermò che i ducati avrebbero dovuto essere "larghi" e non "da camera" essendovi fra gli uni e gli altri una differenza di peso aureo. Alessandro VI negò di essere obbligato a quel conteggio, e, insistendo il Castellini, disse che avrebbe rimesso ad un giurista la faccenda. "Credo che non ne parlerà più" concludeva il Castellini scrivendo ad Ercole d'Este "e che non pagherà in ducati larghi"; e narrava che il Papa s'era molto lagnato dell'esosità ferrarese col cardinale Ferrari, ricordando come egli avesse concesso agli Estensi, oltre la dote richiesta, benefici per venticinquemila ducati.

Intanto si continuavano i divertimenti, "cose da non comparate alle minime di V. S." come scriveva il Saraceni al duca di Ferrara narrandogli, la sera del 31 dicembre, di una certa rappresentazione in piazza San Pietro fitta di riferiMenti politici che si rimandavano l'uno con l'altro i personaggi, un fiorentino un tedesco un francese uno spagnolo un romano ed uno zingaro. Quello stesso giorno s'erano visti carri trionfali con le figurazioni di Scipione

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di Paolo Emilio e di Giulio Cesare; allusive, si capisce, al Valentino. La notte, feste e balli; e rappresentazione in Vaticano di due egloghe, una preparata dal cardinale di Sanseverino "assai fredda", e l'altra preparata da Cesare, bellissima, su scenario "di boschi fontane colli e menti e animali". Infieriva. l'allegoria: e faceva dire ai pastori che Alcide (Ercole) non avrebbe avuto ormai più da temere né leoni né lupi, perché il "pastore dei pastori lo libererebbe da tutti i mostri: e appresso dicevano questa dover essere opera di un giovane che abitava di qua dal Po con un altro che abitava la riva ulteriore, volendo significare il signor duca di Romagna e lo ill.mo don Alfonso". Fu 3 aggiunge il Saraceni, "elegantissimamente recitata e apertamente intesa da tutti". L'alba del 1502 sorse fra squilli e bandiere. Quel giorno, si cominciarono ad allineare sul tavolo le pile dei ducati di oro, presenti tesorieri e testimoni. E intanto i caporioni dei rioni di Roma, con le berrette all'antica e i bastoncelli bianchi, comparvero in piazza San Pietro, precedendo, alla testa di duemila fanti pronti come se andassero a battaglia, tredici carri trionfali ognuno dei quali simboleggiava un rione della città. Dopo aver assistito dalle finestre allo spettacolo, la corte si radunò nella sala del Pappagallo, parata di broccato d'oro e pronta per la commedia, dove, assiso che si fu il Papa sul suo trono, e Lucrezia su un cuscino ai suoi piedi, la brigata si mise come volle, in una confusione, che, se scandalizzava la gente ordinata, aveva per i più giovani un amabile sapore di avventura. ci fu la solita egloga, particolarmente in onore di Lucrezia; e più tardi, cambiando luogo, si passò nella sala dei papi tutta parata d'oro, illuminata a torceri che pendevano dal soffitto, adorna di un bordo allegro di verzura che limitava lo spazio dove si recitava: qui si ascoltò un'altra rappresentazione, e si diede principio ad alcune danze coreografiche e simboliche, "moresche". Una, la più graziosa, raffigurava un genietto che, stando sulla cima di un albero, aveva legato a sé i danzatori con nastri colorati e sembrava guidare le loro evoluzioni senza che un solo nastro si impigliasse nell'altro. Anche Cesare venne in palcoscenico, mascherato, ma riconoscibilissimo alla estrema eleganza del vestire, pur fra i suoi compagni che indossavano tutti abiti d'oro tagliato. E infine, con la donzella valenzana ballò Lucrezia, in una veste di velluto morello fregiata d'oro e listata d'oro contesto di gemme, portando in capo la più ricca rete di gioielli che le avevano mandato da Ferrara, e al collo addirittura una cascata di gemme. Quella sera comparvero anche, comparsa notatissima, dieci delle donzelle di Lucrezia vestite di velluto cremisi e broccato d'oro, mantelli colorati di seta intessuti d'oro. cinque gennaio: i tesorieri continuano a contare i ducati d'oro. E in piazza San Pietro corrida di tori con Cesare Borgia a cavallo, a piedi, solo e in compagnia. Mostra di Cesare che teneva le "zannette" e cioè le banderuole "veramente con gran grazia", ostentazione di abilità di bellezza di eleganza di coraggio da parte di Cesare sfolgorante in un abito di broccato d'oro. La sera, commedia: e ritroviamo qui i Menesmi di Plauto che si erano dati per festeggiare le nozze di Lucrezia col signore di Pesaro. Precedette i Menesmi un'allegoria: Cesare

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ed Ercole vincevano a fortuna, giunone prometteva di favorire con un matrimonio le loro case. Roma su carro trionfale e Ferrara a piedi i contrastavano il possesso di Lucrezia finché Mercurio comandava in nome degli dei pare e concordia. Infine Roma e Ferrara trionfavano insieme. Autore dei versi era Evangelista Maddaleni Capodiferro. Proprio lui, il nostro fegatoso umanista s'era tanto impegnato nella poesia da trovare movimenti felici e buone cadenze ai suoi esametri. Peccato che Lucrezia non si ascoltasse così lodata: ella non apparve né alla corrida né alla commedia: vedeva fuggire i giorni, nei quali pareva che le ore si rubassero i minuti una con l'altra, fra gli ultimi preparativi, e sentiva forse i primi intoppi spirituali, soprattutto l'abbandono del piccolo Rodrigo. Chissà se a Santa Maria in Portico, come vorrebbe la logica familiare, sarà entrata Vannozza Cartaci a dare gli ultimi saluti alla figlia e a prometterle sorveglianza e protezione per il nipotino? Anche alle piccole e grandi pretese dei ferraresi c'era da dar tempo: Lucrezia doveva raccomandare caldissimamente e a più riprese il cardinalato di Gian Luca Castellini da Pontremoli, chiedere certe grazie di assoluzioni e d'altro, prima di poter fissare la data precisa della partenza, sulla quale, ed ella non sapeva, Ercole d'Este aveva dato istruzioni precise. Fatto calcolo del viaggio, comprese tutte le fermate, la volontà del duca era che la comitiva partisse da Roma in modo da arrivare a Ferrara il 28 gennaio. il 29 sarebbe avvenuta l'entrata solenne seguita da dieci giorni di carnevale, fino al mercoledì delle Ceneri. Per nulla al mondo il duca avrebbe aggiunto un giorno a quelli stabiliti per i festeggiamenti: si raccomandava perciò con il Castellini che non partissero tanto presto per non arrivargli prima del tempo. Né al consigliere ducale mancavano scuse per ritardare. Tornava ora, per le ultime conclusioni, l'affare delle monache di Viterbo e di Narni che dovevano essere traslocate a Ferrara: c'era stato un moto di scandalo nel mondo ecclesiastico a sentire il progetto del duca Ercole di far viaggiare le monachine con una comitiva nuziale, a contatto con tanti uomini e soldati. E, parlando col Bresciani, la gente della casa di Lucrezia aveva preso di qui il pretesto per criticare tutta in una volta l'avarizia estense. Avrebbe fatto più onore al duca di Ferrara, diceva il maggiordomo di Lucrezia, mandare duecento ducati per il viaggio, e far passare le suore per la via di Toscana, lontanissime da ogni contatto con genti d'armi. Il Bresciani rispondeva che il suo signore non era schiavo di una tale somma, ma che avendo rimesso la soluzione della faccenda alla nuora lasciava che la concludesse lei; e al sorrisino maligno che vedeva negli occhi del maggiordomo, aggiungeva che la duchessa mostrava di spendere volentieri. Certo, annuiva con maggiore ironia il maggiordomo, sapevano tutti come ella spendesse volentieri. Erano infine arrivati cento ducati del duca Ercole con la raccomandazione però di non spenderli se non ve ne fosse stato bisogno; e si era stabilito, prima, che le monache partissero con due ore di anticipo sulla comitiva nuziale, poi con un giorno, e infine con due giorni: sarebbero state accompagnate da qualcuno dei loro, fratelli e parenti, e da alcune donne, e avrebbero viaggiato

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comodamente essendo stati provvisti i calessi anche di tele incerate per ripararle dalla pioggia e dalla neve. Sgridate e rincuorate da Lucrezia fino all'ultimo, le ostinatissime monache partirono infine il 4 gennaio sotto la guida del Bresciani; lo stesso giorno e poco più tardi, le seguirono trecento cavalieri spenditori ed apparecchiatori per disporre alloggio e vitto al grosso della comitiva che si sarebbe messa in cammino il 6 gennaio: così, diceva il Castellini, a fin di mese, si sarebbe arrivati a Ferrara, puntuali al volere del duca. Chiusi in una camera del Vaticano, ferraresi e pontifici numeravano la dote allineando cauti le colonnette dei ducati: il 2 gennaio erano arrivati a 25 mila; il 3, altre migliaia passarono fra le dita dei tesorieri. Ad un certo punto, quando si erano avvistati tra le monete alcuni ducati leggeri, "tosati", e addirittura alcuni falsi, c'era stata confusione e un po' di sospetto: aguzzati gli occhi, i tesorieri avevano da allora proceduto a rilento, né, calato il giorno, avevano voluto continuare a lume di torce. Il 4 gennaio contavano ancora; e finalmente, il 5, don Ferrante d'Este prese lui il saldo della dote, tra le assicurazioni affettuose del Papa e badava di continuo ad accennare a certi suoi progetti magnifici per Ferrara. E certo, concludeva il Castellini, se quelle parole avessero avuto rispondenza nella realtà "le cose nostre verrebbero a molto buon termine". A Lucrezia il Papa non finiva mai di fare doni: denaro per le sue spese personali, per il suo seguito, per le sue cavalcature; una lettiga bellissima nella quale avrebbe dovuto viaggiare insieme con la duchessa d'Urbino, quando l'avrebbe incontrata a Gubbio; e tutto ciò che ella gli chiedeva senza nemmeno farne inventari: prendesse quello che le piaceva. Casse e forzieri non si chiudevano, tanto erano colmi: le bolle pontificie pesanti dei loro grandi sigilli rossi si arrotolavano ancora fresche d'inchiostro l'una sull'altra. si, il duca di Ferrara poteva essere contento: i Borgia avevano pagato. così arrivava la mattina del 6 gennaio 1502. Il tempo, fino allora dolce, s'era inacerbito sotto il soffio del nord, e la neve, la svagata e stupefatta neve di certi rari inverni romani, era apparsa: tanto leggera, però, che nessuno aveva Pensato di rimandare la partenza. fin dal mattino, cavalieri, dapprima sciolti in piccoli gruppi, e a mano a mano uniti in gruppi maggiori secondo il loro ordine di marcia, avevano Percorso la città negli ultimi preparativi. Lucrezia, pronta, faceva la sua ultima colazione a Santa Maria in Portico, sedeva per l'ultima volta in quella stanza familiare dove gli Oggetti, il colore stesso dell'aria dovevano formare per lei tante immagini da chiuderle in gola, insieme, il desiderio di Partire e quello di restare. ci fu, sebbene nessuno ne parli, l'addio al piccolo Rodrigo e all'Infante Romano. Poi, la trafittura inevitabile di quei distacchi, ella uscì dal palazzo dove aveva vissuto dieci anni quei dieci anni e salì in Vaticano alle stanze paterne: qui nulla pareva cambiato dal mondo di tutti i giorni; il Papa era nella stanza del Pappagallo, sul suo trono, e c'era ancora sul gradino in basso il cuscino per lei. S'inginocchiò, silenziosa: e quelli che erano intorno uscirono, lasciandoli soli.

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Che cosa ci fu in quel colloquio tra padre e figlia, come si formavano e prorompevano le parole venendo su dagli imbrogliati gorghi del sangue e del sentimento, non si saprà mai: fu un addio da ricordare, minuto per minuto, da una parte e dall'altra; e dopo un'ora, il Papa fece chiamare il Valentino, terzo attore naturale della scena, e il colloquio riprese scorrendo fra i tre la parola valenzana come un gergo serrato che li isolava nella calda congiura che era la loro vita. Consigli, estremi avvertimenti, raccomandazioni si mettevano a fuoco l'uno dopo l'altro riepilogando lunghi pensieri di ciascuno. si rividero sommariamente, per quel che doveva essere a Ferrara, il contegno di Lucrezia, le posizioni politiche, fu pronunciato il nome del piccolo Rodrigo di Bisceglie seguito forse da quello dell'Infante Romano, e tornò anche, certissimo, il discorso del prossimo viaggio di Alessandro VI a Ferrara, un appuntamento a breve termine, dentro l'anno, dato per addolcire il taglio della separazione. Passarono i minuti, i quarti d'ora; e quando tutto fu o sembrò detto, entrarono le genti di camera del Papa, il cardinale Ippolito con don Ferrante e don Sigismondo, e qualcuno dei maggiori ferraresi. Sono gli ultimi gesti del commiato: gli Estensi s'inchinano al bacio della pantofola papale, e Alessandro VI, dopo aver concesso li per li a Lucrezia tutto ciò che ella ha fiato di domandargli, ordina al figlio e al cardinale Ippolito di accompagnarla per via, quanto più possano, standole vicini. Lucrezia è in piedi fra il cognato e il Valentino, ormai pronta: se dubita un istante, se un istante vacilla, le basta risalire ancora una volta al volto del padre, per sentire su di sé quella vampa di calore sotterraneo che ha sciolto tante volte i suoi nodi d'angoscia, riportandola all'amore terrestre delle cose. Che stia tranquilla, dice Alessandro VI, e qualunque cosa desideri gli scriva, perché egli farà, lei assente, molto più di quel che non ha fatto lei presente. Queste parole dette ad alta voce in italiano perché tutti le possano intendere e destinate a proteggerla fino a Ferrara sono le ultime che ella udrà dal padre. Ora davvero passa la soglia, attraversa le sale, scende, è sulla piazza, guarda la grande cavalcata che si spiega sotto i suoi occhi ' i cavalli che soffiano dalle nari buon calore animale, sale sulla sua mula tutta coperta di velluto morello con balze intorno ed in mezzo d'argento battuto. Le sono accanto Ippolito d'Este e il Valentino, la seguono don Ferrante e don Sigismondo, il cardinale legato Francesco Borgia, ambasciatori, vescovi, la sua corte di donne e di donzelle, nobili cavalieri soldati staffieri e i centocinquanta carri coperti di panno e velluto nei suoi colori, morello e giallo. Tempo di neve: il Burcardo, che ci dà questa notizia atmosferica, precisa che appunto per il cattivo tempo Lucrezia non si era vestita di vesti preziose. A farlo apposta, l'ambasciatore ferrarese a Roma, monsignor Beltrando Costabili, narra invece di una veste di broccato d'oro e cremisi e di un mantello d'oro foderato d'ermellino e giudica la duchessa "molto attillata". Che il Burcardo non abbia sbagliato almeno sul tempo ci rivela una preziosa letterina inedita e tutta autografa di Alessandro VI, scritta il 7 gennaio il giorno dopo la partenza della comitiva nuziale: letterina nella quale l'affetto

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accorato del padre vibra di riga in riga e teneramente si esprime nella raccomandazione alla figlia di tenere il viso e le mani ben riparati "in questi tempestosi tempi di neve". Forse Lucrezia s'era vestita semplicemente per andare in Vaticano dove il Burcardo la vide; e poi s'era andata a cambiare d'abito per dare alla sua partenza quella pomposità di cerimonia che pareva ai Borgia commento necessario non solo ai loro fasti ma anche ai loro più segreti sentimenti. Certo vestita così, oro cremisi ermellino, la vide il Costabili mentre l'accompagnava fuori città qualche miglio, stando tra i ferraresi delle prime file.

Poca gente è per le strade, sommerse in quel silenzio che allontana ed isola le cose una per una straniandole dal mondo circostante; sfila, vigilato dai soldati di Cesare, il tesoro di Lucrezia, con il quale, diceva ironico un cronista, il Papa aveva voluto "soddisfare al comandamento della Chiesa di maritare donne e pulzelle"; passa la lettiga, "una stanza di legname foderato d'oro e ricchissimi drappi", passano la chinca coperta di broccato d'ero e la mula coperta di broccato cremisi, le cavalcature della sposa: passa lei stessa fra il suo gran corteo. Partiva davvero. ed era quella la sua cavalcata ultima per le vie di Roma, cavalcata che il Papa seguiva sbattendo la sua ansia da una finestra all'altra del Vaticano, con la disperazione che dà il primo urto del distacco quando ci si sente di invocare un cataclisma, di esigere la rivoluzione degli elementi, perché tutto possa tornare come era prima. Costeggiando il Tevere, la comitiva si avviava verso ponte Milvio passando per piazza del Popolo davanti alla chiesa dove era la tomba del duca di Gandia: addio, Juan. Così, gli anni erano trascorsi e con essi quella vita oscuramente fervida e pugnace, condotta fra l'oro, la porpora cardinalizia, le feste, il terrore, senza piegare allo spavento d'immani segreti. Risaliva ora verso il nord, lei adoratrice del sole, dei giardini, delle gaie feste fiorite; lei che non conosceva l'odore della nebbia, lasciava l'oro maturo del sole di Roma per il grigio tutto pause metafisiche del cielo di Ferrara. Nel silenzio nevoso le voci cadevano senza sonorità a terra, e pareva inutile cercare di sollevarle in un accento di trionfo. La città dolce e torbida, opulenta e miserevole, taceva, era ferma, non veniva a salutarla, non aveva nemmeno più il volto che ella conosceva, si rifiutava alle sue domande e al suo sguardo con il pudore ostile delle cose contro chi le abbandona. Quella che passava non era più la figlia del Papa, Lucrezia Borgia, ma la duchessa di Ferrara, sconosciuta nata ora, straniera che si doveva guardare senza rivelarle nulla, chiudendo nei muri perfino le connessure dei mattoni. già Roma e Lucrezia non si riconoscevano più.

Secondo periodo alla corte degli Este

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Tra il Veneto e la Lombardia a nord, e l'Appennino emiliano a sud, il ducato degli Este apriva lento la sua larga pianura, colorita nei verdi della terra dei fiumi e delle paludi, coltivata da agricoltori di razza e di grana dura, che trovavano nella forza del terreno rispondenza a ricerche e stimolo ad esperimenti vasti. Tutto l'orgoglio civile architettonico e cortigiano del paese si raccoglieva nella città di Ferrara che, dallo specchio raso della campagna, si alzava senza compromessi di pittoresco, senza appoggi di monti o schermi di colline, pronta a misurarsi con i venti disarginati del nord o con le grosse impazienze del Po vicino. La prima qualità dell'aria di Ferrara è la gagliardia: sotto il cielo disteso, un fiato così, robusto ed attivo, correva la città, girava a cerchio nella piazza maggiore centro dei fasti e delle lotte cittadine intorno ai palazzi del podestà e dei signori, chiudeva in un anello il Duomo già quattro volte centenario, illustrato dalle sue sculture romaniche storie bibliche, mostri simbolici, e quelle figurazioni dei "Mesi" Sentite con uno spirito intimamente allegorico della maestà e della potenza rurale , si raffrescava ai dodici zampilli d'acqua della fontana di piazza, presso la chiesa di San Crispino, si alzava sulle quattro torri del castello estense, passava tra chiese conventi palazzi giardini e case, dalle ombre dei quartieri medioevali allo spazio allegro di quartieri dell'ultimo quattrocento allargandosi fino all'orlo delle campagne sulle lunghe vie snodate e piane.

Quest'aria, i ferraresi mostravano di respirarsela profondamente: ma, gente da dar battaglia e da accettarla, vigorosa nei suoi sacrifici come nei suoi odi e nei suoi piaceri, violenta, ostinata, anche a volte facinorosa (un detto ferrarese affermava che nessuno è così povero da non possedere una spanna di coltello) essi erano tutti concordi nella fedeltà e nella fiducia verso la casa regnante: l'aquila degli Estensi dava a nobili ed a plebei il brivido dell'amor patrio:

ed era vero, in ogni classe lo sentivano, che storia e gloria di Ferrara stavano a significare storia e gloria degli Este. Fra le più antiche d'Italia, la famiglia estense che collegava le sue remote origini longobarde con i nomi di re Berengario e di Ottone il Grande, aveva dominato dal dodicesimo secolo sulla città, la quale era guelfa di partito, aveva fatto parte della donazione della contessa Matilde, e si era anche data, in una parentesi delle guerre tra il Papa e l'imperatore, un governo comunale. signoria contrastatissima, quella degli Este, sino a che, nel 1329, il Papa li aveva nominati vicari della Chiesa contro un tributo annuo: successivamente l'imperatore li aveva fatti vicari imperiali per Modena e Reggio, le due città più importanti, dopo Ferrara, della provincia. signori, dunque, per investitura imperiale e papale, ad ogni modo inamovibili per forza naturale e pronti ad affermare con le armi il diritto che nasce da questa forza, gli Este si succedevano in una serie

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di personalità in altorilievo, gli Obizzo, i Folco, gli Aldobrandino, gli Azzo che furono sette tutti regnanti, uomini politici e guerrieri, infervorati di passione di stato, arditi, e di quei costumi signorili che servivano già nel 1100 di paragone ai poeti, tanto da far scrivere all'inquietissimo spirito eretico e comunale di Uguccione da Lodi, in una poesia dedicata ad un amico perduto:

Dov'hai le belle vestimenta

l'altre riche guarnimenta

lo vaio e i grigi e l'armellino

e lo scarlatto e il cabulino

che portavi nell'alie leste

corne lossi e' Marqués d'Este?

Il marchese d'Este al quale Uguccione si riferiva era il suo contemporaneo Azzo VI, il gran nemico di Ezzelino da Romano; Azzo VII che venne poi fu celebrato amico di trovatori e di poeti. Ma la fortuna stabile degli Este cominciava sotto Aldobrandino, cresceva con Niccolò II, si consolidava con Alberto che ebbe rinnovata l'investitura da Bonifacio IX, e che è ritratto in una severa statua murata presso l'entrata del Duomo, vestito d'armatura e con la bolla pontificia a lato. Suo figlio Niccolò, salito al dominio nel 1402, fu uno dei grandi Estensi, di natura feroce ma d'ingegno conclusivo, buon guerriero, acceso di fiere fantasie, così famoso amatore di donne da far dire di aver meritato il titolo di padre della patria, poiché sulle rive del Po tutti erano suoi figli. Appena esagerazioni, se di lui si numerano ventisette figli tra naturali e legittimi, riconosciuti ed allevati a corte senza distinzione. Durante la sua signoria, il castello estense chiuse fra le sue mura la passione di Parisina Malatesta, seconda moglie di Niccolò, per il figliastro Ugo, pietosissimo adulterio finito con la decapitazione dei due sventurati. Dopo la sentenza, Niccolò ordinava che qualunque donna riconosciuta colpevole d'adulterio fosse senza pietà decapitata, mostrando con questo ordinamento o una rabbia ferina che la morte non bastava a soddisfare o uno strano esempio di spirito legislativo al quale par necessario innalzare a regola comune un fatto personale come per sentire dietro di sé l'appoggio togato del diritto.

Ma Niccolò mostrava un grande discernimento, quando, prima di morire, designava a succedergli Leonello, uno dei figli naturali avuti da Stella dell'Assassino, la bella senese che gli aveva dato, tra gli altri discendenti, anche il disgraziato Ugo. Leonello fu uno di quei principi che non hanno

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bisogno di farsi temere per riscuotere autorità e prestigio, e che il popolo ama con la passione gelosa e riverente di un'innamorata. E celebre ritratto del Pisanello, pittura di piani spirituali, c'informa ancora meglio dei documenti sul signore umanista, politico finissimo che mirava, come poi Lorenzo dei medici, all'equilibrio pacifico di tutta Italia, protettore, anzi animatore degli studi e delle scienze, in corrispondenza con i grandi uomini del tempo, fondatore di biblioteche e di ospedali, riordinatore dell'università di Ferrara, L'umanesimo ferrarese, quella primavera classica che doveva poi dare il suo più opulento frutto nell'Orlando Furioso, si iniziò sotto il suo regno, per suo volere, e per la passione del suo maestro e precettore, Guarino Veronese. Allora, in Ferrara dove erano di casa i romanzi cavallereschi 2 le canzoni dei rimatori provenzali, dove dame e cavalieri modellavano il loro modo di vita sulle storie di Lancillotto, di Tristano, di Meliaduse, dei cavalieri al San Graal, di Goffredo da Buglione, dove le donne di corte portavano tutte motti francesi sui vestiti ricorderemo il "Nul bien san poine" di Beatrice d'Este, Il "Loiaument voil finir ma vie" di Isotta d'Este, il patetico "O mors o mersi" della damigella Violante , cominciarono a diventare familiari e ad essere intesi ed amati i nomi e gli accenti di Virgilio di Orazio di Tibullo di Catullo. L'università, dotata di gran privilegi, era frequentata da studenti italiani e stranieri, e tenuta da uomini dotti che insegnavano latino greco grammatica retorica e le altre discipline. Maria d'Aragona, seconda moglie di Leonello, lasciò per prima il vezzo d'illustrarsi in francese, ed ebbe come impresa, ricamata su tutti i suoi vestiti, un libro aperto sul quale era scritto "solius" (di uno solo). Nei giardini, nei conviti, si ascoltava il giovane marchese dissertare col suo maestro Guarino e con i suo compagni, e poi volgersi alle dame con il brio di Anacreonte e improvvisare:

Lo amor me ha fatto cieco, e non ha tanto de carità che me conduca in via,

me lassa per despetto en mea bada e disse: or va, tu che presumi tanto.

Morir giovane era quasi prevedibile per un essere di tanta grazia umana: Leonello morì a quarantasette anni nel 1450 (per aver troppo sacrificato a Venere, si disse), succedendogli il fratello Borso anch'egli figlio di Stella dell'Assassino. Borso d'Este, dall'ampio viso carnoso ed intelligente quale lo vediamo negli affreschi di Schifanoia, ebbe tutti i desideri delle cose grandi, delle virtù principesche, delle dignità sovrane: la sua corte era splendida e semplice insieme, perché l'etichetta spagnola, questa esasperazione pessimista del rispetto e dell'ossequio, non aveva ancora messo radici a Ferrara, La cortesia si improvvisava, sotto Borso, magnificamente. Ed egli stesso aveva nelle sue abitudini quello sdegnoso e familiare senso di grandiosità che solo sanno avere certi potenti i quali

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superano il loro grado con un esercizio quotidiano di magnanimi pensieri. Come il padre Niccolò, come il fratello Leonello, Borso seguì una politica di accrescimento dello stato, costruì ville, aprì strade, mise agli studi i primissimi progetti di bonifica per le fertili terre della palude ferrarese. Aveva meno sottigliezza di Leonello, il quale era stato non solo un principe letterato, ma anche un uomo tecnicamente colto, e capace, per una disposizione naturale dello spirito, di cogliere il punto più delicato di un problema; ma vedeva grande e lontano, e tanto rispettava nella sua sostanza l'idea dello stato, che non volle mai prendere moglie, né si legò mai in relazioni stabili con donne non volendo che la linea diretta della successione fosse turbata nell'avvenire da pretese di bastardi. Regnò solo, tra una corte animata e ricca, su un popolo che riconosceva la sua costante preoccupazione del benessere cittadino, amava la sua liberalità e sentiva di essere il primo pensiero del suo signore. "Noi terrazzani ed uomini del duca Borso" diranno, più tardi, i vecchi cortigiani, quando vorranno rivendicare la loro virtù di uomini schietti e di patrioti. Borso proteggeva gli studi> ma, immaginoso e fastoso di natura, aveva più passione per le arti figurative, e faceva dipingere carte, pareti, tavole, dai pittori di quella fortissima scuola che si andava formando a Ferrara e che ebbe i suoi massimi in Ercole de Roberti, Cosmè Tura, Francesco del Cossa. Le pareti di Schifanoia, con le allegorie di vita popolare e cortigiana alle quali hanno dato mano i tre pittori, rivelano di quale natura robusta fosse la gioia che colori e forme pittoriche davano all'occhio e all'animo di Borso; ed un altro esempio, dimostrativo, è la celebre bibbia miniata da Taddeo Crivelli e dai suoi aiuti che andò poi a fiorire la reggia di Mattia Corvino. Sogni, trasfigurazioni naturali, racconti sacri narrati da un pennello che fantastica anche nelle minuzie, accordi festosi e delicati, verdi trascolorati, azzurri da cieli orientali, rosa che sentono vicino il languore del lilla, una mitologia coloristica nasce da queste pagine; e dappertutto le misteriose imprese di Borso, il "Battesimo" la "siepe" "Unicorno" la "Rosa" il "Campanello", ognuna rispondente ad un'aspirazione o ad un moto del suo spirito, e rivelatrice di quanto la riserva e il mistero del simbolo entrassero a far parte della sua concezione aulica di vita. Ventun anni di governo, ventun anni di pace e di benessere per Ferrara: e a concludere bene questa vita, l'imperatore Federico III, tornando da Roma dopo la sua incoronazione, rinominava Borso duca di Modena e di Reggio; nell'aprile del 1471, Paolo II gli dava il titolo di duca di Ferrara; e Borso, promossa casa d'Este dal marchesato al ducato, moriva appena un mese dopo, lasciando lo stato al fratello Ercole, il primogenito dei figli legittimi di Nicolò III e di Ricciarda da Saluzzo: una donna, questa, alla quale la passione di governare aveva fatto solo difetto di circostanze. Ercole aveva trent'anni quando salì al potere nel 1471. Gran testa politica anche lui, ma per quanto Leonello era stato sottile e sensibile, e Borso magnifico, nel senso colorito della parola, tanto Ercole era misurato, cauto perfino nei suoi piaceri, portato di natura all'avarizia. e religioso, si direbbe, non alla maniera del

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Rinascimento, ma alla più severa maniera del medioevo conventuale. Convinzioni profonde su una necessaria riforma della Chiesa lo avevano stretto col Savonarola in un'amicizia dalla quale si era ritratto poi, deluso, quando aveva visto gli errori politici del gran frate ferrarese. Teneva in alto onore frati e monache, e si faceva spesso venire in castello coltissimi frati e sottili teologi perché disputassero in sua presenza, stando a seguire il nesso del discorso ecclesiastico ricco di trapassi sillogici come una musica dell'intelligenza pura. si è già parlato del rapimento ordinato da Ercole di suor Lucia da Narni, la monaca delle stimmate, trafugata da Viterbo a Ferrara; e si è accennato al monastero di Santa Caterina che il duca aveva fatto costruire per lei, verso Schifanoia. di questo monastero non solo Ercole le aveva dato il comando; ma aggiungeva di suo il pensiero quotidiano, la vigilanza quasi affettuosa; pensava a provvedere le suore di un orto, e l'orto di erbe odorose, serpilli lattughe salvia maggiorana prezzemolo finocchi, oppure ordinava al pittore Ercole Bonacossi di affrescare in una loggetta del convento l'Adorazione nell'Orto con il sonno degli apostoli, e la Vergine tra San Bernardino e San Girolamo; a gian Francesco Maineri da Parma commetteva una tavola con la testa del Battista; o mandava a donate oggetti d'arredamento, per esempio un grande orologio. Egli stesso, quasi ogni giorno prendeva la via di Schifanoia, arrivava al candido nuovo convento e stava in conversazione con la sua santa consigliandosi con lei perfino nelle cose di stato. Passione politica e passione conventuale, dunque, e, insieme, l'antico interesse della dinastia alla vita cittadina e alla cultura. Le bonifiche iniziate da Borso furono riprese da Ercole che riuscì a risanare vaste zone alle porte di Ferrara e a purificare l'aria circostante. L'architettura della città, sotto di lui, e per opera del grande architetto Biagio Rossetti si compose in forme geniali di civile espressività e di geometrica eleganza; lo stesso piano topografico cambiò, tracciate che furono le vie ampie e diritte del nuovo quartiere, chiamato l'Addizione Erculea; le arti e le lettere, aiutate, seguivano senza intralci il loro sviluppo dalla buona semina di Leonello. Ercole amava, come molti uomini politici, la musica, ed aveva poi una passione grande e gloriosa, quella del teatro. Fu lui a far rivivere in Italia quest'arte per la quale dimenticava anche di essere avaro; e per lui gli umanisti di Ferrara traducevano infaticabilmente commedie dell'antichità classica e componevano nuovi lavori sulle tracce dei modelli antichi. Aveva a Ferrara e chiamava da tutta Italia una schiera di attori addestratissimi che recitavano nella sala grande del palazzo della Ragione, o privatamente nelle sale minori: recitavano a volte gli stessi Estensi; nel 1492 la prima sposa di Alfonso d'Este, Anna Sforza, venne sulla scena vestita da uomo nei panni di Ippolito Buondelmonte innamorato di Eleonora ed ebbe un gran successo da quella "gentil creatura" che era, a detta della suocera aragonese. si mostrava così, anticipato di due secoli e non meno galante e civile e ricco lo spettacolo cortigiano che doveva offrire in Francia la corte di Re Sole. Ercole aveva fatto nel 1473, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che gli era parso il

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più politico dei matrimoni, sposando Eleonora d'Aragona, una delle figlie di re Ferrante di Napoli allora grandissimo e potentissimo sul suo trono napoletano. La sposa, bella di quella bellezza che per essere tutta espressione di regalità trascende ogni critica, giunse a Ferrara tra ghirlande di feste favolose, e mosse nei suoi sudditi ammirazione confidenza e rispetto, appena dimostrò loro la sua altera dolcezza la sua ferma intelligenza la sua serenità regale. Aveva dato alla casa estense sei figli, Isabella, Beatrice, Alfonso, Ippolito, Ferrante e Sigismondo, dei quali almeno i primi quattro contarono nella storia; e da figlia di re non aveva mai avuto paura né di guerre né di complotti, nemmeno quando, nell'estate del 1476, un nipote di Ercole e figlio di Leonello, Niccolò, persuaso che Ferrara gli fosse favorevole, e aiutato dal marchese Gonzaga, era venuto con una schiera d'armati nascosti dentro barche coperte di paglia fino in città, e al grido della sua impresa "Vela, Vela" aveva preso possesso delle principali posizioni. Allora, Eleonora, per il gran caldo rifugiata a Schifanoia, aveva avuto appena il tempo di fuggire in camicia con il neonato Alfonso in braccio e le due bambine Isabella e Beatrice alle gonne, e ripararsi in Castello: fatti alzare i ponti, li aveva atteso tranquilla l'arrivo di Ercole, il quale, vinto e sgominato l'esiguo e già sperso gruppo degli assalitori e preso Niccolò, lo fece prima decapitare, e poi, ricucita la testa al tronco, seppellire con sacre funzioni e in veste d'oro a San Francesco. più tardi, nel corso della faticosa guerra che per l'alleanza col re di Napoli Ferrara combatté contro i veneziani, Eleonora ebbe una parte primissima: Ercole ammalato, fu lei a scendere in mezzo al popolo con un discorso da principessa da sposa e da madre, congegnato così accortamente che prima ancora della fine, quei cittadini già stremati dalla guerra erano in piedi a gridare l'impresa del duca "diamante! diamante!", e "O casa d'Este o morte", e "difesa! difesa!" tutti rianimati. L'equilibrio morale di Eleonora era elegante come il suo portamento, e in alcune sue lettere si dimostra con una perfezione di qualità quasi borghese, quando per esempio, nel 1491, si allietava di aver viste sposate le figlie Isabella e Beatrice in un modo così onorevole e a due uomini di gran conto, la prima con il marchese di Mantova, la seconda con Ludovico il Moro. Verso la nuora ' bella specialmente di volto e di occhi, Anna Sforza, era di una sollecitudine graziosa, senza ombra di rivalità, contenta, anzi, se il figlio le mostrasse gentilezza e attenzione.

La morte di Eleonora nel 1493 era stata una sventura nazionale, poiché ella sola aveva avuto fino allora il potere di indurre la figlia Beatrice a temperare nel Moro la rovinosa ambizione che avrebbe messo, come mise, l'Italia in mano agli stranieri. Poi, giovanissima, era morta nel 1497 anche Beatrice, la situazione politica era andata sempre più oscurandosi, ed Ercole stava inquieto a veder sorgere e formarsi i tempi nuovi per i quali, ed egli forse non lo sospettava, non sarebbero bastate più le sole armi diplomatiche. Sarebbero stati i tempi dei cannoni di Alfonso d'Este. Questo Alfonso, il

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primogenito della casa, era cresciuto davvero schivo e chiuso senza comunicare col padre: pareva non volesse saperne di governo e di politica come non voleva saperne di chiamare alla sua compagnia uomini del suo grado e di occuparsi delle cose raffinate e decorose degne di un principe del cinquecento. Nato nel 1476, era cresciuto, nell'infanzia e nella prima adolescenza, fra le ansie della guerra contro i veneziani e i rammarichi del disgraziato dopoguerra che venne poi. Gli affanni di quella disastrosa impresa, che era costata ai ferraresi il magnifico territorio del Polesine di Rovigo, avevano contato per qualche cosa nella formazione di Alfonso e gli avevano dato la persuasione, dapprima istintiva, più tardi ragionata, che bisognava essere forti militarmente, facendo di lui, dopo tre estensi di natura e di tendenze pacifiche, un uomo di guerra. La novità delle artiglierie gli pareva una scoperta grandissima, e da valersene: sicché dirigeva egli stesso una fonderia, ed aveva un rispetto che non era di quei tempi per gli artigiani che vi lavoravano, i tecnici diciamo oggi, con i quali si fermava a conversare a lungo e familiarmente fra lo scandalo dei nobili e dei cortigiani. Negli scherzi e nei giuochi Alfonso mostrava un'anima semplice e viziata insieme, uno scapricciarsi alquanto grosso di istinti che ricordavano l'impetuoso sangue di Niccolò III e quello torbido degli aragonesi. si capisce che a suo padre tanto più aristocratico e ragionatore, natura di politico puro, egli paresse quasi mostruoso: fra i due c'era, oltre la fatale incomprensione delle generazioni, l'urto di caratteri più che dissimili, opposti. si raccontava fra l'altro che Alfonso, giovane di ventun anni, fosse uscito di pieno giorno per le vie di Ferrara, nudo, e con la spada sguainata in mano; una sortita da matto anche se venisse in mente di spiegarla come una bravata o una scommessa. E certo, ad Ercole pareva dilapidata senza finezza quella vita da grosso sensuale che, passando da una cortigiana all'altra, faceva suo figlio. Ercole, senza essere stato casto, vocabolo che per un uomo del Rinascimento era sinonimo di frigido, aveva avuto una certa continenza. Un famoso duello che egli aveva combattuto a Napoli per una bella aristocratica era stata un'impresa di cavalleria, dopo la quale non c'era stato da parlare molto a Ferrara delle avventure ducali: di serie egli ne aveva avute soltanto due, mente libera di spirito nell'invenzione della vita. In arte e in letteratura, sebbene avesse un gusto sorvegliato, seguiva la moda, era più informata che illuminata, e le poteva capitare, come infatti le capitò, di usare, per un Calmeta per un Accolti o per un Trissino, parole laudative di parecchi toni più alte che non per un Ariosto, mentre appena riusciva a porre mano nelle questioni di governo pareva liberarsi, si schiariva tutta, mostrava originalità di pensiero e di giudizio, destrezza quasi diabolica di volgere gli avvenimenti a suo favore, sapienza d'ogni arte diplomatica, e pazienza e accortezza e conoscenza degli uomini e delle cose che riassumevano degnamente in lei le qualità di almeno dieci generazioni di quegli arrabbiati politici che erano gli Estensi. di tenero, Isabella non aveva se non certe inflessioni sentimentali di linguaggio non tanto native in lei, quanto di un acquisto remoto che risaliva

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all'infanzia vissuta a fianco dell'affettuosa madre aragonese. Non bellissima come dicevano i suoi cortigiani, era di statura media, con un fisico che dava nel rotondo, capelli chiari ed occhi bruni, e un portamento che le riusciva di far diventare brioso e maestoso: aveva una conversazione irresistibile ricca e saporosa: e, musicista di istinto e di educazione, cantava e suonava con la perfezione della naturalezza. Era una madre diligente, ma preferiva i figli maschi e quasi soltanto di loro scriveva nelle sue lettere al marito: si raccontava che alla nascita della sua seconda bambina avesse dato in smanie di rabbia e avesse fatto togliere la piccina come indegna dalla sontuosa culla preparata per un maschio; e più tardi, alla monacazione di un'altra figlia, Ippolita, mentre il marito commosso benediceva più volte la giovinetta, ella esprimesse la sua lietezza per aver maritato la figlia ad un genero che, diceva, non le avrebbe dato fastidio. Amava il marito, uno dei più brutti e più affascinanti uomini del suo tempo, il vincitore di Fornovo del 1495, di una così aperta e simpatica ingenuità da farsi comporre versi dai suoi poeti di corte per mandarli poi alla sposa letterata come propri. Né aveva mai avuto debolezze per nessuno se non forse una debolezza tutta cerebrale per suo cognato Ludovico il Moro, che a lei quindicenne aveva data una sovrana impressione di potenza e di ricchezza ospitandola nel suo castello milanese, tra feste e balli di uno sfarzo portato all'estrema espressione. Il Moro le aveva fatto vivere in quel tempo giorni di gloriosa galanteria con gli onori che le aveva reso e con i doni imperiali che le aveva messo ai piedi, come il vestito di tessuto d'oro riccio e soprariccio ricamato ad un'impresa che raffigurava il porto di Genova col fanale e le torri e la scritta: "Tan trabajo m'es placer per tal tbesauro no perder". si, Isabella aveva allora copertamente invidiato il destino della sorella minore: non più tardi, però, quando aveva visto Beatrice morta, il ducato lombardo in rovina, spenti e avviliti gli splendori di Milano. L'equilibrio del tanto più piccolo marchesato di Mantova aveva resistito e resisteva: e qui Isabella regnava intrepida tra una schiera di ragazze a volte obbedienti a volte no, attenta alla sua vasta rete di intrighi diplomatici, artistici, mondani. Ma con l'arrivo di Lucrezia per la prima volta sul mondo positivo d'Isabella salivano brume: che cosa le avrebbe portato questa cognata che veniva da Roma e da quella corte papale con la quale nessun altra poteva avere confronti? Oggi, intorno, si parlava solo della sua grazia e della sua virtù: ma Isabella aveva sentito dalla bocca stessa del marito divorziato di Lucrezia non si dimentichi che Giovanni Sforza aveva sposato in prime nozze una sorella del marchese di Mantova storie scandalose sul suo passato e le aveva sentite da uno che sapeva mettere fiele nei suoi racconti. Eppure, dover riconoscere eguale e riverire come signora di Ferrara una donna che aveva dato da parlare a quel modo, era ancora poco per Isabella se ella pensava quale parte la Borgia avrebbe potuto rappresentare al confine della sua terra, nella sua città nativa, fra quel popolo che ella aveva abituato a considerarla impareggiabile modello di regalità, anzi una vera dea. La bellezza la ricchezza il fascino della

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rivale erano, ad ogni descrizione, spine all'orgoglio della marchesana. Aveva capito, forse prima d'ogni altro, che era meglio per tutti rassegnarsi a questa parentela, ma la pativa male e fremeva di propositi non pronunciati, incitata dai suoi amici di Ferrara che ' descrivendole le grandi eleganze di Lucrezia, la esortavano ad adoperare "il suo ingegno a ciò dimostri di chi la fu figliola" alludendo, a riscontro della bastarda, alla discendenza regale di Isabella Per parte della madre aragonese.

Da ottobre a gennaio, i lenti mesi invernali erano intensamente occupati alla corte di Mantova. Isabella radunava le sue ragazze, le addestrava, per ore ed ore stava a studiare nuove fogge di vestiti, confrontava colori, avvicinava velluti e pellicce cercando accordi inediti, si valeva, non bastandole la ricchezza dell'oro e dei broccati, di ispirazioni, letterarie per ricami simbolici che avrebbero dato da pensare ai cervelli dei cortigiani; per i suoi gentiluomini che non erano tutti ricchi chiedeva in prestito a Brescia catene d'oro e le otteneva, ma non così belle come le avrebbe desiderate. Studiava e riprovava le sue canzoni, accompagnandosi col liuto, e, poiché sapeva che l'arte preferita di Lucrezia era la danza, aveva deciso che non bisognava restarle indietro nemmeno in questo, e provava con le sue donne le danze francesi e italiane allora di moda. Qui il passo non aveva ritmo, le figure riuscivano goffe, e la fronte di Isabella si oscurava: ci voleva un maestro di ballo, e che fosse eccellente. Isabella si ricordava che l'anno prima il fratello Ippolito le aveva proposto di prendere al suo servizio il tamburino e ballerino Ricciardetto, maestro non solo di belle maniere, ma anche di danze d'ogni paese: allora, ella l'aveva rifiutato, ma ora che le era necessario lo richiedeva impazientemente; e poiché Ippolito indugiava a mandarlo, Isabella lo sollecitava: "Se la S. V. non mi manda Rizardetto per qualche di, dubito che rimarrò svergognata in questa festa". Ricciardetto partì.

Il 14 novembre .1501, mentre ancora Lucrezia a Roma pativa le alternative del dubbio, era partito dalla cancelleria di Ferrara per Mantova l'invito ufficiale di Ercole d'Este alla figlia. L'originale di questo invito, fino ad oggi sfuggito all'indagine dei ricercatori, arriva giusto a spiegare un punto oscuro: perché, a Ferrara, per le nozze borgiane Isabella andò sola, senza la compagnia del marito, il marchese di Mantova? C'è una lettera di certo Matteo Martino da Busseto il quale, da Bolzano, scriveva al marchese di Mantova d'aver saputo come, durante le feste estensi, il Papa, in segreto accordo con i francesi e con i veneziani, aveva stabilito di piombare con l'esercito del Valentino su Ferrara e fare così una retata di capi di stato, dei quali avrebbe poi invaso e usurpato le terre dividendole con i suoi alleati; ipotesi che aveva del farnetico, e che si sente benissimo venuta dalla corte di quell'uomo spiritualmente sbandato che era l'imperatore Massimiliano. Il Busseto consigliava poi vivamente il marchese di Mantova di non muoversi

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dalle sue terre e di stare attento ai confini: ma questa lettera, scritta il 9 dicembre 1501, se poteva rinvigorire l'atmosfera di sospetti e di diffidenze verso Cesare Borgia, non venne certo a determinare nulla in Francesco Gonzaga per la ragione che il suo non intervento alle nozze era stato già deciso un mese prima, e deciso da ben altra mente che non da questo o quel consigliere gonzaghesco, proprio dal duca Ercole d'Este. Da Ferrara col messaggio ufficiale del 14 novembre il duca dopo aver invitato la marchesa di Mantova alle nozze di madama Lucrezia, "nostra nuora, perché come figlia è conveniente che V. S. vi intervenga", continuava: "ci pare meglio che Sua signoria (Francesco Gonzaga) non venga, date le condizioni dei tempi presenti". più che una esortazione un ordine. "E così, la S. V. glielo potrà far intendere", concludeva il duca alla figlia, mostrando chiaro di aver più fiducia nell'intendimento di lei che in quello del genero. Sarà stato dunque il Gonzaga ad aver paura: ma una paura circostanziata, se per primo l'avvalorava il duca di Ferrara che non era uso a spaventarsi di fantasmi. già la febbre conquistatrice del Valentino saliva di grado avvertita da tutti; ed Ercole d'Este sapeva, in più, che a Roma il Papa non aveva risparmiato con il Saraceni ed il Bellingeri lagnanze contro il marchese di Mantova giudicandolo troppo "libero nel parlare" e soprattutto colpevole di aver ricoverato nelle sue terre nemici del Papa e del Valentino, una schiera di profughi antiborgiani fra i quali Persino Giovanni Sforza il primo marito divorziato di Lucrezia. Meglio, dunque, che Francesco Gonzaga rimanesse a casa Per prudenza sua e per garanzia di ognuno. A fine gennaio, Isabella, tutta in ordine, partì con i suoi forzieri e con la sua corte, protestando di annoiarsi in questo duro esercizio dei propri doveri. Aveva con sé, sua confidente, la marchesa di Cotrone, e avrebbe trovato a Ferrara la cognata, Elisabetta Gonzaga duchessa d'Urbino con la sua amica intima, una delle donne più spiritose del secolo, Emilia Pio di Montefeltro: un coro altero temibile nei suoi affiatamenti critici. A Ferrara le nozze borgiane hanno dato l'avvio ad una gran macchina, hanno perfino sciolto la borsa ducale. Contando esattamente, Ercole spende, già certo che la nuora pagherà tutto. Lo scatolaio Giacomo e maestro Niccolò hanno avuto la commissione delle scatole e dei confetti dorati; l'orefice di corte lega gioielli nuovi, e rilega quelli antichi; l'intagliatore veneziano Bernardino insieme con Giorgio dalle Cordelle e con Francesco Spagnolo lavora al fornimento da cavallo per lo sposo, senza risparmio di piastre d'oro battuto, sbalzato e lavorato; i pittori fino e Bartolomeo da Brescia disegnano indorano e dipingono le carrette che porteranno le dame di corte; per le strade si ergono "tribunali", quello di Castel Tebaldo, del Saraceno e di San Domenico, costruzioni di legno carta e tela dipinte, dalle quali attori inghirlandati daranno il benvenuto alla sposa: le invenzioni di questi tribunali non parvero però molto argute. Il cordaio Giacomo prepara le corde lunghissime che dall'alto della torre del Rigobello e della torre del Podestà devono arrivare al suolo, via aerea che due saltimbanchi prenderanno per arrivare ai piedi della nuova duchessa. Ma operai più numerosi, un esercito, lavorano per le

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rappresentazioni teatrali sorvegliate dal duca, e che comprenderanno, oltre le commedie, gli intermezzi, balli coreografici detti "moresche". I registi Ercole Panizzato e Filippo pizzabeccari si sono stillati il cervello nella ricerca di effetti degni di quel pubblico e di quell'occasione; e a corte, chiusi nella gran sala del palazzo della Ragione, pittori e decoratori chiedono stoffe bianche rosse e verdi per le gradinate destinate ai cinquemila spettatori, drappeggiano tele d'oro per il baldacchino ducale, dispongono le piante sempreverdi in festoni, dipingono i grandi stemmi degli Este dei Borgia e del gran protettore di Ferrara il re di Francia, mentre i cento attori, e i musici e i ballerini provano le loro parti, e arrivano le ceste del materiale teatrale: la sfilata funambolica comincia con i pennacchi di piume di struzzo di Giovanni Massariato, le quaranta libbre di stoppa preparata in modo da non offendere la bocca dei ballerini mangiafuoco, i sonagli i tamburini e le palle colorate di maestro Beltrame, i ventiquattro specchi di maestro Giorgio, i sedici velari di seta rossa di messer Luca; e poi, i guanti ricamati di Marino, le calze a strisce e a colori di Salvatore Loaloni, i trentanove anelli dell'orefice Zenorino che orneranno le orecchie di "finti mori", e fiancali, gorgerine, maschere dello specialista ferrarese Gerolamo della Viola, una migeriosa "palla per fare una musica", teste finte, pellicce, doppieri, cinte, spade, pallottole, trombe, e i più strani corredi di vesti di camicie di giubbetti di saioni di mantelli di calzari e di scarpe. A seguire dalle finestre o nei racconti dei parenti e delle fantesche questo movimento, ogni dama o donzella rabbrividisce di piacere e va col pensiero al vestito e agli ornamenti che le dovranno dare un suo piccolo o grande trionfo. "Le donne sfoggeranno ultra misura" aveva detto uno che aveva pratica di sarti e di ricamatori. C'era stata gran lotta fra le famiglie nobili perché le fanciulle della loro casa andassero a far parte della corte della nuova duchessa: oltre l'onore ed i benefizi che poteva procurare questa carica ai familiari delle ragazze, era d'uso che la duchessa procurasse di maritar lei quelle che l'avevano bene servita, e che desse loro regali, gioie, o addirittura la dote, risolvendo così onorevolmente il nevrastenico problema che è stato per i genitori di ogni tempo la ragazza da marito. In novembre Ercole stesso, accompagnato dal figlio Alfonso e dal medico favorito di corte, Girolamo Ziliolo, era andato all'improvviso per i palazzi nobili a fare la cernita: la regola era che le ragazze fossero fra i quattordici e i diciotto anni, di famiglia nobile, sane e belle: "La bellezza importa assai" diceva sospirando il padre di due ragazzine "non belle ma di qualche poca grazia" raccomandate invano. Ne scelsero cinque o sei, e i loro nomi invidiati e commentati fecero subito il giro della città: a gennaio erano certe Giulia dei Trotti, Elisabetta da Bagnacavallo, "quello bello frutto" a detta dei cortigiani, Lucrezia Maffei, Giulia Montina, Eleonora della Penna, Elisabetta dall'Ara, Benedetta nipote dello Ziliolo, una Violante ebrea convertita, un'altra ebrea convertita figlia dell'orefice di corte; se ne sarebbe aggiunta qualche altra. Lotta ancora più nutrita era avvenuta fra le dame anziane per la carica di governatrice del giovane gruppo femminile; e qui le concorrenti erano tanto

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navigate, tanto nobili, tanto benemerite di casa d'Este per servizi già resi alle Precedenti duchesse, che era difficilissimo scegliere: delle tre più probabili, scartata Giovanna Malatesta da Rimini, ancora troppo giovane bella e civetta, rimasero Beatrice Contrari della gran casata dei Rangoni, e Teodora Angelini: donne savie certo, ma per nulla rigide; la Contrari specialmente poteva arrivare immune ad un parlare liberissimo come dimostrò una volta quando, essendo compagna di Isabella d'Este in un viaggio invernale, aveva scritto al marchese di Mantova narrandogli le disavventure di quel tragitto. In quelle notti aveva fatto tale freddo nel bucintoro sconnesso e mal coperto che andava per fiume verso Milano, che Isabella l'aveva chiamata nel suo letto per farsi caldo in due: ella, assicurava la Contrari, si era provata del suo meglio a riscaldare la giovane marchesa ma le aveva fatto osservare quanto sarebbe stato più adatto a farla ardere il marito piuttosto che lei; proprio, sottolineava, "non ne avevo il modo". Ma nella lotta la galante Beatrice non sappiamo perché sbagliò la strategia, e fu sopraffatta dalla Angelini già dama d'onore di Eleonora d'Aragona, che si sarebbe piazzata in corte con tutta la famiglia: il marito Antoniolo era stato nominato "compagno" della nuova duchessa, e la figlia, una svenevole ragazzetta di nome Cristida, era stata ammessa tra le donzelle. Ad un tratto nomine e traffici si fermarono: era arrivata da Roma la lista della comitiva che Lucrezia si conduceva dietro, e il duca Ercole nella sua allarmata avarizia aveva tremato. Tante donne e donzelle, tanti spagnoli, cavalieri servitori e paggi, tanto rumore di gente estranea che veniva a scompigliare le sue abitudini di uomo anziano e soprattutto a imporgli tanta spesa, sembravano minacciosi alla sua pace e al suo bilancio; tenne dunque sospesa la pubblicazione della lista cortigiana, aspettando di vedere con i suoi occhi l'orda che presumeva di invadere il castello estense, e solo prescrisse alle donzelle scelte l'abito di gala per i ricevimenti, in raso cremisino con gran mantello di velluto foderato di agnellini neri. Le fanciulle, figurarsi che gioia. ma i loro padri, eccoli a borbottare che per una uniforme era davvero troppo e che tanta spesa equivaleva presso che a una dote: a sentirli, quelli che avevano avute le figlie escluse dalla scelta ducale si rallegravano, e concludevano che ci sarebbe stato davvero "poco avanzo" in quella nomina: era la naturale rivincita dei poco fortunati, e guai della voluttà. se non ci fosse; e intanto, fra i modesti temporali paterni, le ragazze si metteranno, felici, in raso velluto e pelliccia. In una città come Ferrara, dove cultura e poesia maturavano in un'ardente estate classica, non sarebbero stati però solo artigiani donne e gentiluomini a provare l'agitazione e l'entusiasmo di un lavoro straordinario: umanisti e poeti avrebbero dapprima fatto correre le penne sui fogli bianchi in lode di casa d'Este, e poi, sospesa un istante la scrittura, avrebbero cercato di cogliere nei prati letterari l'aggettivo spiccato e rotondo in lode della sposa. Tutto quello che si sarebbe scritto sarebbe stato in latino; a nessuno in quel tempo poteva venire in mente di celebrare avvenimenti di importanza dinastica se non in quella lingua aulica che a

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Ferrara erano in molti a possedere con perfetta eleganza. C'erano tra gli anziani Niccolò da Correggio, Pellegrino Prisciano, Tito Vespasiano Strozzi, Niccolò Maria Panizzato; e tra i giovani, Celio Calcagnini, Antonio Tebaldeo, Ercole Strozzi, e, principe fra tutti, Ludovico Ariosto ancora fedele alla poesia latina, e che solo di li a pochi anni incomincerà a pensare, in italiano, al suo gran poema epico e cavalleresco. Questi poeti vivevano la vita di corte; erano quasi tutti, anzi, stipendiati dalla casa ducale con uffici non sempre letterari; e la loro poesia latina od italiana seguiva le passioni e le vicende dei loto signori. Per Ercole d'Este non si poteva dire che le loro penne non avessero avuto da lavorare: chi non aveva tradotto, rifatto, o magari composto su schemi classici commedie ed egloghe per il teatro del duca? Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano, il poeta dell'Orlando Innamorato, aveva rifatto, traducendolo, il timone di Luciano. più recente, il Gelalo di Niccolò da Correggio aveva avuto a corte un successo di stima, e una commedia di Ercole Strozzi era piaciuta, specie alla duchessa Eleonora e alle sue dame. Per tutti, una volta o l'altra, in questa o in quella circostanza c'era stato modo di esaltare la casa estense. Così, su temi obbligati la poesia e l'arte s'innestavano per loro conto, e qualche volta davano buone fioriture; come nei nitidi versi che tiro Vespasiano Strozzi aveva dedicati ad Ercole al tempo delle nozze di Alfonso con Anna Sforza, e nei quali l'incontro dei due giovanissimi sposi era idealizzato con una grazia appena invermigliata dal caldo Sarebbe toccato un po' a tutti comporre immagini per le nozze di Lucrezia. Pellegrino Prisciano, bibliotecario di casa d'Este fin dal tempo. di Borse, umanista, astronomo e letterato, preparava il discorso di ricevimento per il quale si erano chiesti a Roma i dati dei fasti borgiani da celebrare insieme con i fasti estensi. Preparavano versi l'eloquente il dotto misurato Celio Calcagnini e l'umanista Niccolò Maria Panizzato: e preparava un epitalamio con bei moti di invenzione e di cadenze l'Ariosto. Sono tutti componimenti freddi: e se l'Ariosto si anima, canta le lodi di Ferrara, si compiace delle opere civili che fanno bella ricca e sana la città la quale, ora che si adorna di Lucrezia, trionfa, lasciando deserta e spoglia quella Roma già così orgogliosa. Come dall'alto di un ideale poggio, un gruppo di giovani romani vede allontanarsi la sposa e la segue con un maschio e composto sospirare. "Omnia vertuntur" dicono a voci basse, quasi per se stessi. "Omnia vertuntur" afferrano e rilanciano nell'aria come promessa di gioia i giovani ferraresi, dall'altra parte, salutando quella che si avvicina, la nuova signora. Ogni cosa pareva mutare. Verso Ferrara si avviava intanto la cavalcata nuziale, uscendo da Roma il nevoso 6 gennaio 1502, per quella via Flaminia che va diritta al nord, seguendo quasi fedelmente il tracciato del console romano. A ponte Milvio gli ambasciatori avevano preso licenza da Lucrezia e ritornavano indietro, tutti, meno il ferrarese Costabili che la seguì un poco più in là finché, quando ella si fermò per cambiare cavalcatura, andò a salutarla devotamente avendosi da lei frasi inceppate che alludevano a discorsi rimasti in aria per mancanza di tempo, e che gli sarebbero stati

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riassunti per lettera. si riprendeva subito la via: il cardinale Ippolito con pochi dei suoi avrebbe accompagnato la cognata fino alla prima sosta della comitiva, ed il Valentino aveva intenzione di cavalcare sine, al calar del giorno, per tornare a Roma nella nottata. Stare tra il fratello e il cardinale d'Este era un aiuto per Lucrezia che, riparata a destra e a sinistra da presenze così reali e per ogni verso impegnative, poteva sentirsi difesa contro i ricordi che si abbattevano su di lei mentre il panorama romano le fuggiva sotto gli occhi. Perché era inutile cercare di distrarsi nell'illusione scenografica del paesaggio che via via si componeva dinnanzi ai viaggiatori: la campagna romana si disegnava nella ferma aria d'inverno in un contorno nettissimo di linee, campita di colori senza impasto, assoluti, minerali. Una malinconia spoglia di elementi romantici, che metteva a nudo lo spirito fino a scarnirlo ma lo teneva di qua dalla disperazione sotto l'austerità di una vigilanza che non ammette abbandoni, toccava gli animi isolandoli gli uni dagli altri, mendendo loro meglio sensibile il senso di prigionia che sta all'origine della loro risonanze vuoti d'aria.

questa realtà di dirsi e intanto Cavalcarono tutto il pomeriggio; e con le prime brume scomparve il Valentino, dopo un saluto che dovette essere per Lucrezia quasi un'improvvisazione di sofferenza sulla via aperta, tra gli sguardi di tanta gente, nella luce fredda e bassa del cielo al crepuscolo. La sera, toccando il venticinquesimo chilometro videro profilarsi a destra una collinetta fasciata dal grigio dilavato degli olivi e scoprirono tra mura fortificate e torrioni la forma di un campaniletto duecentesco. Era la prima sosta, Castelnuovo di Porto: ed era, per Lucrezia, l'avventura che si sarebbe ripetuta alla fine di tante giornate per quasi un mese: arrivare, correre verso la fiamma di un camino, dormire in un letto sconosciuto, lottare contro ogni ombra di rimpianto di ansia di ricordi e di desideri, conquistare magari contro se stessa la pace necessaria per potersi alzare la mattina dopo col viso ricomposto. Gli informatori non ci hanno riferito quando avvenne la separazione di Lucrezia dal cardinale d'Este, se la sera del 6 gennaio o la mattina appresso; ma certo da Castelnuovo ella perdette la sua compagnia. Aveva ancora vicino la cara onesta faccia del cardinale Francesco Borgia; e le era dappresso il consigliere gian Luca Castellini, il gobbo di Ercole sempre con qualche cosa di nuovo da discutere e da deliberare; c'erano poi i due cognati estensi don Ferrante e don Sigismondo, compagnia tutta divagata, ma appunto per ciò leggera e riposante. E la sera si componeva l'oasi delle donne, zampillava il trillo spagnolo di Angela solitudine umana. bisognava aggrapparsi a essere tra molti, di aver cose essenziali da seguire il suono delle proprie voci nelle presenti, e colmare con parole e gesti Borgia, al quale rispondeva, più evocatore, il contralto sapiente di Adriana mila.

Ma venivano le mattine, le albe ghiacce, i risvegli senza pause. I cavalli erano pronti sotto le finestre, salivano insistendo le voci degli uomini;

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qualcuno bussava, annunciava che tutto era in ordine; bisognava, infine, mettersi in via. già il 7 gennaio la cavalcata sfilava verso civita Castellana sotto il Soratte candido della neve che era arrivata quell'anno fino a Roma. "Vides ut alta stet nive candidum Soracie" avrebbe potuto esclamare con Orazio qualcuno dei letterati della compagnia, mettiamo Messer Niccolò da Correggio: e fare quel cammino, ascoltando scandito in sé il battito del verso antico.

Dopo civita Castellana apparvero le prime colline che ascendono fino alle alture selvose di Narni tagliate a coltello sulla lucida Nera. si passò Terni diretti a Spoleto. Ma l'andare della compagnia non procedeva come avrebbero voluto i suoi capi; gli umori si erano formati e divisi, armate le barriere delle nazionalità e degli interessi; i romani stavano in superbia, i ferraresi che già a Roma avevano notato e riferito a Ferrara "quanto è il loro fumo de dire io son romano" li beffeggiavano tacitamente. Gli spagnoli non riuscivano a perdonare ai ferraresi il bottino fatto in Vaticano, e gli uomini del duca Valentino disprezzavano tutto e tutti sull'esempio del loro signore. Fra Terni e Spoleto qualche cosa di questi umori scoppiò in una baruffa tra tino staffiere di Stefano dei Fabi nobile romano, e uno staffiere di don Sigismondo d'Este per certi tordi ghiotti. si azzuffarono; e un ferrarese, visto che il compagno stava per essere sopraffatto, si era slanciato contro il romano ferendolo gravemente alla testa. A vedere il suo uomo così ridotto, Stefano dei Fabi sentì infuocarglisi il sangue, e chiese subito soddisfazione agli Este i quali gli mandarono a dire di non sapere dove fosse il feritore e di averlo ricercato invano: il romano, che sapeva come queste fossero scuse, si sentì offeso, empì l'aria di propositi furiosi, e finì per dare una dimostrazione del suo rancore all'entrata della rocca di Spoleto, passando davanti ai fratelli Estensi a testa alta senza salutarli. Toccò a Lucrezia pacificare il contrasto, sul quale puntavano già, pronti a prendere partito, i più facinorosi della comitiva. A Spoleto, gli abitanti, memori del governatorato di due anni prima, erano venuti a salutare Lucrezia: le avevano preparato come abitazione la stessa sua dimora di governatrice, la Rocca, e la guardavano salire con lo stesso sorriso per quelle strade che già ella aveva percorso nel 1494 quando v'era passata a fianco di Giovanni Sforza in una sosta del viaggio verso Pesaro, e nel 1499, prima sola, poi insieme con Alfonso di Bisceglie. Questi ultimi ricordi erano di ieri; si apriva il portale del gran castello, ecco il cortile, le torri, il doppio loggiato dai pilastri ottagoni, il pozzo con lo stemma del cardinale d'Albornoz; chiamato dal sortilegio delle cose stava forse per apparire il viso maturo di dolce7za del giovane principe aragonese? Forse Lucrezia riuscì a dimenticare la stretta di affannose visioni solo lasciando dietro di sé le mura di Spoleto: e le dimenticò meglio, quando a distrarla, fra Spoleto e Foligno, una masnada di gente bella, giovani e uomini dei Baglioni, signori di Perugia e feudatari del Papa, venne ad invitarla nella loro città, invito d'omaggio, tutti sapendo benissimo quanto

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fosse rigoroso l'itinerario della compagnia. Vi furono complimenti e discorsi, poi i Baglioni si accodarono alla cavalcata e fecero da scorta sino a Foligno. Qui i cittadini avevano voluto preparare un ricevimento allegorico più bello di quanto la loro fantasia reggesse ad immaginare: ma se l'iperbole nella lode ai potenti era in quel tempo un gergo, e andavano dunque benissimo le allusioni a Lucrezia moglie di Collatino, e i giudizi di Paride con l'elezione di Lucrezia a regina di bellezza quel gergo bisognava conoscerlo in ogni finezza dell'uso per restare di qua dal ridicolo. Che senso si poteva attribuire all'allegoria folignese che portava in scena una galea piena di turchi, venuti, dichiaravano, a mettere sotto la protezione della nuova duchessa di Ferrara terre e regni d'oriente? Pareva una caricatura, e tutti rimasero perplessi. Ma Lucrezia li ascoltava appena come un ronzio sonoro che l'accompagnasse nella sua faticosa apparizione; ringraziava e procedeva. Cominciano le spie ad andare intorno: se viaggiando non si vedono e stanno nelle file di coda, durante le soste si allungano le loro ombre nelle scuderie, nelle anticamere, Presso le stanze delle fantesche: il "Prete", l'Informatore della marchesa di Mantova, scivola per i corridoi, riesce a rendersi gradevole a forza di buffonate, non solo tollerate dalle ragazze ma lasciato entrare perfino, una volta, nelle stanza dove Lucrezia ha dormito, ad esaminare i suoi abbigliamenti notturni. Forse proprio le donne parlano di lei alla loro signora. difatti ella lo fa chiamare, si lascia guardare minutamente e intanto lo interroga. Il "Prete" non può non rispondere alle domande che gli si fanno sulle abitudini e sulla corte di Isabella d'Este, e risponde; ma un giorno s'accorge di aver parlato troppo e di aver la peggio in quel duello di furberie: "é donna di gran cervello astuta," annota "quando le si parla bisogna avere la mente a casa". più liberamente si può discorrere e si discorre sulle donne del seguito. Pare che la giovanissima sposa di Fabio Orsini, Jeronima Borgia, fosse ammalata di malfrancese. La sorella di Jeronima, Angela Borgia, quindicenne, è la più ammirata, bella, elegante, con un certo scintillio d'occhi da far voltare il sangue. Sulla nervosa Caterina da Valencia, la danzatrice, c'è discordia di pareri: è bella? non è bella? "A chi la piace e a chi non", conclude il "Prete", mentre afferma che la bellezza della cantatrice Elisabetta da Perugia persuade senza discussione. Cinzia e Caterina, due vivaci napoletanine figlie di madonna Ceccarella che veniva certo, lei, dalla corte di Sancia d'Aragona dove l'abbiamo trovata nella lista del 1494, avevano la simpatia di tutti, una simpatia però a fior di pelle, nella quale non c'era chi si sentisse impegnato. Ma quella che suscitava nel "Prete" e nella comitiva un'ammirazione strabiliata era la negra Caterinella, levigata e lucida, che la sua padrona faceva addirittura avvolgere nel raso e nel broccato, ed ornava di braccialetti, di perle e di collane come una ricca bambola da harem. Non che i ferraresi non fossero abituati al capriccio principesco dei negri: negretti aveva avuto Isabella d'Este, e una negretta anche Anna Sforza; ma questa di Lucrezia era un pezzo raro, "la più galante che vidi mai" diceva il "Prete". Il viaggio progrediva: la cavalcata, lasciatasi dietro Foligno, aveva toccato

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Nocera Umbra, Gualdo Tadino; deviando a sinistra, era passata dal territorio della Chiesa nel territorio del duca d'Urbino, arrivava sotto Gubbio, vedeva venirsi incontro, a due miglia dalla città, una comitiva ordinata, a capo della quale stava la più difficile signora quella duchessa dal lungo viso, Elisabetta Gonzaga sorella del marchese di Mantova. Per condiscendere ai Borgia con la sua presenza, la duchessa Elisabetta mostrava che tanto lei quanto suo marito non si facevano illusioni sulle intenzioni rapaci del Valentino già da un pezzo volte alla selvosa terra dei Montefeltro, certi com'erano che non per nulla Alessandro VI aveva compreso Urbino tra le signorie decadute dai diritti feudali. Andare incontro all'amatissima figlia del Papa, aver promesso di scortarla fino a Ferrara, ospitandola prima nel territorio urbinate con tutte le raffinatezze di quella corte modello delle corti umanistiche e liberali, era, dunque, un atto di necessità politica, un tentativo estremo di conciliarsi la benevolenza del Papa, ma non dava per questo meno orgoglio ai Borgia, troppo avventurieri, in fondo, per non sentirsi salire di grado nell'altera compagnia della Gonzaga. Vestita di velluto nero, ornata sobriamente secondo una formula personale che, bruciati i concetti comuni dell'ornamentazione, si concludeva in un accordo squisito tra forma ed intelletto, la duchessa Elisabetta avanzava, avendo a lato la sua amica e compagna Emilia Pio, vedova di un Montefeltro, celebre non per bellezza, ma per uno spirito critico ed ironico che doveva portarla più tardi quasi ai confini di un sereno ed eretico epicureismo, e che le traluceva dalle pieghe del viso prima ancora che dai piccoli occhi di donna grassa e bianca. Come la duchessa, Emilia Pio vestiva di nero, e come tutte le donzelle del seguito portava in capo un cappello a larghissime tese, rialzato sul davanti e ricadente sulla schiena, invenzione simbolica, e, come si vedrà, assai commentata, della duchessa. "Fatti gli abbracciamenti, con grandissime dimostrazioni di amore vicendevole le signore" scriveva gian Luca Castellini, si avviarono verso la città e v'entrarono di notte al lume delle torce arrampicate su per le ripidissime vie. Lucrezia alloggiò nel quattrocentesco palazzo ducale dove tutte le camere, comprese quelle più intime della duchessa d'Urbino, le furono aperte: anzi, Per lasciare all'ospite la signoria della terra, la duchessa con i suoi andò a passare la notte in villa, fuori dalle mura della città. Dappertutto erano dipinte le armi del Papa, quelle di casa d'Este e quelle del re di Francia: provviste di cibi e di vini fini arrivavano abbondantissime, i torceri erano accesi, dai camini incorniciati d'arabeschi marmorei veniva il palpito cordiale del fuoco; gli intendenti e i servitori che si muovevano intorno agli ospiti avevano anche loro "tanta buona cera che non si potrebbe meglio"; nelle stalle linde e piene di biada perfino i cavalli avrebbero preso, potendo, un'aria soddisfatta. Il mattino dopo, 17 gennaio addio al tutore di Rodrigo di Bisceglie, addio al buon amico , partiva da Gubbio per tornare a Roma il cardinale legato Francesco Borgia. Non si lasciò a Lucrezia il tempo di commuoversi: i saluti al cardinale erano appena finiti, che già la cavalcata nuziale ingrossata dal seguito della duchessa d'Urbino

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cominciava a sfilare; era di scena, ora, la lettiga dorata alla francese che Alessandro VI aveva regalato alla figlia appunto per questa occasione. Oltre che di comodità, il Papa aveva potuto avere, preparando questo dono, una ragione di psicologia: aver pensato cioè che una volta chiuse nella piccola stanza viaggiante parata di broccati e imbottita di cuscini e di tappeti, Elisabetta e Lucrezia sdraiate l'una presso l'altra, e isolate dal mondo di fuori, avrebbero avuta più facile la conversazione, e, incontrate che si fossero, avrebbero finito quel viaggio in amicizia. di amicizia invece non si parlò mai; le due donne venivano da troppo lontani e diversi mondi per fidarsi una dell'altra; e forse c'era un'ombra di pena in quel non poter fidarsi. Dovettero proporsi ed accettare argomenti cortigiani e di circostanza, e toccarono senza dubbio il tema Elisabetta era letteratissima e ci teneva degli amici poeti ed umanisti che avevano in comune, come Vincenzo Calmeta, Bernardo Accolti, e l'allora scomparso Serafino Aquilano. Il 17 sera erano a Cagli dove trovarono, rinnovate, le accoglienze e le gentilezze di Gubbio, e il 18 arrivarono ad Urbino: ad un miglio dalla porta venne loro incontro il duca Guidobaldo di Montefeltro che Lucrezia aveva già conosciuto a Pesato e riveduto a Roma al tempo dell'impresa del duca di Gandia contro gli Orsini. si entrò nella città parata a trionfo. Le vie d'Urbino, quel giorno pavesate di broccati e di stemmi estensi e borgiani, portano naturalmente al palazzo ducale, il "bello palazzo" fatto costruire da Federico II da Montefeltro a Luciano di Laurana e Francesco di Giorgio, verso la metà del Quattrocento. Poche case fabbricate dagli uomini danno come questa l'agio di sentircisi dentro in modo che pareti soffitti e pavimenti non limitino gli spazi ma solo li contengano con una misura logica e lirica appoggiata sulle linee orizzontali e sulle nette squadrature. Nelle stanze, cesellate intorno alle porte e alle finestre di cornici elegantissime, fornite, si, di libri, di pitture, di statue, di tappeti, di strumenti musicali rari, ma anche di un arredamento curato fin nei particolari di servizio, Lucrezia rimase il 18 e il 19 a riposarsi e a godersi le feste che i duchi di Urbino le avevano preparato. E qui le arrivò una lettera, datata il 16 gennaio 1502, che il cardinale Ippolito d'Este le mandava da Roma, una delle pochissime che nella nostra storia parlino delle relazioni tra Lucrezia ed il figlio aragonese. Il cardinale d'Este le mandava in dono certi braccialetti che non aveva potuto consegnarle a Roma per non essere stati ancora finiti, e li accompagnava con frasi ben composte; aggiungendo che uno dei suoi familiari andato per sua commissione a vedere il piccolo duca di Bisceglie lo aveva trovato che dormiva dolcemente e con somma quiete, bello e sano nel visino e nelle membra. già a Foligno Lucrezia aveva ricevuto dal cognato una collana della quale ella lo ringraziava con una letterina, autografa nella firma, il 14 gennaio. La collana, dunque, e a pochi giorni di distanza i braccialetti davano pretesto al cardinale estense di mescolare i doni con le notizie in termini così graziosamente commisti che sarebbe stato impossibile non essergli grati. A Lucrezia, anche se un pudore dolorante e l'etichetta impedivano espansioni epistolari, queste attenzioni

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riuscivano sensibili: le doveva stare come una luce umida in fondo agli occhi la nostalgia mal patita del suo "bellissimo putto".

Il 20 gennaio benché grosse nuvole si addensassero nel cielo di Urbino la comitiva partiva: le due duchesse in lettiga, si prese la via della Romagna, avendo come prima mèta Pesaro; e venne incontro a Lucrezia il governatore generale della Romagna, don Ramiro de Lorqua, uno dei fidi valentineschi, assai prestante uomo di capelli e barba brizzolati e d'occhi azzurri. Lui e le sue genti d'armi erano però malissimo guardati dalle donzelle di Elisabetta Gonzaga memori ancora, e ancora frementi, del rapimento di Dorotea da CreIlia la loro compagna di un anno prima. E la sera, tra il freddo, la pioggia gelida, e il disagio dell'alta via mulattiera che dai monti di Urbino scendeva verso l'Adriatico, la cavalcata arrivava in vista di Pesaro.

Fare la storia dei sentimenti di Lucrezia nella terra che. era stata il suo primo quieto regno è troppo semplice o troppo difficile, tanto più che ella doveva cercare di nascondere ogni commozione, perché né la duchessa d'Urbino, né Emilia Pio con gli strali dei suoi occhietti penetrassero nei suoi segreti per compatirli e quindi umiliarli. Sorrise, e forse. non le fu nemmeno duro, alla schiera dei fanciulli che venivano avanti vestiti dei colori di Cesare Borgia, giallo-rosso, agitando gran rami d'olivo e gridando "Duca, Duca, Lucrezia, Lucrezia". Ma il sorriso doveva venirle meno bene entrando in quel palazzo, rivedendo la stanza della "palla" dove aveva firmato i suoi primissimi atti di governo, e quella scala e quelle stanze note fin negli angoli. A farle il passato più vicino venivano le dame che l'avevano salutata contessa di Pesaro, e veniva una sua antica donzella, Lucrezia Lopez, che ella aveva fatto sposare al medico pesarese gian Francesco Ardizi, e che viveva ora a Pesaro spatriata e isolata: chissà se ne soffriva, o se si era abituata al paese con la decente serenità delle donne che nei confini della casa trovano la loro patria? Sulla Lopez le porte si chiusero: Lucrezia aveva concesso le sale dell'appartamento suo proprio ai balli e alle feste già preparati dalle dame del luogo, e vi mandò, tutte le sue donne: queste, benché, come diceva il Castellini, "sconquassate" dal viaggio che aveva stancato anche i muli, trovarono voglia e forza di ballare e di divertirsi. Non Lucrezia però, che, con la scusa di lavarsi i capelli, restò fra le sue più intime, tenendosi vicina Adriana mila che vogliamo immaginare dedita a prodigarle gli aiuti della sua vitale filosofia. Se si pensa che Gian Luca Castellini scrisse da Pesaro al duca Ercole d'Este di aver osservato come la duchessa fosse "di natura sua assai solitaria e remota" si capirà meglio il disagio che, nonostante la sua bravura, Lucrezia non era riuscita a nascondere.

Ma lasciata Pesaro, e trascorse finalmente le terre dei ricordi, tutto era nuovo, da vedere e da godere per la prima volta. Animata, Lucrezia riceveva,

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danzava, cambiava ogni giorno, non solo vestito, ma gioielli, cuffie, finimenti di cavalcature, tra l'ammirazione dei ferraresi che d'eleganze s'intendevano. Don Ferrante d'Este scriveva entusiasmato alla sorella Isabella come Lucrezia si fosse presentata ad un ballo, a Rimini, in veste di velluto nero tempestato di fregi a forma di x e ravvivato da una cintura di seta bianca a fiocchi: aveva una cuffia d'oro in testa, e sulla fronte un solo bellissimo diamante. Quando ella danzava per compiacere di sé le riunioni di notabili provinciali, come il Valentino le aveva raccomandato, i suoi petulanti buffoni spagnoli giravano in tondo per la sala improvvisando la mimica della meraviglia e gridando: "Guarda, guarda la gran signora com'è linda com'è cara, come danza bene, cul de deo, vedi la gran Borgia". Ma proprio a Rimini, Lucrezia soffrì la peggiore avventura interiore del suo viaggio. riferite di gente in gente, ingrossate e travisate, cominciarono a girare notizie inquietanti che giunsero fino alla comitiva nuziale. si diceva che Giambattista Caracciolo, il capitano della Repubblica Veneta che si era visto rapire la sposa Dorotea dal Valentino senza aver potuto vendicarsi dell'affronto, si fosse portato, con armati fatti venire alla spicciolata, verso Ravenna e Cervia, e stesse là ai confini della Romagna, con l'evidente proposito di rappresaglie sulla sorella del suo offensore. Don Ferrante d'Este, con la leggerezza d'animo e la sventatezza di giudizio che dovevano più tardi condurlo a rovina, era andato a raccontare tutto proprio alla sola che avrebbe dovuto essere risparmiata, a Lucrezia; e si capisce l'assillo nervoso che le strinse la gola, a sentirsi ancora nel clima borgiano dei peggiori giorni, stretta da paure di violenze e di vendette. Chiamato a rapporto dalla duchessa insieme con messer Ramiro de Lorqua, arrivava gian Luca Castellini che, a mente fredda, poteva ricapitolare e confrontare le notizie, e concludere saviamente in modo da ridare la calma agli spauriti. Dato che la comitiva era forte di mille persone, ed era anche scortata, ora, da squadre di balestrieri a cavallo del governatore di Romagna, non pareva al Castellini che Giambattista fosse "sufficiente a farci danno se non veniva grosso e con le genti dei veneziani i quali non l'avrebbero Permesso e anche non poteva venire di nascosto essendo il paese molto aperto". Ad ogni modo, era bene "provvedere cautamente e con spie ed esploratori e provvedere al bisogno senza dimostrazione: condannando ogni atto che fosse indizio di paura o diffidenza". Ma i ponderati pareri del consigliere ducale dissipavano solo per poco l'orrore di Lucrezia a immaginarsi rapita beffata e caduta nell'ignominia. Viene la sera. arrivano nuovi avvisi: il Caracciolo avanza, è vicino, vicinissimo Lucrezia, atterrita, ha forse l'impressione che i ferraresi le manchino di consiglio, non sopporta i minuti, comunica intorno a sé tanta agitazione che qualcuno dei suoi, se non lei stessa il Castellini riferendo l'episodio ad Ercole d'Este assicura soltanto che il comando non partì da nessuno dei ferraresi ordina che si chiamino alle armi i cittadini di Rimini. La mattina dopo la città appare sottosopra, comincia ad alzarsi la marea di confusione che precede i giorni di pericolo: finché, verso sera, gente di

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fiducia mandata ad informarsi sui luoghi dai quali erano partite le voci, ritorna con tutt'altre notizie. Il Caracciolo non è stato mai visto né a Ravenna né a Cervia, le terre sono tranquille e non v'è sospetto. Da tirare il fiato. (Il Gregorovius, trovatosi di fronte ai documenti che narrano questo fatto non ha capito nulla; ha chiamato il Caracciolo Catazolo o Carazo nella grafia ferrarese Carraro, e ne ha fatto un brigante secondo la corrente oleografia dell'Italia ottocentesca del suo tempo.) Da Rimini, al termine della via Flaminia, Lucrezia perdeva il legame diretto con Roma, ed entrava nella via di Marco Emilio Lepido, l'Emilia, la più gioiosa delle strade italiane, larga, felice, lisciata e battuta dai suoi duemila anni di storia, piena di rumori, di traffico, di grida, di canzoni. si indovinavano le manovre guerresche del Valentino nei suoi soldati che passavano a squadre, rapidi sui cavalli di guerra, e salutavano: s'incontravano comitive pacifiche, carrette di donne di musici di ballerini, e frati, contadini, mercanti, a piedi, su muli, su asinelli o su cavallucci borghesi.

Tra la nebbia anche questi minimi equipaggi evocavano storie inquietanti, facevano le ombre più grandi di loro. Passavano; e si sentivano allora, nell'eco degli zoccolii, i gridolini dei passeri e dei pettirossi che annunciavano le piccole ombre in volo. La comitiva andava spedita, sentiva la terra sicura, ora toccava Cesena (tutti ci arrivarono "sani e salvi e di bona voglia" e trattati magnificamente per ordine del Valerifino), arrivava a Forlì dove vi fu una festa straordinaria, attraversava Faenza sotto un nembo di pioggia, che non impediva le grida di giubilo, "Duca, Duca, Duchessa, Duchessa"' si fermava ad Imola. di città in città schiere di fanciulli salutavano alla voce la sorella del duca di Romagna, vestiti quali alla divisa del Papa, giallo-nero, quali ad una del Valentino, giallo-rosso o biancomotello; ad Imola, ultima tappa, nelle terre del Valentino, i fanciulli portavano in ceco ori di Lucrezia, giallo morello a quartieri, e precedettero nel saluto i dottori che presso le mura vennero a consegnare alla sposa le chiavi della città.

Era il 27 gennaio. E a Ferrara Ercole d'Este già da qualche tempo sottilizzava sulle soste e sulle date di quel viaggio, mostrandosene scontento. Quanto aveva raccomandato nel dicembre al Castellini che la comitiva non gli arrivasse troppo presto, tanto ora raccomandava di sollecitare, tutti gli invitati essendo già arrivati a Ferrara o sul punto di arrivare. già ad Urbino, il consigliere ducale aveva trovato le prime sollecitazioni e ne aveva parlato a Lucrezia: ad Imola, poi, era stato raggiunto dall'ordine di affrettare il viaggio in modo da fare l'entrata a Ferrara il primo del mese, non il due, cadendo in quel giorno la festa religiosa della Purificazione della Vergine. Da parte sua, Lucrezia aveva la fermissima determinazione di non voler arrivare "sbattuta e sconquassata" a Ferrara: ma mostrare una volontà propria le riusciva difficile, tanto si era compromessa e quasi data via in proteste di obbedienza e di umiltà filiale.

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Per esempio, quando il duca Ercole le aveva fatto domandare se avrebbe fatto volentieri l'ultimo tratto del viaggio fra Bologna e Ferrara venendo per nave sui canali del Po e del Reno, ella aveva risposto di si, ma aveva anche detto che, prima di decidere, avrebbe scritto al Papa per ottenere il suo consenso, e questo per dimostrare, diceva il Castellini, quanto ella "si rimette alla prelata Santità in ogni piccola cosa per essergli ossequientissima: e tutta discreta: rispettosa e prudente: e di sorta che non vuole governarsi secondo la volontà propria ma secondo la volontà ed il parere di chi gli è, e sarà superiore e maggiore". Quanto questa abdicazione fosse formale, si vide subito appena la volontà di Lucrezia si scontrò con quella del suocero.

Il giorno di sosta a Imola era stato dunque deciso da lei insieme con la duchessa di Urbino per procedere alla lavatura dei capelli e ad altri preparativi di eleganza; e quando il Castellini le andò a riferire le disposizioni di Ercole, che cioè si riprendesse la via per arrivare il giorno dopo a Bologna, trovò che la duchessa aveva un'arietta languida ed affranta della quale era arduo aver ragione. Lontana da lei la pretesa di discutere i desideri del duca, ella dichiarava però di non poter in nessun modo fare a meno di quel giorno di sosta: piuttosto, sempre per obbedire ed essere a Ferrara il primo di febbraio, non si sarebbe fermata a Bologna come era nel programma, e avrebbe deluso dunque l'attesa dei Bentivoglio che le stavano preparando "apparati grandi". Peggio, l'obbedienza al duca l'avrebbe messa al punto di disobbedire al Papa il quale le aveva molto raccomandato di fermarsi a Bologna: un vero problema di coscienza. Qui sarebbero venute bene, e certo Lucrezia ce le mise, pause sospese. Non sarebbe stato proprio possibile, domandava amabilmente, che Ercole le donasse "in grazia" un giorno? E perché, poi, non volere l'ingresso solenne il giorno della Purificazione, mentre lei, Lucrezia, lo avrebbe proprio desiderato a quella data per devozione alla Madonna e buon auspicio religioso? Era forse, quell'ultimo, un argomento per suor Lucia; il duca, messo così a ragionare, dovette cedere, e Lucrezia si ebbe il suo giorno. Il 28 gennaio si spiegava agli occhi di Lucrezia il panorama di Bologna: i figli del signore della città, Annibale, il protonotaio Antongaleazzo, Alessandro ed Hermes le vennero incontro a tre miglia dalle porte; a un miglio, Giovanni Bentivoglio in persona era andato ad incontrarla, e sceso di cavallo le si era accostato con quel suo passo possente e greve per toccarle la mano: in folto gruppo l'avevano accompagnata in città "per la strada maggiore fino alla torre degli Asinelli" e poi, dopo un breve giro, per la via di San Giacomo a palazzo Bentivoglio. Stava sulla scalea del palazzo Ginevra Sforza Bentivoglio donna guerriera, coraggiosa, e così innamorata del potere da morire di dolore quando, qualche anno più tardi, i Bentivoglio furono cacciati da Bologna. I fili di questo destino futuro della casa bolognese stavano già per essere tesi dal Valentino: e proprio per scompigliarne la minacciosa trama, i Bentivoglio

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come gli urbinati Montefeltro onoravano e festeggiavano la amatissima sorella del duca di Romagna: le avevano radunato intorno le belle della città, donne di lussuose carni e di invitanti sorrisi, e su tutte, imperante, l'anziana Ginevra che non si ricordò forse nemmeno, in quel momento, di essere zia di Giovanni Sforza da Pesaro: o se ne ricordava, ma di fronte alla necessità politica era come se non lo avesse saputo mai. Pareva che il primo marito di Lucrezia volesse in quei giorni farsi presente agli Estensi e ai Borgia. Da un pezzo si erano avuti sentori di suoi progetti dispettosi, se Alessandro VI, in una lettera circospetta ma fermissima aveva fatto scrivere fin dal settembre ad Ercole, perché stesse attento che lo Sforza, allora a Mantova, non apparisse a Ferrara al tempo delle feste nuziali: poiché quantunque "la separazione di lui dalla signora duchessa sia assolutamente legittima e compiuta conforme alla pura verità... nondimeno un residuo di malanimo gli potrebbe esser rimasto". Ercole aveva risposto di non temere nulla, e poco dopo si era saputo che lo Sforza era partito da Mantova: per Venezia, si diceva. Nessuno pensava più a lui, quando, il 29 gennaio 1502, mentre Lucrezia lasciava Bologna, arrivò ad Ercole dal suo informatore milanese l'avviso che Giovanni Sforza aveva intenzione di assistere all'ingresso solenne di Lucrezia e che sarebbe arrivato a Ferrara travestito, alloggiando in casa d'amici, in attesa del momento propizio per mostrare alla ex moglie il suo profilo maligno. Ma gli Este non erano gente da permettere che si sciupassero così le loro solennità, e certo provvidero immediatamente: parola d'ordine alle porte e ammonimenti agli sforzeschi di Ferrara arrivarono subito al loro luogo. Per quel che si sa, Giovanni Sforza non arrivò a Ferrara e forse non tentò nemmeno di arrivarci bastandogli la breve eccitazione di quel suo millantato proposito. A Roma, Alessandro VI soffriva in un modo suo, attivo e arruffato, della partenza di Lucrezia. Radunava intorno a sé i ferraresi di sua fiducia, tenendoseli in lunghissime minuziose conversazioni che avrebbero dovuto per forza di parole dargli l'impressione di vivere la stessa vita di sua figlia. Veniva il cardinale Ippolito d'Este, e con lui venivano il cardinale di Modena Giambattista Ferrari, e l'ambasciatore monsignor Beltrando Costabili: il Papa li riceveva subito, dava e domandava notizie e riascoltava con infaticabile compiacimento l'elogio della bellezza della virtù e della saggezza di Lucrezia. Il cardinale Ferrari era quello che aveva più la mano a questi elogi, e li volgeva secondo il desiderio del pontefice, variandoli di poco, ma abilmente: così, un giorno diceva che Lucrezia era proprio quello che ci voleva per gli Este; e qui trovava modo di inserire un abbondante elogio di Ercole e di Alfonso che piacque al Papa il quale assicurava che avrebbe giovato grandemente ai nuovi parenti. Credeva, il Ferrari, che la sposa sarebbe stata accolta bene? Non v'era dubbio, rispondeva il cardinale; e come avrebbero potuto fare diversamente di una cosa che toccava tanto da vicino il cuore di Sua Santità? Ebbene, conclude il Papa, che il cardinale scriva al duca di Ferrara, esortandolo a benvolere la nuora, se vorrà che da Roma gli arrivino tanti e tali benefici che

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i già concessi qui, breve e succosa ricapitolazione di tutto ciò che era stato donato agli Estensi siano nulla a confronto di quelli che verranno.

Alla relazione dei primi festeggiamenti per le terre della Chiesa, il Papa si prende di nuovo amore per i suoi sudditi, discute i particolari delle lettere con Ippolito d'Este che faceva un po', a Roma, la parte d'ostaggio della felicità di Lucrezia, gusta i particolari dei trionfi preparati dal duca Ercole e dal duca d'Urbino annunciati da Agostino Huet che tornava da Ferrara ed aveva incontrato per via la comitiva nuziale in viaggio verso il nord. Benissimo, tutto: ma il pensiero dell'incontro tra Alfonso e Lucrezia lo tiene inquieto; è quello il punto da superare, Alessandro VI lo sa così bene, che le sue insistenze quotidiane, il suo modo di far pesare la propria protezione sullo stato estense hanno un significato che può celare una minaccia. Il 17 gennaio ci furono novità. Quel giorno il Papa, indirizzatosi al cardinale d'Este, aveva ricominciato il quotidiano elogio della figlia con un ardore e una eloquenza più appoggiati del consueto: parlava tanto animato, che il fino Ippolito dovette subito intuire qualche cosa d'insolito e lasciava dire, tenendosi nella sua prudenza ilare ed impenetrabile e mostrando di approvare tutto. Alessandro VI nominava don Alfonso d'Este, e attaccava risolutamente, "nulto de core": non avrebbe mai voluto sentire, diceva, che il genero non trattasse con ogni manifestazione d'affetto la sposa: e soprattutto, quello che l'avrebbe offeso di più, sarebbe stato che Alfonso trascurasse di passare le sue notti con Lucrezia "come l'ha inteso che faceva con madonna Anna [Sforza] perché non potrebbe sentire cosa che gli facesse maggior dispiacere"; invece, se gli avessero riferito che "Sua signoria [Alfonso] la ami, e ne faccia dimostrazione, massime in dormire la notte con essa, non potrebbe sentire cosa che più gli portasse piacere né maggior contento". riferiva così monsignor Beltrando Costabili. Naturalmente non si giudicherà da questo discorso che il Papa si preoccupasse del temperamento amoroso di sua figlia: il fatto di essere, e di essere continuatamente marito e moglie in un modo da tutti riconosciuto e saputo, doveva dare al matrimonio solidità e sicurezza tali, che nessun divorzio avrebbe potuto essere mai chiesto, il Papa sapendo troppo bene come si sciolgono certi matrimoni d'interesse quando non valgono più le ragioni che li fecero concludere. Un tempo: e scossa la sua lisciata zazzerina, il cardinale rispondeva subito, assicurando che Lucrezia sarebbe stata molto amata da suo fratello. E non erano in lei, il Papa lo aveva detto or ora, "tutte le qualità degnissime di essere amate" e cioè quella "bellezza grazia mansuetudine ed eccellentissimi modi" che si sapevano? Alfonso era anch'egli "buono prudente e amorevole" e non v'era dunque ragione di pronosticare male sull'accordo degli sposi. E se Sua Santità aveva sentito dire qualche cosa dei dissidi fra l'Estense e la sua prima moglie, Anna Sforza, non aveva però saputo che forse ella stessa ne aveva dato "causa, per voler pretendere più che non le convenisse" e per "non portarsi verso lo sposo come avrebbe dovuto", cose, certo, che non

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sarebbero state possibili in Lucrezia, prudentissima e discretissima, "per essere in lei tutto quello che vale a rimuovere tale dubbio". Qui per la prima volta nella storia (questi documenti sono inediti) la figura della prima moglie di Alfonso d'Este appare rilevata nei contorni umani per un suo problema vivo e doloroso. La giovane Sforza, della quale le immagini fin qui più reali erano quelle di un suo spiritoso travestimento scenico in panni maschili, e di quel dormire con la sua schiavetta negra, o del piangere lungo e sconsolato che fece al partire dalla sua casa milanese, era stata dunque in dissidio così palese col marito, che non era possibile negarlo nemmeno a tanti anni di distanza. Aveva voluto attribuirsi più che non le convenisse, diceva Ippolito, tre volte disprezzando le pretese di una donna verso un uomo, un marito, un estense: significava che non aveva voluto ammettere troppi di quegli spassi extraconiugali sui quali c'era allora tanta larghezza d'indulgenza da parte delle mogli nobili e virtuose? Ma perché poi il contegno di lei era stato riprovevole? Che si alludesse ad una qualche infedeltà della Sforza verso il marito non pare possibile, perché la memoria di lei non avrebbe durato viva e rispettata a Ferrara: a meno dunque di qualche inimmaginabile segreto, tutto si doveva riferire al carattere della giovane donna, alla sua gelosia tanto molesta all'intemperante marito da fargli venire in uggia il letto matrimoniale. Questo, e quel citare ripetutamente la discrezione di Lucrezia, avvertiva chiaramente che la nuova sposa avrebbe dovuto accettare e tacere, e che solo a questo patto sarebbe stata rispettata nella sua dignità legittima. Del resto, rassicurato su questo punto, il Papa non chiedeva altro. Ogni giorno il Costabili mandava notizie degli affari estensi che si finivano di concludere a Roma: le bolle papali si spedivano tutte a Lucrezia, solo a lei, perché il Papa voleva che i benefici arrivassero a Ferrara dalle mani della figlia: era la concessione dell'arcipresbiteriato di Ferrara a don Giulio d'Este, era la conferma per "le cose di Ravenna", era l'estinzione di una "certa lite", o "la bolla di frate Pietro Rossello", o quella della traslazione delle decime di Santa Martina. Procedeva invece lentamente Ercole d'Este aveva però i castelli romagnoli in pegno e stava sicuro l'affare per lo smembramento di Cento e della pieve di Cento dalla diocesi di Bologna. Ma Alessandro VI portò le cose così abilmente, che finì per avere dal concistoro l'unanimità dei voti; e il 25 gennaio, chiamato in fretta il Costabili a Frascati dove era andato ad una partita di caccia, gli consegnava una lettera per la figlia con la relazione di quel concistoro. "Serrato il plico" riporta il Costabili "presente M. Adriano [Castelli] ed io, Sua S.tà è montato a cavallo e va a falconi: e mi ha detto che scriva a V.ta Ex.tia che Sua S.tà è qui a piacere, e che le doni avviso della caccia che fece ieri la quale fu bella e fece morire ben XIII capri." Dall'alto del suo cavallo, così il vecchio pontefice vantava le sue avventure di caccia, mentre una giovinezza di desideri, ribelle ad ogni assalto di tempo e di pessimismo, gli dilagava per il gran viso. Tornando sul discorso del concistoro, e rammentando i pronostici dell'ambasciatore ferrarese, il quale in precedenti colloqui pare che avesse espresso dubbi sul consenso totale dei

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cardinali, il Papa sorrideva: e dava in una rotonda risata quando il Costabili mostrando una specie di bonario ravvedimento gli diceva: "Dove prepone la S.tà vostra non bisogna parlare". Proprio quello che pensava di se stesso Alessandro VI.

Ma il cardinale Ferrari non si stancava di fare l'inquisizione all'ambasciatore ferrarese interrogandolo sulla "natura di don Alfonso", e chiedendogli quale fosse il suo parere su "el dormire con madonna Lucrezia". Alla precisa domanda se lo sposo avrebbe continuato il suo ufficio maritale anche dopo i primi tempi, l'ambasciatore si sentiva in dovere di garantire senza riserva: specie ascoltando le parolette del cardinale che accennava, come compenso dei buoni portamenti di Alfonso, al disegno del Papa di far ritornare agli Este il Polesine di Rovigo, la terra dei cocenti rimpianti ferraresi. Ercole d'Este, da Ferrara, finì per mandare al suo rappresentante, perché la leggesse al Papa, una lettera che parlava di Lucrezia come di'figlia e nuora dilettissima: gli Este l'avrebbero accolta a cuore aperto, e don Alfonso, poi, l'aspettava "con grandissimo desiderio".

Il desiderio di Alfonso non era così grande né, soprattutto, così genuino: eppure, a mano a mano che la prima ripugnanza e il primo disgusto si calmavano in lui dopo le referenze concordi di tutti gli inviati di fiducia, curiosità e impazienza insolite potevano pungere e irritare anche la sua irsuta e stravagante sensualità. Pronubi, il movimento intorno a lui delle donne, dei cortigiani, degli operai, i simboli accoppiati delle nozze, il vibrante avvicendarsi delle prove di commedie e di musiche, lo scintillio incomprensibile degli Occhi della sorella; e qualche cosa di non chiaro in giro, 'L'aria di complicità, di sapere e di non dire, fermento ch'operava per forza di suggestioni. Ad Alfonso d'Este lottare con le ombre pareva, peggio che supplizio, umiliazione: stava dunque a sentire in silenzio il programma di ricevimento che Ercole aveva stabilito con la figlia Isabella, si faceva assegnare l'ora il luogo e la compagnia per il suo incontro con la sposa; ma la sera del 30 gennaio, appena seppe che Lucrezia partita da Bologna sarebbe arrivata il giorno dopo al castello di Bentivoglio sul ponte Poledrano, radunava pochi compagni, e, travestito, cavalcò verso di lei, fermandosi a passare la nette a San Prospero, terra dei Bevilacqua. L'ultimo giorno di gennaio, Lucrezia, mandato il grosso del seguito direttamente a Ferrara, seguita da soli cento cavalli suoi e da novanta della duchessa d'Urbino, e accompagnata dal primogenito di casa Bentivoglio, Annibale, genero del duca di Ferrara, lasciava quella Bologna che le era parsa "bella e magnifica così negli edifici alti che nelle vie", e per la piana bolognese rigata di piccoli e minimi canali e sparsa di macchie boscose, s'era diretta verso la più bella villeggiatura bentivogliesca. La casa della gioia, "domus giocunditatis", dava il saluto ai visitatori col vivo delle sue mura affrescate nella corte a tralci di rose rosse; e lo stesso spirito di accesa lietezza che aveva suggerito quella

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decorazione animava la vasta architettura partecipante del castello e della villa, le sale dalle finestre ampie ornate degli stemmi e del galante motto del padrone di casa: "Per amor tutto ben voglio soffrire", e le decorazioni dei camini vasti così da contenere tronchi d'albero a far brace durante i lunghi cordialissimi conviti dei signori bolognesi. Qui Lucrezia si fermava il 31 gennaio al tramonto; e da poco vi era, e già si stavano accendendo per gli appartamenti le torce, quando uno zoccolio di cavalli annunciò un arrivo improvviso:

Annibale Bentivoglio, che non aspetta altri ospiti, viene alla finestra, e riconosciuto subito il giovane cavaliere corre per primo da Lucrezia a darle l'annuncio: e mentre lei ansiosa, e quasi angosciata da questo arrivo che la coglie impreparata, si guarda attorno, e si dà forse d'istinto qualche tocco ai capelli al viso alla veste, già Alfonso d'Este è sceso da cavallo, ha incontrato il fratello don Ferrante, lo ha preso cordialmente sotto braccio, si è fatto fare strada fino alle camere della sposa: già tutto il seguito di Lucrezia, donne e donzelle per prime, si è affollato per le anticamere e per le sale, e al grido gioioso "Alfonso, Alfonso" saluta lo sposo. Tra la commozione e la sorpresa, Lucrezia prende una bellezza di colomba; la sua cerimoniosa grazia e i suoi inchini sembrano di una qualità ancor più patetica e delicata del solito: tutto questo, e il suo sorriso, piacquero tanto ad Alfonso, e soprattutto lo rasserenarono tanto, da renderlo affabile e a momenti galante. così quelle due ore di conversazione che seguirono, presenti le donne di Lucrezia i suoi spagnoli e i ferraresi di conto, ore che potevano essere disagiate per tutti, finirono per trascorrere, in virtù di un accordo casuale partecipato felicemente dall'uno all'altro, in un clima di festività discreta. Probabilmente, il tono di questa festività mai più ritrovato nelle feste nuziali ferraresi, fece dire e ripetere a qualcuno che Alfonso si fosse preso al Bentivoglio improvvisati e focosi diritti maritali. Non doveva essere vero, poiché il Castellini dice chiaro che gli sposi erano stati "in diversi ragionamenti e piacevoli alla presenza di tutti noi" dopo di che Alfonso "se ne partì". E poi il risultato che contava era un altro. Alfonso non aveva capito Lucrezia, né Lucrezia aveva capito Alfonso, ma quello che avevano imparato in quelle due ore e che restò alla base della loro unione per quasi vent'anni indica il segreto del loro accordo: inteso che Alfonso avrebbe comandato e Lucre2ia sempre ubbidito, la nuova duchessa poteva entrare a Ferrara e sarebbe stata ricevuta e trattata da moglie e signora. Quanto al resto, aspirazioni sentimentali, sensibilità difficili da illudere, Alfonso certi problemi non se li poneva nemmeno, e a Lucrezia pareva naturale dimenticare tutto e dimenticarsi.

Ferrara ne aveva vista di gente decorativa in quei giorni:

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arrivati l'uno dopo l'altro, gli ambasciatori c'erano tutti a filare sotto sotto i loro intrighi politici e a discutere questioni e questioncine di precedenza e d'etichetta: i veneziani a palazzo Contrari, i fiorentini a palazzo Guarnieri, i Lucchesi in casa del Sacrato "che pare un paradiso" al dire di un cronista, quelli del duca Valentino a Schifanoia "il priMo palazzo della città degno di un imperatore". E c'erano le dame, Lucrezia d'Este Bentivoglio che aspettava il marito Annibale in mezzo ad una corte di sessanta fra donne cavalieri e servitori, nella comoda casa di Francesco Castello, gentiluomo e medico di corte; e c'era Isabella d'Este, piazzata in Castello, e precisamente nella camera detta "marchesana", nella torre verso la porta dei Leoni, dove, avendo già disposto vestiti e oggetti d'ornamento, stava a vigilare. Isabella lasciava che il padre andasse solo incontro al gruppo delle monache di Narni e di Viterbo arrivate il 28 al convento di suor Lucia, sotto la guida del Bresciani. Ma era stata invece sollecita ad uscire di casa il giorno dell'arrivo del più importante invitato alle nozze, l'ambasciatore francese filippo Rocaberty governatore di piacenza, che in Italia era chiamato Roccaberti facendo mostra di incontrarlo per caso durante la sua passeggiata.

La marchesa di Mantova non era di buon umore: si sentiva in seconda linea, e non sapeva ancora se le sarebbe riuscito di mettersi al primo posto in quelle feste. Da questo stato d'animo la sua critica acquistava un taglio più lucido e il suo pessimismo uno stile ancor più acuto del solito: nelle lettere che ella scriveva al marito rimasto a Mantova, criticava tutto, i preparativi, gli archi di trionfo, l'addobbo delle sale, il contegno dei veneziani, e si soffermava solo con una certa insistenza orgogliosa a narrare delle visite che le facevano ambasciatori, gentiluomini e dame, e delle conversazioni che aveva con suo padre, deferentissimo al gusto della figlia per l'ordinamento e l'eleganza della cerimonia. Ma tutto le andava male: era riuscita a far in modo da stabilire col padre che il fratello Alfonso andasse con lei verso Lucrezia, così che l'incontro degli sposi avvenisse sotto il suo sguardo e magari sotto il suo influsso; invece, ecco che Alfonso se n'era andato al Bentivoglio da solo, a quest'ora aveva già le sue idee formate ed ella non avrebbe più goduto il sottile piacere di cogliere nei visi del fratello e della cognata la prima impressione, o, come forse sperava, la prima delusione. Con questi rancori, ed un lucido sorriso per nasconderli, la mattina del primo febbraio 1502, accompagnata da poche dame e dal fratello don Giulio, si pose in barca e mosse incontro alla nuova duchessa di Ferrara.

Aveva deciso Ercole d'Este e Lucrezia, ottenuto l'assenso del padre, vi aveva consentito che il tratto dal Bentivoglio a Ferrara si facesse navigando per i canali. Con tutto il rispetto per il suo duca, gian Luca Castellini era stato tentato in un primo tempo di discutere quest'ordine che allungava di parecchie ore il cammino; ma poi si era risolto ad ubbidire preoccupato solo di far alzare prima dell'alba Lucrezia e la duchessa d'Urbino, quelle due per

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le quali impigrire era un amatissimo vizio. é probabile che il Castellini non dormisse quella notte, e fu certo lui a interrompere il riposo in castello, di notte fonda, verso le quattro del mattino; e tanto si adoperò, che, pur con occhi di sonno, le due duchesse si alzarono prima dell'alba, si vestirono nei loro appartamenti a lume di torce e presto furono pronte. Era di febbraio, una di quelle mattine nelle quali l'anima dell'inverno si raggela sotto le nebbie della pianura padana; e se Lucrezia aveva visto volentieri uscire dai suoi forzieri la veste d'oro a gale cremisi e la cuffia di rete d'oro e la collana di grosse perle che sosteneva il peso di un rubino e di una grossa perla a forma di pera, la sua riconoscenza quasi affettuosa doveva andare meglio al gran mantello di raso foderato di zibellino che le avrebbe raccolto addosso un prezioso tepore. La duchessa d'Urbino aveva infilata una veste di velluto nero carica di cifre d'oro ognuna aveva un significato proprio sotto un mantello foderato di pelliccia: né era sorto il giorno "ante diem" diceva vittoriosamente il Castellini quando le due duchesse s'imbarcavano con don Ferrante e don Sigismondo d'Este e poca parte del seguito, sulla piccola nave fluviale, e penetravano così in terra ferrarese. Arrivano a Malalbergo, e appena l'hanno passato e sono giunti nella valle sottostante, ecco fra la nebbia annunciarsi la nave di Isabella d'Este. Pronta, ostentando con incomparabile superbia di portamento una ricca veste di velluto verde e un mantello di velluto nero foderato di chiarissima lince, la marchesa di Mantova segue le manovre d'avvicinamento; e, appena la passerella mobile fra le due navi è assicurata, si slancia "con allegra furia" calcolata al millimetro, incontro alla sposa, l'abbraccia e la bacia. Nella luce d'inverno che allontana ed isola i lineamenti di là dalla loro espressione, più che guardarsi Isabella e Lucrezia si misurano: lo sPlendore della chioma dell'una è una battuta polemica contro la quale si avventa subito il brillio degli occhi dell'altra: il lusso del cremisi dell'oro dello zibellino delle perle portate con un sorriso di noncuranza dalla Borgia chiama tutte le finitezze e tutte le sapienze di toni e di contrasti verde vellutato, chiaro appena tinto della pelliccia, ticchettio di diamanti in cerchietti ripetuto sul collo e sulla fronte che compongono l'eleganza della marchesa di Mantova. Secondo incontro temibile, a Torre della Sessa. Ercole d'Este, tra i suoi dignitari ambasciatori e cortigiani, aspetta la nuora: disposti in ordine di parata, stanno sul fondo della scena, sfioccando le piume labili delle loro berrette sul grigio del cielo, settantacinque balestrieri a cavallo vestiti dei colori di don Alfonso, bianco e rosso, toni netti e squillanti che entrano negli occhi appena la nave arriva in vista della torre. Lucrezia sa la sua parte. All'urtar della nave contro la riva nella manovra di approdo, Lucrezia si alza, passa rapida il piccolo ponte, arriva dinanzi ad Ercole e s'inchina sul terreno stillante dell'argine al baciamano filiale: egli la rialza, l'abbraccia, pronuncia le parole di benvenuto che lei si aspetta; le immagini s'incatenano logicamente dal volto calmo già familiare di Alfonso d'Este li presente, al celeste ghiaccio degli occhi di Ercole, ai colori e ai movimenti sciolti e ricomposti intorno in una lenta

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figurazione. Il duca di Ferrara prende ora per mano la nuora e la conduce, seguito dalle più importanti dame della corte, nel bucintoro ducale, ampio, parato d'oro. Qui sono gli ambasciatori per complimentare la sposa e toccarle la mano, e qui entrano poi, in una specie di carriera bene arredata dove Lucrezia siede al posto d'onore tra l'ambasciatore di Francia e l'ambasciatore veneziano; Isabella d'Este viene seconda tra il veneziano e il fiorentino, e la duchessa d'Urbino terza tra il fiorentino e il lucchese. si conversa, il galante Rocaberty par fatto apposta per rappresentare le cavalleresche cortesie francesi, e Isabella comincia a pensare quanto starebbe bene a lei, invece che alla cognata, un tale cavaliere. Arrivano da fuori gli echi delle pazzie che i buffoni di Lucrezia fanno sul ponte del bucintoro per divertire Ercole ed Alfonso d'Este tra le risa profonde dei signori e dei cortigiani. Man mano che ci si appressa a Ferrara il rombo cadenzato delle festose artglierie si fa più vicino, si alterna con lo squillo dei trombettieri che sugli argini cavalcano, insieme con i balestrieri di Alfonso, accompagnando il viaggio della nave ducale; sgroppano i cavalli, sventolano le piume, lampi di bianco e di rosso palpitano sugli alti argini: ed è così che si arriva verso le quattro, fra le salve raddoppiate delle artiglierie, al casale di Alberto d'Este, appena fuori da Ferrara, dove Lucrezia aspetterà fino a domani riceve la sposa Lucrezia d'Este Bentivoglio, la primogenita figlia naturale di Ercole d'Este, fra un gran numero di dame ferraresi e bolognesi; e si avanza, presentata dal siniscalco di Alfonso, Teodora Angelini a capo delle dodici donzelle trepide e sorridenti nella discussa uniforme di raso rosso e velluto nero. Lucrezia sorride, sorride, accetta benigna complimenti donne donzelle, le cinque carrette dono di Ercole, parate una d'oro con cavalli bianchi, una di velluto morello con cavalli morelli, una di raso morello, le altre di varie stoffe con cavalli vari, tutti bellissimi. finite le presentazioni, vengono i commiati: Lucrezia sale al suo appartamento, e là si chiude; la comitiva ducale se ne ritorna a Ferrara. Per Lucrezia, adesso che era sola, veniva il momento di poter disfare finalmente, seguendo i suoi pensieri, il sorriso che s'era dipinto sul labbro fino dall'alba. Non poteva dire ancora di aver vinto, ma era arrivata, e già dalla lontana pianura aveva visto apparirle, simbolo di Ferrara, il quadrilatero turrito del castello estense. così domani sarebbe stato il giorno delle conclusioni, e sarebbe stato anche, in tutto, il matrimonio. Dovremo pensare che ella si avvicinava alla nuova intimità con un tremore nel quale erano freddezza, apprensione, e la sofferenza della donna che deve piacere ad un uomo e permettergli tante scoperte e tante violazioni? Uno spirito, se non timido, certo almeno turbato si può supporre in lei che per amore di vita si sentiva sempre vulnerabile e nuova di fronte agli avvenimenti: era tardi, la stanchezza della giornata le gravava sulle spalle confondendole sentimenti ed idee. si addormentò: e prima di perdere la conoscenza delle cose, forse le apparvero ancora una piuma bianca ed una rossa, libere e lievi contro il cielo chiaro, La veste nuziale della duchessa di Ferrara si affidava al rigore di una geometria sontuosa, lunghe strisce di raso

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morello e d'oro riccio, che la compartivano da capo a fondo: le maniche erano larghe alla francese, foderate di ermellino; e il mantello che chiudeva questa veste era di un tessuto che metteva oro su oro su fondo d'oro in un largo disegno cinquecentesco, da capo a piedi foderato di ermellino: l'oro e l'ermellino, sul fondo buio del raso morello, erano poi esaltati e portati al massimo splendore dai gioielli celebri di casa d'Este, rubini e diamanti al collo, rubini e diamanti sulla cuffia d'oro che lasciava libera la fronte, e tratteneva appena la lunga capigliatura lasciata correre in onde leggere sulle spalle. Appena uscita dalle mani delle sue donne, Lucrezia, aboliti pensieri e paure, salì sull'alto cavallo leardo bardato di velluto cremisi dono del suocero, e, con a fianco l'ambasciatore di Francia che era venuto a prenderla, seguita da una parte del corteo, mosse verso la città: qui, alle porte erano i dottori dello "Studio", gloria intellettuale di Ferrara, i quali, dandosi il cambio, avrebbero portato il baldacchino di raso cremisi sotto il quale doveva cavalcare, sola, la sposa: l'ambasciatore francese l'avrebbe accompagnata, si, ma stando fuori dal baldacchino, o, secondo un'altra relazione, seguendola tra gli ambasciatori veneziani. Secondo l'ordine stabilito, il corteo si formò, e prese ad un tratto le mosse, preceduto dai balestrieri a cavallo di Ercole d'Este, e dallo strepito di ottanta trombettieri e ventiquattro pifferi e tromboni. dietro la giocondissima fanfara venivano i nobili ferraresi adorni di ricche catene d'oro, vivi di sguardi, riconosciuti ad uno ad uno dal popolo che li acclamava, salutandoli; venivano poi i nobili della duchessa d'Urbino vestiti, sulla parola d'ordine della duchessa, di nero, raso e velluto, e, immediatamente dietro, lo sposo don Alfonso, sul cavallo ornato della fornitura d'oro a piastre lavorate e figurate in rilievo, fatica di messer Bernardino veneziano. Alfonso era, caso o gusto personale, tutto vestito di toni neutri, sui quali l'oro splendeva pacato: color bigio per il saio, nero per il cappello ornato di piume bianche, bigio e camicino appena venato da un sospetto di rosa per i calzari; aveva a fianco il cognato Annibale Bentivoglio, ed era circondato dai suoi amici, Gerolamo dal Forno, modenese, Alessandro Feruffino, Andrea Pontegino, e Bigo dei Banchi: nomi che si ritroveranno nella nostra storia.

Sfilavano ora i nobili romani e spagnoli, e qui il contegno popolare si acuiva di curiosità e di diffidenza: sembrano spaesati (forse lo sono davvero) ed hanno troppa boria per i loro pochi ornamenti; alcuni spagnoli dai visi carne coagulati in un pallore espressivo, vestiti o di broccato di oro o di velluto nero schietto, fanno ammirare la loro nobiltà notturna. E venivano i vescovi, cinque, corteggio naturale della figlia del Papa, e gli ambasciatori appaiati, lucchese e senese, veneziano e fiorentino, e i quattro oratori romani vestiti di lunghissime vesti in broccato d'oro; finalmente, sei tamburini, e due buffoni, i più pazzi della compagnia, annunciano la sposa che avanza piano sotto il cielo fiammante del baldacchino, così sospesa nella pienezza del suo momento, che, lei tanto superstiziosa, non smette di

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sorridere nemmeno quando, a Castel Tedaldo, il cavallo spaventato dai colpi di cannone s'impenna indietreggiando con un sobbalzo; gli staffieri che si slanciano a soccorrere la duchessa la vedono, ridente, scivolare dalla groppa del cavallone, e salire poi su una delle sue mule coperta d'oro; il cavallo, dono di Ercole d'Este, affidato alla mano di un paggio, precederà il baldacchino, pittoresca trovata coreografica. L'entrata avvenne sontuosamente: dietro la sposa seguono il baldacchino, ondeggiante tra le case e le piazze ferraresi, il duca Ercole e al suo fianco la duchessa d'Urbino in un'altra delle sue vesti da intellettuale, di velluto nero fitta di ricami d'oro, segni di astrologia. Ultime venivano le tre donne di casa Orsini, Orsina Orsini Colonna, Jeronima Borgia Orsini, e Adriana mila vecchia e contenta, seguite da dodici carrette di corte cariche di tutte le bellezze locali e forestiere occhieggiate ammirate e discusse; seguivano le cavalcature personali di Lucrezia, e la fila dei muli portabagagli coperti alla divisa di raso o di panno giallo e morello. Così, entrando nella città straniera, alla quale s'era imposta, Lucrezia pareva portare in sé una sicurezza d'accento Per la quale tutte le vie dovevano ora esserle facili: aveva finito di desiderare, poteva liberarsi finalmente a buon vento, certa che per lei sola e comunque fosse giunta erano i plausi del popolo, i canti, gli evviva, sicura di trionfare in quel momento, meno che per la sua potenza, per la grazia della sua apparizione: si confidava, salutando e sorridendo, ai nobili come ai plebei, agli artigiani ai soldati; e tutti si sentivano fatti cavalieri per difenderla, tutti la giudicavano una donna fragile, entusiasmo e gloria degli uomini forti. Le impressioni del popolo, disgraziate o fortunate, stanno per certezze; e se la nuova duchessa a prima vista deludeva taluni con i suoi lineamenti irregolari e la sua persona minuta, anche quelli, appena passata la prima delusione, si sentivano irretiti nel senso di dolcezza che veniva da quel viso luminoso ed opaco, da quel muovere imperiosamente. chi chiedendo per grazia, ma caldamente,de canti la vita. Tra fanfare grida scoppi di bombarde cite di poesie, Lucrezia giungeva nel pieno pomeriggio in piazza del Duomo, passava dinanzi al portale romanico della cattedrale, vedeva le due statue bronzee di Niccolò III e di Borso fiancheggiare di qua e di là l'entrata alla corte del palazzo ducale. si continuava a procedere piano e facilmente e sembrava naturalissimo che gli omaggi scendessero dal cielo: erano angeli, o solo due saltimbanchi quelli che calavano dalle torri del Rigobello e del palazzo del Podestà per venirle ai piedi? Intanto, l'avanguardia del corteo era entrata nella corte, e andava disponendosi lungo il porticato di fondo o, ai lati, sotto le finestre ornate, nello stile fiorito del rinascimento lombardo, dei simboli estensi di Borso, basilischi aquile croci e rose, lasciando libero lo spazio ai piedi dello scalone di marmo.

Stava, qui, Isabella d'Este; andata ad occhieggiare la sfilata dalle finestre della dogana, era tornata poi per scorciatoie al suo posto, e capeggiava risoluta il gruppo delle daMe ferraresi e bolognesi, indossando il

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suo celebre vestito ricamato a "pause di musica" che, come simbolismo, faceva buon riscontro ai segni astrologici della duchessa d'Urbino: le altre dame, senza pretendere a tali letterate invenzioni, avevano broccati d'oro riccio o piano, o broccati d'argento o tessuti di colore contesti d'oro, o velluti, e tutte splendevano di gioielli. Lucrezia scese di cavallo ai piedi dello scalone, e ricambiò abbracci e cerimonie; e mentre il baldacchino e la mula erano contesi dai balestrieri di Alfonso e da'quelli di Ercole, ella saliva al palazzo ducale, termine ultimo del suo viaggio.

La scalea quattrocentesca del Benvenuti è formata da due rampe coperte a volta, divise da un ripiano sormontato da una cupoletta: si può prendere la scalea, di pendenza piuttosto ripida, anche a passo lento; ma, con qualunque ritmo si muova, viene naturale, finita la prima rampa, sospendere la progressione della salita sul ripiano, sospiro architettonico che invita alla sosta, per dare coscienza di se stesso a chi sale, e quasi per misurargli con una domanda o un avvertimento il vigore e lo slancio dello spirito. Lucrezia sentì forse anche lei il valore di quella pausa, rallentando un POco il passo e indugiando: vedeva in alto aprirsi la porta sulla luce mobile dei torceri, sentiva di condurre quella fitta gente che si muoveva seguendola ad onda frusciante e qualche cosa poteva trafiggerla, tuttavia, in quel momento oscillante fra la nostalgia delle cose perdute e l'ansia di quelle non ancora trovate. riprese a salire; e ad un tratto vide sopra di sé il tetto a travi dipinte del palazzo e Seppe di essere entrata nella sua nuova casa. Due statue giganti di legno dorato con le mazze in mano fiancheggiavano la porta del salone di ricevimento; ed ella, passata sotto la loro simbolica guardia nella sala, "tra le più belle d'Italia", parata di tappezzerie d'oro e d'argento e di seta, vedeva venirsi incontro un vecchio che aveva nel viso la nitida consunzione dell'età e dello studio, l'umanista Pellegrino Prisciano che si accinse a recitare il discorso ufficiale del ricevimento nel più solenne noioso e carico latino. Se uno poté mai vantarsi di essersi rifatto dalle origini per svolgere compiutamente un suo tema, questi fu di sicuro il Prisciano: egli prese le mosse non dal primo uomo e dalla prima donna, ma addirittura dal connubio degli elementi, il mare e la terra, accennò alle storie dei Calde degli Egiziani e dei Greci, citò Aristotele ed Omero, chiamò a raccolta la mitologia classica, passò in rassegna le spose illustri dell'antichità per venire infine ad un elogio tanto impersonale quanto pomposo di Lucrezia. In pochi periodi, il Prisciano celebra la famiglia Borgia specie il Papa Callisto III, per estasiarsi poi all'aspetto e alle opere di Alessandro VI, al quale dedica un periodo straordinario che è il fiore dell'enorme orazione. Paragona il pontefice Borgia a San Pietro; e aggiunge:

Habuit Petrus Petronillam filiam pulcherrimam: kabet Alexander Lucretiam decore et virtutibus undique resplendentem. o immensa Dei omnipotentis misteria, o beatissimos homines...' A questa ingegnosa

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legittimazione è poi associato il Valentino con le sue imprese militari che si prestano all'eloquenza ' "Ebbe Pietro una figlia leggiadrissima, Petronilla: Alessandro ha Lucrezia, di bellezza e di virtù per tutto risplendente. O immensi misteri di dio onnipotente, o beatissimi uomini!" e al panegirico. Subito dopo, sbrigati i Borgia, l'oratore, attacca l'argomento principe, la elegia degli Este, narrata;, dalle origini e svolta per pagine e pagine fino alla perorazione finale. Non abbiamo notizia che fossero quel giorno recitati altri discorsi, né i versi del Calcagnini o del Panizzato o dell'Ariosto. si fecero le prime presentazioni di gentiluomini e di gentildonne della corte: poi tardi, stanca, Lucrezia fu accompagnata da Isabella d'Este, dalla duchessa d'Urbino, dai più intimi familiari e dal corteggio degli ambasciatori, all'appartamento nuziale parato con gli arazzi i broccati e le tappezzerie preziose di casa d'Este, e sugli ultimi squilli di tromba si chiusero le porte alla curiosità cortigiana. Nessuno pensò possibili gli scherzi che usavano fare i parenti intorno al letto nuziale come al tempo del primo matrimonio d'Alfonso, quando, messi a dormire gli sposi, cognati e fratelli erano andati a canzonarli con tanta petulanza, che Alfonso aveva dovuto difendersi minacciandoli con un bastone: a queste cordialità libertine si opponevano il pudore allarmato di Lucrezia, e tutte le ragioni che ella aveva di volere il silenzio sulle sue avventure amorose e coniugali. Sotto la direzione di Adriana mila, le donzelle toglievano alla loro signora la veste d'oro, leste e accurate le acconciavano i capelli preparando l'abbigliamento notturno: e forse lei non ebbe nemmeno il tempo di riandare col pensiero alla lunga storia che l'aveva condotta fin li, quando Alfonso venne alle sue stanze. La notte fu calda.

Inquietudini

Il clima nuovo che Lucrezia doveva trovare a Ferrara, quel giorno invernale dalla luce così remota che sembra ad ogni momento tentato di cedere al crepuscolo, forse ella lo scopriva la mattina del 3 febbraio 1502 svegliandosi tardi nel letto ducale, dopo la prima notte di matrimonio estense. Era sola: Alfonso si era presentato a lei come un marito galante e vigoroso, anche se la dimostrazione dei suoi ardori (triplice, assicuravano i bene informati) era stata un dovere vigilato da relatori donne prelati spagnoli parenti ed intimi del Papa, che erano venuti a Ferrara con l'incarico di mandare a Roma esatte informazioni sulle notti degli sposi. Sarebbe stato contento, Alessandro VI. di lontano, Lucrezia poteva sorridere al padre, e sentirlo ormai davvero, benché protettore, distaccato e diviso dal suo cammino. Ma non cominciava a sospirare: c'erano troppe feste troppi balli

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per i suoi ventidue anni, e c'era il problema così urgente di scegliere vestiti e gioielli, di prepararsi ad essere bella su tutte le altre. Assorta in se stessa, Lucrezia ritardava, si vestiva piano, si faceva portare una leggera colazione, parlava in spagnolo con Adriana mila e con Angela e Jeronima Borgia, Vedeva certamente qualche confidente, il vescovo di Venosa, per esempio; riprendeva, ora che era arrivata ad una dimora ferma, le abitudini di indugiata pigrizia che aveva tanto ben diviso, a Roma, col marito napoletano. La sua camera era chiusa ai ferraresi, e non importava se gli invitati fossero già in palazzo e gli ambasciatori ai loro posti, e se Isabella d'Este, la duchessa d'Urbino, Emilia Pio, la marchesa di Cotrone, Lucrezia Bentivoglio, Angela, Diana Bianca d'Este, con tutte le loro dame, fossero impazienti di veder cominciare le feste, che aspettassero.

Il duca Ercole stava scrivendo al suo . ambasciatore a Roma una lettera destinata ad essere letta dal Papa, tutta miele e complimenti per la nuora, la quale, con la sua viva presenza, aveva di molto superato "ogni relazione" sicchè egli teneramente l'amava. E aggiungeva: "Questa notte, i Ill.mo don Alfonso, nostro figliolo, e lei, si sono accompagnati insieme, e crediamo che l'una e l'altra parte siano rimasti ben soddisfatti". Ma Isabella d'Este scuoteva la testina gemmata: pensare che né lei né i fratelli minori avevano potuto fare (certo, per volere di Lucrezia) l'allegro risveglio dei parenti agli sposi fra burle, risa e commenti agli avvenimenti notturni, la cosiddetta "mattinata"; e questo benché fosse stata preparata "segretamente, però con pochi" già da qualche giorno prima. Alla marchesa di Mantova, che amava le piccole licenziosità familiari, parevano davvero, queste, "nozze fredde".

Sulla porta sprangata di Lucrezia, la mattina avanzava Dalle finestre del palazzo ducale entrava nei saloni di ricevimento, sui gruppi dei signori e delle dame, il chiarore dell'inverno nordico, luce che non intona i colori in una sinfonia, ma li isola per rivelare di ciascuno la qualità l'intensità e la rispondenza col segreto mondo delle immagini sensitive. Al vibrare dei toni pittorici rilevati d'oro e d'argento, faceva riscontro il vibrare delle parole, in un gioco cauto ma animatissimo che prendeva le mosse dal gruppo e dagli umori di Isabella d'Este. Le notizie notturne degli sposi venivano ad avvivare meglio quei commenti che la libera società del rinascimento si permetteva ma con una sua schiettezza carnosa e virile anche nelle donne, ridendo e scorrendo via; e vi si aggiungevano, messi in giro dai gentiluomini tornati da Roma, i resoconti delle feste e degli usi del Vaticano, frammenti di notizie piccanti e piccole biografie magari inesatte, ma acute, di questo o di quello dei forestieri romani, spagnoli o del duca Valentino che avevano seguito la figlia del Papa a Ferrara. Lucrezia essendo quasi intangibile ai commenti, in quanto ormai Estense, si capiva che a far le spese dei discorsi e dei motteggi sarebbero stati quelli del suo seguito. Verso mezzogiorno venne l'avviso che

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la sposa era pronta, e mossero a prenderla, alle sue stanze, le dame e i parenti, preceduti dagli ambasciatori che dovevano, con questo atto, riconoscerla per moglie e signora in casa d'Este; E Lucrezia apparve bellissima a quegli occhi curiosi e Rertini che cercavano sul suo volto le tracce della "battaglia del marito": era vestita di una veste tutta d'oro tirato alla francese, con un mantello di raso morello listato di piccole strisce d'oro battuto nelle quali erano ricamate perle e lucide gemme. ornata al collo e in capo di perle e di rubini. si avanzò l'ambasciatore francese che aveva l'incarico di servire a braccio la nuova duchessa durante le feste ferraresi, e il corteo scese pompeggiandosi nella gran sala, si divise intorno al baldacchino d'oro sotto il quale, su un alto palco, salirono la sposa gli ambasciatori e le dame di conto" dopo gli inchini le cerimonie e gli applausi, suonarono le musiche da ballo, e ci si provò a ballare, sebbene la folla fosse tanta che alcune donne caddero svenute. Cominciò presto a calare la luce: e, prima di notte, apparvero, vestiti alla maniera classica antica, con toghe e tuniche di cambellotto e di zendale bordate e colorate, centodieci attori: tutti questi personaggi fuor di scena figuravano condotti dal loro autore, Plauto, impersonato da un attore che dichiarò il soggetto delle cinque commedie plautine da recitare durante le feste, una al giorno, su scelta del duca Ercole e nella traduzione degli umanisti di corte: e sarebbero state l'Epidico, la liacchide, il miles gloriosus, l'Asinaria e la Usina. finita la presentazione, e ammirati i bei costumi, si venne, per un passaggio costruito apposta, nella sala grande del palazzo della Ragione, preparata per cinquemila spettatori. L'anfiteatro di tredici gradini era tutto coperto di panni bianchi rossi e verdi e diviso in tre parti: quella di centro era riservata alle donne, e beato chi poteva prender posto vicino alle tramezze: naturalmente la casa ducale aveva il suo baldacchino e i suoi seggi coperti di broccato d'oro. Lucrezia guardava la vasta sala con i suoi occhi "vaghi e allegri" come diceva in quei giorni il cronista Zambotto, osservava il palcoscenico che pareva ergersi da un muro merlato, col suo scenario in prospettiva di case e di botteghe; alzando il capo, vedeva sulla volta dipinti i grandi stemmi, la tiara papale che ricordava le origini feudali del ducato, i gigli del re di Francia, e il toro dei Borgia che s'accompagnava con le aquile bianche e nere di casa d'Este Per la sala si muoveva un pubblico di cinquemila persone vestite di seta, e a destra e a sinistra stava quella gente delle case d'Este Gonzaga e Bentivoglio coperta di tanto "broccato e tanti ricami d'oro che pare che qui sia la miniera" Tutto era colorito caldo e lussuoso; perfino lo sguardo del duca Ercole, a contemplare la scena del suo teatro si faceva meno glaciale. Ma ecco, la commedia cominciava, si animava la scena, l'Epidico svolgeva i suoi episodi al lume di "tante lumiere e doppieri che per tutto si vedeva alla minuta, e fu recitato con tanto silenzio che a nessuno rincrebbe di andar tardi a cena", diceva un relatore. Non era questa però l'opinione della marchesa di Mantova che trovò difetti nei versi, poca grazia alle voci degli attori, ma che fu forzata anche lei ad ammettere che le moresche, e cioè i

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balli allegorici e fantastici che intramezzavano le rappresentazioni, "comparvero molto bene e con grande galanteria". Si erano visti mori con candelotti accesi in bocca, mori con facce accese, e soldati romani che, in corazza e celata, trasfigurarono in una danza eroica il calore e lo strepito di un combattimento. Anche il giorno dopo, 4 febbraio, Lucrezia si alzò a mezzogiorno, e non ammise nessuno nelle sue stanze: Isabella che stava attenta alle poste, osservava che la nuova sposa superava tutte le dame per la lentezza nel vestirsi mentre lei, la vivace marchesana, era sempre la prima alzata e vestita e doveva ricevere non solo i fratelli don Ferrante don Giulio e don Sigismondo, ma anche tutte le dame che avevano voglia di cortigianeria e che si trovavano vietata la porta di Lucrezia: naturalmente, ella si faceva sentir sospirare dai suoi intimi "o dio, fossi pur io a Mantova", e faceva scrivere dalla sua amica, la marchesa di Cotrone, a Francesco Gonzaga di non avere che un desiderio, tornarsene a casa dal marito e dal figliolino: sarebbe partita di volo non appena compiuti i suoi doveri di rappresentanza. Quel venerdì Lucrezia si vestì d'oro con manto foderato d'ermellino e scese in sala fra Isabella vestita di velluto a ricami, ed Elisabetta Gonzaga vestita di velluto nero tutto tagliato e poi legato con sottili catenelle d'oro: le donzelle di Lucrezia vestirono di nero schietto alludendo al giorno sacro della passione di Cristo e mostrando così di far parte di una corte tutta cattolica. Non si ballò; e si passò presto alla commedia che era la Bacchide, e che parve lunghissima e fastidiosa all'impazienza di Isabella; di moresche ne furono fatte solo due, una di uomini finti nudi imparruccati d'argento che avevano in mano corni d'abbondanza dai quali bruciavano fuochi di bengala, e l'altra di pazzi in camicia con le calze in testa, e intenti a battersi con vesciche gonfie d'aria; non ebbero fortuna e finirono fra gli sbadigli e le querele degli spettatori. E poiché il vero piacere della compagnia è sempre quello che si divide fra pochi, i momenti migliori e più gustosi di quelle feste erano quando, uscendo dal palazzo ducale, le comitive andavano a cena in piccoli gruppi nei palazzi dei nobili, commentando episodi, criticando particolari, rivedendo e rivivendo gli avvenimenti di corte. si giocava a chi indovinasse meglio. E per prima cosa, conosciuta che fu da tutti l'antipatia di casa d'Este, a partire dal duca Ercole e da Isabella, per la gente della comitiva di Lucrezia, ci si gettò allegramente su quella preda, e si cominciò a ridere dei volteggiamenti che alcuni giovani, spagnoli e romani, facevano invano sotto le case delle belle ferraresi. ridere di loro era una moda lanciata da Isabella; la quale, però, a bilanciare gli effetti delle sue ironie, mostrava di prediligere alcuni spagnoli per assicurarsi avvocati e paladini presso il Vaticano, in caso di necessità; si faceva sentire appena dagli intimi quando mormorava sull'invisibilità di Lucrezia che compariva solo alle feste ufficiali, non curava le donzelle ferraresi, e faceva sapere il sabato, terzo giorno delle feste, che sarebbe rimasta nelle sue stanze a lavarsi il capo e a scriver lettere. Saranno state, certo, lettere per il Papa e magari per il Valentino, ma Lucrezia doveva anche

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sentire la necessità di raccogliersi in se stessa, di ascoltare dai suoi spagnoli e dalle sue donne rapporti e discorsi: si accorgeva quanto fossero criticati e mal giudicati i gentiluomini di Cesare, e quanto i romani sentendo l'ostilità della corte estense si raggelassero nel loro modo brusco e diventassero da scontrosi sgarbati e certo sapeva che Isabella aveva regalato ai due buffoni spagnoli venuti da Roma splendide vesti d'oro e di broccato perché gridassero "Viva la marchesa di Mantova". Forse qualcuno molto perspicace del suo gruppo che giudicò questo dono ostentazione di liberalità, non liberalità schietta, ripeteva il giudizio da Lucrezia stessa. Ma, invisibile la sposa, quel sabato Isabella riprese posizione e non si annoiò più: rimase nelle sue stanze, si fece vestire sontuosamente e lietamente di bianco e argento, e dispose le sue reti in modo da prendervi dentro il personaggio più importante delle feste, quello che le era stato a cuore dal primo giorno, l'ambasciatore francese. Né faceva solo opera di ripicco: natura politica qual era, Isabella sapeva benissimo di essere sospetta al re di Francia per l'amicizia ostinatamente dimostrata a Ludovico il Moro; e benché non le fosse mancata la maniera di giustificarsi (diceva sentimentalmente di non poter dimenticare che il Moro era suo cognato, pensassero, quasi un fratello) sapeva anche di non essere stata creduta a fondo. Ora, la potenza del re di Francia stava, sventuratamente per l'Italia, crescendo nella penisola, e Isabella capiva che le occorrevano amici devoti nella corte d'oltralpe: era il momento per lei di mettere in opera un suo sistema, quello di farsi nelle corti straniere, e specie in quelle che potevano diventare nemiche di Mantova, alcuni amici personali potentissimi che la tenessero al corrente delle manovre politiche, dandole opportunità e tempo di prevenirle: quanto questo metodo fosse politicamente eccellente, se ne doveva accorgere più tardi anche il Papa di Michelangelo, Giulio II. Isabella s'informò dunque della giornata dell'ambasciatore francese, e seppe che egli, dopo essere andato a messa in Duomo, avrebbe convitato nel proprio alloggio alcuni gentiluomini ferraresi: avrebbe poi mandato agli Estensi i doni del re di Francia: per Ercole d'Este una medaglia d'oro con un San Francesco a smalto; per la sposa un rosario prezioso con i grani forati e pieni di muschio profumatissimo, dono adatto per una donna elegante anche nella religione come lei; per lo sposo un'altra medaglia con la figurazione a dir poco stupefacente della Maddalena, che non era scelta a caso, perché il relatore Cagnolo precisa che Luigi XII aveva voluto intendere di considerare la sposa una "madonna di virtù e gentilezza come una Maddalena". L'impertinenza dell'allegoria e dell'augurio si dovevano, dal re di Francia, sopportare: ma Alfonso avrà assai meglio gradito l'altro dono regale, una ricetta per fondere cannoni. C'erano, poi, un'altra medaglia con un San Francesco per don Ferrante, e una lunga catenella d'oro per Angela Borgia, "damigella elegantissima".

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Mandati i doni dal gentiluomo Pietro Giorgio da Lampugnano, che doveva diventare più tardi intimo di Lucrezia, l'ambasciatore salì a cavallo e andò a far visita a dame e a donzelle finché giunse, come per caso, alla marchesa di Mantova che lo invitò a cena. Il galante Filippo non chiedeva che di restare con quelle dame amabili e sapienti, tra fiori di ragazze spiritose, esperte nel linguaggio cavalleresco e mondano, libere ed allegre, tutte d'accordo a compiacerlo. Il convito fu uno dei più delicati e solenni: l'ambasciatore, avendo da un lato la duchessa d'Urbino, e dall'altro Isabella, seguiva la conversazione che scintillava di malizie, si addolciva in accenti di tenerezza, saliva in toni briosi, si smorzava in eleganti sottintesi. La marchesa stessa si fece portare il liuto, e cantò arie conchiuse, quattrocentesche: aveva voce bella e leggera, e soprattutto un'arte vigilata di adoperarla, una grazia melodiosa nello spegnere il canto inclinando il capo concentrata nell'essenza del suono, con una luce da iniziata in fondo agli occhi. L'intelligente commedia si concluse così: Isabella, accompagnata da due donzelle, fece entrare l'ambasciatore nella sua stanza segreta; e là, con un'aria di complice galanteria, ella si sfilava dalle belle mani a fossette i guanti profumati e li donava al cavaliere con molti sguardi e parole "dolcissime ed onestissime": inebriato, egli rispondeva di accettare quei guanti con reverenza ed amore e prometteva di serbarli in un santuario "usque ad consumationem saeculi". così avevano luogo tra le mura del castello estense, in una contaminazione sottile e letterata di parole e di gesti, gli usi della cavalleria francese e le suggestioni del petrarchismo italiano.

Arrivò la domenica, e ci fu la messa solenne in Duomo alla presenza del popolo, dei dignitari, e del solo ambasciatore francese, con la consegna a don Alfonso della spada d'onore e del cappello benedetto, doni che Lucrezia aveva ottenuti dal Papa per il marito. E il pomeriggio, nelle primissime ore, cortigiani e cavalieri, dame e donzelle vestiti in gran Pompa si avviarono a corte, e videro subito discendere dalle sue stanze Lucrezia fresca, riposata e ridente, vestita di raso morello tutto ricamato d'oro a spina di pesce, ornata di gran gioielli al collo, con una fila di splendide gemme sulla fronte. Invitata a ballare, ella scende dal palco ducale seguita da una sua donzella, la valenzana o Nicola, e sull'accordo dei liuti e delle viole fa ammirare il ritmo ardente e preciso della sua danza "molto galantemente" diceva la stessa Isabella che non era così poco scaltra da negare i meriti delle rivali, specie quando fossero di tale evidenza: caso mai, per diminuirli di valore, li riconosceva subito, li classificava tra le cose risapute e passava ad altro. si ballava da due ore e più, nella sala ducale, quando venne l'ora della commedia, e tutta la compagnia si portò nel palazzo della Ragione. Ma, fosse il calore del ballo o fosse qualche corrente sensitiva che raccoglieva umori e stati d'animo fino allora indefiniti, una specie di vago eccitamento collettivo parve straniare dallo spettacolo quel pubblico, non appena iniziarono le

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prime battute del miles gloriosus. Pretesti, a volerli, ce n'erano parecchi: la traduzione infelicissima della commedia, i versi lunghi ed involuti, la malagrazia degli attori. Prima gli spettatori di rango si divagarono parlottando tra loro, imitati da quelli che stavano più vicini, e, via via, da tutta la sala: correva un brusio insistente, fastidiosissimo, sicché gli attori, tra la ingrata risonanza dei versi e la disattenzione degli ascoltatori, perdettero la testa e cominciarono a strillare le loro parti: urli sul palcoscenico e chiacchiericcio sempre più serrato in sala, lo spettacolo sarebbe rapidamente finito in una disfatta, se l'allegra fantasia delle moresche non fosse venuta in tempo a salvare lo spettacolo. Quasi certamente durante questa disordinata rappresentazione si dovrà porre la scena avvenuta "recitandosi una commedia", fra Isabella d'Este e un "gran personaggio forestiero" che potremo identificare con ogni probabilità, dati i precedenti già narrati, nell'ambasciatore francese. Isabella, non solo era stata la prima a dare il tono di biasimo alla rappresentazione, ma, senza occuparsi più della scena, aveva iniziato una girandola di parolette e di motti di' spirito col suo vicino, ostentando interesse solo per lui e perdendosi in risatine acute: 'giunse perfino a farsi portare confetture e dolci per dividerli con il suo cavaliere, che, lusingatissimo, stava al giuoco. Ed ella s'inebriava tanto della sua insolenza, che finì per non ricordarsi più che quelle feste erano in onore della cognata alla quale si doveva, almeno, la decenza delle apparenze: così giudicava un "poeta", forse Stefano del Bufalo, che andò a riferire il racconto sino a Roma, e così giudicarono romani e spagnoli che fecero gran caso di questo fatto. Lucrezia non si curava di reagire. E del resto nessuno la aiutava in quella corte dove costumi ed idee erano troppo più affili che nella corte romana: non Alfonso che, tolto il suo dovere notturno di marito e l'omaggio che le rendeva pubblicamente, non aveva con lei né intimità né confidenza e la lasciava a se stessa; non il duca Ercole, occupato a fare la contabilità delle abitudini della nuora e della sua corte, e già pensoso di un piano cortese ed inesorabile di restrizioni; non le estensi né le ferraresi irretite dall'autorità di Isabella e ossequiosamente ostili alla nuova duchessa; non i cortigiani tenuti fuori della porta. Era sola, ma scoraggiata no davvero: perché Isabella e le ferraresi saranno state in superbia, ma anche Lucrezia si vedrà quale barriera d'alterigia sapesse opporre alla loro freddezza; si isolava per rappresaglia con le sue donne, rifiutando perfino di vedere le donzelle scelte da Ercole, le quali si stemperavano in pianti sconsolati sentendosi, nelle loro belle vesti sprecate, le cenerentole di corte.

Il lunedì cominciò con una giostra in piazza del Duomo tra Aldrovandino Piatese da Bologna e Vicino da Imola, quest'ultimo allievo d'armi del marchese di Mantova: il combattimento durò un'ora e si conchiudeva, dopo episodi insignificanti d'attacco e di difesa, in una vittoria del romagnolo, diremmo, ai punti; e subito dopo vi fu l'Asinaria, di una

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succosa brevità e recitata (la lezione del giorno prima era stata intesa) con stile. Contentò tutti, anche Isabella che quella sera si faceva vedere attenta e quieta. Gli intermezzi furono: delicati concerti nei quali figurò il famosissimo cantore dalla voce colorita, il Tromboncino; una pantomima tinnante di campanelli che suonavano a quando a quando secondo il movimento dei danzatori, e un'altra moresca con* la rappresentazione di lavori agresti, semina raccolto e vendemmia, che concludeva festevolmente lo spettacolo. L'ultimo giorno di carnevale che fu l'8 febbraio, gli ambasciatori portarono i loro doni alla sposa: magnifico panno d'oro a disegno alto e basso i fiorentini; argenteria si e i senesi; i veneziani, dopo un grave discorso ai lucchesi deposero davanti alla sposa i loro due ampi mantelli del più superbo velluto veneziano cremisi foderato di ermellino, dono che per voler significare troppo, finì, tranelli del simbolismo per far sorridere. si era preparato, quel giorno, il ballo della torcia, danza figurata che dava un minuto d'emozione quando le dame offrivano la loro torcia accesa al gentiluomo preferito: e figurarsi come tutti gli occhi fossero addosso alle gentildonne di rango. Della scelta di Lucrezia nessuno parla, segno che fu quella che tutti si aspettavano, verosimilmente l'ambasciatore del re di Francia, suo bracciere ufficiale; i relatori dicono soltanto che la duchessa di Ferrara era splendida quanto mai in un vestito di raso morello e con seta candida e manto cremisi foderato di ermellino. Isabella vestita di velluto morello carico di "glumiselli" d'oro, prese in mano la sua torcia e, brillando negli occhi di luci ironiche, andò con un mezzo giro ed un graziosissimo inchino ad offrirla ad un cavaliere spagnolo detto il Castigliano. Questa scelta che escludeva di proposito dalle grazie della marchesana i gentiluomini romani doveva far dilagare fiumi di commenti. La commedia, l'ultima, era quel giorno la malfamata. Casina plautina, "sporcissima" storia di cortigiane e di leoni che aveva dato modo alla marchesa di Mantova di metter su una gran parata in onore della virtù e della pudicizia. Isabella proibì alle sue donzelle di intervenire allo spettacolo quelle donzelle di virtù ne avevano così poca da far gridare alla loro signora di volerle maritare a facchini per finirla con la sorveglianza delle loro esuberanze ed ella stessa si mise al suo posto con la bocca stretta e un'aria tra malinconica e offesa: a guardarla ' i suoi partigiani alzavano il tono delle lodi e biasimavano il duca Ercole, senza considerare quanto l'atteggiamento di Isabella mancasse di rispetto filiale. Ma è probabile che Ercole non se ne curasse, e, conoscendo le mille malizie di sua figlia, avesse capito prima degli altri il senso di questa; perché par chiaro che tanta ostentazione di virtù in una donna che, secondo il costume del tempo, tollerava liberissimi discorsi rivolti a lei direttamente, era fatta per Lucrezia e per I suoi romani e significava che a Ferrara su questo argomento non esistevano compromessi né transazioni, nemmeno per amore filiale. Se fu una lezione, Lucrezia non l'intese o finse di non intenderla, e si divertì alla commedia recitata "con atti bellissimi e nuovi d'amore e di donne", e ascoltata da tutti con quel diletto che un cortigiano

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doveva definire "dolcissimo e disonesto", definizione da peccatore cosciente e voluttuoso. Le moresche furono magnifiche: da un globo, apertosi sul palcoscenico, vennero fuori le virtù, cantando in onore della sposa. si videro don Alfonso e don Giulio mostrare le loro belle gambe e la loro abilità ginnastica in una danza di guerra: Alfonso tornò poi sulla scena suonando in un concerto di sei viole. Il Tromboncino cantò; e le feste si chiusero con un ballo agitato e luminoso di torce e di volteggi. A cena, la sera, c'era già chi parlava di partenze. Il mercoledì delle Ceneri cominciarono i commiati: gli ambasciatori vennero alle stanze della duchessa, e poiché Lucrezia aveva consentito finalmente ad aprire le sue porte, Isabella ed Elisabetta Gonzaga coi loro numerosi seguiti vi si infilarono dentro, pronte a cogliere quanto più potevano di segreti. I veneziani fecero un bel discorso: e per prima rispondeva Isabella facendo mostra di eloquenza e svolgendo nel parlare ornato i temi dello splendore di casa Gonzaga, delle alte capacità guerriere del marchese suo marito e dell'amicizia tradizionale fra Mantova e Venezia; più brevemente e col suo garbo distante, parlava Elisabetta; e Lucrezia disse poche frasi semplici che, stando al parere di un relatore, non aggiunsero niente alle risposte delle altre due dame, ma che erano invece segno della sua saviezza e del suo equilibrio. Il linguaggio politico della figlia di Alessandro VI non era mai stato robusto: e in ogni modo non concordava più in nessun modo con quello che avrebbe dovuto essere ora il linguaggio della moglie di Alfonso d'Este. Passando dalla corte di Roma a quella di Ferrara si era per lei capovolto addirittura il panorama degli interessi e delle relazioni fra gli stati, e avventurare discorsi in queste condizioni le sarebbe stato di gran rischio; fece dunque benissimo Lucrezia a tenersi in una distaccata mediocrità, e ancora meglio a deludere quelli che la stavano ascoltando. Se le facevano l'esame, per prima Isabella con quel suo fare da "magistra de scola", Lucrezia doveva provare un suo steso e finissimo piacere ad ingannare tutti.

Festeggiata e riconosciuta la sposa, gli invitati lasciavano Ferrara. Gruppi di cavalieri, carrette coperte, chiuse sulle donne freddolose, correvano le strade gelate, e piccole navi e bucintori filavano via per i canali riportando ambasciatori e signori alle loro terre. Ma i romani e gli spagnoli di Lucrezia si accomodavano ogni giorno meglio nella città, e se ne stavano li in una specie di guardia della loro signora, ad aspettare, dicevano, la moglie del duca Valentino, Carlotta d'Albret, che doveva arrivare di Francia a raggiungere, secondo il volere del Papa, il marito in Romagna. "E faccino figlioli" concludeva perentorio Alessandro VI. Ma la principessa francese non voleva saperne di dare al nuovo stato borgiano la legittimità della famiglia e della successione, e aveva lasciato partire solo il fratello cardinale Amanieu d'Albret, che, arrivato il 6 febbraio a Ferrara, ospitato al palazzo della Certosa, la magnifica abitazione ferrarese di Ippolito d'Este, e scossa appena la polvere del viaggio, si era precipitato al palazzo ducale per godersi gli

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ultimi giorni di feste. il 14 febbraio, dopo cinque giorni dalla chiusura del carnevale, c'erano ancora a Ferrara quattrocentocinquanta persone e trecentocinquanta cavalli da nutrire e da alloggiare. "Quanto piaccia al signor duca questa festa, V. S. lo può considerare" scriveva Isabella al marito. Ercole d'Este rileggeva la lista delle spese e s'indignava in silenzio cercando il modo di risolvere senza scandalo, ma subito, la situazione: non gli fu difficile trovare ragioni per congedare di sua autorità i gentiluomini del duca Valentino e li congedò infatti con la motivazione che il loro soggiorno in Ferrara era di poco onore a S. S.tà e al duca di Romagna; e, comunicando il provvedimento a monsignor Beltrando Costabili a Roma, aggiungeva che le donne rimaste avevano cavalieri staffieri e servitori in numero tale da rendergli gravosissima l'ospitalità: era dunque ora che tutti se ne andassero, tanto, a parlarsi chiaro, il Papa sapeva benissimo che la duchessa di Romagna in Italia non sarebbe venuta. Un'altra che tardava a muoversi da Ferrara era Isabella d'Este: ci si aspetterebbe di vederla partire per Mantova la sera stessa delle Ceneri, appena congedati gli ambasciatori, o il giorno dopo. Aveva finito di sospirare il "figliolino" suo, e il marito? E che cosa la tratteneva, ora che i suoi doveri erano compiuti? Non certo Lucrezia. La marchesa di Mantova stava accorgendosi che le cose della cognata non passavano così regolari come parevano essersi annunciate: già si facevano evidenti le incrinature, e valeva dunque la pena di restare. Per esempio, con Teodora Angelini che non finiva più di sospirare, quando parlava del contegno di Lucrezia verso le ragazze ferraresi, era facile condurre il discorso verso pronostici pessimistici. così aiutata, l'Angelini finiva per dire quello che non avrebbe pensato da sola, e cioè di veder vicino il tempo in cui la duchessa avrebbe licenziato tutte le ferraresi per tenersi stretta alle spagnole e romane; ed Isabella, certa che questo allarme avrebbe provocato la reazione della gente di corte e ancor più degli Este, si sentiva paga: vendicata non tanto della bellezza del fascino e dell'eleganza di Lucrezia quanto del fatto che la Borgia potesse permettersi di aver lei per cognata senza idoleggiarla. Appena ebbe la certezza di aver lavorato abbastanza e di aver lanciato idee che avrebbero fatto strada, Isabella con Emilia Pio, la marchesa di Cotrone ed Elisabetta Gonzaga, e le loro corti e corticine, misero in ordine i forzieri e se ne partirono il 16 febbraio salutate dagli inchini cerimoniosi di Lucrezia e delle sue donne, e seguite, ammettiamolo, da sospiri di liberazione. Fra Isabella e Lucrezia ci fu uno scambio di bigliettini freddissimi e cortesi, e le loro relazioni rimasero per il momento li.

Il risultato delle suggestioni di Isabella si vide subito:

era appena finito febbraio che, per ordine del duca, Lucrezia si vide partire la maggior parte dei suoi spagnoli e qualcuna delle sue donne: una donzella, Caterina, la bella caritatrice Elisabetta, una Alessandra anch'ella cantatrice e Jeronima Borgia Orsini; avanguardia, a sentire i cortigiani, di

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tutte le altre che sarebbero andate a casa loro. Lucrezia sentì il colpo più duro perché impreveduto, ma non protestò per nulla: a che le sarebbe giovato? si accorgeva ora di non avere autorità, e capiva quanto le fosse necessario trovare un modo di vivere che concordasse o almeno avesse l'aria di concordare con quello della sua nuova famiglia. Tacque: e ai partenti regalava denaro, gioielli e molte delle sue vesti più preziose parendole sempre poco congedarli con quei doni che dovevano resuscitarla ai loro ricordi nel suo tenero fulgore. Il giorno stesso che gli spagnoli partirono Ercole d'Este dava alla nuora una partita di caccia nel parco di Belfiore ricchissimo di selvaggina; spettacolo elegante e cavalleresco, la caccia agli aironi con i falconi ammaestrati, la caccia alla lepre con i leopardi e la caccia alla volpe con la magnifica muta del canile ducale, si mostrarono a Lucrezia nell'aria arguta di marzo, sotto un sole tenue, galoppando sui bei cavalli i cavalieri e le dame, nel bosco ancora invernale ma già desto all'annuncio delle prime violette. Chissà se Lucrezia si diverte. Con qualche palpito dolente ella segue mentalmente la comitiva che cavalca verso il sud: ma già il suo dolore si fa aereato e leggero, già il pensiero di quelli che sono partiti è meno presente del pensiero di quelli che sono restati e che bisognerà difendere. Tornando in castello, la sera, forse Lucrezia ha già deciso il suo piano. Non si ribella: finge di piegarsi, accetta la lista dei familiari e delle donzelle preparata da Ercole, a questa aggiungendo, semplicemente, i nomi dei suoi, solo centodieci persone in tutto, e mostrando di non sapere che Adriana mila, madonna Ceccarella napoletana con le figlie Cinzia e' Carenna e il figlio Alvise, sono destinati a partire tra poco, per Pasqua. Non partiranno: perché, se non per questo, Lucrezia fa chiamare le fanciulle ferraresi e soprattutto si prende cura di Teodora Angelini invitandola, onore molto apprezzato in tempo di quaresima, alla sua mensa? Madonna Teodora non credeva a se stessa, e scriveva ad Isabella meraviglie della duchessa, che cominciava a tornare in sé ed era davvero "dolce e umana" e "tutta paziente con chi la serve". E intanto, qualcuno doveva aver fatto capire a Lucrezia che la sua freddezza verso Isabella era stata per lo meno un grave errore diplomatico, se parlando con la Angelini ella porta il discorso sulla cognata, ascolta le lodi di lei e vi consente: poi, dopo un sorriso, si duole che gli ambasciatori presenti alle feste era un'allusione ai maneggi di Isabella col francese? abbiano tanto accaparrata la marchesa di Mantova da non lasciarle tempo per altre compagnie; aggiungendo di sperare ardentemente un incontro più quieto e vicino. E, con uno spagnolo di quelli che Isabella s'era presa la cura di conquistare e di rendere fanatici di sé e che aveva fatto osservare a Lucrezia come i ferraresi avessero notato la sua freddezza verso l'Estense da loro riguardata come cosa divina, ella prendeva un'espressione desolata, scusandosi di "esser nuova" agli usi del paese, e rammaricandosi di così belle occasioni perdute: tutte parole, si capisce, da essere riferite ad Isabella. Su questi pazienti preliminari si sarebbe detto di poter pronosticare bene intorno alle relazioni tra le due cognate. E qualche gentildonna,

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Lucrezia cominciò a riceverla, stando nei "camerini del poggiolo", una fila di salottini piccolissimi simili a quelli celebri del castello di Mantova, e mostrandosi nella grazia naturale e gioconda del suo temperamento che snebbiava i cattivi umori degli accigliati di corte. L'informatore più assiduo della marchesa di Mantova dal quale ci vengono molte delle notizie più gelose della corte estense, Bernardino de Prosperi, faceva il paio con l'Angelini a stupirsi dell'umore grazioso di Lucrezia la quale parlava "con tanta modestia quanto dir si possa" e non aveva dimostrato "né mala contentezza né sdegno alcuno" quando le era stato tirato il colpo del licenziamento dei suoi spagnoli. si era fatta sentir dire, allora, sottovoce, che avrebbe avuto piacere di trattenere quelli che le erano rimasti, sempre però che fosse piaciuto a don Alfonso e al duca: questo "parlar umano" le aveva tanto giovato che non si ragionava più per ora di altri licenziamenti né di altre partenze, salvo per Adriana mila che tornava a Roma di volontà propria. Poteva dunque, Lucrezia, credere di far valere qualche cosa delle sue volontà segrete; e non si accorgeva ancora, forse, che, a lasciarle così la mano, Ercole seguiva una insidiosa tattica diplomatica: le dava cioè una pausa, prima di assalirla con altre armi su altre posizioni. Il vecchio avaro, fatti i conti, aveva stabilito, per l'appannaggio della nuora, ottomila ducati all'anno con i quali ella avrebbe dovuto provvedere sé e tutta la sua corte di vettovaglie cavalli carrozze, e aggiungere elemosine regali e feste del suo grado. Quando le fu riferita questa decisione, Lucrezia dovette sentirne l'offesa, lei che era stata abituata a spendere con la larghezza di una regina e l'indifferenza di una cortigiana, e che sapeva di aver portato tale dote da Poter pretendere almeno dodicimila ducati annui. Tanti ne chiese; e si eresse contro l'avarizia di Ercole, il quale domandato alla figlia Isabella quanto ella spendesse e ricevuta subito la risposta che ottomila ducati le bastavano, dichiarò che sarebbe magari salito a diecimila. Lucrezia fece intendere di non essere avvezza a contrattare, con un accento che sottintendeva la parola "mercante" già venuta sulla bocca di Alessandro VI. Alfonso assisteva senza intervenire, con un disinteresse che può parere singolare ma che dimostra una volta di più quale equilibrata concezione egli avesse delle gerarchie: e il conflitto si disegnò tutto tra suocero e nuora, crebbe, diventò aspro, e non sempre sotto apparenze cortesi, e si complicò per il fatto che Lucrezia ebbe presto un argomento di più in suo favore. In marzo fu certo che aspettava un erede: bisognava vedere se il duca Ercole si sarebbe commosso per questo. Non pareva si commovesse molto, benché continuasse la commedia della cortesia paterna, accompagnando la nuora quanto più poteva per conventi e chiese, e salendo perfino nella carretta di lei, come la domenica delle Palme quando andarono insieme ad assistere alla monacazione di una figlia di Sigismondo d'Este, Ginevra, che entrava nell'antico monastero di Sant'Antonio verso porta Romana caro ai fasti religiosi di casa d'Este. Sguardi di suocero e nuora si incontravano a freddo esprimendo più cose che fossero mai dette a voce: ma poiché il duca era della tempra di quel

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"diamante" che aveva preso per impresa, toccò a Lucrezia non poterne più. dispetto e amarezza la portarono a riscoprire, ancora una volta nella sua vita, le consolazioni del chiostro. Fu il mercoledì santo: il convento scelto non era, si può immaginarlo, quello domenicano di suor Lucia preferito da Ercole. ma un convento francescano, delle clarisse al Corpus Domini, istituito da Eleonora d'Aragona per le fanciulle di case nobili. Vi si arrivava per una via messa li fra il silenzio grasso degli orti chiusi da muri sui quali sporgeva, discreto, il verde di fichi e di meli da culture caserecce. Lucrezia passò con la sua carretta imbottita di raso fra quelle mura oneste e basse; e poteva contare da vicino le gemme marzoline sugli alberetti. dinnanzi alla chiesa quattrocentesca, rossa di terrecotte nella breve facciata, discese: e passò svelta dentro la porticina sotto l'arco di proporzioni modeste, decorato con una misura così giusta da parer timidezza. Nella chiesa le si fece incontro la badessa seguita dalle suore, fra le quali era suor Laura Boiardo cugina del geniale poeta di Scandiano, amica di Isabella d'Este e che doveva diventare amicissima di Lucrezia, Con lei e con le sue compagne, Lucrezia ritornava idealmente a San Sisto, ascoltava con delizia il fruscio delle vesti monacali, rivedeva i decenti sorrisetti che le monache si mettono in viso come una cipria di pudore, risentiva l'odore d'incenso, il chiamare di una campanella, il canto di voci bianche che sembrano indurre alla scoperta di una verità angelica. L'orto, era l'orto della sacra leggenda: vi fioriva la rosa, la rosa mistica; e la porta che metteva nella chiesina, poteva sconfinare sull'azzurro di un cielo paradisiaco. Al sonno pieno di prima sera nelle piccole celle immerse in un lago di silenzio appena increspato di sussurri, gli Estensi parevano perdere di realtà, allontanati nella prospettiva spaziale della distanza. E scivolando in quell'arginato riposo, l'avvenire si rivelava eterno, così illimitatamente promesso, che nulla stringeva più la gola, né l'assillo di far presto né l'inquietudine di voler vincere forze avverse. Tutto si rimetteva a tempi e a luoghi presentiti. Isabella d'Este, Elisabetta Gonzaga, Emilia Pio e la marchesa di Cottone, partendo da Ferrara, dopo una breve sosta a Mantova, avevano deciso di scuotersi di dosso i malumori che per Un verso o per l'altro avevano raccolto a Ferrara, Portandosi tutte e quattro in incognito a Venezia, accomPagnate da qualche intima compagna disposta alla complicità, dal protonotario Sigismondo Gonzaga. Là passarono qualche giorno allegro, godendo l'ospitalità e le festevolezze veneziane. Poi la compagnia essendo intonata, il che non accade sovente anche fra le stesse persone, si era raccolta a Mantova, a prolungare in quel festino d'amicizia il piacere raro di essere uniti, intelligenti, e dello stesso parere. Era li che dalle finestre alte del castello gonzaghesco si vedevano giardini sottostanti e la campagna e le acque calme dei laghi divisi dal ponte San Giorgio, sfumati sulle rive nei Pallidi verdi delle vegetazioni primaverili. Nei camerini di Isabella, decorati sulle piccole volte a fiamme a stelle e nodi leonardeschi, alcune delle imprese nelle quali si esprimeva la mente araldica e cavalleresca di lei, si radunava la corte della marchesa di Mantova, la più intelligente

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d'Italia e una delle più intelligenti che siano mai state, a far musica, ad ascoltare recitazioni di poesie, a conversare secondo una vera arte di eloquenza, nei modi che ci sono stati riferiti da Baldesar Castiglione nel suo Cortegiano: gli argomenti potevano andare dalle dispute sul valore dei paladini di Francia e Isabella teneva per Rinaldo più che per Orlando ai ragionamenti e ai problemi d'amore (una volta il tema fu questo: se fra due amanti, invitati la stessa sera dalla stessa donna, sarebbe stato più sollecito e ardente quello che v'andava per la prima volta o quello che già da tempo conosceva la donna), o ai ragionamenti filosofici e letterari. Ma in quei giorni le quattro dame erano occupate a speculazioni meno disinteressate: componevano una lettera, e volevano comporla memorabilmente.

La lettera sarebbe andata a Roma, indirizzata al poeta ed umanista dell'Accademia Romana, Vincenzo Calmeta, lo stesso già tanto amico dei duchi di Bisceglie; ed era la risposta ad un'altra lunghissima, che il Calmeta aveva spedito alla duchessa d'Urbino con la narrazione ordinata di tutte le cose che s'erano dette sulle feste nuziali ferraresi dagli spagnoli e dai romani della comitiva d'onore tornati a Roma. Le discussioni, soprattutto sul contegno delle dame settentrionali verso gli ospiti, erano state tante e così animate da impegnate perfino, nella loro sede gli accademici di quello "Studio" fondato con ben altri ideali da Pomponio Leto. V'avevano preso parte un po' tutti, lo stesso Calmeta, l'Unico Aretino, Bernardo Accolti, Benedetto da cingoli detto il Piceno, Stefano del Bufalo che aveva portato da Ferrara notizie e testimonianze, ed altri poeti ed accademici, più qualche spagnolo. La lettera del Calmeta non s'è potuta fino ad oggi rintracciare; ma conservata nel copialettere della duchessa d'Urbino, esiste la risposta che le quattro amiche, datandola dal castello di Mantova, concertarono insieme nel mese di aprile del 1502. Elisabetta scrive o detta lei, attenta, esprimendosi con misuratissimo decoro in frasi meditate; Emilia Pio scintilla nelle pieghe del mento e delle gote, giocando di accenni ironici intorno agli occhi; la marchesa di Cotrone, il corifeo del gruppo, si prepara ad applaudire tutto e tutti; ed Isabella conduce lei la battaglia, rappresentando a volta a volta stupore e meraviglia, sdegno offeso> un po', di disgusto e molta ironia. E la lettera comincia: "Tutte le vostre opere indifferentemente, prestantissimo Vincenzo, a noi sono sempre grate per esser con prudenza e ingegnosità fatte, ma fra le altre questa ultima diffusa ed elegante epistola, quale ci avete scritta narrando il successo delle nozze di Ferrara> e il riporto dei nobili romani, con le annotazioni fatte di alcune di noi donne, ha superato tutte le passate, per essere di arguzia e leggiadria piena, e per donarci occasione di ringraziare quelli che per bontà loro ci hanno lodate, e giustificarci delle imputazioni che ci sono date da quelli che hanno voluto giudicare non solo le azioni ma i pensieri nostri: non vogliamo arguire che tutti i gesti nostri siano stati irreprensibili, né vogliamo levare la libertà del parlare ad uomini abitanti in terra libera; ma sebbene a noi che teniamo

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principato sia concesso fare quello che a privati sarebbe dannato ' vi rispondiamo ma solo per soddisfazione nostra, acciò che intesa la verità possiate illuminare quelli che non l'hanno saputa discernere". altri complimenti e proteste, gli uni e le altre nello stesso stile oratorio e puntiglioso e con parole riguardose verso Lucrezia della quale non si parlerà perché a lei "altro che precipua laude non conviene" un modo altero per non frammischiare il nome della Borgia ai loro , le quattro amiche passano alla prima accusa che i romani hanno loro fatto, e cioè di aver avuto da dire malignamente sulle feste date a Roma dal Papa per il matrimonio borgiano. Criticato? riprendevano guardandosi l'una con l'altra: anzitutto, non avendo esse assistito alle feste romane non avrebbero potuto dare giudizi, ma tutt'al più ascoltare la relazione di qualche "elevato spirito", cosa lecitissima: non avevano però ascoltato nessuno; perché nessuno avrebbe avuto l'ardire di criticare feste fatte nella regina delle città dal principe dei principi. Era stato anche detto, poi, che avevano osservato e biasimato il contegno dei romani a Ferrara: menzogna. La critica, dichiaravano le quattro aristocratiche, dispiaceva tanto alle loro nature, da indurle, caso mai, a scusare questo contegno invece di biasimarlo; qui il veleno della risposta stava nella dichiarazione implicita che qualche cosa da rimproverare c'era davvero, scusato o non scusato. E perché i romani le avevano definite Chiuso il proemio con motteggiatrici ardite? Sarebbe stato come se da parte loro si fossero giudicati i romani "freddi e poco pronti nel parlare"* (era, si capisce, la loro opinione); e credevano, del resto, che le armi della parola fossero permesse a tutti. All'unico Aretino che aveva mosso questa accusa, si perdonava magnanimamente. Isabella, seguendo come al solito lo scaltro suo costume di ingraziarsi i letterati, specie quelli che avevano voce nelle corti e nelle accademie, pur rivendicando per sé il diritto "di motteggiare e di rispondere altrui per le medesime rime" aggiungeva, e probabilmente non era sola ironia, di tollerare le parole dell'Unico "con pazienza" e come "oracolo di Apollo" al quale erano permessi gli umori lunatici dei poeti.

I commenti non avevano risparmiato soggetti più frivoli, per esempio i cappelli a larghe tese delle donzelle urbinati; ed Elisabetta se ne veniva fuori con una spiegazione risentita, forse suggeritale, e sarebbe il suo stile, da Emilia Pio: era parso chiaro, diceva, "a chi conosceva il costume delle genti con le quali si aveva a che fare, che il pericolo fosse soltanto nella schiena", e quella si era cercato di riparare con le falde smisuratamente larghissime calate sulle spalle delle ragazze: che la precauzione fosse stata buona si vedeva anche ora, che, sebbene lontane, c'era ancora chi voleva colpirle nella schiena, a tradimento. Delle stesse donzelle si era anche criticato il modo di cavalcare, non in gruppo ma a due a due, facendo "mostra di fanti"; ma Elisabetta rispondeva d'aver lei dato questo ordine, per una cortesia di più verso gli spagnoli, i quali, come ella sapeva, costumavano al loro paese di cavalcare così per "servire" galantemente le dame: e forse colui che aveva

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fatto questa osservazione, era uno amante più degli usi forestieri che di quelli di casa propria: lo stesso, magari, che aveva immaginato di sentirsi dire da una donzella urbinate la parola "minchione" parendogli che la domanda sua lo meritasse, e non perché tale parola fosse uscita dalla bocca della fanciulla, perché "nella corte nostra non è né proprio né consueto vocabolo". Infine, si veniva ad accusare taluna di loro di arroganza, e si descriveva l'insolente contegno di Isabella durante una rappresentazione. L'altera marchesa a questo punto faceva sentire la superbia dell'aristocratica troppo conciliante fino allora con quel pubblico che aveva osato parlar di loro senza inchinarsi. Noi siamo libere, e non soggette a censure come le inferiori, dichiarava la duchessa d'Urbino con secoli d'orgoglio, nella voce. E Isabella si degnava di spiegare che il suo contegno si era conformato quella sera ai desideri di chi le era vicino, troppo gran personaggio forestiero perché ci si potesse permettere d'essere scortesi con lui. Quanto al ballo della torcia dell'ultima sera, si, era vero, ella aveva mostrato di preferire uno spagnolo ad un romano, e l'aveva fatto apposta per far intendere di essere stata più onorata dagli spagnoli che dai romani: solo, era strano che avesse fatto questo appunto il cavaliere Medina, spagnolo, e non un romano. Sul paragone, poi, fra i "begli angeli" e cioè le belle ragazze venute da Roma, e quelle trovate a Ferrara, nessuna si sentiva di pronunciarsi, e lasciavano questo ufficio a coloro che avevano tanto affettuosamente riguardato quegli angeli: stupiva in questi tali, osservava ironicamente Isabella, che fosse loro bastato il tempo per fare tante osservazioni, stanchi come avrebbero dovuto essere dal continuo volteggiare sotto le finestre delle ferraresi che si erano rise di loro. Infine le quattro signore si prendevano il gusto di rifiutare le lodi che il Calmeta riferiva esser state loro decretate da questo o da quello dei poeti dell'Accademia. Avrebbero accolto, dicevano, con gran piacere e le aspettavano, le "Stanze del ferrarese e del romano" e le altre poesie che si stavano scrivendo a Roma ispirate dalle nozze di Ferrara; ma come potevano credere di essere amate da quelli che le avevano tanto discusse? "Dove è vero amore non può essere detrazione" affermavano decise e perentorie. Qui la lettera chiudeva. Continuava però il mulinare dei commenti; e i più cauti erano i più corrosivi.

Alessandro VI aveva seguito dal Vaticano giorno per giorno la vita di sua figlia: era stato informato, oltre che dalle lettere ufficiali mandate da Ercole d'Este all'ambasciatore Costabili e a lui stesso, anche da un cameriere segreto sulle vicende della vita nuziale degli sposi: le notizie e le descrizioni delle magnifiche feste e dei trionfi di Lucrezia fra quelle dame illustri che egli non poteva supporre così finemente malintenzionate, lo avevano rallegrato profondamente, In un abbandono cordiale e gioioso, il Papa confidava all'ambasciatore ferrarese di non fare nessuna differenza, nel suo cuore, fra don Alfonso e il Valentino, Taceva; eri con un Soprassalto di esultanza si volgeva al Costabili: "Ambasciatore, so che fate buon ufficio e ringrazio la

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paternità vostra". Poi, sorridendo: "Tenete a mente, che non sarà Pasqua che la duchessa è gravida: e come la è gravida, voglio che don Alfonso venga qui". Il Papa era tutto tenerezza per gli Estensi, ma una tenerezza che gli faceva tenere aperti gli occhi. Da Ferrara continuavano ad arrivare in Vaticano domande di grazie e privilegi; ed era di casa il cardinale Ippolito invitato a cacce e a feste> ed ora, di carnevale, ai conviti ai balli e alle rappresentazioni nelle stanze papali sempre più corrusche di allegorie. Tra una conquista e l'altra, tra un progetto vecchio ed uno nuovo, appariva il profilo bruciato di Cesare Borgia; veniva Sancia d'Aragona, che durante le nozze estensi di Lucrezia doveva essersi tenuta in disparte (e forse era stata lontana da Roma perché nessuno dei corrispondenti la nomina in quell'epoca), e che tornava ora più ardita e irrequieta che mai. v'era qualche alto prelato di scelta, qualche fido borgiano e qualche spagnolo. Il Papa faceva continuamente ballare ragazze e recitare commedie: e non ci voleva altro che questa atmosfera di calda licenza perché cominciasse un intrigo fra Sancia e il cardinale Ippolito d'Este che s'erano trovati con piacere ad essere cugini (re Alfonso padre di Sancia era stato fratello di Eleonora d'Aragona madre di Ippolito) e che con la complicità della parentela inclinavano a stringerne una più stretta. Sospetto e gelosia possibili in Cesare non ritenevano affatto Sancia, anzi ravvivavano in lei il gusto di sfogare risentimenti antichi e potevano farle parere passione un capriccio: il cardinale Ippolito, per suo conto, era così fatto che il proprio estro gli pareva addirittura una fatalità: l'aria di pericolo era un eccitamento per tutti e due.

Tra la fine di febbraio e i primi di marzo, si videro di ritorno a Roma spagnoli e romani della comitiva nuziale: primi ad arrivare erano stati i cavalieri del duca Valentino licenziati da Ercole d'Este il 14 febbraio, subito al termine delle feste: e si può, immaginate, dopo la cavalcata rabbiosa che avevano fatto fino a Roma, che voci mettessero in giro. "Gli spagnoli ritornati da Ferrara, per quanto intendo da ogni parte, fanno mala relazione: e dicono essere stati cacciati da Ferrara: ed essere stati licenziati tutti i servitori ma Duchessa" riferisce subito l'ambasciatore ferrarese al suo duca; e, per arrestare le chiacchiere, eccolo, o signor Beltrando Costabili, portare la sua sottana per i palazzi dei cardinali influenti in Vaticano, cercando di saggiare le impressioni della corte romana e del suo capo. Ma il Papa stava prudente; solo, chiedeva di continuo al Costabili le lettere della figlia che arrivavano a Roma per mezzo del corriere diplomatico estense. Se qualche volta Lucrezia ritardava, si sentiva l'impazienza nelle domande del padre. "Come, la duchessa non ha risposto al mio plico di mercoledì?" chiedeva per esempio il 15 febbraio: e avendo il Costabili accennato alle occupazioni nuziali della sposa, "il Papa se ne cominciò a ridere e a parlare col signor duca [Cesare]". Arrivate le lettere, l'aria cominciò a perturbarsi, se Alessandro VI, chiamato il Costabili, gli riferiva di avere avuto notizie ingrate da Ferrara. Pareva, dunque, che Lucrezia non avesse di che spendere, e che

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fosse stata costretta perfino ad impegnare i gioielli per fare doni ai suoi amici spagnoli che partivano. Come spiegava l'ambasciatore queste cose? L'ambasciatore non spiegava nulla, ma metteva tutto ciò che poteva di eloquenza nel dimostrare che la duchessa era amatissima nella sua nuova casa: ricordava i doni che le aveva fatto recentemente il suocero, ed enumerava le dimostrazioni pubbliche e private d'onore che le rendevano gli Estensi: non andava il duca stesso a prenderla quasi ogni giorno, per condurla fuori? Quanto ad Alfonso, la sua vita coniugale era irreprensibile, calda ed attiva, il Papa lo sapeva bene; e sapeva anche il risultato fra qualche tempo concreto di queste premure. Qui Alessandro VI, messo di buon umore, dava in un riso larghissimo e si volgeva ad altro argomento: ricordava l'ambasciatore una certa profezia di un mese prima? Sullo stesso tono, il Costabili rispondeva che se ne ricordava benissimo, e che Sua Santità sapeva essere buon profeta nelle cose sue. si, da questo. lato non c'erano da temere sorprese, ogni sera Alfonso andava a dormire con la moglie; e non voleva dir nulla, anzi, se poi il giorno andasse a sollazzo con donne: "per esser giovine, fa molto bene" esclamava il Papa, forse con un mezzo sospiro di rimpianto, La parola giusta sugli sposi pareva averla detta il cardinale di Modena, quando, ad ascoltare le relazioni tendenziose di quelli che erano tornati da Ferrara, aveva risposto: "Basta che loro due si amino".

La scoperta d'essere sola aveva condotto Lucrezia a stringere le maglie di una catena che poteva sembrare fragile, ma che, solo essendo li a definire un confine, esprimeva una forza compatta e passiva contro la quale la difficoltà di battersi era ardua anche per uno della forza di Ercole d'Este. Una specie di stato d'assedio si stabiliva nell'appartamento della duchessa ' non più quello di parata nel palazzo ducale che aveva visto i suoi primi giorni di sposa, ma un appartamento preparato per lei nel grande castello quadrato costruito da Niccolò III, e circondato da un fossato d'acqua verde, appena rabbrividente nei giorni di gran vento. Su un piccolo giardino pensile, che doveva dare l'illusione e forse dava meglio il desiderio della terra libera, si aprivano le stanze, una parata di azzurro con letto e baldacchino azzurri, e tavole e tappeti, una, quella più segreta di Lucrezia, parata di raso e d'oro, e una terza, sala di ricevimento, parata di velluto verde e fornita di un lungo bancone dove di solito prendevano posto le donne di corte e i visitatori, coperto ed imbottito di velluto azzurro ricamato con cuscini di raso e pannelli d'oro. Solo per aver trovato l'arredamento pronto, Lucrezia sentiva mal corrisponderle colori e forme: progettava già di far cambiare tutto alla prima occasione. Poiché il duca Ercole non muoveva un passo verso l'accordo, né aggiungeva un ducato ai diecimila offerti, Lucrezia ritirava tutti i ponti gettati ai ferraresi e soprattutto alle ferraresi. già si vedevano gli effetti del suo malumore, se quattro gentiluomini "dei migliori" annunciavano che si sarebbero presto licenziati dal suo servizio avendo visto che presso la nuova duchessa "solo gli spagnoli hanno grazia" e ricordando, a paragone, il loro

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servizio presso Eleonora d'Aragona, "maggior madonna che questa", trattati allora con altre e garbate e cordiali maniere. Teodora Angelini doveva ritornare sulle lodi e sulle previsioni ottimiste fatte nel marzo, e confessare che la duchessa teneva in disparte le ragazze ferraresi, mostrando di non voler vedere quelle belle faccine "fino al di del giudizio", Anche lei era d'opinione che la duchessa amasse soltanto le donne sue, venute da Roma; le quali, per loro conto si stavano ambientando e vi riuscivano fenomenalmente, bene.

A Lucrezia, come a tutte le nature che inclinano a ripiegamenti spirituali e sentono di dover salvare intatto qualche cosa di proprio per vivere senza mortificazioni, bastava una compagnia piccola, ma che le desse nel genio e sulla quale sentisse di poter fidare: non sopportava il sospetto, e lo spionaggio, se lo avvertiva, la inquietava intimamente. Non aveva bisogno di essere popolare, ma di essere amata singolarmente e da pochi, sapendo che cosa significassero sguardi e silenzi di quelli che le erano intorno. La sua gente era per lei un nucleo familiare necessario, e quindi privilegiato negli individui, non tanto per loro singolari qualità quanto per la qualità comune di essere affiliati al suo partito personale. di quel gruppo, le ragazze, sull'esempio della loro signora, si tenevano su facendo le preziose anche quando si lasciavano tentare; e gli spagnoli, non molti, ma tutti quelli che erano rimasti, andavano e venivano dalle stanze di Lucrezia ai loro uffici, con certi visi da congiura fermi e patetici da stizzire i più bonari ferraresi. L'umore delle genti della duchessa ci si può figurare ricordando i commenti del maggiordomo di lei a Roma sull'avarizia di Ercole d'Este. Erano tutti, si capisce, stretti a quella resistenza; non aveva ella detto di combattere, più che per sé, per il decoro della sua corte? Del resto non era neppure vero, come credevano i ferraresi, che in quell'isola di spagnolismo i piaceri fossero mortificati.

Forse era allora ammesso alla piccola compagnia della duchessa quell'ignoto poeta spagnolo che scriveva appunto nei primissimi mesi del 1502 un poemetto in lode della signora e delle sue donzelle. Per illustrare il concetto che Lucrezia vince ogni altra donna, egli trova un accento pittoresco e dice che le più belle sono, al suo confronto, qual el viernes de passion con la pasqua de alegria, un contrasto tento spagnolo e cattolico da far venire in Mente le antiche processioni sotto i lampi di sole di una settimana Sivigliana. Passando alle ragazze chiama Elisabetta Consuelo della gente", Gironima "onesta e misurata* Samaritana "cortese"; si anima poi con la negra "Catelinella" e meglio ancora con la "gentil Nicola" la più spiritosa del terzetto senese, abile a cantare ballare suonare esprimendo nelle varie arti gli estri del suo umoresco spirito toscano. E lasciate che apparisca al poeta la visione di Angela Borgia, e vedrete come il pigro immaginare gli si risvegli e

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come la saporosa quindicenne gli faccia danzare la fantasia e tamburellare una strofa come battuta sulle nacchere:

Ah davvero,

Tan hermosa, tan gàlana tan graciosa tan onesta

tan ayrosa y sin ufana de una condicion muy Ilana

muy umana y muy dispuesta.

es aquel angel del cielo es dona Angela escogida.

sospira lo spagnolo; già a Roma, l'umanista Dionede Guidalotti rivolgendosi ad un Cristoforo Valdés, parente del maggiordomo di Alessandro VI, che pare fosse innamorato della giovanissima Borgia, aveva scoperto quella bellezza, e ci aveva fatto su un sonetto, esclamando:

Che occhi vid'io, che man, che petto! un grido per nulla da petrarchista ma da ghiotto bolognese qual era chi scriveva. A Ferrara, Angela stava piacendo molto: fosse pure una scervellata, ella sapeva ridere, rideva volentieri, era in tutti i sensi divertente; si piazzò addirittura in casa d'Este, nel cuore o meglio nel sangue di don Giulio, il bastardo di Ercole. Per non restare indietro al fratello minore, intanto, don Ferrante d'Este s'era impaniato anche lui alle sottane delle donne di Lucrezia, scegliendosi come dama Nicola: e la senese con quella sua libera estrosità figurarsi se ci stava volentieri con il bellissimo tra i bei giovani di casa d'Este. si diceva che facessero "forte" tra loro, ma "senza peccato". ci pensò il duca, sperando di arrivare prima che i peccati maturassero, a frenare temperamenti e voglie, e a dare ordine a don Ferrante di non avvicinarsi alle stanze della cognata più di due volte alla settimana. Così, sotto il segno e l'influsso di Eros, l'esilio volontario di Lucrezia si va ordinando: ella si alza tardissimo, si fa vestire ed acconciare senza fretta, va a messa nella sua cappellina, fa colazione, riceve i pochi che ammette alla sua presenza, parla con le sue donne, legge loro ad alta voce storie sacre e poesie d'amore, concerta con i suoi ricamatori vesti nuove, una, per esempio, tutta ricamata di gemme, da mettere in onore della marchesa di Mantova quando ella verrà per San Giorgio; oppure si fa portare una delle cassette che hanno contenuto tante suppliche, tanti segreti e tanti documenti vaticani rilegge le lettere antiche, torna indietro col pensiero, crede di staccarsi sempre meglio dal passato strappando alcuni fogli, forse i più cocenti; altri ne ripiega e !sospira. Una crisi di malinconia? é il momento di farsi aiutare: e Nicola, che capisce le voluttà tenere e le sa esprimere dalle cose, propone o accetta un pomeriggio di intimità delicate: pronta ad agire, muovendo aria di festa, con l'aiuto della camerierina Lucia,

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prepara polveri, bracieri, reticelle d'oro, camicie moresche, e una tinozza piena d'acqua calda ed aromatica . Lucrezia licenzia tutti, si isola insieme con la sua favorita, si spoglia dei suoi broccati, fa spogliare la donzella, entra con lei nel bagno che la piccola Lucia alimenta d'acqua caldissima; le due giovani donne scherzano, ridono, si beano a sentir passare su di loro un tempo odoroso; poi vestite di sole camicie, chiusi i capelli nelle reticelle d'oro si sdraiano fra cuscini a bruciare profumi su bracieri accesi, per lunghe, lente, languide ore. I cortigiani si passavano i particolari di questa scena raccontata non solo a Ferrara ma anche a Mantova per le indiscrezioni del "Prete". Il "buon segugio" di Isabella d'Este si era addomesticata, a forza di carezze e di dolciumi, la camerierina Lucia, e poteva raccontare così da fonte diretta: e del resto, gli ozi femminei di Lucrezia erano commentati nelle corti ferrarese e mantovana senza l'ombra di severità.

A questo punto della vita di Lucrezia, appare, e vi ha già il suo posto, Ercole Strozzi. Il suo nome ricorre la prima volta nei documenti che interessano la vita della figlia di Alessandro VI) alla vigilia della solenne entrata di lei sera andremo a convito da M. Hercule Strozo" scrive il 29 gennaio 1502

Isabella in Ferrara. "Questa. d'Este al marito. Nei giorni che seguirono, lo Strozzi, con altri cortigiani, fu certo presentato alla duchessa non sappiamo con quale effetto: poco dopo, in marzo, si seppe che il poeta ferrarese aspirava al cardinalato che avrebbe offerto cinquemila ducati per il cappello rosso, e che lo stesso Alfonso d'Este aveva scritto a Roma al fratello cardinale Ippolito raccomandandogli la causa del suo cortigiano; è probabile che Lucrezia lo raccomandasse anche lei. Passato il marzo, però, non si parlò più di cappello rosso né di partenza dello Strozzi da Ferrara: qualche cosa, una risposta caduta a tempo, un consiglio acuto, una pausa bene intesa, avevano dato modo alla duchessa di guardare in fondo agli occhi di colui che sapeva così bene presentarle omaggi e servigi, e di leggervi cose che tornavano molto alla sua solitudine e alla sua inquietudine. Lo Strozzi fu subito protetto da Lucrezia, si vide aperte le stanze ducali, si sentì ricercato, si avviò a diventare il favorito della duchessa: era un favorito che avrebbe fatto onore a qualunque dama, poeta elegantissimo, cortigiano e gentiluomo impeccabile. Eppure, fra tante sostenute qualità, qualche cosa in lui cedeva. Ercole Strozzi discendeva dal ramo ferrarese della celebre casata fiorentina che si era stabilita a Ferrara con Nanni Strozzi, nel primo quattrocento: nobiltà ricchezza rango e de. coro gli venivano dai suoi antenati e specie da suo padre, Tito Vespasiano Strozzi, uno dei più onorati vecchioni del ducato, caro agli Este, giudice dei Savi, poeta latino fra i più celebri del circolo letterario ferrarese. Da lui, Ercole aveva ereditato l'intendimento della poesia e delle lettere, affinandosi poi con tanto studio che, appena trentenne, aveva già sopravanzato l'insegnamento paterno, ed era universalmente tenuto uno

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dei latinisti più eleganti di Ferrara e d'Italia. Ma, zoppo fin dalla nascita e costretto a camminare con la gruccia, questo difetto fisico era come è in molti Zoppi d'ingegno, il punto che spiritualmente gli doleva; e gli doleva esasperandogli l'intelligenza critica fino a trascinarlo, per trapassi di pensiero, nelle deviazioni del cinismo e del pessimismo, e a suscitargli una freddissima corruzione non di costumi, ma, peggio, di idee. La sua grazia felpata, l'intonazione della sua eleganza, e quella lucentezza di sguardo che gli veniva dalla malinconia amara e dall'ambizione umiliata, gli conciliavano amicizia e amore delle donne, e, meglio, delle donne che avevano sofferto e che credevano di riconoscere in lui, sorretti e come rinsanguati dall'autorità virile, atteggiamenti e sentimenti loro propri. Naturalmente, fra gli uomini, molti non lo amavano. In corte stessa, se il vecchio duca poteva apprezzare un'intelligenza così difficile e, soprattutto, se poteva proteggere l'umanista ed il poeta, buon consigliere e ottimo traduttore di commedie per il suo teatro, Alfonso d'Este lo sentiva invece ripugnante alla sua interezza, fuori parecchie miglia della sua robusta prospettiva di giudizi. Quasi popolare d'istinto, l'erede del ducato di Ferrara non approvava la maniera dura che lo Strozzi usava negli uffici pubblici facendosi odiare dal popolo, di un odio, però, in certo senso rispettoso: in più gli davano fastidio tante rifiniture spirituali, e gli equivoci di morale e di vita che ne potevano venire. Pure, onesto con se stesso, Alfonso non trovava nelle sue ripugnanze ragioni abbastanza rilevanti di censura, se non fece nulla per proibire allo Strozzi l'entrata nelle camere della moglie: anzi, dovette permetterla, e magari incoraggiarla in un primo tempo, convenendo che nessuno meglio dello Strozzi avrebbe potuto dare alla corte di una dama il lustro dello spirito e della cultura. così il poeta ferrarese ebbe libero il passo; ed egli che sapeva suscitare in una donna i più inebriati capricci di vanità per soddisfarli, cominciò ad inventare per Lucrezia idee geniali d'eleganza; parlandole dei magazzini veneziani non lontani da Ferrara, le descrisse le meraviglie del grande emporio occidentale d'Europa, e le fece venire in mente quanto sarebbe stato facile per lei cogliervi dentro a mani piene. Accadde di conseguenza che lo "zopo dei Strozzi" se ne partisse con una lista di commissioni, la sua gruccia, i suoi bei capelli slentati, e il suo viso nobilmente pallido, per Venezia; là ritrovava l'amico suo Pietro Bembo, il sole degli umanisti italiani; là rivedeva una gentildonna veneziana capricciosa e nuvolosa con la quale stava chiudendo un già lungo episodio d'amore, là infine andava a scegliere per la duchessa di Ferrara raso bianco gigliato, raso bigio, lionato, turchino, incarnato, oppure taffetà, tabi, ormesino bianco e bigio. si faceva tirare fuori dai mercanti le stoffe regali, i broccati d'oro su oro, o cremisi su oro, e i cangianti velluti veneziani compatti e leggeri, morelli, pavonazzi, bigi, verdegialli, tonalità rare e delicatissime: nel fondaco veneziano che anche di luglio doveva essere fresco, pezze e rotoli si spiegavano davanti al poeta che provava sui colori e sulla consistenza delle sete la squisitezza della sua sensibilità tattile e pittorica. Le stoffe scelte

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partivano subito, arrivavano a Ferrara, si mostravano allo sguardo delle donne, e preparavano allo Strozzi il plauso e l'entusiasmo di ognuna. di giorno in giorno il guardaroba della duchessa s'empiva di belle pezze che si allineavano negli scaffali o nei forzieri; e ogni cosa a credito. Perché Lucrezia, di fronte all'avarizia di Ercole, anziché umiliarsi e restringere le sue spese personali si dava (era un suggerimento dello Strozzi?) a spendere più che non le fosse possibile. A credito si faceva tagliare nelle stoffe veneziane abiti nuovi e li faceva coprire di ricami; a credito rivestiva tutte le sue donzelle di cambellotti colorati; a credito ordinava a messer Bernardino, intagliatore veneziano, una culla per il bambino che doveva nascere, né i progetti le sembravano mai abbastanza degni. diceva, a chi voleva sentirla, che avrebbe speso per questa nascita diecimila ducati, l'appannaggio di un anno intero; e in un convito al quale invitava la famiglia estense, compreso il suocero, faceva una mostra d'argenteria. Quel convito, intenzionalmente polemico, poteva avere significato d'ironia per chi avesse passato in rassegna gli stemmi incisi sugli oggetti: si riconoscevano facilmente, allo stemma sforzesco, molti pezzi del famoso "apparato da credenza" che il cardinale Ascanio Sforza aveva regalato a Lucrezia per le sue nozze pesaresi; e c'erano i ricordi del periodo aragonese, fiaschi e fiaschetti, un bacile a ghirlande d'oro, una scatola con foglie a rilievo, una saliera preziosamente cesellata. A ricordare le avventurose relazioni orsinesche, stavano oggetti con l'orso di quella famiglia; e perfino le armi, vi si ritrovavano, di quel Francesco Gaulet, canonico di Toledo, che aveva avuto parte così stretta nella relazione amorosa di Alessandro VI con Giulia Farnese. Ma gli stemmi borgiani trionfavano, sia congiunti con la corona e le fiamme del duca di Gandia, sia col cappello cardinalizio di Francesco Borgia, sia, soprattutto, con la tiara pontificia. Un toro si alzava massiccio e tutto dorato simile al biblico vitello d'oro, dal coperchio di una gran coppa fra un intrico di fogliame d'oro; tori più piccoli si vedevano incisi o sbalzati sulle coppe sui bicchieri sulle scatole sulle ampolle sui calamai sulle brocche da acquai e su una fontana d'argento dorato si leggeva in tutta la sua ampia solennità il nome spiegato del pontefice, ALEXANDER SEXTUS PONTIFEX MAXIMIS Lucrezia mandava raggi freddi anche lei presiedendo quel convito durante il quale accennava a suol padre con ogni volgere d'occhi. Ma il vecchio duca la ricambiava con uno sguardo cortese che poteva esprimere tutt'al più indifferenza: se ella tentava di fargli capire che non le mancavano le risorse, Ercole avrebbe potuto rispondere che ci contava, per sé, da tempo. fece non si può dire che alla corte di Ferrara si facesse gran caso: ad Ercole d'Este cominciava già a sembrare che la qualità e la quantità dei benefici in arrivo da Roma non rispondessero più alle promesse; e quando giunse a Lucrezia un breve paterno che l'appoggiava nelle sue pretese d'appannaggio (e Lucrezia lo passò ad un gentiluomo di Ercole perché lo leggesse) il duca dichiarò gelido che non avrebbe ceduto "se pur ci venisse dio". Morta di fame, diceva Lucrezia, morta di fame sarebbe, e con lei tutta la sua corte prima di

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accettare i diecimila miserabili ducati stabiliti dal suocero. La collera di Lucrezia aumentava col passare del tempo e con la resistenza di Ercole: aumentò tanto, che un giorno, avendole il duca fatto annunciare una delle sue solite visite, Lucrezia non si sentì di sopportare anche la finzione di una conversazione pacata. Scattò: il duca, disse, avrebbe fatto molto meglio a restare dov'era, pensando piuttosto "ad assettare le cose sue"; cioè. loro. Ercole fronteggiava la ribellione della nuora mostrando di non accorgersene, e se vedeva maltempo se ne andava con un pacco di libri di cavalleria francesi a vedere dipingere da Lazzaro Grimaldi le storie di Filocolo e di Biancofiore nella sua villa di Belfiore. Nel giugno, Lucrezia che soffriva del suo stato per il quale le si mandavano da ogni parte primizie, specie cedri e limoni del lago di Garda, chiedeva al suocero di poter andare con la sua corte al fresco di Belfiore: Ercole rifiutava con la scusa che v'erano troppi pittori ed operai al lavoro: avevano un po' litigato l'uno e l'altro ha messo la "mosca" [broncio], riferiva il "Prete" poi Lucrezia s'era trasferita a Belriguardo, la regina delle villeggiature estensi: là aveva ribadito la consegna della clausura non ricevendo neppure, quantunque mandato dal duca Ercole a parlarle, l'aulico consigliere Niccolò da Correggio. Non bastava: il giorno del suo ritorno a Ferrara, Lucrezia, sapendo che il suocero sarebbe andato ad aspettarla a mezza via, si tratteneva più tempo che non fosse necessario a colazione in una villa di amici estensi, i Guarnieri, contenta di far aspettare per la strada, a suo capriccio, il vecchio duca. Qualche giorno dopo, facendosi in Ferrara una di quelle processioni per le quali Ercole prestava alle confraternite i costumi delle sue commedie, continuando così nella religione la sua passione degli spettacoli, Lucrezia lasciava che frati e gentiluomini stessero ad attenderla, e se ne veniva poi, a processione finita, con quell'espressione altera ed ironica che faceva esclamare ai cortigiani: "Vedete mò dove nei siamo giunti".

Cesare Borgia piombò su Urbino, di sorpresa, il 24 giugno 1502, mostrando una volta di più, con questa rapina che i veneziani avevano previsto da tempo e che i Montefeltro avevano sperato di risparmiarsi onorando e ospitando Lucrezia nel suo viaggio nuziale, quanto fossero libere da influssi e senza legami di scrupoli la sua volontà e la sua mano. L'occupazione di Urbino era avvenuta rapidissimamente, preparata dall'opera di traditori che il Valentino s'era acquistati nella corte stessa di Guidobaldo e che avevano consigliato al loro signore di prestare al Borgia, per ingraziarselo, artiglierie e vettovaglie, e di permettergli inoltre il passaggio attraverso l'imprendibile passo di Cai: il 23 notte, era stato dunque facilissimo alle truppe borgiane, accampate così nelle terre del ducato, volgersi improvvisamente verso la città d'Urbino e prenderla con tale prestezza che fu miracoloso per il duca, avvertito appena in tempo, poter salire a cavallo e fuggire, in farsetto e senza mantello, con soli due compagni a fianco. riparò in terra veneta, a Castelnuovo, dove il castellano, impaurito

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o traditore anche lui, non volle riceverlo: sicché il fuggitivo, sopportando con la sua serena pazienza, serenissima in quei momenti, la sventura, riprese il cammino, e si diresse verso Mantova dove stava ancora la moglie, Elisabetta Gonzaga, ospite del fratello e della cognata Isabella.

Mentre ad Urbino, Cesare, penetrato in quella reggia della cultura e dell'umanesimo italiano che era il palazzo ducale di Federico II di Montefeltro, cominciava a far imballare statue libri pitture, e arrotolare tappeti ed arazzi, tutto suo bottino, a Ferrara Lucrezia piegava sotto il peso della nuova conquista dei Borgia. si vide guardata dai cortigiani con la riprovazione che toccava il fratello ma includeva anche lei, ed era costretta mentalmente a dar loro ragione. Qualche cosa degli antichi terrori romani riaffiorava nel suo spirito, se, pur non facendo parola di Cesare, mostrava tanto chiari segni di dispiacere e di smarrimento. diceva, ripetevano i suoi familiari, che avrebbe dato volentieri venticinquemila ducati per non aver mai conosciuta la duchessa Elisabetta; e, sottintendeva, non aver adesso da arrossire.

I ferraresi avevano così mala opinione dei Borgia, che solo dopo aver fatto l'inchiesta con questo e con quello degli spagnoli e aver trovato da per tutto gli stessi sentimenti e le stesse assicurazioni, s'erano convinti che le manifestazioni di dolore di Lucrezia non erano simulate: così scriveva il Prosperi ad Isabella d'Este, commentando che certo erano cose da meritare pietà in casa del diavolo. Isabella, per suo conto, dava in esclamazioni circospette ed indignate, ma conservava tanta freddezza da ricordarsi che v'erano nel palazzo d'Urbino una piccola tornita Venere di scavo, e il già celebre Cupido dormente, uno dei primi marmi scolpiti da Michelangelo ("per esser cosa nova non ha paragone" diceva la marchesa) che sarebbero stati benissimo nella sua collezione; e non attese nemmeno dieci giorni per scrivere a Roma al fratello Ippolito perché domandasse per lei le sculture al Papa e al Valentino. Anche sapendo che ella aveva chiesto alla cognata il permesso di farsi regalare gli oggetti, e che Elisabetta glielo aveva dato volentieri col desiderio di ripagare in parte l'ospitalità mantovana, si potrebbe osservare che una simile maniera di spogliare i propri parenti fosse troppo disinvolta; ma Isabella di delicatezza ne aveva e non ne aveva, secondo la convenienza, e aveva invece la passione senza pudore del collezionista. Tanto intrigò, col Papa e con Cesare Borgia, che si ebbe finalmente la Venere e il Cupido e se li prese lacrimando di gioia. figurarsi se li restituisse mai più. I signori degli stati italiani si stavano passando la parola della paura, Salvo Ferrara (benché non del tutto tranquilla pur avendo per sé il pegno di Lucrezia e la protezione del re di Francia), gli altri si vedevano già, al dire del marchese di Mantova, "come quelli che sono impiccati l'uno dopo l'altro e non possono darsi una mano". Aspettavano dunque di chiarirsi su un argomento capitale, quali fossero cioè le

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disposizioni francesi verso il Valentino; perché tutti sapevano che senza l'appoggio dell'alleato oltremontano Cesare non avrebbe avuto possibilità di espansioni future. Del resto, si sussurrava da più abili informatori che il re di Francia cercava di adoperare ai suoi fini, sempre quelli della conquista napoletana, l'amicizia borgiana, ma che non aveva interesse personale né desiderio di appoggiate una dinastia spagnola, e quella dinastia, in Italia. Fra timore e speranza, le piccole corti stettero ad aspettare. Nel luglio 1502 Luigi XII entrava nel riconquistato ducato di Milano tra le feste forzate di un popolo stremato dalle contribuzioni di guerra. Il re di Francia si stabilì nel castello di Pavia dove arrivarono l'uno dopo l'altro signori e diplomatici italiani. Da Ferrara mosse Ercole d'Este; da Mantova il marchese Gonzaga proferendo allo sbaraglio contro Cesare aperte minacce che facevano rabbrividire la moglie. L'odio, pensava la marchesana, non è necessario farselo leggere in viso: e badava a raccomandarsi e a far intendere il verbo della prudenza al suo irruente marito. Ma a Pavia, i signori, gli ambasciatori, gli inviati e i relatori arrivarono a vedere, spettacolo angosciante per loro, le affettuose accoglienze e le feste cordiali che il re di Francia faceva al Valentino. Il re voleva il Borgia nelle stanze vicine alle proprie, gli dava da indossare i suoi vestiti, andava ad assistere alla sua cena, ordinando per lui questa o quella vivanda rara. "Mai si vide maggior favore" si diceva intorno trattenendo il fiato. Cesare, solo a non stupirsene, se ne prevaleva, e ostentava un contegno infastidito con tutti, non andando nemmeno a restituire le visite che i più vecchi di lui, come il duca Ercole, erano andati a fargli per primi. Frequentava solo le stanze del re dove, un giorno, scherzando alla soldatesca con un buffone francese, un matto chiamato monsignor Galerin, per poco non finiva sotto il pugnale di lui.. Uscito dall'avventura appena graffiato mise come aveva riso qualche tempo prima quando, gettato a tetra e quasi calpestato da un cavallo imbizzito, si era rialzato illeso e comparve a fine trovare dame di conlanesi per le quali non si riuscivano a scomparse le famose bellezze lombarde della corte d'Este. A. rappresentare tutte c'era soltanto l'intellettuale e spiritosa Ippolita Sforza sposa di Alessandro e alla quale toccò l'onore di ballare col re 2 di toglierlo a conversare, ciò che ella fece con tanto brio e una grazia da farsi restituire dal galante sovrano tutte le sue terre, che erano pure patrimonio tanta lombardissimo sforzesco; ma restava sola o quasi. I francesi che si volevano divertire dovevano accontentarsi di avventure con quelle donne di liberi costumi che arrivavano da ogni parte d'Italia attratte dalla fama delle maniere gioviali e generose che i francesi usavano andando a piacere. Ma per occupare le menti non mancavano colpi di scena. Fra un ballo e l'altro correvano notizie di delitti di progetti e di trame borgiane, una più inattesa dell'altra; veniva l'avviso che Astorre Manfredi, il giovinetto signore e difensore di Faenza, era stato ritrovato nel Tevere, insieme con un suo cugino, col capestro al collo, e, si aggiungeva, dopo aver patito oltraggi estremi. si confermavano le trattative già da qualche tempo avviate tra il

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Valentino e i marchesi Gonzaga, per le future nozze dell'unica figlia di Cesare e di Carlotta d'Albret, Luisa, con l'erede del marchesato di Mantova, Federico: la bambina aveva tre anni, e il bambino poco più di un anno: e quanto la piccola Borgia era brutta con un "malissimo" naso e un viso soltanto espressivo, tanto il piccolo Gonzaga era bello, e prometteva di diventare quel vaghissimo fanciullo ritratto da Raffaello e ammirato anche dal pontefice Giulio II. Queste differenze non contavano nulla di fronte alla ragione politica; e Cesare Borgia desiderava così fortemente il lontanissimo matrimonio, che i Gonzaga non potevano rifiutarsi; ci voleva poco per dare al Valentino un pretesto che gli servisse per estendere anche in alta Italia i suoi domini. Qui Isabella d'Este si fece avanti e prese lei la direzione delle trattative matrimoniali tenendole bene in pugno come si conducesse, con quali finte premure mandasse ambasciatori e ricevesse gli inviati del Valentino colmandoli di graziose cortesie, affascinandoli a forza di seduzioni psicologiche donnesche e principesche, quali arti ella seppe inventare per mettere continui indugi e che non paressero tali, è altro racconto, Le sue istruzioni dettate agli inviati erano tali che riuscirono ad ingannare uno come il Valentino che quanto a scaltrezza non la cedeva a nessuno. Non fidandosi del marito, Isabella aveva mandato a corte del re di Francia oratori formati alla sua scuola: ad uno di questi, il Chivizzano, Luigi XII raccomandava, segretamente e in gran confidenza, di far bene attenzione prima di stringere patti ufficiali con i Borgia, perché "di qui a là un giorno delle nozze] chissà quello che sarà". Gli stessi consigli il re di Francia aveva dato agli Estensi nei primi tempi delle trattative nuziali di Lucrezia con Alfonso d'Este: e si può immaginare se i Gonzaga avessero piacere di ascoltarli e voglia di seguirli, e se la marchesana, specialmente lei, ci giocasse su per tenere a bada con più bravura l'avversario. A metà di luglio una delle frequenti epidemie che correvano funestamente l'Italia e l'Europa, arrivò a Ferrara e colpì la corte ducale: non era delle più cattive, ma toccò tutti e tutte, e tra i primi Lucrezia, che, delicata di costituzione e delicatissima per la sua difficile maternità, stette subito molto male. Immediatamente galopparono medici per le strade d'Italia: da Urbino Gaspare Torella, vescovo di Santa giusta, e da Cesena il medico Niccolò Marini ambedue mobilitati di notte con ordini netti e subitanei dal Valentino. E da Roma Alessandro VI mandò con una fretta repentina a Ferrara il recanatese Berardo Bongiovanni vescovo di Venosa medico di gran fiducia dei Borgia. Il Papa, parlando con monsignor Costabili, mostrava la sua ansia e approfittava del momento per insinuare che la malattia della duchessa era certo di origine nervosa, provenendo da una esasperata "malinconia, per non voler ella contentarsi dei diecimila ducati" deliberati dal suocero. Certo, continuava il pontefice, egli non scriverebbe mai su questo soggetto al duca di Ferrara per non aver l'aria di voler dettare legge in casa d'altri, ma insisteva che alla figlia fossero dati i dodicimila ducati dei quali ella si sarebbe tanto contentata da risanare presto e vivere poi serena. ricordasse, il duca Ercole come la nuora gli era venuta in

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casa; e badasse a quel che faceva perché la morte di Lucrezia non sarebbe stata al proposito dei Borgia; ma, e il Papa appoggiava sulle parole, non sapeva quanto avrebbe potuto essere al proposito degli Estensi stessi. Questo messaggio arrivava a Ferrara indovinato inteso e prevenuto. Assistevano la duchessa il vescovo di Venosa, maestro Palmarino, maestro Ludovico dei Carri, maestro Alessandro Bordochio, più i due medici spediti dal Valentino. L'ostetrico Ludovico Bonaciolo e il medico del duca, Francesco Castello, sorvegliavano. Alfonso d'Este, partito per la sua visita al re di Francia che da Pavia andava per Asti verso Genova, ebbe immediatamente dal padre l'ordine di tornare indietro, e poi, forse, anche il consiglio di mettersi in camera della malata e di farsi vedere con lei di continuo. A Ferrara si stava inquieti: la creatura che giaceva nel suo letto bruciata dal male prendeva valore anche agli occhi dei più severi nemici del suo nome, tra i quali i più onesti si esprimevano così: "dio la conservi, perché non saria in proposito che la mancasse per adesso". Il "proposito" del discorso di Alessandro VI Messi borgiani arrivavano e ripartivano: veniva Troche, veniva Michele Remolino, le anime nere dei Borgia, sospettosi, abili, fiutando l'aria delle camere e delle anticamere ducali. finalmente il 12 agosto, segreto ed improvviso, arrivò il Valentino. Lucrezia, migliorata, era seduta sul letto, distinse i passi noti, vide il fratello, le parve di rinsanguare. I due figli di Alessandro VI stettero insieme tutta la notte comunicando attraverso il ponte segreto e solida della stretta parlata valenzana, e forse in quella notte Cesare promise alla sorella per l'Infante Romano la sua nuova conquista, Camerino. Le ore rotolarono in fretta: all'alba il Valentino ripartiva, e Lucrezia, per lo straPazzo dei lunghi discorsi e delle vibrate commozioni, ricadeva ammalata. Da allora, notizie di combattute nottate, di attacchi febbrili, di malanni e di cure stiparono i bollettini dei medici: ma il 18 agosto ella migliorava un poco mentre intorno la sua corte era travagliata dall'epidemia. si erano messe a letto Angela Borgia, Elisabetta da Siena, la napoletana Madonna Ceccarella, Neora Caterina. Madonna Ceccarella fu colpita così crudelmente dal male che ne morì e fu sepolta lontano dalla sua Napoli, nella chiesa di Santo Spirito. Toccò poi a quattro dei medici, il più vecchio dei, quali, il Carri, non resisté alle febbri: e infine alla sopraintendente della corte femminile, Teodora Angelini che, presa con sé la figlia, se ne venne al suo palazzo facendo capire che non sarebbe mai più ritornata ai crucci del suo ufficio. Per Lucrezia la diagnosi giusta doveva essere quella di Francesco Castello, medico personale di Ercole d'Este, mandato appunto dal suocero alla nuora: il Castello aveva scritto al duca di tenere per sicuro che la malata non si sarebbe liberata dai suoi affanni se non con il parto: le crisi violentissime che quasi ogni giorno la assalivano, con alternative di caldo e di gelo, erano da attribuirsi ad un resto di bile, difficile a curare per lo stato delicato di lei e per la sua qualità di donna (quest'ultima ragione è misteriosa). Al contrario, il vescovo di Venosa parlava di "accidenti di animo", fenomeni nervosi; e così scriveva a Roma.

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Il 3 e il 4 settembre furono tanto cattivi che il Castello si raccomandava a dio. E il 5 settembre, di sera, Lucrezia, folgorata all'improvviso da uno spasimo alla schiena, si piegò indietro lamentandosi: subito attorniata e soccorsa, la sera stessa diede alla luce una bambina di sette mesi, morta: sopravvenne la febbre puerperale, che accigliò e mobilitò tutti i medici. Due giorni dopo, il 7 settembre, all'alba, si udiva per Ferrara uno scalpitio rapido e serrato, e le porte del castello si aprivano per lasciar passare gente stanchissima e polverosa che veniva dalla corte del re di Francia; erano il Valentino col cognato cardinale d'Albret, e tredici gentiluomini che furono posti a dormire nell'appartamento della "camera marchesana". A mattino fatto, il duca di Romagna andava a visitare la sorella che stava sempre malissimo; e poiché la temperatura aumentava e i medici decisero di cavar sangue, il Valentino tenne ferma lui la gamba della sorella distraendola intanto dalla piccola operazione con mille scherzevoli storie che la richiamavano al conforto e all'effusione del riso. La notte fra il 7 e l'8 si ebbe un peggioramento, e al mattino dell'8 Lucrezia fu comunicata: intorno si diceva che non l'avrebbe scampata, ma il parere dei medici dovette volgere al meglio, se la sera stessa Cesare partiva da Ferrara rapido ed improvviso com'era arrivato. si trattava, se ci fu, d'un sollievo da poco: di nuovo, il 13 settembre il pericolo parve mortale dando da discorrere a tutta Italia: "Iddio le metta la mano sul capo e la liberi," scrive Bartolomeo Cartari oratore ferrarese a Venezia "anche per troncare le ciance che si fanno qui". si capisce di che ciance si trattasse, in tempi nei quali la parola veleno faceva presto ad andare sulla bocca di tutti. Quel giorno, il Castello mandò ad Ercole d'Este due bollettini. La mattina, Lucrezia, svegliatasi, s'era tastato il polso: e sentendolo irregolare, tumultuoso o insensibile che fosse, era uscita in un sospiro: "Oh bene, sono morta". Volle fare testamento escludendo dalla sua presenza i ferraresi e convocando il suo segretario, quello del Valentino ed otto frati. Gli uomini del duca, per conto del loro signore, spiavano e inquisivano anche sul testamento, ed erano riusciti a sapere che era stato stilato un codicillo, riguardante Rodrigo di Bisceglie, da aggiungersi, pareva, al testamento che Lucrezia s'era portato già in ordine da Roma.

I ferraresi stavano di malavoglia per quella vita sospesa e per quel viavai del Valentino che non faceva presagire nulla di limpido. In corte i meglio perspicaci avevano avvertito e partecipavano i sentimenti del duca Ercole verso Cesare, che erano, insieme, ostilità del capo di stato contro un probabile nemico, ripugnanza dell'aristocratico puro contro l'avventuriero, avversione dell'ideologo avvezzo ad una forma di ordinamento pacifico, ancora l'ideale d'equilibrio del Magnifico Lorenzo, verso costui che parlava di guerra e faceva conquiste con tanta milizia tanta fortuna e nessuna limitazione. Il Valentino intuiva questo stato d'animo, se ad un inviato ferrarese diceva scherzando che la qualità del sangue del duca di Ferrara non

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si conveniva con la sua "perché quello di sua Eccellenza ormai è tiepido, e il mio bolle"; invece, si sarebbe accordato, aggiungeva, con don Alfonso: "perché essendo il predetto signore giovine, ed io non vecchio, ci acconceremo meglio". Che il sangue di Cesare bollisse in un bollore cupo e agitato, se ne avvedevano tutti. Un giorno, egli era a Genova dal re di Francia (il favore di Luigi XII per il Borgia era sempre un discorso da ricominciare con più stupore), un giorno era a Ferrara, un giorno, partito dal suo quartier generale di Imola, si faceva vedere ad Urbino, andando a caccia con i leopardi, mascherato, fra i suoi spagnoli. Spariva; si sussurrava che stesse preparando un'impresa contro Firenze e si assisteva al panico dei fiorentini che non fini. vano di raccomandarsi al re di Francia. Per otto o dieci giorni del Valentino si perdevano le tracce, e gli inviati ferraresi e mantovani, annidati in Romagna con la scusa di ambasciate dei loro signori e con l'incarica segreto di spiare, non credevano alle parole dei suoi uomini che lo davano per ammalato di "flusso". Infatti si riusciva a sapere che Cesare era a Roma. Che vi faceva? Su quale nuova impresa si consigliava col pontefice? Per quanto Cesare volesse considerarsi ormai indipendente, Roma era ancora il suo puntofermo, e il Vaticano la ragione e la base della sua potenza. Tra i discorsi che padre e figlio avranno fatti in quegli incontri segreti, ci sarà stato certo, e fra i primi, il discorso di Lucrezia: il Papa raccontava poi essergli stato di gran conforto che il Valentino avesse assistito la sorella nel momento di peggiore crisi: e tanto questo pensiero, quanto il fatto che s'era, con quella disgraziata nascita, perduta solo una bambina e non l'erede maschio, lo avevano portato dopo giorni di dolore, sentito come lo poteva sentire un egoista e cioè come ribellione all'ingiustizia manifesta della sorte, a concludere che non si era sofferto, dopo tutto, il peggior male; tanto più che Alfonso aveva promesso solennemente al letto della moglie di farle avere un figlio, e maschio, dentro pochi mesi. Ma contento davvero il Papa non fu, fino a quando, verso il 20 settembre, non venne da Ferrara la notizia che la malata si era ripresa del tutto, era ormai fuori di pericolo, guariva. Passato il grosso dell'angoscia, al vescovo di Venosa arrivarono allora rimbrotti a non finire, per la sua poca sollecitudine a spedire quelle notizie che non sembravano mai al vecchio pontefice abbastanza frequenti né abbastanza particolareggiate: i cavallari in arrivo da Ferrara, con le aspettate missive, avevano l'ordine di raggiungere il Papa ovunque, se non l'avessero trovato in Vaticano: così, una volta le lettere gli giunsero a civitacastellana dove egli, radunati in fretta tutti i medici che si poterono trovare, lesse loro le notizie e domandò il loro parere: e le assicurazioni che riceveva lo disponevano a sperar bene. Parlava della figlia: di quella figlia che gli era "dulcissima e carissima". Rabbrividiva se gli veniva in mente che s'era stati sul punto di perderla, e sollecitava avidamente le notizie, le buone, liete, confortevoli notizie di lei. Ma perché non migliorava più rapidamente? L'ambasciatore ferrarese doveva armeggiare con le risposte, e inventare, per esempio, la teoria che dopo una malattia grave il

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miglioramento graduale vale meglio del miglioramento improvviso. Alessandro VI avrebbe voluto arrivare col proprio fiato a ridare vita alla figlia: e intanto aveva ricominciato il discorso dell'appannaggio: ora che la duchessa risanava, era da sperare che il suocero le avrebbe fatta la concessione dei dodicimila ducati. L'ambasciatore riferiva al suo duca: e pur senza aver l'aria di dar pareri, gli faceva osservare che quei duemila ducati in più potevano ritornare per altra via nelle casse ducali. Il Papa non si poteva dire che fosse avaro: in quei giorni aveva fatto la consegna definitiva agli Estensi di Cento e della pieve con tutte le bolle, libere perfino delle spese di cancelleria. di sua volontà aveva concesso al cardinale Ippolito una rendita annua di tremila ducati per dargli modo di reggere la spesa della residenza a Roma secondo il fasto del suo grado. Infine, al Costabili, aveva provveduto un alloggio in Borgo, un comodo palazzo dal quale eran fatti sloggiare certi spagnoli del duca Valentino. Forse qualche cosa sull'appannaggio aveva anche accennato con don Alfonso, almeno in modo indiretto benché risoluto, il Valentino, nelle sue visite alla sorella. Ma Ercole resisteva; e, stanchi moralmente e fisicamente di quei mesi di contrasti di malattie e di inquietudini, Lucrezia ed Alfonso s'incontrarono nella decisione di passare qualche tempo separati. Alfonso disse d'aver fatto voto, durante la malattia della moglie, di andare in pellegrinaggio alla Madonna di Loreto: 'aveva promesso di andare a piedi, ma per volere del padre e per dispensa papale, sarebbe partito invece a cavallo. E Lucrezia aveva desiderio di aria libera, fuori dalle mura del castello, avare perfino dei rumori che non lasciavano passare dall'una all'altra stanza. Aveva scelto di ritirarsi nel monastero del Corpus Domini, contrastata da Ercole che fingeva esagerata apprensione "per timor di malanno", e che mostrò di cedere solo dopo assicurazioni e insistenze del vescovo di Venosa. La mattina del 9 ottobre, in lettiga, portata da due bei cavalli bianchi la duchessa andò al monastero "assai di buona voglia e con assai buona ciera" accompagnata da don Alfonso e dai suoi fratelli ed applaudita dal popolo che, a vederla sana, sentiva in certo modo rinvalidita la sicurezza dello stato. Alfonso partiva il giorno stesso per Loreto, lieto di quella ricognizione sulla costa adriatica che aveva per lui un interesse forse più vivo del santuario della Madonna: e così, sotto il segno della religione, ognuno s'isolava nella vita che gli piaceva meglio. Il Papa approvava tanto il viaggio di don Alfonso quanto la villeggiatura di Lucrezia; e, rassicurato sulla sorte della figlia, tutto attivo e operoso, prendeva parte allo stabilimento della sua cara dinastia, visitava fortezze, faceva piani grandiosi di bonifica e di costruzioni, chiedeva investiture ai sovrani spagnoli. Aveva ottenuto per il principe e la principessa di Squillace la riconferma del loro principato, più una terra per il solo jofré: e per il piccolo Rodrigo di Bisceglie la conferma d'investitura del suo ducato.; il figlio di Alfonso d'Aragona aveva ora il titolo di duca di Bisceglie e di Sermoneta. L'Infante Romano, Giovanni Borgia, era duca anche lui, di Nepi e di Camerino; con questo titolo, e a suo nome, gli era stata anche coniata una medaglia: si

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vedeva il pontefice condurre con sé nei suoi viaggi i due piccoli duchi, vestiti di broccato o di velluto, perché il popolo, commosso dalla grazia della puerizia, li salutasse volentieri per signori: o tirarseli dietro a Castel Sant'Angelo mentre visitava fortificazioni e rivedeva artiglierie, e lasciarli giocare, ruzzare per i cortili, tra le palle delle bombarde, e tra le gambe dei soldati e dei prelati. già nelle trattative di pace e nei patti di amicizia per esempio con la famiglia Orsini, figuravano tutti i Borgia in linea, Cesare, jofré, Rodrigo di Bisceglie, Giovanni, il principio della confederazione borgiana sognata da Alessandro VI, da opporre gloriosamente alle strette leghe baronali orsinesche e colonnesi. Qualcuno, è vero, metteva in dubbio la tenerezza del nonno verso i piccoli nipoti: e, correndo la notizia che gli Orsini volessero in pegno durante le trattative di pace il "duchetto" (con questo vezzeggiativo era chiamato a Roma il figlio di Lucrezia e di Alfonso d'Aragona), era opinione dell'ambasciatore veneziano che il Papa non avrebbe avuto difficoltà a darlo, salvo poi a non mantenere i patti senza prendersi troppo pensiero della sorte del bambino. é difficile dire se il veneziano cogliesse giusto. ma certo, Alessandro VI, il duchetto per ostaggio non lo dette mai.

Alla fine di ottobre una notizia singolare corse a incuriosire l'Italia: Sancia d'Aragona con la sua corte era stata condotta in Castel Sant'Angelo e messa sotto chiave in un comodo appartamento con la sola libertà di aggirarsi per i cortili interni della fortezza. I romani vedevano la figuretta tutta nervi della principessa napoletana comparire sulle fortificazioni, o, più volentieri, starsene al balconcino basso che guardava passeggiando, i passanti di grado, specie spagnoli. Nessuno riusciva a stabilire la vera ragione di quell'imprigionamento: ragione politica? Era vero che Sancia fosse stata colta sul punto di fuggire a Napoli a far "mal opera" contro i francesi? O era gelosia da parte del Valentino fatta forse più di puntiglio e di dispetto che d'amore; ma contro chi? Verrebbe fatto di indicare come sospetto a Cesare il cardinale Ippolito d'Este, allora, al dire di un cronista, in relazioni di stretta galanteria con la cugina principessa. E darebbero ragione a questa ipotesi i dispacci ferraresi e veneziani che di questi tempi cominciano ad accennare come il favore papale verso casa d'Este non fosse più così fervoroso. Ragioni politiche c'erano: il Papa non dimenticava né il rifiuto di Ercole a mandare uomini d'armi in aiuto al Valentino se non fossero stati prima assicurati di pagamento, né l'amicizia degli Este verso i Bentivoglio di Bologna contro i quali disegnava di avanzare il Valentino. si aggiunse davvero il sospetto di gelosia contro Ippolito"> Il duca Ercole dette segno di inquietudine richiamando subito il figlio a Ferrara; ma il cardinale, che sapeva misurare bene i pericoli, rispose non esser tempo "di venire in maggiore sospetto del Papa" con una fuga; rimaneva, tenendosi però bene in guardia. é molto improbabile che gli riuscisse di incontrarsi con Sancia in castello; certo, passando con la sua cavalcata cardinalizia, l'avrà vista come la vedevano

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tutti, sul balconcino di Castel Sant'Angelo pronta a lanciare epigrammi, con l'ardentissimo desiderio di sfidare i suoi carcerieri; i quali, ora che l'avevano rinserrata, non si curavano di lei se non per sorriderne come delle rabbiette di finta belva del gattino di casa. Quanto al marito legittimo, il principino, Jofré, che aveva ormai vent'anni, egli badava a tacere, e in quei giorni si sentiva il nome e chiamare ed interrogare, motte e cresciuto d'importanza poiché aveva avuto dal Papa il comando di un gruppo d'armati a capo dei quali non gli pareva vero di giocare al condottiero. Nel suo ardore non si accorgeva nemmeno che a Roma si sorrideva vedendolo tirarsi dietro poca soldataglia mal messa chi aveva alabarda non aveva lancia, e chi aveva lancia non aveva alabarda tra un fragore di ferracci sconnessi. disconosciuto dal padre, scacciato dal fratello, beffeggiato dalla moglie alla quale stava diventando odioso, Jofre sapeva ancora trovare in se stesso il coraggio d'illudersi. Sul cantiere in fervore dei nuovi piani borgiani, cadde quella congiura dei capitani di Cesare che si risolse a Senigallia in quel "bellissimo inganno" trasfigurato dal grande spirito di Niccolò Machiavelli. A Magione, sul lago Trasimeno, si erano riuniti, il 9 ottobre 1502, alcuni signori di piccoli stati italiani militanti sotto Cesare, terrorizzati al vedere il loro generale conquistarsi l'uno dopo l'altro gli staterelli dell'Italia centrale, e coordinarli in un solo regno per sè: l'ironia di dargli mano a questa impresa aveva infine punto anche loro, e li aveva indotti a ribellarsi. si strinsero in lega Vitellozzo Vitelli di città di Castello, Oliverotto da Fermo, i rappresentanti dei Bentivoglio, dei Baglioni di Perugia, del Petrucci da Siena, ai quali si aggiungevano, per amicizia verso i Bentivoglio, e per le vecchie ragioni proprie antiborgiane, due degli Orsini, Paolo, e Francesco duca di Gravina e, sentendosi aiutati e sorretti da molti capi di stato, assalirono per proprio conto Urbino, ne cacciarono i valentineschi richiamando Guidobaldo di Montefeltro che arrivato da Venezia, suo ultimo rifugio, su un brigantino della Repubblica e sbarcato sulla costa dell'alto Adriatico, riprese acclamatissimo il suo posto. Compiuto questo atto di coraggio, la lega, anemizzata dallo sforzo, cominciò a non saper più che fare; era quello che stava aspettando il Valentino, il quale, informato ad Imola della congiura e della lega, non s'era per nulla sbigottito. Conosceva i suoi uomini tanto da immaginare che questa lega della paura doveva avere parecchie incrinature; le scoprì; e gli fu facile frantumare il fronte degli avversari offrendo paci separate ai Bentivoglio, al Petrucci e agli Orsini. riconquistò Urbino ecco Guidobaldo di nuovo esule e Camerino; chiese un rinforzo al re di Francia, e intanto si permetteva tanto disprezzo verso i suoi nemici da farsi vedere occupato in cose leggere, nella scelta di una nuova divisa. colorate che dovevano scompartire le loro calze. Fece lavorare i sarti: e il 6 novembre comandò alla sua guardia di andare vestita a nuovo incontro ai francesi e indossò egli stesso uno studiatissimo saio cremisi a quartieri. A chi l'osservava, tutto pareva esser trascorso di là dai suoi risentimenti: lo si vede stendere la mano a questo e a quello, usare benevolenza, mostrare sensi pacifici verso i capitani della congiura, come se

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congiura non fosse stata; sicché, verso dicembre, della lega non esisteva che l'umiliante ricordo degli ex confederati. Protervi, ma deboli, si fecero tutti ingannare, tornando ad uno ad uno sotto le bandiere del loro generale tradito; e appena ricomposto l'esercito, il Valentino si portò con i suoi capitani alla conquista di Senigallia fortezza dell'Adriatico così mal difesa da un piccolo presidio al comando di Andrea Doria, che appena l'avanzata dei valentineschi si fece imminente, i difensori si salvarono su velieri diretti a Venezia lasciando il castellano aprire le porte della città. Venuto l'annuncio della resa al quartier generale radunato presso Mondolfo, il Valentino lo comunicò ai suoi capitani, e chiamati presso di sé Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, e i due Orsini, li invitò ad entrare con lui nella città conquistata. Smemorati o affascinati, quelli accettarono, e senza scorta, in mezzo alla guardia armata del Valentino il quale chiacchierava e motteggiava mostrando il più lieto umore del mondo, lo seguirono per i sette chilometri di cavalcata. Come, entrati nella fortezza, e fatti salire per una lunga scala ai lati della quale stavano incollati ai muri i ceffi più tristi delle imprese borgiane, avessero la certezza del tranello mortale dal quale in nessun modo avrebbero potuto scampare, e come fossero, aPpena al sommo delle scale, presi ed uccisi, il Vitelli e Oliverotto subito, e i due Orsini più tardi, fu narrato in pagine di cristallizzata bellezza dal Machiavelli. Solo con questo gesto Cesare fece capire che la congiura di Magione, se fosse riuscita, avrebbe potuto essere la sua rovina, il crollo di tutti i suoi piani, la perdita, forse, dello stesso ducato di Romagna. E inteso così, l'atroce delitto di Senigallia ha una sua tremenda ragionevolezza. per i suoi alabardieri o nel calcolo delle liste La vita umana non dava al Valentino nessun pensiero di clemenza. Il mondo si divideva per lui in due parti: quelli che gli giovavano e quelli che gli potevano nuocere; e, appena qualcuno dei suoi complici che non aveva il fiato di reggere ad un tale regime di coscienza senza cadere nei terrori del rimorso, o almeno nel timore del proprio futuro, mostrava di vacillare, la condanna del Valentino arrivava, ed era senza appello. La stessa sorte toccava a quelli dei suoi capitani e dei suoi ministri che dimenticavano essere la loro bravura e la loro scelleraggine al servizio di uno solo, e volevano esercitarle per conto proprio. così il bianchino da Pisa, fra i migliori condottieri di Cesare, che aveva fatto incendiare una casa presso un banco dei Lomellini depositario di denaro, per potere, nella confusione dell'incendio, impadronirsi dell'oro chiuso nelle casse di deposito, fu processato e condannato. Sarebbe. venuto presto il giorno che anche l'indispensabile il fidatissimo il partigianissimo Troche sentendo il terreno infido avrebbe tentato di fuggire portando con sé 70.000 ducati d'oro; e, preso, gli sarebbe toccata la morte mascherata da suicidio. Verso la fine del 1502, scoppiò improvvisa la notizia dell'imprigionamento di don Ramiro de Lorqua braccio forte del Valentino, governatore della Romagna e accompagnatore di Lucrezia nel suo passaggio per le terre conquistate da Cesare. Vi fu qualcuno anzi, allora, che volle attribuire la condanna dello spagnolo a qualche cosa

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sofferta da Lucrezia durante il suo viaggio per la Romagna e riguardante il suo onore: chi ha seguito nei documenti ora per ora le giornate di lei non saprebbe far altra ipotesi da quella di non avere il de Lorqua difesa abbastanza la duchessa contro i vertiginosi spaventi sofferti per le supposte vendette del Caracciolo. Troppo poco per una condanna a morte. E del resto l'accusa contro di lui era di mala amministrazione, di vessazione e di abuso di poteri: nei suoi forzieri, infatti, fermati mentre stavano per prendere la via di Venezia, dove il de Lorqua sarebbe andato a raggiungerli, si trovarono denari gioielli oggetti preziosi di ogni specie comprese le pianete tessute d'oro e la mitra ingemmata del vescovo di Fossombrone. L'infedele governatore fu squartato sulla pubblica piazza ad ammonizione dei seguaci del Valentino e soddisfazione dei romagnoli ai quali fu promesso che avrebbero avuto indietro il mal tolto se lo avessero con buone prove richiesto. Non si sa quanti godettero del beneficio, tanto più che i forzieri di don Ramiro erano venuti a buon punto in un momento critico per Cesare, costretto in quei giorni persino a domandare denari in prestito alla sorella in Ferrara. Pareva che egli non si sentisse più pesare sul capo presagi astrologici e zingareschi: serrava le sue trame, e se lo venivano ad avvertire di qualche proposito dei suoi nemici ascoltava con un moto altero della spalle: "Passi persi" diceva.

Tempo d'amore

Tra i quattro che perirono nel "bellissimo inganno" di Senigallia, uno dovette, almeno per la considerazione delle cose quali erano e quali avrebbero potuto essere, apparire spettrale per nome e per immagine alla mente di Lucrezia; ed era Francesco Orsini duca di Gravina che l'aveva chiesta in matrimonio una prima volta nel 1498, e che poi, nel 1500, rinchiusa la sua bella amante in un monastero di Trani, aveva viaggiato fino a Roma per replicare di persona la sua domanda, insistere, perdere la partita, e mettersi infine, sventuratamente per lui, al servizio del Valentino. Rammemorando le parole che aveva dette allora al pontefice, di non voler sposare il Gravina per essere i mariti suoi "malcapitati", Lucrezia doveva sentire qualche cosa dell'orrore profetico di Cassandra, e insieme, confortarsi, magari ripugnando: aveva evitato di restare vedova una seconda volta per mano del fratello. C'era, ci poteva essere, un sospiro di gratitudine per le mura del castello estense, che, chiudendola, la tenevano al riparo da quel mondo di insanguinati spaventi e di umilianti capitolazioni.

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Forse, non c'era nemmeno: in castello, ella tornava il 23 di ottobre, splendendole in viso la felicità della guarigione. Andò a prenderla al monastero il duca Ercole, su carretta d'oro: e l'accompagnarono fino al castello gli applausi del popolo, e fin nelle sue stanze i sorrisi e i rallegramenti dei cortigiani. Anche il suo appartamento ora le piaceva, rinnovato secondo il suo volere e i suoi gusti, dalle tappezzerie ai mobili e ai tappeti: specie la sua stanza parata di broccato d'oro e di velluto morello a liste, e dipinta sulla volta in azzurro oltremarino ed oro, come un cielo mediterraneo che si aprisse sulle notturne e luminose pareti. Verso quell'azzurro i suoi sonni prendevano il volo nella primavera della convalescenza: un poco dimagrita ("ma non sta male" dicevano i cortigiani) ella raggiava di pensieri teneri ed allegri, e lasciava che il suo umore felice piovesse in grazia su tutti, gli estensi, i ferraresi, la cognata Isabella: venendo a Ferrara una parente della marchesa di Mantova, Laura Gonzaga Bentivoglio, la riceveva e la intratteneva con amabilissime dimostrazioni di cordialità. Bella, Lucrezia apparve anche alla Gonzaga, nel suo vestito di raso nero a fregi di foglie e di fiamme d'oro, con tutti i capelli disciolti trattenuti da una reticella verde e ornata sulla fronte da un solo lucidissimo smeraldo. Parlarono a lungo, del matrimonio tra i Borgia e i Gonzaga, del Remolino che lo trattava, e, si capisce, di Isabella. Lucrezia si rammaricava di non aver rivisto la cognata dal tempo delle proprie nozze, e s'augurava vicina una sua visita: domandava intanto di lei, s'informava delle nuove acconciature in voga a Mantova, faceva capire di desiderare alcuni modelli di vesti isabelliane, offrendo in cambio, da copiare, certi suoi famosi modelli di camicie moresche: una conversazione leggera, da donne, tessuta di toni cortesi e vivaci, e senza pause da doversi precipitare a riempire con sorrisini preoccupati. ci fu anche, infine, un grazioso abbraccio di Lucrezia alla visitatrice, che avvenne alla presenza di tutti sullo scalone dell'appartamento, dove ella si era degnata di accompagnare la Gonzaga; sicché questa, arrivata forse a Ferrara con l'idea di stare in guardia contro una superbiosa, fu sorpresa ed affascinata, e subito descrisse alla marchesa di Mantova in una briosa letterina la bellezza, l'eleganza, la natura delicata e "domestica" e "alegra assai", i gesti e i modi "tutti graziosi" che aveva la duchessa. Pareva che un richiamo venisse da lei, da quel suo sorriso sensitivo ed astratto. E qualcuno doveva rispondere. Da Venezia, per mare; traversando poi l'azzurra laguna di Comacchio sopra una grande barca piena di libri greci e latini, era arrivato Pietro Bembo ad Ostellato, il 15 ottobre 1502. Ostellato è un punto fermo fra terra e laguna. Borgo semplice poche case una chiesa un campanile gli uomini l'hanno costruito per non smarrirsi nell'infinito della pianura o nell'infinito dell'acqua, per ancorarsi ad un'isola umana, per ridire a se stessi parole di terrestre saviezza sulle porte di quelle regioni magiche dove neri uccelli dal volo inquieto possono nascondere l'inganno di secolari stregonerie. Qui Borso d'Este aveva fatto edificare una villa dominata da un torrione alto a difesa e ad insegna araldica, stretta

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intorno dal viluppo di un giardino tutto lucente del verde ricco ed umido che hanno le vegetazioni presso le grandi acque stagnanti: una rara e malinconica dimora, ceduta poi da Ercole d'Este a Tito Vespasiano Strozzi in nome di quella benevolenza da signore a cortigiano che era sempre ringraziamento di grossi servigi e tacito patto di servigi futuri. E gli Strozzi, Tito Vespasiano ed Ercole, vi facevano centro di cacce di conviti di feste, e vi ospitavano gli amici, primo fra gli altri il magnifico poeta veneziano.

Trentadue anni splendidi, Pietro Bembo era riconosciuto senza contrasti, dopo la morte del Poliziano, principe degli umanisti d'Italia. Aristotele e Platone erano le sue guide per ascendere alla concezione cristiana di dio; Petrarca il suo poeta e il suo modello così in poesia come nella trasfigurazione quotidiana della vita. Da queste pure vette filosofiche e liriche, il Bembo sapeva discendere alle conversazioni di corte con una grazia tutta veneziana e senza perdere nulla di eleganza spirituale, nemmeno di fronte a se stesso. si comprende che le corti lo adorassero.

Ercole d'Este lo aveva conosciuto quando, nel 1497 ' egli era venuto a Ferrara accompagnandovi suo padre il nobile Bernardo Bembo, vicedomino della repubblica di Venezia e infervorato umanista anche lui. Pietro Bembo riusciva a trarre per sé una favilla anche dal temperamento gelido del duca; e la sua eloquenza, il decoro della sua bellezza fisica, il suo stesso modo di esistere caldo ed equilibrato facevano tanto chiaro a tutti che egli era qualche cosa di più dell'ornamento di una corte, che Ercole, quasi a compenso delle ore perdute in conversazioni di palazzo, gli apriva in libera ospitalità le sue ville di campagna perché potesse raccogliervisi nei suoi studi. A Ferrara, il Bembo aveva amici e compagni di studio: il ciceroniano Sadoleto, Ludovico Ariosto, Celio Calcagnini, Antonio Tebaldeo, oltre naturalmente i due Strozzi padre e figlio, il serrato dotto circolo degli umanisti ferraresi, che gli furono, e, caso singolare, gli rimasero fedeli. Ma il più caro di tutti, per affinità sentimentali e letterarie, era Ercole Strozzi: il Bembo ammirava nell'amico la distillata eleganza di latinista: insieme parlavano di donne e d'amori, e se ne scrivevano con allusioni che riprendevano dall'uno all'altro e si rimandavano, pretesto ad un gioco di finezze intellettuali; e proprio per dare ascolto al Bembo, che consigliava i poeti italiani di scrivere in volgare perché i loro versi potessero essere letti dalle donne, lo Strozzi cominciò ad usare la lingua italiana; una conversione, per il poco che poté rivelarsi, costretta e tormentata.

Il Bembo amava le donne, e non solo per dovere di petrarchista che stimasse necessario ardere sempre per una Laura: al suo temperamento amoroso, sinuoso ed opulento, le nuvole e le luci della fantasia femminile davano un godimento non del tutto puro, s'intende, ma nemmeno del tutto sensuale. E gli capitava d'essere innamorato a fondo, come della gentildonna

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veneziana Maria Savorgnan, che gli aveva ispirato le lettere più ardite del suo epistolario. "Amatemi, amatemi, amatemi, mille volte amatemi." "Amatemi se potete." "Vi piaccia d'amarmi un poco più che non fate." Qualche invocazione fra le mille. In queste pagine, chi lo direbbe, ritroviamo la mania del vezzeggiativo che fa gli amanti intimi e vicini; e quel dono di un cagnolino mandato a Maria e chiamato Bembino, ci dimostra ancora una volta come l'amore sappia bruciare con una facilità che va dal ridicolo al sublime il ridicolo stesso. La storia di Maria Savorgnan e di Pietro Bembo è del resto fra le più robuste e succose, per quanto raffinata in ogni declinazione della poesia e del petrarchismo. La gentildonna veneziana è uno dei caratteri più guizzanti, delicati, umorosi, lieti e solidi che siano mai esistiti: un carattere ombrato di amorose malinconie. L'amore del Bembo e di Maria era durato un anno finendo su un accordo geniale di addii nel febbraio 1501, proprio a Ferrara dove ella era andata a festeggiare, e dove aveva trovato motivi per straniarsi dal suo "magnifico Piero". Probabilmente nel 1502 non era più a Ferrara poiché non si incontra mai il suo nome nelle corrispondenze del tempo. E da Ferrara, Ercole Strozzi, che era stato confidente anche di quegli amori, veglia ora al buon soggiorno dell'amico, "Se fossi un Satrapo", questi dice "non potrei essere servito con maggiore diligenza." Né sapeva quale sorpresa gli si stesse preparando. Ormai lo Strozzi s'era conquistato il primo posto nella stima della duchessa, e le era indispensabile; e certo fu lui a cominciare il discorso del cavaliere veneziano, sapendo che ad ascoltare c'era un animo curioso ed inquieto. Così, un giorno, nel rifugio meditativo di Ostellato entra, col suo giovane impeto, Lucrezia stessa: arriva con i suoi ventitré anni, la sua veste d'oro, i suoi smeraldi le sue perle i suoi capelli biondi e leggeri, il suo seguito di donne di donzelle di buffoni di tamburini. La gioiosa compagnia si ferma brevemente; tocca al Bembo fare gli onori della villa strozziana. Addio, Aristotele. Al libero e sciolto linguaggio del poeta, Lucrezia risponde in un tono arguto e limpido: la conversazione è quasi la solita, mondana, ma, si sente che la conduce un buon maestro. Dama e cavaliere, l'intesa cortigiana si stabilisce su un terreno fra letterario e cavalleresco, guida il Petrarca.

Il Bembo è invitatissimo a corte. La musica, questa voluttà dell'animo, trionfa a Ferrara. Tutti gli Estensi sono musicisti, Ercole che predilige il ferrarese Antonio dall'Organo, Alfonso che nei concerti è a volta a volta esecutore o ascoltatore, Lucrezia che ha chiamato presso di sé Jacopo di San Secondo, il celebre suonatore di viola che si disse, più tardi, ritratto da Raffaello in figura di Apollo nel Parnaso alle Stanze Vaticane, e che ella regala di un giubbone e di una cappa "bigarata" di raso nero. I cantori di Lucrezia sono una schiera, melodiosi bricconi capeggiati dal celebre Tromboncino: a questi si aggiungono quattro liutisti mandati da Cesare Borgia alla sorella e da lei fatti rivestire di damasco d'oro. I concerti si seguono. Col gennaio, all'inizio della stagione dei balli, Ercole Strozzi dà il

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suo, fastosissimo, nel proprio palazzo: e il Bembo, che pochi giorni dopo scriveva al fratello Carlo di essere grato alla duchessa per gli onori e le cortesie che gli faceva, non sarà mancato alla festa dell'amico. A questo ballo, seguito da una cena sontuosa,. vennero tutti i giovani estensi ad accompagnare Lucrezia, Alfonso, Ferrante, Giulio, perfino il pio

Sigismondo; non il vecchio duca Ercole, che, senza badare al carnevale, imbracciato il librone dei conti di stato, s'imbarcava solo e taciturno per Belriguardo. Proprio in quei giorni Lucrezia riusciva a contare al suo attivo una vittoria e non di poco, la concessione dei famosi dodicimila ducati annui. L'aveva spuntata lei, dunque; ma in verità si trattava di una falsa vittoria; perché il duca Ercole, dopo lunga meditazione, aveva mostrato di cedere, proponendo una transazione che mettesse d'accordo l'esigenza della nuora e la propria intransigente parsimonia: avrebbe pagato cioè l'appannaggio metà in danaro liquide e metà in provvigioni per il mantenimento di tutta la corte della duchessa. si capisce che risparmiare sulle provvigioni gli sarebbe venuto facile speculando sulla qualità, tanto più che sappiamo che i cortigiani, l'Ariosto compreso, ai quali con lo stesso sistema si pagavano i loro servigi, avevano a volte da lamentarsi assai delle vettovaglie distribuite dai fornitori di corte. Ma Lucrezia, presa in una corrente di ottimismo, voleva essere contenta: tanto più che nessuno parlava, ora, di mandarle via i pochi spagnoli che le erano rimasti, Sancio, Navarrico e qualche altro, né, soprattutto, le sue donne. Eppure, bella, parata d'oro e di velluto, era prigione la dimora della duchessa nel castello che aveva racchiuso la tragedia di Ugo e Parisina. Sempre quelle mura, quelle mura, ossessionavano; né Lucrezia poteva far altro che scivolare via con la migliore grazia e i più legittimi pretesti che le erano validi: ora la visita alle chiese e ai monasteri, San Lazzaro, Santo Spirito, Sant'Antonio, delle clarisse al Corpus Domini, delle domenicane a Santa Caterina, degli Olivetani a San Giorgio; ora, piccoli viaggi per le terre del ducato a "gustare il paese". Le carrette di corte erano sempre fuori, senza temere la neve le piogge le nebbie della lunga invernata. Veniva la sera, si accendevano torce e camini, si ballava in castello o nei palazzi dei gentiluomini. A febbraio, il duca, tornato da Belriguardo, preparava le rappresentazioni dei Menesmi e dell'Eunuco. Tutto pareva movimento e brio: ma sotto l'ardente animazione di quelle feste si accendevano fuochi torbidi e minacciosi.

Lucrezia stessa non riusciva a superare le sue molte amarezze mal coperte dalla frenesia di quella vita moltiplicata. Il suo buon proposito di essere in pace col mondo instante tenendosi solo alle cose ferme dell'esistenza, contrastato dall'ostilità che sotto apparenze cortesi, ella sentiva, e non stima Poteva ingannarsi, venirle dal giudizio e dal degli Estensi. Era e restava, per loro, avventuriera non principessa di sangue; e non importavano il suo sorriso candido, il suo sguardo sereno, la dignità

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della sua conversazione e dei suoi gesti, la sua sottomessa dolcezza. disgusto e disagio erano persino visibili in lei, come ad un ballo in casa Roverella al quale ella arrivò vestita di velluto cremisi luminoso d'oro e schiarito d'argento a fasce, e ornata di diamanti al collo e in fronte. Appena entrata, chiese di cenare sola con Angela Borgia in una stanza appartata. s'immaginano il gelo e lo stupore dei convitati: dopo cena, venne nella sala grande e cominciò a danzare prima con don Giulio e poi un poco con don Ferrante; solo verso la fine della serata fece qualche giro col marito. é certo che la preferenza per don Giulio era un gesto marcato a significare, se non una sfida, almeno un dispetto. Il ballo finì senza che Lucrezia avesse ritrovato il suo sorriso, e la comitiva tornò al castello assai di malumore: "Le mosche se li mangiavano" diceva un cortigiano. A metà di febbraio si vide arrivare in fretta a Ferrara con pochissima comitiva e bagaglio quasi nullo il cardinale Ippolito d'Este: veniva, se non proprio fuggiva, da Roma "non potendo" diceva "più stare alla spesa" (era questa la ragione ufficiale); ma invece, come c'informa il Burcardo. concludendo così il suo intrigo amoroso con Sancia d'Aragona tuttora rinchiusa e fremente in Castel Sant'Angelo. Testa fina, il cardinale d'Este doveva aver capito da quale momento l'aria romana cominciasse a farsi pericolosa per lui, e capito prima ancora che di questo pericolo ci fosse altro che indizi: quella "gelosia" del Valentino, se gli si riferiva, era una minaccia che poteva ingrossare, tanto più che il favore dei Borgia verso gli Este andava lentamente, ma sicuramente, scadendo.

Il rancore del Papa era facile a riscontrarsi negli effetti, primo dei quali il rinvio della nomina cardinalizia del gobbo favorito di Ercole, gian Luca Castellini; per tirarla in lungo, il Papa aveva fatto domandare ad Ippolito se non gli sarebbe dispiaciuto avere a Ferrara un altro cardinale, che, per essere come Castellini uomo di gran pratica e cervello, gli avrebbe potuto in qualche modo dare ombra. Aveva urtato però contro la superbia dell'Estense che si stimava troppo in alto per temere rivali, specie nel suo paese, e che dichiarò non avere difficoltà alla nomina.

Ciò che il cardinale aveva voluto evitare era una partenza che avesse l'aria di una fuga: trovò dunque abbastanza ragioni per farsi dare dal Papa il permesso di tornare a Ferrara, e stette a colloquio in Vaticano la vigilia della sua partenza, fino a tre ore di notte. Il 15 febbraio di mattina, dopo il concistoro, il Papa lo chiamò ancora con sé in un salottino particolare; finché, terminati i saluti, il cardinale uscì, e ritrovati i cardinali Cesarini e Sanseverino nella stanza del Pappagallo, si avviò in loro compagnia verso porta del Popolo:

"E passando su per la casa dei signori don Roderico e don Giovanni, Sua S.tà aspettata da li prelati signori cardinali, entrò in casa e baciolli ambedue". di questo grazioso commiato dal duchetto e dall'Infante Romano,

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fatto per tutti i Borgia che doveva servire anche politicamente, Lucrezia fu forse la sola ad essere grata al cognato. Ma chissà se Ippolito era riuscito a salutare anche Sancia? Certo egli non temeva ancora nulla da Cesare se, partendo da Roma, andò come dice il Costabili "dritto al duca di Romagna", ad Imola: era dunque scampato in tempo anche dai sospetti circostanziati, e portava intatti a Ferrara l'amicizia del Valentino e una certa predilezione personale del Papa, il quale, pochi mesi dopo, si rallegrava giocondamente a sentire che il cardinale Ippolito festeggiava Lucrezia a Ferrara e l'onorava di compagnia e di conviti, tanto, riferiva l'ambasciatore, da potersi dire che ella apparteneva "al signor don Alfonso la notte, e il giorno al cardinale". Anzi, aggiungeva zelante il Costabili, erano "tre corpi ed un'anima". E Alessandro VI approvava con un gran sorriso diffuso pensando all'antica corte cardinalizia di sua figlia. Tre corpi ed un'anima? L'ambasciatore esagerava: Lucrezia. accettava volentieri la compagnia dell'elegantissimo porporato, il quale aveva, al dire di una dama ferrarese, "tutta la grazietta della sorellina" cioè di Isabella d'Este; ma dalla gita di Ostellato, dalle lunghe riunioni invernali era nata in lei la consuetudine di un Pensiero segreto. Ercole Strozzi è sempre presso la duchessa, la provvede di stoffe e di cose delicate, le dà informazioni e consigli, le par. la e le riparla del poeta veneziano che vede fiorire la primavera nel giardino solitario sulla laguna. Aprile appena s'intuisce tra la nebbia odorosa di sole, quando lo Strozzi porta a Lucrezia una lettera che egli ha scritto al Bembo, narrandogli della duchessa e dei ragionamenti che fanno insieme su di lui. Lucrezia legge, si compiace alle frasi cortigianesche, richiude; ma il foglio senza soprascritta le suggerisce una innocente civetteria. Scriverà lei l'indirizzo, l'indirizzo. solo, il nome dell'amico. Le compagne di camera stanno intorno attente e divertite, cedono alla felicità che prende le donne se riescono ad ingannare, e d'inganno così leggero, chi pretende di chiuderle in una regola precisa. Ed ecco, il messo parte, arriva ad Ostellato. A vedere quei caratteri, il poeta trasalisce, apre la lettera, comprende, un'allegrezza affettuosa lo invade: pensa a lui, la duchessa? Cara, come le si fa festa nell'animo: bella, elegante, liberale, "non è superstiziosa di nulla" ha già detto il Bembo, e cioè entra nel clima amoroso senza artifici di sdegni o di risentimenti, come nel suo mondo naturale; il Bembo non le risparmia il fiore della sua prosa. Il tempo avanza, arriva giugno. Alfonso d'Este parte per uno dei suoi viaggi annuali tanto criticati dal circolo anziano di corte, viaggi nei quali gli si formavano in mente lente e solide cognizioni di politica di geografia e di scienza militare che dovevano essere la sua grande forza nelle guerre future. Al pesante inverno, alla primavera crudetta e acerba delle regioni nordiche, è seguita la prima estate che fa fiorire le rose a mazzi nei giardini ducali: col sole Lucrezia rivive ed illanguidisce, nel suo sangue spagnolo tornano le nostalgie di quella patria più che perduta, mai conosciuta. Scrive al Bembo bigliettini spagnoli; apre i suoi libri di canzoni spagnole, legge nei versi le parole d'amore che vi scorrono dentro con la densità musicale propria del

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canto e della lingua di Spagna. Prende la penna e trascrive, come portata dal sogno interiore, questa cobla di Lopez de Estuiliga:

Yo pienso si me muriese

y con mis males finase desear

Tan grande amor lenesciese

que todo el mundo quedase sin amar.

Aias esto considerando

mi tarde morir es luego

Que dego razon usando

gloria sentir en el luego tanto bueno

donde peno.

"Io penso che se morissi, tutto il mondo rimarrebbe senza amore": l'animo di Lucrezia traboccava. Forse ripeteva le parole di morte con un senso di tepido disfacimento, come bisognerebbe lasciarle dire solo agli amanti perché essi sanno pronunciarle significando la piena di una vita universale con la quale comunicano senza più limitazione da individuo ad individuo, da tipo a tipo, da specie a specie: "Yo più ..." riscrive Lucrezia: e cancella il nuovo inizio: ma poi, riprende il canto coraggioso: "Yo pienso si me muriese".

Qui la scrittura si interrompe. Qualcuno è entrato nella stanza? Lo stesso Bembo, presente alla trascrizione, ha rubato il foglietto, furto amoroso? Meditando sulle strofette, il poeta scrive una canzoncina italiana e la manda alla sua duchessa, insieme con una piccola aurea lezione di estetica, avvertendola che "le vezzose dolcezze degli spagnoli ritrovamenti, nella grave purità della lingua toscana non hanno luogo, e se portate vi sono, non vere e natie paiono, ma finte e straniere". Chiusa la parentesi letteraria, la lettera prende un tono più libero: il poeta confessa che quei luoghi di Ostellato non gli piacciono più come un tempo, e si domanda che segno sia questo, di quale male principio. Se Lucrezia cercasse nei suoi libri una risposta alla sua domanda? Scrive: appoggiato ad un dolce e fresco finestrino, guarda le foglie seguendo il fiato marino, e verdissime che oscillano per una foglia numerare l'infinito è una perduta gioia da innamorati ti manda a lei un pensiero. Ora egli fa spesso la str1da di Ferrara: i suoi

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modi onesti e sereni non danno ombra, lo stesso duca lo protegge, è il poeta ufficiale della duchessa ed aggiunge decoro a lei e alla corte. "Ad Bembum Lucretia" dedica un epigramma latino tito Vespasiano Strozzi che per suo conto (ai suoi ottant'anni si potevano permettere tutti i fuochi letterari) aveva già scritto versi di ardente ammirazione per la duchessa.

Le dame delle corti vicine stanno con occhi gelosi a spiare: Isabella d'Este era stata la prima ad accorgersi e tanto astro avrebbe finito per dare troppa luce alla cognata, e già dal gennaio del 1503 aveva scritto al Bembo e allo Strozzi insieme invitandoli alla sua letterata reggia e compagnia. D'un colpo tutti e due; e sarebbe stato un tiro abile della marchesa di Mantova; ma il Bembo era troppo galante cavaliere per abbandonare una signora che gli era cortese, e presprio per la sua rivale. Con lo Strozzi avevano composto una letterina dicendosi corrucciati con se stessi per non poter lasciare Ferrara, sopraffatti com'erano dalle loro occupazioni eccetera eccetera: scuse vaghe, ma significavano che quei due avevano preso un partito e non intendevano tradirlo. E chissà che questa non sia stata una fra le grandi e piccole ragioni di antipatia che Isabella ebbe sempre per Ercole Strozzi. Ad ogni modo, Isabella era donna da saper benissimo superare il suo disinganno, senza dimenticarlo, in attesa di una rivincita futura. Se Lucrezia riceveva le lettere dei Bembo, e già aveva avuto da lui, nel dicembre, una poesia latina su certo braccialetto foggiato ad armilla serpentina, Isabella aveva le "regole d'amore" composte per lei nel maggio 1503 da Mario Equicola nella sua faticosa maniera scolastica:

Amare servire obbedir sempre la Ill.ma Isabella Estense Esser con quella se non col Corpo coll'animo di continuo Desiderar sua laude e non patir il contrario Credere in lei ogni virtù e far opera che ciascuno il creda Amar servire adorar lei unica né pensar mai né premio né mercede. Religione addirittura; ma quanto arida e noiosa; Isabella doveva gloriarsene assai poco. Quell'anno era andata a visitare la cognata in aprile, armata di tutte le sue armi e animata da propositi di scoperte. Lucrezia la ricevette con sontuose dimostrazioni di amabilità e con feste a non finire, preparandole perfino una straordinaria rappresentazione religiosa, l'Annunciazione della Vergine; l'angelo Gabriele "pareva essere disceso libero da una nuvola, sostenuto da un ferro, con un solo posar di piedi". Ma, fosse il Bembo partito per una breve assenza veneziana, o rimanesse ad ostellato al suo studio, Lucrezia trovò il modo di tenere lontano il suo poeta; e la curiosa Isabella se ne tornò a Mantova senza aver visto Pietro Bembo.

Qualche tempo dopo fu Emilia Pio, l'amica intima della duchessa d'Urbino e amica cordialissima del Bembo, a scrivergli d'aver saputo come egli si fosse messo ad un'impresa per la quale dimenticava ogni altro pensiero. Il veneziano le rispondeva fingendosi meravigliato delle allusioni:

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non riusciva proprio a capire, affermava, a quale bersaglio la spiritosa Emilia indirizzasse le sue frecciate. Naturalmente sapevano tutti e due che domanda e risposta erano soltanto fasi di una vicenda di proposte e di repliche, che seguiva puntualmente la prima regola del codice d'amor platonico: amore e silenzio. Lucrezia fa coniare una medaglia ad un'impresa di fiamma: sotto la sua guida, l'orefice, maestro Ercole o maestro Alfonso, disegna, incide, crea il minuto lavoro, quando ella si accorge che le manca il motto per illustrare il significato di quel fuoco. Subito, un bigliettino al Bembo, ad Ostellato: presto, trovi lui le parole da incidere. Il poeta risponde al fuoco nell'oro non convenire che un luogo, l'animo, e detta la bellissima platonica impresa "Est animum", consuma l'animo. Poi rimanda indietro il messo, e avverte che non l'ha trattenuto di più "per le troppe cose che si sarebbero potute pensarvi sopra". E il primo riferimento di vita reale che tocca i due innamorati, e il Bembo è già al punto di confidenza con Lucrezia da poter sottintendere un consiglio di prudenza: non gli mandi troppi messaggi, sia cauta. Ma egli stesso è ormai preso:

Avess'io almen di un bel cristallo il core, esclama in uno dei suoi più noti sonetti, che doveva ispirare più tardi anche l'amabile musa di Ronsard ("Eusseie au moins une poitrine faicte ou de crystal ou de verre luisant") e lo accompagna con una lettera infiammata. Se ella provasse a leggere nel proprio cristallo? O forse eluderà la domanda cOme ha già fatto altra volta per un discorso che pure aveva Proposto ella stessa? Lucrezia esita qualche giorno: il verso bembesco le suona dentro con l'accento liquido della parlata veneziana che sembra in certe voci maschili spegnere la parola in una cadenza da violoncello amoroso, ser Pietro mio", scrive rapida la mano nei bei caratteri borgiani, e quel mio dopo il nome ha quasi l'autorità di un possessivo d'amore. Il biglietto è breve, senza firma, sembra la conclusione affrettata di un ragionamento a lungo battagliato fra sé e sé. si, anche lei trova nel cristallo del suo cuore estrema conformità con quello del poeta, anzi "una conformità mai per nessun tempo eguagliata". Lo sappia messer Pietro; e questo gli basti e resti "per evangelio perpetuo". Poi gli suggerisce uno schermo alla loro libertà amorosa. Non le scriva direttamente, e parlando di lei chiami sempre FF. "Questo sarà il mio nome." Nome in una sigla enigmatica. La figlia di Alessandro poteva essersi ricordata del cancelleresco ff, abbreviazione del flat semplice o doppio che i pontefici mettono in fondo alle suppliche accettate: ma l'ipotesi è troppo attraente e in certo modo facile per questo passaporto d'amore. più completo e più intonato ai modi emblematici di Lucrezia il riferimento ad una iscrizione che si legge nella sua nota medaglia detta dell'Amorino bendato: medaglia che porta al dritto il profilo della duchessa e al rovescio una composizione allegorica rappresentante un piccolo amore bendato e legato ad un alberetto d'alloro: a destra dell'amorino, in alto, è una tabella con alcune lettere FPHFF indicate da qualcuno come le iniziali dell'artista che aveva disegnato la

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medaglia (e si congetturava di Filippino Lippi o di Fino Phini): ma la tabella è appesa in modo così evidente ai rami d'alloro che certo ad essa si deve riferire qualche cosa di essenziale per l'interpretazione di tutta l'allegoria. Le lettere misteriose, forse, non sono altro che le iniziali di un'impresa delle quali FF, le due ultime, nascondevano un simbolo così intimo ed aderente a Lucrezia da significare appunto Lucrezia stessa. Che cosa volessero dire lo sapevano in due: ed è rimasto; un loro segreto. ricevuto il biglietto, il poeta risponde subito: si propone di far cose grandi in nome di questo amore, se ne sente il coraggio. Enea e Didone, Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra, le immagini delle coppie poetiche e leggendarie passavano nella mente di lui ordinate come in un Trionfo petrarchesco; era, si può vederlo, un amore letterato e caldo, non direi nemmeno di sensi, ma di spirito e sangue, una fervida effusione di ogni facoltà vitale. "Tutto mi sento ardere ed essere di fuoco" dice qualche giorno dopo il Bembo, fingendo di alludere al gran caldo di giugno; e domanda a Lucrezia se ella senta lo stesso calore. Né dimentica, parlando alla duchessa, il coro delle donne; e nomina e saluta per prima Elisabetta, la più autorevole delle tre senesi intime di corte. Elisabetta ascoltava volentieri parole e preghiere del bel veneziano che le sarà parso assai più adatto alla sua signora che non il brusco Alfonso; e certamente era stata lei la "donna senese vedova" (le altre due, Nicola e Jeronima, erano ragazze) che in quell'estate del 1503 confidava ad un medico bolognese come Lucrezia fosse trattata malissimo a Ferrara, e come le mancasse ogni cosa, prevedendo per di più che di li a poco il duca Ercole sarebbe stato in aperta rotta col Papa. Un pettegolezzo infinito, riportato a Roma, e che Alessandro VI, troppo esperto diplomatico per non conoscere l'inutilità di certi confronti e di certi interrogatori, fingeva di ignorare. Chi se ne dava gran pena era invece l'ambasciatore ferrarese. che in un dispaccio al suo duca riferiva d'aver fatto ammonire il medico ad essere "più cauto nel riferire parole di donne che molto spesso non sanno quello che si dicono". Con queste disposizioni d'animo, si capisce l'amicizia di Elisabetta per il Bembo che si raccomandava alle preghiere di lei perché le porgesse ad una "santa" molto vicina. Salutate sono anche la vispa Nicola, la napoletana Cinzia, e Polissena Malvezzi una bolognese assai ardita e carezzevole di modi, da poco arrivata in corte. E certo Angela Borgia è "quell'Angelo che può pregare per me", e di lei si parla dicendo che "se fossi angelo come egli è, pietà mi prenderebbe di ciascuno che amasse alla maniera che amo". Tanta confidenza familiare e devota, tanto aiuto chiesto con quella umiltà maschia e soave: chi non lo avrebbe amato questo Pietro Bembo? Lucrezia non si poté difendere: nella cupezza di quella corte, in quella famiglia estense unita solo per una orgogliosa ragione dinastica, la figlia di Alessandro VI sentiva che le facevano pesare sulle spalle tutto il suo passato, il presente, e un futuro buio. Non le perdonavano di essere una Borgia, insomma. Ma arrivava il Bembo e subito tutto si faceva chiaro, le catene perdevano il loro peso: egli la festeggiava con tranquilla sicurezza, non vedendo su lei l'ombra ambigua

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del toro borgiano, o quella minacciosa delle aquile estensi; la faceva parlare, ascoltava il racconto o l'accenno delle sue malinconie, la blandiva e la medicava con la sua autorità di maestro di vita e con la sua tenerezza di uomo amoroso. La sua adorazione ardente e rispettosa esaltava in lei ogni facoltà femminile, compresa la dignità; e questa è la cosa più difficile che possa fare un innamorato. In luglio Lucrezia era andata in campagna qualche giorno per consiglio dei medici, ma i primi d'agosto era tornata, e non accennava a lasciare Ferrara, se non per qualche cena, all'aperto, a Belfiore, per esempio. Anche il Bembo era fermo a Ferrara, ma fosse il caldo o la stanchezza, o altro, si ammalò di febbre alta, e dovette mettersi a letto. ci si figura l'effetto di questa notizia portata dallo Strozzi o dal Tebaldeo, segretario della duchessa, nelle camere di corte: lo scompiglio dei piccoli gruppi femminili, le parole mormorate in segreto, riprese a volo, commentate, una rappresentazione affrettata nei tempi, punteggiata di esclamativi, rilevata da sgomenti patetici; in un crescendo sommesso una trasfigurazione palpitante e fantastica come sanno fare di un qualsiasi caso, quotidiano soltanto le donne. Ammalato, il bel cavaliere? Subito mandargli messaggi, consolazioni. E se fosse andata lei, Lucrezia stessa? Non era andata qualche mese prima a visitare Ludovico Gualengo, gentiluomo addetto alla sua corte, quando questi si era ammalato? (Anzi, i vecchi cortigiani s'erano domandati allora, ironicamente, donde provenisse "tanta umanità" e per qual miracolo "per cosa così lieve si sia mossa".) Era un segno di benevolenza ufficiale, non lecito ad una donna, ma lecitissimo ad una principessa.

Lucrezia raduna le più intime compagne: è più agosto nel caldo delle vie silenziose e piane passa la carretta ducale; sotto l'ombra del cielo di raso gli occhi delle donne scintillano nei visi composti ad una quieta indifferenza. Ecco la casa del Bembo: su per le scale, nella stanza, al piccolo letto del malato. Lucrezia siede presso di lui, s'informa del male; ella, che come ogni gentildonna del rinascimento sa di medicina in un modo empirico, ma è guidata dal salutevole istinto femminile, parla di cure, ascolta, consiglia, animata e mossa da un soffio segreto. La conversazione si snoda: il giovane sotto gli occhi teneri di tante donne belle respira un'aria di felicità, si lascia andare alla dolcissima febbre. "Beato in sogno e di languir contento" avrebbe potuto dire col suo Petrarca. Lucrezia brilla di letizia, conforta con parole semplici, ma lo sguardo e il sorriso trascendono le parole. Il tempo trascorre, la visita è lunga, tanto meglio. Quest'ora nessuno potrà più toglierla a Lucrezia; ella l'ha vissuta, ha visto come posa la testa dell'amato nell'abbandono del riposo, come il suo collo sorge dalla camicia disciolta, con la grazia forte della giovinezza matura, ha una visione di lui, intima, vera, sua. Spionaggio e malumori non importano. L'alterigia della spagnola e della Borgia si aderge di fronte ai suoi nemici: il suo gesto è legittimo; nessuno osi fare il processo alle sue intenzioni.

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La visita di Lucrezia fu coraggiosa. In quei giorni, la peste, portata da un ragazzo pesarese, cominciava a fare vittime nella città, tanto che presto non vi furono più scuse per rimanere al caldo e al pericolo. Il duca Ercole era già passato dalla Torre, dove l'epidemia era forte, a Belriguardo, conducendo con sé alla catena don Ferrante. Lucrezia ebbe per compagno don Giulio, e chissà quanto si allietava il focoso bastardo che in quel carnevale aveva fatto gran vanterie di imprese libertine, al pensiero di seguire tante donne e fanciulle fra le quali era Angela Borgia destinata ad avviarlo verso una sorte impietosa. Partirono contenti, anche Lucrezia che aveva in progetto di visitare Modena e Reggio, e che si sarebbe fermata intanto in una villa poco lontana da Ostellato, a Medelana. Conduceva con sé le sue donne vestite di gaie sete colorate di Tripoli, i suoi buffoni i suoi musicisti i suoi cantori: aveva voglia di divertirsi, era in vacanze matrimoniali da Alfonso, lontana dalla diffidenza di Ercole e dalla fredda galanteria del cardinale Ippolito, e aveva in sé quel caro pensiero. Intollerabile delizia di essere lontani, di amare essendo amati ' in segreto e senza colpa. Prima che Lucrezia partisse anche il Bembo aveva preso la via di Ostellato: "Io parto, o dolcissima vita mia", le scriveva salutandola. Forse in quei giorni Lucrezia ebbe il coraggio di essere felice.

A vedere Alessandro VI piantato sul trono papale come per l'eternità, senza mai un ritorno su se stesso e tutto intento a disegnare progetti, c'era, per i nemici dei Borgia, da far pensieri amari. Il vecchio pontefice ogni mattina ricominciava la sua vita seguendo quella dei propri figli; pensava a Lucrezia, parlava di lei con l'ambasciatore ferrarese, era impaziente di una nuova maternità. Proprio non si annunciava un piccolo estense? Non si annunciava. Ercole d'Este, per compiacere il Papa, ne aveva domandato alla nuora, e aveva avuto in risposta non esservi segno di queste cose. Ma il Papa stesse tranquillo: ella, sanissima e gaia, passava il più lieto carnevale del mondo da festa a festa: e l'ambasciatore enumerava balli e conviti. Che fosse tanto allegro, per lei, intimamente, non era, si è visto, così esatto, e i musi lunghi o le "mosche" erano più d'una volta avvistate dai cortigiani ferraresi. Lo sapeva anche Troche, che un giorno, in Vaticano, aveva sorriso alle sfolgorate descrizioni del Costabili, osservando che i divertimenti non avevano poi quella continuità. E forse il Papa aveva informazioni dirette dai suoi spagnoli e dalla figlia che, anche dopo aver avuto il suo appannaggio, aveva chiesto al padre forti somme di denaro dicendo d'aver perfino impegnato gioielli per farsi vestiti e per allestire feste in onore della marchesa di Mantova se non pareva del tutto persuaso, e se pensava di raggiungerla e di rivederla. Pensarci, per lui, non voleva dire solo desiderare ma fare progetti concreti. Non sappiamo quanto fosse vero che, come dice il Cattanei, una visita del Papa a Ferrara era stata stabilita segretamente nei patti matrimoniali tra Lucrezia e Alfonso: ma già dall'aprile del 1502,

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Alessandro VI aveva dichiarato in concistoro la sua intenzione, anzi la sua decisa volontà di andare nel giugno di quell'anno a Ferrara "cum tota curia", pena la perdita del cappello cardinalizio per quei cardinali che non lo avessero seguito. I veneziani avevano detto allora che sotto le ragioni affettive si nascondeva il movente politico del viaggio, un colloquio tra il Papa e il re di Francia; e potevano anche aver ragione. Ma poi, per la malattia di Lucrezia e per cause d'altra natura sopravvenute, prima fra tutte la necessità di tenere d'occhio gli spagnoli nel napoletano, Alessandro VI non s'era mosso da Roma se non per brevi visite in terre vicine. Il progetto tornava ora, un anno dopo, ma modificato; l'incontro fra padre e figlia non sarebbe più avvenuto a Ferrara (l'incrinatura tra i Borgia e gli Este cominciava ad essere sensibile) ma a Loreto, pellegrinaggio devoto degno del Capo della Chiesa. Passati i calori estivi, in settembre, il Papa si sarebbe messo in viaggio, e si sarebbe goduto allora anche la consolazione di vedere e di benedire il nuovo stato di Cesare, la Romagna. Tenerezza per Lucrezia a parte, dominatore del Vaticano era ormai Cesare, che, impegnate per sé tutte le forze del padre, teneva Roma nello spavento e nel sospetto, e pareva avere sfrenato, dopo l'eccidio di Senigallia, la mano al delitto, Era il momento del veleno borgiano, destinato a restare nei secoli come sinonimo del nome Borgia ad evocare un mondo convulso nel quale anche Lucrezia sarebbe stata travolta, per diventare poi, col favore tenebroso dei romantici, l'avvelenatrice e l'Erinni di Victor Hugo. ci si è domandati infinite volte se la famosa "cantarella" sia stata veramente una raffinatissima scoperta, un capolavoro di scelleraggine, e se avesse avuto davvero il potere di dare la morte in un tempo stabilito e misurato. Chimici e tossicologi, oggi, sono convinti che il veleno "a termine" faccia parte della leggenda borgiana; quanto alla composizione della "cantarella" o "acqua tofana", il Flandin nel suo Traité des poisons, il Lewin e altri hanno pensato ad un acido arsenioso che può produrre febbri intermittenti, e manifestarsi in due forme, una più comune, gastrointestinale, ed una più rara, cerebrospinale. Sarà stato insomma, arsenico od altro, un veleno benissimo preparato: ma, qualità per qualità, assai più tremenda era la composiziOne umana e spirituale di coloro che lo usavano. Moriva il vecchissimo cardinale Michiel veneziano, per mano di un sicario borgiano più tardi confesso, Asquinio Colloredo, che si ebbe, per versare la fatale ampollina, mille ducati. La fortuna immensa del Michiel era andata al Papa, e quindi al Valentino per le sue guerre: per le stesse guerre il Papa creava intanto, nel 1503, cardinali nuovi che gli fruttarono 130.000 ducati. A Castel Sant'Angelo era stato imprigionato il cardinale Giambattista Orsini sotto l'accusa di aver voluto avvelenare il pontefice: un'accusa tanto grave indicava che i Borgia avevano deciso di liberarsi di quest'uomo ricchissimo, potente, e così coraggioso da non esitare a presentarsi in Vaticano di notte e senza scorta, alla chiamata del Papa, benché la sua bella amante lo avesse supplicato di non muoversi, presaga com'era di qualche sventura per un sogno di Vino convertito in sangue. si diceva che al cardinale

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fosse stata data la tortura, e che egli avesse tentato gettarsi dagli spalti di Castel Sant'Angelo. é vivo? Non è vivo? Si domandavano tutte le mattine gli Orsini a rivedere le mura merlate e rotonde dell'alta fortezza sul Tevere; ma non si perdevano a sospirare: la madre del cardinale mandava ad offrire al Papa una forte somma di denaro; e la bella amante di lui tentò un'impresa da romanzo. travestita, sotto panni maschili, riuscì ad arrivare alla presenza del pontefice, e ad offrirgli una meravigliosa perla gioiello celebre, conosciuto e bramato dai Borgia, regalato a lei dall'Orsini. A questo prezzo riebbero indietro un cadavere. Era il terzo di casa Orsini dopo il duca di Gravina e Paolo Orsini, assassinato nello spazio di pochi mesi: tra Borgia e la potente famiglia romana la lotta era antica, durava e sarebbe durata; i piani di conquista di Cesare concordavano su questo punto con la politica di Alessandro VI vecchia già di dieci anni, di liberare lo stato pontificio dalla prepotenza e dalla strapotenza dei baroni romani. Come un tempo si era mandato il duca di Gandia contro Bracciano; si mandava adesso Jofré ad assediare Ceri. Gli Orsini chiesero grazia., e spedirono a Roma il loro capo, Giulio, signore di Monterotondo, prendendo in cambio tra le loro mura Jofré, e sentendosi tuttavia così poco garantiti, che tutti tremarono quando seppero che Giulio era stato messo a Castel. Sant'Angelo. Era forse una crudeltà morale per impaurire il capo degli Orsini, perché, fatta e firmata la pace, Giulio tornava salvo alla sua terra, facendo dire a Roma che, a vederlo vivo, la madre sarebbe morta dall'allegrezza. Dalla Francia re Luigi XII tempestava che non gli si toccassero gli Orsini suoi amici, ma Alessandro VI teneva duro, e rivendicava per sé la libertà di governare lo stato a modo proprio, come egli aveva lasciato libertà al re di Francia sui suoi baroni: di politica interna, ognuno facesse la sua.

Anche nelle relazioni di politica estera i Borgia in quel momento oscillavano. Francia o Spagna, quale delle due nazioni che si contrastavano il dominio in Italia sarebbe riuscita a conquistarselo, era il problema che i Borgia cercavano di vedere risolto: il movimento degli spagnoli nel napoletano l'approdo regolare e continuo di truppe del Re CattoliCO sOtto il Vesuvio li faceva inquieti. Dalla Francia, Luigi XII, in sospetto anche lui per i preparativi spagnoli, ordinava una nuova spedizione contro i suoi rivali in Italia e si faceva sentir parlare del Valentino quasi da nemico; all'ambasciatore ferrarese Bartolomeo Cartari che gli domandò se era vero che il Borgia avesse in animo di marciare su Pisa, il re rispondeva di non credere che il Papa e suo figlio si volessero mettere contro il suo volere la Toscana era sotto la protezione diretta del re di Francia e che, del resto, egli aveva modo di far perdere al Valentino in quattro giorni tutto ciò che gli aveva permesso di conquistare. Sembrava rispondergli direttamente Cesare, che a Roma con i francesi che si trovava vicini protestava di non aver mai avuto intenzioni sulla Toscana e giustificava la mostra di milizie che aveva spiegato in una cavalcata tra Todi e Perugia come un movimento di guardia

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personale: una buona guardia, concludeva, è sempre necessaria. Così, mentre Lucrezia a Medelana tesseva le sue delicate trame col Bembo, e il Papa e il Valentino stavano incerti al bivio politico di Francia e Spagna, si arrivava all'agosto del 1503. Moriva, al principio del mese, il cardinale Giovanni Borgia di Monreale, l'avarissimo di casa Borgia, colui che, pur avendo stimato molto "un ducato", aveva lasciato ora, "non li potendo portare con sé", denari gioielli argenterie cavalli splendidi e molte altre cose. Questa morte aveva suscitato nel pontefice un brivido e poi una reazione; ma, Meno ottimista del solito, Alessandro VI diceva di volersi "guardare, e vivere se potrà", perché, soggiungeva il re: latore, "ognuno li minaccia la morte", Cesare aveva differito la sua partenza da Roma con la scusa di voler festeggiare col padre l'undicesimo anniversario della sua ascesa al Papato, ma in verità per "vedere quello che faranno gli spagnoli". E il 10, giorno di san Lorenzo, Adriano Castelli da Corneto, ex segretario papale ed ora nuovo e ricchissimo cardinale, dava al pontefice e a suo figlio, in una vigna appena fuori di città, una sontuosa colazione fra poca gente intima. La catastrofe borgiana ha origine di qui. Che avvenne dunque quel giorno in quel convito? Secondo un racconto anonimo inserito nei "diari" del Sanudo, il cardinale Adriano Castelli, informato che Alessandro Vi messi gli occhi sulle sue ricchezze aveva disegnato di farlo uccidere quel giorno per mezzo di confetture avvelenate, indusse il sicario ad offrire al Papa e al Valentino la scatola mortale. Il Guicciardini, il giovio ed altri credevano tutti all'avvelenamento; ma le testimonianze del Burcardo del Costabili del Cattanei dei Giustiniani relatori contemporanei parlano invece di febbre terzana. Il fatto è che il giorno dopo, l'11 agosto, si metteva a letto Adriano Castelli, il che, se fosse vera la storia del veleno, si potrebbe interpretare o come una paura morbosa del cardinale, o come effetto del veleno che non aveva potuto del tutto schivare: il 12 toccava al Papa, il 13 al Valentino; moltissimi altri si ammalavano, e si diceva che fossero morti un cuoco ed uno scalco, ambedue presenti, e sia pure nelle cucine o nelle camere di servizio, al convito del giorno di san Lorenzo. Strana infezione ma non stranissima. Monsignor Beltrando Costabili scriveva il 14 agosto: "Non è meraviglia che S. S.tà e il Valentino stiano male, perché tutti quanti gli uomini di conto che sono in questa corte sono ammalati e infermati, e quelli del palazzo apostolico specialmente per la cattiva condizione dell'acre"; e il Cattanei aveva scritto già dal 5 agosto:. "Molti sono infermi, ma non c'è peste, solo febre per la quale si spaciono presto". Certo, fuorché dai relatori, e perché stava troppo logicamente bene ad un Borgia morire avvelenato, si parlò subito di tossico in tutta Italia. Ne erano persuasi, pare, ma poteva essere una persuasione simulata, anche i familiari del Valentino, uno dei quali confidava a Gian Lucido Cattanei (tanto che questi cominciò anche lui a meditare sull'ipotesi dell'avvelenamento, senza però concludere nulla) che il veleno era stato messo nel vino Trebbiano, bevuto puro dal Papa e misto con molta acqua dal Valentino. La verità, qualunque fosse, non è mai stata

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scoperta. La mattina del 13 agosto il Papa aveva voluto in palazzo, e benché fosse anch'egli ammalato, il vescovo di Venosa con un altro medico. A tarda ora nessuno dei due essendo uscito dal Vaticano, s'interpretava questo segno come annunciatore di cose gravi, Lo stesso giorno si diceva che il Valentino avesse avuto vomito fortissimo e gran febbre, e, invisibile a chiunque, fosse anche più ammalato del padre. Come uno squillo la notizia arrivava ai nemici dei Borgia, faceva alzar loro il capo, prometteva vicina l'ora della vendetta. I familiari di Cesare capivano tanto bene il momento, che tutti d'accordo si passarono la consegna della serenità: nessuno si allarmi, il duca non è malato. Cesare stesso, con uno sforzo che è un atto di valore, si fa venire in camera il primo dei forestieri che si trova vicino al palazzo apostolico, e gli si mostra sicuro, quasi ilare, qualunque pena gli costi la finzione; ma che sia finzione non sfugge al visitatore, troppo scaltrito per non comprendere che l'intervista gli è stata concessa perché egli possa riferire di aver visto vivo e sano il Valentino. Erano già evidenti i ripari. Il giorno dopo il Papa si fa cavare sangue, ha la febbre, poi migliora tanto da giocare a carte con i familiari; il 16 sta di nuovo male, il 17 torna ad affiorare, ma il 18 mattina, ascoltata la messa detta per lui dal vescovo di Carinola, uno degli amici curiali di Lucrezia, e comunicatosi, si fa sentir dire di stare male, molto, molto male. La sera riceve l'estrema unzione; e in silenzio, come cedendo ad un grosso torpore, approssimandosi la notte, il Papa moriva: il cuore non aveva resistito alle febbri, era venuta l'apoplessia. C'era poca gente intorno: attraversava il silenzio un mormorio di voci sorde, ancora lontanissime, ma già minaccianti; e, ad un tratto, si spalancano le porte, entrano uomini armati al comando di don Micheletto Corella richiudendo dietro di sé i battenti e mettendosi a guardia. Il cardinale tesoriere scelga: o consegnare le chiavi del tesoro papale, o essere gettato dalla finestra. Col pugnale di don Micheletto Puntato contro il cuore, il cardinale consegna le chiavi: ecco le casse dell'argenteria, quelle piene di ducati d'oro. Nella fretta gli uomini di Cesare hanno un errore di memoria che dovranno rimpiangere, dimenticano cioè la cassetta dei favolosi gioielli di Alessandro VI e, preso il bottino, si allontanano. Cesare ha ora febbre altissima: su di lui vegliano don Micheletto e il giovane principe di Squillace che mostra coraggio e arroganza di stile. A capo di cavalieri armati, Jofré Borgia esce animosamente dal Vaticano, cavalca per Roma come ispezionando le proprie contrade; in piazza della Milleva vede far le barricate: "Che vuol dir questo?" chiede con un'insolenza finalmente a fuoco. "Per evitare scandali" la risposta. "Ebbene, noi staremo di la e voi di qua" conclude il giovane, alludendo al Tevere che avrebbe diviso le fazioni: e, rientrato a Castel Sant'Angelo, fa sparare una bombarda mirando verso la via dei Banchi come ammonimento. Don Micheletto, più cauto e sagace, procede con prudenza ed energia, vigila, ordina, impera: perfino i nemici ammirano quella sua straordinaria fedeltà.

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E intanto l'appartamento Borgia in Vaticano vede la folla dei servitori che vengono al saccheggio e si portano via perfino la sedia pontificale; nella camera spoglia, sotto la direzione del Burcardo, il corpo del Papa è lavato, posto sopra un catafalco ornato di raso cremisi e di un bellissimo tappeto, rivestito di panno bianco, di pianeta d'oro, e calzato di pantofole di velluto: l'ultimo lusso di Alessandro VI gli è prodigato non dall'amore o dalla carità dei familiari ma dalla fredda puntuta precisione del cerimoniere di Strasburgo. così rivestito, tolto allo squallore delle sale depredate, il cadavere è trasportato nella sala del Pappagallo, dove qualcuno dei suoi, almeno Jofré, se non Vannozza Cattanei, sarà venuto a vederlo: verso sera fu portato in San Pietro per essere esposto, come d'uso, al popolo, dietro una grata. E man mano che le ore passavano, una feroce decomposizione, aiutata dal caldo, distorceva il corpo del pontefice, lo anneriva, lo gonfiava, lo rendeva disdicevole alla sua passata qualità, nonché pontificale, umana. In quello sfacelo, le leggende di patti diabolici, di visioni mostruose, di spiriti malefici trovavano la loro giustificazione: si finiva per credere a tutto, e la gente che sfilava in San Pietro si rimandava l'orrore della visione, rabbrividendo, con il compiacimento popolare dello spettacolo orrido: solo più tardi, per pudore d'umanità il corpo disfatto fu coperto da un tappeto. di notte alta, al lume di poche torce, si fece il funerale, assistenti il vescovo di Carinola e pochissimi prelati che accompagnarono il corpo del pontefice fino alla chiesuola di Santa Maria delle Febbri, dove appena tre anni prima era stato portato ed aveva avuto più onorevole e pietoso accompagnamento l'assassinato duca di Bisceglie. Qui avvenne una scena d'incubo: il corpo del Papa, per quello smisurato gonfiore, era così alterato nelle misure, che non c'era verso di metterlo nella cassa, e dovettero spingervelo a forza di pugni e di stiramenti due robusti becchini: le torce, oscillando di luci inquiete, illuminavano gli atti dei bruti, il sussultare svuotato e sconcio di quella forma che pareva non volesse ancora abbandonare il mondo: infine il corpo del Papa fu stipato e chiuso nella cassa, seppellito sotto una lapide oscura; provvisoria, dicevano. E la piccola compagnia di becchini e di prelati, a lumi spenti, silenziosa, in fretta, tornò via.

Dal fondo del suo letto Cesare seppe la rovina che gli toccava tutta in un momento, sentì forse, poiché le sue camere erano al disopra delle camere papali, le cadenze delle preghiere funebri. Non gli riusciva di guarire, doveva lasciare il Vaticano libero al nuovo conclave, e sentiva l'agitazione crescergli, sapendo che i nemici di casa Borgia stavano correndo alle vendette. Le donne furono dapprima radunate a Castel Sant'Angelo: e qui si trovarono Sancia d'Aragona con quella Dorotea da Crema, fidanzata del Caracciolo, rapita sulla strada fra Cervia e Ravenna: un incontro drammatico fra due che dovevano esser unite a detestare colui che le aveva amate. C'erano tutti i bambini Borgia, il duchetto di Lucrezia, l'Infante Romano, e qualcuno degli altri rampolli borgiani, forse anche l'ultimissimo figlio di Alessandro VI, nato

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fra il 1502 e il 1503 e legittimato col nome di Rodrigo Borgia. Poco dopo, l'intero gineceo, ed era di questa spedizione anche Vannozza Cattanei, fu mandato nella fortezza di civita Castellana; e Cesare stesso, pregato dai cardinali di non porre con la sua presenza ostacoli al conclave, partiva per Nepi scortato dalla sua milizia, accompagnato da altre donne, cortigiane, stando in una lettiga di raso cremisi a cortine tirate portata da otto staffieri, e avendo dinanzi a sé, a cavallo, un ignoto prigioniero legato e mascherato, forse un ostaggio degli Orsini. Era davvero ammalato, e i rimedi che aveva preso per guarire lo finivano: aveva i piedi gonfi, il corpo magrissimo, la testa dolorante; e il cervello, già così acuto, smarrito al punto da non reggere più al pensiero, Prospero Colonna gli mandava ad offrire la protezione spagnola purché adoperasse i suoi influssi a favore della Spagna nel prossimo conclave, e Cesare accettava: al tempo stesso, accettava anche la protezione dei francesi e prometteva di favorirli per l'elezione del nuovo Papa. Il doppio gioco, risaputo subito, gli straniava gli animini degli spagnoli e gli preparò la diffidenza dei francesi. Non c'era dubbio: Cesare sbagliava.

Sbagliò, mettendo tutte le sue speranze nell'elezione di un Papa francese che avrebbe dovuto essere l'ambiziosissimo cardinale d'Amboise. Gli italiani, che avevano visto quanto male avevano fatto al papato gli spagnoli, decisero di non eleggere stranieri, tra le proteste dei francesi che si domandavano, e logicamente da parte loro, perché, essendoci stato un Papa spagnolo e alcuni italiani che avevano tanto mal governato, non si potesse ora far la prova di un Papa francese. In quei giorni riappariva a Roma, liberato dalle carceri di Bourges, e tutto amico del re di Francia, Ascanio Sforza che riportava dalla prigionia ambizioni e volontà moltiplicate. Arrivò il 10 settembre, insieme con il cardinale d'Amboise, incontrato a porta del Popolo dai cardinali di Bologna di Volterra d'Albret e Sanseverino, e accolto da un tumulto di applausi popolari e fin da fuochi d'artificio; si vedevano le donne protundersi dalle finestre verso il cardinale milanese, a gridare "Ascanio! Ascanio! Sforza! Sforza!" con voci che parevano d'amore. Questo scoppio di gioia che nessuno si aspettava indispose non poco il cardinale francese che era con lui e che credeva di portarselo dietro come un vassallo. si diceva che lo Sforza fosse stato liberato per far opera in favore del d'Amboise, e si diceva anche che lavorasse per conto proprio; ma in conclave, ritrovandosi di fronte al nemico del 1492, giuliano della Rovere, riuscì solo a far naufragare le probabilità dell'antico e sempre attuale avversario. Fra le discordie, la confusione e i contrasti, fu eletto Papa un uomo probo, costumato, di molto senno e dottrina, ma malato al punto da essere quasi moribondo; si capiva che era un Papa di transizione; Francesco Todeschini Piccolomini prese il nome di Pio III. I francesi che andavano a Napoli, decisi a combattere contro gli spagnoli, passarono per Nepi e proseguirono, lasciando solo, e debolissimo, il Valentino, al quale l'avviso che

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Bartolomeo d'Alviano stava arrivando con l'animo di vendicare gli Orsini uomini e donne, dette quasi il panico:

Cesare mandò a Roma ambasciate pregando il Papa e i cardinali di poter mettersi in salvo in città, si fece vedere disfatto, dette ai suoi nemici e anche agl'indifferenti il piacere di misurare la sua debolezza: solo il buon Pio III ebbe pietà, e lo fece tornare a Roma permettendogli di alloggiare nel palazzo di Ippolito d'Este presso il Vaticano.

Presto si vide per Roma gran girare di truppe: erano quelle dell'Alviano, dei Baglioni e degli Orsini, che, aspettando di vendicarsi su Cesare, si sfogavano contro gli spagnoli, uccidevano, torturavano, e violentavano donne. Ben lo seppe Pietro Matuzzi gentiluomo romano, che aveva sposato, prima ancora che Rodrigo Borgia fosse eletto Papa, una sua figlia, Isabella Borgia, e aveva avuto da lei una bella filiola che in quell'anno era stata fatta sposa: gli Orsini, entrati di sorpresa nel palazzo dei Matuzzi, si portarono madre e figlia nelle loro case per vendicare su di loro gli oltraggi che alle loro donne non erano stati risparmiati. Cesare cominciava a non sentirsi più sicuro nel palazzo estense, per ben guardato che fosse. Sentiva anche lui i rumori e le voci dei suoi nemici che gridavano: "Ammazzate quel cane giudeo, saccheggiatelo prima che lo facciano gli altri", e conosceva l'efficacia di simili incitazioni sui soldati mercenari: non aveva che di questi. si aggiunga che gli spagnoli, diffidati dal re di Spagna a prestare servizio presso Cesare, considerato per le sue trame con la Francia un traditore, lo abbandonarono in gran numero: gli restavano i tedeschi mercenari, alcuni italiani e pochi francesi, e a vedersi questa rada scorta Cesare pensò di ritirarsi in Castel Sant'Angelo dove il castellano era un suo creato; ma anche lui, il castellano, ora aveva cambiato animo, ed era ossequiente solo a chi poteva tutto per lui, il pontefice; così che, per Roma, si diceva ridendo essere gran meraviglia che il Valentino fosse andato a mettersi in gabbia da sé. Chi seguitava a sfoggiare un ardire senza premio era il giovane Jofré, che alla testa dei mercenari tedeschi fece più volte sortite guerresche contro gli Orsini. E coraggio, in quel momento, lo mostrò solo lui, mentre Cesare precipitava da un errore all'altro, con una cecità fatale, con una dannata e triste follia. Il 19 agosto fu certa a Ferrara la morte di Alessandro VI. subito, cavalcando rapido per la campagna che pareva ritirata in se stessa dall'arsura, il cardinale Ippolito portava a Medelana, a Lucrezia, la tremenda notizia.

Fu uno scoppio forsennato d'angoscia. Lucrezia era troppo Borgia e si sentiva troppo legata a quel suo lussureggiante Padre, per non cadere di schianto come mutilata nella radice Vitale, Vestita a lutto, chiusa in una stanza parata di nero, senza lume, senza cibo, ella, come più tardi raccontava, "credette morire" provando tutte le tenagliature del dolore e

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della solitudine, sentendo a fondo il senso inutile e disperato della vita terrena. Don Alfonso venne a farle una breve visita, e ripartì: lacrime e malinconie lo infastidivano. Ercole d'Este non si prodigava davvero in premurose condoglianze, e fu un fatto molto notato a Ferrara. Il vecchio duca era già da qualche tempo in urto col Papa: e quando, creati i nuovi cardinali, aveva visto escluso dalla nomina il suo favorito Gian Luca Castellini, era arrivato a minacciare di togliere da Roma il suo ambasciatore.

L'animo di Ercole d'Este si rivelò del tutto alcuni giorni dopo la morte di Alessandro VI, in una lettera scritta dal duca a Gian Giorgio Seregni, oratore ferrarese. diceva, la lettera, come di questa morte non si fosse affatto dolenti alla corte di Ferrara, e come anzi "per l'onore di nostro signore dio, e per la universale utilità della Cristianità, abbiamo più volte desiderato che la divina bontà e provvidenza facesse provvisione di un buono ed esemplare pastore, e dalla chiesa sua si levasse tanto scandalo" ' Parlava il savonaroliano Ercole, colui che aveva per ispirar suor Lucia da Narni: e dichiarava di aver desiderata, quasi, la morte del pontefice. Immaginarsi quanto affetto potesse avere per la figlia di quello "scandalo", e quanta sollecitudine per Cesare Borgia che, ancora per poco temibile, andava all'ultima rovina. Il dolore di Lucrezia fu dunque più orgogliosamente spietato per essere cresciuto in solitudine. Alcuni cortigiani avevano, si, preso il lutto, ma ella sapeva benissimo che cosa volessero dire quelle ipocrite vesti brune, e che cosa le sarebbero costate di favori appoggi protezioni. La confortavano le sue donne, lo Strozzi, il Tebaldeo: meglio di tutti Pietro Bembo, che, all'annuncio della sventura, era, ancor prima di Alfonso d'Este, arrivato a Medelana. di intenzioni consolatrici aveva colmo l'animo: ma, appena entrato nella stanza e vista la luminosa donna delle sue immagini seduta in terra, umiliata, gemente, non osò parlare: tutta la sua eloquenza si discioglieva in pietà, e forse perché non apparisse troppo evidente la natura della sua pena, fuggì in silenzio e in silenzio tornò ad Ostellato. Le scrisse di là una tenera lettera, di una saggezza e di una discrezione veramente virili; e mostrava di intendere molte cose, se la consigliava a farsi animo perché nessuno la sospettasse di piangere non solo "la caduta, quanto la presente vostra fortuna". Sapeva questa fortuna in pericolo, il Bembo; e forse, anche se non le aveva sentite, intuiva le parole che stava dicendo il gran protettore di Ferrara, il re di Francia. Luigi XII, era chiaro, aveva già abbandonato Cesare Borgia, dimostrando così "come i favori degli oltramontani sono fallaci"; e su Lucrezia si esprimeva con disprezzo arrivando a dire che non era moglie vera di Alfonso d'Este. Consigliava dunque, dall'alto, il ripudio, assicurando in anticipo il suo consentimento. Ma a Ferrara si era troppo avveduti per parlare di divorzio: ci sarebbe stata l'enorme dote da restituire e soprattutto la perdita dei privilegi legati alla persona di Lucrezia, primissimo, anzi essenziale, l'investitura del ducato di Ferrara concessa da Alessandro VI ai discendenti della figlia e di

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Alfonso. Sussisteva poi l'incognita di Cesare Borgia ancora potente in Romagna. Lucrezia aveva subite capito che la Romagna era una garanzia di vita per il fratello, e sebbene disfatta dal dolore si era data a cercare soccorso. Denari ne aveva pochi; riuscì ad arruolare mille fanti e centocinquanta balestrieri che, al comando di Pietro Ramirez, dovevano soccorrere Cesena ed Imola minacciate dai veneziani, e sostenere i difensori di Pesaro insidiata da Giovanni Sforza. milizie di ex marito e di ex moglie non arrivarono neppure ad affrontarsi: tanto precipitava la fortuna dei Borgia che persino lo Sforza vinceva su di loro. Egli riuscì a tornare nella sua città ad esercitarvi la sua meschina tirannia e a mandare a morte Pandolfo Collenuccio l'umanista, il poeta il cittadino maggiore della sua terra. Il Collenuccio aveva mostrato di sapere molte cose triste del suo misero signore e di saperlo giudicare. Rimini cadde anch'essa; ma le fortezze di Cesena e di Forlì restavano ferme al Valentino: la loro fedeltà era di tale natura da indurre per esempio il castellano di Forlì ad impiccare un messo del Papa, Pietro Doviedo, che gli aveva intimato di consegnare la fortezza. Pareva, e i corrispondenti di casa d'Este che ne avvertono il duca Ercole aggiungevano prudentemente di non crederci, che Lucrezia avesse provvisto l'animoso castellano di una buona somma di denaro per aiutarlo a resistere: era, invece, non solo possibile, ma quasi certo poiché proprio in Ferrara si continuavano ad arruolare "fanti per madonna" Lucrezia, sotto gli occhi beffardi di Ercole che lasciava fare, sapendo questi tentativi inutili ad un effetto reale, utilissimi invece ai propri fini politici. Scriveva infatti il duca al suo ambasciatore. presso il Papa, rispondendo all'accusa che gli muovevano da tutte le parti, voler egli, cioè, "tenere in piedi il Valentino", che in realtà avrebbe preferito la Romagna in mano al Borgia piuttosto che alla repubblica di Venezia, già pronta con le sue forze armate ai confini. D'altra parte, ai veneziani, irritati dalle sparute schiere militari in partenza da Ferrara, il duca poteva benissimo rispondere, come rispondeva, di ignorare che facesse la nuora, e di non aver dato un denaro all'impresa; e questa, si può essere certi, era la sola verità in bocca al vecchio duca. Così, anche l'amor fraterno di Lucrezia doveva servire agli altri, ed ella rimanere li con i suoi gesti senza risonanza e senza peso. Medelana, a pochissima distanza da Ostellato, è un piccolo gruppo di casette agricole che rivelano ancor oggi lievi segni d'antica nobiltà, una finestretta ogivale, la dentellatura quattrocentesca di un cornicione, l'impianto elegante di una porta. La villa doveva essere dell'architettura ampia e riposata comune alle dimore estensi di campagna sparse per il ducato a ricordare la presenza viva dei signori di Ferrara. Vicino al parco dai grandi alberi, tra i quali le acacie mettevano il chiaro delle foglie e l'odore voluttuoso dei grappoli fioriti, scorreva il Po di Volano, tranquillo canale navigabile che, svolge il suo largo tracciato fino a Ferrara. Intorno, per la campagna vasta, coltivata, assorta in un silenzio lievitante, lunghe file di pioppi vanno accennando vie astratte che ad un tratto abbandonano; e la fantasia le segue, prolungate di là dalla volta celeste. In questo paesaggio,

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sul quale la figura umana si alza a dominare la natura con il vigore dell'Aututino di Galasso, si tessono i fili conclusivi della storia amorosa fra il Bembo e Lucrezia. Per confortarla, il veneziano compone una delicata elegia:

"Se prendi la penna a scriver versi, son versi degni delle Muse, se ti piace con la mano eburnea toccare le corde dell'arpa o della cetra, rievocando con arte varia le note tebane, le vicine onde del Po fremono alla dolce armonia: e se piace con l'agile piede abbandonarti al ritmo della danza, oh, come temo che un dio, vedendoti per caso, ti rapisca dal tuo castello e leggermente ti innalzi a volo per il cielo, facendo di te, o sublime, la dea di un nuovo astro!" Una freschezza immaginativa, di sapore quasi ellenistico, riesce a brillare sotto la classica compostezza della forma: viene in mente un mattino mitologico, quello che vide Nausicaa alla fonte con le compagne, o Attene spiare il bagno di Diana. A leggere quei versi, Lucrezia dovette avere la sorpresa di certi risvegli dai quali si stenta a sorgere tanto l'anima è buia, e tanto affacciandosi al mondo tutto pare scolorito e stanco; e all'improvviso, sollevando lo specchio con un gesto senza fede, ci appare nel fondo della spera un viso, il nostro, roseo di una giovinezza che dapprima ci irrita con la sua facile insolenza, poi ci stupisce, e ci fa disegnare un sorriso agli angoli della bocca; e si finisce sempre per cantare. Alle amorose lettere di Pietro, Lucrezia cominciò a rispondere per cortesia, per gratitudine e per qualche cosa di più che gli confessava nei primi giorni d'ottobre. "Non vorrei mai aver guadagnato un tesoro piuttosto che avere inteso quello ch'io ieri seppi da voi e che potevate bene, ed era debito di conformità, farmi intendere prima", le scriveva il poeta. E aggiunge: "Non potrà tanto la mia fiera disavventura che, se io avrò vita, il fuoco nel quale FF e il mio destino m'ha posto, non abbia a essere il più alto e il più chiaro che oggi in cuore d'amante si senta appreso. Alto il farà la natura del luogo nel quale esso arde, chiaro la sua stessa fiamma che ancora a tutto il mondo ne saria testimonio". Parole di un amante platonico, ma tanto ardente da sperare che Lucrezia, volendo spegnere il suo fuoco, sia presa dagli stessi furori amorosi di lui, secondo un proverbio spagnolo che ella ha tra le sue carte.

In quella fine d'autunno, fra Lucrezia, ammollita dal dolore dalle lacrime e dalle inquietudini, e il suo pietoso consolatore, passarono senza dubbio dolcissime cose. Per lui, o almeno nel pensiero di lui, la duchessa si faceva venire dal suo guardaroba di Ferrara una pezza di tabi nero per farsi una zimarra da intonare al suo fastoso lutto spagnolesco: in quella stoffa leggera, sostenuta e ornata come un amoretto, nelle grandi pieghe fruscianti, la sua esilità e la sua biondezza prendevano un tono sacrificato e raro da piacere anche troppo ad uno come il Bembo. Forse, così vestita, il capo senza gioielli, egli la vedeva salutarlo dalla finestra al suo arrivo o alla sua partenza; o così, riparata dalle prime frescure, usciva con lui sul balcone a vedere la luna. Perché nemmeno la luce lunare alla quale volentieri

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amiamo attribuire i remoti brividi che hanno origine dal desiderio di comunicare con altri esseri di carne e di sangue per sentirci salvi dal terrore delle lontananze astrali, nemmeno questa luce mancò agli amori di Lucrezia. Su quel balcone che sarà ricordato poi con accenti commemorativi, il Bembo sostava e parlava d'amore, presenti e complici nell'ombra, le discrete donzelle e i discretissimi amici: amore, nutrimento dell'animo, nei suoi diversi stadi lo sguardo, il saluto, il sorriso e infine il bacio, "quel legame che è un aprir àdito alle anime che tratte dal desiderio l'una dell'altra si trasfondono ancor l'una nel corpo dell'altra". Teoria ardita: ancora più ardita se si pensa ai versi latini voluttuosissimi, e mettiamoli pure in conto della tradizione catulliana, che in quei tempi, anno più anno meno, il Bembo scriveva ad una ignota persona chiamata Lyeda:

Iunge labella: parum est, altius insere linguam

sic, ah, sic facies oscula mollicula,

Lude intus, non ore exi, pro millibus unum

basiolum da, quo se insinueni animae.

sic, ah, sic animae miscentur...

Anche qui il poeta parla di anima: una parola, si vede, che gli serviva spesso. A Lucrezia scriveva: "Bacio quella dolcissima mano che m'ha morto", "La mia anima vorrebbe venire sul labbro per far della sua nemica dolce vendetta", "Bacio quella mano di cui la più dolce non fu mai tra gli uomini baciata". Troppi baci. Da Castelnuovo di Garfagnana Alfonso scese con la corte verso Comacchio: il 7 ottobre la sua presenza è segnalata ad Ostellato. Non c'era dubbio; sotto il pretesto della passione di caccia, si voleva far sentire una vigilanza. Seguendo l'ordine secco ed espressivo delle date, vediamo, il 10 ottobre, il Bembo tornare a Venezia per Muovere di li a visitare le sue campagne nel Veneto. L'incastro delle coincidenze risulta chiaro: Ercole Strozzi, impegnato a fondo in questa storia d'amore, era troppo sottile per non capire certi avvertimenti ancora prima che si esprimessero, e per non sviare il corso dei sospetti con un cambiamento di scena. Il Bembo partì perché era necessario; la lontananza gli pareva, però, così crudele, che alla fine di ottobre era già tornato ad Ostellato e aveva riveduto la sua duchessa. Ma non era più così facile la vita ai due innamorati, e se ne accorsero prestissimo: il 2 novembre, il Bembo scrive infatti a Lucrezia da Ferrara, informandola di essere partito da Ostellato perché, essendovi la corte di don Alfonso, mancava per lui ogni vettovaglia. Sembra impossibile che dove si faceva convito a più di cento persone mancasse davvero un posto lità, par di vedere il primo segno evidente della poca

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simpatia che volontariamente Alfonso mostrava al gentiluomo troppo caro a sua moglie. La villeggiatura di Medelana durò a lungo, quell'anno, per la peste che in città faceva molte vittime: ad un certo momento Lucrezia aveva progettato di andare a Carpi, ospite di Alberto Pio amicissimo del Bembo e dello Strozzi' ed erano già pronti i bucintori, quando si ammalarono trentaquattro persone della sua corte. dilagando il contagio, i malati salirono a cinquantaquattro, e non si parlò più di muoversi. Solo a dicembre avanzato Lucrezia tornò a Ferrara: Alfonso le andò incontro e la condusse egli stesso in castello, un modo di rinchiuderla in prigione.

Cominciò la stagione dei divertimenti; ma il lutto di Lucrezia e la debole del vecchio duca impedivano balli e conviti. Lucrezia aveva ripreso le sue conversazioni con il Bembo che le aveva promesso di passare l'inverno a Ferrara, ma che, gli ultimi di dicembre, fu costretto a partire chiamato in fretta a Venezia. Fu un commiato malinconico: il poeta aprì la bibbia di Lucrezia nella camera di lei per leggervi parole che dovevano essere il loro saluto e la loro legge spirituale.Vennero parole di morte: "Obdorm * ivit cum patribus suis et sepelierunt eum in civitate David".Sotto il peso di questa profezia, si lasciarono; ma prima che il Bembo si allontanasse, Lucrezia, presa dalla commozione del distacco che precipita e definisce i sentimenti, gli fece avere un bigliettino che doveva essere un grido di Passione perché non v'erano giri di parole né "studiate fin2ioni", Con questo viatico, il Bembo partiva: ma giunto a Venezia non vi trovava più il fratello, l'amabile il giovanissimo Carlo Bembo morto già da alcuni giorni. Il poeta lo Pietro Bembo. In quella accentuata inospitale pianse con tutta la veemenza della sua natura affettuosa; di lontano, chiusa tra i rossi macigni del castello ferrarese, Lucrezia piangeva con lui, e le sue lacrime lo confortavano, uniti tutti e due nella tenera consorteria del dolore. Una lettera del marzo 1504 prova quanto realmente operasse questo conforto. Avevano detto al poeta come ella si facesse più bella (e la voce doveva venire dal compiacente Strozzi continuamente in movimento da Ferrara a Venezia in cerca di ornamenti per la duchessa) ed egli tremava per il suo mal difeso cuore. La supplicava poi di scrivergli di sua mano. "Messer Pietro mio", rispondeva Lucrezia, bisognava scusare FF che per molte buone cause non aveva potuto scrivere come sarebbe stata ansiosa di fare; ed era lei, la duchessa, che scriveva intercedendo per l'immaginaria colpevole. La scusasse il Bembo, e ricordasse che FF non aveva altro desiderio che fargli cosa grata.

Poche parole e cautissime. La stessa loro scelta fa capire quanto difficile e pericoloso fosse scriverle. Il poeta se ne contenta; felice, esclama, di avere il pensiero di lei in ogni giorno in ogni notte in ogni ora in ogni stato. Forse non esagerava nemmeno. Nel delicato spasimo che danno gli amori impossibili, egli si sentiva fiorire come una pianta avida, irrorata nelle radici sotterranee da un filo d'acqua ricco e segreto. di questa linfa nutriva la sua

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solitudine, popolata di visioni fervida di idee; e così, lontano da Lucrezia, la piena dei suoi sentimenti si raccoglieva in un frutto letterario. Era l'agosto del 1504 quando gli Asolani, ragionamenti e versi d'amore, lavorati limati rielaborati, uscivano dalle mani di Bembo per arrivare a quelle di Lucrezia alla quale erano dedicati. Nella tristezza di quell'inverno Lucrezia suscitava intorno a sé un lieve tepore erotico trattando nozze per le sue ragazze, e iniziando la sua politica matrimoniale che doveva servirle non solo a trattenere con sé le sue donne, ma a penetrare con il loro aiuto nelle principali famiglie ferraresi ad acquistarsi simpatie ed alleanze. Prima era stata Jeronima a sposare Ludovico Bonaciolo, medico e umanista, una persona influente, non troppo giovane, e come vedovo già esperto della vita coniugale. La seconda fu Nicola; e sposò Bigo dei Trotti di nobile famiglia ferrarese, un ragazzaccio scapato e ardente che s'accordava benissimo con lei. Le feste nuziali erano intime, forse per questo più calde e gravoli, tra i familiari stretti di Lucrezia: c'erano, oltre gli sposi, e le donne, lo Strozzi e il Tebaldeo, Il Bembo sentiva nostalgia di queste riunioni tanto simili alle altre di un anno prima; e per essere in qualche modo presente, mandò, per le nozze appunto di Nicola, i suoi Asolani già in parte conosciuti da Lucrezia fin dal luglio 1503 quando Ludovico Ariosto aveva scritto al Bembo che ormai il suo lavoro non aveva più bisogno di correre il mondo, glorioso com'era in così alte mani. (Anche l'Ariosto aveva seguito per un momento la moda cortigiana di adulare Lucrezia.)

La lettera dedicatoria degli Asolani è famosa. Le lodi della duchessa, pur attraverso il gonfio periodare, hanno lampi di interpretazione psicologica: perché, se il virtuosismo di un gioco di concetti appare nella frase che Lucrezia, superando tutte le altre donne in bellezza fisica, superi poi se stessa nella bellezza dell'animo, suona invece giusta l'affermazione che ella ami "assai più piacere a se stessa dentro che agli altri fuori". Lo spirito di Lucrezia largo o limitato che fosse, aveva davvero questa chiusura, questa compiutezza in se stesso; e il Bembo era stato solo a conoscerlo. Mandandole il suo libro egli era certo di arrivarle, e l'atmosfera nuziale gli avrebbe giovato, con un messaggio d'amore che intendesse a fondo lei sola, ricordando e ravvivando mille cose segrete. Mentre ella ascoltava commentare e discutere ad una ad una le infinite questioni amorose che il Tebaldeo ampliava retoricamente e lo Strozzi quasi disintegrava in un'analisi minuta e brillante, la voce del veneziano doveva venirle a toccare l'animo. Lucrezia sospirava? Felici Asolani. Ventisei giorni di pontificato erano stati troppi per Pio III. Egli li aveva accettati e vissuti bravamente, e ne era morto, stremato, il 18 ottobre 1503, riaprendo alle contese la successione del papato. Parve per un momento che la fortuna di Cesare Borgia risorgesse: nella calma temporanea di Roma Orsini e Savelli avevano ritirato le loro truppe lasciando libero il nuovo conclave Cesare uscì da Castel Sant'Angelo ed andò in Vaticano da giuliano della Rovere, a sentirsi offrire, in

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cambio dei voti dei cardinali spagnoli ancora legati al nome dei Borgia, la nomina a gonfaloniere della Chiesa e il ritorno del favore antico. Per la prima volta in vita sua, Cesare si fidò, ed acconsentì; e dopo un attivissimo traffico di trattative, il 31 ottobre 1503 fu eletto Papa Giuliano della Rovere col nome di Giulio II: il Papa di Michelangelo. Se Cesare avesse conservato l'acutezza dei giorni buoni avrebbe capito che la sua autorità era caduta così in basso che nemmeno un Papa avrebbe potuto rialzarla: abbandonato dai due re di Francia e di Spagna, non aveva più soldati né amici né credito di potenti. Una cosa sola poteva Giulio II, ed era lasciarlo andare il più lontano possibile, ad un destino qualsiasi, esigendo però, prima, che gli fossero consegnate le fortezze di Romagna ancora in mano ai soldati valentineschi e sulle quali puntavano decisi i veneziani. E poiché Cesare già arrivato ad Ostia per imbarcarsi, rifiutò di dare l'ordine della resa alle sue fortezze romagnole, fu fatto prigioniero e chiuso nella rocca roveresca, dove dagli alti torrioni cercava di illudere la sua smania e la sua incertezza sparando verso il mare grandi e disperati colpi d'artiglieria. Condotto a Roma, quando si seppe davvero prigioniero, e se ne sentì lo spirito sbandito e prono, il Valentino pianse. Avveniva il crollo: l'anima che si apriva d'improvviso a tutto quello che sempre le era stato proibito e allontanato, disperazione, pianto, dolore, si disfaceva tutta senza bellezza ma con verità nel giorno forse più umano di quella sua disumana vita. Falliva il superuomo, ma non era vero che fallisse anche l'uomo, e se ne accorgevano i suoi carcerieri che lo avevano messo nella torre Borgia, scegliendogli proprio la stanza dove era stato assassinato il duca di Bisceglie; lo videro accomodarvisi onorevolmente, dormire pacato, tenendo la spada snudata al capezzale, vivere, insomma, guardato dai suoi tre servitori, fornito di buoni cibi ordinati da lui, ricevendo coloro che lo andavano a visitare contenti di poter godere lo spettacolo, tanto grato ai deboli e agli inetti, di un potente caduto in basso. giocava volentieri con i suoi guardiani, gente del Papa, mettendo nei passatempi l'impegno del buon giocatore, forse di proposito, ma con tanta naturalezza da far restare senza fiato chi lo guardava. E ad uno che ebbe l'ingenuità di manifestargli la sua meraviglia per tanta indifferenza, Cesare, che ce l'aveva tirato teneva pronta la risposta, replicò: "Sto così per memoria di tanti altri che ho fatto stare assai di peggior voglia" (colui che parlava aveva avuto la fidanzata rapitagli dalle furie guerresche e amorose del Valentino). Il Papa, alla resistenza del suo prigioniero, infuriava; e all'eco di quella collera, il cardinale Remolino e il cardinale Ludovico Borgia scapparono a Napoli, invano richiamati da Giulio II al quale facevano dire di avere vergogna della loro libertà mentre il figlio di Papa Alessandro era chiuso in prigionia. In quei giorni si combatteva sul Garigliano la grande battaglia fra spagnoli e francesi, che doveva dare alla Spagna il predominio assoluto sull'Italia meridionale, cacciar via i francesi, e rendere celeberrimo il nome già illustre di Consalvo di Còrdova. Cesare, saputo questo, e ricordatosi dell'amicizia personale tra Consalvo e la sua casa, pensò che la salvezza era certa e vicina. Fece consegnare le fortezze

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romagnole, ebbe permesso e salvacondotto per Napoli, e fu liberato. Narrano i relatori che, appena fu in spazio aperto, si fece dare un cavallo, e si mise a giostrare e volteggiare selvaggiamente. "signor duca, sempre voi foste animoso" gli dicevano: ed egli superbo: "Quanto più sono in avversità tanto più mi fortifico di animo". L'aura umanista del rinascimento conservava ad un caduto il tono e il linguaggio di Plutarco. Da Ostia, il Valentino s'imbarcava per Napoli verso la fine del 1504. Scegliere Napoli fu l'ultimo e il più grave errore del Valentino. C'erano là tutte le donne d'Aragona, la dinastia sacrificata dai Borgia: la vecchia regina Giovanna vedova di Alfonso II, la giovane regina Giovanna vedova di re Ferrandino, l'ex regina d'Ungheria Beatrice, contro la quale Alessandro VI aveva pronunciato il divorzio da re Ladislao, Isabella d'Aragona Sforza ex duchessa di Milano. Oltre ad essere aragonesi e avere ciascuna le sue ragioni personali contro i Borgia, erano tutte parenti zie o cugine dell'assassinato duca di Bisceglie, e se ne ricordavano. C'erano anche i parenti del duca di Gravina, Francesco Orsini, molta gente orsinesca, e i familiari del gentiluomo Jeronimo Mancioni al quale Cesare aveva fatto tagliare lingua e mano per il peccato letterario di una composizione "piacevole e disonesta" sui fatti della presa di Faenza. E c'era, infine, Sancia. Sancia, tornata da civita Castellana, appena visto che catene e sorveglianza si allentavano intorno a lei per forza di cose, aveva dato uno strattone, si era resa libera, e accettando l'amicizia e la protezione di Prospero Colonna, s'era condotta con lui nella roccaforte colonnese di Marino. Pare che tra la figlia di re Alfonso e il suo protettore sorgesse subito un sentimento più vivo che non l'amicizia, cosa abbastanza probabile date le abitudini infiammate del gentiluomo romano e i costumi della principessa. Un'avventura amorosa le stava bene dopo quasi un anno di prigionia, di rancori e forse di castità: era il suo modo di sentirsi viva. E poiché il Colonna doveva andare a conferire con Consalvo di Còrdova per mettersi al servizio del re di Spagna, gli fu facile offrire a Sancia l'occasione di farla tornare in patria in sua compagnia, e arrivò con lei a Napoli nell'ottobre. ritrovare la sua casa, il suo palazzo fornito presso Castel Nuovo (il re di Spagna aveva lasciato agli aragonesi di Napoli suoi parenti i loro beni privati), tutte le piccole corti di quelle regine e duchesse spodestate e pur fiere dei loro titoli perduti, fu per Sancia rivivere. rivivere però non era più facile per lei che s'era tanto provata in disfide e ribellioni contro i Borgia. Tradita, doveva sentirsi, ora, non meno di quel che s'era sentita un giorno nelle sue speranze, dal crollo di coloro che l'avevano accollata alle loro voglie d'ambizione e d'amore. Con chi misurarsi, chi sfidare, come tenere desta quella palpitazione tonica e vendicativa della quale era fino allora vissuta? Non c'era che macerarsi nel pensiero dei torti subiti e farsi bella di passione oltraggiata. E bellissima apparve infatti a Consalvo di Còrdova quando, dopo la gran vittoria del Garigliano, egli fece l'entrata trionfale a Napoli il 14 febbraio 1504.

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Tutti gli ambasciatori notarono che il Gran Capitano andò a fare visita alla principessa e si trattenne con lei fino a notte. Non erano solo complimenti che passavano tra i due: si dovette parlare in quel colloquio dei Borgia, e Sancia che sapeva la verità su troppe cose, sulla morte del duca di Gandia, sull'assassinio del fratello Alfonso, su affari politici d'ogni sorta, metterla in Castel Sant'Angelo non era servito che a farla riandare con la mente, per riordinarli, ai particolari del suo terribile racconto dovette parlare fin troppo, determinando un giudizio che riuscì fatale al Valentino. Il mattino seguente, una domenica, Consalvo di Còrdova, trovata Saricia a messa a San Sebastiano, le si poneva a fianco e l'accompagnava a piedi passeggiando con gran galanteria fino al suo palazzo. E quando, poco tempo dopo, il Gran Capitano si mise a letto per una lieve malattia, a Sancia sola fu permessa visita e cura del malato, e si notò che l'amicizia tra i due stava salendo di grado. Che cosa ne pensasse Jofré che in quest'epoca troviamo a Napoli anche lui, non si sa: si sa solo che Sancia rifiutava in ogni modo di vederlo e di riconoscerlo come marito, benché lo stesso Consalvo, con quella simpatia che somiglia molto ad una riparazione morale che certi uomini fortunati si sentono di dovere ai mariti delle donne che amano, si facesse cavalcare a fianco per le vie della città l'ingenuo ed entusiasta Jofré. Dei Borgia, Sancia non ne poteva più, e aveva deciso di sradicarli, se le fosse stato possibile, dalla sua vita, In quei giorni si decideva anche una sorte che teneva inquieta Lucrezia: quella del piccolo Rodrigo di Bisceglie. Non è vero, e non poteva essere vero, che Lucrezia, da Ferrara, curasse poco la sorte di suo figlio. Tra lei e il tutore del duchetto, un accordo almeno sulle generali, per il quale, in caso di pericolo, il bambino avrebbe dovuto essere mandato a Ferrara ci doveva essere, perché certo non veniva dal nulla il progetto che ci rivelano due preziose lettere inedite dell'archivio estense di Modena. Sono corrispondenze dell'ambasciatore Beltrando Costabili da Roma al duca di Ferrara, e la prima di esse, datata l'8 settembre 1503, dice: "Il signore Rodorico e li altri putini, cum la sua famiglia e di maschi e di femine, si ritrovano in Castel Sant'Angelo. E, avendo avuto il S.re Don Rodorico la quartana, alcuni di, secondo intesi da quello che lo governa, è guarito. Il quale, parlò ieri mattina in S.to Pietro con me longamente. E dissemi che fanno pensiero, acconcie che siano le strade, di portare Don Rodorico a Ferrara". Aspettavano dunque che le strade fossero libere dalle masnade che vi s'appostavano a predare i viaggiatoti nei periodi d'interregno tra un Papa e l'altro: e il progetto concertato fra il tutore e l'aio del duchetto pare, dal tono di questa corrispondenza, quasi ovvio: tanto, che il giorno dopo, 9 settembre, ecco il Costabili riprendere l'argomento:

"Ho parlato questa mattina con quello che governa il S.re Don Rodorico e li altri putini. Il quale mi ha detto che hanno bonissima ciera, e che sono in castello di commissione del Rev.mo Card.le di Cosenza loro tutore: e che il S.re don Rodorico non è ancora libero de la quartana ma che sta meglio

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assai: e che, creato il Papa, lo portano a Ferrara: e credo [che] lui manderà lettere per questa cavalcata." di queste lettere non si vide però nessun effetto, sia quando fu nominato Papa Pio III, sia più tardi, liberate e riordinate le strade di comunicazione. Invece, non era passato un mese, nei primissimi giorni dell'ottobre, che Lucrezia informava il suocero duca di Ferrara di una decisione che ella e il cardinale di Cosenza stavano prendendo appunto per Rodrigo: vendere cioè tutti i suoi beni in Italia e dargli stato in Ispagna mandandolo colà ad educarsi, e lasciando poi a lui, fatto grande, la scelta fra il soggiorno d'Italia o di Spagna. Ercole rispondeva lodando assai questa decisione con molti argomenti fin troppo prudenti e ragionati che Lucrezia poteva leggersi sorridendo amaramente: perché, se l'andata a Ferrara di Rodrigo, non era più avvenuta, qualche cosa da parte del duca Ercole doveva esserci stato, visto come egli trovava di sua soddisfazione che fosse mandato a stare lontano. Non voleva impicciarsi di questioni borgiane più di quanto non gli fosse indispensabile, e cioè quasi per niente; e bisognava considerare che Lucrezia non aveva ancora figli dal marito estense e che questo aragonese avrebbe potuto anche portare, un giorno, se fosse risultato della stessa grana dei Borgia, scompigli gravissimi nella successione ferrarese. Che stesse lontano, dunque.

Ma se il duchetto non andò allora a Ferrara, restò, contrariamente alle decisioni troppo savie, in Italia: è probabile che seguisse anche lui la corrente che portò i Borgia dopo il 1503 verso Napoli, dove, come figlio di Alfonso di Bisceglie, sarà stato accolto e carezzato amorosamente dalle regali donne aragonesi sue cugine zie e prozie, sotto la protezione diretta della più spiritata, Sancia d'Aragona. E a Napoli, si dovette formare il progetto di farlo educare all'aragonese, sotto la guida di quella ex duchessa di Milano, Isabella d'Aragona, che nel suo ducato di Bari teneva reputatissima corte dove si accoglievano volentieri fanciulli di famiglie nobili mandati dai loro padri ad educarsi alle armi e alla vita di corte. Non ci volle molto perché il duchetto fosse confidato alla vitalissima Isabella e certo col grato consenso di Lucrezia alla quale non pareva vero che suo figlio non andasse troppo lontano e che a lui restasse, oltre il titolo, anche il dominio della terra che era stata di suo padre. Il Valentino non doveva reggere molto a Napoli. si disse che di là stesse tramando per la riconquista della Romagna dove aveva ancora molti partigiani; ma non era più l'uomo di un tempo quando agiva prima di parlare: cominciava a sentire l'odio intorno a sé, aveva paura, tanto che, essendoglisi presentati alcuni soldati, memori dei suoi buoni trattamenti e delle buone paghe, a pregarlo di prenderli in servizio, credette ad un'imboscata e non li volle nemmeno ascoltare. E chissà che non avesse ragione lui. Stavano succedendo, in quel tempo, cose grosse in Ispagna. Alla corte di Ferdinando il Cattolico era comparsa la nera silenziosa figura della duchessa di Gandia a domandare finalmente giustizia per l'uccisione del marito. Re e regina di Spagna avevano sempre odiato

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Alessandro VI e quella sua politica francese che essi chiamavano addirittura tradimento, e della quale ritenevano il Valentino vero e maggiore responsabile: non costò loro molto, dunque, farsi paladini della duchessa di Gandia, preparare le vendette di tanta gente, e mandare a Consalvo di Còrdova l'ordine di imprigionare e imbarcare per la Spagna il figlio di Alessandro VI. ricevuto quest'ordine, Consalvo ebbe da vincere una gran battaglia su se stesso: aveva promesso con parola d'onore al Valentino la sua libertà, e venire meno alla sua parola gli pareva un gran mancamento non tanto verso il Borgia che anch'egli stimava colpevole, quanto verso la purità della propria coscienza cavalleresca: ancora anni dopo, quando il Gran Capitano riandava col pensiero alla sua lunga vita d'avventure, diceva di essere stato obbligato tre volte in tutta la sua esistenza a mancare di parola, e di patirne sempre affanno; ed una volta era stato per il Valentino. Ma al re bisognava obbedire, e Consalvo obbedì:

di notte, mandava a Cesare l'esortazione di venirsene subito in Castel dell'Ovo perché c'erano in giro forti bande capitanate dai parenti del gentiluomo dalla lingua mozza, che volevano assaltare la sua casa. Il Valentino, già altra volta salvato nello stesso modo, si fidò della specchiata parola di Consalvo; credette ancora, e andò da sé a consegnarsi in Prigione. Nell'agosto del 1504, colui che avrebbe dovuto essere il re d'Italia s'imbarcava su nave spagnola da quel golfo di Napoli dove la prima volta, morto appena il duca di Gandia, avevano gonfiato le vele i suoi grandi sogni d'ambizioso. Veleggiava ora la nave che lo portava nella sua terra d'origine, verso il carcere; ed era con lui Prospero Colonna, il quale superava l'imbarazzo di quella compagnia con una certa grandezza d'animo, fingendo cioè di trattare il prigioniero come uguale e libero; e il 16 settembre, il Valentino, non credendo egli stesso agli avvenimenti, sbarcava nel porto di Leon dal quale Callisto III era partito per la prima volta alla conquista del trono pontificio. Chiuso nella fortezza di Chinchilla si diceva che il re gli volesse fare processo pubblico e giustiziarlo, o che lo tenesse in vita solo per impaurire Giulio II. E appena il Valentino fu lontano e sotto chiave si cominciò subito a dimenticarlo. La moglie, Carlotta d'Albret, aveva speso per lui pochissime parole alla corte del re di Francia sapendo già, e forse non desiderando altro, di non essere ascoltata. già prima della caduta dei Borgia e proprio in quell'estate del 1503 si era rifiutata, non più alle esortazioni ma alle imposizioni del Papa che la richiamava in Italia. Alessandro VI, deciso a vincerla su di lei, le aveva mandato ad inseguirla fino in "Avernois, in uno loco detto Chapelle d'Ageron" un suo uomo di fiducia, Artes, con un breve di questa specie, che se ella non fosse venuta entro due mesi in Romagna, la scomunicava "de excomuni cationi maiori". Carlotta fece la malata e resisté: sopravvenuta poi la morte del pontefice, figurarsi se pensasse a muoversi ora che le sorti del Valentino stavano fra quei marosi. Dalla Francia ella non fece che minimi tentativi per migliorare le condizioni del marito. Col silenzio

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voleva che tutti lo dimenticassero come ella aveva staccata e gettata via da sé la sua memoria.

Sola, si adoperava con tenacia e persistenza senza mai stanchezze, Lucrezia. si era parlato a più riprese nei primi mesi del pontificato di Giulio II di una sistemazione del Valentino a Ferrara: il Papa ne aveva discusso con l'ambasciatore Costabili affermando che Cesare lo avrebbe molto desiderato, ma l'ambasciatore gli rispondeva però aperto e chiaro di non credere affatto che il duca Ercole fosse disposto a caricarsi di quel peso; probabilmente la risposta che Giulio II si aspettava. Sempre per sapere di precisò la Posizione del Valentino, Giulio II aveva scritto al re di Francia domandandogli se lo avrebbe ammesso a vivere presso di lui nei suoi stati; e Luigi XII rispondeva una lettera cortese, acconsentendo, e dichiarandosi disposto ad accoglierlo, anche diceva, per soddisfare le vivissime insistenze della duchessa di Ferrara; ma questa lettera doveva essere destinata soltanto ad ingannare il Valentino al quale si sarebbe data da leggere, perché, nello stesso tempo, il re mandava un'altra lettera, riservata, con la recisa dichiarazione che mai e per nessuna ragione al mondo avrebbe acconsentito che il Borgia prendesse dimora in Francia; aveva anzi scritto al duca di Ferrara di non occuparsi più nemmeno lui di quel bastardo di prete. S'immagina se il consiglio cadeva bene; ma questa lettera che prova la malafede di Luigi XII, prova anche quanto fossero vive ardenti e trepidanti le premure di Lucrezia: che restasse giocata e delusa era il suo destino. Se Ercole d'Este non aveva voluto a Ferrara né il Valentino né il piccolo duca di Bisceglie aveva avuto le sue ragioni: senza contare i disordini e gli scompigli che, Cesare Borgia specialmente, avrebbe portato con sé, il duca di Ferrara temeva le complicazioni e le rivalità e quindi i partiti avversi che avrebbero potuto sorgere in una famiglia come quella estense dove di teste singolari ce n'erano fin troppe. Avvicinandosi ai suoi estremi anni, Ercole si guardava intorno con la coscienza di non aver preveduto i tempi e di non capirli: si affidava a dio; e intanto, si studiava di indovinare quale avvenire sarebbe toccato allo stato nelle mani dell'erede, quell'Alfonso amatore di artiglierie, che pareva, a lui, paladino della neutralità d'oro di Ferrara, un cercatore di guerra e di rovina. Alfonso viaggiava molto: nei viaggi le cognizioni pratiche e terrestri, la forma delle città e delle campagne, l'architettura delle fortezze e dei porti fermavano la sua riflessione e Portavano a maturazione le sue idee senza sbandamenti, su uno sfondo stabile di principi. Proprio per questi principi egli dava già per risolti una quantità di problemi, quello della dinastia, naturalmente legittima ed ereditaria, quello della fedeltà e dell'amicizia tra fratelli e anche quello delle relazioni coniugali. Tutte le cose parendogli sul loro piano, egli si occupava di governo il meno possibile, perché sentiva razionalmente che finché governava suo padre a lui toccava tacere: fare il principe ereditario in politica non lo interessava affatto, né questo vuol dire che non avesse le sue convinzioni, essendo anzi notissima a

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Ferrara la disposizione amichevole di Alfonso verso Venezia, opposta all'accanita inimicizia di Ercole. Ma aspettando, e senza nessuna impazienza né avidità, il suo tempo, Alfonso si occupava solo della sua fonderia, dei suoi bei cannoni, dei suoi pepati spassi amorosi, del suo tornio al quale lavorava per ore, e della fabbricazione di certi vasi di maiolica che, quando gli riuscivano bene, gli davano il piacere di una buona giornata artigiana. Queste inclinazioni popolaresche, che i cortigiani sprezzavano, Ercole non si sentiva di approvarle nemmeno lui; ma era peggio se il duca volgeva il pensiero agli altri suoi figli. Il cardinale Ippolito, egli davvero, non c'era voce, quella paterna compresa, che potesse raggiungerlo: l'educazione ecclesiastica ed umanistica, sovrapposta ad un'indole di guerriero e di superbo, gli aveva dato un aspetto elegantissimo e freddo, un sorriso che tagliava netto ogni confidenza e che lo faceva subito distante e temibile. Governare era una necessità della sua natura, ma una necessità sdegnosa e personale che non aveva bisogno di essere riconosciuta: fino allora l'aveva, anzi, nascosta sotto una vita smaniosa e sregolata. Per capricci focosi il cardinale d'Este non lasciava indietro nessuno dei suoi fratelli; aveva voglia Ercole ad ammonirlo malinconicamente perché usasse meno le armi e più il breviario: deposta la sottana, rivestito di una corazza di cuoio, Ippolito usciva armato con i suoi cortigiani, gli uomini più facinorosi del ducato, come sospinto da una furia di distruzione, ammazzando tutta la selvaggina che gli veniva fatto di scovare, e magari, se gli mancava il bersaglio, oche e galline degli agricoltori. Alle lettere del padre rispondeva ora con unzione ora con rabbia, sempre con insolenza; e tra i suoi familiari che seguivano le sue inclinazioni, e quelli degli altri, estensi, avvenivano continui disordini. Una sera il cardinale stesso entrava di sorpresa in casa di un capitano dei balestrieri di don Alfonso, e lo faceva bastonare sotto i suoi occhi: lo avrebbe finito se il disgraziato non gli avesse per pietà chiesto la vita. Ai tempestosi e continui segni di discordie future, il partito moderato di corte faceva pronostici paurosi: si borbottava che fra tutte quelle agitazioni ed inimicizie, quando fosse mancato quel povero vecchio del duca, chissà che sarebbe successo.

Gli altri due fratelli, don Ferrante e don Giulio, del minore, don Sigismondo, nessuno parlava mai stavano a complicare le cose, insofferenti anche loro, sebbene con meno protervia e assai meno ingegno del cardinale, ma appunto per questo, forse, guardati con benevolenza dai cortigiani che si fidavano più di chi non mostrava segni di voler rifare il mondo. Don Giulio specialmente, il bastardo di Isabella Arduino, si valeva del suo fascino affettuoso e persuasivo di meridionale, per agire facilmente su chi poteva, a cominciare da Isabella sempre indulgente verso il fratellastro: sicché c'era in corte un gruppo di gente dabbene che s'ingannava molto sulle sue qualità e che supponendo in lui davvero la stoffa di un futuro buon principe si augurava sinceramente di vederlo "in altra veste che di prete", proprio il

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contrario delle illuminate intenzioni di Ercole d'Este; arrivavano a giudicarlo perfino "virtuoso saggio amorevole", tre aggettivi dei quali non gliene calzava uno. Bello com'era, appassionato di bel vestire e di bel vivere, don Giulio sapeva il potere dei suoi occhi, gli occhi morati della madre napoletana, sempre umidi di linfa voluttuosa: "Io ero bellissima maschera di sorta che non è stata nessuna quest'anno né manco credo sarà per l'avvenire". "Tutte le donne avevano in grazia ch'io volessi degnarmi di ballar con esse." "La signora duchessa [Lucrezia mai ballò se non a l'ultimo ballo della torcia, ch'io la feci ballare." Io bellissimo, io irresistibile, io unico: ecco il linguaggio di don Giulio. Un Narciso di corte; e in queste parole dovremo vedere anche il modo gonfio e burlesco di far vanterie che usano talvolta i fratelli tra di loro. Don Giulio osava scrivere ad Ippolito di esser "calcagno allievo figlio e fratello di buffoni" con uno scherzare da rissa che non risparmiava nemmeno il duca Ercole, e che dava un saggio di che genere fosse il parlare degli Estensi quando erano in confidenza. Don Ferrante gareggiava con il fratello, appena meno sbracato di lui, e corteggiava tutte le donne che si trovava "vicine, fra le quali c'erano alcune che gli rispondevano sullo stesso tono, come una ragazza di Isabella d'Este, la Brognina, che scrivendogli un"a lettera cominciava: "Consorte mio caro bello grasso e bianco, mia cugna", e si firmava "la vostra concubina". Politicamente i due fratelli erano nulli, senza rendite né credito: don Giulio visto In Posizione di difesa contro la volontà del padre che lo voleva ecclesiastico, don Ferrante esercitando nominalmente l'arte militare, e sempre in cerca di buone "condotte" e di stipendi: scontentissimi, si capisce.

Le voci che correvano in Italia sulla successione ferrarese, che si riteneva prossima, erano molte e varie. Appena eletto Papa Giulio II, don Ferrante, suo figlioccio, fu subito mandato a Roma per rallegrarsi e per fargli omaggio: da un padrino di quel genere, un giovane di qualche capacità avrebbe cavato qualche cosa, ma don Ferrante non riportò che buone parole e nemmeno una condotta d'armi. si disse un momento che il Papa gli avrebbe fatto sposare la propria figlia, l'ardita Felice della Rovere, a patto che il duca Ercolle, desse al figlio le città di Modena e Reggio: "di tutto questo don Alfonso non sa nulla", riporta il Sanudo, al quale premeva di mettere in rilievo ogni punto oscuro della politica ferrarese. più tardi, non si parlava più di don Ferrante ma addirittura di Ippolito d'Este che avrebbe deposto la porpora e sposato lui Felice della Rovere, dando così la dimostrazione che gli Estensi trovavano fatte a loro modo le figlie dei papi. si diceva, anche, che Giulio II avrebbe passato l'investitura del ducato di Ferrara meglio ad Ippolito che ad Alfonso, conoscendo troppo bene l'amicizia del primogenito di Ercole per i veneziani: erano voci vaghe, importanti per mostrare quanto credito avessero le notizie dei malintesi estensi. A questo punto stavano le cose, quando alla fine del 1504 Ercole d'Este ammalò gravemente, e si capì che la sua vita declinava. Ma, spediti immediatamente

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messi a don Alfonso che viaggiava in Inghilterra, si videro, invece che tanto temuti e vaticinati segni di dispersione, segni chiarissimi di solidarietà familiare. Subito i grandi nobili, dignitari del ducato e il cardinale Ippolito si andavano a offrire al comando di Lucrezia "in caso che il duca mancasse". L'assicuravano tutti che, se Alfonso non fosse arrivato in tempo prima della morte del padre, non aveva a temere di nulla. bisogna vedere in questo primo at oliti di Ippolito una maturata deliberazione: il cardinale d'Este aveva evidentemente pesate le proprie probabilità di successione, le aveva trovate leggere, e s'era deciso: avrebbe governato sul ducato governando sul nuovo duca. Ercole d'Este moriva: indugiando sul valore delle note e delle pause, egli si allontanava dall'esistenza persuaso e consolato dalla musica, al suono del clavicembalo mosso da Vincenzo Modenese: ascoltava la melodia lineare e piena delle composizioni cinquecentesche battendo il tempo con la sua mano aristocratica; e tutto il suo spirito si distendeva in quel discorso musicale che gli rendeva più abbandonato il trapasso. La sua fine fu calma: parlò della figlia Isabella (a Ferrara tutti notarono che la marchesa di Mantova aveva trovato abbastanza scuse per non venire al capezzale del padre), guardò vicino a sé l'erede Alfonso che era arrivato e il gruppo degli Estensi vigorosi che stavano li a continuarlo e che parevano in pace. E fu dall'altra parte. Immediatamente, mentre ancora i figli piegavano sotto l'angoscia del distacco, e sentivano caduta d'un tratto, col padre, la naturale barriera che sembrava averli garantiti dagli estremi mali, suonarono le campane di Ferrara convocando il popolo e convocando i Savi al loro ufficio per tenere consiglio sull'elezione del nuovo duca. La ragione di stato voleva che prima ancora del lutto e del compianto per il signore morto vi fosse la certezza che il potere continuava in mano di un signore giovane e vivo: nel caso di Alfonso. si è accennato alle dicerie e alle aspettazioni intorno alla Successione ferrarese. Era necessario, dunque, che tutto apparisse ordinato secondo le regole.

Così, Alfonso, lasciato il corpo del padre alle preghiere di monaci e frati, andò nel suo appartamento, e diede gli ordini: un andare rapido e festoso, benché in sordina, un aprirsi di guardaroba, un riordinare i più ricchi gioielli i Pennacchi i ricami le bardature, un andare e venire di cerimonieri di gentiluomini di donne di staffieri di paggi animava tutto il castello e il palazzo ducale. Alfonso, ammantato di bianco impellicciato di vaio e con una berretta bianca alla francese, ricevette nella camera detta della Stufa Grande il giudice dei Savi e gran moltitudine di gentiluomini. Vi fu la consegna della spada e della bacchetta d'oro, un discorso, e scoppiarono le acclamazioni. Poi, il nuovo duca tra il fratello cardinale fiammante di porpora e il vicedomino di Venezia, seguito da don Ferrante e don Giulio in velluto morello, scese a ricevere la consacrazione popo. lare. Era tempo di gran freddo. Per le strade la neve era altissima, una gelata nordica con le siepi di neve bianche e lucenti ai lati delle strade, e quel senso sospeso di tutte le

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cose ad aspettare un segno da un mondo scorrevole su piani invisibili sopra di noi. Ma nessuno dei ferraresi mancò ad applaudire il nuovo duca, poiché il popolo dava sinceramente il suo tributo alla dinastia. Quando Alfonso, uscì a cavallo per la città, trovò la neve spalata, le strade piene e festose, tutti i sudditi pronti, il calore dell'entusiasmo sensibile nell'aria. Alfonso cavalcava: il suo viso era fermo e chiaro, le spalle robuste, lento il volgere degli occhi, sobrio il saluto; raccoglieva in silenzio sereno applausi e grida, guardando diritto in viso i suoi sudditi Entrò in duomo, dove Tito Vespasiano Strozzi, solenne nella sua onoranda vecchiaia, lo incoronò duca, appena detta la messa grande. E sulle primissime ore del pomeriggio,, consacrato dall'approvazione del popolo e dalla sanzione divina, usciva dal duomo, appariva sotto il fiorito portale romanico tra i due leoni che reggono le colonne dell'arco mostrandosi alla folla che si riscaldava spirito e sangue in grandi acclamazioni di giubilo.

Lucrezia, dal balcone del palazzo di fronte al duomo, aveva assistito alla cavalcata, apparendo nell'aria nevosa in una veste fatata, una gran zimarra di amoerro bianco che ripeteva il bianco della neve ma esaltandolo con un ricamo magnifico, raggiato d'oro: la fodera d'ermellino candidissimo era fatta per condurre dolcemente la rigidezza del tessuto alla forma femminile del corpo, e risultava di una delicata superbia sull'abito di broccato cremisi e oro, visibile dalle maniche larghe e dall'apertura della zimarra: gioielli le splendevano sui capelli disciolti, sulla fronte, sul petto, ai polsi, alle dita, al collo. La cerimonia era stata solenne anche per lei: già dal primo mattino erano andate a salutarla in camera le principali dame nobili ferraresi condotte da una giovane gentildonna, Ginevra Rangoni da Correggio; gli inchini, le parole festevoli e cortesi, gli auguri, gli atti d'ossequio erano stati molti e ripetuti. Poi, a capo del gruppo donnesco, e a lato del vescovo di Adria, Niccolò Maria d'Este, Lucrezia non dimenticava mai di appoggiarsi alla dignità della religione ella aveva assistito dal poggiolo al trionfo del nuovo duca ed era poi discesa fino alla porta del palazzo ducale; là, incontrato il marito, si era chinata per baciargli la mano in segno di sudditanza, mentre egli, dopo averla sollevata e baciata, l'aveva presa per mano ed era andato con lei a tenere circolo presso il camino acceso. Vi furono amnistia, ricevimento, convito, ventiquattro ore di festa; e il giorno dopo, deposti i vestiti colorati, si presero i panni di lutto e si pensò ai funerali del vecchio duca che si composero in ordine rituale, solennemente. Il cardinale Ippolito si mostrava a fianco del fratello in accordo e in pace, seguito per il momento dagli altri fratelli: pareva che le bufere intraviste si fossero disciolte in bonaccia e, a dispetto di tutte le previsioni diplomatiche e psicologiche, il regno di Alfonso, cominciato senza scosse, si avviasse verso un'epoca felice. A Lucrezia, l'avventura di essere al potere, tale da esaltarla o da frantumarla, non portava aiuto per risolvere i suoi problemi sentimentali: aveva avuto gli auguri e le congratulazioni del Bembo, né avrebbero potuto

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mancarle; ma che stava accadendo della sua storia d'amore? In quel 1504, il Bembo non era andato a Ferrara, trattenuto a Venezia dalle cure familiari, da "maledette Catene" di affari, di negozi politici, e forse anche da semplici ragioni di prudenza. Ma con Lucrezia corrispondeva Per mezzo di lettere, del fidatissimo Ercole Strozzi e del maggiordomo di lei, probabilmente quel Lorenzo Lanni che l'aveva seguita da Roma, con il quale il Bembo diceva di avere tanti "dolci ragionamenti" da essere "per la venuta sua tutto ricreato". Ella aveva progettato di andare a Venezia, prima in quaresima, e poi per l'Ascensione, ma pare Che non le riuscisse di muoversi da Ferrara.

Verso l'ottobre Lucrezia stava a Comacchio, dove forse era andata per ritrovare nell'azzurro paesaggio lagunare più vivo e pungente il ricordo del suo poeta, o per incontrare il Bembo stesso: ed egli si era già messo in viaggio per andare a visitarla o nella villa di Ostellato, oppure in una villa ancora più a nord, a Recano, quando era venuta la notizia dell'aggravamento improvviso del duca Ercole: dato il caso, non avrebbe potuto farle "riverenza riposatamente"; senza contare che, mancando il vecchio duca, la posizione del Bembo a Ferrara non era più così sicura. Con Lucrezia continuarono dunque a scriversi in una corrispondenza che non doveva essere fittissima, ma tenera e struggente si per tutti e due. di queste lettere smarrite o distrutte una sola è arrivata fino a noi: non è indirizzata a Lucrezia, ma ad una "Madonna N", certo la Nicola sposata al Trotti alla quale doveva essere agevole ricevere lettere e passarle senza censure alla duchessa. E la lettera d'amore più espressiva, la meno concettosa, fra quelle mandate dal veneziano alla castellana di Ferrara; ed è la più bella: "Vi ricordo che io niuna cosa penso miro onoro se non voi, e s'io potessi morto volarvi intorno con lo spirito, non vorrei più vivere". Né le sventure né le ingiurie della fortuna conteranno più per lui se saprà di essere veramente amato da lei suo "porto e riposo dolcissimo". Le manda un "agnus dei" che ha tenuto a lungo sul petto: lo porti ella di notte, al segreto, così che "quel caro albergo del vostro prezioso cuore sia almeno tocco da quel cerchio che lungamente ha tocco l'albergo del mio". Non è questo, come vorrebbe sembrare, un dono platonico, ma anzi un dono fermentante di sottili e tortuose suggestioni tattili. E più ci rivela la lettera quando il Bembo prega Lucrezia di non far sapere né scoprire ad alcuno i suoi gesti e i suoi stessi pensieri perché "ristrette ed impedite non ci siano, più ancora che non lo sono, in strade che ai nostri amori portano". Non si fidi di nessuno chiunque possa essere, "fino a tanto che io non venga a voi il che, ad ogni modo sarà, fatto Pasqua, se sarò ancora. in vita. Il renditore di queste" continua "mio fidatissimo che passa da Carpi, ritornerà a sapere se voi vorrete in alcuna cosa comandarmi: vi degnerete in quel mezzo farmi risposta e secretissimamente dargliela che sarà benissimo data. Anzi, vi prego di ciò: poiché a bocca ci possiamo parlar poco, siate contenta di ragionar meco e lungamente e narrarmi qual la vostra vita è, quali sono i vostri pensieri, e di chi vi fidate, e quali cose vi

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tormentano e quali vi danno consolazioni. E badate che non siate vista scrivere perché io so che siete assai guardata".

L'interesse vivo e profondo che legava il Bembo a Lucrezia, la loro cara intimità, sono palesi: e tutta questa segretezza, tutte queste raccomandazioni di cautela nascondono la necessità di sviare una sorveglianza che doveva essere molto serrata. "Fatto Pasqua, in Ferrara verrò come vi dissi e passerò fino a Roma per un mese e più" ripete ancora il Bembo in fondo alla lettera: era un convegno, ripetuto così, un termine ai desideri, una meta al corso della comune inquietudine. Il Bembo aveva dunque promesso la sua visita dopo Pasqua, non si sapeva però se fosse andato davvero. Ma probabile il 9 aprile 1505, Benedetto Capilupi informatore scrupolosissimo, e gentiluomo di fiducia dei marchesi di Mantova, mandava da Ferrara una relazione di fatti politici e di fatti diversi ferraresi. E aggiungeva:

"M. Pietro, figliolo del Magnifico Bernardo Bembo, dice che dimani gli ambassatori debbano partirsi da Venezia et faranno la via de Rimini e Urbino dove lui vole andar ad aspettarli." si trattava di un'ambasceria veneziana mandata a Roma a discutere la questione delle città della Romagna delle quali la Repubblica veneta si era impadronita alla caduta di Cesare Borgia, e che Giulio II rivendicava con la sua ostinata energia come feudo della Chiesa: grosse nuvole che sarebbero diventate uragano. Il giovane Bembo che faceva parte della comitiva diplomatica, l'aveva preceduta di qualche giorno per rivedere la sua duchessa; avrebbe raggiunto gli altri ad Urbino, e di li sarebbe sceso verso Roma esattamente secondo il suo disegno di febbraio. Il 9 aprile il Bembo era a Ferrara e vedeva certamente Lucrezia; era andato per lei. Si può anzi supporre, senza troppo fantasticare, che l'informatore mantovano lo abbia incontrato a corte, tanto più che la notizia della sua presenza viene subito dopo la relazione delle feste date dalla duchessa in onore dell'ambasceria francese capitanata da monsignor de la Palice che era in quel momento a Ferrara dove i galanti francesi s'intrattenevano "molto domesticamente al modo franzoso" con Lucrezia e con le sue donne. Vi fu occasione per i due innamorati di vedersi a lungo e soli, profittando del movimento e della confusione Portati dagli ospiti forestieri? O furono proprio movimento confusione ad impedire i riposati colloqui necessari ai loro amori? Ad ogni modo, il fine al quale gli amanti dovevano fatalmente convenire dopo lunghi indugi non era chiaro ai loro spiriti, o, essendo chiaro, pareva loro così intollerabile da non poter essere accettato tutto in una volta. E il Bembo, per quella via di Urbino dove raggiunse l'ambasciata veneziana, e nel seguito del lungo viaggio verso Roma doveva portare con sé l'ansia di una domanda alla quale il suo limpido raziocinio non poteva dare che una risposta logica e crudele. Forse questa risposta egli andò malinconicamente a portare alla sua duchessa ritornando

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da Roma, due mesi dopo, quando, dopo aver sostato alla corte dei duchi di Urbino annidata nella fresca e ventosa Gubbio, scendeva cavalcando verso Ferrara. Era la metà di giugno: ed Emilia Pio scriveva appunto da Gubbio ad Isabella d'Este che il Bembo era partito di li per fermarsi cinque giorni a Ferrara e per passare poi a Mantova. L'esattezza dell'informazione ha una riprova in una lettera che appunto cinque giorni dopo scriveva da Ferrara Antonio Tebaldeo alla marchesa di Mantova: ed è, datata il 20 giugno, una presentazione dei suoi due amici, Pietro Bembo e Paolo del Canale, "due lumi in tutte e tre le lingue", che stavano venendo a Mantova. Il Bembo stesso portò a Isabella questo biglietto mostrandosi anche questa volta fedele ai suoi programmi: il 15 era partito da Gubbio, il 20 da Ferrara, e tra il 20 e il 27 andava finalmente a Mantova dove la marchesana credeva di prendersi una rivincita sulla cognata mettendo in opera le vivezze del suo spirito per lusingare il poeta veneziano. Ma che cosa s'erano detti i due innamorati nel loro colloquio ultimo, a quali conclusioni erano giunti e per quali cammini? é evidente che il loro amore ebbe una risoluzione fra l'aprile e il giugno del 1505. Da allora, non più lettere appassionate, non più FF, non più baci, espressioni d'ardore tenero, e nemmeno i più compromettenti consigli di cautela nella vita pratica. Congratulazioni, auguri, condoglianze ne manda si il Bembo, seguendo ad una ad una le vicende della vita di Lucrezia. Per la nascita ad esempio del primo figlio di lei, il piccolo Alessandro, vissuto appena un mese, egli le manda una graziosa letterina chiamando il neonato "quel caro e teneretto signor mio", e alla morte del piccino, ecco subito la consolazione del Bembo in forma di un oroscopo fatto fare "da un uomo valente in quell'arte", perché ella veda "come siamo governati dalle stelle", modo ingegnoso e acutamente psicologico di confortare una natura fatalista come quella di Lucrezia. Ma dove sono, in queste nevi, i Iniongibelli di un tempo? Può darsi che Alfonso d'Este abbia fatto sentire la sua sorveglianza e il suo malumore in un modo minaccioso. Erano troppo forti i suoi sospetti, e avevano ragione d'esserlo. Pare, del resto, che Alfonso non avesse simpatia per nessuno del circolo intimo di sua moglie: erano i giorni, in quell'estate del 1505, che il Tebaldeo si lagnava: "Il duca mi ha in odio e non so perché", e che su Ercole Strozzi correvano voci insistenti di sfavore. A dispetto di tutti i suoi titoli lo Strozzi fra l'altro era giudice dei Savi e creditore della cassa statale si diceva che egli fosse appena tollerato e "con pochissima grazia". Forse le spie tanto temute dal Bembo e così abili da saper penetrare fin nei pensiero altrui avevano dato l'allarme: né per Alfonso potevano valere le teorie già trovate dal Bembo al tempo della Maria veneziana secondo le quali il marito della donna da lui amata doveva essergli addirittura amico e grato. L'Estense, benché e forse perché di idee scarne e scarse, non avrebbe tollerato equivoci sulla moglie: soprattutto non avrebbe tollerato equivoci sulla duchessa di Ferrara. Il veneziano deve aver capito quanto il suo amore potesse essere dannoso, e senza possibilità di compensi, alla stessa esistenza di Lucrezia, e forse parlando insieme decisero di sacrificare la loro

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impossibile storia d'amore ad una ragione anzi ad una necessità di stato. Perché se Lucrezia in lotta con il suocero, addolorata e smarrita per la morte del padre, incerta sul futuro, poteva avvicinarsi al suo innamorato. Lucrezia incoronata duchessa, insignita di Poteri riconosciuti, si allontanava da lui chiusa fra le sbarre d'oro della sua dignità. Un'immaginazione romantica potrebbe rifare il quadro del loro addio: dalle rosse torri del castello ferrarese, forse la testa bionda lampeggiò al sole di giugno mentre il poeta rifaceva la strada, la piana solitaria lunghissima strada aperta da tutte le parti ai pensieri che assediano lo spirito umano.

Il Bembo tornò in fin di mese a Venezia. Che guarisse della sua passione è certo, ma non subito. Tempo sarà passato prima che quel tormento aguzzo si sia del tutto disteso nella quiete della rimembranza. Lontano da Ferrara, nella orgogliosa Venezia, allora di una saldezza che pareva inattaccabile perfino dalla potenza divina, gli sarà sembrato, nel fervore degli interessi politici e letterari, di aver in parte dimenticato, di non ricordare, o di non soffrire più al ricordo, di rivedere il mondo con meno balenare di fantasia ma con un più puro giudizio spirituale. In quella amara stupefazione di guarire che sembra un tradimento della natura ed è invece la sua più consolatrice saggezza, forse d'un tratto, evocato da un segno nell'aria da un colore di terra o di cielo, da un accento che suona leggero e vibra indefinitamente, avrà sentito tornare la grande onda di quel desiderio e di quel rimpianto soffrendo fin dentro le radici antiche. Vorremmo immaginare il viso sensibile del poeta quale appare nella sua medaglia giovanile o nell'intenso ritratto belliniano, chino sulla ciocca bionda che Lucrezia tagliò per lui dalla sua chioma e che oggi brilla ancora, un po' scolorata dal tempo, in una preziosa teca all'Ambrosiana di Milano: quella ciocca che doveva far palpitare tre secoli dopo un altro poeta, Giorgio Byron, e dargli il vanto di averne strappato l'esiguo tesoro di un capello. più tardi alla corte d'Urbino, e poi a Roma, segretario influentissimo di Leone X, e infine (ma Lucrezia non doveva vederlo) cardinale, e quale magnifico cardinale, il Bembo guarì certamente. Amò una donna che chiamò Aurora o Topazio, e infine la genovese Morosina che gli diede tre figli. Ed anche Lucrezia, infedele, ma costante nella fedeltà all'amore, ascoltò l'umana consolazione di un'altra voce. ci si domanderà ora se la passione del Bembo e di Lucrezia passò i limiti del platonismo puro. é una questione che ognuno può risolvere a suo modo. difficile, e non darebbe nessun risultato fare il calcolo delle circostanze perché, se Lucrezia era sorvegliatissima, aveva presso di sé, l'abbiamo visto, gente che poteva disporsi prontamente alla complicità; e si sa quanto agio di isolamento possano dare i soggiorni di campagna a chi lo voglia. bisogna invece ricordare che alla sensibilità di due amanti delicati non basta l'occasione materiale, ma occorre anche l'occasione dello, spirito, rara a sorgere assai più che non si pensi, rarissima a coincidere con la sicurezza di tempo e di luogo. E poi, una certezza qualsiasi non

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avrebbe nessuna importanza. Voglio dire che la natura, la sostanza di questo amore tutto di tenere fantasie, di slanci che per essere contenuti diventavano più intensi, di sensi inebriati dall'ardore spirituale, non cambierebbe anche se avessimo altre lettere ed altre prove. Resterebbe sempre questa, nell'armoniosa propulsione del suo movimento, e per quella sua vibrata e appena ombrata limpidezza, la più bella storia d'amore di Lucrezia Borgia.

Fine parte seconda.

PARTE TERZA

Congiure ed intrighi ducali

"Pare che la volontà del signore sia che Madonna Elisabetta e tutti l'altri forestieri e forestiere, che sono in casa dell'Ill.ma signora Sua consorte si partano, e le napoletane, e anche Samaritana Romana. Donde, tutti e tutte stanno come si può pensare", scriveva Bernardino de Prosperi ad Isabella d'Este il 4 giugno 1505. In questa lettera, e nelle altre sullo stesso argomento del 10 e del 23 giugno, la cosa che si avverte meglio è il soddisfatto spirito campanilista dei cortigiani ferraresi troppo contenti di poter ripetere: "spagnoli hanno da andar via tutti" e pronti a farsi le meraviglie se Lucrezia desse a vedere il suo "affanno" come se l'onore di essere duchessa regnante non le bastasse per consolarsi di rimanere priva della sua gente di fiducia. Non si sarebbe consolata: la sua corte rigogliosa, variata di avvenimenti come era varia di caratteri e di tipi, le era necessaria, in quel primo periodo che seguiva una rottura amorosa avvenuta con lo sforzo e la pena di uno sradicamento, per riprendere terra, venendo giù dai

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cieli platonici del Bembo; e vedersi intorno i testimoni di un tempo amoroso, e sentire di essere in silenzio soccorsa compresa e prevenuta in ogni sospiro, esaltata, dunque, nella sua sofferenza, doveva darle un pungente languore. riusciva a sorridere bene, sorrideva: e chissà, finiva per essere quasi contenta, come lo sono le donne innamorate dei loro patimenti d'amore, di avere in sé quella gravezza dolorosa per la quale sembra di dover portare ogni tanto la mano al cuore, ad aiutarsi nella sopportazione.

Il giudizio di Alfonso sulla corte di Lucrezia ripeteva quello di Ercole ma con maggiore risolutezza e sarebbe stato senza appello una volta che si fosse manifestato in ordini precisi. Oltre gli spagnoli e le donne, pareva che la minaccia di licenziamento si estendesse anche al Tromboncino, il favorito cantore di Lucrezia, e si definisse in termini più che chiari, poi, contro il Tebaldeo che non finiva più di protestare, e contro Ercole Strozzi: la storia del Bembo entrava senza dubbio per qualche cosa in tali rigori, e lo Strozzi che, come capobanda, era il più colpito, si dava l'aria di prendere la sua disgrazia con una noncuranza coraggiosa, ma anche assai insolente. si teneva a Lucrezia, sentendosi tanto forte da non dover temere nemmeno il duca; ed era vero che nessuno ancora osava toccarlo, benché il fatto che si licenziasse suo fratello, il conte Lorenzo, dall'ufficio di siniscalco della duchessa, volesse pur dire come indizio qualche cosa. Alfonso faceva intanto costruire un passaggio interno per andare a sua volontà e in qualunque momento della giornata dalle sue camere alle camere della moglie: potrebbe apparire, questo, uno slancio affettuoso se tra Lucrezia e il marito avesse potuto esistere intimità; era invece, quasi certamente, un mezzo di più per averla sotto gli occhi, per sorvegliarla meglio, come già aveva saputo benissimo il Bembo. Strettasi così la guardia intorno a lei, Lucrezia capì, o le fu fatto capire dallo Strozzi, che per difendersi e per difendere la sua gente di casa, il mezzo migliore sarebbe stato tornare al primissimo proposito di amicarsi le ferraresi, mostrando di vivere scopertamente, senza dare in quelle segretezze che infastidivano tanto estensi e cortigiani: quando ella si fosse messa spontaneamente sotto il segno della cordialità, ogni idea di punire in lei ribellioni, spagnolismi, estraneità al mondo e agli usi ferraresi sarebbe venuta a cadere da sé. Lucrezia accettava dunque, e subito, di presiedere la commissione per l'esame delle suppliche dei cittadini e qui le giovò l'esperienza di Roma e di Spoleto e mise in quest'opera tanta buona grazia che perfino i suoi nemici dovettero riconoscergliela benché a denti stretti. riceveva con una certa frequenza, specie ora che ambasciatori arrivavano tutti i giorni a congratularsi per l'assunzione del nuovo duca, e si faceva vedere insieme con Angela Borgia condurre gli ambasciatori veneziani per la città: dava festini balli e concerti per i francesi di monsignor la Palice; o andava a far da madrina, un madrinaggio politico, al nipotino del Visdomino di Venezia avendo per compare il cardinale Ippolito e dando da parlare a tutta Ferrara

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per una coltre "più che bella, superba" di oro riccio e soprariccio che aveva regalata al piccino. Portava in memoria del duca Ercole lutto rigoroso ma elegantissimo, vestendo quasi sempre di sottile panno nero che dava alla sua persona un'asciutta finitezza di linea: aveva fatto mettere nella sua anticamera parati neri e coprire una delle carrette di corte di panno nero "con frappe di panno intorno" nero, guarnizione da catafalco; e perfino le donzelle avevano l'ordine di vestire di bruno, portando però in capo, come la loro signora, veli bolognesi da calare sul viso quando uscivano fuori. Questi veli leggerissimi, bianchi giallini o broccati, finivano per essere un argomento di più alla seduzione degli sguardi e dei sorrisi. Le ragazze ferraresi cominciavano ad essere ammesse nelle stanze della duchessa e a trovarci accoglienze migliori: cominciavano appena, però; e se Lucrezia aveva bisogno di riposo, se era moralmente e fisicamente sofferente, e voleva ritirarsi nel convento del Corpus Domini, conduceva con sé solo le donne più intime, le sue. Tutte liete, arrivavano queste al convento, scendevano dalle carrette, sollevavano sui visi ridenti i veli, e si affollavano a complimentare le suore che avevano preparato per le ospiti dolci monacali fatti di miele e farina, croccanti, ciambelline zuccherate, "brazadelle de sore". Prendevano posto nelle piccole celle, e iniziavano così le preghiere che fanno tanto dolci i pentimenti dei vent'anni. Samaritana Cinzia e Caterina si valevano del privilegio, concesso alla loro condizione di fanciulle, di vestirsi da monache per una settimana, credendo di far penitenza. Indulgente, Lucrezia consentiva a quei travestimenti; e compariva alla predica e al rosario, spalleggiata da Elisabetta Senese, e seguita dalla favoritissima Nicola sposata al Trotti, la quale forse portava ancora nelle tasche qualcuno degli ultimi bigliettini del Bembo, e da una nuova compagna, Giovanna Malatesta da Rimini che aveva sostituito la bolognese Polissena Malvezzi mandata via all'improvviso nel gennaio 1505. In corte, s'era discorso molto su questo licenziamento, perché la bolognese pareva essersi acquistata una posizione di favore presso la duchessa tanto da scrivere in suo nome letterine confidenziali; ma forse il suo indemoniato genio del pettegolezzo le era nociuto con Lucrezia, la quale voleva essere compresa ma fino al limite che segnava lei. Giovanna Malatesta, già candidata e bocciata alla sovraintendenza della corte di Lucrezia, vi era entrata adesso e, pareva, col favore generale: bellezza matura, ma succosa, vera donna di corte e d'intrighi, liberissima gaia galante, si era intesa con la duchessa e si era intesa ancor meglio con un'altra, Angela Borgia, che ogni giorno vedeva crescere intorno a sé fortune mondane e passioni. Il fascino di Angela era naturale: vivere le pareva (il sangue borgiano parlava anche in lei) infinitamente gustoso e da godersi meglio che si potesse: facile allo scherzo al discorso burlesco e alla risata, la sua conversazione era saporita, e dava agli uomini lo stimolo sensuale che acuisce ed eccita la vitalità, insieme con la sicurezza d'essere in tutto dominatori e padroni; due piaceri raramente uniti. Ad Angela gli innamorati non bastavano mai: scherzava col cardinale

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Ippolito, si faceva baciare, e più, da don Giulio, non rifiutava la corte di un gentiluomo di gran famiglia ma un poco pazzo, Alvise Pallavicino, che si era fitto in testa di sposarla: e a questo punto gli rideva in viso, e lo passava a Giovanna Malatesta che, fingendo di consolarlo, lo faceva innamorare di sé; ed erano in due allora a ridere, perché anche la riminese aveva altre corde al suo arco. Fra un convento ed una predica, le sole distrazioni ufficiali permesse in quell'anno di lutto, scivolando dalla quaresima nella settimana santa, si andava incontro alla priMavera. Il lunedì dopo Pasqua di quel 1505, Lucrezia tiene corte, invita diana d'Este e Margherita Cantelmo, e con loro decide di uscire dalle mura del Castello per una funzione religiosa, Vestite di nero, con i leggeri veli chiari sul capo, salgono sulla carretta da lutto che tre coppie di candidi cavalli portano volando alla chiesa di Sant'Andrea, dove scendono ad assistere ai vespri. Ma non hanno cominciato ancora le preghiere, che due strane figure vengono a dondolarsi sotto gli archi della chiesa trecentesca, avvolte in saioni da confraternita, cappuccio sul viso, occhi balenanti dai fori oblunghi sotto la fronte. Mettersi dietro Angela e Lucrezia è presto fatto, e per tutta la funzione schermeggiare di parole con le Borgia che cercano, è questo il gioco, di indovinare chi si nasconde dietro i cappuccino cade nella rete delle domande, si fa scoprire dalle due furbe per il Barone, un cortigiano faceto: ma l'altro? Ad accrescere la confusione e la difficoltà dei riconoscimenti entrano in chiesa altri quattro travestiti: le donne ridono piano, rispondono agli scherzi voltandosi di tre quarti, fremono a sentire quelle voci misteriose e contraffatte sotto i lugubri saioni, la fantasia entra in gioco colorita di gioia. Finito il vespro, i sei incappucciati dileguano, Lucrezia comanda ai suoi staffieri un giro intorno alla città: la carrozza bianca e nera passa come un fantasma romantico, al galoppo; ed ecco, viene ad incontrarla una cavalcata di gentiluomini condotti da Alfonso d'Este. Il giovane duca ride del suo riso raro, rivelandosi come il compagno non riconosciuto del Barone, e scherzando con Lucrezia delle cose dette e risposte: lei, dietro alle tendine di saia negra, mostra lampi di sorriso, di sguardo, di capelli biondi, mentre gli risponde motteggiando, sicché "andarono per un pezzo sferruzzando i ferri" come in una partita di scherma. Per un'altra strada arrivava intanto don Ferrante, anch'egli tra i mascherati non riconosciuti, del che faceva risa infinite con Angela e con madonna Giovanna: e più avanti ancora si finì per incontrare, con la propria cavalcata, il cardinale Ippolito che veniva a corteggiare le donne con la sua levigata maniera di uomo troppo intelligente per queste cose, e tuttavia condiscendente ad esse per sua grazia benigna. Nessuno dei cittadini che si facevano alle porte e alle finestre per veder passare la cavalcata dei principi, avrebbe immaginato che tra quella gente giovane bella e fortunata maturavano lentamente l'odio e il fratricidio.

Quando le cose cominciassero a mettersi male nella mente di don Giulio è difficile stabilire. Ma facendo il conto delle cause concrete ed astratte

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che condussero ai precipizi di poi, una cosa ci è subito chiara: la testa di don Giulio era troppo debole per sostenere le passioni che volevano agitarvisi dentro. L'indisciplinatezza andava benissimo alla sua indole, non la ribellione che vuole continuità di coraggio; e il suo stesso rifiuto a impegnarsi nella vita e nelle regole ecclesiastiche secondo che il padre avrebbe voluto indicava meno fermezza e lealtà di uno che non si sente portato al sacro ministero, che non capriccio intollerante di limitazioni. Un vero arruffone, don Giulio; e aveva dovuto capire negli ultimi tempi di vita del padre la dubitosa stima che Ercole d'Este mostrava del primogenito e anche del cardinale, per lavorarci su di fantasia tanto da sentire in sé diminuito il rispetto per l'autorità dei fratelli maggiori e cresciuti invece il diritto e la capacità di criticarli. Magari, senza dirselo, don Giulio si era aspettato, al tempo della successione al seggio ducale, qualche cosa di quello che tutti si aspettavano, un sommovimento, o per lo meno una indecisione di partiti che avrebbe per forza tirato in gioco l'appoggio e l'intervento dei fratelli, facendoli valere tutti. S'era visto invece l'accordo di Alfonso ed Ippolito, accordo misterioso, nessuno sapendo come e su quali basi si fosse stabilito fra quei due che avevano avuto fra loro tante discordie; ed era evidente che, per l'unione dei maggiori Estensi, gli altri, tagliati fuori, si trovassero quasi per forza ad intendersi fra loro. Don Giulio e don Ferrante i numeri per la più stolta intesa li avevano in comune, teste piene di venti caldi, capaci solo di essere belli disordinati e rancorosi. e avrebbero trovato, il giorno che il loro allearsi avesse significato qualche cosa, partigiani e sostenitori nel partito dei malcontenti. Queste potevano essere delusioni e inquietudini, ma non ragioni d'odio: né ai primi tempi del regno di Alfonso avevano mutato specie, come si vede dalle corrispondenze del tempo che parlano della gratitudine dei cadetti verso il fratello duca, il quale, dando a don Giulio per dimora propria un palazzo, e aumentando l'appannaggio di ambedue, li aveva riscattati dallo stato di semipovertà nel quale erano stati lasciati fino allora, e saviamente, dal duca Ercole. Ma forse don Giulio non sarebbe mai arrivato agli estremi ai quali arrivò se non ci fossero state le provocazioni e le suggestioni del cardinale d'Este a scatenare in lui la più disarginata follia. I primi malumori tra il cardinale e il fratello minore, gelosie e intolleranze di caratteri, già dovevano esistere tra loro vivente il padre, se, durante l'agonia del duca Ercole, Ippolito aveva fatto rapire un cappellano, don Rainaldo da Sassuolo, passato dal servizio del vecchio duca al servizio di don Giulio, e lo aveva fatto imprigionare nel castello di Gesso in Mionte proprietà di Giovanni Boiardo, La ragione del rapimento non si è mai saputa. Don Giulio considerò questo gesto un'offesa per lui, e cercava il modo di riva. lersi: conosciuto infatti il luogo dove era stato nascosto il cappellano, con una schiera di gente armata arrivava di sorpresa nel castello, tirava fuori don Rainaldo dal carcere mettendo al suo posto, per beffa, il castellano, e conducendo, poi il liberato nelle terre di Alberto Pio signore di Carpi, uno dei feudatari più inquieti che mordessero il freno estense, ma di troppo ingegno e di troppa conoscenza

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delle cose per impaniarsi davvero nella fragile rete di don Giulio. Messo al sicuro don Rainaldo, e prevedendo la tempesta, il bel Giulio andò a riparare presso Lucrezia, la quale, per sua natura e per una disposizione d'animo ribelle era portata a proteggere gli inquieti e gli irregolari.

In quell'estate tutti gli Estensi fuggivano in campagna cercando scampo dalla peste che devastava Ferrara. Alfonso era a Belriguardo, tenendosi sotto mano a poche miglia di distanza, a Vigogna, il cardinale; don Ferrante girava per il territorio carpigiano, con l'animo di spalleggiare il fratello minore se ve ne fosse stato bisogno; don Giulio accompagnava ufficialmente Lucrezia, rifacendo con lei quel viaggio a Modena e a Reggio progettato con ben altro spirito due anni prima. La duchessa viaggiava con tutta la sua corte, donne ragazze tamburini cantori, ma non stava bene, soffriva di una nuova difficile maternità, era febbricitante e dava qualche inquietudine al suo ostetrico, Ludovico Bonaciolo. Era stata a Modena per tutto luglio; ma poi, arrivata l'epidemia anche lì, era partita per Reggio facendo sosta, da una città all'altra, fra i vigneti di Rubiera. Qui, nel castello estense, fortificato di mura e di torrioni già dal tempo di Leonello d'Este, ricevette una severa lettera del marito.

Alfonso passava momenti agitatissimi: alle preoccupazioni già così gravi dell'epidemia, della carestia, e del malcostume degli affamatori, si stava aggiungendo la discordia, per lui insoffribile, tra i suoi fratelli; perché si può pensare come e quanto il cardinale, saputa la liberazione del cappellano, avesse infuriato. Questo gesto, nel quale egli vide lo sfregio alla sua autorità, la beffa al suo orgoglio, il disprezzo della sua veste cardinalizia, gli aveva sfrenato tutti gli istinti feroci, e gli aveva fatto esigere dal duca una punizione, lasciando intendere che gli sarebbe bastato l'animo, caso mai, di vendicarsi da solo. Alfonso che temeva i disordini in famiglia e voleva troncarli sul nascere, prese le sue disposizioni e le mise in lettera, mandandole non al fratello minore, ma a Lucrezia perché gliele facesse comunicare, e perché non vi fosse modo per lei di ritardare il castigo con la sua personale intercessione. Erano, in definitiva, più gravi le parole che i fatti; don Giulio doveva lasciare la corte della duchessa, e andarsene a confino nella terra di Brescello dalla quale non avrebbe potuto allontanarsi mai per più di due miglia, e dove avrebbe dovuto ogni giorno presentarsi al commissario estense del luogo. Tenessero bene a mente tutti, scriveva Alfonso, che se non fosse stato obbedito senza restrizioni e senza indugio avrebbe preso misure gravissime e nessuno avrebbe avuto tale potere da fargliele cambiare. A Lucrezia non restava dunque che rinfoderare, se le aveva, le benigne intenzioni pacificatrici tra i due fratelli, e partecipare a don Giulio per mezzo del segretario Niccolò Bendidio, secondo la prescrizione della lettera, il volere ducale. Non che Lucrezia non si fosse mossa, in quei giorni: aveva anche ricevuto la visita di Alberto Pio da Carpi, già pentito di

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aver dato mano con uomini ed armi a quella scapestrataggine, e di aver raccolto il conteso don Rainaldo nelle sue terre; risoluto in ogni modo n. cavarsi da questo impiccio senza danno suo e corruccio del duca. Lucrezia ascoltava volentieri il Pio: forse da Ercole Strozzi e magari dal Bembo aveva imparato a conoscere il signore di Carpi, nipote ed allievo del grande umanista Giovanni Pico della Mirandola, cresciuto ad una ferrea cultura nella quale entrava tutto, latino, greco, arte, lettere, filosofia, teologia, politica, ed anche, appassionata e palpitante, la scienza del vivere. Fra la duchessa di Ferrara e il Pio, che era feudatario estense e già sulla via di diventare nemico al duca Alfonso il quale voleva avocare a sé i territori del suo feudo importanti anche strategicamente per la difesa militare del ducato, s'era disegnata, e par fatto apposta, un'amicizia della quale ci sono rimasti documenti: e, se non vuol dire nulla più d'una galanteria da gentiluomo, il dono fatto dal Pio alla duchessa nel 1504, di una magnifica carretta da passeggio, vuol dire molto, invece, che egli si fosse preso a Carpi, per educarvelo e per crescervelo, un fanciullo che ricordava a Lucrezia molte cose dolenti: Giovanni Borgia, l'Infante Romano. é lui, infatti, quel cosiddetto "figliolo del duca Valentino" che nel giugno del 1505 era arrivato a Carpi "per star lì", diceva Bernardino de Prosperi. I preziosi registri di guardaroba di Lucrezia non lasciano dubbi all'identificazione, quando nominano un "signore don Giovanni Borgia" che nel 1506 era a Carpi dove Lucrezia gli mandava il suo trinciante, lo spagnolo Sancio. E si spiega come, allora, alla corte di Ferrara si chiamasse il fanciullo "figlio del duca Valentino", se ci si riferisce alla prima bolla di legittimazione dell'Infante Romano, quella destinata ad essere pubblica, e che gli dava appunto per padre il duca di Romagna: solo più tardi precauzioni ed ipocrisie parvero inutili e si finì, secondo la bolla di legittimazione segreta, per chiamare don Giovanni Borgia fratello della duchessa. Alberto Pio era andato quell'estate 1505 fino a Rubiera dove si sarà parlato dell'Infante e dei suoi progressi; ma assai più urgentemente s'era argomentato sul fatto del cappellano e sul pericolo per don Giulio di levarsi così apertamente contro il cardinale. Così Lucrezia come il gentiluomo carpigiano avevano convenuto che la cosa migliore da fare era cercare di convincere don Giulio e il suo alleato don Ferrante perché facessero rientrare il prete nella sua prigione: insieme, i due fratelli "più indurati di prima" rispondevano che non l'avrebbero mai fatto; ma, presi separatamente, e non potendo puntellarsi l'uno con l'insolenza dell'altro, stavano per consentire, quando arrivò la lettera del duca. Irritatissimo, don Giulio pareva a lui, ora, d'essere sfregiato con questa punizione partì per il suo confino; e Ferrante andò a San Cesario da Albertino Boschetti, un altro dei feudatari estensi colpiti dalla volontà d'accentramento del duca di Ferrara, e pronto, per disgrazia dei suoi capelli bianchi, ad entrare in progetti di difesa e d'offesa. Il Pio, tornato a Carpi, riuscì con i suoi soli argomenti a persuadere il cappellano don Rainaldo a tornarsene nel castello di Gesso in Monte, sotto garanzia solenne di aver salva la vita. Verso la metà d'agosto Lucrezia

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arrivava a Reggio quasi sana, già dal luglio "senza scintilla di febbre" come diceva il Bonaciolo nei suoi bollettini quotidiani sulla salute della duchessa, mandati al duca Alfonso. Anche Lucrezia, scrivendo al marito, gli diceva di stare bene; e glielo diceva in un modo non direi freddo, ma gelato. Lei, che era diventata timida nello scrivere, ed aveva perduto la spontaneità epistolare dei suoi quattordici anni, ma che aveva saputo mandare al Bembo bigliettini vividi e graziosi, al marito mandava solo notizie secche della sua salute, medicalmente precise e dunque perfino ripugnanti, messe giù con un distacco prosaico troppo accentuato per non essere d'intenzione. Ad Alfonso, la frase più affettuosa che le riusciva di scrivere era la formula in uso tra gli indifferenti, un "a voi mi raccomando". Sapeva di essere in quel momento preziosa non per se stessa ma per l'erede estense che aveva in seno, e si vendicava, forse inconsciamente e forse di proposito, mandando le notizie che riguardavano quegli interessi: teneramente palpitava in sé per il fratello prigioniero in Ispagna, per il ricordo del Bembo, e per alcune speranze appena presentite. Il 19 settembre 1505 nasceva a Reggio l'erede estense al quale i sudditi del ducato fecero le poche feste che poterono "per essere tutti tribolati" dalla peste dalla fame e dalla carestia. Gli fu messo il nome papale del nonno, Alessandro, e si pubblicò un'amnistia che comprendeva anche don Giulio. Alfonso perdonava volentieri, contento, in fondo, di aver avuto una ragione perché tra i fratelli tornasse la pace, e pensando che Ippolito ormai avrebbe dimenticato, tanto più che il cappellano era tornato mansueto in prigione. Non aveva capito, o non voleva ammettere che le ire del cardinale dovevano avere radici troppo più profonde e gelose della contesa su don Rainaldo, e che la ribellione di don Giulio e il suo gesto di sfida al fratello non potevano essere, per un superbo come il cardinale, offese vendicate con poche settimane di mite confino.

Ma il nome di Papa Borgia non portò fortuna al piccolo figlio di Lucrezia: appena nato era apparso "così", cioè piuttosto stento, e poi durò a vivacchiare venticinque giorni rifiutando di nutrirsi, declinando tanto, che la mattina del 15 ottobre fu necessario mandare ad avvertire Alfonso, in quel momento a Comacchio: l'informatore Andrea Pontegino era appena arrivato a Comacchio, che da Reggio si staccava un'altra ambasciata portando a staffetta la notizia della morte del piccino. Lucrezía ebbe le consolazioni della sua natura e quelle del Bembo che ancora non poteva abituarsi al pensiero che la sua duchessa soffrisse senza di lui; ma consolazione più attiva le era l'amicizia nata da poco del cognato Francesco Gonzaga marchese di Mantova, marito di Isabella d'Este, colui che Lucrezia aveva conosciuto quasi dieci anni prima, nel 1496, quando, splendente di gloria militare e del titolo di vincitore di Fornovo, egli era venuto a Roma a prendere dalle mani di Alessandro VI la rosa d'oro e la benedizione papale.

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Si ricorderà che il marchese di Mantova aveva avuto ragioni per non assistere alle feste nuziali di Lucrezia; ma nella primavera del 1504 egli s'era condotto a Ferrara, a conoscere, o meglio a riconoscere l'antica principessa della corte papale nella nuova cognata. Vederla e ritrovarla subito, raggiungendo per via diretta tutto ciò che stentava e soffriva in lei fra le mura ferraresi, entrare nella sua corte sentendosi con quelle vivaci donne e ragazze in comunione non di idee, il che sarebbe stato troppo per tutti, ma di propositi vitali e di sentimenti galanti, fu cosa rapidissima e festosa. A Lucrezia, ancora innamorata del suo veneziano, il Gonzaga si avvicinò prendendo d'istinto l'aspetto migliore per lei, quello di un fratello nel quale ella sentisse di poter fidare, pronto a prometterle, con una calda autorità lontanissima dall'essere reale, nientemeno che la liberazione di Cesare Borgia. Erano promesse giganti, e il Gonzaga nel pronunciarle gonfiava smisuratamente i suo poteri; ma a Lucrezia, che aveva fatto l'esperienza di quanto fossero lontani gli Estensi da qualsiasi intenzione benevola verso Cesare, le disposizioni del cognato, offerte, spontanee, schiette, parvero una sorpresa solare. Vi si lasciò prendere: ed era inutile dirselo prima che questo poteva essere un tranello, se caderci finiva per diventare una debolezza non solo cara, ma necessaria. Per amare l'amore, e dell'amore il clima patetico e cangiante, Lucrezia come donna non faceva eccezione. Era di quelli, lei, che non possono adattarsi a vivere senza seguire un proprio lume, segreto agli altri; e resistono così a tenere compatta e senza crepe l'esistenza di ogni giorno. alludendo dentro di sé a quella che il Petrarca chiamava "misera, ardita vita degli amanti". Perduto il Bembo, era naturale. che ella cedesse al ristoro di un altro sentimento che cominciava bene e che portava, per una via legittima di parentela, alla tenerezza. Così, il poeta veneziano è appena scomparso e il suo ricordo ancora duole, che insensibilmente alla sua immagine si vanno sostituendo il viso e l'immagine del marchese di Mantova. Ma perché, poi, sostituendo? Francesco Gonzaga era uno di quegli uomini nei quali un segno fisico accentuato, evidente, senza equivoci, sa diventare, per un merito naturale che non è sempre intelligenza, espressione così viva che al paragone la bellezza maschile misurata sui canoni greci perde di carattere, si scialba, diventa di una povertà e di una miseria senza presa. Era della razza di certi uomini bruni che ancor oggi s'incontrano nella pianura padana (il più lontano e nobile loro antenato è Virgilio), delicatamente congegnati di nervi e solidamente di muscoli, uomini che portano il loro corpo come un'architettura, dall'architrave delle spalle alla muraglia piana del dorso, alle colonne delle gambe alte e graziose. Disagevole a definirsi, l'accento singolare del loro aspetto si dimostra nella ripetizione di linee affilate, gli occhi incassati in un taglio socchiuso e la bocca che ripete lo stesso taglio ma rivela nella gonfia morbidezza una golosa e fantastica sensibilità, le mani snodate nelle giunture secondo un modello magistrale e minuzioso perduto nell'antichità della razza. In Francesco Gonzaga l'eredità germanica della madre inaspriva questi caratteri, senza toglier loro nulla,

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anzi aggiungendovi di portata e di potenza come per la sforzatura artistica di un'espressione: ed era certo che, piacesse o no, quel profilo inciso dal Mantegna nella pala della Vittoria non si dimenticava. Lanciatosi a vivere senza cautele, tutto discorsivo e caldo, il Gonzaga amava il vino, e ci si trovava anche lui ad amare l'amore, come dimostravano i suoi numerosi figli illegittimi sparsi nel mantovano, e come dimostrano ampiamente i documenti del tempo: una delle sue figlie naturali era donzella della duchessa d'Urbino: un'altra, Teodora, si fece rapire da un uomo inviso al padre, Enea Furlano, e fuggì in territorio veneziano riparata e protetta dalla regina di Cipro. Per compiere il ritratto del Gonzaga, quando si sarà accennato al suo modo di state in sella cavalcando ora l'uno ora l'altro dei superbi campioni equini delle scuderie gonzaghesche, alla sua vaga ma sincera ambizione eroica e cavalleresca, alla buona disciplina militare che lo aveva formato e che pur non avendo fatto di lui un gran capitano Fornovo era stato, dopo tutto, un errore lo aveva reso buon soldato; alla sua profonda e quasi patetica bontà che gli faceva care le debolezze e le sventure femminili; al suo amore un po' sconclusionato ma vivo per l'arte, e alla sua religiosità fra superstiziosa e generosa, non resterà da parlare se non delle sue qualità di principe e di capo di stato; e qui bisognerà dire ciò che incresceva fino in fondo al suo orgoglio: che cioè erano mediocri, e che parevano scarse se paragonate a quelle della moglie. A Isabella il Gonzaga aveva dedicato molto amore, e un'ammirazione che, dovendo crescere con gli anni, era arrivata a provocare in lui la reazione dell'intolleranza. E infatti, com'è possibile che un uomo sia messo senza ribellarsi al punto di dover riconoscere in una donna la coerenza di un pensiero robusto, di un giudizio freddo, avveduto, ottimamente politico? Bisognerebbe che uno fosse o debolissimo o fortissimo per accettare senza scadere dal proprio giudizio consigli troppo illuminati. Per conto suo, Francesco ogni tanto si rifiutava di ascoltarli e si metteva vicino più che poteva ministri odiosi ad Isabella, un metodo eroico per sfuggirle. Non le sfuggiva, però, del tutto: e proprio perché di fronte a lei si sentiva indovinato e in certo modo tutelato, egli andava a cercarsi compensi e conforti presso altre donne, non solo, compiacenti di amore sensuale, ma pronte e prone alla dominazione del suo spirito. La sorpresa di scoprire nello sguardo di Lucrezia una vera fiamma di fede, quando egli era entrato avventatamente nel discorso della liberazione del Valentino, lo aveva commosso, ed era così che, oltre ad essere intenerito da quella fragilità e biondezza capziosa, era stato conquistato dalla cognata. Altre ragioni conferivano al sorgere in lui di una simpatia, primissima l'orgoglio di sentirsi stimato dalla moglie di uno di quegli estensi che troppo spesso avevano mostrato di non fare gran conto di lui. A questa Lucrezia che gli risvegliava tante inebriate sensazioni d'amor proprio Francesco andò incontro a mani tese.

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Poco tempo era bastato perché fra i due cognati si stabilisse un'intesa: appena partito da Ferrara il Gonzaga, le accorte donne di Lucrezia, scrutata la fronte della loro signora, gli scrivono sentendosi, dicono, addirittura semivive per la privazione del suo "benigno umano mansueto divino cospetto" e delle sue "divine virtuti eccelsi ed angelici costumi". Sono tutte a lui dedicate, specie madonna Angela e madonna Polissena le stesse donne care al Bembo che vedono quanta affezione abbia per lui la duchessa, non cessando mai ella di ricordarlo con una "dolcissima memoria". Anche ai conviti chi si divertiva più? Le fiorite ghirlande, la gaiezza dei cortigiani, le donne belle ornate e liete non bastavano a illudere tante nostalgie. "Ogni piacere fu poco grato alla nostra signora Lucrezia e a me sua serva," scriveva Polissena Malvezzi illustrando graziosamente uno di questi conviti "poiché la S. V. Ill.ma non era presente." Si cominciò subito a parlare di poesia: Francesco promise dei sonetti che poi si scusò di non poter mandare perché malato: malato, egli dice, perché privo dell'aria di Ferrara tanto confacente alla sua costituzione. Tra Mantova e Ferrara anche le galanterie erano, però, complicate da oscuri attriti politici. Potevano avvenire fatti curiosi; negli ultimi giorni di vita del duca Ercole un inviato mantovano, Marcantonio Gattico, aveva scritto da Ferrara al marchese Francesco che Lucrezia era stata tutta consolata alla promessa del Gonzaga di volare in poche ore, se ve ne fosse stato bisogno, fino al Castello estense, a proteggerla con la sua persona. Contro chi era diretta la garanzia di protezione se non contro gli stessi estensi? Non solo; ma il Gattico aggiungeva che, oltre la duchessa, il popolo ferrarese era tutto per il marchese di Mantova, e che sarebbe bastato fare in piazza il grido di guerra gonzaghesco "Turco! Turco!" perché la città si sollevasse in suo favore: menzogne, essendo i ferraresi fedelissimi alla dinastia di casa loro; ma il fatto che un cortigiano sia pure adulatore si fosse preso la libertà di scriverle, dimostra quanto fossero grate a chi le leggeva, Tra Francesco Gonzaga e gli Este il fatto di essere parenti non serviva alla fraternità delle loro relazioni se non apparentemente. Come accade spesso tra confinanti, le gelosie i malumori e i dispetti erano di antica eredità fra i due stati basterà ricordare che quando Nicolò d'Este, figlio di Leonello, aveva tentato il Colpo di mano su Ferrara era stato aiutato dal marchese Ludovico Gonzaga avo di Francesco e ci voleva Poco, un colpo di testa da parte del Gonzaga, un più profondo rancore di Alfonso o di Ippolito, e soprattutto meno abilità e meno accortezza da parte di Isabella, perché i malumori diventassero inimicizie. Qualche cosa stava sempre sul punto di scoppiare: incidenti di servi fuggiti, riparati e protetti nelle terre confinanti erano di tutti i giorni: talvolta accadevano anche cose più gravi: come nel 1505 un fatto nel quale anche Lucrezia ebbe la sua parte. Francesco Gonzaga aveva allora, consigliere ascoltatissimo, un certo "Milanese" odiato dal popolo mantovano ' da Isabella, da Ippolito, da Alfonso, e, pare anche da Lucrezia. Contro questo cattivo genio del Gonzaga si era levata ed armata la mano di un gentiluomo,

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Enea Furlano, d, Cavaliere, protetto non solo dagli estensi ma anche dal doge di Venezia, e dalla regina di Cipro, Caterina Cornaro, chiamato dal Bembo "uomo pieno di fede e di virtù": un giustiziere più che un assassino. Il Cavaliere aveva tentato Milanese, con un pugnale avvelenato: non gli era riuscita. E Francesco sospettando fortemente quali istigatori dell'attentato gli Este e con loro, almeno connivente, Lucrezia, aveva fatto fare alla cognata prima qualche breve accenno dei suoi sospetti dal Tebaldeo, e poi aveva mandato, a chiarirsene, addirittura Alberto Pio. In quel tempo il Pio, mosso dal proprio interesse politico, dichiarava quasi suo protettore il marchese di Mantova, forse perché non v'era cosa più pungente per gli Este che un feudatario del ducato si mettesse sotto la protezione della rivale casa Gonzaga: e certo, di questa ambasciata fece da quella "persona molto grave e astuta" che sapeva "volgere con la sua eloquenza la quale era meravigliosa e gagliarda sempre, gli animi degli uomini dovunque voleva" come diceva il Giovio una esposizione accortissima. Ma Lucrezia, quanto a furberia, teneva da Alessandro VI: e mentre si mostrava dapprima "offesa e dispiacevole" dei sospetti del marchese Francesco, e poi, diventando l'ambasciata "dolce ed umana" come l'aveva comandata il Gonzaga perché non la ferisse in nessun modo, più serena, preparava dentro di sé la sua risposta: appropriatissima. Finito ch'ebbe di parlare il Pio, cominciò lei; e, assicurava alzando appena la mano regalmente gemmata, di non aver fatto mai al Cavaliere né segno né parola contro il "Milanese", e nulla mai pensato, per essere di natura "aliena da omicidi". Quando anche però avesse avuto questo pensiero, diceva) e rinforzava la sua voce di accenti borgiani, non le sarebbe stato difficile, sapendo che il ministro del Gonzaga era così inviso a suo marito, procurarsi un sicario, e in questo caso avrebbe dato il comando ad un servo suo o del duca Valentino bastante ad "officio sì vile" senza che si macchiasse la mano di un gentiluomo quale il Cavaliere. Quello che c'era di mordente in questa risposta era addolcito dall'assicurazione che ella si sarebbe guardata come dalla morte di dispiacere al Gonzaga. Non se ne guardò invece il Cavaliere che, poco tempo dopo, uccideva con una sciabolata il "Milanese" fra il giubilo di tutta Mantova.

Ma la liberazione di Cesare Borgia era sempre il tema sul quale Lucrezia tornava e che Francesco accettava, pronto a seguirla e ad assecondarla nelle sue fantasie; più che certo, poi, di non impegnarsi a nulla per assicurazioni e promesse che gli venisse di fare. Sapeva che da un pensiero affettuoso era più facile scendere ad un discorso più caldo, ed aveva intenzione di condurcela. Così quando seppe che Lucrezia> morto il bambino Alessandro, stava tutta sola e malinconica a Reggio, capì che era venuto il momento per lui, e la invitò ad un convegno a Borgoforte in riva al Po, in terra mantovana. Lucrezia accettava, e a fine ottobre, per tornarsene a Belriguardo, inventò e stabilì un itinerario quasi tutto per via di fiume, in modo da capitare vicino a Borgoforte: né avvertì Alfonso della visita che

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avrebbe fatta al cognato, se non quando egli non avrebbe più fatto in tempo ad impedirgliela. Alla notizia dell'arrivo, il marchese di Mantova fu preso da un fuoco di entusiasmo: avere la duchessa a casa sua, poterle far intorno la ruota senza testimoni se non compiacenti, farsi vedere da lei signore assoluto dei suoi sudditi, e offrirle ogni signoria per vedere disegnarsi quel sorriso consolato e lucente, era una sensazione preziosa:

"Non vorrei già aver guadagnato un tesoro" le scrive, ripetendo una frase usata anche dal Bembo, in una letterina industriosamente composta, e calda di una cortesia più che cortigiana. Borgoforte è un borgo militare, non un giardino degno di questa visitazione, ma si farà in modo da preparare alla duchessa e ai suoi un soggiorno passabile: le comodità, aggiunge il Gonzaga, non mancheranno. Si può facilmente immaginare come Borgoforte sia stata in quei giorni affollata da operai spenditori imbanditori e tappezzieri che portavano biancheria, letti, oggetti, provvigioni di cose ricche e comode, preparando per la duchessa, non la residenza militare della Rocchetta, ma il palazzetto quattrocentesco di Gerolamo Stanga. Isabella, da parte sua, lasciata fuori da queste feste, non faceva nulla per entrarvi, e, più che savia, stava ad osservare. Vedere Lucrezia corteggiata dal proprio marito era per lei un'offesa insanabile non l'avrebbe perdonata alla cognata mai più ma toccava anche l'interesse dello stato e la persuadeva, prima di tutto, a sorvegliare. Lucrezia partiva da Reggio il 26 ottobre 1505. Alba di Borgoforte. Si apriva, la giornata del 28 ottobre, in una morbida fine di autunno su quel paesaggio fluviale che sente l'ordine, la levità, il fluire dell'egloga virgiliana. Per Francesco Gonzaga, ora che tutto era pronto, arrivava il momento di aspettare e di domandarsi. aspettando, se questa visita era possibile, e se sarebbe davvero avvenuta. Sull'acqua lattea del gran fiume, tra un velo di nebbia, era apparsa la forma di una nave dalla chiglia rialzata, avanzando nel silenzio sospeso, tra le due larghe rive orlate di betulle dai rametti piumosi, sola tra la pianura e l'acqua. Si scorgono il rosso e il bruno delle tende, i colori dei vestiti delle donne, il lume dei gioielli e dei capelli: quel lume più chiaro è Lucrezia, prende la forma del suo sorriso. Una donna bionda nella nebbia, sta lì come discesa dal sole in un esilio benigno per confortare chi sarebbe tentato di non credere più agli astri e di gettarsi allo sbaraglio della malinconia: bisogna crederle: e tutto era pronto a credere di lei, Francesco Gonzaga. Se la duchessa è un po' triste l'opera di rianimarla dovrà procedere intimamente; il Gonzaga si sente nato a questo ufficio, per questo apre il suo volto lupesco a un riso lucido e lampeggiante tra la barbetta ramata, le va incontro, le offre la Mano, l'aiuta nel passo, la protegge col suo ampio modo cavalleresco, con la sua stessa forma fisica, le comunica l'irresistibile tono della sua giocondità.

Tutta Borgoforte specchia questa allegrezza nei prati di pelo verde intorno al Po, nella fortezza, la Rocchetta, piccola e conchiusa nella forma di

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un nocciolo liscio, nelle sue vie linde e ondeggianti. Le conversazioni si seguono, prima tra pochi, poi più libere, e poi generali, nei conviti tra musiche e balli: tutti si sentono in vacanza; certo, Lucrezia e Francesco parlano del Valentino prigioniero, e Francesco promette di mandar lui personalmente alla corte del re di Spagna un suo messo a chiedere la liberazione del Borgia (lo mandò poi davvero, e Lucrezia lo ringraziava caldamente il 6 novembre); ma questo discorso stabilisce un tono affettuoso che non potrà più essere mutato; parole e atteggiamenti si fermano nella deliziata mente dei due, e riempiranno più tardi le loro solitudini. Il 28 e il 29 trascorrono in quella smemorataggine vaga che sta al principio dell'amore: viene la sera, ma non è possibile separarsi ancora, le scoperte sono troppe vive, tocca al Gonzaga inventare qualche cosa. Ecco: perché Lucrezia non verrà a Mantova a salutare Isabella? Non si può rifiutare un invito così legittimo. Lucrezia scrive ad Alfonso come sia stata dal cognato "combattuta e sforzata con tanta veemenza e desiderio che io vadi dimani a visitare la Ill.ma Marchesana, che quantunque io abbia usato resistenza assai, nientedimeno mi è convenuto obbedire". E Alfonso risponde civilmente ringraziando degli onori fatti alla duchessa di Ferrara.

La bellezza di Mantova era fatta per piacere a Lucrezia:

la pallida aria lacustre, l'indugiato scorrere delle strade fermato alle svolte come in una sospensione voluttuosa, il giro delle curve in prospettiva che ripete il disegno largo e incalzante dell'onda fluviale, il grigio dei palazzi che si discioglie in rosa imponderabili o in azzurrini di lavagna, l'atmosfera di dolcezza che par sempre sul punto di corrompersi e di irrorarsi dal cielo sul paesaggio da quel sole morbido e remoto Danac aspetta la nuvola d'oro amoroso furono forse intesi da lei che vi consentiva in quel suo momento, in un modo intimissimo, dissolvente. Nel castello alto sui laghi formati dalle acque del fiume virgiliano, Isabella l'accolse, la condusse per i suoi salotti, tra le sue raccolte arte i suoi libri le sue pitture le sue collezioni rare: tentava sopraffarla a forza di intelligenza ma era troppo acuta per non capire come tutto ciò fosse lontano e ad ogni modo contasse poco per l'aereata mente della cognata. Si lasciarono più fredde che mai; e finiti i tre giorni di vacanza rubati al tempo alle convenienze e ad Alfonso, Lucrezia si metteva in via la mattina del 31 ottobre passando dalla sua piccola nave nel bucintoro personale di Francesco che doveva farle più rapido e comodo il viaggio.

Agli addii, i due cognati compresero forse che era nata tra loro l'intimità del noi in un mondo dove le loro vite dovevano per forza seguire vie divergenti. Vi si abbandonarono: Francesco di slancio, senza dubbio persuaso che ogni nuovo amore fosse un accrescimento, una rifioritura, la giovinezza da riprendere al passo, e Lucrezia per destino. Ella non si doveva chiedere nemmeno come mai fosse possibile e quanto mai fosse pericoloso

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ritornare da capo e ricominciare un nuovo ciclo amoroso: pensava forse, come si pensa quando ci piace di ingannarci, che questa volta sarebbe stata un'altra cosa, o proprio perché fosse la stessa di sempre, l'andava accettando? Il viaggio fu buono: il 31 sera Lucrezia giungeva alla Stellata e vi si fermava a passare la notte, e il primo novembre, avendo lasciato il Po, e navigato per i corsi secondari del gran fiume, arrivava in vista delle torri dipinte di Belriguardo, e si trovava subito, senza avere il tempo di prendere fiato, a respirare aria di tragedia. Le svagatezze e gli ardori di Angela Borgia stavano portando in quei mesi i loro frutti. Non si doveva sapere, ma in realtà si sapeva benissimo, che la cugina della duchessa era prossima ad avere un bambino, scandalo di famiglia che si cercava di custodire col silenzio. La lontananza della corte di Lucrezia da Ferrara, lontananza che quell'anno durò fino a dicembre, si spiega dunque da sé, tanto più che c'era, intricatissima per noi e troppo certa per gli estensi, la questione della paternità del nascituro. Il segreto fu allora tanto ben tenuto, che a distanza di secoli bisogna farsi a scioglierlo per induzioni. Ma l'ipotesi più vicina al vero deve essere quella che attribuisce la maternità della diciottenne Angela a don Giulio. Gli amori fra i due maggiori scriteriati di Ferrara dovevano essere cominciati da tempo; il 9 giugno del 1502, infatti, Bernardino de Prosperi aveva scritto ad Isabella d'Este che, partendo per la villeggiatura di 1liarna, il vecchio duca Ercole s'era tirato dietro don Giulio, "il quale resterebbe a casa volentieri", e due giorni prima, il 7 di giugno, aveva dato conto della partenza di Lucrezia per Belriguardo non seguita da quella di Angela che era restata in castello perché malata; e vi restò fino all'11 giugno. Se si tiene conto dell'estrema discrezione del Prosperi, il quale parlava quasi sempre per sottintesi, specie in faccende di questo genere, ed era spesso rimproverato dalla marchesa di Mantova per la sua troppa taciturnità, è facile capire per quale ragione don Giulio sarebbe rimasto volentieri nei pressi della bella ragazza di casa Borgia. Le cose, con quei temperamenti, non potevano essere rimaste lì; ma il peggio era che il cardinale si era preso al gioco di corteggiare Angela, e che lei, da sventata, senza l'ombra della prudenza umana gli aveva detto sul viso come racconta il Guicciardini che gli preferiva il fratello minore, così bello di occhi; la tradizione confermava la frase; e la precisa, con sorprendente icastica, una notizia finora sconosciuta riportata da una preziosa cronaca del tempo, scritta dal romagnolo Giuliano Fantaguzzi e conservata a Cesena. Il cronista racconta la rivalità tra i due fratelli: e dice che, dispettosa e fiera, Angela avrebbe detto "val più gli occhi di don Giulio di quanti cardinali s'accatta". Ad ogni modo , anche se questa frase non fosse stata pronunciata, sarebbe bastato al cardinale vedere il fratello preferito ed ammirato perché orgoglio gelosia ed amor proprio gli sanguinassero. Nell'estate, col fatto del cappellano si erano accresciute le ragioni d'ira tra i due fratelli; e, probabilmente, la maternità colpevole di Angela venuta a provare anche

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troppo la fortuna di un amante, aveva inacerbito gli animi: a qual grado, si vide prestissimo.

Il primo giorno del novembre 1505, passato appena il mezzodì, il cardinale Ippolito con la sua corte ordinaria di gentiluomini e di staffieri incontrava, fuori di Ferrara, don Giulio che veniva solo a cavallo dai prati di Belriguardo. A vederselo davanti, bello, insolente, beffardo, il cardinale Provò un soprassalto di collera selvaggia: "Ammazzate costui, cavategli gli occhi" (gli era venuto in mente l'elogio di Angela?), comandò immediatamente ai suoi staffieri. Questi, con la terribile prontezza degli uomini usi ai comandi scellerati, furono addosso a don Giulio, lo scavalcarono, gli dettero con le daghe sugli occhi, mentre quattro gentiluomini della corte cardinalizia, Masino del Forno, Francesco Zerbinati, Luigi Piacentino e Ludovico di Bagno assistevano, spada in pugno: che fosse un fatto troppo crudele e soprattutto troppo inabile, lo stesso Ippolito dovette accorgersene, tornato in sé dalla prima ira, non appena vide il sangue fraterno; e, fatto lasciare il povero don Giulio malissimo conciato ma non finito, sull'erba, tenendosi la sua piccola scorta alle calcagna, cavalcava rapidamente verso i confini dello stato estense. Quale violenta scintilla aveva acceso l'incendio d'ira nel cardinale, di solito così abile nell'agire copertamente? E che voleva dire tanto traffico di fratelli proprio intorno a Belriguardo, e proprio quel giorno? Uno tornava e l'altro si disponeva ad andare: ma chi li chiamava con irresistibile attrattiva? Ed ecco l'incrocio delle circostanze: quel primo novembre, di mattina, Lucrezia con la sua corte era tornata da Mantova ed era arrivata a Belriguardo. E a metà giornata il cardinale si muoveva da Ferrara per visitare la cognata e per rivedere Angela. Fu l'immaginazione, la feroce realistica immaginazione dei gelosi a tradirlo. Incontrare don Giulio che l'aveva preceduto a Belriguardo e tornava di là saziato d'amore, avere la visione degli amanti abbracciati, del loro consolarsi di quella maternità caldamente colpevole, e magari del ridere che avevano fatto di lui, corteggiatore burlato, gli sfrenò la voglia e l'ordine del delitto. Non si sa quanto don Giulio sia rimasto col viso sfigurato e sanguinante sul prato; ma, soccorso ed aiutato, fu condotto, forse per timore di peggio in quel momento di confusione, a Belriguardo e lì curato. Lo sgomento di Lucrezia e la disperazione atterrita di Angela in quell'atmosfera di appassionata tragedia che sanno evocare le donne intorno ad un ferito di tanta pietà non ci vorrà molto a figurarselo; parole di esecrazione si sentivano mormorare in ogni tono per le trecento camere di Belriguardo, mentre medici e chirurghi venuti da Ferrara cercavano di salvare gli occhi di don Giulio. il duca Alfonso, sentito l'orrido racconto, fu tutto sconvolto; e poiché per forza di cose gli mancava il consiglio del cardinale, fece un errore politico: non ricordando che il primo dovere di un capo di stato è quello di reggere da sé le verità più cocenti senza parteciparle, scrisse alla sorella Isabella e al cognato Francesco Gonzaga una lettera a doppio fondo: in un

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foglio, era il resoconto ufficiale dell'accaduto con l'accusa agli staffieri di Ippolito dell'iniziativa e dell'esecuzione del delitto, e in un foglietto a parte la narrazione puntuale dei fatti. Momento difficilissimo per il giovane duca: egli capiva che doveva punire, e il suo senso di rettitudine gli consigliava di calare la mano secondo giustizia, ma l'affetto, la stima per l'ingegno di Ippolito, il rispetto per la sua veste cardinalizia, la difficoltà e lo scandalo di punirlo, appunto per quella veste, e infine, il bisogno che aveva di lui, lo dovettero portare a più prudenti riflessioni; sicché, quando i Gonzaga gli scrissero esortandolo ad essere severo, e dichiarandosi inorriditi da quel fatto mai udito Isabella aveva per don Giulio debolezza da sorella maggiore per il più piccolo di casa, e Francesco Gonzaga vedeva nel castigo del cardinale l'indebolimento di casa d'Este fece rispondere che non erano cose da correre a furia. Poco dopo permise al cardinale di andare e venire come gli piacesse per le terre del ducato: infine, passato un mese, gli fece scrivere dal cugino, Alberto d'Este che tornasse pure a Ferrara, anzi, tornasse senz'altro per non dare materia da discorrere ai nemici dello stato. Don Giulio era stato curato tanto bene dai medici ferraresi e mantovani, che a poco a poco si sperava di ridargli non solo qualche barlume di vista ma l'uso parziale di tutti e due gli occhi: ai medici della corte estense Isabella aveva aggiunto i suoi per essere meglio rassicurata. Il 6 novembre il ferito era stato trasportato, d'ordine del duca, da Betriguardo a Ferrara, alloggiato in Castello e trattato con amorosa premura; ma era orribile a vedersi, con l'occhio sinistro smisuratamente gonfio e il destro privo di palpebra. Egli non poteva ancora guardarsi nello specchio, ma sapeva il suo stato, e l'immagine che ricostruiva di se stesso, mostruosa, bastava a dargli la disperazione. Troppo umano che il solo pensiero confortevole fosse per lui quello di una prossima punizione del cardinale; né gli dava che si raddoppiassero le premure intorno a don Giulio: poi, come a festeggiare la pace ritrovata fece fare a Lucrezia un gran convito che fu un nuovo sbaglio. Niente poteva parer duro a don Giulio come sapere di feste dalle quali era escluso; e peggio, immaginando altre feste nel futuro si vedeva lui, il prediletto delle donne, apparire tale da suscitare pietà dove di solito era avvezzo a vedere rossori e sbiancamenti d'altro genere. Per di più, sapere che ora alle prime parti stava il cardinale, profumato, elegante e protervo, appena condiscendente verso di lui, lo rendeva, con ragione, disperato; e la sua disperazione trovava un'eco a corte tra i cortigiani anziani che avevano una debolezza antica verso il minore degli Este, e non potevano soffrire le prevaricazioni morali del cardinale. Se erano persuasi gli altri che il duca Alfonso avesse corso troppo, figurarsi lui, don Giulio; il discorso dei torti patiti era da ricominciare ogni giorno, ed egli lo ricominciava, accentuandolo, col fratello don Ferrante, che, e ciò fa onore al suo buon cuore ma non alla sua prudenza, prendeva le parti dell'offeso, né lo nascondeva. Magari lo avesse abbandonato, ché il tempo avrebbe finito per quietare ogni tumulto.

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Ma Alfonso non ne poteva più di musonerie e di tristezze; e, ad enumerarle tutte, la morte del padre, la morte del bambino, la peste, la carestia, gli occhi sfigurati di don Giulio, le angosciose alternative di quel mese dopo l'accecamento di Belriguardo, si sentiva preso da una comprensibile voglia di reazione. Rilasciò senza limite i permessi di maschere che il duca Ercole aveva tolti negli ultimi anni, inventò divertimenti nuovi per il popolo, combattimenti di uomini con maiali inferociti, e giuochi e rappresentazioni e giostre. Era il suo primo carnevale di duca e voleva che fosse memorabile: ogni giorno c'erano mascherate, ogni sera si aprivano le sale dei palazzi a balli e a rappresentazioni, dopo i quali i convitati, a gruppi, andavano a finire la serata nei saloni e nei salottini della duchessa. I cortigiani vecchi, pensando a don Giulio, scotevano il capo e uscivano in mezze parole di biasimo per tanta sfoggiata allegria; e il biasimo si accresceva quando vedevano trascurati gli atti del governo: anche l'ufficio delle suppliche, dice il Prosperi, "dorme suso". si poteva chiedere di arrivare alle considerazioni che faceva il duca Alfonso sulla necessità di andar cauti e soprattutto di evitare in ogni modo le intromissioni della corte di Roma, intromissioni pericolosissime, specie con un Papa come Giulio II che non era portato alla simpatia verso gli Estensi. Si può immaginare dunque quale delusione, quale inacerbimento, quale disperazione lo sconvolsero, quando Alfonso. con mille cautele, ma decisamente, gli fece intendere che, anziché di vendetta, si doveva parlare d'ora in poi di riconciliazione, di perdono.

Alfonso sentiva che la pace urgeva politicamente per mettere fine, con il fatto compiuto, alle incitazioni che gli reiteravano da Mantova sorella e cognato e per far tacere tutti quelli che muovevano le acque contro gli Este fino a Roma, dove Giulio II stava dubitando anche lui della versione ufficiale dei fatti e minacciava di voler chiarimenti; e non si accorse che il cammino avrebbe dovuto essere più indugiato. Tanto si disse e si promise al povero don Giulio, che alla fine gli si strappò il consenso; e il 23 dicembre lo si fece venire alla presenza di Alfonso e del cardinale nel suo stato pietosissimo, disposto all'obbedienza. Era sera; e se al lume dei torceri il volto pallido e sfigurato di don Giulio suscitò le difficili lacrime di Alfonso, non mosse nulla nel cardinale, nemmeno la voce a un tremito, quando fu il suo momento di parlare: Ippolito barbugliò che gli spiaceva assai l'accaduto, e si proponeva di essere d'ora in poi buon fratello. Drammatico, don Giulio si rivolse al duca, gli mostrò le sue ferite, gli fece osservare quanto si fosse incrudelito contro di lui. Ci fu una pausa; don Giulio non si risolveva: e solo dopo un gran sospiro disse che, sì, perdonava. Tirato finalmente il fiato, Alfonso volle parlare esortando i fratelli a stare in pace e a godersi con lui il regno: era sopraffatto da una emozione che provava lui solo, i fratelli per diverse ragioni essendo lontani tutti e due dalla consolazione umiliata del pianto. Fece poi un discorso saggio, prudente e inutile, Niccolò da Correggio; e venne, ingratissimo, il momento dell'abbraccio tra l'offeso e l'offensore. Più male

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che bene gli sfregi erano ricuciti, e l'ottimista Alfonso fidava che alla riconciliazione delle parole sarebbe presto seguita la riconciliazione degli animi; intanto comanda alla voglia che aveva Alfonso di divertirsi, Lucrezia era in un momento da rispondere bene, con quella disposizione a sperare nel futuro che Borgoforte le aveva reso e che la ferina tragedia di Belriguardo non era riuscita a dissolvere. Aveva finito per abituarsi alle donzelle ferraresi, se le teneva vicine, se non vicinissime. Nel guardaroba di corte tra i nomi di Angela Borgia, di Cinzia, di Caterina, si trovano ora quelli ferraresi di Giovanna Smagraboi, di Benedetta Ziliolo, di Eleonora della Penna, di Elisabetta Bagnacavallo:

ognuna riceveva doni: cinture, pianelle, cuffie, o addirittura vesti tagliate nei panni nei rasi o nei broccati che i fondachi veneziani e il gusto di Ercole Strozzi non lasciavano mai mancare alla duchessa. Carnevale vede in maschera la signora e le sue ragazze; e se alcune tra le più restie rifiutano di mascherarsi, sono rabbuffi da far venire giù le lacrime d'aprile dei loro diciott'anni; al calore del ballo gli occhi brilleranno poi lavati e lucenti.

Il primo discorso della stagione fu il fidanzamento di Angela Borgia; non, s'intende, con don Giulio, per il quale apparivano più che mai necessari l'ordine e la disciplina della veste ecclesiastica, tanto che Lucrezia stessa aveva scritto in quei giorni di sua mano al priore dei gerosolimitani a Venezia, sollecitando nell'ordine di Malta un posto e dei benefici per il cognato. Gli Este dovevano tutti desiderare di vedere finalmente imbrigliata la focosa ragazza per non avere altre sorprese in casa, e perché i relatori non avessero più a mandare notizie come quella, secca secca ma significativa, spedita dal Prosperi il 18 gennaio 1506: "Intendo che donna Angela, venendo, ha partorito in nave". Fatto sparire il bambino, nato certamente in dicembre, quando la duchessa con la sua corte era venuta per fiume da Belriguardo a Ferrara, di lui non si seppe mai nulla, sia che fosse morto in età infantile sia che fosse affidato a gente lontana e allevato oscuramente. Si trovò presto uno disposto a transigere sul passato non proprio virginale di Angela in virtù dei tanti benefici che la sposa, imparentata così strettamente con la casa regnante, avrebbe portato con sé; e fu Alessandro Pio, signore di Sassuolo nell'Appennino modenese. A carnevale, si vide nelle stanze della duchessa, le più intime, un cauto movimento, un andare e venire di gente, specialmente donne, che avevano nel viso la luce dei giorni nuziali; e la corte fu inorecchita ad ascoltare, e lesta a passarsi la notizia riservatissima. Lucrezia aveva ricevuto Alessandro Pio nel suo appartamento e l'aveva chiuso in uno dei suoi camerini insieme con la volonterosa Angela tenendoveli per più di due ore, s'immagina perché; né c'era bisogno che il Barone asserisse gravemente che sì, ci doveva essere fra i due la "copula", dopo un tale colloquio. Se qualche cosa può spiegare la condiscendenza di Alessandro Pio, è certo una

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considerazione d'ordine politico: piccolo feudatario anche lui del duca di Ferrara, a meno di non ribellarsi, come fece più tardi l'altro Pio, Alberto, ricavandone amarezze ed esilio, era naturalissimo che egli cercasse di farselo amico più che poteva, di vincolarlo insomma, per risparmiarsi a forza di decreti privilegiati le troppe ingerenze estensi nel suo dominio. Il giovane signore di Sassuolo era per ogni verso bene scelto; e la stranezza della procedura del suo fidanzamento, segreto ed impegnativo, si doveva al fatto che egli aveva una madre giovane, Eleonora, figlia di Giovanni Il Bentivoglio, avida di dominare lei la sua casa, e, come certe madri autoritarie, contraria ad ogni progetto matrimoniale del figlio. E poiché il giovane doveva restare fino ai venticinque anni, per testamento paterno in grado di minorità, il duca gli diede, con una concessione speciale, facoltà di riscuotere in mano propria la dote della moglie, fuori da ogni tutela materna. La questione della dote di Angela non era in termini facili; e Lucrezia che aveva mandato al cardinale Ludovico Borgia fratello della sposa e vivente a Napoli, per un aiuto, riceveva in risposta, con molte parole sui tempi difficili, la miseria di trecento ducati che più tardi salirono a mille. Ma ci pensarono gli Estensi ad alzare la cifra, garantendo un pagamento rateale, che però nel 1518 non era ancora finito. Per il momento il Pio non si portò a casa la sposa: tornava a "risposarla" come dicevano pudicamente i cortigiani, in marzo e in maggio, aspettando di appianare le cose con la procellosa madre per fare lo sposalizio solenne. Angela, lei, dimentica di don Giulio, e sentendosi innocente della tragedia di Belriguardo, faceva la sposina e dannava la pazienza di tutti con le sue pretese e i suoi capricci. Si voleva maritare bene; e non poteva quindi fare a meno di una sua carretta personale di raso e velluto; né pensasse, lo sposo, di confinarla lassù in provincia, lontana dalla corte. Se non aveva palazzo a Ferrara, ne avrebbe preso uno in affitto almeno per i mesi d'inverno: e il corredo doveva essere magnifico, e comprendere anche una veste di drappo d'oro fino: a questo punto il fidanzato non resse e le rispose che la veste d'oro se la facesse con i denari della dote, il che era manifesta ironia. Litigarono; ma è probabile che Angela finisse per avere anche la veste d'oro regalatale dalla cugina duchessa che l'amava e che le donava continuamente abiti listati d'oro e di velluto per comparire a corte. Lucrezia aveva in quel momento il capriccio del bianco, capriccio raro che tutte le donne eleganti hanno conosciuto almeno per una stagione: si fece, tra gli altri, un vestito specialmente studiato, bianco, listato di velluto nero, con le maniche foderate di ermellino; di diversa significazione, più sontuoso e meno scelto, un altro vestito di tela d'oro, e, dice la galante descrizione, "tutto listato di franzette di seta". Erano questi, tra gli altri, gli abbigliamenti che la duchessa indossava quando con la maschera sul volto usciva a cavallo in piccola comitiva per le vie di Ferrara; conduceva con sé, allegrissima, Angela, e Ginevra da Correggio, sposa ventenne, la più delicata figlioletta che fosse in Ferrara. Né per essere affidate a cavalieri maturi e decorosi, Niccolò da Correggio, Girolamo Ziliolo e il Barone, le tre giovani donne erano male

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affidate, tutt'altro; poiché la galanteria di quei gentiluomini, e dell'amabile Correggio per primo, era robusta ed affilata, altrettanto piacevole e meno faticosa da sostenere della galanteria incalzante dei giovani cortigiani. Una comitiva usciva, un'altra rientrava, quella del duca o quella del cardinale; s'incontravano per le strade, parole e motti s'incrociavano sotto la maschera. Al cardinale non bastavano i giorni per vivere, tanto lo occupa: vano i pensieri dei balli, e tanto tempo gli occorreva per disegnare ed ordinare le sue mascherature, e le "foggie galanti e di spesa" che facevano restare gelati di ammirazione i cortigiani. Si riaprì il palcoscenico; e di nuovo scenografi e commediografi, traduttori e coreografi, attori e ballerini, cominciarono a preparare spettacoli. Lucrezia ordinava alcune commedie su casi d'amore tratti quali da novelle del Boccaccio quali da altre fonti, e tutte molto commentate per la lascivia dei gesti e delle parole. Brillava il riso negli occhi delle donne: allo scintillio, poeti e poetucoli si entusiasmavano, afferravano la penna e cercavano di fermare nei loro versi quelle bellezze fuggitive. Si provava a celebrarle, come già l'ignoto poeta spagnolo qualche anno prima, Giorgio Robuto di Alessandria che vedeva Lucrezia Sopra una nube candida d'argento come una delle incisive e ornate allegorie di Belfiore. C'era Isabella d'Este a "paro" con lei, per salvare chi scriveva dai possibili fulmini della marchesana. Seguivano, poi, Diana d'Este, Angela Borgia, Barbara Torelli, Cinzia e Caterina napoletane, Samaritana, Nicola, la Montina, la bella Isachina, la Taruffa e moltissime altre: non mancava nemmeno un accenno alla negra di Lucrezia che pareva Andromeda, ma senza Pérseo non senza sì allegra, come era invece la giocosa morettina. I versi andarono in mano di Lucrezia e, se non erano tali da accrescere la gloria di chi aveva ispirati gli Asolani, valevano almeno per la cronaca cortigiana: non tutti erano l'Ariosto, né il Bembo e nemmeno Ercole Strozzi. Quanti malinconici ed irosi pensieri destasse questo carnevale in don Giulio dimenticato dall'egoismo dei fratelli e dall'incostanza di Angela, è facile immaginare. Nell'oscurità ancora necessaria ai suoi occhi dolenti, nella solitudine e nel silenzio l'eco delle feste di corte doveva fargli sentire e risentire la miseria della sua condizione e l'ingiustizia di quei fatti raccomodati così malamente per essere dimenticati al più presto. Con don Ferrante che, affascinato dalla vitalità di quelle lagnanze, lo stava a sentire, ritornava, sempre con una parola di più e ogni volta più avanzata, sulla storia dei suoi patimenti, cominciando a passare, man mano che le forze gli tornavano, dalle querimonie ai propositi di farsi giustizia. La colpa del cardinale diventava, ora, colpa del duca che non aveva voluto punire secondo la legge; pensare di agire contro di loro, di ucciderli, avendosi in premio regno Onori e poteri era un'avventura tanto grandiosa e giusta da superare e da ravvivare ogni loro fasto immaginativo. Così l'idea, appena formulata prima, più che altro per consolarsi di essere così inetti, cominciò a lavorare da sé, si trovò un giorno progetto. Portati dai loro rancori, vi si impegolarono il vecchio Albertino Boschetti al quale Alfonso d'Este contendeva il feudo di San Cesario, il genero di lui Gherardo de

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Roberti, capitano delle guardie ducali, e Gian Cantore di Guascogna, prete, fin troppo favorito per la sua bella voce e per meriti di ruffiano da Ercole e da Alfonso d'Este. Se per i due primi era facile capire la ragione che li spingeva alla cieca impresa, per il terzo invece è difficile: Gian Cantore aveva tutto da rischiare e ben poco da guadagnare, forse, una volta che fossero al potere due come don Ferrante e don Giulio; pure, sia che sperasse alto, sia che avesse particolari ragioni di odio verso il duca Alfonso, il biondo e grasso guascone fu della partita, e i congiurati cominciarono a radunarsi, a parlare e a riparlare, dando subito gli uni agli altri la misura della loro incapacità anche nel delitto. Provavano veleni senza mai decidersi a stabilire il modo di usarli; ebbero tutti gli agi, tutte le occasioni, perché Alfonso era senza sospetti e arrivò perfino, una volta, a lasciarsi legare dal guascone sul letto di una cortigiana in una giornata di spassi grossi; ma Gian Cantore, sia che non avesse animo, sia che temesse di essere preso, non osò tirar fuori il pugnale, e finì per liberare egli stesso il duca che scoppiava dalle risa per la novità dello scherzo. Un'altra volta i congiurati in armi si appostano ad un bivio, aspettando: Alfonso passa da un'altra parte. S'inebriavano a freddo: don Giulio si trovò un giorno guarito senza essersene accorto; non sentiva più pesargli il tempo addosso, e si guardava allo specchio solo per rafforzare in se stesso il proposito e la legittimità del proposito: ma la preveggenza e la perspicacia del cardinale Ippolito stavano già sopra i congiurati. Di aprile, Alfonso andò in viaggio lasciando il governo della città in mano alla moglie e al cardinale, e la corte nell'inquietudine. Era stato notato che, prima di partire, il duca non aveva conferito con nessuno dei cittadini, né con gli zii, né con i fratelli minori; e a Lucrezia aveva dato ordine di scrivergli solo in caso di estrema urgenza che importasse la sicurezza e il mantenimento dello stato. "Qualche cosa di sinistro va intorno" aveva già detto qualche tempo prima Bernardino de Prosperi, scrivendo alla marchesa di Mantova e ricapitolando le previsioni della corte: e soggiungeva, poi, con un ottimismo forzato, di non credere però che don Giulio avrebbe mai fatto qualche cosa contro il fratello: alludeva, s'intende, ad Ippolito, perché a nessuno veniva in mente che don Giulio potesse diventare temerario al punto di dare alla sua vendetta l'alto prezzo della vita del duca. "Tra don Giulio e il cardinale non vi sarà mai più nulla di buono" ripeteva qualche giorno dopo il Prosperi. Certo, in questo periodo il cardinale dovette finire di raccogliere le fila che aveva tessute una per una intorno all'insensatezza del fratello. Quasi certamente era stato messo dal cardinale vicino ai congiurati un "assai tristo uomo", Gerolamo Tuttobono, che a congiura scoperta non si ebbe che poca punizione, per mostra, e che doveva fare da spia e da agente provocatore. Il cardinale giocò abilissimamente; e mentre Alfonso, messa da parte l'idea di un pellegrinaggio a Sant'Iacopo di Compostella in Galizia, visitava invece la fiera di Lanciano in Abruzzo e di lì passava in rassegna, malissimo visto dai veneziani, i porti dell'Adriatico, strinse le fila, le ebbe in mano, e richiamò il fratello maggiore. Alfonso, avvertito, prese la via del ritorno da Bari, dove,

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in compagnia della cugina Isabella d'Aragona, visitava castelli e fortezze e dove certo avrà visto il duchetto figlio di Lucrezia: il 2 di luglio giunse a Lugo trovando qui Ippolito, che sotto mostra di andare a Vigogna era venuto ad incontrarlo: il 3 luglio arrivò a Ferrara facendo notare a tutti il suo pallore e il suo smarrimento. Don Giulio, intuita qualche cosa, era in quel momento a Mantova dalla sorella Isabella; ma d'improvviso la molla in mano del cardinale scattò, schermi e ripari caddero; dei congiurati, il Boschetti, il Roberti, don Ferrante furono presi; don Giulio, riparato al possibile da Isabella, fu infine consegnato contro promessa formale di lasciargli la vita e di metterlo in prigione sana; Gian Cantore che era riuscito a fuggire più lontano, e cioè a Roma, e a farsi benvolere per le sue arti istrioniche dalla favorita di un cardinale, fu preso anche lui più tardi. Confessata dai complici la congiura, il processo si svolse fulmineo e regolare, e si concluse con le condanne. Il Boschetti e il Roberti furono decapitati e squartati in piazza, alla presenza di don Giulio e di don Ferrante, ai quali era stata letta la stessa sentenza: solo quando i due estensi stavano per salire a loro volta sul palco del supplizio, sentirono annunciarsi che la magnanimità del duca donava loro la vita da trascorrere in perpetua prigionia. Il carcere era pronto, in una delle torri del castello: due stanze sovrapposte, imbiancate nei muri e murate nelle porte: i cibi e le rare persone che vi venivano per dovere d'ufficio, si calavano giù da una porticina aperta in alto nella parete, presso il soffitto; più tardi fu dato modo ai due prigionieri di poter comunicare fra loro, e fu aggiunto alle due stanze un terzo ampio stanzone illuminato ed aereato dal quale potevano vedere la strada fino all'ospedale di Sant'Anna, e commentare il passaggio della gente. Quasi per un'altra e più recondita sentenza, i due fratelli durarono in questa segregazione quanto due generazioni di duchi estensi: don Ferrante morì dopo quarantatre anni di prigionia; don Giulio ne uscì dopo cinquantatre, liberato da Alfonso II, il duca del Tasso. "Chi fa male il danno è suo" aveva detto Niccolò da Correggio riassumendo il pensiero del popolo e della corte. Scampanio allegro, salve di cannoni e Te Deum si seguirono. Al terrore e all'ansia della scoperta succedeva il giubilo di aver superato il pericolo del disordine e del sangue, e il sentire l'aria intorno alleviata e schiarita. I beni di don Giulio e di don Ferrante furono distribuiti ai conti amici di Alfonso, Niccolò da Correggio, il Barone, del Forno, Riccio Taruffo. Andrea Pontegino, il gentiluomo che aveva fatto il gesto di sputare in viso al capo della miserrima congiura quando era stato condotto incatenato da Mantova, si ebbe un'osteria. Lucrezia sembra abitare di questi tempi in una zona di silenzio. Qualche cosa tentò segretamente di ripescare anche lei: fu opera sua il salvataggio di quel don Rainaldo cappellano causa della prima lite aperta tra i fratelli, che era stato perduto di vista dopo il furtivo e quasi comico scivolare della sua sottana dentro la prigione dalla quale era stato liberato con tanta baldanza. Fosse o non fosse un pavido, il prete aveva di che tremare d'essere capitato fra quelle contese; ma ne venne fuori bene, perché è certamente lui il

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cappellano che nel registro di guardaroba di Lucrezia all'anno 1508 è indicato come stipendiato della duchessa per il suo servizio personale di cappella. Ad Ippolito, è da supporre che non importasse più nulla di quel subalterno e che, anzi, lo guardasse con un suo freddo accenno di sorriso.

Il mondo politico stava in quei tempi fervendo: Giulio II, il battagliero pontefice di Savona, pur essendo nemico perfino al nome dei Borgia, continuava, rafforzandola, la politica di Alessandro VI e del Valentino; voleva cioè che le terre della Chiesa, abbandonate da troppi secoli in mano di feudatari sregolati e facinorosi, tornassero sotto il dominio diretto della Chiesa. Venezia aveva dovuto cedere qualcuna delle terre arraffate in Romagna al tempo della caduta del Valentino; i fiorentini avevano dovuto imitare i veneziani. Nepi, Sermoneta, Camerino, gli effimeri ducati dei bambini Borgia, erano tornati in mano del Papa il quale restituiva le terre ai baroni romani spodestati da Alessandro VI per farseli amici e aver sicure le spalle. E, a consolidare la sua alleanza con gli Orsini, ideò un doppio matrimonio: quello di sua figlia, l'animosa Felice della Rovere con Gian Giordano Orsini, e quello di suo nipote, Niccolò della Rovere, con una Orsini già nota a questa storia, Laura, figlia di Orsino Orsini e di Giulia Farnese, già creduta figlia di Alessandro VI.

Giulia Farnese, poco più che trentenne e splendente ancora nell'opulenza della sua forma fisica si godette la soddisfazione di rientrare da onoratissima ed ossequiatissima dama in quel Vaticano che l'aveva vista trionfare in altro modo quattordici anni prima, vincendo per intensità di bellezza, secondo i senatori, tutte le dame, compresa la figlia sposa. Per nulla disgustata dal mondo, la Farnese, vedova del suo guercio marito, appena maritata la figlia pensava a nozze per sé e si diceva che avesse scelto un gentiluomo napoletano benissimo fornito "di ciò che non si può vendere", e famoso per questo: con lui avrebbe provveduto alle consolazioni del suo ricco presente di donna, se pure, diceva l'informatore, avesse avuto modo di conservarsi a sua posta il napoletano che le era assai conteso a Roma, dove esuberanze di quel genere erano fin troppo apprezzate. Lo sposò infatti: e si chiamava, secondo l'albero genealogico dei Farnese in Vaticano, Giovanni Capece Bozzato. Laura Orsini aveva una certa fama di bellezza, ma Emilia Pio, che ebbe a vederla da vicino a Roma, la giudicò di molto inferiore alla madre, e rinvilita da certi modi aspri e poco civili, e da certo parlare rozzo, che starebbero a dimostrare una volta di più la sua discendenza dallo strambo Orsino piuttosto che dall'aggraziatissimo Alessandro VI. Probabilmente anche Giulio II era di questo parere, e sapeva di dover attribuire la paternità di Laura ad Orsino, altrimenti non avrebbe trattato un matrimonio fra lei ed un suo nipote, egli che aborriva come pestifero tutto ciò che era stato borgiano. Laura ebbe poi una vita agitata, passando da un uomo all'altro, cosa, in sé, delle meno interessanti che vi siano: e

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dimostrando così che, come tutte le tradizioni, anche la grande tradizione amorosa può nei figli sviarsi e decadere.

Imbastiti questi matrimoni, e rimessi nelle loro terre Orsini e Caetani, Colonna e Savelli, una volta sicuro in casa, Giulio II diè mano al suo programma contro i feudatari della Chiesa, i quali cominciavano a pensare di essere scampati a Cesare Borgia per cadere in più gravi pericoli. Primi a pensarlo davvero furono i Baglioni di Perugia e i Bentivoglio di Bologna. Contro questi sediziosi sui quali il Papa non aveva più nessuna potestà e che esercitavano il loro dominio da tiranni ereditari, viziosi era noto che il capo dei Baglioni, Gian Paolo, viveva maritalmente con la bellissima sorella , discordi, sanguinari, omicidi, Giulio II si mise risolutamente in guerra facendo alleanza con Ferrara Mantova Urbino Firenze e Siena, e cercando di evitare il pericolo dell'intromissione francese in favore dei Bentivoglio; e, fatte preparare le truppe, ordinati armamenti e vettovaglie, si mosse a capo del suo esercito la mattina del 26 agosto 1507 dopo aver benedetto il popolo romano a Santa Maria Maggiore. L'Italia di allora aveva visto molti eserciti pittoreschi; ma nessuno come questo, condotto da un Papa che pareva l'allegoria della Santa gesta dantesca, seguito da tutta la sua corte cardinalizia, pronto ad accamparsi sotto una tenda, a condurre la marcia, a sostenere ogni fatica. Per Viterbo Montefiascone ed Orvieto, in rapide marce notturne che risparmiavano lo spossamento del caldo, si arrivò alle mura di Perugia: dove i Baglioni, visto tanto esercito, e stretti dall'odio del popolo, si sottomisero senza lotta e lasciarono libero al Papa l'ingresso nella città, il 13 settembre. Negli otto giorni seguenti Giulio II restaurò a Perugia la sovranità della Chiesa, riordinò la magistratura, fece bandire tutti quelli che erano in colpa di delitti civili. Appena gli parve di aver posto un principio d'ordine stabile, riprese la marcia verso Bologna. Giovanni Bentivoglio che reggeva la città era un nemico serio: fidava nella fedeltà dei bolognesi, nella forza e nella risolutezza dei suoi figli, e nell'aiuto dei francesi. Ma il 30 settembre alla notizia che il re di Francia, mandate al Papa lettere di obbedienza, si diceva pronto ad aiutarlo con truppe e cannoni, la causa dei Bentivoglio si poté dire perduta. Ed era legittima la gioia di Giulio II che, ricevute le lettere del re, prese a spronare il cavallo per i viottoli montuosi presso Macerata, senza sentire più le trafitture della gotta, e senza accorgersi del fango e della pioggia che rendevano disagiato il cammino. Era ottobre inoltrato, le cime dei monti mostravano già il bianco delle prime nevi, quando il Papa si mosse da Forlì, e per non toccare Faenza, terra dei veneziani, imboccò la stretta valle del Lamone, iniziando una marcia faticosissima tra valichi così malagevoli che bisognava superare i punti più ardui a piedi, scendendo dalle cavalcature. Il Papa non poteva camminare bene, impedito dalla gotta: si faceva sostenere a turno dai suoi familiari, e così sorretto, andava avanti senza perdere nulla del suo fervore, accettando fatica e patimento con eguale serenità. Intorno, quelli del suo seguito erano tutti i momenti a non

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poterne più e a dimostrarlo con sguardi supplici e disperati. In un punto più duro degli altri, il Papa si volse, guardò uno per uno i suoi, si animò con uno dei rarissimi sorrisi che si aprivano chiari sul suo volto tempestoso; e citava i versi che Virgilio fa dire ad Enea: "per varios casus, per tot vicissitudines tendiinus in Latium". Passarono. Gli Este con tutto il loro amore di parte bentivogliesca non avevano potuto fare a meno di entrare nella lega papale, perché anch'essi feudatari papali: avevano però l'animo, se potessero, di agire senza danno dei signori bolognesi. Ad Imola andò ad incontrare il capo della Chiesa il cardinale d'Este preceduto da un dono di cibarie, cento capponi, cento sacchi di farina ed altri viveri, tutti gratissimi: meno grato fu Ippolito che nel suo incontro con Giulio II già prevenuto contro di lui per una vecchia antipatia rinvalidita dagli avvenimenti dell'anno prima, urtò la schietta e secca natura del pontefice, e si ebbe, riportatagli da un prelato del seguito papale, una ramanzina violenta che toccava specialmente le cose che il cardinale d'Este curava di più, la sua zazzerina di capelli lisciati e ondulati, e la sua maniera galante, quel "far tanto la ninfa" con la grazietta e con le belle mani famose che entusiasmavano le donne letterate compresa la poetessa Veronica Gambara. Più accetto fu Alfonso che arrivò anche lui nei giorni seguenti a fare omaggio al suo alleato: ma era vero che il Papa non si dava via in proteste amichevoli con gli Estensi.

A Roma non si finiva di commentare la tragedia di don Giulio e don Ferrante; e interpretando gli umori del Vaticano, si diceva che lo stato di Ferrara sarebbe durato poco, tanto più che gli Estensi erano sospettati di appoggiare segretamente i Bentivoglio. Che questa non fosse affatto una supposizione avventata prova un episodio accaduto a Ferrara nei primi giorni della proclamazione della lega. Il Papa, scomunicati e chiamati ribelli i Bentivoglio, aveva fatto mandare per tutti gli stati italiani, ripetuta in molte copie, la bolla di scomunica perché si affiggesse sulla porta della chiesa principale di ogni città. A Ferrara, l'inviato pontificio, giunto il 21 ottobre, si avviava dritto al duomo; ma un capitano di Alfonso e familiare del cardinale, quel risolutissimo Masino del Forno detto il Modenese, sempre pronto a muovere mano spada e pugnale ogni volta che i padroni gli facessero cenno, andò a lui e gli strappò di mano la bolla, mostrandogli un viso insolente. Vi fu un incidente diplomatico, avendo il messo dichiarato di sentire offesa nella sua persona l'autorità del pontefice: e a gran fatica Alfonso riuscì ad aggiustare la cosa, spiegando che il Modenese aveva preso la bolla per farla vedere a lui, duca, perché egli stesso gli aveva dato l'incarico di farsela consegnare, in cortesia, s'intende, per leggerla, e se al messo fosse piaciuto: l'interpretazione era andata dunque più in là del comando, ma aveva anche denunciato quali fossero gli umori della casa ducale. In quei giorni e per i patti della lega antibentivogliesca gli Estensi si videro costretti a rifiutare ospitalità perfino ad una delle loro, Lucrezia d'Este Bentivoglio la primogenita del duca Ercole che venne a Ferrara con un delizioso seguito di cinque

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figlioline, e "bella più che mai" dicevano i cortigiani, nel suo dolente affanno di fuggitiva. Fuggiva la imminente rovina dei Bentivoglio. Il 10 novembre Giulio II entrava a Bologna con gran trionfo: sotto il baldacchino pontificale, circondato da cardinali da prelati da capitani e da cerimonieri, rivestito di superbi paramenti tutti costellati di gemme, Il Papa passava tra le rosse prospettive della ricca città emiliana, tra il popolo bolognese che, entusiasmato, gridava evviva. A Ferrara, l'eco di questi plausi faceva quasi sgomento. Verso la fine del 1506, Cesare Borgia trovò finalmente il modo di fuggire dalla prigione di Medina in Ispagna, e riparò presso i cognati di Navarra: la sua fuga, un avventuroso problema mille volte posto e risolto calcolando una pausa bene spaziata, uno sguardo trattenuto a tempo, un rapido moto, aveva mostrato ancora vive in lui, anzi più che mai vive, quelle qualità di dissimulazione, di sangue freddo, di comprensione felina degli uomini e di audacia che l'avevano reso potente e che, se contavano di meno, ora, per la storia, valevano in assoluto assai di più. Dalla Navarra, sotto il tetto appena ospitale dei cognati d'Albret, il Valentino aveva mandato uno spagnolo di nome Garzia a Lucrezia perché sapesse della sua evasione e perché cercasse di aiutarlo. Lucrezia rabbrividiva di felicità: e a chi farne parte se non a Francesco Gonzaga? Ella gli scrisse, sentendo, mentre scriveva, la sua gioia aumentare: poi, presa dal fervore di aiutare il fratello, scriveva alla corte di Francia, all'oratore ferrarese a Parigi, Manfredo Manfredi, dandogli l'incarico di mandarle notizie giornaliere di ciò che si trattava in Francia per il Valentino. Il Manfredi rispondeva essere arrivato a Blois un inviato del duca di Romagna, monsignor Requesens, chiedendo a nome del suo signore il permesso di venire a prendere possesso del ducato di Valentinois; ma a Luigi XII, ora che Papa Alessandro non era più lì ad aiutarlo nelle sue imprese d'Italia, mettere in mano ad uno come Cesare una sua provincia, pareva, più che un rischio, un assurdo: si scusava dunque, e chiamava in argomento il rispetto che i re si debbono portare l'uno con l'altro, in questo caso lui al re di Spagna. Non gli si addiceva, dunque, ricevere e dare stato ad un evaso dal carcere di Ferdinando il Cattolico. Lucrezia leggeva i rapporti del relatore, ma, con l'ostinato ottimismo di suo padre, non si spaventava, suggeriva risposte, inventava argomenti, e si raccomandava con preghiere: scrisse anche al cardinale legato, mise in moto mezzo mondo, o almeno si illuse di metterlo in moto con le sue mani di donna sola, con la sua firma screditata, sotto la vigilanza e la neutralità degli Estensi che fingevano di appoggiate blandamente le sue richieste. Il re finì per dire aperto il suo pensiero: non vedeva, cioè, come poter accondiscendere alle domaride della duchessa di Ferrara, senza grave danno del proprio onore. Per niente scoraggiata, Lucrezia insisteva ancora, insisteva sempre. Il Requesens portava le notizie dalla, corte di Blois alla corte provinciale di Navarra mentre il Garzia mandato in Italia dal Valentino, ritornava poi al suo padrone, con lettere, e forse con denari. A Lucrezia bastava pensare che il fratello era libero per presagire risorto a vita il toro

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borgiano: Cesare aveva trent'anni, e certo avrebbe trovato, appena avesse potuto entrare nel giuoco degli interessi europei, la via per riafferrare il potere: si diceva già che i veneziani volessero chiamarlo nel territorio della Repubblica, e servirsi di lui per bilanciare le conquiste di Giulio II. Bastava aver pazienza e aspettare.

Con questa speranza fraterna, e con quel sentimento amoroso che operava in lei segretamente, Lucrezia finiva per trovare sopportabili anche le mura del castello estense. Passava da Ferrara, in quel carnevale, Francesco Gonzaga, nominato da Giulio II capitano generale della Chiesa, portando il suo titolo come un ornamento di più per farsi amare, ed ella era lì a riceverlo avendo mobilitato sarti e acconciatori e musici e dame e donzelle: in tela d'oro, in velluto, in broccato e ricami, la duchessa scendeva in sala grande, ballava col suo Gonzaga, si isolava con lui nella coreografia di un passo complicato, gli faceva intendere la esotica eleganza del suo passo, la leggerezza il fuoco del suo volteggio alla musica persuasiva delle viole: non si ha la cronaca minuziosa dei loro trattenimenti, ma non ci vuol molto ad immaginare lo spirito che li animava, se tutta Ferrara notava la "gran ciera e carezze" di che Lucrezia onorava il cognato. Danzò tanto, ella, e con tanto ardore, che il terzo esterise che portava in grembo andò perduto. "La signora sperdette ieri che fu venerdì" informa il Prosperi "e il signore [Alfonso l è stato di malissima voglia, e, secondo intendo, più di quello [che] fece quando il figliolo nato morì, per vederla tanto indebolita nella schiena." Alfonso non era così delicato da nascondere il suo malumore, e fece capire alla moglie di ritenerla colpevole dell'avvenuto per quelle sue smodatezze di ballo. Forte, vigoroso fino alla rozzezza, il giovane duca aveva, e lo dimostrava con i suoi gusti per le cortigiane e le popolane, in gran fastidio quella fragilità femminile che commuoveva invece sensualmente e teneramente Francesco Gonzaga. Ma Lucrezia non aveva voglia di preoccuparsi dei rimbrotti maritali, e pochi giorni dopo era già in piedi a ricevere un gruppo di cardinali giovani e goderecci che venivano al seguito di Giulio II, da Bologna, al piaceri della corte ferrarese. Non le pareva vero di mettersi alle compiaciute fatiche di feste in onore dei cardinali Narbona, d'Aragona, Colonna, Medici e Cornaro ospitati da Ippolito e dai suoi amici. A vedersi intorno quei giovani ecclesiastici, anche se privi della porpora cardinalizia erano tutti venuti in incognito e travestiti si resuscitava in lei la memoria di antiche date, si ricomponevano le visioni di questo o di quel concistoro che aveva segnato il grado dei suoi poteri. Era nel suo elemento, e lo dimostrava: tanto che, vedendola uscire dal suo solito altero riserbo, si diceva in giro che la duchessa si meritava davvero "laude e comendazione" per i suoi buoni portamenti cortigiani. Di nuovo le sue vesti erano soggetto di conversazione e non solo femminile: un abito di raso nero tutto coperto di piccole foglie d'oro battuto che andavano allargandosi dall'alto verso l'orlo del vestito, in un disegno che aveva "del galante e del ricco"; e un altro, di velluto nero

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tagliato "a liste larghe come una mano, profilate di tronchi d'oro battuto con certe fibbie d'oro sulle maniche che faceva bello e ricco vedere".

Lucrezia ebbe una ricaduta; ma si rialzò subito, e il 22 febbraio dette ballo e cena a Camillo Costabili e alla sua sposa.

Ferrara sembrava partecipare della fervorosa vitalità della duchessa; dovunque era rumore di festa: a lato delle grandi riunioni a palazzo ducale c'erano le minori, private, e in queste ultime le donne brillavano forse meglio, con più libertà e più spirito. Bighino Trotti con la moglie, la Nicola favorita della duchessa, fu uno dei primi a mettere di moda riunioni sceltissime di pochi convitati che si conoscevano bene: le sue furono immediatamente celebri per il tono alto e un po' snobistico nel quale erano tenute, per qualità e per frequenza di invitati. Vi brillavano, oltre la indemoniata e vigilata vena della Nicola, l'eloquenza e la cultura umanistica di Barbara Torelli, intellettuale senza pedanteria, la sciolta raffinata maniera di Giovanna Malatesta, il fuoco e il brio di Angela Borgia, quattro donne belle e famose per amori e avventure; gli uomini avranno certo corrisposto alle loro compagne: erano "festuze assai bone" come dicevano ghiottamente i patiti di cortigianeria.

Alle commedie profane succedevano le commedie sacre. Lucrezia aveva fatto venire quell'anno frate Raffaele da Varese che era, stando al dire delle sue penitenti, "uomo veramente utilissimo all'anima". Il volonteroso frate, a vedersi intorno tanti bei visi intenti e imbellettati, incoraggiato dal fervore che gli si dimostrava, pensò di iniziare una piccola riforma di quelle che davano autorità ad un predicatore anche se destinate alla fortuna di una stagione, e si lanciò a prendere d'assalto gli abbigliamenti femminili, il lusso delle sete e dei broccati, la pompa degli ornamenti, la vanità dei rossetti e dei cosmetici, strumenti, diceva, di Satana. Le donne si mettevano sul viso, allora, una manteca chiamata "liscio", nella quale entrava in composizione anche del sublimato, destinata a fare sulla pelle uno strato bianco e leggero da colorirsi poi nelle gote in rosei maiolicati. Lucrezia, persuasa dalle prediche, credette di arrivare ad una riforma severa comandando a tutte le donne di corte, per quanto tenevano alla sua grazia, che abolissero il "liscio": un po' di rossetto, però, diceva conciliante, poteva passare; ed ella stessa comandò ai suoi alchimisti, forse a quel maestro Fabrizio delli Muschi che le forniva già da tempo polvere di Cipro, di prepararle acque distillate, succhi d'erbe aromatiche per lavarsi il viso a lisciarselo con meno vistosità e certo con più igienica grazia che non con la biacca al sublimato. Il venerdì della settimana santa, alla predica grande, donne e ragazze fecero la mostra, ben guardate dai ferraresi che erano andati, giovani e vecchi, a godersi la sfilata. Parvero tutte molto più belle, ma fu notato che "tuttavia il rosso era stato molto abbondante, cominciando dal capo sapiente" (quasi certamente così si

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designava Lucrezia). Ci furono le ribelli, Giovanna Malatesta, Elisabetta dall'Ara, Isabella Cantina, Eleonora della Penna, che non avrebbero sopportato l'imposizione "se crepassero": Ginevra da Correggio si imbiancò anche lei il visetto, Diana d'Este comparve con pochissimo rosso e pochissimo bianco, quasi al naturale, e bellissima. Sotto le suggestioni del frate di Varese, Lucrezia cominciò a progettare altre riforme del costume. "Si deplorano le portature scollate" era il grido d'allarme delle ferraresi che vedevano vicino il tempo di doversi coprire fino alla gola; e si sarebbe limitato l'uso dei cocchi dei lacchè e delle "faldiglie" cioè degli strascichi, riservando queste pompe alle dame di rango. Come riforme accessorie, si parlava di far mettere agli ebrei berrette gialle che li facessero distinguere da lontano, e si davano ordini severi contro la bestemmia, con una multa a scala di valori, due ducati per bestemmie a Dio e alla Madonna, un ducato per le bestemmie ai santi, rispettando le gerarchie celesti. Ma le donne ferraresi non erano tali da lasciarsi sopraffare; e vedendosi minacciate nell'unica espressione di libertà loro consentita, il genio e il gusto dell'abbigliamento, organizzarono una vera ribellione, rafforzandola ognuna nel suo cerchio familiare con tanta destrezza, che mariti fratelli e padri si unirono per far arrivare in corte una protesta. Pareva loro, dicevano, che a tutti dovesse essere lecito spendere il proprio denaro a modo proprio, e che sarebbe stato più utile volgere l'animo a "cose di maggior momento e dove si offende Dio e il prossimo con più gravezza dell'animo e maggior detrimento dei beni temporali", piuttosto che a queste riforme esteriori. Lucrezia capì benissimo la saggezza di queste argomentazioni, e non si parlò più di misurare le scollature e la lunghezza degli strascichi: a fra Raffaele non mancavano degni argomenti di predicazione, e ripiegasse dunque su quelli.

Venne la primavera. Lucrezia, nelle sue stanze di corte, si intratteneva in conversazione con alcuni familiari e parenti, fra i quali era Ercole d'Este, cugino d'Alfonso: il duca era partito per uno dei suoi viaggi, lasciando nelle mani della moglie il governo del ducato, a gran dispetto d'Isabella d'Este intollerante del fatto che si potesse riconoscere ad un'altra donna, e proprio alla sua rivale, capacità di reggere lo stato. Ma anche i più cauti informatori dovevano riconfermarglielo: "Quasi che io lo credo" le scriveva il Prosperi "perché non si sente parlare del cardinale". All'esame delle suppliche Lucrezia presiedeva da sola e senza riposo, e così agli altri uffici del ducato; e il cardinale l'avrà poi in segreto consigliata e diretta, non figurava però ufficialmente. Quel giorno, finiti gli affari pubblici, Lucrezia era entrata in un discorso difficile: la gravezza del vivere, l'affanno di questo trasvolare del tempo, la condanna di andare avanti fra tanti caduti, tutti temi antichi che ognuno deve riscoprire e svolgere ad uno ad uno per conto proprio. Rievocando il suo dolore al tempo della morte del padre, quei gorghi di angoscia, descrivendo la sua lenta morte e la volontà di annientamento che aveva provato, concludeva che non avrebbe mai più, per nessuna ragione in

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avvenire, voluto attristarsi a tal punto, essendo questa tristezza inutile e vana. Mentre le sue labbra proferivano queste filosofiche e un poco disumane considerazioni, uno spagnolo stanco e polveroso, col volto segnato da una notizia inesorabile, entrava nel cortile del palazzo ducale, smontava da cavallo, e annunciava semplicemente ai funzionari di servizio che Cesare Borgia era morto. Un momento di oscillazione si propagò dai cortili alle sale e alle stanze: ad un tratto sulla porta dell'appartamento di Lucrezia apparve la sottana di fra Raffaele; e un minuto dopo ella sapeva tutto. Rimase immobile sotto quegli occhi che la spiavano, non fece sentire un lamento, e appena poté parlare, uscì in una frase di rivolta contro la divinità: "Quanto più cerco di conformarmi con Dio, tanto più Egli mi manda a visitare". Poco dopo aggiunse: "Ringrazio Iddio, sono contenta di ciò che gli piace". Fu chiamato lo spagnolo, un paggio del Valentino di nome Grasicha, o Garzia, a raccontare le circostanze della morte del suo signore. Cesare, combattendo a Viana, insieme con i cognati, contro il conte di Lerin in una guerriglia provinciale, aveva guidato cento cavalieri ad una sortita, e, messi in fuga i nemici, li aveva inseguiti con tale foga, da non accorgersi di aver troppo sopravanzato la sua scorta e di precipitare fra le linee nemiche. Qui, assalito da una forte squadra, era stato ferito, ucciso, spogliato di tutte le sue armi e dei suoi vestiti, lasciato nudo sulla terra invernale fino a che i suoi soldati non erano arrivati a cercarlo. La morte di un guerriero, dunque, dicevano, quasi levando le armi agli onori militari. Lucrezia capiva invece che era stata una morte disperata, quasi un suicidio. Il Valentino, sempre presente a se stesso, come aveva dimostrato anche nella sua fuga dalla Spagna, non era uomo da lasciarsi trascinare dall'ardore guerresco per puro amore d'esercizio d'armi: ciò che lo aveva tratto a cavalcare così alla disperata, cacciando non i nemici ma un suo pensiero, poteva essere stato il senso angoscioso di essere tagliato fuori dal mondo nel quale pareva non esservi più posto per lui. Da pochi giorni era arrivato da Blois il Requesens con la sentenza di bando e di inimicizia da parte del re, e Cesare doveva sentire che i cognati d'Albret si servivano di lui per la loro guerra, ma che in fondo lo trattavano da parente povero, e chissà, l'avrebbero presto sacrificato alla volontà del re di Francia. Carlotta, sua moglie, non muoveva, che si sappia, un passo per raggiungere il marito o per soccorrerlo; e la gracile voce di Lucrezia perduta in quella palude di indifferenza gli faceva capire meglio quanto fosse anche lei umiliata dalla gran disfatta borgiana. Era il fantasma di se stesso fuggitivo in un'esistenza mendica che l'aveva portato ad abbandonarsi a quella fuga, a quella corsa invigilata, a quella dimenticanza mortale di se stesso e della vita. Lucrezia ascoltava il racconto dello spagnolo, silenziosa, chinando appena il capo; faceva ammirare da tutti la sua "prudenza grande" e il suo "animo costantissimo" in una specie di fermezza dolorosamente murata; poi continuava la sua vita di duchessa in. carica, e stava all'ufficio delle suppliche, fingeva perfino da "savia" di credere ad un dispaccio di Alfonso che le dava per falsa la notizia della morte del Valentino. Gli estensi non si

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sarebbero lamentati di lei, e nessuno dei cortigiani si sarebbe gloriato di averla vista piangere. Ma veniva la notte, ed ella restava sola: sotto il baldacchino ricamato, al buio, allora sì che tutte le sue ferite si aprivano a sanguinare, ed ella richiamava il fratello le donne nelle stanze vicine ascoltavano trattenendo il respiro ripeteva mille volte quel nome, riviveva con la cara temuta ombra della sua prima vita. Ricordava il duca di Gandia, Pedro Caldes, Alfonso di Bisceglie? Certo, ricordava; ma come allora, più che allora, anche in questi delitti ai quali ella non aveva mai partecipato né consentito, sentiva la grovigliosa complicità che, trascorso il primo momento di orrore, glieli aveva fatti accettare, e, peggio, dimenticare. Ad un lume di dolore scopriva se stessa, sentiva quanto fosse stretto quel laccio di famiglia, come andasse di là dalle regole umane, confuso e naturale come l'istinto: s'accorgeva che le parole spagnole, valenzane che le venivano sulle labbra per chiamare il fratello, parevano d'amore, e forse arrivavano ad esserlo, struggenti, amare, perdute.

Mentre le chiese di Ferrara risuonavano di preghiere e di funzioni funebri, e il monastero del Corpus Domini vedeva, solo, i pianti della duchessa, in Italia e fuori d'Italia c'era chi alla notizia di quella morte sera sentito liberare da un molesto assillo. Respiravano: il re di Francia per primo, poi Giulio II che già aveva immaginato farglisi contro, arruolato sotto le bandiere veneziane, il Valentino: e gli Estensi, liberi dal fastidio di dover barcamenarsi fra il loro interesse e l'interesse affettuoso di Lucrezia; e altra gente privata, parecchia, finalmente salva dalla paura di rappresaglie vendicative. In realtà non erano respiri ampi; e quanto Cesare fosse ormai escluso dal presente provano i commenti sulla sua morte come l'epitaffio più famoso che ha il tono dell'indifferenza.

Cesare Borgia, c'era dalla gente

per armi e per virtù tenuto un sole,

mancar dovendo, andò dove andar suole

Febo, verso la sera, all'Occidente,

Pianse il figlio la madre Vannozza, il fratello Jofré ormai relegato nel suo principato di Squillace insieme con la sua seconda sposa, Maria de Mila (Sancia gli era morta nel 1504, appena di ventisette anni, onorata di funerali dal suo ultimo adoratore, Consalvo di Còrdova) e pianse certo qualche capitano e qualche soldato, gente che apprezzava in lui l'eccellenza e la padronanza del mestiere: a questi si sarà aggiunta la cortigiana fiorentina Fiammetta che per il Valentino era salita alla fortuna e alla ricchezza e che stava diventando a poco a poco una donna pia. In silenzio, Lucrezia

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raccoglieva i relitti del naufragio borgiano: ricoverava presso di sé, non solo il paggio Garzia, ma anche un prete spagnolo che aveva aiutato Cesare nella sua fuga da Medina e che ora si trovava peregrino nel mondo: faceva venire da Roma una figlia naturale del Valentino, una Lucrezia anche lei, confidandola ad Angela Borgia e rivestendola di raso e velluto e pelliccia. Le doveva bastare vederli, questi, per sentire su di sé, meno inquieta, quell'ombra che non voleva scomparire. Un calamitarsi di due nature affini intonate alla nota sorda dell'inquietudine, era stato l'incontro che, per la spinta indecifrabile delle circostanze, aveva ravvicinato Lucrezia ed Ercole Strozzi. Quasi rispondendo allo sfavore dichiarato di Alfonso che, morto vecchissimo il padre di Ercole, Tito Vespasiano, aveva tolto al figlio di lui ogni ufficio pubblico, Lucrezia aveva addetto ancor meglio alla sua corte, anzi alla sua persona, il poeta ferrarese e gli si confidava, non volendo accorgersi di essere coltivata sottilmente in tutti i suoi istinti di ribellione contro gli Este da quella mano leggerissima, attenta a pervertire, Con il Tebaldeo, segretario della duchessa, egoista di un egoismo quotidiano e perciò poco azzardoso, lo Strozzi era il solo ad essere ricevuto nelle camere di lei: sempre, s'intende, che non vi fosse il duca. La trovava spesso a letto, sofferente o convalescente, e le portava un pensiero fresco, un'immagine rugiadosa, una compiacenza per oggi, una speranza viva per il domani; ricreava e ordinava poeticamente il suo mondo, dirigendola, per vie oblique e con argomenti a lei cari, verso quelle compiacenze che già l'avevano portata al Bembo. Che Lucrezia tenesse al suo poeta era più che noto; e come, e fino a qual punto, si era visto meglio quando lo Strozzi aveva avuto bisogno d'aiuto in una vicenda contrastatissima d'amore con quella gentildonna emiliana, Barbara Torelli, che doveva diventare, per amore e con un solo grido, celebre nella letteratura italiana. Fuggitiva, ribelle e perseguitata, Barbara aveva il fascino dei coraggiosi che lottano con forze troppo più grandi di loro. I suoi ventisette anni erano stati impiegati malissimo in un matrimonio con Ercole Bentivoglio, bolognese, che le aveva dato due figlie, e che le aveva fatto poi una vita umiliata e umanamente decaduta, con ogni genere di brutalità morali e sensuali, fino a venderla per mille ducati ad un vescovo, e, quando ella s'era negata al mercato, a minacciare di accusarla di veneficio. Era più di quanto una donna potesse sopportare, anche in un tempo in cui le donne sopportavano molto pur di pagarsi il miserevole diritto ad un focolare. Barbara fuggì; e poiché era per parte di madre imparentata con i Gonzaga, andò, accompagnata da raccomandazioni affettuose della duchessa di Urbino, a rifugiarsi in un monastero di Mantova: di lì, non sentendosi ancora al sicuro, passò poi a Ferrara presso le monache di San Rocco. Il medico Francesco Castello, che andava spesso dalla corte estense al monastero per trattare i suoi affari e che era buon giudice, discorreva della Torelli con entusiasmo e la definiva "bella e savia assai". Per arrivare ad ottenere la protezione del duca di Ferrara amico e imparentato stretto con i Bentivoglio, Barbara mostrava non solo di avere dei diritti, ma anche il coraggio di farseli

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valere: animosissima, colta e onesta com'era, ella chiedeva di poter riprendere un'esistenza semplice ma senza umiliazioni e senza pericolo di vita, e domandava la restituzione della dote, o almeno di tanto della sua dote che le permettesse di andare avanti "bassamente e come persona dimessa". Ma furioso come tutti i bruti che si vedono sfuggire la vittima, il marito rispondeva di non voler dare un ducato, e metteva ancora meglio a fuoco, con la sua intransigenza e la sua avarizia, la sventurata innocenza della moglie. Presto la storia di Barbara fu uno dei romanzi favoriti della cronaca ferrarese; ella stessa commosse e conquistò opinione pubblica e simpatie private, fu invitata e contesa; ma assai prima di arrivare a questo trionfo aveva conosciuto a corte Ercole Strozzi, e fermata la sua vita in lui. Il poeta ferrarese si era innamorato: la gentile maestà, l'armonia piana dell'aspetto che il dolore aveva maturato senza sfiorire, la cultura della gentildonna alla quale bastava l'animo di saper dire "ciò che la [ella] vuole e con molta grazia" avevano agito su quello spirito difficile; ma non sarebbero forse bastati a commuoverlo, se egli non li avesse trovati in una donna che viveva la parte della vittima impegnata in una lotta piena di trabocchetti e di pericoli. Ella da conquistare e le ire vendicative dei Bentivoglio da sfidare, erano, l'una e l'altra, imprese fin troppo tentanti per un temperamento come quello dello Strozzi, specie se si aggiungano i molti ducati che avrebbe fruttato la vittoria. Da parte sua, la Torelli, a trovarsi vicino un uomo di tanta eleganza delicatezza e intelligenza, e, per il suo zoppicare, di una così scoperta e dichiarata debolezza fisica, il che per una donna che ha nelle membra il terrore di un uomo brutale è una scoperta ineffabile, a sentirsi corteggiata nello stile platonico e letterato rispondente alla sua educazione e al suo gusto, dovette rivivere. Amare Ercole Strozzi fu per lei un dono di vita nuova, accettato con l'impegno e la gratitudine delle nature integre e appassionate. Lucrezia proteggeva questo amore silenziosamente, ma la sua protezione era così conosciuta che quando nel 1504, per suggerimento dello Strozzi, Barbara rapì e portò con sé a Ferrara da Mantova la figlia giovinetta Costanza, suscitando strida e tempeste dei Bentivoglio che non la finivano più di mandare messi e proteste al duca Ercole d'Este, il vecchio duca si era trovato costretto ad interrogare di persona la nuora su questo soggetto. Era vero, che ella ne sapesse qualche cosa? Lucrezia girava intorno due occhi innocenti: dov'è la madre? Dov'è la figlia? A Ferrara? A Venezia? Chissà: non sapeva niente. I Bentivoglio giunsero perfino a mandare spie a Ferrara perché circuissero le donne di corte, ma senza risultato perché il segreto era troppo ben tenuto fra persone che sapevano custodirlo e custodire se stesse: e s'immagina che la duchessa non si confidasse tanto. Arrivò il giorno, nel 1507, che Ercole Bentivoglio morì, di rabbia verrebbe fatto di pensare, e che Ercole Strozzi si poté sposare con Barbara dalla quale aveva già avuto un figlio chiamato Cesare in onore e ricordo del Valentino: nello stesso tempo la figlia di Barbara, Costanza, sposava il fratello di Ercole Strozzi, il conte Lorenzo, scandalizzando i cortigiani per immoralità, dicevano

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loro, di un matrimonio che rendeva cognate madre e figlia, ma ancor più, in realtà, perché in casa Strozzi sarebbero entrate le grosse doti Torelli e Bentivoglio. Queste doti erano invece contrastatissime alle due donne dagli eredi Bentivoglio e dal marito della primogenita di Barbara, Ginevra, sposa a Gian Galeazzo Sforza fratello del marito divorziato di Lucrezia, che si erano uniti per negare alla Torelli ogni diritto sul patrimonio anche a quello portato da lei, dotale. Ma avrebbero avuto ora da fare con un avversario duro: Ercole Strozzi, in posizione legittima e armato di tutte le sue astuzie si preparava a sostenere la causa della moglie e della cognata con i più temprati argomenti. Con Barbara Torelli il poeta ferrarese viveva il suo tempo d'amore: la sentiva corrispondergli anche letterariamente; ma benché egli abbia cominciato a scrivere poesie italiane per lei che amava il suono baciato dalle rime, non esistano però, fra i versi lasciati dallo Strozzi, che vaghe allusioni a questo amore forse ancora troppo recente e caldo per comporsi in una rappresentazione oggettiva. Le cose più belle della sua opera di poeta restano le sue composizioni latine e quasi tutte scritte per la duchessa di Ferrara o ispirate da lei.

Qualche epigramma, qualche elegia, alcuni poemetti sacri, forse per appagare la passione religiosa di Ercole d'Este, lo Strozzi aveva composto prima che Lucrezia approdasse a Ferrara ed anche la prima redazione di un poema allegorico, la Venatio. Ma viene Lucrezia, il poeta sente che questo è il momento, accoglie l'ispirazione, prende la penna e rifà il suo poemetto di caccia, aggiungendo ai pochi personaggi che vi figuravano Carlo VIII, Niccolò da Correggio, Galeazzo di Sanseverino ed altri nuove figure in una mescolanza libera ed anacronistica, Ippolito d'Este, il Marullo, il Pentano, il Tebaldeo, il "piger Aerostus" l'Ariosto, il Bembo "Venetus decus" fanciullo prediletto da Apollo, e Cesare Borgia. Sì; in quel momento Cesare è prigioniero in Spagna, passa di prigione in prigione, non ha nemmeno la sicurezza della vita. Ercole, questo è il potere della poesia, lo fa libero, bellissimo, gli fa brillare in petto l'insegna di gloria, l'ingemmato toro borgiano dalle corna d'oro, Pectore de medio pendens insigne paternum cornibus auratis lucet bos gemmeus ...", resuscitando così per un istante anche la grandezza di Alessandro VI. Quando il Valentino muore della oscura morte di Viana, l'epicedio lo scriverà Ercole, movendo per lui il decoro delle grazie funebri a piangerlo, dando a Lucrezia, per compagne di lutto, Cassandra e Polissena, le antiche donne troiane, statue del dolore.

Moesta minus Cassandra, minusque Pofixena flevit... E dalla malinconia senza compenso di questa fine, saprà elevare una speranza per la duchessa profetando che in lei e nei suoi Egli futuri rivivrà l'animo di quello che egli chiama eroe. Fra gli esametri della Venatio e l'epicedio, sorgerà un'elegia delicatissima che si apre con un verso disteso, di fiato virgiliano, Publica cura vale, iam nova revertitur aestas..., e che continua, chiamando

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Lucrezia astro, stella, musa, ispiratrice. Lucrezia canta, e col suo canto ricorda le sirene: o appare con passo vittorioso avendo trionfato del dio d'Amore e portandone le spoglie. Ma ecco, era lì il piccolo Cupido Marmoreo, nelle stesse stanze della duchessa, raffigurato in atto di dormire sulla pelle di leone, il simbolo di Ercole vinto. Il poeta guarda la graziosa scultura che forse egli stesso ha procurato a Lucrezia, ed esclama: "Chi si meraviglia che la Gorgone abbia impietrato il Libico Atlante, se la dea Borgia col suo sguardo ha impietrato Amore?". "Saxificatus amor." Con lo Strozzi il gioco dei sentimenti e delle commozioni prendeva sempre un colore nuovo, veniva agile ad aiutare i passaggi di pensiero ai quali ella inclinava con un piacere sottile, e un poco, ma appena, torbido: ci poteva essere fra loro il segreto di un amore mancato, non desiderato, e nemmeno ammesso per ipotesi, ma che dava ai loro rapporti segretezza e intesa da affiliati.

Del resto, lo Strozzi aveva l'arte di essere buon compagno:

finito di leggere versi, passava a consigliare abbigliamenti, disegnava il progetto di una festa o il programma di un concerto, suggeriva il nome di un pittore, prendeva il viso pensoso dell'eroe di una grande passione, o insinuava sottovoce il nome di Francesco Gonzaga sgranando le parole perverse del mezzano di classe. Le simpatie di Lucrezia e del cognato, avviate a Borgoforte, avevano col tempo progredito e si sa che vuol dire progredire in simpatia fra un uomo ed una donna di quella tempra. Lo Strozzi che del marchese di Mantova era amico personale, aveva subito capito dove le cose potessero arrivare, e invece di spaventarsene, vi si era messo in mezzo, prendendosi l'incarico di far lui da tramite fra i due innamorati. Non ci sono dubbi: colui che firmandosi con lo pseudonimo di Zilio faceva caldamente l'ufficio di sollecitare e di promettere piaceri d'amore fra i due cognati era proprio Ercole Strozzi. L'intrigo che possiamo ricostruire su poche lettere talvolta oscure durava certo da prima dell'estate del 1507 (se ne erano forse presi gli accordi nel carnevale di quell'anno, tra un ballo ed una festa quando il marchese di Mantova era passato due volte da Ferrara) ed era affidato ad una corrispondenza cautissima e copertissima resa più custodita da firme indirizzi e nomi di convenzione. Si procedeva così: lo Strozzi scriveva per conto di Lucrezia (qualche volta scriveva anche lei di sua mano) al Gonzaga, indirizzando le lettere ad uno dei suoi fratelli, Guido Strozzi, che viveva a Mantova; costui, o personalmente, o per mezzo del cognato Uberto Uberti che aveva entrata libera alla corte gonzaghesca, o di un misterioso, le passava al marchese. Le risposte, al ritorno, seguivano inversamente la stessa via. Nelle lettere il Gonzaga era chiamato Guido, giustificando l'indirizzo, Lucrezia aveva il nome di Barbara, Alfonso d'Este di Camillo, Ippolito di Tigrino, Isabella di Lena: lo Strozzi, l'abbiamo detto, era Zilio. Quello che si può dire di queste convenzioni è che fossero di poco conto e destinate a star lì per un riparo estremo, sicurissimi i corrispondenti di non

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avere sorprese: già il confronto calligrafico che si può fare oggi, lo potevano fare, e meglio, i contemporanei dello Strozzi; e poi, era perfino troppo facile accorgersi che la Barbara nominata da Zilio celava qualche inganno, quando in una sola lettera egli nominava due "Barbare" e distingueva la "mia" e cioè Barbara Torelli, dalla "sua" quella del marchese, Lucrezia.

Ormai Lucrezia non poteva più proteggersi con l'alibi della salvezza di Cesare Borgia. Si era scoperta a se stessa, aveva accettato questo viluppo di cose segrete e pericolose, pur di tenersi ancora ad un filo d'amore, così giovane ancora, non solo d'anni, ma di desideri e di speranze. Per lei si trattava di rischiare molto; e più rischiava il suo complice, lo Strozzi, che ne aveva tanto la coscienza da scrivere al marchese che esponeva la sua vita per lui "mille volte l'ora". Ora, se Lucrezia poteva pensare che in fin dei conti, tenendosi la sua relazione nei limiti di un'amicizia amorosa, non si poteva accusarla di colpa, lo Strozzi, che in quei limiti non aveva, come vedremo, nessuna intenzione di mantenerla e che non soffriva le malinconie passionate di lei, che cosa s'aspettava da questo ufficio? Un premio stragrande, certo; ma quale> se egli aveva già ville palazzi gloria ricchezza considerazione? Era vero che il denaro ad uno che spendeva come il poeta ferrarese non bastava mai, e che Lucrezia stessa gliene dovette prestare a più riprese in somme abbondanti; ma non è motivo bastante per lui, non così prodigo né così avaro da fare quella parte per solo interesse. Tanto l'amicizia dello Strozzi con il Gonzaga con Alberto Pio con il Bembo, tutta gente per un verso o per l'altro invisa ad Alfonso d'Este, quanto i suoi modi di angelo maligno con Lucrezia farebbero pensare ad un odio segreto del poeta verso gli Estensi, specie contro Alfonso: che il duca non lo amasse e lo dimostrasse chiaro, che gli avesse tolto tutti gli uffici pubblici e che mirasse a togliergli anche i beni di Comacchio, le valli pescose e fruttifere donate da Ercole Tito Vespasiano, si sa per certo; e sono ragioni. L'odio ricambiato, poi, trova ogni giorno alimento per crescere; e lo Strozzi, uomo di rancori raggelati in profondità, poteva anche sentirsi tentato di vendicarsi in un modo perverso, coltivando le nostalgie e le irrequietezze della duchessa di Ferrara. La ruota di questo intrigo s'era mossa, e messaggeri segreti passavano e ripassavano il Po: non si sa se nell'estate, in una delle villeggiature ferraresi i due cognati poterono ritrovarsi: si sa invece che in dicembre Lucrezia era incinta, e aveva speranza di portare a fine l'impresa perché si sentiva bene ed era forte e sana. Intanto, con una regolarità che sarebbe stata monotonia, se tendenze aspirazioni e costumi particolari non avessero eccitato argute e talvolta pungenti battaglie di corte, intorno alla duchessa di Ferrara seguivano i giorni nuziali: le ragazze venute da Roma e quelle del primo gruppo ferrarese andavano una dopo l'altra a marito, accompagnate da fior di chiacchiere dei cortigiani. Erano ragazze libere, ardite e focose che la vita di corte e la vicinanza di uomini giovani e senza scrupoli non disponevano alla castità; così, venuto il momento di maritarle,

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Lucrezia aveva dovuto accorgersi che non era facile trovare uno sposo conveniente per ciascuna, e che bisognava ripiegare sugli scapati e sui giovincelli inesperti, facili a cadere nelle mani di donne scaltre. "Dappoco", avevano infatti giudicato i cortigiani il giovane di casa Pigni che si era presa Benedetta Ziliolo; e scapato, o meglio ancora matto, quell'Alvise Pallavicino che, dopo aver chiesto di sposare Angela Borgia, e successivamente Giovanna Malatesta, aveva rivolto le sue intenzioni matrimoniali ad un'altra donzella di Lucrezia, la romana Samaritana, accettato da lei per sua sfortuna. Stipulato il matrimonio, Lucrezia aveva dotato riccamente la sua ragazza che, per essere dolce e mite, era una delle sue più care, e il Pallavicino aveva aggiunto di suo splendide donazioni di denaro e gioielli alla sposa; ma passati pochi mesi il giovane, razziati denaro e gioielli e "mosso da uno spirito farnetico", era fuggito di là dal Po, a Rovigo, lasciando la sposa a disperarsi con la sola consolazione di tornare in corte a raccomandarsi alla duchessa. Giovinetto, uno dei Riminaldi, bellissimo e ricchissimo, fu condotto a fidanzarsi con la graziosa Elisabetta dall'Ara, che fu poi l'astro dei conviti ferraresi; ma, appena stretti i patti, il Riminaldi se ne fuggì e non tornò se non quando la duchessa, fatti chiamare i parenti di lui, li minacciò di una multa di mille ducati e dello sfavore ducale, e lo costrinse a rassegnarsi e a sposare la troppo mondana fidanzata. La stessa vicenda si ripeté per un'altra ragazza, la Lezola, fidanzata con un sedicenne di casa nobilissima. Fidanzamento pentimento e fuga ebbero la solita successione, ma il giovane era così risoluto a non tornare, da dichiarare che avrebbe perso un palazzo prima di fare quel matrimonio: invece, finì per capitolare anche lui. Un romanzo d'amore toccava ad un'altra Elisabetta Bagnacavallo corteggiata e vagheggiata da tutta Ferrara, amata, pare, anche dal vecchio gentiluomo Niccolò da Correggio che presso alla morte volle vederla ed aver da lei un bacio, viatico d'amore che stava benissimo ad un umanista. La bella ragazza era innamorata di uno degli Zerbinati, probabilmente Ludovico, familiare del cardinale, ma dovette invece (e forse perché il suo innamorato aveva gli ordini ecclesiastici) sposare il fratello del suo amante, bruttissimo cambio a parere di tutti, se non che lasciava agio ai due cognati di parlarsi e di vedersi facilmente: dando per sottinteso, preveduto ed accettato, l'adulterio di Paolo e Francesca. Ultime ad accasarsi furono le napoletanine Cinzia e Caterina: Lucrezia riuscì a collocare Caterina nella nobile casa del Sacrato, e Cinzia in casa di un gentiluomo di Reggio che si aspettava dalla sposa privilegi e favori, e che fu poi scontentissimo: sarà stata naturalmente Cinzia a portare la pena dei bronci maritali. Giovanna Malatesta, colei che sacrificava tanto volentieri a "Santa Ninfa", fu cacciata dal castello con un ordine improvviso di Lucrezia, e condotta fra due staffieri al monastero di Sant'Anna dove la troppo galante dama aveva una figlioletta monaca: la causa, nessuno la domandava "per non cadere in biasimo", segno di cose delicate, ma si sapeva che la duchessa l'aveva "disgraziata assai".

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Lucrezia voleva ora riformare la sua corte e ammettervi solo fanciulle che crescessero in "onorar virtù": era stanca di sorveglianza e di sorprese, voleva respirare quieta; quando avesse desiderato compagne più gaie e vivaci, avrebbe fatto presto a radunare intorno a sé le donne sposate, a capo delle quali, la preferita, quella che non lasciava filo di festa o di ricevimento, era Angela Borgia. Lo sposo, Alessandro Pio, se l'era finalmente condotta a casa con grandissime feste e con un corteo magnifico onorato dal duca dalla duchessa e dal cardinale, preceduto da una fanfara squillante di trombe e di pifferi che intronava piacevolmente le orecchie della vanitosa Angela. Era andata poi a Sassuolo; ma ai primi giorni d'inverno eccola pronta a Ferrara fiutando col nasino in aria odore di feste, alloggiata in una casa d'affitto, e lieta di essere incinta anche lei come la duchessa. Su don Giulio, silenzio dappertutto: il duca aveva comandato che nemmeno il nome dei fratelli prigionieri fosse pronunciato in castello; e forse Angela non si ricordava più di lui, se era diventata, come si vede dalle sue lettere, amica del cardinale d'Este. Era un'amicizia sostenuta, però, e senza nessun riferimento di tenerezze: anzi, in una di quelle lettere, c'è un accenno curioso; dopo aver dato notizie politiche e militari, ella scrive, "non si pigli più questa fatica di scrivere [lettere] de sua mano, perché a me, sua serva, basta che siano de mano del minimo suo cancelliere". Angela era adesso una creatura degli Este e serviva la famiglia ducale, pronta, se si dava il caso, a levarsi contro il marito; nei tempi di guerra che vennero più tardi, fu lei a mandare continuamente notizie delle truppe di passaggio, dei movimenti di eserciti e di tutti quei fatti politici e militari che le capitavano sotto gli occhi; e poiché Sassuolo era terra di confine, le toccò più volte di dover scappare in fretta, avendo sempre cura, però, di appoggiarsi ad un uomo che ne valesse la pena, sia l'amico e gentiluomo di Lucrezia, Pietro Giorgio da Lampugnano, o un certo Ercole, o meglio di tutti Galeazzo Pallavicino che una volta se la condusse fino a Parma. Con la suocera, la vitalissima Eleonora Bentivoglio, era sempre alle contese, naturali tra caratteri così dissimili; si aggiunga che per Angela la politica non aveva nessuna importanza e, da stordita, ella faceva volentieri gli interessi di quelli che le premevano, gli Este, mentre Eleonora che a governare si sentiva la mano adatta avrebbe inclinato ad una politica di indipendenza; figurarsi se poteva perdonare alla nuora di aver messo Sassuolo in mano alle truppe del duca Alfonso contro il volere del marito, "e questo per essere lei di casa d'Este". Sarebbe venuta dunque logica, benché non provata, la notizia che proprio dalla mano della Bentivoglio sia stato versato alla nuora, molto tempo più tardi, il veleno che doveva toglierla alla vita.

Carnevale trovò quell'anno Lucrezia costretta al riposo di una poltrona ma ben disposta e allegra: dalle finestre del palazzo ducale, come già dalle finestre di Castel Sant'Angelo a Roma, ella vedeva passare i gruppi di maschere, in compagnia delle sue donne; e i ferraresi che si sapevano sotto

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quei raggi, volteggiavano in piazza con più invenzioni e galanterie che potevano per far sorridere quelle bocche belle lassù. Venivano i cortigiani a far visita, veniva il cardinale Ippolito magnificamente ornato, nelle sue turchesche di broccato d'oro frastagliate e ricamate. Forse per riguardo alla duchessa si fecero quell'anno più rappresentazioni che balli; si recitarono prima un'egloga del Tebaldeo ben composta ma fredda, poi la commedia, fallita, di un greco che Ercole Strozzi si teneva in casa, infine una bella commedia di Antonio dall'Organo e questa piacque. Ma né Lucrezia che aveva patrocinato i due primi spettacoli, né Alfonso che aveva patrocinato il terzo, avevano avuto la fortuna che ebbe il cardinale Ippolito facendo rappresentare la commedia del suo gran familiare Ludovico Ariosto, la Cassaria, con scenari magnifici disegnati in prospettiva da Pellegrino da Udine.

Nova commedia v'appresento, piena

di vari giochi, che né mai latine

né greche lingue recitarno in scena,

cominciava il prologo annunciando gli amori di Erofilo e di Caridoro; e la corte applaudiva. Le sale erano così affollate, quella sera e le altre sere, che una volta il duca, per ammonire la canaglia ad aver più rispetto dei luoghi signorili (A passo, le sere di festa carnevalesca, era libero) fece chiudere le porte della sala grande e "balzare" uomini e donne. Il gioco consisteva nel lanciare in alto e riprendere in una coperta, che quattro staffieri tenevano ferma ai lati, alcuni individui che ricadevano nei modi più ridicoli e sconci, senza farsi male, però. Alle donne si sollevavano le vesti fra il ridere che s'immagina.

Dal suo seggio sotto il baldacchino ducale, non è detto che Lucrezia non si divertisse anche lei a questo scherzare grosso, anche se le sue abitudini diventavano ogni giorno di più schive e difficili. L'ambiente tutt'intorno si trasformava: alle stanze del suo appartamento se ne erano aggiunte altre, e per una che era detta la "camera a volta della torre marchesana" che si voleva particolarmente ornata si disegnavano pitture gaie e nuove. Primo, fra gli artisti ferraresi e forestieri, il Garofalo stava preparando per il soffitto due tele a guazzo, eleganti composizioni popolate di genti di corte sullo stile di quelle che aveva dipinto nel palazzo di Ludovico il Moro a Ferrara. Le tele fatte per Lucrezia si intonavano alla decorazione che correva intorno al soffitto ed erano inquadrate in magnifici corniciotti, dorati con oro fino. Lucrezia insisteva sull'oro, aveva ancora negli occhi lo scintillio delle decorazioni pinturicchiesche nelle sale dell'appartamento Borgia in Vaticano; e i pittori ubbidivano, Ercole Bonacossi, Ludovico

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Mazzolino, Michele Costa, Domenico Panetti, Niccolò da Pisa, Bartolomeo Veneto. é probabile che proprio in questo tempo, e sicuramente fra il 1504 e il 1510 sia stato dipinto, e forse da uno di questi pittori, un ritratto di Lucrezia, che ci è giunto in più copie antiche, delle quali le migliori sono al museo di Nimes in Francia e nella raccolta Nessi di Como: quest'ultima proviene ed è un argomento di più a favore della sua fedeltà iconografica dalla famosa collezione di ritratti di persone illustri, messa insieme dallo storico cinquecentesco Paolo Giovio. Sono tutte derivazioni infelici da un originale che non è possibile ricostruire se non con l'aiuto di molta fantasia. Ma il vero ritratto di Lucrezia a Ferrara dobbiamo riconoscerlo nella tela che si può vedere alla National Gallery dove è conservata in un magazzino al piano inferiore del museo londinese. Di grandezza media, il ritratto è stato attribuito a Bartolomeo Veneto; e questa sarebbe una riprova per l'identificazione, poiché il nome del pittore ricorre spesso nei registri di guardaroba di Lucrezia dopo il 1506. Ma anche se non fosse di così eccellente mano, l'opera è sempre, sicuramente, di un pittore tra veneto e lombardo, con evidente accentuazione ferrarese, e compiuta tra il 1505 e il 1515. Di questo tempo infatti è l'abito, di velluto nero controtagliato, aperto su ampie maniche bianche fregiate di rosso; di questo tempo la pettinatura a capelli sciolti arricciati sobriamente alla lombarda, e condotti a riprendersi in treccia sulla schiena; gli ornamenti e i gioielli di una raffinatezza rara o sottilmente allegorica, come la ghirlandina che cinge la fronte, d'oro smaltato e rilevato di perle, o come i fregi di smalto e velluto a fiori di melograno alternati in rosso e nero che incorniciano la gorgerina bianca allacciandosi in piccoli nodi geometrici, e soprattutto come la collana di "botticelle" a quattro facce, infilate a quando a quando in un cordone, e probabilmente piene di paste profumate; questa collana, nei ritratti del tempo, portava, smaltati su una delle facce di ogni "bottesella", i simboli della Passione, chiodi, croci, scalette; e in un'altra alcune lettere che seguitandosi in giro dovevano comporre un motto forse latino. I lineamenti, il collo delicato e carnoso, l'ovale pieno, fra poco aggravato, il mento appena sfuggente, l'occhio celeste misto di grigio, il biondo dei capelli che nelle ciocche pendule presso le tempie diventa luminoso, coincidono con le descrizioni dei contemporanei e con gli altri ritratti di Lucrezia, la medaglia dell'Amorino bendato, le figure di Nimes e di Como, perfino con la Santa Caterina del Pinturicchio negli appartamenti Borgia in Vaticano. Suo è quello sguardo lungo, attento a raffronti segreti, che sfiora le cose e ad esse si rifiuta, sua quell'aria straniata e straniera di chi consente per sola saggezza alla propria presenza, sua la grazia dell'atteggiamento, e, pur nel viso maturo e segreto, quella diffusa levità di giovinezza interiore che a momenti le crea nel volto serio qualche cosa che somiglia ad un sorriso. In questa forma e immagine doveva vederla Ercole Strozzi quel 1507 quando tentava di raggiungerla con le sue suggestioni travestite da dedizioni; e per Lucrezia stessa sarebbe stato facile non ascoltare questo Zoroastro della cortigianeria

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che sapeva moltiplicare la vita per i piani dell'arte. Lucrezia godeva di far quadro sotto i vaghi cieli dipinti delle sue camere, circondata dalle sue donne, intenta a scegliere con l'orefice Ercole da Sesso il disegno di un gioiello o di una catenella in filigrana, guinzaglio per una cagnolina. Presso il seggio della duchessa, in alto, oscillava in una gabbia dorata e filigranata uno smagliante coloratissimo pappagallo. Di discutere, ora che si avvicinava la nascita dell'erede estense, non si finiva mai: difficoltosa era stata la scelta della culla, disegnata e ridisegnata dall'intagliatore Bernardino Veneziano. Era venuta fuori una cosa complicata, che aveva del tempio e dell'ara; il posto del bimbo era scavato in un "sasso cavo", di legno, s'intende, e dorato, ai quattro lati del quale si innalzavano colonnette leggere a sostenere un classico architrave; e il cielo della culla era percorso da lievi rami fogliati e fiorati d'oro battuto che avrebbero formato sul bambino un lucido pergolato. Le cortine erano di raso bianco, i lenzuolini di tela finissima listati d'oro e così i piccoli guanciali. Questa culla si sarebbe posta, per estro d'eleganza, ma forse meglio per tenerla riparata dai soffi d'aria, sotto una specie di tenda da campo a strisce di raso cremisi bianco e di altri colori, drizzata ad isolare il bambino nell'angolo di un vasto salone fornito di stufa, e ornato, per l'occasione, di preziosi arazzi estensi. La ricamatrice di corte, una greca di nome Maddalena, si consumava gli occhi a ricamare il corredino per il neonato e le lenzuola per la madre, anche queste listate d'oro e di sete colorate. guardarobieri avevano tirato fuori e spazzolato le cose ricche di casa d'Este, tappeti, arazzi, e perfino i fornimenti di trine antiche con le loro cortine di raso appartenute ad Eleonora d'Aragona; ma Lucrezia aveva voluto per sé tutto nuova, e si era fatta preparare in uno dei suoi camerini ' stanza piccola e raccolta, quasi un'alcova, un letto con baldacchino di tela d'argento, ornato di frange di seta colorata. Intorno alle pareti aveva voluto i suoi colori, morello e oro, rilevati da un filo di rosso araldico e principesco. E si era fatta anche foderare di legno, per salvarsi dal freddo, un altro camerino dorato e provvisto di stufa, dove ella faceva il suo bagno quotidiano, uso che per quei tempi era quasi un vizio. La comare Frassina, la più illustre levatrice di Ferrara prendeva in quei giorni un sussiego coronato, andando e venendo dal castello ducale e dando intorno assicurazioni di buon augurio per il prossimo avvenimento; sotto il suo consiglio si era già scelta la balia, una sposa giovanissima e di bellezza possente fatta venire dalle fattorie ducali. Quanto di più profondo commuoveva Lucrezia vicina a questo passo era cosa da non dire in giro per non sciuparla: non se ne troverà traccia. Le lettere dello Strozzi al Gonzaga, danno la curiosa certezza che ella, invece di sentirsi annullata nella vita che portava in grembo, viveva allora con un senso rafforzato d'indipendenza personale. Con lo Strozzi parlava a lungo del marchese di Mantova, e poiché gli Estensi e i Gonzaga erano in aperta lite per le solite questioni di servi fuggiti di là e riparati di qua, almanaccava piani di riconciliazione in modo da poter tornare a vedersi col cognato e stare insieme. "Ogni giorno ragioniamo di voi" cominciava a riferire Zilio

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descrivendo al Gonzaga le ansie di Lucrezia: ella lo aveva saputo malato, se ne rattristava e gli chiedeva notizie premurose; perché "non è così poco amorevole come siete Voi" gli faceva dire con il corruccio scherzoso degli amanti che finisce così bene in un sorriso. Era il 2 aprile; e il 3, appena si seppe che il parto era imminente, il duca Alfonso "si partì da Ferrara senza dir zero: e la moglie avia le doglie", scrive, anzi scolpisce il Sanudo. Il viaggio veneziano di Alfonso aveva le sue ragioni politiche, ma fu deciso quel giorno d'improvviso perché il duca non voleva essere testimonio di un'altra nascita disgraziata, troppo umiliante per lui. Invece, il giorno dopo, nasceva finalmente l'erede del ducato, colui che doveva diventare Ercole II, un piccolo essere dal nasino schiacciato che fu messo a dormire e a vagire nella sua culla allegorica ed umanistica.

Lucrezia stette subito bene, e Alfonso dimostrò una sua parca contentezza venendo a Ferrara immediatamente; trovò che il bambino non era così bello come gli avevano detto gli annunciatori, ma era sano e normale, mostrava di aver voglia di vivere, e gli dava finalmente l'orgoglio di poter mostrare agli ambasciatori che venivano a congratularsi, il suo futuro successore, tutto nudo, perché vedessero che "era sano e ben compito d'ogni cosa". Alle feste, al battesimo, alle visite, alle congratulazioni, si aggiunse l'amnistia nella quale non si pensò nemmeno di comprendere anche don Giulio e don Ferrante, i due sepolti vivi. E appena cinque giorni dopo il duca partì per la Francia.

Alfonso partì, non sarà Lucrezia a soffrire: arrivata dopo tante incertezze a sereni lidi, può forse pensare di vivere per una sua ragione personale, ora che il suo dovere di duchessa, come dicono, è compiuto. Dal fondo di quella immobilità le è facile cogliere e inseguire, sulla tela d'argento del sopraccielo, riflessi di colori che l'aiutano a comporre il mondo delle idee per associazioni sensitive * Sul verde acqueo, riposato, scivola il primo vagito del piccolo Ercole, oscilla una vaga forma viaggiante, la cesta che porta Mosè fanciullo per le rive chiare del Nilo: l'azzurro sospeso color d'anemoni, stilla il senso di pace miracolosa che danno certi orizzonti trascolorati dietro le teste degli angioli nelle pitture quattrocentesche. Cauto, arriva Ercole Strozzi; per voltare la testa a guardarlo, solo la testa, e appena, gli occhi di Lucrezia si empiono di giallo, il sole e l'oro a strisce della tappezzeria: e, formatosi il nome del Gonzaga nell'aria, al giallo si avvicenda il rosso, il felice sangue nuovo che viene con un caldo brivido a sostenerla. Non ha ancora ripreso fiato, Lucrezia, che già parla del Gonzaga: è indignatissima contro Alfonso perché gli Estensi hanno mandato solo ad Isabella la partecipazione ufficiale della nascita del bimbo, trascurando il marchese di proposito, per offenderlo. Sì, ella condanna "Perrote e perfidia di Camillo [Alfonso] e di Tigrino [Ippolito]". Errore e perfidia, Lucrezia giudicava duro il padre di suo figlio in un momento nel quale questo giudizio doveva

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per lo meno essere mitigato. Tutte le sue premure sono per Francesco Gonzaga, perché egli sappia che lei gli è fedele e "non è persona volubile": provi a coMandarle qualche cosa, e vedrà; anzi, se gli Estensi non faranno presto con lui il loro dovere, che se ne lamenti pubblicamente, ed ella, pubblicamente, gli manderà a fare scuse ufficiali a dispetto e confusione di Camillo e di Tigrino. Intanto, perché non trova il modo di passare da Ferrara? Ella lo vedrebbe volentieri, tanto più che Alfonso è assente: "Camillo partirà domani per le poste di Francia". E lo Strozzi si raccomanda di una risposta su questa visita: è la cosa che la duchessa ha più a cuore. Aspettano la risposta: verrà? non verrà? E per fare l'attesa dolce, lo Strozzi ricorre al sortilegio della poesia, legge alla duchessa i primi versi di un suo poemetto nuovissimo, il Genetriacon, composto per la nascita del piccolo estense. Un solo riso è fra la terra e il cielo d'aprile, Rideat omnis ager, tibi, rideat omnis olympus, et Patris et matris gaudia magna, puer...

Qui in questo giardino in terra, non sono tutte le grazie e la voluttà, e Venere e l'amore?

Hic Venus, bic Cbaritei, bic est moderata voluptas bic amor arcitenens... "Moderata voluptas" ripete il poeta, allentando la suggestione della voce sulle sillabe, e sentendo la preziosità di questa misura nel piacere; e mentre egli segue le lente armoniose cadenze latine, Lucrezia si abbandona: nelle stanze accanto, la Liona Mosti o la Mirandolina, due delle ferraresi adolescenti, venute a sostituire quelle già maritate, muovono passetti nelle pianelle di velluto; seduto in terra, le spalle alla porta, nel corridoio, il Barone scherza sottovoce con le donne, scambia motti con chi passa, suscita qualche risatina subito spenta, provoca le stramberie di Caterina matta, una buffona, o meglio una demente, raccolta ed educata dalla duchessa. Madonna Beatrice dei Contrari, venuta ora (è la sua volta) in corte alle cure del piccolo Ercole, sta presso la tenda da campo a strisce, sorveglia, comanda, fa arrivare fino a Lucrezia i rumori lievi di faccende femminili e le parole carezzose fatte per calmare i pianti dei bambini piccini. Oro, argento, velluto, una calma lussuosa e ricca persuade all'ottimismo come quel sole primaverile, come quei versi latini sonanti di presagi felici. Francesco Gonzaga avrebbe scritto, forse sarebbe venuto di sorpresa, speriamolo, crediamolo. Lucrezia si ripeteva che Alfonso le aveva pur detto, prima di partire, di non avere difficoltà a riconciliarsi col cognato, desiderando anzi di essere in pace con lui. Ma Francesco non scriveva. Che pensare? Che fare? Man mano che la salute di Lucrezia si fortificava. ella diventava più impaziente e capiva meno le reticenze del marchese Mantova. Decideva di mandargli lo Strozzi e all'improvviso si disdiceva, non bastandole il coraggio di stare senza il suo compagno. Ed ecco Zilio scrivere al Gonzaga usando tutte le premure le sollecitazioni del mezzano d'ingegno, facendogli il quadro delle commozioni di Lucrezia, e quasi vantandesi che siano così

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acute. Vedesse, il marchese, a che punto era arrivata la bella duchessa di Ferrara, la moglie di Alfonso d'Este: "sono certo che non abbiate al mondo maggior servitore che faccia per voi più di me". Era anche troppo vero. "Se voi venivate" scrive Zilio "le sarebbe stato caro venticinquemila ducati e più: non potrei esprimere la passione che ha preso, sì perché vi avrebbe visto volentieri, sì perché non avete mai risposto e l'avete fatta stare in pensiero di saper la causa... Se voi faceste come vi ho detto più volte, alla fine comprendereste che vi consiglio da vero servo che vi sono... Vi certifico che [Lucrezial v'ama: le spiace questa vostra tepidezza, ma le piace che siete segreto, oltre le mille cose che loda in voi: foste pur venuto, che vi ho augurato mille volte la gotta... io veggo tanta buona disposizione in madonna Barbara [Lucrezia, che, amandovi come so sapete che faccio, vorrei che una volta foste contento, ma il mio sollecitare non vale se voi mancate di sollecitudine." Borgoforte, Borgoforte. Rifarsi col pensiero a quei giorni, era per Lucrezia cominciare da capo, ogni volta ripartendo più caldamente da quel punto segreto. La rivelazione della tenerezza umana, così sorprendente su certi volti maschi che sembrano chiusi a questa espressione, poteva allora esserle arrivata d'improvviso in un sorriso che riplasmava di ombre e luci il volto bronzino del Gonzaga, e che scioglieva come per un miracolo, ma facile, ma caldo, il nodo dei suoi scrupoli e delle sue amarezze. Certo, Francesco Gonzaga non aveva, come il Bembo, il potere di liberarla dal suo passato aprendole la via ad un mondo dove il passo fosse agile e alato: ma principe, capo di stato poteva pensare di proteggerla oggi e nel futuro: e uomo, meno letterato e più terrestre, la accettava e l'amava come era, ammettendo senza repugnanza la sua discendenza da un uomo di chiesa, il suo divorzio con lo Sforza, l'avventura con Pedro Caldes, l'assassinio e l'oblio del duca di Bisceglie, l'Infante Romano, e magari le probabilità di quegli amori ambigui dei quali tante voci erano andate in giro. Tutto poteva essere stato per il Gonzaga, senza diminuire nulla del presente né l'apporto dei giorni futuri. Così, dopo quasi due anni dal loro incontro, ella si trovava all'amore. E, osservando il progresso, Zilio scriveva:

"Lei [Lucrezia] vi ama assaissimo e assai più di quello che voi pensate, perché se giudicaste che vi amasse quanto vi ho sempre detto, sareste più caldo che non siete nello scrivere e nel tentare di venire dove lei fosse. Vi dò la fede che vi ama molto, e se voi continuerete per i modi che vi saprò mostrare, se non averete l'intento vostro doleretevi di me che vi do licenza: non vi direi una cosa per l'altra per tutto il mondo... sicché mostrate di amarla caldamente che non vuole da voi alcuna altra cosa. Quando mi risponderete, non mi rispondete circa questa parte, perché non voglio che sembri vi bisognino gli sproni ad inanimarvi ad amarla, perché so che le parrebbe poco amore da parte vostra. Ponete ogni diligenza nel procacciare di venire dove lei è, e allora comprenderete se io vi dico anche meno di

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quello che è. M'ha fatto trattenere il messo perché vi voleva scrivere di sua mano, ma ancora le vanno gli occhi intorno per la debolezza [del parto]. Vi si raccomanda assai, e dice che Camillo [Alfonsol prima di partire le disse che aveva piacere di riconciliarsi con voi: e che voi tentate di farlo, perché poterete venire subito dove lei sarà. Vorrebbe che io venissi a voi e poi non sa lasciarmi partire da lei per sua compagnia. Scrivete a lei in ogni modo, acciò non paia che siate freddo, mi raccomando a voi: vi scrivo un'altra mia da poter mostrare..." Sollecitazioni, promesse ed assicurazioni incalzanti: Lucrezia vi è dipinta. Pare che in quel momento, però, il suo Gonzaga avesse una crisi di incertezza, e stesse perdendo la prima baldanza. Lo Strozzi gli dava il tonico per rianimarlo, soprattutto promettendogli di raggiungere "l'intento vostro", l'estremo approdo d'amore; e intanto confortava Lucrezia, trovava anche per lei ragioni di speranza e stava attento ad ingannare sorveglianze e a prevenire sospetti. "Vi scrivo un'altra mia da poter mostrare" aveva detto Zilio: ed ecco un'altra lettera indirizzata al marchese di Mantova firmata col nome dello Strozzi e datata allo stesso 25 aprile, nella quale si parla di affari, lettera che starebbe a confermare, se ve ne fosse bisogno, l'identità di Zilio e dei suoi complici. Non riuscivano però ad ingannare tutti. Di essere circondati da spie, lo Strozzi e Lucrezia sapevano troppo bene, avevano saputo dal tempo del Bembo: ed erano tanto in guardia, da saper riconoscere a prima vista gli agenti provocatori che i loro avversari mandavano alla scoperta. Un certo M., presentatosi a Lucrezia, le aveva fatto gran discorsi sulla saggezza e l'utilità della riconciliazione fra gli Estensi e i Gonzaga, e aveva finito per dire che sarebbe andato di persona a Mantova per vedere di trattare questa pace, e se gli fosse stato possibile per indurre il marchese a venire a Ferrara. Sull'avviso, Lucrezia aveva risposto approvando, ma senza esagerare d'impegno. Lo stesso M. poi, andato a Mantova, si era presentato al marchese, e gli aveva fatto intendere, fra dire e non dire, di essere mandato da Lucrezia per invitarlo a raggiungerla segretamente a Ferrara; ma al Gonzaga dettero sospetto e lo stile dell'ambasciata e l'ambasciatore, tanto che rispose vagamente, sviò il discorso e finse insomma di non capire. Allora, cambiato argomento, lo stesso M. aveva preso a parlare d'altre cose, ed era venuto quasi di sorpresa ad offrire un ritrattino di Lucrezia. Qui il marchese si irritò: l'avevano preso per uno che desse dentro in tranelli tanto elementari? Rifiutato il ritratto e licenziato il provocatore. aveva scritto a Zilio narrandogli tutto.

Lucrezia e lo Strozzi avevano avuto poco da strologare per capire che il misterioso M. aveva agito per conto di altri; e di chi se non degli Estensi? Nell'affare del ritratto, ,anzi, lo Strozzi vedeva, e forse giustamente, lo zampino da gatta della marchesa Isabella. Chi era questo M.? Trattandosi di persona che aveva il passo nelle due corti, doveva essere un cortigiano, e dei meglio accetti: se si potesse identificarlo con Masino del Forno, detto il Modenese, doppiamente M. dunque, l'anima dannata dei delitti estensi, si

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sarebbe trovato un filo per muoversi con più sicurezza negli oscuri avvenimenti di poi. Ricorderemo che Masino del Forno faceva strettamente parte della famiglia del cardinale Ippolito. I nomi di Isabella e di Ippolito vogliono dire forse di più in questo intrigo che non il nome di Alfonso d'Este Isabella poteva aver suggerito l'offerta del ritrattino per avere una prova dell'interesse amoroso che legava suo marito a Lucrezia. Ma il suggerimento di provocare un incontro fra i due cognati a Ferrara in quel momento di sorda inimicizia fra le due case regnanti era più subdolo e ha l'aria di un'esca che Ippolito si provava a lanciare al Gonzaga, Ma a quale fine? Solo per vedere se abboccava? Francesco non abboccò, sia che fosse morso dalla paura degli Estensi o ben istruito dallo Strozzi, sia che fosse prudentissimo in amore come piaceva a Lucrezia. Lo Strozzi, per conto suo, manovrava con abilità degna di avversari di quella portata, senza perdere un momento la calma e il giudizio delle cose. Aveva pensato a tutto: né la corrispondenza dei due innamorati e del loro mezzano si sarebbe potuta scoprire, perché le lettere erano affidate a gente di fiducia che battevano ora questa ora quella via, e avevano sempre motivi ufficiali per passare il Po; una volta arrivate, si custodivano segretissimamente, e poi, quando se ne avevano due o tre, erano restituite a chi le aveva scritte e dallo scrivente bruciate. "Ho avuto la vostra [lettera]" scrive infatti Zilio al marchese di Mantova "con tutte le mie e quella di M. Barbara che stanno benissimo. Ho dato la sua [di Lucrezial a lei ' e l'altre al fuoco... Se volete, sempre vi si rimanderanno le vostre." Si distruggevano dunque man mano le prove dell'intrigo, e questo spiega perché sono rimaste, dell'intero carteggio ziliano, solo quelle poche lettere che lo Strozzi non fece in tempo a riavere. Né erano solo questi i falò di lettere compromettenti che si accendevano in dimore ducali e marchionali. Una sicura corrispondenza segreta esisteva fra Isabella e suo fratello Alfonso, come ci indica un bigliettino dimostrativo di lei. Era tanto al corrente dei maneggi strozziani presso il marito e dell'intrinsechezza di lui col cognato dello Strozzi, Uberto Uberti, che già dalla metà del 1507 aveva scritto al duca di Ferrara:

"Messer Hercule [ Strozzi i è cognato de Uberto de Uberti [il] quale è il maggior ribaldo di questa terra e mio nemico che mi ha offeso e non studia che in offendermi come a bocca farò intendere a V. S. quando potrò parlarle. Costui viene spesso a Ferrara, e nuovamente c'è stato, dopo che fu qui M. Hercule. Dubito che sia venuto a spiare perché questo è il suo manifesto ufficio. Io ho detto quel che mi occorre. Pregola bene che le mie lettere siano bruciate come io brucio le sue per onore e beneficio mio," Bruciavano, dunque, le lettere di Ercole Strozzi, bruciavano quelle di Lucrezia, quelle di Francesco Gonzaga, quelle di Isabella, quelle di Alfonso: se non bruciavano quelle del cardinale, era perché, più raffinato di tutti, egli non scriveva mai. Nel vagare nuvoloso dei sospetti e delle inquietudini, i mariti si trovavano ad essere legati e nemici alle loro mogli, ed ognuno ad aver da nascondere un

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complotto, una bugia, una segreta intenzione di sfregio morale: ma in questo viluppo di interessi, di ambizioni, di gelosie, d'orgoglio, solo Lucrezia, pur essendo lei il perno della giostra di intrighi, aveva una ragione genuina, un desiderio d'amore di quelli che dovrebbero stare al mondo di diritto. "Mostrate d'amarla," aveva detto Zilio "che ella non vuole da voi altra cosa." Sventuratamente questa semplice "cosa" era per lei maledetta. All'improvviso la tempesta avvenne, preceduta da un prologo da tragedia. Si ricorderà che Lucrezia aveva raccolto e dato asilo, dopo la morte del Valentino, ad un giovane prete spagnolo, compagno al Borgia nella sua fuga da Medina: lo aveva fatto alloggiare al convento di San Paolo e lo invitava spessissimo a corte alla sua stessa tavola. Appunto da Castello egli tornava la sera del 4 giugno 1508 prendendo la strada diritta che dalla piazza grande porta al convento. Questa strada è certo più cupa del Gorgadello, via di ubriaconi che par di sentire cantare alla luna venendo su a gruppi dalle fonde cantine sotto le finestrette della canonica: cupa quasi come la medievale via delle Volte fasciata di ombre gotiche. Sotto i portici antichissimi, le case non allineate sullo stesso asse formano angoli neri, nerissimi di notte, covi da pipistrelli o da assassini; e la forma d'aria racchiusa tra i pilastri delle arcate smorza le voci che non riescono a trovare la libertà del cielo, sicché la strada procede a fatica, e solo osa allentare la sua ansia sul piazzale dove sorge la chiesa di San Paolo col suo convento a fianco, chiuso da un muro brusco, intollerante, che per timore di danni respinge ogni tentativo di confidenza. Sul portale, due angioletti un po' spauriti della loro consegna di candore cercano di schiarire il tetro malumore del luogo; e forse si fidano dei coni antichissimi di pietra rossa che allora dovevano essere al loro posto sulla facciata della chiesa, a sostenere le colonne del portichetto romanico. Ma né la chiesa né il convento dal grazioso chiostro quattrocentesco dovevano più mostrarsi al prete spagnolo: i portici lo condannarono proteggendo i suoi notturni assalitori, lo videro cadere a terra "scannato", dice un relatore, senza che si sentisse un grido e senza che nessuno indovinasse da chi e perché fosse ordinato il colpo. Sembra impossibile che in pochi mesi di vita ferrarese il prete si fosse fatto nemici personali così risentiti da volere la sua morte. E se questo non era, quali ragioni avevano armato la mano degli assassini? Qui gli interrogativi non finirebbero così presto; e ne toccherebbero anche agli Este che potevano aver stabilito in quello il tempo di bonificare l'aria intorno alla duchessa dai germi di ribellione e di tradimento seminati dai favoriti e dalle favorite di lei. Certo, questo assassinio non può andare disgiunto nelle sue cause remote da un'altra morte che avvenne, poco dopo e che fu di assai più peso e crudeltà. Ercole Strozzi, che in quei giorni aveva avuto da Barbara Torelli una bambina, stava scrivendo un'elegia non si sa se latina o italiana, sulla camicia della donna amata. Chi ne conobbe qualche verso (oggi, è perduta) poté dire più tardi che l'idea della morte martellava cupa come un presentimento per tutta la composizione. Con questi fantasmi poetici nella mente, la notte del 5 giugno,

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nella prima mitezza estiva, egli muoveva per Ferrara la sua gruccia, uscendo non sappiamo se dalle camere della duchessa o dalle camere di Barbara: né qui né là doveva più ritornare.

Il primo sole del sei giugno 1508 illuminava in Ferrara uno degli omicidi più celebri nella storia letteraria italiana: all'angolo delle vie Praisolo e Savonarola, presso il muro trecentesco della casa Romei, chiusa e compatta come un fortilizio, giaceva il cadavere di Ercole Strozzi. Ventidue pugnalate lo avevano trafitto senza che la sua eleganza e l'espressione di sdegnosa alterigia fossero alterate; e, la gruccia a lato, gli speroni ai piedi, le ciocche dei lunghi lisciati capelli strappate durante la lotta e posate beffardamente intorno al suo capo, mostravano che anche gli assassini erano entrati senza avvedersene, per ultima ironia del poeta, nel suo mondo estetico e rappresentativo.

La città fu subito in movimento. Non che lo Strozzi fosse popolare; il popolo, anzi, odiava la durezza da lui mostrata durante l'esercizio di giudice dei Savi. Ma era un uomo potentissimo, uno dei primi di Ferrara, per rango sociale, per fama poetica, per posizione a corte, per ricchezza; ora, tutte le cause mobili e vive per le quali aveva suscitato invidia ammirazione dispetto odio, non contavano più presso quel cadavere. Da chi, stroncate? Il Prosperi, mandando la notizia ad Isabella d'Este, afferma che sugli autori dell'assassinio chi diceva una cosa e chi l'altra, ma nessuno ardiva parlare apertamente "per non dar la testa nel muro". Poteva essere, addirittura, il muro del castello estense. Si notò che il Tebaldeo, preso da una nuova crisi di paura, domandava in fretta licenza di poter andare lontano, a Roma (doveva invece restare, a burrasca passata) con l'aria frettolosa e spaurita di chi si mette in salvo. Ma subito la catena del segreto fu allacciata, tutti si imposero silenzio, fecero mostra di non sospettare nulla e di non aver da esercitare la mente su questo problema. Passò su Ferrara un soffio spesso e grigio, la paura, a coprire il fitto lavorio delle ipotesi e dei sospetti; e nel segreto, le leggende trovarono terreno per affermarsi, sviando la soluzione del mistero. Si fecero i funerali, splendidissimi, fastosi, che dalle circostanze prendevano maggiore e turbato decoro; nessun ferrarese dei nobili e degli intellettuali mancava, quando, sotto l'arcata del Duomo, Celio Calcagnini, il grande filologo ed umanista del circolo ferrarese, si alzò e cominciò, presente cadavere, la sua rotonda orazione:

"Magna me cruciat miseratio, torquet iactura, magnitudo vexat indignitas rei..." squillava la risonante voce esprimendo compostamente ed eloquentemente il dolore. "Dov'erano, il lavoro di tanti anni, tante luci d'animo, tanto fervore? In un giorno, in un'ora tutto era sparito... E dov'era quell'acutezza dello spirito? Quella sottigliezza d'ingegno' Quell'officina delle

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lettere? Quella soavità della poesia?" Le lodi si ampliavano, intrecciate con abbondanza e misura:

"Se il mordace verso giambico, o il grave eroico, o il dolce elegiaco tentava, così animosamente lo impugnava, così felicemente insorgeva, così blande e soavi cose cantava, che tutti lo invidiavano...". E seguitava: "Qual meraviglia, dunque, se a Lucrezia Borgia, moglie del principe, alla quale egli sempre religiosissimamente fu devoto, era così gradito?". In quella assemblea di gente accorta, nessuno mosse ciglio, ogni pensiero rimase incomunicabile. Si sapeva che la prudenza era necessaria perfino ad Urbino dove era allora il Bembo che dovette ascoltare la notizia della morte dell'amico con l'angoscia di rimorsi che toccavano di lontano anche lui. La sola voce che si alzò, un grido disperato, fu quello di Barbara Torelli. Dal letto dove ancora giaceva, con la sua piccina di tredici giorni a lato, Barbara aveva dovuto sopportare un dolore che non aveva nemmeno, per confortarsi, la giustificazione della fatalità. Frantumata nelle sue liete speranze da quella morte straziata e repentina, Barbara non abdicava però alle sue migliori qualità di donna; e subito radunava nella sua casa i figli dello Strozzi, i due nati da lei e gli altri quattro illegittimi, accingendosi, debole ma decisa, a difendere quella covata senza padre. I fratelli di Ercole, Lorenzo e Guido, avevano scritto una lettera al marchese di Mantova sperando che egli avrebbe fatto vendetta di "chi gli ha morto un così fidelissimo servitore"; e Francesco Gonzaga rispondeva mettendo una taglia di cinquecento ducati, più l'impunità, a chi avesse rivelato il nome dell'assassino, e mandando conforti alla vedova. Fece anche da padrino, per procura, al battesimo della bambina che fu chiamata Giulia. Ma passavano i giorni, nessuno si presentava a riscuotere il ricco premio, la giustizia ferrarese pareva dormisse: si cominciava ad essere certi che il colpo veniva dall'alto. La confusione delle opinioni è secolare. Si formarono col tempo due leggende: la prima, che la duchessa sia stata innamorata dello Strozzi e che lo abbia fatto uccidere per gelosia della Torelli, va messa in conto della discendenza borgiana di Lucrezia; e l'altra, che il duca Alfonso sia stato innamorato di Barbara Torelli e che abbia voluto toglier di mezzo il marito per arrivare facilmente fino a lei, è assolutamente gratuita e non ha conferma nelle testimonianze del tempo. La molteplicità degli indizi ha fuorviato le indagini: chi conosce le lettere di Zilio, ha pensato ad una circostanziata vendetta estense contro l'audace mezzano della duchessa; ma non si è potuto concludere che questa sia stata la Causa diretta del delitto. Ricercando, invece, l'identità dei nemici più feroci contro Barbara Torelli e contro lo Strozzi, appare verosimile che l'omicidio sia stato ordinato dai parenti della Torelli, da quei Bentivoglio che vedevano nel poeta ferrarese il rivendicatore abilissimo e irriducibile del patrimonio e dei diritti di Barbara. La prova più convincente di questa versione è in una lettera della Torelli stessa al marchese di Mantova, una supplica perché egli la aiuti nelle sue

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difficili condizioni di vedova con sei figli da allevare e da educare, stretta inumanamente dai Bentivoglio e dal genero Galeazzo Sforza. "Chi mi ha tolto il marito," scrive infatti Barbara "fa perdere il suo [patrimonio] alli figlioli e cerca offendere me nella vita e farmi perdere la dote." è chiaro che non si parla qui degli estensi, i quali non pensavano affatto a farle perdere la dote, anzi la facevano assistere nelle sue liti contro l'avido parentado da gente di loro fiducia; ma si accenna ai suoi nemici di sempre, i Bentivoglio e Galeazzo Sforza, coloro che le avrebbero tolto il marito per arrivare con più rapidità e sicurezza a ridurla in miseria. Una testimonianza di più in favore di questa tesi è in una lettera che mandava da Bologna al cardinale Ippolito un suo informatore, Giacomo Mugiasca; si diceva in essa come a Bologna si desse per certo che l'assassinio di Ercole Strozzi fosse stato ordinato da Alessandro Pio, il marito di Angela Borgia e figlio di Eleonora Bentivoglio, per conto appunto dei Bentivoglio, e che l'esecutore del delitto fosse Masino del Forno, il Modenese.

Arrivati a questo punto dell'imbroglio bisogna rifarsi a riflettere; e proprio cominciando dai nomi del Pio e di Masino del Forno designati mandante e mandatario del delitto. Conta molto ricordare che il Pio era tutto dedito, anzi prono agli Este, e che brigava il favore della casa ducale come una grazia per conservarsi il dominio del suo piccolo feudo di Sassuolo. Certo non si sarebbe messo all'impresa di uccidere un uomo di corte, il maggior favorito della duchessa, se non avesse avuto non solo la sicurezza dell'impunità, ma anche, espressa o non espressa, l'approvazione estense. Masino del Forno, poi, era uno che ad ammazzamenti e complicità sanguinose ci stava subito, ed era capacissimo di aver messo il pugnale al servizio dei Bentivoglio; ma anch'egli, più e meglio del Pio, non l'avrebbe mai fatto se non avesse saputo che la cosa sarebbe piaciuta ai suoi signori, specie al cardinale.

Il cardinale Ippolito: chi ricorda quel suo procedimento sotterraneo che portò alla scoperta della congiura di don Giulio, quell'astuta, felina pazienza nel lasciar maturare i tempi per cogliere al punto critico, e impreparati, i congiurati, sempre restando nell'ombra in modo da allontanare da sé ogni partecipazione diretta nei fatti, può riscontrare la stessa procedura anche in questa tragedia. Si sapeva che Ercole Strozzi aveva dei nemici mortali che gliel'avevano giurata, e nulla era più facile, dunque, far loro intendere cose come questa: essere la strada libera, e tutto permesso ai più estremi propositi contro il poeta ferrarese. In una città che vantava una polizia addestrata, e in un tempo nel quale non si esitava a mettere alla tortura gente sospetta, la mancanza di inquisiti e di arrestati è un dato di fatto gravissimo. Qualcuno ha detto che, i libri dei processi di quegli anni essendo bruciati, non si può parlare con criterio fondato di incuranza della giustizia; ma è di pochi anni posteriore agli avvenimenti la testimonianza dello storico

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Paolo Giovio, uomo molto guardingo nello scrivere, che afferma: "il pretore volle ignorare i colpevoli"; e se vi fossero stati arresti o pubbliche indagini, non avrebbero davvero tralasciato di darne notizia i nostri informatori, che sembrano, invece, evitare, e come voler dimenticare l'argomento. Una neutralità complice degli Estensi è evidente, e spiega tutto:le leggende popolari che i contemporanei, con la logica del buon senso inventavano, dando a casa d'Este la colpa del l'assassinio e romanzando d'amori segreti e di gelosie; il silenzio degli umanisti e quello dei relatori; il terrore del Tebaldeo; e anche il distico di Gerolamo Casio, Ercole Strozzi cui fu dato morte per aver di Lucrezia Borgia scritto,

giudicato una scervellatezza perché tutti sapevano che la penna del poeta ferrarese aveva tracciato della duchessa solo lodi rispettose, ma che prende invece un significato lampante se si riferisce alle lettere di Zilio. Gli schermi che il cardinale poteva aver messo a coprire la verità erano molti, il silenzio era il più fido, la paura il più efficace; nel caso peggiore, poi, chi fosse arrivato in fondo alle cose, non vi avrebbe trovato che i nomi degli avversari di Barbara Torelli, e più in là, anche sospettando, non avrebbe potuto passare se non con le ipotesi, Ippolito non essendo uomo da lasciare tracce di prove dietro di sé. Anche Barbara, che in fondo ci stava arrivando, mostrava di credere alla colpevolezza dei suoi nemici di sempre, com'era stato previsto; ma forse proprio perché lei sola, stimolata dalla sua angoscia, avrebbe potuto dimenticare silenzio e paura e indovinare la nascosta verità delle cose, presto e copertamente fu avvertita che la sua vita a Ferrara era malsicura; e difatti la vediamo prendere con sé i piccoli Strozzi e fuggire a Venezia. Là, palpitando di ribellione viveva: il suo dolore s'avventava contro le forze che la serravano, e, purificandosi per il filtro della cultura e della poesia, prendeva forma d'arte in un sonetto, il solo componimento poetico che ci sia rimasto di lei; tanto ammirato, che alcuni, dubitando che una donna, e Barbara, potesse averlo scritto, avevano tentato di attribuirlo al più gran poeta allora vivente a Ferrara, Ludovico Ariosto. Ma ultimamente le è stato riconosciuto: troppo femminile si è detto, quasi un "ritorno alla natura" straordinario in quei tempi di imitazione petrarchesca, specie nelle due terzine finali:

Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio,

intiepidire, e rimpastar col pianto

la polve, e ravvivarla a nuova vita.

E vorrei poscia, baldanzosa e ardita,

mostrarlo a lui che ruppe il caro laccio

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e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto.

Non si seppe mai chi fosse il mostro crudele. Vera o non vera l'accusa ad Alessandro Pio, è certo che l'ordine mortale partì dai Bentivogilo o da Gian Galeazzo Sforza: ma è certissimo che gli Este furono d'accordo a non voler vedere, e a proteggere col silenzio gli assassini.

Quali fossero le reazioni di Lucrezia, ecco un problema. Nessun relatore fra quanti conoscevano, ed erano tutti, l'intrinsichezza della duchessa con il suo poeta, la nomina mai in quei giorni parlando del delitto. Né sappiamo se abbia davvero aiutata Barbara Torelli che si sarà certo rivolta a lei come alla sua naturale protettrice. La coerenza dei fatti e dei caratteri è in questo caso tutt'uno con la fantasia: e s'immagina meglio una Lucrezia che cerca di proteggere la vedova dello Strozzi, piuttosto che una Lucrezia che l'abbandoni; a meno, s'intende, che gli Estensi non gliel'abbiano, in qualche modo, impedito. Dette o non dette, le cose andavano insomma imbrogliatissime; e forse fu Lucrezia stessa che, non potendo garantire la vita alla Torelli, le consigliò di lasciare Ferrara. Che l'avesse a cuore, una prova, per quanto indiretta, l'abbiamo; perché, quasi certamente dobbiamo riferire a lei l'interessamento del cardinale Ippolito al quale era buona politica aiutare chi non poteva ora più nuocere. Egli inviò un suo agente per sostenere le parti della Torelli in una delle sue liti giudiziarie: durante questa lite, Galeazzo Sforza, che era uno degli avversari, mostrava di essere della grana spirituale del fratello Giovanni, l'ex marito di Lucrezia, arrivando a dire che la tragica morte del poeta ferrarese aveva dimostrato dopo tutto, da che parte fosse il torto. A quel feroce bestemmiare il giudizio divino, l'agente ferrarese si sentì scappare la pazienza e rispose duro ricordando tradimenti e ammazzamenti di casa Sforza; sicché Galeazzo ripiegava, e si scusava agro, mormorando tra i denti essere meraviglioso quanti amici avesse lo Strozzi, occupati a proteggere le cose sue meglio di lui se fosse stato in vita. Era un'allusione alla duchessa di Ferrara? Ma nel castello estense, intorno a Lucrezia, tutto pareva interrotto, non solo col Gonzaga, ma con l'armonia del vivere: i perché, formulati o non, cadevano senza risposta contro i visi troppo indifferenti di Alfonso e di Ippolito. Rimorso ed angoscia di quegli uffici pericolosi ai quali lo Strozzi s'era condotto per lei dovevano pesarle; né ella poteva chiarirsi se fossero stati proprio quelli ad evocare il delitto, osservando e scrutando intorno a sé gli Estensi tranquilli, e che fingevano di stare come lei in dubbio e in sospeso, L'odio dei Bentivoglio contro Barbara, odio dal quale ella stessa l'aveva per tanti anni difesa, poteva essere una ragione bastante a farle credere che il pugnale veniva di là: e Lucrezia dové finire per esserne persuasa. Prudentemente. Ma pur essendo donna da rimpiangere il poeta e l'amico tutta la vita senza pronunciare più il suo nome e senza lamentarsi, si

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smarriva tutta in quella sua solitudine spirituale dove non giungevano più ora, i lirici accenti e le blandizie cortigianesche dello Strozzi. Forse Lucrezia fuggiva da se stessa con uno spaventato battere d'ali, quando in quel giorno sollecitamente annodava strette relazioni con l'ultima regina di Napoli, Isabella d'Aragona, che, vedova di re Federico morto nell'esilio di Francia, era venuta a stabilirsi a Ferrara ben ricevuta onorata e provvista di casa e d'appannaggio dal duca Alfonso. Passata appena una settimana dalla morte dello Strozzi, la duchessa diceva di sentire il caldo precoce, smaniava di partire per la campagna, pareva rabbrividire di lunari inquietudini. Il giorno del Corpus Domini, preso il pretesto di voler vedere da vicino la processione solenne, si fece invitare dalla regina di Napoli alle sue finestre, sotto le quali sarebbe passata la sfilata religiosa, e andò di buon'ora in quel palazzo Pareschi nobilmente proporzionato che sta in via Savonarola, proprio di faccia alla casa Romei. Dalle finestre del primo piano si vede fin nelle connessure dei selci la terra che sopportò il peso morto dell'assassinato Ercole Strozzi. Lucrezia si mise a quelle finestre, e poteva guardare quel luogo come ad un luogo doloroso della sua vita; e il passaggio della processione, tra il racconto colorato degli arazzi che la regina di Napoli aveva fatto esporre nel suo palazzo e sulla fronte di casa Romei, il canto sacro, il brillare dei paramenti d'oro e dei ceri, il viso malinconico della regina vedova, erano fatti per condurla ad un pianto smarrito da non poter dividere con nessuno.

Fuggire per rifarsi: e come ritrovarsi e come risanare, se non con l'aiuto di chi le sembrava vivere davvero, del suo Gonzaga? Lucrezia cercava già il nuovo intermediario; e lo trovò in uno che non ci si aspetterebbe di incontrare a questo ufficio, il conte Lorenzo Strozzi fratello di Ercole. Proprio nello stesso mese del delitto, giugno 1508, vediamo il conte Lorenzo in castello presso Lucrezia, pronto a riprendere l'ufficio di mezzano fra la duchessa e il marchese di Mantova. Che accadeva dunque? E qual era la nuova tattica degli Este? Qui, c'è veramente un punto buio; e intanto si giudicherà subito l'esiguità della coscienza morale di Lorenzo Strozzi, osservando con quale prontezza egli, dopo aver chiesto aiuto per vendicare l'assassinio del fratello, si era indotto ad accordarsi con i diretti responsabili del delitto e contro la cognata Barbara Torelli. Da un uomo capace di tali rivolgimenti tutto c'è da aspettarsi: persino, ed è un sospetto circostanziato, di essere stato messo vicino a Lucrezia da qualcuno al quale premeva, per ragioni tanto giuste da fruttare benissimo negli anni che seguirono che la corrispondenza tra Lucrezia e Francesco Gonzaga continuasse: sotto vigilanza, però. Certo, non si leggono le parole di presentazione che il 30 giugno Lucrezia scriveva di sua mano a Francesco Gonzaga, senza un senso di stupefazione e quasi di sgomento: "Venendo il conte Lorenzo Strozzi, a V. S. non meno di quella [Signoria] servitor devoto che era M. Hercule suo fratello", gli dia fede come a lei stessa. A Lucrezia parve così di aver

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riagganciato i giorni e, per esserne meglio certa, pensò di andare in villeggiatura a Modena e a Reggio dove i cittadini, memori delle ruberie che nel 1505 cuochi e paggi e staffieri avevano fatto (s'erano portati via perfino lenzuoli e candelieri) videro con una certa apprensione la corte delle due signore alle quali bisognava pure fare accoglienza e doni. La duchessa e la regina si trovavano bene nelle miti campagne reggiane; ma, mentre la regina qualche giorno dopo ripartiva, Lucrezia restava, inquieta e fervida, e dava a vedere di avere scelto quei luoghi per un fine sperato fin quasi all'angoscia e cioè perché il Gonzaga, a ricordare quanto fosse facile venire da Borgoforte a Reggio, rifacesse la cara strada arrivandole improvviso. No, Lucrezia, non poteva finirla di desiderare quel sorriso incuorante, quel raggio di calore voluttuoso: aspettava. E, vedendo che Francesco non si decideva, soffriva d'impazienza, chiamava il conte Lorenzo, gli ordinava di scrivere a Mantova, sollecitando: presto, venga, non faccia passare i giorni buoni, perché alla fine d'agosto ella dovrà tornare a Ferrara. "Se a lei fosse lecito, non starebbe tanto a venire" scrive il nuovo intermediario riandando pallidamente sulle orme del fratello. Sì, alla duchessa è stato detto che Francesco è ammalato, ma ella ha ordinato tante orazioni ai monasteri di Reggio e di Ferrara, che certo in questo momento sarà guarito. Venga, venga: e risponda subito. La risposta arriva, scritta il 25 agosto: è di mano del segretario del marchese, Tolomeo Spagnoli prediletto del Gonzaga (e che Isabella per giuste ragioni odiava), e, così com'è, affettuosa pur restando guardinga, significa un rifiuto. Certo, egli desidera moltissimo di rivedere la sua "cordialissima sorella", ma non può: è troppo malato. Intanto Lucrezia, prima ancora di aver ricevuto il bigliettino, non potendo reggere all'impazienza ha preso una decisione: se il Gonzaga è malato, ella potrà ripetere per lui la visita consolatrice fatta al Bembo, arrivare al suo letto, a Mantova. Trovato ottimo il pretesto, Lucrezia si preparava e faceva preparare la sua corte: e sarebbe partita se il duca Alfonso e il cardinale arrivati a Reggio non le avessero impedito, e forse bastò la loro sola presenza, il viaggio. Lucrezia non si muoverà ora: "la signora duchessa che era deliberata visitarvi, si è restata, e resta", scrive al Gonzaga uno dei buffoni di corte, Martino d'Amelia; e continuando nella sua lettera, gli narra che gli Estensi non credono alla sua malattia, tanto più che per opera di negromanti hanno potuto vedere la sua immagine, e si sono meravigliati, che "il male non pareva troppo". Ora che non c'era più Ercole Strozzi, gli Este si permettevano parecchi sorrisi sulle fallite galanterie del cognato mantovano. Non restava a Lucrezia che rimandare i suoi desideri, coltivando la propria rassegnazione e la propria speranza e aiutandosi anche questa volta con la poesia. Aveva trovato a Reggio, arrivato da poco più di un mese, Bernardo Accolti, l'Unico Aretino, il poeta cortigiano disputato da tutte le corti d'Italia, già suo amico e protetto al tempo del duca di Bisceglie, a Roma: lo prese alla sua corte, colmandolo di favori e di doni, godendo d'essere servita e corteggiata mollemente dall'abile istrione. Erano lontane le magnificenze

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delicate del Bembo, e le sottigliezze metafisiche di Ercole Strozzi, ma già le pareva abbastanza di avere costui e di proporsi in una compagnia evocativa gli antichi goduti tempi. L'Accolti non doveva rispolverare a lungo il suo rimario per la duchessa di Ferrara: qualcuno lo avrebbe presto allontanato con una ditata, e Lucrezia sarebbe rimasta senza poeti. Pure, anche a lasciarla sola, non si sarebbe trovato il modo di colpirla nel rifugio dove lei si celava, remota e giovanissima, con i suoi taciti sortilegi.

Guerra su Ferrara

Settembre apriva le porte all'autunno, quando Lucrezia, sola, e senza aver riveduto il suo Gonzaga, tornava a Ferrara. Nella culla sotto il pergolato d'oro dormiva i sonni distesi della prima infanzia il piccolo Ercole, cresciuto e imbellito: aveva ancora, avrebbe avuto sempre, quel nasino schiacciato e quegli occhi chiarissimi, gli occhi "bianchi" della madre, ma era, come diceva un vecchio cortigiano, "bello e morbidino e bianco come una giuncatina". Lucrezia aveva bisogno di un aiuto così, che tenesse fermo, ridotta un'altra volta all'incertezza, e dolente, più ancora di quando era partita da Ferrara, del vuoto che Ercole Strozzi le aveva lasciato nel tempo e intorno tra le cose. Si accorgeva che la compagnia del poeta ferrarese le era valsa fin troppo, in un modo imparagonabile ed insostituibile: e questo, magari, senza che ella si rendesse conto di ciò che una tale necessarietà poteva aver significato per lei di ardente, e sia pur mascherata voglia di peccare. Ora, non si sentiva più in pugno i giorni futuri da vivere in una furtiva gloria, seguendo un cammino segreto; e avevano ragione i relatori a stupirsi quando, vedendola apparire in pubblico con quel viso Asente, la definivano "tutta sconcertata". Come accade a chi non è pago delle cose quali sono e non può ridurle come vorrebbe, ella sovvertiva intanto per quel che le era permesso il suo mondo: e rimandava cortesemente al suo palazzo madonna Beatrice dei Contrari entrata solo da pochi mesi alla cura del piccolo crede estense. La duchessa non riceveva nessuno e non voleva tener corte. Non le riusciva però di isolarsi tanto da evitare i discorsi dei cortigiani i quali invece erano stimolati proprio dai suoi Modi reticenti. Mentre lei stava a Reggio, era andato a Ferrara Mario Equicola, l'umanista napoletano segretario e laudatore ufficiale della marchesana di Mantova, a leggere i manoscritti lasciati da Ercole Strozzi; e aveva mandato alla sua signora una lettera vulcanica. Pensasse, Isabella: tra le poesie dello Strozzi s'erano trovati quindici epigrammi su un Cupido marmoreo che sembravano fatti per il celebre Cupido dormiente di Michelangelo custodito nella "grotta", la "Isabellica cripta" di Mantova, e che invece "si estendevano in lode della Borgia, nominandola". Tale "bestiale

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ambizione" era da non potersi patire. Peggio, la duchessa di Ferrara aveva nelle stanze un Cupido dormiente, lavoro moderno che quelli della sua corte volevano far passare per opera di scavo, ellenistica, e che doveva giustificare gli epigrammi. Lui, l'Equicola, non giustificava nulla: e aveva deliberato di rivelare a tutti quella stolta ambizione e far conoscere che "le scimmie quanto più si alzano tanto più mostrano le parti pudibonde". Il napoletano si sdegnava a freddo: ma se egli si permetteva di scrivere così della duchessa di Ferrara, vuol dire che alla corte di Mantova questo discorso poteva essere impostato nei termini della più feroce insolenza. Per suo conto, Isabella non tralasciava discorso che mettesse in ridicolo la cognata anche nella sua fedeltà coniugale. Una volta che Alfonso era in viaggio, Isabella si prese "gran spasso della duchessa di Ferrara, la quale per mostrare al marito di essere ben fedele e casta, si fa dormire nella anticamera Pietro Giorgio di Lampugnano". La maldicenza toccava volentieri il Lampugnano amico e favorito della Borgia, uomo prestante e di molti amori. Isabella non aveva avuto fortuna con lui una volta che gli aveva raccomandato per la corte della duchessa una sua protetta, magari con l'intento di insinuare lo sguardo negli appartamenti della cognata: si era sentita rispondere che non c'era posto per la ragazza. Metterli ora insieme, il gentiluomo e la sua padrona, dava alla marchesana un piacere vendicativo tanto più che ad ascoltare c'era il segretario intimo di Francesco Gonzaga, Tolomeo Spagnoli che, si poteva essere certi, avrebbe riferito ogni cosa al suo signore: sapesse, Francesco, il conto che si faceva della sua duchessa. Sì, Isabella doveva dirselo: era veramente troppo aver sopportato l'avventuriera come un male necessario, averla immaginata nell'atto di domandare umilmente quei passaporti di amicizia che le sarebbero stati concessi fra disprezzo e compatimento, e averla vista stare alla pari con chiunque, legare a sé gente come il Bembo lo Strozzi e offesa insanabile il marchese di Mantova: stravincere con levità e senza dare importanza alle vittorie. Ma se Isabella conosceva il proprio potere e sapeva che a lei era facile suscitare ogni specie di entusiasmo ammirativo, non sapeva che all'altra restava la facoltà di aprire la via ai segni e ai desideri per i quali gli uomini si dimenticano di andare soggetti a leggi di dolore: quanti amavano Lucrezia si chiudevano in un silenzio che aveva qualcosa di settario, persino Alfonso era indecifrabile per ciò che riguardava la moglie, e su di lei non fiatava. In quell'autunno i cortigiani notarono che il loro duca faceva alla moglie una compagnia più assidua del solito senza però riuscire a rallegrarla: andava spesso nelle sue camere forse perché capiva di averla abbandonata troppo e di doverle qualche cosa. Gli balenò, insieme con un vago rimorso coniugale, l'idea di una corrispondenza profonda con lei? Non è probabile, e ad ogni modo sarebbe stato troppo tardi. Lucrezia lo ascoltava parlare di affari di governo, fida e paziente consigliava o più spesso approvava, ma i pensieri teneri li serbava per il Gonzaga: lo aveva invitato a Ferrara, era stata delusa ancora una volta, e gli mandava il conte Lorenzo con ambasciate da riferirgli a voce, troppo

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importanti, secondo lei, per essere scritte. Aveva ricostruito con Francesco un cifrario di simboli tra i quali "falcone" significava "lettera" o forse "bacio" o anche "amore", e "falconiere" indicava lei, Lucrezia; ma non respirava più l'aria magica e fosca di segreti come al tempo di Ercole Strozzi. I sentimenti stessi, perduta quella forza imperativa, pungente, irresistibile, si sbandavano, impigrivano in un andar lento e paludoso. Lucrezia sentiva anche da quel lato qualche cosa di nemico, e dava in ismanie: chiamava il conte Lorenzo: possibile che da Mantova nulla fosse arrivato? Nulla, affermava mortificato l'intermediario: e si pigliava una gragnuola di recriminazioni e di accuse dalla duchessa alla quale pareva perfino che le sue lettere facessero, ora, un cammino torto; una parola forse anche troppo giusta. Il conte Lorenzo riferiva subito al Gonzaga le lamentele della inquieta signora, e gli si raccomandava che scrivesse, per carità; ma, messo in guardia da chissà quali avvisi, magari, e sarebbe nel suo avvertito stile, da insinuazioni allusive di Isabella, Francesco Gonzaga, benché dolente, stava alla larga da Ferrara e scriveva poco. E Lucrezia, negletta, si ripiegava, intristiva, diventava selvatica al punto da ordinare che si drizzasse in Duomo una tenda da campo per starvi dentro con le sue donne, isolata e al riparo da ogni sguardo, quando le fosse piaciuto di andare a sentire la predica: in tutta la quaresima ci andò una volta o due. Non avrebbe immaginato che a rianimarla sarebbe stato proprio quello che ella aveva per istinto in orrore: la guerra.

Era chiaro che la Primavera del 1509 avrebbe chiamato gli eserciti sul campo: la lega di Cambrai del 10 dicembre 1508 l'aveva annunciato, riunendo insieme contro la supremazia orgogliosa della repubblica di Venezia il re di Francia, il re d'Inghilterra e l'imperatore Massimiliano. In Italia, Giulio II aveva invano tentato di convincere i veneziani a restituire alla Chiesa le terre e le fortezze della Romagna già conquistate per sé da Cesare Borgia ed ora cadute nelle loro mani: qualche cosa avevano restituito, ma pochissimo; poi, inebriati d'orgoglio, gli inviati veneziani, ognuno con la paludata convinzione di avere dietro di sé l'intera Repubblica, s'erano messi a rispondere dall'alto, negando terre e fortezze. Così il Papa, nel marzo del 1509, entrò nella lega conducendovi Alfonso d'Este al quale non pareva vero di tentare la riconquista del Polesine di Rovigo, e Francesco Gonzaga che anche lui voleva vendicarsi della Serenissima di un fatto che gli scottava ancora dopo dodici anni, il licenziamento cioè da capitano generale delle truppe veneziane qualche tempo dopo Fornovo. Il duca di Ferrara fu nominato gonfaloniere della Chiesa, si preparò la guerra, rotolarono le artiglierie, si presero le necessarie decisioni di governo: Alfonso al campo, Lucrezia avrebbe governato a capo di un consiglio di dieci cittadini scelti fra i più autorevoli, e col cardinale Ippolito a lato, naturalmente; ma avrebbe dovuto anche far da sé, perché il battagliero cardinale, approntate corazza e spada, non aspettava se non l'occasione per usare l'una e l'altra.

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Il primo atto di guerra della lega fu la scomunica lanciata in forma solenne dal Papa contro Venezia. I veneziani sorridevano freddi; e del resto, nella città della laguna, correvano discorsi che non solo erano ottimisti, ma che si fondavano su ragionamenti l'uno meglio dell'altro appropriati sottili e giusti. Gli uomini politici veneziani, informati a capello dai loro ambasciatori sulle disposizioni e sulle forze dei confederati, e andando per le file di quella logica scorrevole e precisa che era nella grande tradizione della diplomazia veneta, erano arrivati a concludere che tutto si sarebbe volto a loro favore; ma questa volta la logica non sarebbe bastata. Verissimo che il re di Spagna era entrato nella lega controvoglia e che l'imperatore Massimiliano sopravanzasse molto i fatti con le parole, senza esercito e senza denaro come si trovava in quel momento; che i mercenari del Papa non davano garanzia di fiducia, e peggio assai i loro capitani; e che v'era fra gli alleati una diffidenza invincibile fatta apposta per dividerli; ma i veneziani dimenticavano di mettere, a riscontro dell'infidatezza delle truppe pontificie, l'infidatezza delle loro, mercenarie quelle e queste; e soprattutto dimenticavano che esisteva un potentissimo cemento per unire i confederati: l'eccidio contro l'opulenza, lo splendore e la superbia della Repubblica di San Marco. L'esercito della Serenissima, per quei tempi poderoso, era composto di 50.000 uomini, ben pagati, bene armati, che mossero al grido "Italia Libertà", un grido da patrioti del Risorgimento, un mattino d'aprile, brillando il sole sulle bandiere ricamate del motto "Delensio Italiae", difesa d'Italia. Su l'orgoglio della Repubblica che si era creduta da tanti di poter avversare tutta Europa, doveva calare la punizione: il 14 maggio si risolveva ad Agnadello presso Cremona una battaglia tremenda durata quattro giorni, e finita con il trionfo dell'esercito leghista, che annunciava il declino della supremazia veneziana in terraferma. Intanto, l'esercito pontificio, al comando del giovanissimo duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere nipote del Papa il mite Guidobaldo era morto da un anno avanzava vittoriosamente in Romagna: e i veneziani, illuminati sui loro errori, si affrettavano a correre ai ripari mandando subito urgenti ambascerie al Papa per chiedergli pace, e offrendo alla Chiesa le fortezze romagnole e al re di Spagna le città costiere delle Puglie. "La mano che ha colpito dovrebbe risanare" dicevano prendendo a prestito il linguaggio evangelico: ma le condizioni fatte dal pontefice erano così dure, che, affermavano gli ambasciatori, piuttosto che accettarle, da Venezia si sarebbero chiamati in aiuto i Turchi, nemici della Cristianità. A questo punto accadde qualcosa che venne a cambiare la successione degli avvenimenti.

Proprio Francesco Gonzaga, capo di un fortissimo nucleo d'armati, mosso da uno dei suoi slanci malavventurati, s'era spinto alla cieca e con poca gente nel territorio veneto; qui, scoperto dai suoi nemici, di notte, era stato accerchiato, isolato, e catturato con bagagli, cavalli, tende, argenterie,

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mentre cercava di nascondersi e di fuggire. Alla notizia, si dice che il Papa gettasse a terra la berretta pontificale e desse in grida di rabbia; ruggiva, addirittura. E certo, con tanto prigioniero in mano, i veneziani potevano cambiare il loro giuoco, negoziare meglio, cominciare una delle loro partite d'alta politica. Francesco Gonzaga non era solo un prigioniero illustre, il capo di uno stato confederato, che il pontefice non era Alessandro VI, lui doveva proteggere, ma era uno che di Venezia era stato altra volta alleato e non era difficile che anche ora, stretto dalle circostanze e dalle suggestioni dei politici, potesse cambiare bandiera, allearsi, se gli convenivano le condizioni e gli davano nel genio le ragioni, con la Repubblica. A Venezia, intanto, la cattura del Gonzaga aveva dato motivo di speranza ai cittadini che s'erano trovati in folla a piazza San Marco quando il prigioniero vi sbarcava. "Sorcio in gabbia! Turco preso! impiccate il traditore!" si gridava da tutte le parti con quell'eccitazione e quella sfrenatezza quasi gioiosa nelle quali si liberano le inquietudini di un popolo in guerra. A sentire così da vicino l'odio della moltitudine, e specie a sentire l'ultimo grido che ricordava le vecchie storie corse sulla fedeltà del Gonzaga dopo Fornovo, quando il marchese era stato minacciato del taglio della testa, non c'era da sentirsi sicuri, e Francesco doveva provare emozioni facili ad immaginare; ma una certa dignità signorile e dinastica reggeva in lui, se, ad uno che gli gridava ironicamente: "Ben venga, il marchese di Mantova!" rispondeva arrestandosi un momento a guardarlo in viso: "Io non so di chi tu parli: questo che vedi è Francesco Gonzaga non il marchese di Mantova che sta a Mantova" volendo significare che la linea di casa Gonzaga sarebbe continuata in ogni caso nella persona del figlio Federico. Fu posto in una prigione che, senza essere orrida, richiamava ogni momento l'idea del carcere, per una ragione psicologica e cioè perché se ne lamentasse: più i suoi biglietti erano tristi, magari disperati, più il Consiglio dei Dieci li faceva rimettere premurosamente ai loro indirizzi. Dalla prigione il marchese di Mantova ricordava non solo la moglie e i figli, ma il suo cantore preferito Marchetto, il suo pittore Lorenzo Costa, i suoi amici, i suoi cavalli i suoi falconi i suoi cani, tutti i compagni della dolce libera vita: soprattutto si raccomandava a preghiere di frati e di monache perché lo aiutassero spiritualmente. I suoi bigliettini disordinati, nei quali si rivelava bene quel suo carattere irruente, affettuoso e pieno di imperizie, arrivavano a Mantova, sgomentavano gente di corte e cittadini, e attizzavano in Isabella una pena rabbiosa.

Ma era venuto finalmente per lei il momento delle grandi azioni. Se alla prima notizia della prigionia del marito, investita da un vento di bufera, aveva sentito possibile il crollo, richiamata alla presenza di se stessa radunava il consiglio cittadino riuscendo a trovare le parole che infiammano e commuovono i cuori, e anche quelle che persuadono la mente. Aveva fatto cavalcare per Mantova il figlio, il bel Federico che il popolo adorava e che fu acclamatissimo; poi, radunando volta per volta i suoi consiglieri, e portandoli

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a suggerirle quelli che erano i suoi stessi consigli, si mise all'opera per salvare lo stato, se stessa e, anche, il marito. Non crederemo ai veneziani quando l'accusavano che per soddisfare la sua passione di governo, ella avrebbe lasciato volentieri marcire il marito in carcere, accusa ripetuta poi da Giulio II; ma è certo che, trovarsi in quella vicenda di comando, doveva essere per lei la liberazione profonda delle sue qualità e della sua vocazione.

Il re di Francia, l'imperatore Massimiliano e il Papa erano d'accordo a non fidarsi di Francesco Gonzaga: trattavano la sua liberazione, sì, ma volevano in pegno della sua lealtà l'erede Federico. Che andasse in Francia il figlio, e si sarebbe fatto in modo di liberare il padre. Isabella, per non dividersi dal bambino, e soprattutto perché l'esilio di Federico non avrebbe garantito l'integrità dello stato, scopriva la strategia della resistenza passiva, inventava cavilli, si cacciava per i sentieruoli dei sofismi, guadagnando tempo giorno per giorno e superando i suoi stessi sentimenti. Un'altra donna più pietosa avrebbe mal sopportato di muovere libera nelle camere eleganti, di riposare la notte sotto il soffitto dipinto a ghirlande della stanza nuziale pensando a quel prigioniero ripreso da un attacco del suo male, senza cure, intristito, piagato; ma Isabella era costretta dalle ragioni di stato a non commuoversi se il marito conosceva come si fa presto ad essere perduti per il mondo e restare senza conforti di parenti e di amici. Non sapete nemmeno, e se lo sapeva ne sorrideva d'alterigia, che ad addolcire al prigioniero l'assenzio del carcere si provava la cognata, duchessa di Ferrara. Appena il suo Gonzaga era caduto in mano veneziana, Lucrezia si era sentita incarcerata con lui, spaventata e angosciata. Ma un calore nuovo era subentrato poi; da quando erano mancati al suo amore gli eccitamenti ambigui e vitali di Ercole Strozzi, era la prima volta, questa, che le si ravvivano tutti i pensieri di tenerezza a rendere i suoi sonni e i suoi risvegli pungentemente agitati e inquieti. Non capiva, non poteva capire l'economia degli affetti che faceva di Isabella quella gran donna politica, erede della sottigliezza e della "tramontana" del duca Ercole ma anche questo le tornava dolce, essere lei sola la consolatrice. Vedeva gli Estensi non prendersi cura della sorte del cognato, quasi sorridere di lui, nel loro asciutto animo di guerrieri, per quel modo poco glorioso di farsi prendere prigioniero in atto di nascondersi e disarmato: ma per Lucrezia queste considerazioni potevano, se mai, contare all'attivo, facendo del Gonzaga una specie di eroe tradito dalla fortuna, non un malaccorto, e mai, in nessun caso, un vile. Messi subito da parte i conviti nelle ville estensi, e fatta venire Angela Borgia, la fidata compagna dei tempi amorosi, cominciò a cercare il modo di giungere al suo Gonzaga e dovette trovarlo rapido e sicuro.

Non sappiamo per mezzo di chi le riuscisse di mandare al prigioniero lettere ambasciate e forse anche aiuti materiali di cure: nessuno dei ferraresi e questo ci documenta sulla segretezza degli atti di Lucrezia parla mai di

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questo operare della duchessa, e non ne avremmo mai saputo nulla se Francesco Gonzaga non lo avesse dichiarato lui qualche tempo più tardi. L'arrivare in silenzio era naturale a Lucrezia, e in questo caso le fu permesso dagli Estensi i quali, con le cortesie senza impegno politico della duchessa, si sentivano liberati dall'obbligo di interessarsi del cognato. In quel periodo di angustie, quando la solitudine e l'ossessione del carcere e della malattia spegnevano in gola al Gonzaga la parola e la speranza, ella sola riusciva ad alleviare i chiusi terrori, più disperati al tramonto, del prigioniero. Per lei era tutt'uno scrivere all'amico e ordinare preghiere nei monasteri, e andare di persona a pregare, come andava il 18 agosto, dieci giorni dopo l'imprigionamento del Gonzaga, quando, essendo ella nel monastero del Corpus Domini, sia per il caldo, sia per l'affanno, sia per le sue condizioni di salute (era di nuovo incinta), si sentì tanto male da far temere della sua salute. Non era nulla, si riprendeva subito, non si sarebbe permessa una diserzione dalla vita attiva proprio adesso che Francesco aveva bisogno di lei e che anche gli Este le affidavano lo stato mentre scendevano in campo contro i veneziani. Il suo senno equilibrato parve valere tanto che il cardinale Ippolito, al quale la vicinanza dei nemici metteva addosso brividi d'impazienza militare, le lasciò in mano Ferrara, e indossate le armi se ne andò contro i veneziani, smanioso di attaccare battaglia. Col vento nelle vele, una squadriglia della flotta veneziana s'era spinta a navigare sulle acque del Po, risalendo dalle foci fin verso Adria: si internavano, minacciavano già le terre estensi, quando si scontrarono con l'ala sinistra dell'esercito ferrarese comandata dal cardinale Ippolito e vennero a battaglia. Era l'ora per il cardinale di sfogare per via legittima gli umori del suo sangue fazioso, e si può pensare se avrebbe perduto l'occasione; si gettò nell'avventura, non da soldato, ma da vero generale, stando al comando, dirigendo gli assalti gli imboscamenti le sorprese secondo le fila di un suo piano strategico afferrato stretto nel pugno e dipanato via via. La battaglia durò una giornata: tra un assalto e l'altro egli mandava notizie a Mantova ed a Ferrara; Isabella ricevette un bigliettino scritto dal campo che dava le notizie dell'ultima fase del combattimento e che inizia così: "Non sarà sera che l'armata dei veneziani sarà del tutto fracassata con l'aiuto di Nostro Signore". In quel "fracassata" si riassume la natura rovinosa del cardinale d'Este. A sera arrivava la notizia della piena vittoria e della cattura di 18 galee, cinque navi minori, 28 pezzi di grossa e 140 di piccola artiglieria, e un bottino nutritissimo di prigionieri d'armi di corazze di bandiere di trofei. Il cardinale offriva tutto al fratello per il trionfo ducale. Sul Po le navi nemiche, preda di guerra, vennero a sfilare sotto le mura di Ferrara, lucenti di cannoni e di bombarde, solcando la terra tra le rive a moto piano ed eguale. Intorno al duca, sulla nave ammiraglia, stavano ottanta Pardie d'onore con elmi dorati che chiamavano i lampi del sole d'autunno: le insegne del Gonfaloniere della Chiesa, le aquile di casa d'Este, gli stendardi dei capitani vittoriosi, le bandiere tolte ai nemici empivano l'aria di un fervore cromatico

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a significare per colori i particolari della vittoria. Trombe, pifferi, mortaretti e cannoni si rispondevano l'uno con l'altro strepitando e festeggiando; e Alfonso passava sotto le mura della città gremite di cittadini, sulla galea "Marcella" magnificamente vestito, ornato di gioie, rispondendo calmo e cordiale al saluto dei sudditi, mentre dietro di lui il cardinale, lasciata l'armatura e ripresa la semplice porpora, impietriva d'orgoglio: non solo quella vittoria era sua, egli, Ippolito, era riuscito a scrollarsene di dosso perfino a compiacenza, e si distaccava dal trionfo, dominando tutto, la folla, il paese, il fratello stesso. In quella sua solitudine il gran superbo stava, disumanamente pago.

Lucrezia, vestita d'oro, si godeva almeno questa gloria coniugale di appartenere di diritto al trionfatore: e gli andò incontro a capo di un esercito di gentildonne stipate in venti carrette sontuosissime, felici di essere belle e giovani e di poter partecipare alle esuberanti licenze che si sarebbero presi i guerrieri in riposo. Sceso dalla nave, Alfonso fece alla moglie gli inchini che ci volevano, e, scambiati complimenti con lei e con le sue donne, montò a cavallo, tra le acclamazioni del popolo, seguito dalla corte per rientrare in Castello. A Roma, però, Giulio II stava riflettendo. Conosceva le ambizioni del re di Francia, e aveva capito che mettersi in casa un nemico come Luigi XII, permettendogli di stabilire una supremazia francese sull'Italia settentrionale, era tale errore da poter significare l'asservimento dell'intera penisola, compresi gli stati pontifici. Bisognava che ci fosse un argine contro il pericolo, argine che solo Venezia avrebbe potuto reggere. Decise dunque la pace: e la Serenissima ci stette subito, consegnando le fortezze di Romagna, permettendo la libera circolazione in quell'Adriatico che considerava di proprio dominio, e accordando al clero veneto l'esenzione dalle tasse. E il 24 febbraio 1510, i veneziani potevano venire a Roma a prendersi l'assoluzione dalla scomunica in San Pietro. Dopo di che il Papa comandò agli alleati della lega di Cambrai che deponessero le armi perché la guerra era finita. A questo punto accadde il colpo di scena ferrarese. Il duca Alfonso, inebriato dalle sue fortune militari, per voler ad ogni modo ritentare la conquista delle terre perdute da suo padre nel 1484, e soprattutto per le suggestioni dei francesi, si rifiutò di cessare la guerra e fece sapere che sarebbe andato avanti contro i veneziani senza ascoltare né ambasciate né ordini pontifici. Per uno che aveva portato fino a quel momento i colori del Papa si poteva chiamare una rivolta. Gonfaloniere della Chiesa? Feudatario papale? Ora si che Giulio II poteva mostrare apertamente non solo la propria ostilità contro gli Este dei quali non gli quadravano né i caratteri né le imprese, ma anche le ragioni che aveva messe insieme e che teneva da parte contro di loro. Quel ribelle lì, il duca di Ferrara, era lo stesso che faceva seppellire vivi nel fondo di una torre i suoi due fratelli: che sfruttava le saline di Comacchio affermandole sue per investitura imperiale mentre la Chiesa aveva ragioni di rivendicarle proprie; che si prendeva l'arbitrio di giudicare affari ecclesiastici

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senza tenere conto della corte di Roma. Il colpo di testa estense indignava il pontefice ma probabilmente non gli dispiaceva a fondo giacché gli dava il pretesto di muovere quella guerra contro Ferrara che in Vaticano s'era già preveduta da tempo. Gli Este, come i Baglioni e i Bentivoglio, parevano destinati a perdere il loro dominio secolare. Cacciandoli da Ferrara, Giulio II avrebbe rimesso in piedi il gran dominio temporale della Chiesa.

Un'altra scomunica, in forma solennissima, attraversò l'Italia e arrivò a colpire la città ribelle; e subito il Papa, alleato con i veneziani, mise insieme esercito ed artiglierie sapendo benissimo che, dato il valore di Alfonso. lo spirito guerriero della nobiltà e la fedeltà del popolo ferrarese, si sarebbe avuta questa volta una guerra dura; e i francesi, alleati dichiarati di Ferrara, avrebbero pensato ad inasprirla. Giulio II era conscio come lo erano i veneziani. di quanto lavorio francese ci fosse sotto la ribellione del duca d'Este: in un certo senso si poteva dire che questa ribellione era la risposta indiretta che Luigi XII dava al Papa per continuare nell'Italia settentrionale proprio quella guerra di supremazia che Giulio II avrebbe voluto evitare: "Questi francesi mi hanno levato la voglia di mangiare e di dormire" diceva il pontefice ai suoi familiari, "ma spero con l'aiuto di Dio di cacciarli del tutto da questo paese".

Era un discorso che concordava punto per punto con quello che il doge di Venezia faceva a Francesco Gonzaga prima di liberarlo, persuadendolo ad allearsi col pontefice e con la Repubblica: "Bisogna distruggere tutti questi francesi; ripeteremo i vespri siciliani e sarà la completa mantovana". Da nemici, per uno di quei rivolgimenti così agevoli in politica, il Papa e Venezia erano diventati alleati, e si era sciolta così per forza di cose la questione della prigionia del marchese di Mantova. Il Gonzaga sarebbe uscito dalla Torresella non solo pacificato con i suoi carcerieri, ma anche destinato a diventare presto capitano delle truppe veneziane e gonfaloniere della Chiesa: prima di prendere la via del ritorno, avrebbe dovuto però consegnare ai nuovi alleati, a garanzia della sua fedeltà, il figlio Federico in ostaggio. I veneziani non dimenticavano che la marchesa di Mantova era un'estense, e di quel peso. Francesco Gonzaga si sentiva così sicuro dei suoi propositi che aveva acconsentito, ordinando alla moglie di mandare il bambino a Venezia: ma Isabella stava dura a rifiutare con i suoi soliti e sempre nuovi pretesti, valendosi soprattutto dell'affermazione detta o sottintesa, "Io sono una madre", di fronte alla quale gli uomini più intelligenti sono costretti a perdere la parola. Era intervenuto allora Giulio II ad offrire di prendere lui a Roma il piccolo Gonzaga e di tenerlo in Vaticano con la compagnia che gli avesse scelto la madre, e sotto la sorveglianza diretta dei duchi d'Urbino e cioè Francesco Maria della Rovere e la sua giovanissima sposa, la bella Eleonora figlia primogenita dei marchesi di Mantova e sorella maggiore di Federico. Isabella negava ancora, tanto che il Papa, infuriato, uscì un giorno a dire con

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l'ambasciatore mantovano che era lei, "quella puttana della marchesana" a prolungare la prigionia del marito per soddisfare la propria voglia di comando, e che il marchese aveva ragione di essere furibondo, sentendosi non più prigioniero della Signoria ma di "questa ribalda". Da parte sua, Francesco scriveva alla sua ribalda, che se non avesse mandato subito Federico a Roma, l'avrebbe strozzata con le proprie mani, lasciando fredda Isabella che conosceva benisimo il valore delle fumanti collere del marito. Dopo aver temporeggiato quanto più poteva, mosso e scosso mezzo mondo, Isabella finalmente aveva vinto la sua azzardosa battaglia diplomatica e a Francesco non restò che ringraziarla. Il marchese tornava a Mantova libero, senza avere, per il momento, sottoscritto impegni militari con la Serenissima che avrebbero provocato l'occupazione immediata del mantovano da parte dei francesi e degli imperiali. Ora però Federico doveva partire per Roma, ostaggio del Papa. Nella Roma intellettuale ed umanistica fu subito di moda commuoversi ed intenerirsi per il figlio di quella madre. tutti ammiravano, così svelto ed elegante, con quel visetto ovato e quegli occhi scuri nei quali brillava la scintilla degli occhi materni addolcita dalla novità della fanciullezza; nel parlare e nell'atteggiarsi da piccolo arcangelo, Federico Gonzaga rapiva gli occhi e l'anima di quegli innamorati della forma bella. Rapì perfino Raffaello che doveva ritrarre il fanciullo due volte, nelle "Stanze" e precisamente nella Scuola d'Atene e in un ritrattino,. Al Papa che di solito era tanto burbero con i suoi parenti da gridare al nipote per certi consigli che questi aveva creduto di potergli suggerire se proprio "la voleva fare alla valentinesca", e dal rimandare al cucito la figlia Felice, la quale non era affatto una donna da cucito bastava che annunciassero, e sia pure in un momento di furie, la visita dal suo ostaggio, perché gli albeggiasse in volto un sorriso. "Ben venga il signore Federico bello" era il saluto del pontefice al fanciullo. Lucrezia stava tra i sospiri: la scomunica papale la innervosiva, la faceva sentire maledetta, le toglieva persino la certezza di essere nella religione. Non giudicava apertamente gli Este, non se lo sarebbe mai permesso, ma dentro di sé doveva certo definire sconsigliata quell'impresa che si trascinava via la pace della sua coscienza così minuziosamente cattolica e scrupolosa, insieme con la pace dello stato. Per sua fortuna, dalla parte nemica, e meglio disposto che mai, stava il suo cavaliere, il devoto e tenero marchese di Mantova non dimentico della sua consolatrice. Lei gli aveva mandato, subito dopo la liberazione, una calda letterina di bentornato e subito aveva fatto ricominciare al conte Lorenzo i suoi viaggi da una riva all'altra del Po. Ciò che le aveva risposto il marchese doveva essere molto promettente, se ella non si stancava di farselo ripetere dall'intermediario: lo ascoltava, cercava di calare in quelle parole l'accento della voce lontana; e piegando il capo su di una spalla: "Lorenzo" diceva "se non fosse la speranza che ho nel Signor Marchese che ad ogni mio bisogno mi aiuti e mi prenda in protezione, creperei di dolore". Questa confessione dimostrava bene il suo sgomento della politica estense e il limitato credito che ella dava alle

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artiglierie di Alfonso e alle audacie del cardinale. Alfonso, del resto, non doveva perdere tempo a convincerla d'essere sotto buona difesa, se lo smarrimento di lei alla prima avanzata pontificia nel modenese fu tale, da farla pensare ad una fuga: s'imballarono in fretta argenterie, tappezzerie, oggetti preziosi per scampare verso il nord sotto la protezione francese; se non che il popolo ferrarese, saputo di questi preparativi, aveva mandato a dire in corte che se la moglie e i figli del duca fossero partiti, ogni cittadino avrebbe fatto ciò che gli tornava più utile. Lucrezia, dunque, rimase; e riaperti i bauli, srotolati i tappeti, e riattaccata la gabbia del pappagallo, si affidava alla protezione divina e alla protezione umanissima del suo cavaliere mantovano. Ippolito d'Este, intanto, costretto a lasciare Ferrara per evitare censure ecclesiastiche, aveva, prima di partire, riunito nobili e cittadini e fatto loro un discorsone: la naturale eloquenza irrobustita dalla passione di stato gli fece trovare il tono esatto, forte e corroborante: né una parola fra le tante pronunciate sulla salvezza dello stato suonò come un attacco contro il capo della Chiesa, la guerra essendovi contemplata come una necessità fatale ed impersonale, piuttosto che come urto di volontà fra capo e capo. Infiammati e ammirati, i ferraresi giurarono di farsi seppellire sotto le rovine delle loro case, piuttosto che cedere e veder distrutta la dinastia estense: "Questo cardinale vale un mondo" dicevano, uscendo da quel vigoroso consiglio cittadino, anche gli anziani che avevano così mal pronosticato qualche anno prima sulle qualità di Ippolito. E un mondo, era sottinteso, valeva anche Alfonso, che, studiando piani di difesa, rafforzando mura e torrioni, migliorando le leghe e la forma dei suoi cannoni, stava, operoso e taciturno, ad aspettare l'arrivo degli alleati francesi.

Fu un colpo duro per lui sapere che Francesco Gonzaga aveva accettato la doppia nomina di Gonfaloniere della Chiesa e di Capitano Generale dell'esercito dei veneziani, diventando di fatto il capo dei nemici di Ferrara. Il giovane duca aveva forse troppo fidato sull'abilità della sorella perché Mantova tenesse una specie di neutralità nel conflitto. Ma come poteva il marchese dire di no ai suoi alleati e liberatori, che, per di più, avevano il suo figlio primogenito in ostaggio? Tra l'altro, l'amore tra i Gonzaga e gli Este non era mai stato di lega così schietta da dovergli ora sacrificare la gloria e l'onore di quella nomina: non solo; ma alle ragioni di convenienza se ne aggiungevano altre, oscure e gravissime. In quell'autunno 1510, era stato fatto prigioniero dai pontifici, e condotto a Bologna, quel Masino del Forno, detto il Modenese, impegolato in tutti i fatti tenebrosi di casa d'Este. E perché egli era, a dire di Giulio II, "conscio e ministro dei tradimenti e degli assassinamenti del cardinale di Ferrara", gli era stato intentato un minuzioso processo. Se ricorderemo la presenza del Modenese al tristo accecamento di don Giulio avremo la prova di quando egli fosse stato "conscio": ma "ministro", quando? Probabilmente si alludeva all'accusa che gli era stata fatta di aver assassinato Ercole Strozzi. Fra delitti e

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complicità il Modenese doveva avere l'anima di carbone; ma per quel che riguarda il marchese di Mantova un indizio grave può portarci a rifare qui il nome di Lucrezia. L'arcidiacono di Gabbioneta, intimo del Papa e intimissimo dei Gonzaga, scriveva in quei giorni al marchese di Mantova invitandolo ad andare subito a Bologna, perché Giulio II aveva da parlargli di fatti che lo riguardavano: fatti tremendi, abominevoli, risultati appunto dal processo di Masino del Forno. Non era possibile all'arcidiacono spiegarsi per iscritto anche perché il Papa glielo aveva proibito pena la scomunica, ma poteva avvertirlo fin d'ora che si trattava di "Cose nefande" tramate da Alfonso e da Ippolito d'Este contro di lui. é il momento di ricordare il misterioso cortigiano M. che nel 1508 aveva fatto da agente provocatore andando da Lucrezia a Francesco Gonzaga, cercando di indurre il marchese ad una ingiustificata visita a Ferrara. "M." era Masino del Forno? E la visita, un tranello preparato dagli Este contro il cognato? O si trattava di un'imboscata più recente nella quale anche Lucrezia affamata d'amore e ignara poteva avere avuto la sua parte? Certo subito dopo questa lettera che è del 26 settembre, il Gonzaga andò a Bologna, e il 30 settembre accettava il comando delle truppe unite veneto-papali.

Gli alleati avevano però da fare un conto difficile, e con un'avversaria che non si rimetteva al volere di nessuno: Isabella d'Este.

Per niente entusiasta all'idea di vedere la rovina dei fratelli, indebolimento sicuro anche dello stato di Mantova, e pur sapendo che il marito doveva seguire il cammino per il quale s'era messo, ella si era orientata rapidamente, aveva fatto i suoi calcoli e aveva deciso: sarebbe stata di qua dal Po con i pontifici e i veneziani, ma avrebbe avvisato i fratelli, di là, sulle manovre dell'esercito collegato, cercando di mettere più piombo che poteva negli slanci del marito. Cominciò subito a lasciar passare per il territorio mantovano i francesi che scendevano da Milano in soccorso di Ferrara, dando istruzioni segrete ai comandanti delle fortezze perché mostrassero di aver dovuto cedere alla violenza, e raccomandando ai francesi di fare ai terreni coltivati il minore danno possibile. Ogni giorno, più volte al giorno, i messaggeri passavano il fiume, e per mezzo di un servizio di cavalli organizzato al minuto collegavano in pochissime ore Mantova con Ferrara. Alla sagacità veneziana non erano sfuggiti accordi e maneggi, denunciati gli uni e gli altri al Papa, i lamentava con i suoi; ma ad ascoltarlo c'erano, nemmeno a farlo apposta, i più segretamente devoti alla marchesa di Mantova, come l'arcidiacono di Gabbioneta, i quali facevano di tutto per distogliere i sospetti dalla loro amica. Così Isabella comunicava con i fratelli, faceva arrivare loro soccorsi d'uomini e d'armi, s'incaricava anche di mettere in pegno presso banchieri di sua conoscenza alcuni dei più ricchi gioielli di Lucrezia, fra gli altri il lucidissimo smeraldo che aveva commosso a suo tempo il cuore del Bembo: ed era riuscita a persuadere il marito a fingersi

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tanto malato da non poter muovere all'assalto di Ferrara, facendo perdere tempo all'esercito della lega e dando ai francesi possibilità di arrivare a rinforzare le difese. I veneziani tempestavano; il Papa si credeva molto scaltro dando ordine ad un suo medico di arrivare fino a Mantova per accertarsi della malattia del suo gonfaloniere, senza immaginare che, con dieci ducati passatigli dal tesoriere di Isabella, il medico avrebbe steso e firmato un certificato di invalidità. A metà dicembre, Giulio II dette una spallata, e decise di muoversi da solo, marciando a capo del suo esercito, con i suoi sessantasette anni e la sua gotta, in clima d'inverno, sotto la neve. Fatti gli ultimi preparativi, passò in rivista le truppe fra cardinali e vescovi, avendo con sé Bramante d'Urbino il grande maestro architetto suo amico, con il quale la sera, dopo avere studiato e discusso piani di guerra, si ricreava alla lettura e al commento della Divina Commedia. Dante era fatto per la statura eroica di Giulio II: a seguire il poeta nelle aspre peregrinazioni dell'Inferno, e in quelle ardue del Purgatorio e del Paradiso, egli risaliva nella sua vera atmosfera, si liberava dalle angustie terrene, spaziava in un regno severo e glorioso dove anche i dannati erano grandi. Giulio II non amava la guerra per la guerra, ma la guerra come condizione necessaria al riordinamento civile di uno stato secondo una ragione ferrea e giusta. Progetti e piani più erano vasti e più gli piacevano; come gli piacque, proprio mentre era impegnato nella lotta contro Ferrara, il progetto di Giacomo IV di Scozia, di una nuova crociata, frutto dell'alleanza di tutta Europa, che muovesse alla liberazione dell'Oriente. Il pontefice era così poco sanguinario che, con tutta la sua antipatia per gli Este, nel gennaio aveva fatto loro proposte di pace, lasciando Ferrara ad Alfonso e tenendo per sé Modena e il modenese or ora conquistati; ma Alfonso, e soprattutto i francesi suoi alleati ebbero il torto di credere che queste proposte provenissero da paura e rifiutarono. Il Papa rispose prendendo egli stesso il comando delle sue truppe e portando l'assedio sotto una delle più importanti e meglio difese fortezze nemiche: la Mirandola. L'assedio della Mirandola è una famosa pagina di arte bellica, sia per l'ostinata difesa degli assediati sia per l'attacco altrettanto ostinato e paziente e implacabile degli assedianti. La conquista da parte dei pontifici, sotto un tempo nevoso e ventoso, fu epica, e il Papa che l'aveva guidata senza ricordarsi dei suoi anni e dei suoi mali, volle entrare egli stesso nella fortezza issandosi su per una scaletta di guerra prima ancora che si aprissero le porte. Ma la Mirandola era una posizione troppo avanzata e lasciava il fianco dell'esercito pontificio esposto ad un pericolo troppo scoperto per non offrire ai consiglieri di Giulio II il pretesto di dissuadere il loro animoso condottiero dal rimanervi. Lasciato dunque un grosso presidio nella fortezza, e sfuggendo per miracolo ad una imboscata ferrarese che avrebbe potuto farlo cadere prigioniero con quale rovina dei suoi piani è facile immaginare, il Papa tornò a Bologna, e di lì nelle terre di Romagna, nell'antico quartier generale di Cesare Borgia, a Imola; affidando il governo delle cose bolognesi nelle mani del cardinale Alidosi, giovane tanto bello e

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vizioso, quanto torbido ed incapace. Ai primi rumori d'armi e di sommossa, fugge infatti il cardinale a Castel del Rio e poi a Ravenna, dove il nipote del Papa, Francesco Maria della Rovere, lo stende morto al grido di "traditore". E intanto tra le mura di Bologna, rimasta senza capi e confusamente presidiata, si propagava un movimento di rivolta, colto al punto dai Bentivoglio, che piombarono improvvisi sulla città, sgretolarono la poca difesa e tra i canti e gli osanna del popolo che nell'entusiasmo abbatteva la statua di Giulio II, il gran bronzo di Michelangelo, ripresero la signoria della città, sperando di tenerla per sempre. Né bastava: in Francia, Luigi XII s'era fitta in capo l'idea, quanto mai pericolosa, di volere un nuovo Papa, magari francese, e tentava di assalire il pontefice anche con armi spirituali contestandogli la legittimità dell'elezione al papato e la dignità della vita sacerdotale. Aveva fatto ricercare per tutta Italia, perché servissero da prove d'accusa in un futuro processo d'immoralità contro il capo della Chiesa, donne che avessero avuto con lui relazioni intime, e se ne erano trovate tre; ma la notizia, se poteva commuovere qualche monaco austero, era senza portata così in Italia come fuori d'Italia. Più importante, era stato indetto un concilio di cardinali scismatici, a Pisa, per discutere le accuse e per deporre il Papa, e nelle cattedrali italiane comparivano affisse le bolle di convocazione firmate dai cardinali Brionnet, Sanseverino, Francesco Borgia, Ippolito d'Este e Carvajal; ma Giulio II aveva troppo ingegno per non saper parare subito il colpo, e troppa scienza delle cose ecclesiastiche per non saper rispondere, attaccando la bolla nei suoi numerosi punti deboli, e spiegando tale sfolgorata maestà che, quando il gruppo dei pochi e mal convinti accusatori si radunò a Pisa, si capì che lo scisma non avrebbe avuto seguito. Per le strade i ragazzi pisani fischiavano coloro che avevano presunto di deporre il pontefice; e quel pontefice. Ad un passo dalla rovina intravista alla caduta della Mirandola, Ferrara si era ripresa; e, allontanatosi sempre più il terrore, era tornata gagliarda a vivere. "E così Marte e Venere sono da noi venerati come i pianeti che dominano ora il mondo" concludeva il savissimo Bernardino de Prosperi. Arrivavano i francesi: i soldati erano gente di ventura che non andavano troppo per il sottile nel voler rubare ragazze e fare disordini: ma tra i loro capitani v'era il meglio della nobiltà guerriera di Francia, uomini spericolati e galanti, ancora vivi delle leggende medievali di cavalleria e delle tradizioni di corti d'amore, pronti a passare dalla battaglia alla danza con quel fare arioso che pare leggerezza e che è invece spirito d'avventura. Ai civili costumi italiani, che dovevano qualche anno più tardi essere rappresentati nei capitoli del Cortegiano di Baldesar Castiglione, allo splendore umanistico dorato ed ornato della corte, dove l'estrema libertà era temperata da un gusto filtrato attraverso vividi motivi di cultura, i francesi aggiungevano il fuoco, il brio, la felice prestanza dei loro temperamenti al vivere cortese. Balli e feste dava la Liceità, ed era obbligo risponderle altrettanto giocondamente. Tornati i Bentivoglio a Bologna, le feste infittirono, traboccarono dalla corte e dai palazzi, divennero di popolo: i

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cittadini vestiti a nuovo e le donne con i fiori tra i capelli uscirono per le larghe vie, mossero verso il palazzo ducale agitando i maggi, le allegre fronde primaverili: sotto il balcone di Lucrezia si muovevano così fiori e foglie portati dalla campagna tra le mura di città, una campagna che invadeva l'aria venendo dalle ordinate prospettive di qua e di là della piazza tra i canti e le grida di giubilo. Ai costumi borghesi degli artigiani e dei cittadini si avvicendavano i vestiti colorati e le armi dei soldati ferraresi e di quelli d'oltralpe ricordando la guerra immanente, scusa alle donne per sorridere ai difensori vibrando di mille paure.

Ora, anche la duchessa dimostra di giorno in giorno più di valere per la sua persona; e Alfonso lo capisce tanto bene, che la tiene sgombra da preoccupazioni e da impedimenti di nuove maternità. Gli Este sanno che Lucrezia corrisponde col marchese di Mantova, ma giudicano questo il momento di incoraggiarla e di proteggerla, di servirsi anche di questa catena per tener fermo il Gonzaga. Nessun pericolo che i due si possano raggiungere: sia dunque spedito il passo a Lorenzo Strozzi, vada e torni a suo piacere portando ambasciate e lettere.

Francesco Gonzaga ha un ritorno di inebriata tenerezza per la sua duchessa; ora è lei a considerarsi prigioniera stretta nella sua città dall'accerchiamento dei veneto-pontifici, lei che gli domanda con quegli accenti di proteggerla, e che gli crede con quella cecità arresa e sottomessa. I consigli della moglie, sia pure: Francesco li segue, perché li considera quali sono, ottimi; ma l'esclusione di ogni calore avventuroso nel seguire un piano già fatto mortifica in lui l'impeto del buon soldato al quale l'assalto e la conquista accendono sensualmente il sangue. Nel fondo di questa mortificazione, Isabella non lo sospetta, si vanno maturando i rancori che poi, a guerra finita, porteranno il marito ad escludere la moglie da ogni partecipazione di governo, umiliando la sua altera natura politica. Ma per tanto prosegue il suo romanzo con Lucrezia per vie esaltanti e piane: eccolo inviare alla duchessa, per mezzo di maestro Venanzio cancelliere, cedri limoni e bei frutti del lago di Garda; e, venuta la quaresima, farle chiedere delicatamente se usa mangiare di magro per. mandarle i gustosi carpioni del mantovano. La prega e riprega di scrivergli qualche riga di sua mano per sentirsi consolato alla vista di quegli amati segni; e il conte Lorenzo porta l'ambasciata di galoppo. I due innamorati usano ancora il parlar figurato e simbolico: "falcone" e "falconiere" tornano nelle loro lettere e nei riferimenti dell'intermediario. Lucrezia fa avvertire il Gonzaga che gli scriverà di sua mano, appena egli le chiederà la lettera con una propria, autografa. Allora nulla gli si potrà negare: "So bene quel che vi dico" aggiunge il conte Lorenzo sempre impacciato quando vuole strizzare l'occhio al suo corrispondente. Il Gonzaga, in ozio forzato, si divertiva a comporre per la sua duchessa la letterina più tenera del mondo. E lei attende un poco prima

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di rispondergli, sente qualche ambiguo rimorso, e, avvicinandosi le feste di Pasqua, quando va a rinchiudersi in convento, forse ha con sé il caro foglietto, certo ne porta il ricordo vivo. Lucrezia va sempre al Corpus Domini: anche se dal 1510 ha un monastero suo, fondato protetto privilegiato e beneficato da lei: dentro vi ha messo le suore che le piacciono, e solo quelle, i visi che ama veder sorridere al suo sorriso o accorarsi al suo accoramento. Questa sua casa del riposo inviolabile, che appena un orto divide dalla chiesa del Corpus Domini, è un palazzetto trecentesco, di una signorilità misurata e schiva, casa Romei; proprio là, presso le mura di quell'edificio era stato trovato il cadavere di Ercole Strozzi nel giugno del 1508. C'è in questa scelta un significato di inconscia espiazione, di tributo, o comunque di rimembranza? La casa aveva conservato le sue forme familiari; solo, nel bel cortile che si apre di fronte all'entrata, risplendeva adesso la rosa fiammata, emblema di San Bernardino al quale il convento era dedicato. Per badessa Lucrezia vi aveva posto suor Laura Boiardo; e vi aveva fatto entrare fra le prime novizie quella Lucrezia Borgia figlia naturale del Valentino venuta da Roma nel 1507. Qui, tra i due cortili soleggiati dove parevano impossibili le parole di guerra, appena passata la Pasqua e le funzioni sacre, nell'aprile 1511, Lucrezia scriveva al suo Gonzaga.

Si scusa di non avergli risposto prima: ma egli capirà certo il suo scrupolo, di non volere "disturbare la Signoria Vostra in questi giorni santi". Come avrebbe potuto, mentre faceva penitenza, nominare il "falcone"? Francesco stia tranquillo, il "falcone" sta benissimo ed è anzi migliorato assai, "e spesso è esaminato da qualcuno che non è il confessore". Questo, Lucrezia si affretta a soggiungere per acquietare la propria coscienza, questo sia detto "senza offesa di Dio né danno del prossimo", "perché desidero quanto la salute propria che V. S. sia tutto rinnovato nel timor di Dio e come buon figliolo di san Francesco come faccio io benché indegna". Una pausa: e Lucrezia con un grazioso salto d'umorismo sorride della predica e se ne scusa incolpando suor Laura e suor Eufrosina le quali vogliono che "a dispetto del mondo [io] diventi predicatore e martire". E infine viene il rimprovero lieve, intenerito, per quei "troppo umani termini" che Francesco ha usato scrivendole, e che le dolgono: troppo amorosi terrestremente per lei che lo ama, sì, ma come "signore e fratello". L'andare di convento di sole e d'orto che un filo d'incenso assicurando le intenzioni di chi scrive, danno a questa letterina una castità dubitosa, ma stimolante: quel rifiutarsi all'amore era un modo di parlare d'amore e di lasciar capire che, sì, aveva compreso, e che alle allusioni del loro passato rispondeva consentendo. Né al Gonzaga doveva dispiacere. ora che anch'egli stava avviandosi per una strada di devozioni, un amore così che si sarebbe aiutato a restare vivo nella vecchiaia con la religione e le cose pie. E poi, quale sapienza rivelavano quelle righe nelle quali anche la civetteria palpitava a cenni, come timorosa di osare. A pensarla così, la sua duchessa, eternamente giovane, Francesco si sentiva

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rivalere nelle sue qualità di maschio, fisicamente e spiritualmente: e il fatto di saperla in pericolo, e di esagerarsi il pericolo, lo esaltava meglio, tanto più che proprio in quel tempo gli si faceva certezza la speranza di poterla avere un giorno tutta per sé, a Mantova. Francesco Gonzaga era sicuro, e qui aveva ragione, che nonostante gli ostacoli, le complicità e le astuzie di parte avversa, Ferrara sarebbe caduta in mano al Papa, se Giulio II avesse insistito, come avrebbe insistito, nella guerra: e procedendo in questa sicurezza, e anticipando gli avvenimenti, pensava già alla spartizione del bottino e a chiedere per sé al Papa l'arbitrio sulla moglie del duca, su Lucrezia.

Richiesta incredibile anzi inimmaginabile, eppure reale; la leggiamo nei suoi chiarissimi termini, in una lettera di Francesco Gonzaga datata 21 gennaio 1511. Dopo aver assicurato il Papa che, se Alfonso d'Este fosse mai capitato nel mantovano, sarebbe stato preso e consegnato senza indugio, il marchese aggiunge d'implorare poi che si usi somma clemenza "alla S.ra duchessa già di Ferrara [il Papa aveva dichiarato decaduto il titolo di Alfonso d'Este e donarci a noi la sua salvezza, e questo perché i termini amorevoli e fedeli che lei sola ci usò al tempo che eravamo prigionieri a Venezia di tanti parenti che avevamo, ci obbligano a questi tempi mostrarle gratitudine, perché, se la provvidenza de Sua S.tà non ci aiutava, non ci restava chi pur dimostrasse averci compassione tanta quanta questa poverella". Si sente la commozione specie in quel "poverella" così sollecito e grato. Il Papa doveva aver promesso la duchessa, o quasi, se Francesco cominciò a far preparare per lei un appartamento nel palazzo presso la chiesa di San Sebastiano verso i prati del Tè, curando la scelta delle pitture delle tappezzerie dei mobili e scrivendole di questi preparativi.

Probabilmente, perché non si spaventasse, non le avrà detto per quale occasione glielo destinava, e si sarà contentato di farle il racconto di ciò che ella avrebbe trovato a Mantova venendovi in una futura visita: una casa fatta per lei, il "nido", avrà sottinteso nel linguaggio lezioso degli amanti. "Speriamo di goderlo insieme dopo tanti giorni di tribolazioni" aveva risposto Lucrezia ringraziando, grata e inquieta. Era proprio quel che pensava il marchese di Mantova che già vedeva vicino a sé l'amica, sotto il cielo dei soffitti dipinti, in lunghe conversazioni, chino, lui, il salvatore, verso la salvata dalla fuga e dalla rovina: parte di bottino, in lacrime calde, eccitante preda di guerra. Come la vita si compiva e come tutto valeva nella fantasia. In quella primavera calorosa e sonante del 1511, lontani gli echi delle battaglie, Francesco Gonzaga passava le sue ore migliori a guardare pittori e decoratori che ritoccavano d'oro i cornicioni, o pennellavano fregi sulle pareti; e quando i tappezzieri gli spiegavano sotto gli occhi i broccati multicolori, al lampo tenero e capzioso del colore preferito di Lucrezia, morello, poteva risentirsi in mente come un'illuminazione un verso

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cavalleresco di Niccolò da Correggio; e chi veste morel secreto sia che pareva fatto apposta per significare a lui e a Lucrezia il senso di quel colore e il senso stesso della loro amicizia. Allora, Francesco arrivava per suo conto a scoprire che nessuna gioia eguaglia quella del segreto, e più esso punge, preme, dilania, e meglio dà, così risentito, l'amore della vita. Era per lui un momento pieno: e di là dal Po, Lucrezia teneva il filo del loro oscuro e fresco labirinto, sperando però meno rovinosamente di quanto sperava a Mantova il marchese. Passò l'estate: e, in un momento che il fervore di guerra calava per una malattia di Giulio II tanto grave da far parlare in Italia e fuori di conclave prossimo, ella rifaceva la strada di Reggio dove avrebbe preso un'acqua medicinale ottima per la sua salute; era forse un'acqua allegorica: certo ella sperava di vedersi arrivare da Borgoforte il cognato. Reggio, o la speranza: starvi, in quella campagna piana che respira con la pace agricola una piena e fluente sensualità, poteva significare per Lucrezia essere sul punto di partire da un momento all'altro per un'avventura colorata del sentimento. Lei poteva dirsi, si diceva magari, di non sperare nulla; ma c'era sempre modo di trasalire e smorire se qualcuno bussava ad ora inconsueta alla porta, e si poteva immaginare chi fosse, uno che veniva cavalcando dal nord, pronto al più ridente saluto. Per queste godute e rigodute visioni, Lucrezia amava Reggio: tanto l'amava che il 4 ottobre 1511, benché l'epidemia annuale fosse cesSata a Ferrara da un pezzo, ella mandava il suo gentiluomo di camera Pietro Giorgio da Lampugnano ad un indirizzo altra volta caro, ad Ostellato, con questa ambasciata per il duca Alfonso che vi stava a caccia: ella avrebbe voluto restare a Reggio una settimana e forse un mese, e magari tutta l'invernata; e chiedeva il permesso di farsi venire i bambini Ercole ed Ippolito (quest'ultimo era nato durante il 1509) presso di lei. Ma "li figlioli restarono che così volle il signore", scriveva il Prosperi. A Roma, il Papa si era riavuto, la guerra sarebbe presto ricominciata, né conveniva che i piccoli maschi estensi stessero fuori dalle riparate mura del castello. Così Lucrezia tornò a Ferrara; trovò tempo fervido, gente nuova in giro; correva la parola d'ordine dell'allegrezza. Anche Lucrezia, ben riposata e bene in salute, a questa parola rialza il capo: con i suoi parrucchieri, maestro Gerardo e maestro Bartolomeo, inventa le fogge "non viste mai" che rivelano come il suo gusto si sia sviluppato sui temi d'eleganza proposti da Ercole Strozzi: con i suoi gentiluomini (di letterati le era rimasto vicino, ora, solo il Tebaldeo) con i suoi musicisti i suoi cantori i suoi danzatori, ella prepara i balli e i cenviti, più grati ai francesi che non le commedie delle quali non riescono ad afferrare bene il dialogo. La vita diventa leggera e facile per tutti, rimessi pensieri e problemi ad un tempo indefinito. Oggi Alfonso assale i pontifici alla Bastia e armato di un solo bastone fa prove di valore da essere paragonato ad Ercole con la clava: tornato a Ferrara si deve radere i capelli per una ferita al capo, e fa parlare la corte forse più della tosatura che non del suo coraggio guerriero; e poiché alcuni cortigiani, per adulazione, sacrificano i loro capelli a somiglianza del duca, accade una piccola

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rivoluzione di corte; le donne non si possono tenere dal ridere a vedere passare, dopo secoli di teste chiomate, la "compagnia dei tosati". Il cardinale d'Este, che dopo un esilio volontario di mesi è tornato a Ferrara, si è fatto crescere la barba, e suscita commenti anche nella corte di Mantovadove Isabella tra un maneggio e l'altro si diverte a motteggiare per iscritto sulla barba del fratello. Ma ha trovato da scherzar male: "Della barba" risponde il superbioso "V. Ex.tia [Isabella] si potrà far mente che io mi governerò come mi moverà il grillo". La rispostaccia non gli impediva però, pochi giorni dopo, di pregare la sorella perché gli fossero ricuperati certi suoi bagagli caduti in mano dei pontifici, specie alcuni flauti "perché sono di tutta eccellenza e assai mi dolerebbe perderli". Acconciature, vestiti, burle, amori, mascherate, flauti, viole, cene all'aperto in giardino, follie di buffoni per esempio del Frittella, osservate da tutto il cortile ducale: non si poteva dire che la vita di corte stagnasse. Passavano, tornando nella Bologna riconquistata, Laura Gonzaga Bentivoglio e Lucrezia d'Este Bentivoglio accolte come regine, in ben altro aspetto da quello di qualche mese prima; e il popolo, applaudendole, cantava una canzoncina d'occasione, ritmata su questo ritornello:

Il Papa se sogna

che volendo Ferrara

perderà Bologna.

I capitani francesi che andavano e venivano di qua e di là dalle Alpi, unendo alle notizie di guerra le descrizioni delle feste estensi, lodavano alto la duchessa, e con i loro racconti facevano tanto incuriosire la regina Anna che questa chiedeva di vedere Lucrezia, e si progettava già a Ferrara il viaggio in Francia, a guerra finita: anzi Isabella che era stata la prima a sapere del progetto, aveva fatto chiedere ad Alfonso se era vero, e quando sarebbero partiti, e con quale seguito lui e la duchessa, eccetera eccetera. Alfonso rispondeva che se ne sarebbe parlato a suo tempo; ma per Ferrara si facevano già i nomi delle dame che avrebbero accompagnato Lucrezia, Cassandra e Mamma da Correggio e qualche altra: fra le antiche donzelle sarebbe andata la modesta Jeronima, moglie del medico Ludovico Bonaciolo, la sola di quelle venute da Roma che era rimasta a corte. Quel viaggio poi non si fece più. Tra i laudatori della duchessa c'era, infiammatissimo, un capitano Fondraglia, e meglio, il gran guerriero Baiardo: l'elogio di Lucrezia scritto dal Loyal Serviteur, elogio che ci riferisce il pensiero del Cavaliere senza macchia e senza paura, è quasi un manifesto:

"Sur toutes personnes, la bonne duchesse qui était une perle de ce monde, leur [ai francesi] fit singulier recueil et tous les jours leur faisait

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banquets et lestins à la mode 'Italie, tant beaux que merveilles. Bien ose dire que, de son temps, ni de beaucoup d'avant, ne s'est point trouvé de plus triompbante princesse, car elle était belle, bonne douce et COurtoise à toutes gens. Elle parlait espagnol grec italien et fran&ais, quelque peu très bon latin, et composait en toutes ces langues: et n'est rien si certain que combien son mari fút sage et kardi prince, ladite dame, par sa bonne gráce, a été cause de lui avoir fait de bons et loyaux services."Una perla di questo mondo... Non è un attestato di virtù ma la testimonianza che Lucrezia era riuscita a trovare il suo modo di regnare attraverso la grazia: così, i francesi la vedevano esercitare una sovranità che andava di là dal suo gesto e dal suo sorriso e che dava a ciascuno la certezza di essere ammesso ad un minuto di corrispondenza intima con lei, singolarmente modulato. Incoraggiata e liberata, raggiante internamente nel pensiero del suo Gonzaga, Lucrezia non sentiva più la fatica ombrosa della vigilanza estense, aveva una sensazione larga di respiro mai provata a Ferrara, e una sensazione ancor più nuova di indipendenza che nemmeno Roma le aveva data. Non poteva non es. sere grata a quei capitani francesi: ed essi, per conto loro, vedevano in lei tanti misteri, da romanzare attivamente con l'immaginazione. Da risolvere, per esempio, il contrasto tra la sua discendenza quasi sacrilega e la sua fronte innocente; e quello fra la sua decifrabile grazia e le nere storie che aveva intorno; e quelle fisico, ma non meno conturbante, fra la sua esilità e la sua chiarezza nordiche e quel languore che le faceva lente e pesanti le palpebre. A corte si parlava di poesia di musica d'amore, si ascoltavano concerti eletti, ci si scambiavano gl'insegnamenti delle danze francesi spagnuole italiane. E tono che Lucrezia dava alla conversazione procedeva dall'indimenticato ammaestramento del Bembo e da quello più recente e più accessibile di Ercole Strozzi; e nessuna corte poteva dare un senso aulico e cavalleresco più di questa dove la duchessa, circondata dalle donne più belle della città, parata degli inimitabili velluti veneziani o fiorentini, con le mani e i capelli allucciolati di gemme, volgeva il discorso in modo da fare le lodi delle virtù di Francesco Gonzaga, il capitano generale dell'esercito avversario. Sì, Lucrezia non aveva resistito a magnificare l'amico suo, a farlo ammirare nelle folte adunate cortigiane, e questo doveva parere ai francesi la metafisica delle regole di cavalleria, il fiore delle costumanze cortesi di Rolando e di Re Artù. In realtà sarebbe stato un discorso di troppo, se non si fosse saputo che il Gonzaga segretamente aiutava Ferrara. Arriva Gastone di Foix, il Gran Scudiero, generalissimo dell'esercito francese: è bello giovane nobile prode innamorato; le donne si ripetono la storia delle sue imprese e delle sue virtù già così chiare, e niente sembra loro esaltante come la visione del giovane generale che scende in campo portando nudo il braccio destro per una promessa d'amore. Egli si ferma a Ferrara, va in castello, prende parte alle feste, poi marcia verso Bologna assediata dai pontifici, assicura la città ai Bentivoglio, ritorna. Per lui Lucrezia ravviva la sua immaginazione, si affida

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alle gemme ai balli ai vestiti alle musiche ai conviti e alle sue dame, ricrea l'atmosfera vigorosa della quale Alessandro VI empiva le sale del Vaticano. La fama della corte d'Este va per tutta Italia. arriva sin nelle file nemiche, dove alcuni spagnoli la Spagna si è ora alleata col Papa, contro i francesi memori della discendenza della duchessa e di quella aragonese di Alfonso, chiedono un salvacondotto per poter venire a Ferrara nei giorni di carnevale. "A far la ninfa?" chiede ironicamente il duca. "Stiano là in quelle ville fangose come marrani cani" è la sua risposta. Al 20 di febbraio 1512, venendo a Ferrara la notizia che i francesi avevano ripresa Brescia ai veneziani, si ringagliardiva il carnevale, e Ippolito per primo dava un banchetto ufficiale in casa Zerbinati: il duca fece una cena splendida tutta di uomini, e la duchessa un convito seguito da ballo. La guerra non faceva perdere ai ferraresi, anzi acuiva in loro le facoltà sensitive, e gli intrighi si succedevano fitti e bizzarri. Tra i nomi delle donne implicate negli scandali, nessuno ricorre tanto spesso quanto quello della Nicola sposa di Bigo Trotti. La "Nicola della duchessa", come la fantasiosa dama era chiamata a Ferrara, la compagna necessaria di Lucrezia, l'amica del Bembo, la favorita delle ore intime, pareva aver perduto l'affetto della sua signora: la ragione non si sa. Probabilmente, quell'amicizia aveva avuto una complicità fisica e sentimentale che, passando gli anni, aveva provocato la divisione degli spiriti: perché, partite tutte e due da uno stesso punto, Lucrezia se ne allontanava volgendosi a forme più spirituali, o, almeno, più interiori;

Nicola, invece, non abdicava in nulla all'aperta vita sensuale dei suoi diciotto anni, anzi proprio per quella via procedeva. é certo però che l'ignoto fatto occasionale che determinò la scissione fra le due donne fu un pretesto, non una mancanza grave della ragazza, perché se Lucrezia o gli Este si fossero lamentati di lei per qualche cosa che li avesse toccati davvero, Nicola, con tutte le sue graziette, sarebbe stata senza dubbio mandata fuori di Ferrara, e ad ogni modo non sarebbe stata, come era, agli alti posti della società elegante ferrarese, accolta familiarmente nella compagnia di Diana d'Este. La vita gaia della senese, alla quale il marito corrispondeva da parte sua benissimo, si palesò in uno scandaletto che eccitò in quel febbraio 1512 l'umorismo dei relatori. La causa fu una piccola cantatrice che un gentiluomo del cardinale, e dei primi, Ludovico o Bigo di Bagno amicissimo del Trotti, aveva per amante e teneva per suo capriccio in una casetta nei pressi della cattedrale. A vedere e rivedere la ragazza, il marito di Nicola se ne incapricciò, e, con proteste doni e giuramenti, la persuase a riceverlo una notte che l'amante titolare, il Bagno, doveva star lontano da lei. Venne la notte, si apriva la porta, il Trotti vola alla conquista; ma avvertito da qualcuno che spiava, mentre i novelli amanti stavano nel pieno del loro ragionare amoroso, ecco il Bagno con una schiera di compagni armati bussare al portoncino: la ragazza si precipita a guardare dagli sportelli, vede brillare le armi, spaurisce, fa rivestire il suo compagno e incalzandolo con la

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sua paura lo fa uscire in farsetto per l'abbaino, sui tetti. Nella notte,, di neve comincia così la fuga dell'amante inseguito: fuga breve, però: perché sul candore della neve l'ombra dell'uomo si profila così nitida che quelli di sotto lo vedono subito e gli mandano dietro gente a prenderlo: il Trotti si sente perduto, si affida alla propria agilità, si lancia, scivola, salta e nella, confusione dello spirito non riesce a percepire il ridere dei compagni che gli gridano dalla strada parole rassicuranti, e che scenda, e che non si arrischi, e che venga a coprirsi se non vuol prendere malanni. Sempre più credendo ad un tranello e cercando scampo, il Trotti fugge da spiritato finché gli staffieri del Bagnorion arrivano ad accerchiarlo e a tenerlo fermo: allora nella disperazione del pericolo che allenta ogni ritegno e mette a vivo la verità e la miseria di un uomo, egli manda al rivale questo stranissimo messaggio: "Dite al Bagno, che ora siamo pari: io ho fatto alla sua donna ciò che lui ha voluto fare alla mia: voglio essergli amico e che egli faccia né più né meno in casa mia di ciò che è solito fare". Di questo passaporto, del quale tra la Nicola e il Bagno si doveva esser fatto a meno da un pezzo, rise tutta Ferrara.

Conveniva nel palazzo di Diana d'Este, cugina del duca Alfonso e moglie del conte Uguccione dei Contrari, sotto il segno della sua discrezione e della sua alterezza, una compagnia, conservatrice (il partito politico, piuttosto d'avanguardia e in ogni modo poco accademica di partito letterario) dell'Ariosto frequentava le riunioni di Diana assai più che quelle del castello" ammaliziata e un po' frondista contro la duchessa, di partito femminile. I ferraresi andavano in amore per questa famiglia, "l'onore del ducato", che sembrava loro continuasse lo splendore e la cordialità dei tempi d'oro di Borso: poteva accadere perfino, tra quelle mura, una cosa che pareva inaudita e cioè che un giovane di famiglia nobilissima e ricchissima, Ercole Bevilacqua, sposasse la più povera e la più oscura delle donne di Diana, figlia di un cameriere, Proprio come nelle favole: la ragione umana poté tanto in Diana, che ella diede il suo consenso e nessuno osò biasimarla sebbene questo matrimonio mettesse di cattivo umore i padri delle ragazze da marito. Qui Nicola regnava: e qui le accadde, durante quella guerra, di aggiungere ai suoi allori amorosi una fronda illustre; perché, fatto prigioniero in battaglia Fabrizio Colonna, uno dei capitani dell'esercito pontificio e capo della prima famiglia patrizia romana, fu condotto a Ferrara e trattato da amico e da ospite, festeggiato e conteso da tutte le dame compresa Lucrezia che dava in suo onore cacce con i falconi e i leopardi, conviti e balli. Alla tavola di Diana d'Este il Colonna vide Nicola, se ne innamorò, benché la sua età non fosse più da pazzie, e, conoscendo a perfezione le regole di un innamoramento cavalleresco, cominciò subito a sfogliare il suo Petrarca e a comporre versetti e capitoli per la sua dama, empiendo Ferrara dei suoi vagheggiamenti. Nicola, contenta dell'innamorato e degli omaggi, accettava tutto di "buon volere". Perché no, insomma? Se perfino da Mantova Isabella d'Este

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chiedeva che le si mandassero le composizioni del Colonna, era un bell'orgoglio per una semplice dama, di quelle che la superba marchesana non guardava nemmeno, potersi tenere per sé le poesie. Valeva quindi la pena di fare un po' di smorfie al gentiluomo romano, gradevolissimo, del resto, con i suoi capelli grigi: e gliene faceva tante di smorfiette, e così spiritose e divertenti, che una volta, venuto il Colonna a COnvito assai di malumore perché aveva saputo che Luigi XII lo reclamava come suo prigioniero in Francia, gli bastò aver vicino la bella senese perché gli passasse la "fastidiosa fangrado,. passavano i giorni in esercizio d'armi, in rappresentazioni simboliche e vagheggiamenti amorosi gareggiando ad adornarsi, a disputare di questioni d'amore e di cavalleria, ad inventare motti, a comporre versi. In attesa delle battaglie nulla pareva agli spagnoli tanto importante quanta sia". Sorrideva ai motti briosi di lei, a quella parlata toscana pura e propria, a quella voce che aveva conservato la nitida cadenza senese; e il sorriso gli era rinnovato se guardava intorno le altre commensali tutte belle, Diana d'Este, la Bagnacavallo, la Montina, la Dall'Ara, e colei che stava ispirando il cuore e i sensi di Ludovico Ariosto, la fiorentina Alessandra Benucci. io piacere alle donne; e, abituati com'erano a prendersi sul serio in tutto, finivano, in buonissima fede, per essere ridicoli. Così si vedeva il marchese di Pescara, marito di Vittoria Colonna, sfoggiare un vestito di velluto lionato con orli d'argento e punte d'argento, istoriato con triplice motto, o, ancora più ricercata, una roba di broccato bianco con fodere e fasce di raso lionato e con un ricamo di penne da scrivere illustrato da una dicitura che significava un amore così grande da non poter essere scritto.

A rendere più saporosa la cronaca di questi amori, si seppe che qualcuno aveva raccontato al Colonna che le ferraresi usavano portare sotto le ampie vesti un paio di calzoncini da paggio e un giubboncello attillato; e subito che fossero in intimità, si levavano la gonna e facevano in farsetto tanti giochi agili e leggiadri che era una meraviglia vederle. Questa faccenda dei calzoncini non era poi tutta da burla. Proprio Lucrezia aveva portato a Ferrara la moda delle saragoglie, cioè le spagnole zaragiielles o catalane zaragiielles, calzoni ampi e foggiati in pieghe all'orientale, che si trovano descritti spesso nel suo guardaroba: erano tagliati in stoffe preziose, e ricamati e gallonati d'oro. Forse li usava soprattutto per cavalcare: e ad ogni modo in Ferrara v'era certamente un partito avverso alle saragoglie se nel 1514 uscì un editto che proibiva severamente alle donne l'uso di questo indumento; alle guardie di città si permetteva di accertarsi de manu se qualcuna non obbediva: con questo patto però, che se la perquisita fosse risultata innocente, l'imprudente censore avrebbe subito il taglio della mano. Poiché Nicola veniva dalla corte di Lucrezia, poteva anche darsi che l'uso dei calzoni non fosse per lei nuovo. E al Colonna, che, come la maggior parte degli uomini del tempo, aveva forse una sensuale ambiguità di gusti, questa storia dei calzoni faceva venire il lustro agli occhi, sicché nella speranza che

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Nicola si decidesse a presentarglisi travestita da paggio, le aveva mandato in dono calzoncini e giubbetti: "bigarati più che si può", era stata l'ordinazione.

Mai come in quell'anno che doveva vedere l'inizio delle dominazioni straniere in Italia, la penisola aveva suonato di feste d'amori e d'avventure. E se a Ferrara convenivano dal nord i francesi, a Napoli arrivavano, alleati del Papa, gli spagnoli. Sbarcati sotto il Vesuvio, accolti con il decoro lussuoso di quella corte di regine e di duchesse le quali conservavano se non il potere almeno la dignità del loro Ma dopo la sosta di Napoli venne l'ora della guerra, e sotto il comando di Raimondo di Cardona Francesco Gonzaga era stato lasciato alla sua malattia nel castello di Mantova mosse l'esercito pontificio-spagnolo, impennacchiato, sfolgorante d'armi bellissime, di saioni ricamati d'oro e d'argento, di gualdrappe tempestate di piastre preziose, pomposo di velluti di broccati di nastri e di piume, ricco di cavalli superbi, arabi per la maggior parte. E da Ferrara veniva verso il sud un esercito assai meno lucente ma strepitoso di artiglierie tra le quali era la bombarda "Giulia", fatta con il bronzo della statua di Giulio II, opera di Michelangelo. Conduceva le artiglierie il duca Alfonso, "Terremoto" come lo chiamavano i suoi; al comando supremo stava Gastone di Foix.

Presso Ravenna, l'11 aprile del 1512 i due eserciti si affrontarono, e cominciò la rovinosa battaglia che dal mattino fino alle quattro del pomeriggio durava senza interrompersi accompagnata e scandita dalle bombarde di Alfonso d'Este, che fecero, in questo scontro, la prima grande prova delle artiglierie. "Era una cosa terribile" scriveva Jacopo Guicciardini al fratello Francesco "ad ogni colpo farsi una strada vuota nelle file nemiche, balzar in alto elmetti con le teste dentro, volar spallacci, mezzi uomini..." se l'esercito franco-ferrarese era valoroso, valorosissimo si mostrò quello spagnolo-pontificio che reggeva gagliarda mente alla prova del fuoco anche se i pennacchi e i vestiti colorati erano facile mira ai bombardieri. La battaglia si svolse con quel calore e quel distaccato senso di ebrietà per il quale i combattenti sembrano vivere in una sospensione della vita, mossi da una forza primitiva, in quel clima di euforia guerresca nel quale muoiono, inutilmente sacrificati, i più forti. Così cadde Gastone di Foix il giovane guerriero, primo fra i diecimila morti di quella sanguinante giornata; la sera dell'11 aprile gli spagnoli erano battuti e Ravenna conosceva gli orrori del saccheggio: tutte le ricchezze dell'esercito pontificio, argenteria, cavalli, armi, mirabili gioielli, trecentomila ducati di preda, cadevano in mano dei superstiti francesi; superstiti, perché le loro file erano state decimate, e sarebbe venuto presto il momento che l'Ariosto avrebbe sentito i lamenti che in veste bruna e lagrimosa guancia le vedovelle fan per tutta Francia.

Preceduto da diciotto bandiere tolte al nemico, sotto un baldacchino trionfale, Gastone di Foix, morto, entrava a Ravenna il 12 aprile in un

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funerale eroico che fu la sua sontuosa e cavalleresca apoteosi. Ma la sua morte fu l'inizio della disgrazia francese: il nuovo generalissimo, monsignor de la Palice, divise i partiti, non riuscì a farsi riconoscere la suprema autorità e fece dire intorno che non interpretava giusto la volontà del re. Tra i francesi e i lanzichenecchi mandati da Massimiliano ad aiutare Alfonso d'Este, le discordie erano continue; e mentre a Roma si tremava e si era incerti perfino della morte di Gastone di Foix, tanto i servizi d'informazione erano contraddittori e confusi, e Giulio II allestiva la difesa di Castel Sant'Angelo, già gli svizzeri al comando del cardinale Schinner scendevano dalle Alpi in difesa del Papa, e già la compagine francese si sgretolava. Tutta Italia s'andava levando contro i francesi: Genova per prima, poi Rimini, poi Ravenna stessa si resero libere; svizzeri e spagnoli e quanti alleati italiani poterono improvvisare aiuti, si unirono, conquistarono rapidamente Parma Piacenza Pavia, la stessa Asti, patrimonio ereditario della corona di Francia. Erano appena passati due mesi dalla vittoria di Ravenna quando i francesi ripassavano le Alpi lasciando un presidio a Milano e la memoria delle loro imprese. Giulio II che tutto aveva sostenuto e guidato, tutto ammirato senza riposo, viveva in un sole di trionfo. A Roma il popolo, che aveva tremato alla disfatta di Ravenna, correva le strade inneggiando: "Giulio! Giulio!".

Per Ferrara si annunciavano tempi di bufera. Alfonso con i suoi cannoni, con molti illustri prigionieri e gran parte del suo esercito, che per essere stato alle artiglierie aveva avuto minori perdite, era tornato fra le sue mura appena si era accorto di restare solo. Si mise zitto più che poteva, per non irritare il Papa, ad aspettare: ma venne il momento che questo contegno fu insufficiente, e si dovette risolvere qualche cosa prima che il pontefice prendesse lui un'iniziativa che in quel momento avrebbe potuto significare la rovina. Vagliati i progetti, si trovò che il migliore espediente era indossare il saio dei pentiti: il duca sarebbe andato dunque a Roma in persona a chiedere perdono e a fare atto di sottomissione. Isabella d'Este si incaricò di chiedere al pontefice un ampio salvacondotto per il fratello, e si prese la soddisfazione di arrivare lei stessa a portarlo a Ferrara, salutata come salvatrice da tutta la città.

Il 24 giugno 1512, dopo aver liberato i prigionieri e lasciato lo stato a Lucrezia e al cardinale, il duca di Ferrara cavalcava verso Roma in compagnia di Fabrizio Colonna che, contento di ritornarsene a casa, sospirava tuttavia i successi amori ferraresi. Passarono per Rimini, evitando Ravenna dove le donne romagnole avevano preparato di che lapidare il duca per vendicare il saccheggio da lui ordinato nell'aprile, e per la via Flaminia discesero verso Roma dove arrivarono i primi di luglio. Alfonso alloggiò nel palazzo di Sigismondo Gonzaga: e gli venne incontro a salutarlo il niPote Federico, l'ostaggio gonzaghesco, portando un'ambasciata molto rassicurante da parte di Giulio II. Gli inizi parevano buoni; ma nella stessa notte i Colonna, gente

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che la sapeva lunga sugli sviluppi delle faccende vaticane, e grati ad Alfonso per l'amicizia dimostrata al loro capo durante la prigionia, fecero entrare a Roma cinquecento fanti armati: con questa riserva, il 9 di luglio, Alfonso, vestito da Penitente, venne in concistoro a presentarsi al Papa. AvVenne una di quelle scene di perdonanza che, fatte in nome di una potenza divina, non toccano l'orgoglio, danno sgombra e pura l'ebrezza della mortificazione e portano ad una specie di precipizio nel quale il penitente è tentato di lasciarsi cadere, intenerito e affascinato. Alfonso finì a piangere, abbandonandosi al ristoro che gli alleggeriva la pena e la fatica di tanti giorni di incertezze; e su quelle lacrime scendeva finalmente l'assoluzione papale. La scomunica era tolta a tutti gli Este e al ducato: solo, aveva il curioso privilegio di esserne escluso Masino del Forno, reo di ricoverare il cardinale scismatico Sanseverino. Finita la cerimonia, vi fu gran cena dal cardinale Luigi d'Aragona, e si aspettò che il Papa dettasse le condizioni della pace. Quando queste vennero, si vide che Giulio II non allentava la stretta: delle condizioni di pace, la meno dura era la liberazione immediata di don Giulio e di don Ferrante d'Este, condizione che Isabella, pur desiderosa di veder liberi i fratelli minori, giudicò, secondo la ragione di stato, "disonesta". Ma era ancora niente a paragone della prima e principale condizione, e cioè che Alfonso avrebbe dovuto abbandonare Ferrara al Papa prendendo in cambio Asti. Era lo stesso che voler rovinare la dinastia estense, e Alfonso non poteva accettare. Venne allora il momento di far conto sui cinquecento fanti colonnesi, e sotto la loro scorta il duca di Ferrara, senza nemmeno dare risposta ufficiale al pontefice, fuggiva da Roma, riparando a Marino, roccaforte dei Colonna. Là, mentre a Roma Giulio II minacciava e tempestava, furente di essersi lasciato sfuggire il suo nemico, i Colonna rendevano al duca l'ospitalità ferrarese offerta al loro capo, allietandogli il soggiorno quanto più potevano di cacce e di festini campestri per i boschi fitti di ciclamini delle pendici marinesi. In forzata vacanza, ma sempre calmo e pronto agli avvenimenti, Alfonso scriveva a Ferrara che lo aspettassero con, fiducia.

Dalle feste allo smarrimento il trapasso era stato però troppo rapido perché Lucrezia non ne fosse agitata ed inquieta. Si trovava sola, col marito lontano e fuggiasco, con quelle notizie incerte sulla sorte di lui e con quelle minacce sul ducato. Sbigottiva. E guai se non ci fosse stato il Gonzaga da interrogare da ascoltare e da sollecitare con ambasciate lettere e bigliettini, nei quali si trovano in questo tempo perfino accenni politici. Oltre Lorenzo Strozzi, faceva ora spesso il viaggio d'andata e di ritorno fra Mantova e Ferrara un frate Anselmo del convento mantovano di Santa Maria delle Grazie, il quale aveva tale influenza sull'animo del marchese Gonzaga, che perfino Isabella si rivolgeva a lui, quando, dopo un contrasto, voleva rappacificarsi col marito. Che anche i veneziani si valessero politicamente dell'opera del frate indica che egli era qualche cosa di più di un maneggione,

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o almeno che metteva nei suoi maneggi stile sottigliezza e buon intendimento. Lucrezia scriveva di lui al marchese di Mantova: "Ho fatto pensiero di fidar alcune cose nelle sue mani che non fiderei ad altri, avendolo trovato altre volte per esperienza fidele e amorevole". Frate Anselmo trottava da uno stato all'altro con l'autorità della sua tonaca, pieno di buon volere di ambasciate e di segreti; lo si lasciava trottare, sicuri più che mai che i romanzi sentimentali di Lucrezia facevano il gioco degli Este. Il cardinale d'Este aveva mostrato capacità di guerriero, e dimostrava ora quelle di uomo di stato: aveva preso il posto del fratello fin nelle fonderie specializzate, e s'era trovato a suo agio in ogni luogo, dalle fortificazioni alle sale del consiglio cittadino; aperto il suo palazzo, ostentava, sbrigliando la sua intima passione di regnare, splendidezza e liberalità, teneva corte bandita a gentiluomini e a notabili con un trattare magnifico che gli conciliava la stima dei cittadini. Pareva perfino a qualcuno, ora, che Ippolito fosse "cresciuto assai", avranno voluto dire maturato, e fatto davvero "uno bello signore, che Dio lo salvi". La posizione del cardinale non era facile in quel momento: prima ancora che naufragasse il concilio riformatore, egli se n'era allontanato, ma il Papa non poteva aver dimenticato la sua iniziale adesione, e aveva sempre in mano tanto da potergli nuocere a fondo per vie legittime. Pure, senza un filo di paura, e deciso ad affrontare tutti i rischi, Ippolito aveva risposto alla sorella Isabella quando ella gli aveva chiesto se non gli pareva miglior cosa, piuttosto che ribellarsi all'autorità della Chiesa, consegnare Ferrara al pontefice, mentre Alfonso stava a Marino: "Altro non desidero che potergliela riconsegnare [la città, ad Alfonsol salva, fortificata e munita più di quello che era al partire di lui". Tra Lucrezia ed Ippolito, che in quei mesi rimasero a governare insieme, un mistero di rapporti almeno psicologico era stato fiutato. Quel genio del pettegolezzo che era stata Polissena Malvezzi, già al servizio di corte della duca il 1502 e il 1506, e restituita poi a casa con tanto disfavore, seguiva giorno per giorno da Bologna gli eventi della corte di Ferrara, giovandosi di una corrispondenza con "uno che va continuamente dalla duchessa a lei" come scriveva un informatore. E verso la fine del 1506, quando si era saputa la notizia della fuga del Valentino dalla prigione spagnola, ella raccontava un fatto strano: che cioè, essendo andato il duca all'improvviso nelle camere di Lucrezia, per parlare con lei dell'avvenimento, l'aveva trovata in colloquio da sola a solo con il cardinale Ippolito, del che, chiosava la bolognese, il duca era rimasto "tutto sospeso"; come dire insospettito.

Qualche vaga diceria s'era fatta sui due cognati, dunque; ma di chi non facevano dicerie quei cortigiani? Era il loro mestiere. Ci pensò Alfonso, alla prima occasione, ad annullare quella sua sospensione, se davvero l'aveva avuta, lasciando, mentre egli viaggiava, il governo della città diviso tra la moglie e il fratello. Perché era vero che il cardinale spartiva con Lucrezia le fatiche del vivere di corte e quelle del governare: è verissimo che la

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duchessa e il cardinale erano continuamente insieme, ma la sollecitudine e la continua presenza di Ippolito presso Lucrezia volevano dire soprattutto vigilanza. Se delle Borgia il cardinale ne aveva amata una, questa era stata, se mai, l'altra, Angela; e si ricorderà con quali conseguenze. Per di più nei registri di guardaroba di Lucrezia è nominata, tra gli stipendiati regolari della duchessa, la cantatrice Dalida de Puti, nota a tutta la corte come amante di Ippolito e madre di due figli più tardi riconosciuti dal cardinale. Lucrezia proteggeva anche questo intrigo, forse per imposizione degli Este, e certo senza starsene a scandalizzare; è chiaro che, se ella avesse amato Ippolito, non avrebbe tollerato una rivalità così vicina ed umiliante.

Il pettegolezzo della Polissena è dunque da lasciarsi li: e infatti nella corrispondenza posteriore della bolognese non se ne trova traccia. Se il cardinale, portato dalla propria natura a tutti gli estremi, abbia sentito un richiamo erotico nella presenza di Lucrezia, è storia da immaginare su pochissima orma di verità. Le relazioni fra i due cognati erano complicate da nebbiose diffidenze, attratti come si dovevano sentire, e allontanati insieme dalle affinità dei loro temperamenti, cosa comune fra due voluttuosi quando non si accordano in amore. Non si fidavano l'uno dell'altra, Lucrezia messa già sull'avviso dallo Strozzizilio, Ippolito per la sua natura sospettosa e guardinga; ma a lui piaceva la vocazione alla vulnerabilità della cognata; e a lei, figlia di Papa, era sempre piaciuto essere condotta, nella vita, dalla mano di un prelato di scelta: inclinava al colore della porpora per un istinto antico, e stava venendo piano, senza accorgersene, al punto dove il cardinale voleva portarla, a sottomettersi e ad obbedire in tutto.

In questo tempo, mentre Alfonso d'Este era confinato nella rocca di Marino, e l'avvenire di Ferrara pareva abbuiato, arrivò a Lucrezia l'avviso che suo figlio Rodrigo d'Aragona duca di Bisceglie era morto di malattia a Bari, a tredici anni, verso la fine d'agosto del 1512. Avuta l'improvvisa notizia, il 7 settembre Lucrezia accorse a bussare alla porta di San Bernardino dove le si fece incontro suor Laura Boiardo con tutti i conforti della religione. la ferita apparve difficile da sanare. Lucrezia non aveva mai dimenticato il suo duchetto. Ci voleva la sordità psicologica di un Gregorovius per poterle rimproverare di aver abbandonato senza più curarsene il solo testimonio dell'avventura appassionata e cruenta vissuta col principe aragonese. Presso di lei, nelle sue cassette, erano incartamenti lunghissimi che descrivevano la qualità la quantità i luoghi delle possessioni dipendenti dal ducato di Bisceglie e mostravano anno per anno i cambiamenti dei funzionari che Lucrezia sceglieva e vagliava per l'amministrazione di quelle terre. Che li vigilasse attentamente, e che volesse essere informata, mostrano le successioni delle date e dei nomi:

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Enea Caranza, parente di un prelato intimo della corte di Alessandro VI, era stato in carica nel 1502, prestando giuramento di fedeltà nelle mani di Consalvo di Còrdova. Subito dopo la catastrofe borgiana, nel 1504, l'aveva sostituito don Pietro Castellar; ma nello stesso anno, forse sospettando falli di amministrazione, Lucrezia aveva inviato Antonio Guialtro a visitare lo stato di suo figlio per essere informata "sulla onestà e devozione dei popoli nonché sulli tutti e sulle rendite di detto ducato"; in ispezione, dunque. L'ispezione fruttò poi al Guialtro la nomina a governatore. L'anno dopo, però, anch'egli era sbalzato via e sostituito da Galvano de Alegre che prestò giuramento nelle mani del cardinale Ludovico Borgia, e così via. A queste cure di casata, Lucrezia aggiungeva quelle più dirette, materne. Rodrigo era stato fin dai primissimi suoi anni affidato alle cure di una governante o balia di nome Caterina, bonario nume casalingo, alla quale Lucrezia non mancava mai di donare gonnelle e biancheria quando inviava a Bari grossi pacchi di regali per il suo bambino. I libri di spese di Lucrezia, benché limitati a pochissime e incomplete annate, sono pieni di descrizioni di questi doni scelti con affettuoso spirito immaginativo. Le camicie finissime ricamate si alternano con i giubboncelli di velluto di damasco d'oro, e di damasco cremisi; con le berrette d'oro le cinture infioccate di seta e con i giocattoli, soprattutto spadine di legno dorate, e stocchetti dal fodero di velluto. Tutti quelli che si occupano di Rodrigo sono ringraziati dalla madre con doni: il cardinale Ludovico Borgia si ebbe una volta sei fornimenti da cane levriero. Doni più frequenti Lucrezia mandava ad Isabella d'Aragona, la duchessa di Bari, che teneva alla sua corte il fanciullo e lo faceva educare, insieme con i suoi figli, alle armi e al vivere cortigiano. Isabella d'Aragona, l'intrepida ex duchessa di Milano, era una protettrice che lasciava tranquilli per il presente e per l'avvenire del bambino: vigorosa, leale, teneva corte signorilissima a Bari e resisteva ella stessa gagliardamente alla progressione della vita, avendo saputo salvare dal tempo e dalle sventure "quello ridere grasso che teneva il padre" come dicevano i relatori, e rimanere ancora, a quarant'anni, "fresca e bona robba". Da Bari si spostava spesso per andare a Napoli dove era corteggiatissima, e certo conduceva con sé il figlio di Lucrezia: e a Bari e a Napoli la raggiungevano i doni della duchessa di Ferrara: i più originali erano certe maschere e barbe da travestimenti carnevaleschi, e il più grazioso una bambola, "putina de legno", fatta dal pittore maestro Zorelio, "tutta provvista delli suoi membri" dipinta ed articolata. Questa bambola, meglio che un giocattolo destinato alla diciassettenne figlia dell'aragonese (quella troppo vivace Bona Sforza destinata a diventare regina di Polonia ed ispirare al marito re un ironico commento sulla sua dote "ficta", finta, sulla sua faccia dipinta, "picta", e su qualche altra cosa, "non stricta") doveva essere un manichino di modelli che ripetevano i più famosi vestiti di Lucrezia, simile alla bambola che qualche anno più tardi Francesco I si faceva mandare in Francia da Isabella d'Este "vestita come va lei di sotto e di sopra". Ecco infatti il corredo della "putina" ricco di vesti a maniche larghe o a frange, di

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raso e di velluto ricamate e ornate, e provvisto perfino delle famose piccanti saragoglie. Partì la bambola. E quell'anno stesso, 1508, avendo ormai il duchetto nove anni, e non bastandogli più l'educazione di Caterina e dei pedagoghi provinciali, Lucrezia scelse un precettore di fiducia, Baldassare Bonfiglio, lo rivestì di un costume conveniente ad un uomo di scienza, saione di velluto e raso nero a liste, e lo mandò a Bari con le valigie piene di libri nuovi e con le raccomandazioni che s'immaginano.

Ma rivederlo, il suo piccino, questa era stata sempre l'ansia di Lucrezia. Nel 1504 aveva cercato di farlo venire a Ferrara, e le era fallita la speranza; e nel 1506, il 24 luglio, un relatore c'informa che la duchessa aveva in progetto di andare a fine agosto a Loreto dove si sarebbe incontrata con la duchessa di Bari e col piccolo Rodrigo: pareva, anzi, che il fanciullo sarebbe stato condotto al seguito della madre, fino a Ferrara. Di quel viaggio che avrebbe dovuto farsi proprio nei giorni in cui s'era scoperta la congiura di don Giulio non troviamo traccia; potrebbe darsi che, essendo andato Alfonso a Bari in visita a Isabella d'Aragona, abbia poi condotto il duchetto di Bisceglie alla madre; ad ogni modo, nel 1507, troviamo testimonianza del passaggio del bambino a Ferrara, in pochi fogli di un registro di guardaroba. Dall'agosto al settembre 1507 Rodrigo visse sicuramente nel castello estense con l'undicenne Giovanni Borgia, l'Infante Romano, ambedue accuditi insieme da governanti e staffieri. Soggiorno non troppo grato alla corte ducale, poiché gli informatori non vi accennano mai, ma tuttavia tollerato e, si noti, quando ancora non era assicurata la successione della dinastia. Si potrebbe dire che Proprio la presenza del duchetto portò fortuna agli Este;

Perché in questo periodo Lucrezia rimase incinta del futuro Ercole II e in ottima salute e disposizione; certo la tenerezza materna soddisfatta aveva contribuito a renderle rigogliosi i giorni, pur trafiggendola di ricordi. E non sarà stata, minore, seppure attenuata da speranze di prossime visite, l'angoscia di veder partire il bambino sicuramente prima del 1508 perché da quell'anno i cavallari avevano ripreso la via tra Ferrara e Bari. Tutte le speranze cadevano, adesso. Lucrezia non avrebbe più contemplato i vestiti rifatti ogni anno su nuove misure pensando a quel corpicino che cresceva e passava dalle forme infantili a quelle adolescenti e a quelle virili; tremato al pensiero di veder arrivare il giorno dei chiarimenti, quando il figlio aragonese le avrebbe domandato di suo padre: ci sarebbero state allora cose tragiche e fumose da rievocare tra madre e figlio, perché ella si sarebbe trovata al punto di dover fare il nome dell'assassino di Alfonso' o di mentire strenuamente per salvare la memoria di Cesare Borgia: problema da rabbrividire, dramma corposo, vitalissimo. Tutto, ora, si risolveva brutalmente da sé. Lucrezia non voleva se non piangere e pregare; ma veniva al convento il cardinale Ippolito, e non si poteva sfuggirlo; bisognava farlo entrare, ascoltarlo, accettare le sue composte condoglianze, mostrare

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di consolarsi alla buona notizia del prossimo ritorno di Alfonso, annunciato in segreto da messaggeri giunti travestiti. Venivano i guardarobieri e i sarti per gli abiti da lutto e bisognava scegliere, ordinare e provare, e veniva infine il momento di pensare a liquidare materialmente la piccola corte del duchetto, prendere in consegna l'eredità. Convenne nominare gli uomini da mandare a Bari, Jacopo Tebaldi e Sigismondo delle Anguille, e concertare il piano di viaggio, complicato perché le terre pontificie erano da evitare. Quattro mesi passarono prima che gli inviati della duchessa potessero ritrovare la corte di Rodrigo di Bisceglie ancora costituita col governatore, Gaspare Bonfiglio, col paggio Ferrante, il repostero Onofrio, l'aiutante di camera Pedro, e due staffieri che ebbero tutti la loro liquidazione in ducati d'oro. Tappezzerie abiti argenti oggetti vari, un cavallino di razza e un altro cavallo sarebbero stati spediti a Ferrara; e prima di ripartirsene, i funzionari di Lucrezia ordinarono sotto le grandi volte romaniche di San Nicola, una funzione religiosa, facendo elevare nel mezzo della chiesa un solenne baldacchino di velluto nero e dando alla cerimonia quel carattere di magnificenza spagnolesca che Lucrezia aveva comandato, Nel muoversi delle idee pratiche e necessarie, il piccolo Rodrigo spariva davvero, sommerso, accettato per morto, pianto, e vicino ad essere dimenticato:

Era sera di settembre, nel convento di San Bernardino: si accendevano i pallidi lumi claustrali, forse nel camino trecentesco di pianterreno, voltato come un baldacchino gotico, bruciavano i primi fuochi: a quel barlume, al riverbero della fiamma viva sulle pareti, l'animo angosciato di Lucrezia poteva immaginare di riveder entrare nella sala un giovane di viso bianco e di capelli neri; si avanzava verso di lei, la guardava, e in quello sguardo la fiducia l'indulgenza l'attesa si facevano imploranti. Ed ecco, ella non sapeva più che nome dare alla visione, quello di Alfonso o di Rodrigo, il marito o il figlio, tutti e due morti in prima età, tutti e due così mal difesi da lei che l'uno e l'altro aveva chiamati in diversi modi al destino di vivere: e forse la parola più acre, l'accusa più macerante venivano proprio dalle sibille trecentesche dipinte a colori tenui sulle paretierano loro a richiamare e a trattenere la visione con una ostinatezza sorda e crudele, alludendo alle altre sibille, quelle che nella torre Borgia avevano visto la morte di Alfonso di Bisceglie. Eppure, Lucrezia non Osò insistere nel lutto stretto e si tenne al colore morello, quando seppe che Alfonso d'Este stava davvero tornando. Partito il 20 settembre da Marino, protetto da Prospero Colonna cugino di Fabrizio, il quale andava a raggiungere l'esercito spagnolo accampato in alta Italia, Alfonso arrivava in Toscana, si divideva dalle truppe del Colonna, e, travestito, con poca gente, prendeva cammini traversi a confondere le tracce ai pontifici che lo inseguivano. L'Ariosto, che appunto in Toscana gli andò incontro con pochi gentiluomini ferraresi, passava le sue notti senza dormire, perduto dietro i rumori che il buio rendeva evocatori, presentendo ad ogni zoccolio di cavallo, con la nervosità e la fantasia di un, poeta, i nemici vicini.

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Notti di Vera angoscia durante le quali Alfonso dava prova della robusta qualità dei suoi nervi, dormendo sodo su pagliericci di fortuna e senza spogliarsi: presso di lui, immancabile, stava Masino del Forno pronto a tutto; e scomunicato. Finalmente, ritrovate le truppe del Colonna fuori di Toscana, accompagnato da un gruppo di cavalieri quasi fin sotto le mura ferraresi, e cambiatisi i panni perché aveva come i suoi compagni camice marce addosso, il duca entrò acclamatissimo in Ferrara, dove convenne subito la folla in piazza per salutarlo e fargli festa.

Suonavano campane e grida di esultanza mentre Alfonso saliva le scale del palazzo, e ritrovava, nel secondo salottino dell'appartamento ducale, la moglie già avviata ad incontrarlo: abbracci, rallegramenti, parole di benvenuto, una musica di umana gioia lo accolse; quasi commosso, egli stette un pezzo in famiglia ricevendo tuttavia quanti venivano a salutarlo, gentiluomini e cittadini, con viso di letizia. I due piccoli, Ercole col suo nasino schiacciato, e Ippolito, il futuro cardinale creatore della villa d'Este di Tivoli, beati ed adoranti guardavano quel padre per loro leggendario che usciva da una così avventurosa vicenda e l'ammiravano smisuratamente in ogni suo gesto: avrebbero più tardi che Alfonso si preparava in quel momento saputo è ad esercitare la parte più dura del suo mestiere di duca, avendo già stabilito di non cedere alle rovinose imposizioni del Papa. Quello stesso giorno il cardinale e il duca si trattennero in un colloquio lunghissimo dal quale uscirono col viso fermo di chi si è messo nelle posizioni estreme ed ha già preveduto il peggio; e la stessa espressione avevano la sera entrando nei salotti della duchessa illuminati a torceri, stipati di gente che voleva godersi un po' di festa dopo tanti mesi di sospensione. Immediatamente la nuova guerra si annunciò; e Ippolito, al quale premeva di conservare il cappello cardinalizio salvato per miracolo dai gorghi del concilio scismatico, dopo aver riconsegnata la città intatta e fortificata al duca suo fratello, decise di isolarsi in una sua neutralità andando lontano, in Ungheria, nel suo vescovato di Agria. Partì i primi di novembre, mentre Alfonso armava ed arruolava milizie, Lucrezia impegnava i suoi gioielli più famosi e si faceva confortare meglio che poteva dal suo Gonzaga. Nuovo capitano generale dell'esercito pontificio era adesso il nipote del Papa Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino: nella sua qualità di genero dei marchesi di Mantova, anche lui persuaso dall'abilità politica di Isabella d'Este, aveva fatto assicurare Alfonso che sarebbe andato contro di lui "più ritenuto che potrà". Ma chi aveva visto il pontefice alla presa della Mirandola e ne conosceva la fermezza, prevedeva già imminente la caduta di Ferrara: Francesco Gonzaga poteva pensare vicino il tempo che avrebbe visto nel palazzo di San Sebastiano la duchessa di Ferrara riscattata dai nemici e resa alla vita. Gli eserciti già correvano la penisola, quando. alla fine del febbraio 1513, appena iniziate le operazioni di guerra, Giulio II moriva. In dieci anni di pontificato, s'era mostrata al mondo una figura d'uomo che anche nelle sue intemperanze era stato grande. La

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magnanimità di Giulio II sta e regge alla pari con i nomi e le opere che si enunciano ad onore del suo regno; per citarne qualcuno, la posa della prima pietra del nuovo San Pietro, le Stanze di Raffaello in Vaticano, il Mosè e la volta della Sistina di Michelangelo, il gran concilio ecumenico dal quale doveva derivare più tardi la riforma della Chiesa, la lotta, di un nazionalismo confuso, ma sentito, contro gli stranieri. In morte egli fu coraggioso come in vita: tutto alle sue imprese alle quali credeva non solo politicamente, ma moralmente. si ricordava dei cardinali scismatici, questa spina per il papato, pensava all'influenza che avrebbero potuto avere nel prossimo conclave, e raccomandava con poca voce, ma con suggestione di energia di non dare importanza a quel concilio di falliti per non dividere e fiaccare le forze della Chiesa. Esortava i cardinali a scegliere legittimamente il suo successore, si accusava di aver peccato, e dichiarava di perdonare sinceramente a tutti i suoi nemici. Morì la sera del 21 febbraio 1513: Roma era in lacrime. e il popolo dimostrò il suo dolore facendo pazientissima fila in San Pietro per rivedere ancora una volta, composto nella morte, il volto di colui che aveva tanto lottato e del quale ci si era potuti tanto fidare. A Ferrara invece, per poco le chiese non risuonavano di Te Deum. Liberati dall'incubo della guerra, pareva a tutti di essere stati soccorsi da una mano celeste; e Lucrezia per prima, benché il duca Alfonso avesse ordinato saggia moderazione nelle manifestazioni di gioia, se ne andava da un altare all'altro con le sue donne ringraziando Dio di aver liberato il mondo "da questo Oloferne", mandandolo "a guerreggiare da altre parti"; il che, trattandosi di un pontefice, era per lo meno un parlare curioso. Aumentò la gioia, quando si seppe che il nuovo Papa, eletto con il nome di Leone X, era un amico degli Este, Giovanni dei Medici, il freddo figlio di Lorenzo il Magnifico, che doveva dare il proprio nome ad un'epoca di splendore umanistico, raccogliendo e facendo propria la generosa eredità di Giulio II Leone X fu poi per Ferrara nemico segreto e tenace al qui fecero difetto solo coraggio e risolutezza perché non muovesse apertamente contro gli Este: né, a comporre gli spiriti, sarebbe bastato a dare aiuto un alleato di Lucrezia, Pietro Bembo, chiamato da Leone X, col Sadoleto, all'ufficio di segretario papale. Il Bembo, memore dei cieli e dei numi di Ferrara, si prendeva però la soddisfazione di compiacere la duchessa nei suoi desideri, facendole confermare il diritto a tutte le indulgenze che ella aveva avuto da Alessandro VI, e procurandole favori, come ad esempio il padrinaggio papale per la cresima del piccola Ercole: in questa occasione Leone X mandava al fanciullo una medaglia con la figurazione dell'idra vinta da Ercole, allegoria pagana facile da tradurre e da leggere in termini cristiani.

E così ancora una volta si era fuori dagli affanni; benché da principio il Papa desse da pensare per la sua lentezza a prosciogliere dalle accuse di Giulio II il duca di Ferrara, Lucrezia aveva capito benissimo che gli indugi erano dettati al nuovo eletto solo da una momentanea prudenza. Ella: stessa

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scriveva infatti a Francesco Gonzaga di essere certa che Leone X agiva così perché non voleva essere "calunniato da li Sig.ri Cardinali Vechi, il quali gli davano imputazione che egli era troppo facile a lasciare senza cognizione". Non voleva essere accusato di leggerezza, insomma. Il giudizio di Lucrezia era tanto giusto che i mercanti le rimandavano indietro i gioielli avuti in pegno, ancora prima di ricevere i denari del prestito, essendo "ora le cose di Ferrara in altro termine che erano quando fu fatta la sicurtà", come asseriva anche Isabella.

Erano finite, dunque, le guerre dure e pericolose, ma un'altra stagione si chiudeva nella vita di Lucrezia con quelle laudi che ella andava a sentir cantare passando di chiesa in chiesa, leggera e maestosa come se la rappresentava proprio in quei tempi un orafo, incidendo la sua immagine e quella del duca Alfonso in una targa votiva d'argento dedicata al protettore della città, San Maurelio, per memoria e ringraziamento della vittoria di Ravenna. Questo niello dalle linee riposate non è tanto una rappresentazione di corte, quanto una allegoria della pace dopo le guerre con Giulio II. Lucrezia entra dalla porta, squadrata a mattoni, di un chiostro immaginario e va incontro al vescovo Maurelio presentandogli il figlio primogenito Ercole nel suo robone pesante dal quale emerge la testa infantile di capelli lisci a caschetto. La madre è vestita con un abito ricamato a fregi orizzontali che si prolunga in un breve strascico: ha nella destra un fazzoletto di trina e con la sinistra stringe la mano del figlio che è visto di spalle perché evidentemente l'orafo non ritrae i suoi personaggi dal vero e non conosce l'effigie del bambino. Il profilo di Lucrezia, infatti, ripete esattamente la sua medaglia detta "della reticella"; e inserendola nel disegno l'incisore l'ha resa un poco sproporzionata rispetto alle testine delle altre donne ricciolute alla lombarda o acconciate morbidamente con treccia e cuffietta. Nella targa gemella il profilo di Alfonso d'Este è anch'esso derivato da una medaglia: il giovane duca, armato e impellicciato, sta in ginocchio davanti al santo fermo sul portale di una chiesa; un bel paesaggio collinoso gli fa da sfondo e due alabardieri tengono il cavallo dalla criniera arricciata ornato di pettorale e di gualdrappa corta. Il segno leggero e nitido sul metallo prezioso, crea uno dell'incisore, vita al momento stesso in cui spazio, un ritmo come di scorre. Intorno ai due protagonisti fermi nella loro dignità emblematica si delineano i personaggi minori, le ragazze di Lucrezia in atto di commentare, volgendosi e indicando qualche cosa o guardando dietro la porta quale uno che sta per entrare: e gli alabardieri, uno volto verso la scena della benedizione e l'altro intento solo al cavallo, indifferente, il braccio Posato sul collo dell'animale. Pace composta, quiete promessa, tra poco ritrovata la guerra è finita, sia ringraziato il protettore. E Lucrezia guida le sue donne, eretta, come a scoprire le avvisaglie di una lotta già da lei perduta e rinunciata in anticipo per disdegno e per malinconia. Ferrara e gli Este la vedevano arsi ma forse non avrebbero potuto compiacersi di una vittoria operata più dal tempo che

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dalle circostanze che da una profonda e persuasa conquista. Ormai i problemi dello stato s'allentavano Alfonso, smorzati gli ardori militari che l'avevano portato vicino alla perdita del ducato, pur mantenendosi in esercizio d'armi, avrebbe cominciato a riprendere in parte, adattandola ai tempi nuovi, la politica d'equilibrio di Ercole I. Per Lucrezia non rimaneva più posto né parte attiva all'infuori di quella d'acquisto, di duchessa: non le si sarebbe chiesto che di accettare. Il sogno di Borgoforte stava perdendo le ali. A Mantova, Francesco Gonzaga che credeva di essere guarito dal malfrancese e faceva intendere ai suoi cortigiani d'essere gagliardo e pronto a "consumar matrimonio", poteva volgere questi desideri a sua moglie o a nuove avventure; e chiudere l'appartamento nel palazzo verso i prati del Tè cercando di dimenticare sogni e progetti arditi e scervellati.

Tempo di pace

La stretta di una nuova crisi di ripugnanze acutamente patita da Lucrezia dopo il periodo aspro della guerra contro Giulio II, si allentò a poco a poco. Ella sembrò rivalersi e rivivere; e la gente di palazzo la vide concertare, insieme con la volonterosa Angela Borgia calata tutta pronta da Sassuolo, i divertimenti da godersi a viso finalmente disteso in quella prima stagione di pace. Così la corte, le due Borgia a capo, accolse festosamente Prospero Colonna che nella primavera del 1513 arrivava a Ferrara. Per lui, la duchessa chiamò a raccolta le sue donne sposate come usava quando voleva che si accendessero, in onore dei suoi amici, girandole di faville amorose; ella con le sue compagne e con i suoi balli, ed Alfonso con i suoi gentiluomini e le sue esemplari fortificazioni, si contendevano le giornate e fin le ore dell'ospite, che era entusiasta di tutto. Prospero Colonna, oltre ad essere famoso capitano, e ad avere un alto grado nell'esercito spagnolo-pontificio, aveva Protetto l'anno prima la fuga d'Alfonso d'Este da Marino, e giustificava ogni cura che ci si prendesse di lui; ma a Lucrezia, il bel profilo del signore romano rievocava altre cose Più antiche e personali della sua prima giovinezza. Come aveva difeso nel 1512 Alfonso d'Este minacciato da Giulio II, Prospero Colonna aveva difeso qualche anno prima Alfonso di Bisceglie fuggente dalla Roma insidiosa di Alessandro VI; aveva aiutato Sancia d'Aragona nei tempi confusi e pericolosi della catastrofe borgiana: e, ricordo più angosciante, aveva accompagnato il Valentino sulla nave che lo portava prigioniero verso la Spagna in quel suo ultimo viaggio disperato. Tanti ricordi dovevano sommuovere l'ani. ma della duchessa mentre ella andava cavalcando al fianco dei Colonna per il parco di Belfiore seguendo la caccia con i leopardi e con i falconi, e più tardi, ritrovandosi con lui al convito che

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aveva fatto preparare in casa Costabili, il palazzo costruito già per Ludovico il Moro da Biagio Rossetti che vi esprime in architettura poetica il suo genio, sovrastando con un serrato ritmo musicale i dipinti cortigiani del Garofalo. Era di venerdì, il convito improvvisato in ventiquattro ore, e si mangiava devotamente il magro. Musica leggera di flauti annunciava l'entrata della duchessa e delle sue donne: e sull'invito di quel suono, tutti si disponevano alle tavole, due, quella ducale, e quella dei cancellieri, nobili minori addetti agli uffici di corte, specie grossa borghesia cittadina. Presiedeva Lucrezia che aveva messo Prospero Colonna fra sé ed Angela Borgia: venivano poi Cesare Fieramosca fratello del famoso Ettore di sfida di Barletta, Diana d'Este più che mai "quel lume" che dicevano i ferraresi, ridente delle allegre pazzie del Barone suo vicino: e c'erano il Feruffini che aveva combattuto a Ravenna, Eleonora Pio la suocera politicona Angela Borgia, una Costabili, una Bianca, una Violan Jeronima Bonaciolo ed Elisabetta dall'Ara. Per questa Compagnia allegrissima, ma rispettosa del venerdì, furono cantati salmi "in voce bassa" mentre passava l'acqua di rose per mani, e cominciavano a scivolare in tavola gli antipasti più canti o dolci, insalata di lattughine di capperi di asparagi latte di storione, o gamberi grossi, marzapani, biscotti, gnoccate, cannelli pieni di crema, sfogliate. Il miele correva in fiumi chiari dalle anfore alle coppe. Smisero i salmi, e l'accompagnamento musicale fu diliuti e di cornette, mentre le vivande cominciano ad ispessire, il ]esso di luccio, di storione, di rane e di anguille di Comacchio in salsa verde; e il fritto di storioni, di tinebe, di carpioni, guarnito di limoni arance e di olive. Al tramezzo venne la minestra, all'ungherese e ravioli. E poi ecco il pezzo forte sostenuto dal rinsanguante vino trebbiano, i lucci coperti di gelatina e lo storione arrosto in gratella e i tortelli alla lombarda, le grosse anguille in sugo raro, e le anguille e i pesci persici arrostiti allo spiedo. Scortavano le grosse portate, segnando momenti più leggeri tra un piatto e l'altro, uova ripiene, enormi frittate semplici o miste con verdura, castagne, frittelle di riso, frappe fritte, e infine rane lesse ostriche, calcinelli, frutti di mare d'ogni specie. Il tono dell'allegria cresceva rotando nel giro delle frasi musicali, senza andare negli impigrimenti e senza eccitarsi nelle esuberanze di linguaggio che può dare un pranzo di carni spesse e drogate; e finalmente col vinello frizzante che trillava d'allegria sul palato, si arrivava alla frutta, pere, mele, uva passa, accompagnata da lattemiele con cialdoni: girava l'acqua di rose; e gli ultimi discorsi si tenevano gustando le invenzioni del confettiere Vincenzo: marmellata, gelatina di frutta, conserve, canditi, confetti, mandorle e nocciole pralinate. Era stato un convito superbo tutto servito in argento massiccio, "apparato degnissimo" scriveva un corrispondente. La lista delle vivande circolava già fra i cortigiani, venuta non dalla tavola ducale ma da quella molto più pettegola e intelligente dei cancellieri. erano loro a fare l'opinione pubblica, e non avrebbero certo lasciato passare un giorno senza che il racconto particolareggiato del convito fosse scivolato nei discorsi di palazzo.

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La vita di corte diventava a Ferrara vita di popolo passando alla piazza dal cortile ducale: era questo uno spazio ampio, quasi quadrato che gli adattamenti secolari agli usi signorili avevano reso comodo e lieto fin dal tempo di Borso. Un bel portico trecentesco riparava dalla pioggia e dalla neve. Nei muri attorno si aprivano i finestroni gotici dalle fiorite e vigorose incorniciature lombardesche, e finestre e finestrette, posti di vedetta per la curiosità cortigiana. La scalea del Benvenuti, subito a portata di passo per colui che entrava avendo già subito sotto l'androne l'esame delle sentinelle, dava il modo di comunicare dal basso verso l'alto, e immettendo direttamente nel palazzo ducale, era il tramite Con la corte. Da qui calavano le notizie che animavano la vita del cortile. Tra la piccola folla di funzionari, di gente o della cavalcata d'armi e di guardie, avvezzi a capire dal ritmo e a passeggiare l'umore dei signori, muovevano a ritrovarsi Per il gusto disinteressato della conversazione e della compagnia i cortigiani che avevano più da discorrere, e dunque i letterati. L'Ariosto era uno di quelli che sapevano meglio stare a questo saporito esercizio; e se il cortile ducale di Ferrara non era il Portico degli umanisti napoletani, dove ambulavano il Pontano e il Sannazaro con i loro seguaci sull'esempio dei filosofi greci, poeti e aspiranti poeti vi convenivano però di buona voglia pronti alla discussione alla satira e all'epigramma. Risuonava il riso dell'Ariosto, quel riso che benché "pronto, motteggevole, arguto" non andava mai al di là di quanto "ad un uomo grave si conviene". Scendeva dalle stanze della duchessa, il Tebaldeo sempre bello e ben messo nella persona, con quel suo modo in ogni senso così equilibrato da toccare la mediocrità, e dava da discorrere per certi suoi sonetti maligni scritti contro il lodatore favorito della marchesa di Mantova, l'Equicola, ed una ragazza addetta alla corte gonzaghesca, Isabella Lavagnola. Celio Calcagnini vi arrivava anche lui; e uno dei Guarino discendenti dal Guarino Veronese e tutti di padre in figlio dediti alle lettere, e il Giraldi, e Cassio Brecorelli il fratello di suor Lucia da Narni; o anche, di passaggio, quello sregolato vitaiolo che era Jacopo Caviceo il quale veniva a Ferrara per innamorarsi e per descrivere poi le sue avventure amorose in un romanzo, Il Peregrino, dedicato alla duchessa di Ferrara "savia accostumata e bella... nutrita tra la felicità letteraria... Unica Fenice". Ma oltre le cose letterarie e politiche, nel cortile ducale era uno sciamare di chiacchiere mondane: se arrivava un forestiero di grado, se entrava un visitatore insolito c'era sempre qualcuno ad osservare e a ripetere la notizia, così che diventasse pubblica riportata dai cortigiani dalle donne dai paggi e dagli staffieri. Tutto il cortile, per esempio, s'era trovato d'accordo a biasimare Laura d'Este cugina d'Alfonso, che, venuta a passare qualche tempo a Ferrara, se ne andava per la città in una carretta coperta di velluto azzurro preceduta da sei velocissimi lacchè, e tanto dipinta in viso, che, a dire dei Prosperi, nemmeno Lorenzo Costa pittore avrebbe messo tinta biacca e tanto rosso alle figure "col pennello suo, come fa lei con quella sua faccia". I

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commenti sulla duchessa erano più cauti, e non si esprimevano mai direttamente: non v'era però chi la approvasse di essersi condotta dietro dalla prediletta Reggio alcune ragazze "piuttosto bruttarelle", mentre Ferrara era piena di ragazzine leggiadre; ma i "belli angeli" del primo gruppo ferrarese, e quelli che l'avevano seguita da Roma, avevano stancato la duchessa con la loro condotta che dell'angelo teneva ben poco e l'avevano Persuasa a preferire queste, più quiete, che se mai, davano un po' nel bigottismo. Ora il cortile, che aveva visto qualche anno prima le ragazze di Lucrezia andare a prendere alla predica la loro signora, ridenti e incitose sotto certi cappelli voltati e fermati a nodi di cordoni d'oro, di un'eccentricità che era parsa ai benpensanti provocatrice, poteva edificarsi allo spettacolo delle tre giovani che nella primavera del 1513, si recavano incontro alla duchessa, incoronate con la ghirlanda verginale delle monache novizie. Liona Mosti, la Mirandolina, e una Isabella mantovana si dimostravano con questo infioramento risolute ad entrare nel convento delle domenicane di Santa Caterina, dove viveva ancora, deposta dal grado di badessa, scaduta nella memoria dei ferraresi, angariata dalle monache e negletta dalla corte, esercitando davvero pazienza e sopportazione, suor Lucia da Narni, la musa religiosa di Ercole I. Lucrezia tentò di dissuadere le tre fanciulle, ma vedendole ferme nel loro proposito, volle aiutarle, e qualche giorno dopo, riunita la nobiltà di Ferrara, a cominciare dell'ex regina di Napoli con le figliole, accompagnò ella stessa le fanciulle alla cerimonia della vestizione. D'aprile, vestite di bianco come spose, col viso lieto, incuorate ciascuna dalla letizia dell'altra, esaltate in quel trionfo di purità dalla presenza di tante illustri dame e dalla gioia corroborante del sacrificio, andarono alla loro sorte sorridendo, un po' invidiate e un po' commiserate dagli uomini e dalle donne che si stipavano nella chiesetta da non potervi stare tutti. "Dio faccia che il core fosse così corrispondente e sia per l'avvenire", era l'augurio della gente saggia.

La vita di monastero non era poi tutta di rinuncia: alle donne che vi stavano chiuse, per lo meno alle più sveglie e curiose, si aprivano i retroscena della vita ferrarese nei segreti più roventi, talvolta mortali; si dava loro facoltà di combinare matrimoni e fidanzamenti, o di scombinarli: oppure, valendosi del diritto d'asilo, si fidavano alle mura dei monasteri donne dalla vita contrastata, sicché badesse e monache partecipavano a piani di nascondimenti o di fughe. é il caso di Barbara Torelli e della figlia sparite per mesi e mesi nel chiuso di conventi senza che lo stesso duca di Ferrara riuscisse a trovarne le tracce. Capitavano spesso le dame, avventurose o no, ma simili per quel minuzioso fervore di parole e di gesti che hanno le donne avvezze alle maniere dei conventi. e capitò verso la fine del 1513, nel monastero del Corpus Domini, Alda Boiardo, una favorita di Isabella d'Este e sorella di quella Laura messa da Lucrezia al posto di badessa in San Bernardino. La giovane donna arrivava dalla corte di Mantova

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accompagnata dà. una letteraccia di Francesco Gonzaga: "Ha messo in casa un fuoco ed un incendio" scriveva il marchese. "vi ha seminato tante dissensioni e tante discordie che non le vedremo mai forse estinte in casa nostra... Da questa corte non si partì mai una persona più universalmente odiata". Isabella non era di questo parere, se scriveva invece, a suor Laura d'essere addolorata che le fosse mancato il mezzo di difendere la sua protetta come avrebbe voluto:

Era sincera, o le conveniva di parerlo, poiché Alda sapeva di lei segreti così intimi da non dover essere divulgati: è infatti tra di loro rimasero in buonissime relazioni per tutta la vita. Non c'è dubbio che Alda l'avesse fatta grossa coraggio e audacia e un po' del bizzarro e avventato genio di casa Boiardo non le mancavano, e s'erano dimostrati a volte nei suoi atti arditi, come in una famosa caccia al cinghiale, quando rimasta sola di fronte alla belva incalzata dai cacciatori, l'aveva affrontata armata di una lunga picca episodio fatto per corroborate l'animo femminista della marchesa di Mantova che lo volle più tardi raffigurato dal pittore Leombruno in una lunetta del suo appartamento di Corte vecchia. Bella, e più che bella, civetta e animosa, Alda sapeva d'arte e di lettere tanto da tenere corrispondenza con gli uomini più rappresentativi che capitavano alla letterata corte mantovana, un poco perfino col Bembo, e molto con quello spirito toscanamente umoresco che fu il cardinale Bibbiena l'amico di Raffaello, l'autore della celebratissima Calandria, allegramente spudorata.

Scandali e fughe si seguivano: da poco era arrivata a Ferrara Alda Boiardo, quando passava il Po un'altra fuggitiva, anche lei famosa tra le donne di Isabella, la gaia, l'arriorosa, l'adorabile Brognina, gioia dei conviti e delle galanti festevolezze mantovane. Di questa ragazza erano note le civetterie colorate a fuoco con don Ferrante; ed era lei che, scrivendo al giovinetto Federico Gonzaga figlio di Isabella nel tempo che egli era ostaggio a Roma lo salutava insieme con le compagne e aggiungeva di carezzarlo (in quelle parti che più gli piaceno", Ora un giorno, parendole di aver sentito il richiamo del chiostro, la Brognina aveva preso il velo in un monastero mantovano; ma velo e solitudine erano parsi così pesanti, che un altro giorno se ne era fuggita di convento, sola e non sola che fosse, ed era ritornata a Ferrara, dove ci si beffava con grazia di questa "suora pentita", Quanto ad Isabella d'Este, ella giudicava con larghezza e con una signorile indulgenza le agitazioni sentimentali delle sue ragazze: sempre però che non la toccassero troppo da viCino, che allora c'era caso di vederla in furori; ed una volta che dubitò, pare a torto, di una sua donzella mantovana Elisabetta Tosabezzi, le si slanciò contro ingiuriandola, la prese per i capelli e afferrato un paio di forbici le tosò il capo, gridandole che andasse pure così sconciata "a far la ninfa col signore", cioè col marchese. Francesco, che in quel momento stava sotto le bandiere papali ricevendo le lagnanze dei familiari

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della fanciulla, si sdegnava ("Ella non fece mai la ninfa con me"), aggiungendo di conoscere invece favorite d'Isabella che non solo avevano civettato con questo e con quello ma che ne avevano avuto conseguenze fin troppo palesi. "Noi vogliamo che le gentildonne e cittadine nostre siano a torto vergognate a casa nostra e da chi si anche giorno dopo alla moglie: voglia" scriveva ancora quel "Vi ricordiamo che il marchese di Mantova siamo noi ne vi è alcun altro che noi", Isabella rispondeva con un'alzata di spalle. Due che si riconobbero fino all'ultimo, furono Francesco Gonzaga e Lucrezia: il loro amore non moriva, cambiava natura trascolorando in un'intesa spirituale e religiosa. Datata il 1513, 4 febbraio, è una lettera di lei all'amico piena di confidenza e di fiducia. Si rallegra caldamente della riacquistata salute del cognato, protesta il solito amore che ha per lui, suo "osservandissimo fratello", lo ringrazia delle ultime ambasciate mandate per mezzo del conte Lorenzo, e mette nelle sue mani non solo se stessa ma anche (gli Estensi dovettero fremere se lessero queste righe) tutte le cose dello stato di Ferrara. Venuta la pace, è logico supporre che Lucrezia sperasse di ritornare, in quel rigoglio di vita attiva, alle care manifestazioni antiche, alle visite fraterne o pseudofraterne, all'amicizia amorosa di un tempo; ma se ebbe davvero questa speranza, si accorse presto che le relazioni tra Mantova e Ferrara non accennavano a risolversi in una durevole intesa. Forse Lucrezia non si rassegnò mai: era nel suo carattere rimandare una decisione che importasse una scissura netta e senza equivoci di là dal tempo, e accettare l'annuncio dei giorni nuovi in buona fede pensando che gli avvenimenti avrebbero potuto volgere anche subito, anche domani, per un caso ignoto e felice alla soluzione desiderata. Più tardi si perdono le tracce di una corrispondenza continuata tra i due cognati, e non si trovano più accenni a falconieri, a falconi, né proteste né galanterie né offerte né inviti. Lucrezia doveva però conservare sempre il suo potere sul cognato, se Isabella, facendo tacere il suo orgoglio, le scriveva nel 1517, perché venisse da lei a Francesco Gonzaga una domanda di grazia per un familiare colpevole. Ridursi così a mendicare l'intercessione della cognata e rivale doveva essere costato caro ad Isabella tanto più che Lucrezia le rispondeva dall'alto, e sostenuta, che avrebbe domandato la grazia, benché "mai volentieri mi interponga per obviare la giustizia"; una lezione, insomma. Più raramente correva tra Mantova e Ferrara la sottana di frate Anselmo del convento di Santa Maria delle Grazie. Lorenzo Strozzi moriva di malattia nel 1516, e con lui i due cognati perdevano il loro ultimo seppure dubitoso intermediario. Chissà se ebbero più modo di rivedersi. Ma un punto comune l'avevano trovato: ed era facile, legittimo, innocente raggiungersi nel giardino vago della religione e godere tepidamente raccontandosi di miracoli e di cose sante. Non rinnegavano il loro passato, Borgoforte, che doveva significare sempre il solare lampeggiamento della rivelazione, e i balli sfrenati e insolenti del carnevale del 1507 e i caldi misteri del tempo di Ercole Strozzi sigillati da quel fosco assassinio. Proprio nel loro passato, anzi,

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trovavano la giustificazione delle loro speranze, e credevano davvero d'essere destinati a vedersi ancora insieme, a riconoscersi in blande ore di festosa compagnia: il tempo di giovinezza non era ancora così remoto sebbene stesse trascorrendo; e ricordo e speranza, vivi, se anche non infocati, tenevano unite e deste le anime in quei due corpi ammalati, ostinati tuttavia, ostinati sempre, nell'amore della vita. Accompagnando Lucrezia nel corso fluente degli anni, ci si accorge subito come la sua esistenza fosse piena anche ora che ella era uscita dalla storia, e, si può dire, dall'avventura attiva dell'amore; escluso quello d'uso coniugale, s'intende. Agli uffici pubblici ella non si stancò mai di partecipare; e non era adulazione pura I'"acerrimum iudicium" la prudenza e la gravità che le aveva attribuito Aldo Manuzio dedicandole la raccolta completa delle poesie di Ercole Strozzi. Lucrezia, è intesissimo, non era Isabella, ma sapeva stare al suo ufficio di principessa, ufficio che lasciò solo, come informa il Prosperi, verso la fine del 1518, quando Alfonso prese lui questo incarico per toglierne il peso alla moglie malata e stanca. Le riunioni pubbliche, sia di dovere sia di piacere, trovavano sempre Lucrezia pronta: forse anche, meglio pronta ora che vi partecipava con più disinteresse che nei primi anni della sua venuta a Ferrara: era capace, nei giorni di festa, di lasciare il salone ducale per prendere il leggero pasto ordinatole dal medico ad ora fissa, e di ritornarvi poi a veder finire la commedia o il ballo. Vi fu un periodo che balli e commedie furono meno di moda e che vennero in fortuna gli indovinelli, i "segreti" e altri giuochi che li cortigiani dicevano "antichi". Né la musica si dimenticava; raffinatissimi concerti si ascoltavano tutti i giorni a corte. Il gusto di Lucrezia per le belle voci e per le danze di scuola non decadde mai: al Tromboricino e a Niccolò da Padova, s'alternano Dalida de Puti e la gentildonna musicista Graziosa Pio; alla valenzana Caterina, e alla senese Nicola (che ritroviamo in un elenco di invitati a corte del 1514 che supponiamo quindi, se non rimessa in favore di Lucrezia, perdonata tanto da figurare di nuovo nelle liste ufficiali), una ballerina slava, forse russa, Dimitria, che la duchessa, vaga com'era di vedersi intorno creature esotiche, adornava di cuffie d'oro, di gioielli e di vesti di seta. Allegravano le sere lunghe d'inverno o le feste campestri e cittadine, nani e buffoni tra i quali il celebre Santino ricordato anche dall'Ariosto, abile non solo al motteggio a narrare favole. La sera, dopo cena, si poneva sulla tavola quadra di corte un banchettino, saliva a sedervisi svelto il nanetto, girando intorno i piccoli occhi vivaci, e cominciava, sull'antico modello di Esopo, a raccontare. Lucrezia le sue donne e i suoi bambini alzavano attenti e divertiti i loro visi lisci verso il viso contraffatto di lui che pareva, come diceva un cortigiano, "un lupo che predichi alle pecore". Dalle favole di Santino la duchessa passava alle prediche dei frati in fama di eloquenza: il convento di San Bernardino restava sempre la sua casa d'elezione, e là ella si chiudeva per seguire gli esercizi preparatori alle grandi feste cristiane, e per isolarsi ogni volta che trovava pretesti valevoli. I cortili di casa Romei. quieti allegri e soleggiati,

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reggevano bene le stagioni, radunavano il sole nella loggia, d'inverno, l'ombra sotto i portici, d'estate, e riparavano dal vento e dalla pioggia nelle stagioni di mezzo. Nel cortile più piccolo-trecentesco, crescevano a cespugli quei candidi fiori a quattro petali dall'odor vivo, ma casto, dei quali le monache fioriscono tanto volentieri la statua della Vergine a maggio. Di quei profumi ci si poteva fidare: e così ci si poteva fidare di quel panorama che Lucrezia vedeva dalla sua stanza, orti di conventi, e case di gente senza ambizioni, Ogni cosa tornava, a patto di non abbassare gli occhi sulla via sottostante! e di non dover rabbrividire alla visione comparsa d'un tratto, di un gruppo di ammantellati che reggevano il cadavere di Ercole Strozzi come in quella notte del giugno 1508, simile ad altre funebri notti estive all'ombra delle chiese romane. Pensieri di questo genere si fugavano con la preghiera. Venivano suor Laura, suor Eufrosina e veniva la figlia del Valentino, che somigliava tanto al padre nel volto come gli somigliava per la destrezza dell'ingegno e per la duttilità dello spirito. Di giugno l'aria era chiara: si bussava alla porta del convento: e svolazzando, tutta intenzioni premurose dall'ala della cuffia all'orlo della gonna, la suora conversa correva ad aprire, s'inchinava alle gentildonne di passaggio che venivano a visitare la duchessa. Ecco il porticato popolarsi di figurette eleganti: Laura Gonzaga sale la piccola scala, arriva nella stanza dove, sopra un letto da riposo ma vestita di leggerissima seta nera, sta Lucrezia a scusare la sua debolezza con un fioccoso sorriso; la conversazione palpita, picchia alle volte dipinte, ricade, scorre via fiori ce n'è più traccia. Si parla di mode: Laura, interrogata descrive le più recenti trovate di quella agile inventrice. che è Isabella d'Este, ascoltata da Lucrezia e dalle sue donne con entusiasmo attento e critico. La rivalità delle due cognate si manifesta scopertamente soprattutto in questo campo poiché le altre rivalità rimangono nell'ombrase Isabella ordina a Ferrara berrette speciali e borsotti ricamati, Lucrezia vorrebbe ora ordinare a Mantova una cuffia come quella di Laura; le piacciono anche le roselline smaltate che ornano la fronte della Gonzaga, pensa di farsele copiare dall'orefice di corte.

Dalla sua natura femminile, dall'epoca e soprattutto da Alessandro VI, il pontefice delle gemme, Lucrezia teneva l'amore sensitivo dei gioielli. Quei suoi forzieri che erano stati di leggenda al partirsi da Roma della comitiva nuziale, furono sempre a Ferrara non solo colmi, ma rinnovati ed arricchiti. V'entrarono i gioielli di casa d'Este: e sebbene Ercole non li avesse fatti donare personalmente alla nuora, ella non ci mise molto a farli scomporre e ricomporre piegando al suo mobile estro l'ingegno fino e minuzioso dei suoi orafi. Fra questi, stipendiato da lei alla sua corte, era un singolare ingegno, Ercole Fideli da Sesso, ebreo convertito (il suo nome d'origine era Salomone), celebre nel mondo dell'arte per certe sue spade e daghe principesche, figurate a niello con un segno a tal punto agile e scattante, da ricreare, scompigliando e sovvertendo gli schemi soliti, le più abusate

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allegorie. Maestre Ercole aveva già nel 1498 compiuto il suo capolavoro incidendo per Cesare Borgia una spada nella quale le figurazioni dei fasti di Giulio Cesare erano illustrate dai motti imperativi del Valentino; e si capisce che, appena toccata Ferrara, Lucrezia lo prendesse ai suoi stiPendi e lo tempestasse di tante ordinazioni da non lasciargli tempo di far altro lavoro; tanto che la stessa Isabella dovette Penare degli anni per avere un certo braccialetto, e lo ebbe solo nel 1504 insieme con le scuse dell'orafo che allegava a sua giustificazione il troppo lavoro che la sua signora gli corrimetteva. Con maestro Ercole a che il figlio Alfonso era stipendiato dalla duchessa, e i loro ril e quelli di altri Orafi ferraresi e forestieri, ricorrono di continuo nell'inventario inedito dei gioielli di lei, Sono tremilasettecentosettanta Pezzi raggruppati sotto quattrocentotrentacinque numeri, contati descritti pesati con l'esattezza appoggiata e scrupolosa della gente d'ufficio, dei guardarobieri. Pagine e pagine; e a dar loro il caldo interesse delle cose vissute si mostrano, annotati in fondo ai fogli o in margine alle descrizioni, riferimenti e nomi che riportano indietro nella vita della figlia di Alessandro VI. A carpire di sé l'atmosfera, s'incontra, sotto il numero 65, il toro borgiano: "un pezzo di tela di oro con una corona di perle da un lato, e dall'altro un bove con un breve e ambedue intorniati di perle". Ricamo a dritto e a rovescio, e a che dovesse servire non si sa: ma lo stemma borgiano ricamato in oro e lasciato intatto fra le sue perle a tanta distanza di tempo e dopo che il nome Borgia era tanto scaduto, doveva significare per Lucrezia cose tuttora vive se ella non aveva dato l'ordine di disfare l'inutile ricamo. Di casa Borgia, un altro nome, quello di Maria Enriquez vedova dell'assassinato duca di Gandia, s'incontra al numero 241 riferito a "una corona di coralli. bianchi segnata a cinque a cinque con 13 corniole e con un ambro giallo in cima": a fianco una nota: "la controscritta corona di coralli bianchi la Signora mandò a sua cognata che è suora in Gandia in Ispagna questo dì 29 marzo, 1517". Riconosciamo poi al numero 91 dell'inventario il braccialetto a forma serpentina che aveva ispirato a Pietro Bembo, nel tempo del suo acceso amore per Lucrezia, la prima poesia latina in onore di lei. Tanto le doveva essere stata cara quella poesia, che ella, per languida gratitudine e per eleganza d'intellettuale, aveva fatto incidere nell'armilla i primi versi dell'agevole composizione:

Dipsas eram sum facto Tago...

Le parole le erano ancora da presso a intiepidirsi della sua vicinanza umana, e si ricreavano ogni volta per lei sola. Altro ricordo bembesco al numero 103, "una medaglia d'oro con una fiamma smaltata di rosso con un fregio intorno fatto a palme": è questa una copia o proprio l'originale della medaglia per la quale nel giugno del 1503 Lucrezia aveva spedito un messo ad Ostellato, al Bembo, con la richiesta di un motto per illustrare quel fuoco, avendosi la risposta "Est animum", consuma l'animo.

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L'eleganza era per Lucrezia una mistione personale d'influssi: e come ella componeva la sua mescolando ad avvertito capriccio motivi di fogge spagnole romane napoletane ferraresi francesi lombarde mantovane, così desiderava e portava volentieri gioielli forestieri: da Aldovrandino del Sacrato, ambasciatore in Francia, si faceva mandare catenelle d'oro di sottilissima gotica finezza. Arrivano le catenelle, Lucrezia fa scorrere fra le dita la riviera lucente, nelle sue mani l'oro prende sostanza d'allegoria, rivela quella natura borgiana Il lusso e fasto sono mezzi necessari per liberare la propria personalità segreta. Se Lucrezia leggeva uno dei pochissimi libri della sua biblioteca (gli Este avevano poi una biblioteca celebre, piena di codici rari), il suo Petrarca, o gli Asolani o le poesie dello Strozzi, o le sue canzoni spagnole, o un libro di ventura, o un libro pio, o se cominciava per la centesima volta un libro di filosofia dalla prima frase "E superchio delle cose che noi viviamo", il suo gesto più significativo era lasciarvi dentro uno dei suoi numerosi segnalibri preziosi, per esempio quello ricamato di "novanta di grandezza mediana". Se il vento fresco abbrividiva la sua pelle di bionda, ella avvolgeva intorno al collo uno bellino dalla testa d'oro allacciato con fibbia e cordoni d'oro; d'estate, i ventagli che muovevano l'aria pigra erano d'oro battuto con manico di pietre dure, coperti di piume bianche e nere.

Arrivavano i giorni di carnevale: alle note allegre lanciate dai trombettieri ducali per annunciare le feste, scattavano le serrature dei forzieri, appariva il grosso del tesoro: collane pesanti di enormi gemme, cascate di perle (più di duemila "grosse e belle"), dozzine di anelli e di braccialetti (singolare uno alternato di cammei e di placche d'oro lavorato ad animali), orecchini, catene e catenelle, medaglie smaltate e figurate, smeraldi rubini zaffiri diamanti tagliati piani "in tavola" per mettere in fronte o a pendente da collo; quaranta gorgiere ricamate e imperlate, cento puntali, cinture preziose, intere cartate di rubini di corniole di smeraldi, e ancora perle perle perle di ogni grandezza tutte contate e pesate:

Si tornava nel segreto della vita giornaliera con gli oggetti d'uso, un calamaio d'argento e velluto nero, le giarrettiere d'oro battuto, un cordone bigio "come quello di san Francesco, ma di seta e con i quattro groppi d'oro battuto", i bossoli, i vasetti d'oro massiccio e d'argento pieni di profumi rari, e i cucchiai per "disfare grassetto" e ciò per rimestare di propria mano qualche cosmetico di formula personale, i pettini d'avorio e d'argento, gli specchi, come quello incorniciato di fogliame d'argento smaltato di verde, sparso qua e là di piccole perle come una rugiada appena rappresa in una pura gradazione di luci fredde e boschive. Veniva l'ora del rosario: sotto le pallide dita della duchessa, si alternavano le corone, quella d'oro, quella d'argento dorato e di rubini, quella di calcedonie, quella di corniole, quella di madreperla e d'oro: si aprivano i libri sacri alle preghiere, e il pensiero saliva

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a Dio dalla corte terrena alla corte celeste, sulla guida delle figurazioni in miniatura che ornavano "un officiolo della madonna 'scritto a mano su pergamena, con mini bellissimi coperto di velluto verde con le chiusure d'oro battuto". Nella cappella brillavano i pezzi del servizio sacro portato da Roma e arricchito a Ferrara, le croci le medaglie i calici i reliquari ingemmati. Il cappellano, don Rainaldo o don Bartolomeo, vestito di una pianeta di tela d'argento di velluto o di broccato, moveva la mano con la cauta reverenza sacerdotale tra l'oro e le gemme che splendevano in gloria di Dio. Al profumo dell'incenso, commisto con l'odore di fiori e di cosmetici rari, ella allentava il suo pensiero tra spirali ondose di preghiere: l'estasi e la speranza dello spirito si confondevano insieme con la commozione dei sensi, si stemperavano, quasi, nel sortilegio di una stanchezza benigna. Questo, finalmente, poteva voler dire abbandonarsi.

Lucrezia non si sentì mai, non poteva sentirsi, ferrarese:

dava alla città, figli, opera, assistenza, ricevendone in cambio stima: affetto, mai. Al clima si era abituata; ma come non era fatta per capire la grande arte ferrarese, la pittura potentemente arcigna di un Cosmè Tura e quella scabra e rarefatta di un Ercole de Roberti, e aveva cercato per la decorazione delle sue stanze le agghindatezze di un Garofalo e dei suoi allievi; come non intese mai l'Ariosto preferendogli i poeti che la riportassero per una via o per l'altra sulle tracce del verseggiare cadenzato di Serafino Aquilano, così sentì solo per allusioni indirette la forza passionale della città e le vigorose fantasie di quell'ampio cielo di Ferrara che dà il senso del genio ariostesco con le sue immaginose apparizioni, le aperture di panorami trasfigurati e le magie delle nuvole gonfie e colorite, sta patria di fantasie, Lucrezia opponeva la fantasia di una sua patria, la Spagna. Tutti, che avessero relazione con la terra originaria borgiana, potevano essere certi di ottenere da Lucrezia protezione doni favori: sia che passasse da Ferrara don Enrico Enriquez, padre della duchessa di Gandia e cugino del Re Cattolico al quale ella regalava un suo cappello ornato di gemme, dono non si sa se più galante o ricco, sia che passassero ambasciatori o alti personaggi o prelati, sempre, se erano spagnoli, la trovavano pronta al provvido sorriso. I suoi libri di guardaroba registrano giorno per giorno doni fatti a spagnoli, al cavaliere di Santa Croce, al conte Stabella, al cavaliere di Gabanyllas e a molti altri; spagnoli erano intorno a lei quanti aveva potuto tenersi senza che Alfonso si sdegnasse troppo, l'orefice Michele, lo scudiero Baldassare, Sancio trinciante ed uomo di fiducia, il Colla e messer Francesco Titaoro. Quest'ultimo che Lucrezia aveva fatto venire da lontano con alcuni artigiani suoi compagni mandandoli a prendere fino alla frontiera ferrarese con cavalli e carrette ducali, aveva avuto poi a Ferrara un dramma coniugale: gli era un giorno fuggita la moglie a Venezia, e la duchessa aveva dovuto mandare apposta, a correrle dietro, un suo agente perché la riconducesse.

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A comporre intorno a Lucrezia un'aura spagnola, i libri di spese portano, oltre questi senza risonanza storica, nomi più famosi, uno (lei quali rievocava forse la peggiore tragedia dei Borgia: quelle di Maria Enriquez duchessa di Gandia. Con lei, Lucrezia fu sempre in corrispondenza amichevole e continuata, seppure secondo le regole di un'etichetta tirata su tutti i punti. Avvisava per esempio da Roma un informatore di Ippolito d'Este: "C'è qui uno spagnolo che viene di Spagna e porta per nome della duchessa di Gandia due casse di roba alla signora duchessa nostra, una piena di odori e di olii, e l'altra di confezioni di zucchero"; olii di bergamotto e di gelsomino, estratti di fior d'arancio, dolci pesanti di zucchero di mandorle e di miele, queste due casse portavano a Lucrezia il sapore e l'odore della terra spagnola. Ed ella rispondeva con doni raffinati come il rosario di coralli rosa. dono adatto per la cognata che si era ritirata in convento insieme con la figlia Isabella dopo avere regnato sul ducato fino alla maggiore età dell'erede legittimo, Juan II. Gli informatori dovevano conoscere un po' tutti la sua passione spagnolesca, se uno di essi scrivendole da Firenze riferiva che il cavaliere Cavriana trovandosi in Ispagna alla corte del Re Cattolico aveva potuto vedere il giovanissimo duca di Gandia, e gli si era "presentato subito alla mente il viso e l'effige della S.ra Duchessa affermando che molto le somigliava in tal parte". Sangue borgiano, risentiti a leggere queste parole. Lucrezia era riuscita a trovare un equilibrio positivo solo per gradi, aiutandosi con mezzi di fortuna, amicizie ambigue, riserve mentali, ragionati inganni. Un espediente per accettarsi era anche questo: ribadire in sé l'illusa certezza che esisteva in qualche parte un paradiso perduto, una terra di felicità negate, la Spagna di suo padre.

Tutte le donne hanno nella loro vita un ricordo di fiori:

inutile difendersene e far finta di non riconoscerlo, perché proprio a colei che si crede la più difesa toccherà un brivido per quei grappoli di glicini pesanti non d'altro che di odore, e di una natura così vacua e svanorata che raramente un pittore riesce, dipingendoli, a dar foro una qualche consistenza rappresentativa. E nello scenario del più abbandonato romanticismo, un pergolato d'aprile in una sera che ha dell'azzurro, sotto un quarto di luna, fra costellazioni di piccole rose bianche, si terrà vivo qualche cosa che adombrerà sotto i nomi di trasalimento di scoperta o di rivelazione il tranello di una vita. Per Lucrezia s'immaginerebbe bene che avesse affidato qualche cosa di sé alle rose, a giudicare da quanto gli Strozzi padre e figlio, Tito Vespasiano ed Ercole, avevano scritto in latino di certe rose donate loro dalla duchessa:

Rosa, nata tibi solo...

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"O rosa, nata da un suolo

felice, colta da un'agile

mano, donde ti viene questo

colore che ti fa la più bella

fra tutte le rose? Venere

stessa ancora una volta

ti ha colorita? o meglio,

tanta bellezza ti donò

Lucrezia con le sue labbra porporine?"

Ma accettati volentieri, e sempre operanti per la grazia della poesia, erano questi ricordi meno vivi di altri che non sapremo mai. Fiori, giardini, campagna, Lucrezia mostrò di amarli sempre. Appena un'aria di libertà spirava dalle maniere di Alfonso e dalla tepidezza del clima, correvano ordini, si preparavano la nave fluviale e i bagagli consueti: rispondevano all'appello della duchessa lo stesso movimento, la stessa gioia che esprimevano e si rimandavano in gesti ed in preparativi le ragazze intorno, sia che fossero la Nicola o la Samaritana del primo gruppo, o la Liona e la Mirandolina del secondo, o quelle dell'ultimo, Laura Rolla, Angela Valla, Contessa Strozzi (una nipote del poeta), Isabella e Lucrezia da Castello. La cantatrice Dalida de Puti (se il cardinale Ippolito non la tratteneva), la danzatrice Dimitria, la buffona Caterina Matta partivano anche loro: ci s'imbarcava per le lunghe vacanze che sarebbero andate dall'aprile all'autunno; e gli occhi delle donne riflettevano un eguale desiderio di fuga. Navigare per fiume, dove i canali sono più esili, entrare quasi amorosamente nel solco materno della terra sotto un cielo ancora latteo di primavera. Arrivava dalla pianura il vento vasto e leggero: sulle acque poco profonde la barca dalla chiglia piatta trainata da cavalli o da muli trascorreva lenta; e la sola tragedia che pareva esistere era quella delle anatrelle bianche e paffute che rompevano le file a cercare rifugio nei canneti presso le prode. Si andava il più delle volte a Belriguardo. "o Belriguardo d'amore" avrebbe cantato più tardi Giambattista Guarini, ed esclamava dentro di sé Lucrezia, arrivando alla fine del breve viaggio, senza polvere, senza fatica e con gli occhi riposati dal verde, nella più bella delle villeggiature estensi. Quando la barca arrestava il suo andar di striscio vicino al torrione d'entrata che chiudeva il giro delle mura di difesa, e si mostrava agli occhi della duchessa lo scudo estense sorretto da due

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angeli, e girava sui cardini il portale, facendo apparire l'immensa corte, i finestroni gotici del fabbricato centrale avvampati di terrecotte, e in fondo il gran viale, i verdi dei boschi e il candore di un antichissimo pozzo che spartiva a destra e a sinistra una ordinata prospettiva d'alberi, ella si sentiva consolata di tutte le sue malinconie. Per le sale, per le logge, per le gallerie senza numero, si passava tra opere d'arte: erano le pitture del tempo di Leonello, le "camere verdi" forse decorate a fogliame, la storia di Psiche dipinta da Lazzaro Grimaldi, e quegli affreschi di Ercole de Roberti che avevano tenuto il duca Ercole I così assorto e rapito da fargli dimenticare le cure dello stato: erano, in cappella, i centoquarantacinque angeli, e i Dottori della Chiesa, e gli Evangelisti per i quali Cosmè Tura era andato a Brescia a studiare la maniera magica di Gentile da Fabriano.

Ma il gran parco di uno splendore leggero, regolato ad arte dai giardinieri pittori ed architetti, ricco di peschiere, serre, fontane, giuochi d'acqua, viali, boschetti, aiuole, cespugli, alberi, fiori, era il vivo piacere di Belriguardo: un piacere sentito, non con lo spirito naturalistico che si potrebbe supporre, e che avrebbe potuto, con l'età, condurla ad un georgico ritorno alla terra, poiché ella era di formazione troppo incerta e troppo commista per poter mai arrivare a sbandire da sé la considerazione scrupolosamente gerarchica di un grado sociale faticosamente conquistato. L'Arcadia di Lucrezia era, semmai, un praticello polito con la sua erbetta verde nel quale convenissero dame e gentiluomini vestiti di raso e di velluto, all'ombra di un faggio: e passasse ai loro piedi un piccolo rivo il più possibile simile, in una geografia spirituale, alle "chiare fresche e dolci acque" della canzone petrarchesca. Si sarebbero riletti gli Asolani del Bembo e posti e discussi risolvendoli secondo lo spirito del momento problemi e casi d'amor platonico: avrebbe preso il liuto una gentildonna a cantare soavemente; e sarebbe stata Graziosa Pio di casa Maggi celebre bellezza milanese già della corte di Ludovico il Moro, ed ora, dopo tanti anni, ancora bella, amica intima di Lucrezia. Vicino, le torri dipinte di Belriguardo avrebbero chiamato gli sguardi e mossi gli animi a pensieri di corte, e il discorso sarebbe passato a progetti di danze e di feste campestri. Ma sì, Lucrezia era di buon umore, voleva compiacere i suoi favoriti, vedersi intorno gente volta a letizia. Avrebbe fatto donare a Graziosa Pio gioielli del suo guardaroba, orecchini fatti a fiori, gorgerine, cuffie, e per soddisfare il lieve estro erotico che la campagna risvegliava in lei, avrebbe dato balli e conviti festeggiando così il fidanzamento della giovinetta Beatrice figlia di Graziosa. Si tessevano ghirlande, s'ispessivano gli inviti, le trecento camere di Belriguardo erano tutte abitate e sussurranti: ma tra la musica e i balli c'era qualcuno che, vedendo il fidanzato tardare, faceva dell'ironia e mormorava: "Lungi fia dal becco l'erba". Chi parlava, era naturalmente del partito di Isabella d'Este.

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A riferire avvenimenti e pettegolezzi ferraresi, era, adesso, oltre l'arcifedele Bernardino de Prosperi, un cortigiano amico della marchesa di Mantova, Battista Stabellino: mediocre umanista, ma spiritoso cortigiano, lo Stabellino, che si firma nelle sue lettere ora Demogorgon ed ora addirittura Apollo, faceva parte di una setta da burla costituita su un sistema filosofico di elementare epicureismo. Per tre quarti scherzo, e per un quarto umano terrore delle cose tristi, questo sistema aveva come principio di "attendere alle cose liete per non morire di malinconia": tutti gli aderenti prendevano soprannomi che davano nell'amabile, magari con qualche po' di canzonatura; così, sotto i nomi di madonna Blanda, madonna Amata, madonna Risibile, si celavano signore ferraresi e mantovane, e la stessa Isabella d'Este: solo erano ammessi tra i soci discorsi leggeri e gai, e racconti scherzosi; e parecchia ironia metteva sale nelle conversazioni inclinandole verso la satira quando a farne le spese era la duchessa di Ferrara.

Qualcuno di questi beffeggiatori poteva ridere narrando di certe partite a tarocchi giocate da Lucrezia con dame sue favorite, partite che avevano per posta torte di marzapane e pollastri farciti che poi, vincitrice e vinta, si mangiavano insieme, pretesto a colazioni improvvisate: avranno riso certo anche le giocatrici, in quel loro accordo che conciliava il desiderio del giuoco con la creanza dei modi e della buona compagnia. Colazioni e giuochi di questo genere era la campagna a suggerirli meglio; e per farseli suggerire, di qualsiasi stagione, la duchessa quando non riusciva a trasferire la sua corte fino a Belriguardo, andava a Belfiore, vastissima villa appena fuori di Ferrara, affrescata dai più vigorosi pennelli ferraresi del quattrocento e circondata da un parco famoso nel quale era ogni specie di fauna, dalle lepri ai caprioli alle volpi ai cinghiali e fino ai lupi; o prendeva la via della "Castellina" costruita sulle rovine di una fortezza, tutta piantata di pini altissimi, con un viale di cipressi e vasto giardino. La perla della "Castellina" era sotterranea, un ninfeo scavato in un sottosuolo, con una gran vasca alimentata dalle acque del Po, dove possiamo immaginare la duchessa con le sue donne bagnarsi e ruzzare, lontane dagli occhi dei cortigiani.

Ma veniva l'inverno, arrivavano le stagioni delle feste ufficiali, e quelle, non c'era verso, bisognava passarsele in castello e muoversi tutt'al più assiepate in carrette per le vie cittadine. Si andava allora a cercare vacanze nel convento di San Bernardino; o volentieri si interveniva a feste in palazzi privati, soprattutto nel palazzo Costabili dove, nel 1516, Lucrezia doveva ritrovare ad un gran convito. il cardinale Farnese, fratello di Giulia, maturato in sapienza e in esperienza, già annunciante la futura maestà del pontefice Paolo III. Durante il convito e dopo, Lucrezia e il cardinale ebbero modo di parlare insieme e di far trascorrere nei loro discorsi lontani avvenimenti sui quali erano soli a conoscere la verità segreta. Si parlò di Giulia e si parlò di Roma. Bastava socchiudere gli occhi perché si annullassero quei quattordici

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anni e il cambiamento che avevano portato nelle persone e nelle cose. Non doveva comparire, non sarebbe comparso da un momento all'altro, annunciato dalla voce del suo cardinale tesoriere, Alessandro VI? il nome paterno, morto che fu il piccolo Rodrigo di Bisceglie e morto già da tempo il suo primo nato estense, Alessandro, Lucrezia avrebbe voluto farlo sopravvivere in uno dei suoi figli. E quando, ricominciato per lei con la pace dello stato il periodo delle spesse e faticose maternità, le nacque un bambino, ebbe il permesso, e se ne giovò subito, di ritentare la prova: ma pareva che il nome del pontefice Borgia non si volesse adattare a quelle teste infantili: questo secondo Alessandro d'Este nato "un gran putto e con una gran testa", forse rachitico, visse male, crebbe malato e piagato, e morì a due anni nel 1516. Lucrezia dovette pensare ad una nemesi o ad un giudizio di Dio, perché non tentò più la prova sui bambini che vennero poi, nel 1515 Eleonora la sola sua femmina che sia diventata adulta, e nel 1516 l'ultimo maschio, l'aggraziato Francesco. I piccoli crescevano: Ercole aveva nel 1518 dieci anni, Ippolito era sui nove: si educavano nelle arti militari, nella pietà religiosa che Lucrezia esagerava e viziava un poco, e, naturalmente, nelle discipline umanistiche. Appunto in quell'anno il primogenito, Ercole, dette un saggio pubblico alla presenza dei cortigiani e sotto gli occhi della madre: letto e tradotto Virgilio ad apertura di pagina, il fanciullo si provò nell'analisi logica e grammaticale, lesse un brano dei Commentari di Cesare, dettò una lettera latina in risposta ad una lettera del padre con elegante correttezza. Anche ammettendo che tanta sapienza fosse un po' truccata, bisogna riconoscere che il precettore, messer Niccolò Lazzarino, cognato dell'umanista Gian Giorgio Trissino, si meritava il giudizio cortese e soddisfatto che dava di lui la duchessa. Passata l'ora dello studio, i piccoli estensi giocavano alla guerra con le loro spadette di legno, e cavalcavano; a carnevale correvano la quintana, e in quaresima i cortigiani si ripetevano l'uno con l'altro come "i signorini" avessero sacrificato di loro volontà il privilegio d'esenzione dagli obblighi di digiuno e di vigilia, per seguire a tavola lo stretto regime quaresimale dei grandi: la devozione fanciullesca aveva poi compensi di lattemiele di ciambelline e marzapani. Guardare i suoi figli era per Lucrezia come se qualche cosa le fosse restituito di se stessa bambina, non tanto quale era stata nella sua brevissima fanciullezza, ma quale pensava di aver potuto essere. Dai suoi smarrimenti e dalle sue nostalgie si levava animata e rinfrancata se maneggiava quei corpicini schietti e nuovi che le piaceva vedere serrati nelle guaine di broccato, chiuse e affibbiate d'oro, o nei giubboncini allacciati d'oro e di smalto. Ercole, il futuro duca, e Ippolito, il futuro cardinale, cominciava già a vederli poco, affidati com'erano ai precettori. Ma aveva con sé nelle sue stanze l'ultimo nato, il ridente Francesco, caro per il nome del santo e per il nome dell'amico Gonzaga; e certo nei suoi appartamenti muoveva passetti inceppando nella lunga veste di broccato tagliata sulle fogge materne, la piccola Eleonora che a tre anni possedeva già uno zibellino da collo con

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anello d'oro, un vestitino di broccato chiuso da fibbie d'oro e abbottonato di bianco e d'oro e una reticella da capelli lavorata d'oro e di smalti fini. I figli di Lucrezia imparavano, appena nati, la dignità degli ornamenti preziosi, dai quali pareva, allora, non potesse andar disgiunta la dignità del potere: e al brusio e al vocio dei suoi bambini, alle grida ai giuochi ai vagiti, alle variazioni della loro salute, Lucrezia doveva provare un equilibrio pacato se non del tutto rassegnato. Stava avvenendo in lei il trapasso delle sue speranze nelle speranze dei figli; a loro sì, a loro certamente, sarebbe stato concesso ciò che a lei era mancato. Dal mondo ormai disperso di Alessandro VI, qualche voce si faceva sentire ancora viva; e vivissima, per quanto attenuata, era quella di Vannozza Cattanei. Ferma all'esistenza, e radicata ormai in Roma, la madre di Lucrezia s'era volta già da tempo alle opere pie: beneficava le chiese, ma, seguendo il suo istinto robustamente materno, beneficava ancora meglio gli ospedali come quello della Consolazione dove aveva voluto che si conservasse un busto d'argento massiccio del Valentino, quasi per salvarlo da future dispersioni (e probabilmente, invece il busto finì nella bisaccia di un lanzichenecco al tempo del sacco di Roma nel 1527). Vannozza amava anche lei gli oggetti belli; ma, poiché ormai sulla sua persona non significavano più nulla, faceva lavorare gli artefici per cose religiose. Aveva ordinato ad Andrea Bregno un tabernacolo in marmo specificando di volerlo simile in tutto a quello di San Giacomo degli Spagnoli, con candelabre fregi festoni secondo i disegni rabescati dei decoratori lombardi affermando così il suo persistente gusto dell'ornamentazione minuta, vivo nel sangue di quegli artigiani lombardi, marmorari e decoratori, dai quali discendeva. E ordinava per la chiesa di San Giovanni in Laterano un tabernacolo d'argento, ornato di perle diamanti e turchesi, gemme che avevano brillato per Alessandro VI sulle carni floride e bianche della sua favorita. Una croce d'argento massiccio le era già costata una lite con l'orefice Nardo Antoniazzo il quale pretendeva di non essere stato pagato per il valore della sua opera, smentito da Vannozza con alterigia da nobildonna. Agendo secondo questo grado anche dopo la caduta borgiana e facendosi giudicare stimabile e molto dabbene perfino da uno storico come Paolo Giovio che la conobbe in quei suoi tardi anni, Vannozza mostrava di essere donna di conto. Nella vecchiaia, e benché priva di tutti i figli, avanzava rassegnata e attivamente pia. Sapeva quali erano i suoi limiti e ci si teneva: e il tono della sua corrispondenza quando scriveva a Lucrezia non andava mai oltre il rispetto: la frase più commossa che vien fatto di trovare nelle sue rare lettere è la dicitura che precede la firma: "La felice ed infelice madre vostra": ma forse questa dicitura era un vezzo sentimentale, un accenno di certa eloquenza romantica femminile viva in ogni tempo. Alla figlia, Vannozza raccomanda o chiede; raramente per sé, spesso per qualche suo protetto, salvo poi ad aggiungere nel post scriptum di aver dovuto scrivere perché obbligata, disimpegnandosi così (la scuola di Alessandro VI?) da ogni responsabilità e da ogni noia. Solo una volta, l'aiuto è chiesto con altro

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animo, le parole convenzionali si smuovono, un calore ansioso ravviva il vecchio sangue: si parlava della famiglia. Jofré, il fratello minore di Lucrezia confinato a Squillace dove faceva vita quieta di signorotto provinciale con i tanti figli che gli erano nati dalla seconda moglie Maria de Mila, aveva mandato alla madre a Roma un suo figlio naturale, fanciullo di una diecina d'anni, probabilmente perché si trovasse il modo di sistemarlo; la nonna l'aveva preso volentieri con sé e se lo teneva caro, ma prevedendo di non avere a durare molto in vita, aveva scritto a Lucrezia e al cardinale Ippolito chiedendo che. morendo lei, il fanciullo fosse chiamato a Ferrara dove "si allevasse per servitore della vostra Ill.ma Casa". Se Lucrezia promise, non si sa. Nel 1517 Jofré moriva a Squillace, di appena trentasei anni, e ne dava partecipazione alla duchessa di Ferrara il suo primogenito don Francesco; non passava un anno che anche l'antico tronco di Vannozza cedeva, lasciando di tutti i suoi figli Lucrezia sola a sopravviverle. Nella notte del 24 novembre 1518, per le strade di Roma, si udiva la partecipazione funebre, ripetuta di via in via dall'annunciatore: "Messer Paolo partecipa che è morta Vannozza la madre del duca di Gandia: la trapassata apparteneva alla confraternita del Gonfalone".

Ascoltando questo avviso, nel quale non risuonavano i nomi del Valentino né di Lucrezia o di Jofré, i confratelli si preparavano al funerale; il quale fu decorasissimo, presenziato anche da cubicolari pontifici, ultimo atto ben concluso della vita di Vannozza Cattanei. Seppellita in Santa Maria del Popolo, ebbe una lapide che la diceva venerabile per essere stata madre del duca Valentino, del duca di Gandia, del principe di Squillace, e della duchessa di Ferrara, e altamente illustre perché pietosa onesta saggia e vecchia. Per duecento anni si dissero, secondo il lascito di Vannozza, messe a Santa Maria del Popolo; più tardi, cessarono le preghiere, e si tolse infine anche la lapide, ora riaffiorata dai secoli e murata nell'atrio di San Marco a fianco di Palazzo Venezia. Lucrezia si rifugiò in San Bernardino e dette ordine che nessuno le parlasse della sventura: a che avrebbe servito, sentirne discorrere da gente che non sapeva come l'immagine della madre durava in lei? Sarebbe stato questo il momento di raccogliere il figlio di Jofré che Vannozza aveva tanto raccomandato due anni prima. Ma di questo fanciullo non esiste traccia. Troviamo nei registri di guardaroba di Lucrezia del 1518 un "Jeronimo Borgia, regazo", cioè paggio; ma di costui un documento assai più tardo ci indica come padre Cesare Borgia. Il piccolo Jeronimo era sveglio, attento, e amato non solo da Lucrezia ma anche dal più difficile duca Alfonso "per il valor suo". Si stabilì a Ferrara dove visse si sposò e morì. Così della grande dinastia alla quale Alessandro VI avrebbe voluto dare per scenario l'Europa, non rimanevano che pochi eredi e divisi: Luisa Borgia che cresceva brutta e intelligente in Francia, Juan Borgia terzo duca di Gandia che doveva diventare padre di San Francesco Borgia quarto generale della compagnia di Gesù,in Ispagna, e i figli di Jofré in un paesotto

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meridionale italiano; in Campania l'oscuro chierico Rodrigo,ultimo figlio del pontefice spagnolo; e a Ferrara, intorno a Lucrezia, la monaca figlia del Valentino, Il fanciullo Jeronimo e suo fratello l'Infante Romano. L'Infante Romano è uno dei più sordi ed ingrati misteri borgiani. Si ricorderà il giuoco delle circostanze intorno alla nascita del fanciullo, quella duplice legittimazione, quel trucco delle due bolle pontificie, proprio al tempo delle trattative matrimoniali di Lucrezia con Alfonso d'Este, e i sospetti che ne derivano. Ma l'interesse che può muovere la persona di Giovanni Borgia comincia e finisce lì, con la sua nascita: chi si aspettasse da lui una vita che corrispondesse al suo principio, dovrebbe tentare di risalire alle origini di una formazione psicologica tarata, e spiegare su questa base la miseria della sua vita che fu una tragedia umana come può esserlo la squallida storia di un fallito. Ed è vero che a questo ripiegamento morale dovette contribuire l'educazione del ragazzo. Dalla morte di Alessandro VI al 1518, si credeva che il bambino fosse vissuto con uno dei cardinali Borgia a Napoli o a Roma. Invece, come si è già visto, nel 1505, arrivato a Ferrara, l'Infante era stato Confidato ad Alberto Pio da Carpi per essere da lui educato, e poi tirato via di là nell'ottobre del 1506, quando un uomo mandato dalla duchessa, Sancio spagnolo, "andò a Carpi per prendere il S.re don Giovanni Borgia con le sue robe". Così dice il libro dei conti di Lucrezia; e annota poco dopo la spesa fatta in quell'occasione "per un nocchierci che ha condotto il S.re don Giovanni Borgia da Finale a Ferrara", navigando per fiume.

Era passato da poco sul ducato il vento della congiura di don Giulio, e il Pio, sebbene se ne fosse mantenuto estraneo appena pesata la pochezza dei congiurati, aveva lasciato capire da molti segni quale fosse il suo animo: cominciava allora fra lui e gli Este una lotta che sarebbe durata, arida e spinosa, sino alla morte del signore umanista di Carpi. Il fanciullo Borgia gli fu dunque tolto e ricondotto a Ferrara; e qui gli fu data abitazione, in castello o fuori, ebbe corte propria, un precettore di conto, il grammatico Bartolomeo Grotto, un intendente di nome Cola, uno staffiere, e perfino un buffoncello "il matello", che Lucrezia faceva rivestire a sue spese. Il libro dei conti ci informa giorno per giorno della vita dell'Infante. Il quale consuma calze che è una disperazione, e se non sono calze sono camicie giubboncelli berrette; un giorno chiede a Lucrezia di donare qualche vestito ad uno spagnolo povero, e figurarsi se ella non lo permetta. Un altro giorno il precettore chiede libri, un "Virgilio", un "Donato" e cioè una grammatica latina, un calamaio ed oggetti di cancelleria. Il fatto che gli Este tollerassero l'Infante Romano a Ferrara, sembra essere una prova in più della normalità della sua nascita. Ma bisogna anche pensare che egli era protetto abbastanza dalle due bolle di legittimazione di Alessandro VI perché nessuno osasse, nonché parole, Pensieri strani sulla duchessa di Ferrara. E, tutto sommato, la tolleranza degli Este era assai parca, poiché Alfonso prima, e i suoi figli poi, dettero sempre prova di non amare l'Infante. Si permise insomma a Lucrezia

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di avere con sé questo Borgia, proprio per sorvegliarlo in silenzio, ignorato da tutti, perfino dai pettegoli informatori della marchesa di Mantova i quali, tolti i due accenni del Prosperi che qualificano il piccolo Borgia come "figlio del duca Valentino" e che segnalano la sua andata a Carpi nel 1505 e una sua visita fatta nel 1506 alla duchessa, non parlano mai di lui, nemmeno alla morte di quello che secondo la prima bolla di legittimazione era ritenuto suo padre, Cesare Borgia. Una parola d'ordine, meglio intesa che pronunciata, doveva essere stata lesta a correre in corte come era stata lesta la consegna di non nominare mai più don Ferrante e don Giulio subito dopo il loro imprigionamento. E Giovanni Borgia, che non aveva avuto dalla natura una personalità vigorosa, risentiva di questa sopportazione umiliante che l'affetto di Lucrezia non riusciva a compensare. Lo amava, lei: e di più lo amava, tra pietà e spavento, a vedergli crescere l'arroganza e l'Insolenza forgiane mortificate dalla meschinità della sua posizione sociale ed economica in quel suo vivere malamente, quasi per compromesso, senza l'appoggio e senza il rigore dell'educazione paterna. Quali reminiscenze ella cercasse in quel volto, quali somiglianze allusioni rimorsi, nessuno saprà mai. Cresciuto e arrivato ai vent'anni, Giovanni Borgia cominciò a dare a Lucrezia molte angustie: si vedeva per Ferrara questo giovane che non sapeva applicare il cervello a nessuna disciplina solida, debole e turbolento insieme, al quale mancavano del tutto la forza la fiducia il fervore e la grazia che avevano reso irresistibili i vizi dei Borgia. Circondato da staffieri rissosi, dava loro incitamenti di insolenza e li spingeva a provocare gli staffieri rivali, specie quelli del piccolo Ercole d'Este, come una volta che in piazza del Duomo avvenne tale parapiglia da lasciare a terra un morto: ci furono confusione, arresti, e dispiaceri per Lucrezia che forse favorì lei stessa la fuga dell'Infante da Ferrara prima che Alfonso, in quel momento a Venezia, ritornasse a dargli il castigo che tutti, e lui per primo, s'aspettavano. Si faceva sentire l'urgenza di dare a questo ragazzaccio uno stato retto da doveri, quali che fossero.

Lucrezia tentata tutte le vie: aveva mandato a Roma a far denari per il giovane, chiedendoli ad Agostino Chigi, il gran banchiere della Cristianità; ma la sua lettera di richiesta non doveva essere troppo chiara, se il Chigi che era, si, il mecenate di Raffaello degli umanisti e degli artisti romani, ma anche uomo di algebrica precisione negli affari, le faceva rispondere di non avere bene compreso in che modo doveva "dare o prestare duecento ducati e ricavarne cinquanta al mese di non sa donde, e prega la duchessa a scrivere chiaramente quel che si ricerca". Questo prestito, o un altro. doveva poi essere stato concluso, perché Lucrezia restò in relazione amichevolissima con Agostino Chigi e anzi, nel carnevale seguente, gli fece mandare in dono ventisei maschere con barba e senza barba, fatte da un artigiano famoso, Giovanni da Brescia. Ma un prestito, se aiutava, non risolveva una situazione: Lucrezia aveva mandato un inviato, Gerolamo

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Nasello proposito di Cervia, a Napoli, ma non era riuscita a nulla; e infine aveva deciso, confortata dalle espressioni invitanti delle donne di casa reale di Francia, di mandarlo oltremonte a farsi uno stato. Alfonso d'Este, che appunto verso la fine del 1518 partiva per la corte di Francesco 1, accettò di prendere seco l'Infante, senza dubbio per toglierselo da Ferrara; e Lucrezia, con la speranza d'aver trovato la via buona, dette al giovane lettere, gli fece amorevoli lezioncine, gli scelse due compagni tra i migliori della nobiltà ferrarese, un del Sacrato e un Trotti, gli affidò bellissimi gioielli per la regina Claudia, braccialetti d'oro lavorati a botticelle piene di rarissime paste profumate (Francesco I osservava poi che i profumi, portati così, lasciavano alla regina un ottimo odore sulla camicia "quando va a letto: il che molto g i piace"), doni che con quelli recati da Alfonso ' un cavalo bardato d'oro battuto e lavorato, e un altro cavallo bardato d'argento, e altri gioielli per il re, per la regina e per madama sorella del re, avrebbero dovuto favorire l'entrata a corte dell'Infante. Giovanni Borgia arrivò dunque a Parigi al seguito di Alfonso d'Este, e fu presentato al re e alla regina e alle grandi dame di corte; ma quando venne il momento di mostrare un po' di spirito, o almeno un po' di civiltà di galanteria di scienza delle cose, s'imbrogliò, le forze gli caddero, e non seppe più come agire. Agli sforzi dell'ambasciatore ferrarese e dei gentiluomini del seguito per trarlo fuori dalla sua inerzia, restava passivo; e non potevano su di lui nemmeno l'affetto e la gratitudine per colei che cercava di aprirgli la via ad un avvenire, se all'ambasciatore che gli domandava se voleva aggiungere qualche riga ad una lettera per la duchessa di Ferrara rispondeva di no, non avendo nulla da dire: la risposta di uno sciocco. L'ambasciatore scriveva lui, cercava denari, mandava perfino in Ispagna a chiederne; e ne ebbe, non disse da chi, ma probabilmente dal giovane duca di Gandia Juan II; cercava di dar fiato al suo protetto, di ispirargli quel minimo di vitalità necessaria per portare avanti una pratica già in se stessa difficoltosa. Perché, e in nome di che si sarebbero dovuti dare benefici francesi a questo ragazzo inetto e ottuso, il re di Francia doveva domandarselo, e le dame anche. Fino a che, un giorno persero la pazienza un po' tutti Alfonso d'Este era già tornato a Ferrara da qualche giorno quando lo seguirono il del Sacrato e il Trotti, lasciando la cura dell'Infante all'ambasciatore, mezzo disperato di questo compito come appare in una lettera nella quale egli prega la duchessa di scrivere lei severamente al giovane Borgia perché si muova a qualche cosa. Non si sa che rispondesse Lucrezia; ma certo Giovanni Borgia tornò di Francia senza aver concluso nulla e cominciò a trascinare per l'Italia (mai più a Ferrara, appena mancò Lucrezia a proteggerlo) la sua inutile vita. Più tardi gli venne, e tristemente, l'idea di rivendicare il ducato di Camerino tirando in argomento l'investitura avuta da Alessandro VI, e trovò modo d'incominciare un processo contro Giulia Varano, erede dello stato, finché il Papa gli intimò perentorio di starsene zitto. Finì per tornare in quella Roma dove era nato e dove la sua ultima traccia, del 1548, ce lo mostra intento ad una lite di pochi ducati con

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una sua creditrice, stabilito ormai nella mediocre e sicura posizione di oratore papale. Così, colui che ha nel suo nome uno degli enigmi più gravi della vita di Lucrezia, e che è sospettato perfino di essere il frutto mostruoso di un incesto, non seppe mai che fare di se stesso e riparò sotto le ali della Chiesa troppo alta per essere toccata dagli estremi errori degli uomini. Ogni momento di giovinezza riassume la giovinezza stessa, pensava Lucrezia; e, scoprendo in sé faville che non volevano spegnersi, riprendeva il filo, mai del tutto interrotto, della sua amicizia con il Bembo; nel magnifico segretario di Leone X, tentava di ritrovare l'amico amoroso del suo primo tempo ferrarese. "Quanto più penso a quel rimedio di disperare che vi disse già quel vostro amico, tanto più mi piace e migliore al proposito sempre" scriveva riprendendo il loro gioco allusivo. E più tardi gli mandava una lettera ricercata, intonata alla concettosità bembesca. "Messer Pietro mio carissimo," cominciava con l'amabile confidenza di un tempo "sapendo io che di una cosa aspettata l'attesa stessa è parte di soddisfazione perché la speranza che accende il desiderio di possedere quella cosa ce la rappresenta più bella, ho risolto di differire a rispondervi prima d'ora; così, aspettando voi qualche bella ricompensa alle vostre bellissime, siate a voi medesimo causa di soddisfazione e insieme debitore e pagatore." Arabesco di parole ' modulazioni sottili del sentimento; e non solo gioco intellettuale per due che cercavano insieme un rimedio alla disperazione. Il Bembo scriveva dunque lettere "bellissime" alla sua duchessa. Non l'aveva dimenticata nemmeno ora, dopo tanto tempo. e tanto straniato da lei dalla progressione dell'esistenza, cresciuto in autorità, onorato, adulato. Era sempre bellissimo uomo, messer Pietro, e gli era cresciuta l'eleganza spirituale diventando sapienza di vita. Parlava bene, e poiché dei suoi argomenti favoriti amava parlare, gli poteva capitare di estasiarsi nella ruota conchiusa dei suoi pensieri, così da provarne un rapimento intellettuale che pareva davvero separarlo dal mondo circostante. Rapimenti ed inebriamenti gli lasciavano però tutti i suoi spiriti se, come narra ascoltato da lui una perorazione sull'amor platonico e vedendolo in atteggiamento estatico, gli mormorava con una vocetta mordente, tirandolo per il vestito: "Guardate. messer Pietro, che con questi pensieri non vi si separi l'anima dal corpo", poteva rispondere prontissimo e altero: "Signora, non sarebbe il primo miracolo che amore abbia in me operato". Il potere del Bembo a Roma era quello di un viceré: e gli Este, che lo sapevano, non perdevano occasioni per mandare inviati ed amici a fargli omaggi e saluti: una volta all'Ariosto, venuto a Roma, egli aveva detto quanto gli fosse caro il ricordo di Ferrara; e il duca Alfonso, risaputo il discorso, gli aveva premurosamente mandato a dire che venisse a sua voglia in quella villa che più gli piacesse fra le estensi, e per quanto tempo gli convenisse . Se il Bembo ad Emilia Pio che, dopo aver ricordato di aver dovuto fuggire da Ostellato nell'autunno del 1503 per non morire di fame, essendo tutti i viveri requisiti dalla corte di Alfonso, doveva ora sorridere, magari di malinconia, a queste offerte. Lucrezia, che ripeteva

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anche lei le offerte del marito, riceveva in risposta complimenti ringraziamenti: sarebbe andato certo, assicurava il Bembo, a godere di quella dolce compagnia. Ma lei doveva capirlo: non l'avrebbe riveduto mai più. Al perfetto amante doveva parere insoffribile il pensiero di rivedere la donna che aveva inghirlandata di tanta gloria amorosa, spoglia, diminuita nei suoi poteri. La candida bellezza velata, la persona appesantita dagli anni e dalle faticose maternità dovevano impaurirlo meno di quel timore di trovarsi di fronte a un fatto senza possibilità di reazioni, dovuto non al tempo e agli uomini. ma a qualche cosa che nel fondo di noi si è dissolto lasciandoci solo un senso attonito e triste di vuoto. La "sua" duchessa era sempre colei che apparendogli ad Ostellato raggiava di tenerezza amorosa. Rimanesse quella nel suo animo. E forse nemmeno Lucrezia desiderava davvero rivederlo. Alfonso d'Este sapeva di non aver più da temere che la moglie gli si sviasse: per non temere più appunto, l'aveva tenuta sotto la soggezione fisica e morale di tante e ripetute maternità. Gli era riuscito d'imbrigliarla, dunque, e poteva pensare di esserci arrivato con l'apparenza di un accordo che per lui valeva quanto un accordo assoluto. La stimava utile per le ricchezze e i privilegi che aveva portato: e, come madre di estensi, la giudicava nobilitata nella considerazione di tutti e nella propria. Alfonso era un temperamento robusto ed uno spirito lento, due qualità che quando vanno: insieme danno al mondo uomini massicci, nei quali la mancanza di comprensione psicologica è piuttosto una cosa naturale, fatale, che non un difetto. Aver trovato docile e pieghevole quella moglie non desiderata era stata una sorpresa attraente; ma più tardi aveva dovuto scontrarsi contro quella flessuosa passività femminile che sconcerta e irrita uomini forti. Aveva tuonato allora contro la corte spagnolesca, contro i poeti compiacenti, contro le compagnie, contro le idee che straniavano la moglie dalla vita ferrarese; e, con l'aiuto del cardinale Ippolito, s'era liberato un pò alla volta di tutto ciò che minacciava l'ordine di famiglia E poi, dopo tutto, Alfonso s'era abituato fisicamente la moglie: senza parlare di fedeltà (si ricorderà come nelle prime settimane di matrimonio egli andasse a sollazzo con donne di ventura, approvato dal suocero), mantenne con lei continuati rapporti coniugali considerando probabilmente questo come un suo preciso dovere. Così le maternità di Lucrezia si succedevano difficili . regolari, interrotte solo al tempo della guerra contro Giulio II. Ci si può domandare come a vedere la moglie sofferente, non gli venisse in mente di risparmiarla; perché non gli veniva in mente di sicuro: forse non capiva nemmeno che ella cercava, per quanto potesse, di sfuggirgli con il pretesto di visite ai monasteri, di villeggiature, di periodi di cura e d'isolamento. Come tanti uomini intolleranti di quello che sembra loro un enigma femminile, Alfonso era rassicurato sulle donne soltanto se considerava la loro capacità generativa: necessaria, anzi insostituibile. Rassicurato, poteva accettare di loro anche cose che lo inquietavano, e prima di tutto il potere di seduzione che Lucrezia certamente ebbe su di lui. L'abitudine, poi, dà a certe nature fortemente maschili non la

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sazietà ma come un progressivo stimolo, persino uno stravolgimento sensuale. Qualunque sia stato, questo Segreto coniugale divenne una sentenza.

Al compiersi dei suoi trentanove anni, Lucrezia si trovò alla sua ottava gravidanza. Era debolissima: pure, paziente ed ottimista, si curava attentamente e sperava di portare a buon fine anche questa impresa. Alfonso era in Francia, e lei si occupava dello stato; seguiva i regressi dell'Infante Romano a Parigi, e corrispondeva con Francesco Gonzaga che rapidamente si avvicinava ai suoi ultimi giorni. Gli scriveva affettuosamente confortandolo il 24 gennaio 1519: e il 29 marzo egli moriva consunto dal malfrancese. Così, Borgoforte era passato tutto: non restava più nulla da promettersi l'uno con l'altro, nemmeno quell'incontro inebriato da ricordi che avevano sempre sperato di rinnovare in un tepore amoroso e pio. Ricorreva nella Mente, lontanissimo, il tempo che l'amica aveva fatto scrivere da Ercole Strozzi all'amico: "Mi piaci perché sei segreto"? Ora, il segreto diventato di pietra, i ricordi erano tutti da sentire sola, ed ella lo sapeva tanto che nella lettera di condoglianze che mandava ad Isabella non aveva fatto scrivere che frasi di circostanza appena rilevate da un "avrei bisogno io stessa di essere consolata", che giustamente sentire di Lucrezia. Isabella, per suo conto, nell'uso epistolare del tempo, doveva interpretare a fiori aveva bisogno di essere tanto consolata, riprendere in mano il Potere, dare la caccia ai consiglieri del marito, e per primo all'odiatissimo Tolomeo Spagnoli, risentirsi valida e potente, non le lasciava lacrime negli occhi: ancora non immaginava che il figlio Federico, nuovo marchese di Mantova, avrebbe presto voluto regnare da solo.

Qualche cosa stava cambiando, Lucrezia lo sentiva. Non s'era visto nulla, i giorni parevano incatenati l'uno con l'altro in una successione naturale, s'era anche quietato il terror panico di esistere che a volte, quando la vita le sollevava nelle vene il sangue con una violenza straripante le aveva fatto desiderare e domandare quasi per sfinitezza voluttuosa il disfacimento della morte. Ora che non ardeva più con quel fervore. tante cose che prima le erano parse strane e insoffribili rivelavano di sé il senso esatto; e le gerarchie morali non si confondevano più nella sua mente in un disordine dal quale fosse impossibile trarre fuori e scegliersi un esempio o un modello.

Esempi e modelli, come non averlo capito prima, stavano lì sugli altari e nelle vite dei Santi. La via dell'amore divino si era aperta a Lucrezia: logicamente, data la preparazione religiosa formale, ma assidua, dei suoi anni romani e più vicina e più spiritualmente feconda dei platonismi del Bembo. Credere nell'immortalità dell'anima, era per lei ancora una volta, l'estrema, credere nella vita. Che per Lucrezia la religione fosse speranza e ardore, lo dimostra la sua devozione per san Francesco: sotto la guida di

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frate Lodovico della Torre, si iscrisse nel 1518 al terzo ordine francescano, quello dei laici; cominciò a portare il cilicio sotto la veste ducale, a confessarsi tutti i giorni le era sempre piaciuto parlare dei suoi amori con qualcuno che fosse segreto ed iniziato a comunicarsi spessissimo. Ma ad un tratto l'ordine e l'equilibrio ai quali le pareva d'aver approdato si sovvertivano come nei suoi più malvagi giorni. Arrivò al maggio inquieta. Le assicurazioni dei suoi religiosi e dei suoi confessori non le bastavano, cercava qualche cosa di più, un pegno più forte, una protezione validissima, la più valida. Forse qualcuno le suggerì allora (se non fu un suo angosciato modo di ritornare alle origini) di chiedere al Papa una benedizione speciale, sorta di salvacondotto per attraversare sicura giorni che si annunciavano male, A fine maggio ella chiamava nelle stanze il vescovo di Adria, Nicolò Maria d'Este, e con lui concertava una lettera che doveva celare, sotto le parole pie, l'ansia e l'inquietitudine di chi la dettava. Scritta la lettera, un cavallaro fu spacciato apposta da Ferrara a Roma come ai tempi di Papa Borgia; e come allora, si fa il nome di Lucrezia in Vaticano, presso il soglio pontificio, dall'ambasciatore ferrarese, non più il Costabili, ma Alfonso Paolucci.

"Santità" dice l'ambasciatore "la signora Duchessa che è gravida e non sana, si scusa di non potere di sua mano scrivere alla Santità Vostra." "Ah, la è gravida?" domanda il figlio di Lorenzo il Magnifico: e, mentre l'ambasciatore spiegava la malattia di Lucrezia e riferiva il contenuto della lettera, Leone X riandava con la mente per certi strani cammini della storia borgiana, e concludeva i suoi pensieri con quel sorrisetto che gli si spandeva a fatica per il viso in una lenta onda impedita dalla gravezza e dalla mollezza della carne. Col volto allegro, dice il Paolucci, e con gran premura, rispondeva poi un papale "Ne piace, Dio la conservi", e tracciava nell'aria il gesto della benedizione. Lucrezia cercava di superare con la calma quei giorni e passavano a fatica. E i medici, maestro Palmarino e maestro Ludovico Bonaciolo, accorgendosi che le cose si complicavano, già pensavano di affrettare il parto, quando la sera del 15 giugno nacque, di sette mesi, una bambina patita e smunta che rifiutava di nutrirsi e pareva volesse rifiutare anche di vivere. Fu deciso di battezzarla subito. Era notte, Lucrezia giaceva in un lago di sopore malefico, mentre fra il viavai affaticato della gente di corte si accendevano le poche candele e si preparava la cerimonia. Eleonora Pico, che. era in quel momento di servizio, fu la madrina, e i padrini i primi gentiluomini trovati presso le camere ducali, Alessandro Feruffini e Masino del Forno, pronto a tutti gli eventi. La piccina si sarebbe chiamata Isabella Maria.

La febbre che cominciò subito ad assalire Lucrezia la trovò pronta a resistere. Non era vero, come dissero dopo, che la vita religiosa dei suoi ultimi anni l'avesse preparata a morire. Si affermava viva, confortandosi della più umile stilla di sangue rosso, prendendo coraggio dal più lieve

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sospiro che le riuscisse di tirare intero. La testa le doleva, tirandola all'indietro, tormentandola tanto, che le furono tagliati i capelli: mentre le forbici la liberavano, cominciò a sanguinarle il naso. Ma durava; durò ancora una settimana, e solo il 22 giugno, sul tardi, si seppe che moriva davvero, che aveva perduto la vista e la facoltà d'intendere: pure, anche da quel gorgo giunse faticosamente a riemergere, a ritrovare la vista e l'udito, per serbarsi, affannata, languente, di qua dal limite mortale. Fuori s'aprivano, nel giugno ricco e avvampato, il calore confidente del sole, la vita terrestre con i suoi succhi e i suoi frutti gonfi e maturi: per quelli che restavano tutto andava bene, in qualunque modo andasse. Perché dunque Alfonso d'Este aveva il viso sbiancato da quel terrore inumano? Voleva ricordarle che era lei a dover morire? Si era confessata, comunicata, aveva fatto testamento con grossi lasciti ai monasteri e forse sapeva che si era chiesta per lei in Vaticano, con una lettera scritta da qualcuno di corte, la benedizione in extremis. Eppure, no, non le riusciva di rassegnarsi: lei così tenera non chiedeva nemmeno e i cortigiani lo notarono di vedere i suoi figli: chiedeva solo un giorno un'ora un minuto di grazia. La sera del 22 giugno radunò tutti i suoi spiriti, si nutrì d'un brodo ristretto, fu tanto tranquilla che tutti si domandavano se l'avrebbe davvero scampata. Invece il giorno dopo cominciò ad agonizzare. "La poveretta va stentando" scrivevano i relatori. Passa il 23; e trascorse il 24 giugno col suo sole allegro e chiaro avviato al giro consueto. Lucrezia si era quietata, pareva stesse ormai senza capire. Eppure, laggiù dove lei giaceva, qualche cosa doveva ancora arrivare a toccarla: era il colore del cielo di Subiaco, e si sentiva in basso rotolare l'Aniene, mentre al riso carnoso di Vannozza seguivano, scoccati, i baci materni dall'odor di vaniglia. Era il rosso della porpora cardinalizia abbagliato e vinto dal bianco trionfale della veste pontificia, e il gran viso di Alessandro VI tutto aperto alla luce d'agosto. Si componevano le volte ora finite e indorate dal pennello del Pinturicchio, tinnivano vicini i campanelli d'argento del duca di Gandia, e s'incrociava, denso e PerigliosO, lo sguardo di Cesare Borgia. Roma andava vaporando in una polvere rosea, di sera, mentre la campana del Campidoglio commentava ed esaltava i fasti borgiani. Forse a questo rombo che sembra arrivare da un tempo remotissimo, da un'eternità umana, con una voce Che ha tanto di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel nevoso mattino d'Epifania. E come allora sospirò appena, quando qualcuno disse che bisognava partire.

Quaderno di Lucrezia Borgia

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Nota generale

Gli accusatori e i difensori dei Borgia non si contano. divisi in due partiti, si può dire che gli storici borgiani abbiano avuto in comune la pertinacia e l'ardore delle loro convinzioni, pertinacia ed ardore che hanno infirmato in loro non dico l'imparzialità, questo mito nella storia, ma l'onestà del giudizio la comprensione degli individui e l'intelligenza delle cose. A cominciare dalla Vita di Cesare Borgia scritta nella seconda metà del Cinquecento dal pesarese Tomaso Tomasi (stampata alla macchia, e ristampata poi con qualche aggiunta dall'avventuriero Gregorio Leti) vita che è tutto un romanzato atto d'accusa contro i Borgia, per arrivare alle difese estreme di un Cerri o di un De Roo, e più recentemente dello spagnolo Sanchis y Sivera il quale nega non solo i delitti dei Borgia ma anche i loro peccati, corrono inchiostro a fiumane e carte a cataste: e pochi, come un Alvisi un Gebhart un Woodward ed anche un Pastor, ríescono a tenersi in un cauto equilibrio, così timidamente, però, da fallire quasi sempre l'interpretazione della vita borgiana. Scrivendo questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare PIO esso a, Borgia. quanto di rappresentarti nel loro modo quotidiano caldo e naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana li individui, non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ella è stata di tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai paladini: un vero destino da donna. Perché le calunnie, le vaste patenti calunnie che gonfiano la sua figura nel dramma di Victor Hugo, sono nulla, e almeno le lasciano una palpitante vitalità, a confronto della dissanguata riabilitazione che ha fatto di lei il più attendibile dei suoi storici: Ferdinando Gregorovius.

La riabilitazione del Gregororius vien dietro in ordine di tempo all'onesto studio pubblicato nella "Nuova Antologia" dell'agosto 1866 dal marchese Giuseppe Campori sotto il titolo programmatico Una vittima della storia. Dallo scritto del Campori, dimostrativo della diligente conoscenza che lo studioso modenese aveva dell'archivio e dei fatti estensi, la figura di Lucrezia viene fuori assai diversa dalla figura allora corrente di Erinni incendiata di lussuria, ma come appassita ed intimidita da un'indagine puramente esteriore. Il Gregorovius, fattisi copiare dagli archivi di Modena e di Mantova i documenti riguardanti Lucrezia e la sua famiglia, ai quali aggiunse quelli da lui rintracciati negli archivi di Roma, e ripresa per suo conto e con una sua pesantezza puritana la tesi del Campori, si pose a scrivere, e pubblicò nel 1874 la sua famosa Lucrezia Borgia, opera nella quale non solo la responsabilità delle colpe ma anche una vita propria fu negata a colei che aveva tanto sentito il valore dell'esistenza nei suoi passaggi sensibili per le stagioni nel mondo. In se stesso, questo libro

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avrebbe avuto il suo merito, che sta soprattutto nella buona (sebbene talvolta male interpretata) documentazione: ma, stabilito come principio di tutte le storie borgiane, fu fatale per quelli che volevano ristudiare la vita di Lucrezia e dovevano passare sulle vie battute dallo storico tedesco, rimanere impigliati a quelle deduzioni e a quelle conclusioni.

Stando così le cose, mi è sembrato utile ricominciare da capo: non solo rivedere tutto ciò che è stato scritto sui Borgia da secoli, ma rifarmi dalle fonti una per una: e dunque dalle storie e dai diari contemporanei o di poco posteriori ai Borgia, il Machiavelli, il Guicciardini, Paolo Giovio, Sigismondo dei Conti, i cronisti romani Stefano Infessura e Sebastiano di Branca Tedallini, il cronista umbro note, sotto il nome di Francesco Matarazzo, l'orvietano Tommaso di Silvestro, i veneziani Malipiero, Sanudo e Priuli, i napoletani Notar Giacomo e Passaro, Jacopo Gherardi da Volterra, il ferrarese Zambotto, lo spagnolo Zurita, etc, non perdendo mai di vista, s'intende, il celeberrimo e combattuto diario, Liber notarum, del cerimoniere pontificio Giovanni Burckard, detto italianamente il Burcardo, la più solida trincea dei nemici borgiani. Ma questa opera sarebbe stata solo di compilazione se non vi si fosse aggiunta la ricerca sui documenti originali, quelli sui quali aveva già lavorato il Gregororius per la maggior parte all'Archivio Estense di Modena, e altri ancora nello stesso archivio mai esplorati dallo storico tedesco: e poi quelli dell'Archivio Gonzaga di Mantova, quelli dell'Archivio Segreto Vaticano, dell'Archivio di Stato di Firenze, dell'Archivio Sforzesco di Milano. La corrispondenza personale scritta o ricevuta dai protagonisti fa parte delle ricerche, e principalissima parte: ma non è né copiosa, né, soprattutto, continuata. Fonte più viva e numerosa è data invece dalle informazioni degli oratori e dei corrispondenti i quali erano comandati dai loro principi nei vari stati d'Italia perché raccogliessero inviassero in patria notizie non solo politiche militari ed economiche, ma anche private delle famiglie regnanti. A Roma, come sede papale, c'erano gli oratori e cioè gli ambasciatori di tutta Italia, milanesi napoletani veneziani mantovani ferraresi fiorentini etc. Tutti aduriavano notizie e mandavano relazioni. Catalogate e messe in archivio, queste lettere ci sono giunte in buon numero; e sono, a leggerle, ancora animate, quasi nude di formule protocollari, veloci e succose, di scrittura contaminatissima fra regionalismi e latinismi (spesso i corrispondenti erano gente di curia) ma di una vivezza che sente il caldo di un linguaggio appassionatamente parlato. Citerò per il periodo romano di Lucrezia, fra editi e inediti, l'aureo Giustiniano. il vivido e pungente Cattanei, Giannandrea Boccaccio vescovo di Modena, Ettore Bellingeri, il togato Gerardo Saraceni, il sottile Gian Luca Castellini da Pontremoli, il rotondo ed ufficioso Beltrando Costabili, i fiorentini Filippo Vatori, Alessandro Bracci, Francesco Pepi, e gli altri, di ogni paese, G. Carlo Scalona, Fioramonte e Giorgio Brognolo, Stefano Taverna, Cesare Guasco, Manfredo Manfredi etc. Per il periodo ferrarese di Lucrezia. varrà prima di

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ogni altro Bernardino de Prosperi che tutti i giorni ragguagliava la marchesa di Mantova sui fatti della vita ferrarese e specie della corte: e poi, il cicalante "Prete da Correggio", Benedetto Capilupi, Sertorio Marziali, G. B. Stabellino ed altri minori, ma tutti importanti per restituirci il clima della vita del Rinascimento intorno a Lucrezia. Sulla scorta di queste e di altre numerosissime testimonianze contemporanee senza dimenticare quelle degli umanisti e dei poeti, si possono sentire trascorrere i giorni e le ore della vita di Lucrezia Borgia, e coglier lei, come donna, nei suoi gesti intimi e familiari, nei suoi umori d'animo, e quasi nel suo muover di ciglio. Aggiungerò che particolari di vestiti, di adornamenti, e del traffico di donzelle e di cavalieri in corte ho tratto dai registri di guardaroba e dai registri di spese disgraziatamente scarsi ed incompleti. nonché qualche notizia importante come le rivelazioni sulla vita e sull'educazione di Giovanni Borgia Infante Romano. Quanto ho scritto, sia detto una volta per tutte, è appoggiato su documenti autentici ai quali solo nei casi più importanti ho accennato per non intralciare con i riferimenti troppo reiterati la continuità del racconto. In nota poi ho dato altre indicazioni, preferibilmente di quei documenti che portano del nuovo, e che avevo dovuto sacrificare all'economia del lavoro. E qui ringrazio i molti amici degli archivi d'Italia che mi hanno assistito nelle mie ricerche con una stessa cortesia sotto i diversi cieli di Milano Modena Mantova Firenze e Roma.

Se la Perdita di Lucrezia dispiacque a tutti, fu un dispiacere moderato e come stupito di riconoscersi presente e vivo. Nelle manifestazioni di cordoglio Pubblico si procedette però con grande sobrietà, tanto che l'inviato del marchese di Mantova, Giovanni Gonzaga, concludeva essere inutile la propria missione di rappresentanza a Ferrara. Alfonso provò più dolore di quello che forse egli stesso s'aspettava, ma passati appena sette giorni se ne andò a Belriguardo e non volle più sentir parlare di condoglianze. Un'ultima disavventura toccò a Lucrezia: perché dieci giorni dopo la sua morte, all'apertura del testamento, il duca trovò tanto eccessivi i lasciti ai monasteri e a li amici personali di lei, da non autorizzare la successione. Era questo un arbitrio che gli Estensi si prendevano quando volevano, e che anche Ercole I s'era preso al tempo di Eleonora d'Aragona. Gli spagnoli di Lucrezia, questa volta davvero se ne dovettero andare per sempre, il tolto Jeronimo Borgia che per essere molto amato dal duca fu da questi addetto alla sua corte personale. Data da allevare la piccola Eleonora alle monache del Corpus Domini, gli altri fanciulli ebbero le loro corticine e i loro precettori: e Alfonso passò, qualche mese dopo la morte della moglie, nelle braccia della bella figlia del berrettaio, Laura Dianti, magnifica ed opulenta donna che egli si piacque di chiamare Eustochia e fece com'è tradizione, ritrarre dal Tiziano bello sfoggio della sua possente e taciturna carnalità.

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Tavole di alberi genealogici

Queste tavole sono state rifatte seguendo i testi più sicuri (Béthen-Court, Oliver y Hurtado, Sanchis y Sivera, etc.) e tenendo conto di documenti, pubblicati o inediti. A Tavola 1, si troverà per esempio una Isabella Lucrezia de Borgia Lanzol poco conosciuta dagli storici borgiani. La sua esistenza e il suo grado di parentela si affretta lei stessa a provarli nella sottoscrizione di una lettera scritta di sua mano nel 1494 dalla Spagna e indirizzata ad Alessandro VI. Con il tono Mortificato ed offeso delle mogli maltrattate di tutti i tempi, ella si lagna perché il proprio marito, Joban de Mila, incurante delle ingiunzioni venutegli dal Vaticano, la lascia in miseria: sicché ella prega il pontefice di fare in modo che il ribelle gli obbedisca provvedendo alla trista vida" di lei. Ella si sottoscrive "Ysabel Lucretia de Borianzo1 fitta vera e quanto alla carne neboda", specificando per disteso la sua posizione in famiglia (Arch. Segreto Vaticano, AA. ArmI.NVIII, 5027, f. 11). Il Confalonieri, catalogando le lettere, ha scambiato questa Isabella Lucrezia con la figlia di Alessandro VI.

A Tavola II si troveranno tre novità: e prima di tutto l'indicazione precisa, tra l'alla e l'omega della nascita e della morte dell'ultimo figlio di Alessandro VI, Rodrigo; in secondo luogo, l'indicazione di un figlio di Cesare Borgia, Gaspare Jofré, nato nel 1497, e rintracciato dal Pastor (Suppl. ai voll. i e II, pag. 303). Infine si troverà espresso con parentesi ed interrogativo il più forte dubbio sulla paternità da parte di Alessandro VI della piccola Laura Orsini figlia di Giulia Farnese: e ciò in base alla lettera del Papa a Giulia stessa del 20 ottobre 1494 (v. pag. 79), e per altri indizi, come per esempio aver più tardi il Papa Giulio II, così profondamente repugnante del sangue e del nome Borgia, approvato e sollecitato le nozze di un suo nipote con la stessa Laura.

A Tavola III, ho elencato tutti i figli di Lucrezia, anche quelli che, per essere morti in età infantile, sono trascurati dai biografi. Dell'ultima, Isabella Maria, che sera creduta fino ad oggi morta sul nascere, i documenti dicono invece che fu battezzata e che visse qualche tempo: quanto non sappiamo; ma poiché il 17 novembre 1519, Alfonso, rispondendo ad una lettera della sorella Isabella che gli chiedeva se avesse intenzione di rimaritarsi, affermava essere lontanissimo da idee matrimoniali alla sua età, e con cinque figli da allevare, dobbiamo concludere che a quell'epoca la bambina era ancora in vita con gli altri quattro figli di Lucrezia, Ercole, Ippolito, Eleonora, Francesco. Tanto la piccola Isabella quanto uno dei due Alessandro (forse quello che aveva vissuto due anni) furono sepolti con la

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madre il padre e la nonna aragonese nella sacrestia del Corpus Domini, come dice la lapide che ancor oggi vi si vede: "ALPHONSO DUCI FERRARIAE AIUTINAE REGII MARCHIONI ESTENSI ETC... ELEONORAE ARAGONAE MATRI LUCRETIAE BORGIE UXORI ALEXANDRO ET ISABELLAE FILIIS". Una lettera di mano di Lucrezia esiste nella biblioteca dell'Università di Cincinnati (Ohio, U.S.A.). La lettera, datata da Ferrara, 14 ottobre 1515, è firmata ed autografa come risulta dalla notizia stampata in Gensus of Medieval and Renaissance manuscripts in the United States and Canada, vol. II, pag. 1925. Un'altra lettera, del 1502, è a Ferrara, nella collezione di Enzo Bonfiglioli.

Libro d'ore di Lucrezia Borgia da S. Em il cardinale Giovanni Mercati (L'uffiziuolo di L. Borgia, Bibliofili II libro d'ore di Lucrezia Borgia è stato ravvisato a, 1938, Dispensa 56). Appartenne alla duchessa di Ferrara, nel periodo tra il 1502 e il 1519, come dimostrano gli stemmi dipinti nella pagina miniata. Lo stemma a destra della pagina porta il toro e le fasce dei Borgia-Doms, quello a sinistra, le aquile e i gigli estensi: il grande stemma a piè di pagina, sormontato da una corona ducale un po' sghemba, inquarta insieme gigli aquile toro e fasce. All'esame stilistico la pagina miniata (la più ricca del libro d'ore che ha poi dodici iniziali dipinte ed istoriate) presenta i caratteri di un'arte lombarda di non estrema finitezza, e può essere attribuita ad un artista operante tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Certo chi compì il lavoro sapeva che era destinato ad un devoto di San Francesco (Lucrezia era terziaria francescana) poiché tutti i santi francescani vi figurano; la festa delle Stimmate, fra le altre, è segnata in rosso; anche una particolare devozione lombarda ispirava chi lo compose, tanto da fargli mettere nella lista dei santi gli arcivescovi di Lombardia con i loro titoli. Sulla descrizione del catalogo della Free Library di Filadelfia (che possiede per donazione della vedova del collezionista i. F. Lewis il libro) ho cercato d'identificare l'uffiziuolo con uno di quelli del mio elenco di gioielli e cose preziose appartenute a Lucrezia dal 1516 al 1518: ma la legatura di velluto cremisi, indicata dal catalogo americano, non ha riscontro, né con l'"officio della Madonna bellissimo in carta bona scritto a mano con minij bellissimi coperto de velluto verde et cum li azulli d'oro battuto" (n. 380), né con l'"officio della madonna aminiato coperto di velluto morello con uno azulletto piccolo de ottone smaltato" (n. 379), né, tanto meno, con l'"officiolo de la Madonna in lettere francese novamente coperto de veludo negro" (n. 394), o con l'"officiolo scripto apena (a penna) cuin li septe psalmi et altre oratione novamente facto: coperto de veludo negro com li azulli de argento cum larma de Papa Julio" (n. 391). Del resto, può anche essere proprio uno di questi, per il quale debba valere un'indicazione di "coperto novamente" che nessuno può darci, rimasta tra la penna e il foglio di un ignoto guardarobiere di corte.

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Iconografia di Lucrezia Borgia

Nessuna scoperta, confortata di dati incontrovertibili, è venuta a darci l'immagine di Lucrezia come da anni gli storici si vanno augurando. Quando avremo elencato il dubbio ma non tanto l'affresco del Pinturicchio nell'appartamento Borgia, i due ritratti, al Museo di Nimes e nella collezione Rebuschini di Corno, copie antiche e simili di un originale smarrito dal quale derivano anche altri esemplari indicati dall'Yriarte (Les portrails de Lucrèce Borgia in Autour des Borgia), il perduto ritratto Antonelli di Ferrara (Pasini Frassoni, "Riv, del Collegio Araldico", XV, 20 giugno 1917); quando avremo aggiunto alle pitture le medaglie, dell'Amorino bendato e della reticella, e la targa votiva di San Giorgio Maggiore a Ferrara, tutto sarà stato detto. Ma forse perché è vero che in queste immagini le sembianze di Lucrezia sembrano più imprigionate che rivelate, ogni tanto qualcuno crede di scoprire in questa o in quella collezione il nuovo il vero vivido ritratto di lei. Così il Portigliotti che, nella Galleria Cook di Richimond, ha identificato Lucrezia nella cosidetta Schiavona di Tiziano, con argomenti giudicati a puntine dal Catalano, e dal Pastor tutt'altro che convincenti. Qualcuno ha perfino chiamato Lucrezia una vaga ed ambigua creatura, certo una giovanissima cortigiana, dipinta da Bartolomeo Veneto in figurazione allegorica di Primavera (Museo di Stato, Francoforte), nudo il delicatissimo seno, e greve di precoci consapevolezze lo sguardo oscuro. Adolfo Venturi (Galleria Estense in Modena, Modena 1882, pag. 39) afferma che il vero ritratto di Lucrezia si trova a Stoccolma. Su un ritratto mal attribuito a Dosso Dossi, ritratto che non è certo contemporaneo di Lucrezia, ma è tutt'al più una "restituzione", e fu dipinto almeno trent'anni dopo la sua morte, v. Yriarte, op. cit., e H. Mendelssohn: Das Werk der Dossi, Niúnchen 1914, pag. 191, e Did tbc Dossi Brotbers Sign tbeir Piciures? in "Burlington Magazine", maggio 1911. Tuttavia, secondo l'uso quasi obbligato degli studiosi borgiani, ho anch'io la mia scoperta iconografica da offrire all'indagine e ai raffronti dei lettori; e dico subito che, mancandomi prove di documenti, la mia indicazione ha solo il valore di una proposta, peraltro assai ragionata come si vedrà. Si tratta di un quadro esistente alla National Gallery di Londra, non esposto, ma conservato con molti altri nei depositi della galleria, contrassegnato nel catalogo col numero 123. Dato come un originale di Bartolomeo Veneto, il ritratto è certo dei primi anni del secolo XVI, anzi, a dedurre dall'abbigliamento, del periodo 15001515, e il suo luogo d'origine l'Italia settentrionale tra il Veneto la Lombardia e l'Emilia, più vicino alla Lombardia e meglio a Mantova o a Ferrara che non a Venezia. La persona ritratta è una dama, e certo una gran dama a giudicare dalla sottile scaltrita

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eleganza del suo vestito e dei suoi ornamenti; ella posa leggermente volta di lato, vestendo un abito di magnifico velluto nero controtagliato su fondo laminato o giallino, aperto su amplissime maniche bianche corse da un sinuoso elegante fregio nero e oro di palmette piumate. Le cinge la fronte alla radice dei capelli una ghirlanda d'oro smaltata di colori nelle fogliette, e rilevata da perle inserite come bacche tra una foglietta e l'altra; dal collo le scende una collana di "botticelle" d'oro infilate a quando a quando in un cordone: di forma quadrangolare, ciascuna delle "botticelle" è smaltata in tre delle facce dove a fiori, dove a chiodi, scalette, croci, i simboli della Passione, mentre in una faccia è smaltata a lettere, le quali seguitandosi in giro per tutta la collana dovevano formare un motto forse latino a giudicare dai frammenti di parole che riusciamo a decifrare. Sul Petto l'abito s'apre in una larga scollatura temperata da una gorgerina di velo bianco crespata e ornata di lavori d'oro equidistanti nei colori alternati bianco su rosso e rosso su bianco: a due con veri in forma di fiori chiusi di melograno sono riuniti a due nastri di velluto nero appiombati da puntali d'oro pallido. La cintura è di pezzi d'oro filogranati infilati in un cordone di seta oscura, Giovane, la dama mostra però un viso non freschissimo, come logorato nell'espressione sebbene assistito dall'arte del liscio e carezzato dal pennello del pittore. Il collo e la gola delicati e carnosi, l'occhio chiaro misto di grigio e di verde, i capelli biondi di un tono che nelle ciocche pendule presso le tempie prende un dolcissimo riflesso d'oro leggero, il naso agile e profilato, la bocca dal labbro inferiore tumidetto leggermente stanca (e non vuol forse parerlo) e specie il mento un poco scarso e sfuggente ma già aggravato dal rigoglio della carne matura, riconducono puntualmente il pensiero ai ritratti conosciuti di Lucrezia duchessa, le pitture di Nimes e di Corno, la medaglia dell'Amorino bendato e quella della reticella, la targa di San Giorgio Maggiore a Ferrara: perfino, troviamo in questo ritratto una evidente somiglianza con il discusso ritratto pinturicchiesco di Lucrezia quattordicenne alle stanze Borgia in Vaticano.

La concordanza dei lineamenti è dunque per ora la maggior prova a favore della nostra identificazione e la più sicura per il nostro giudizio. Il tempo e lo stile del dipinto e il nome dell'autore quale ci è dato dal catalogo, Bartolomeo Veneto, operante in corte di Ferrara tra il 1506 e il 1508, e proprio nelle stanze della duchessa, tornerebbero a puntino: né, passando in rassegna, col cifrario dei medaglieri alla mano, le più celebri dame del tempo mi è riuscito di dare a questa figura altro nome da quello di Lucrezia. Perfino la pettinatura (e porto anche questo argomento sebbene sappia che pesa leggero) è la stessa che Lucrezia ha nella medaglia dell'Amorino bendato (un poco più arricciata alla lombarda e con la ciocca pendula anziché ripresa sulla nuca) con i capelli allentati in una grande composta onda che si condurrà poi a raccogliersi in una treccia bassa lungo il filo della schiena. Quanto ai gioielli, scelti con una intenzione cattolica ed umanistica tanto

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prossima a Lucrezia i simboli della Passione, il motto latino e avevo sperato di trovarli descritti nel catalogo di guardaroba del 1516-19 (elenco da me pubblicato in Lucrezia Borgia, ed. 1960, Mondadori), ma non sono giunta a conclusioni precise perché purtroppo i guardarobieri insistevano meglio sul peso e sulla grandezza degli oggetti da registrare che non sulla loro forma, e perché sappiamo che Lucrezia faceva continuamente disfare e rifare i suoi gioielli dagli orafi di corte. Se il ritratto è stato dipinto come credo prima del 1515 (io lo attribuirei al tempo 1505-1508) è naturale che il catalogo possa non corrispondergli esattamente: e non sappiamo se sia un indizio per noi la notizia che Lucrezia faceva disfare nel 1516 una catena di "botticelle" "grandi e belle smaltate di vari colori" per farne braccialetti; (n. 126 del catalogo): né se la ghirlanda dei capelli sia da riconoscere nella "trena di oro battuto fatta a festoni smaltata di vari colori con perle lunghe o tonde non tutte eguali e belle" del numero 21: o le guarnizioni della gorgera in quelle alternate di bianco e di rosso descritte al numero 189, e perfino la gorgera stessa in quella di "cambraia schietta increspata" al numero 324 etc. Ricognizioni incertissime. Sono positivi dunque, lo stile e l'epoca del ritratto, e la sua indubbia somiglianza con le immagini di Lucrezia, specie con quelle più rigorose delle medaglie: alla quale somiglianza sarà da aggiungere una rispondenza che a me pare evidentissima con il ritratto psicologico di lei quale ci siamo andati formando seguendo il racconto della sua vita. Quello sguardo che sfiora le cose e ad esse si rifiuta, sguardo lungo, tutto attento a rapporti segreti, quell'aria straniata e straniera di chi si adatta per saggezza alla sua forma presente ma non vi consente del tutto e resta al di qua della propria rappresentazione nel mondo; la grazia e la nobiltà dell'atteggiarsi senza nessuna gravezza del busto e delle spalle, e pur nel viso maturo e segreto quella diffusa levità di giovinezza, ci darebbero l'immagine di Lucrezia duchessa di Ferrara al tempo che ella andava ricapitolando la sua vita senza aver finito ancora di sperare nel futuro? é questa la sua vera, la sua definita e pur misteriosa immagine? Vorrei rispondere di sì.

Trecento anni di seta

Datata da Ferrara, 2 agosto 1502, l'anno delle nozze di Lucrezia con Alfonso d'Este, è una lettera di lei agli Anziani di Reggio Emilia, lettera che nell'Archivio di Reggio Emilia appunto si conserva. In questo documento, autografo solo nella firma, Lucrezia raccomandava un geniale irrequieto, Maestro Antonio da Genova, cittadino ferrarese, che voleva andare a Reggio per esercitarvi l'arte della seta. Perché questa scelta, non sappiamo; ma la presentazione di Lucrezia portò fortuna al maestro setaiolo che si stabilì a

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Reggio, dove, crescendo coi suoi telai nei primi tempi a tre per mese, e provvisto di uno stipendio del Comune, fu l'iniziatore di una doviziosa storia tessile che doveva produrre e per tre secoli una solida ricchezza artigiana. Da quel 1502, difatti, mutava e si rinsanguava l'economia di Reggio Emilia per l'esportazione dei prodotti serici famosi in Italia e in Europa. (Cfr. Ars siricea Regii di Armida De Medici Bagnoli, nel Catalogo della mostra dell'Arte della seta a Reggio Emilia, ottobrenovembre 1966).

Nota all'edizione del 1960

A distanza di vent'anni dalla prima edizione di questo libro, e dopo i consensi che lo hanno accolto e che tuttora lo accolgono in Italia e all'estero, appare giusto fare il conto delle nuove testimonianze affiorate in questo tempo sulla vita di Lucrezia Borgia. Dobbiamo dire subito che le scoperte sono state pochissime; e quelle pochissime, dove avevano un interesse, sono state conferme, dirette o indirette, di quanto qui è stato scritto: conferme, e, vorrei dire, controprove. Ecco le novità più importanti:

Il professor G. B. Picotti nella "Rivista di Storia della Chiesa in Italia" (anno V, n. 2, maggio-agosto 1951, pag. 259) riporta la lettera scritta il 21 ottobre 1494 da Alessandro VI al suo uomo di fiducia il canonico Francesco Gaulet che si trovava a Capodimonte presso Giulia Farnese al tempo del gran capriccio borgiano per la bella sorella del cardinale Alessandro (vedi qui pag. 72 e sgg.). di questa lettera estremamente aggrovigliata nella scrittura avevo già dato notizia e riportato alcuni passi assai significativi. Tuttavia, dalla integrale lettura del Picotti risulta fra le altre una frase inedita che, portando una nuova notizia sulle relazioni del Papa con la Farnese, annulla, una volta di più e definitivamente ogni tentativo di interpretazioni "politiche" di tutto questo episodio; interpretazioni che già documenti e logica come ho qui ampiamente dimostrato avevano escluso. Riferendosi infatti ad un'ipotesi superficiale del Pastor (Appendice al vol. 111 della Storia dei Papi, pag. 466) sui documenti pubblicati in fondo al volume stesso, e nei quali l'illustre storico parrebbe accennare ad una gelosia politica fra Borgia e Orsini che avrebbe coinvolto anche Giulia, si è tentato di dimostrare cosa che era lontanissima dalle intenzioni del Pastor stesso che tutta la storia del caldo amore del Borgia e della Farnese non sussista affatto. Dimostrazioni di persone traviate da una passione male intesa di riabilitatori. Dispiace trovare fra costoro, e a volte intemperante nel giudizio, il prof. Giovanni Soranzo (Studi intorno a Papa Alessandro VI, Milano, Soc. Ed. Vita e Pensiero, pag. 92 e sgg.); ma a lui risponde con la cristallina pacatezza della sua imparzialità e con l'autorità della sua dottrina il prof. G.B. Picotti, rifacendo tutta la storia da me narrata, sulla stessa mia traccia, che è la veritiera, e

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corredandola di molti particolari; il più importante lo troviamo appunto in una frase inserita nella lettera a Francesco Gaget dell'ottobre 1494. In questa lettera Alessandro VI nella concitazione della sua ira amorosa, dopo aver minacciato tutti coloro che si oppongono alla sua voglia di riavere Giulia, investe Adriana Mila, sua parente e suocera della Farnese, che gli appare non abbastanza sollecita nell'acconsentire ai suoi richiami e nel consigliare alla nuora il ritorno a Roma. Ed ecco le sue parole nel testo dato dal Picotti: (Adriana) "ha bé mostrat lo seu cativo animo e malignitat eri la letra que ns ha fet ara per Navarico, declarant nos expresament que ella non vol menar aci a julia contra la voluntat de Ursino. De la qual cosa ne havem pres gran amiraciò; car, essendo nos cardenal, contro la voluntat de Ursino nos servia de Julia e feya tot lo que nos voliem". é questo, non un passo da interpretare, ma un dato di fatto. Il Borgia ricorda alla sua parente che già dal tempo in cui era cardinale ella lo "servia de Julia" contro la volontà del marito Orsino e faceva tutto ciò egli voleva. Sarebbe curioso sapere come spieghino queste parole scritte dalla mano stessa di Alessandro VI gli incauti difensori di una sua moralità. La seconda scoperta è il casuale ritrovamento della lapide funeraria. di Vannozza Cattanei, la stessa che era stata posta nel 1518 sulla tomba di lei a Santa Maria del Popolo e che era poi sparita in un tempo a noi sconosciuto. L'iscrizione della lapide ci era nota (e si troverà citata a pag. 572) dal codice del così detto Anonimo Spagnolo, codice conservato in Vaticano, e trascritta di là dal Forcella nella sua opera Iscrizioni delle chiese e d'altri edifizi di Roma. Che non ci fosse ragione di metterne in dubbio l'autenticità, prova appunto la lapide stessa ritrovata nel pavimento della chiesa di San Marco, a lato di palazzo Venezia, dove era stata incastrata a rovescio per servire da lastra di pavimentazione: venuta alla luce nel 1948 durante certi lavori di risanamento della chiesa ed ora visibile a tutti murata nella parete destra dell'atrio di San Marco. di fronte a questa testimonianza sarà inutile strologare ancora intorno alla nascita dei fratelli Borgia. Scolpiti nel marmo sono i nomi dei figli di Vannozza: Cesare di Valentinois, Juan di Gandia, Jofré di Squillace, Lucrezia di Ferrara: duchi, figli nobili; e lei è la madre, definita donna insigne per religione e probità, pari d'età e di prudenza. La terza scoperta è mia, fatta su alcuni fogli di un registro di guardaroba rinvenuti nella curia arcivescovile di Ferrara da un giovane sacerdote, don Guido Turazzi. Si tratta di poche carte, cinque facciate in tutto, del registro relativo al 1507, annata del tutto mancante nell'Archivio di Modena dove sono gli altri registri da me lungamente consultati. é stata buona fortuna (e non sempre capita in così pochi documenti) aver trovato in questi fogli la testimonianza di un passaggio a Ferrara di Rodrigo di Bisceglie il duchetto figlio di Lucrezia e del suo secondo marito Alfonso d'Aragona. Il bambino, nato nel 1499 e battezzato con tanta pompa in San Pietro, viveva a Bari presso la zia Isabella d'Aragona, lontano dalla madre. Si credeva che invano Lucrezia avesse disegnato e richiesto di averlo a Ferrara o magari di andarlo ad incontrare a Loreto. Non si avevano

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notizie di lui a Ferrara mentre s'erano trovate già tracce della stabile dimora presso gli estensi di Giovanni Borgia, l'Infante Romano. Le modeste parole del registro di guardaroba ci testimoniano che il piccolo Rodrigo nel 1507 era presso la madre, vedeva le torri del castello estense, giocava sulla terrazza pensile, dell'appartamento di Lucrezia affacciato sull'acqua verde del fossato. Leggiamo infatti la lista delle spese per oggetti di vestiario che Lucrezia ripartisce tra i due fanciulli Borgia, il figlio e il fratello, viventi insieme sotto la guardia della balia Caterina e del paggio Cola. Sappiamo che al paggio erano state date alcune braccia di tela "per pezze da asciugare il capo" e così a "Sua Signoria don Rodrigo"; seta negra era stata consegnata nelle mani della balia di don Rodrigo per ricamargli camicie etc. etc. Il passaggio del duchetto di Bisceglie a Ferrara; ecco la notizia nuova che possiamo cogliere dalle cinque facciate del registro di guardaroba del 1507 dove troviamo confermata la pietà di Lucrezia nel raccogliere i relitti della sua famiglia; ce lo attestano i doni fatti a certo Pietro Nigri "che stava col duca di Romagna". Ma sempre, come in cadenza, tornano nell'elenco i doni per i bambini Borgia, soprattutto per Rodrigo: un saio, un giuppone, camicie ricamate, stringhe lavorate, e le famose "saragoglie", calzoni alla spagnola tagliati in una stoffa d'oro, tutto un corredo nuovo col quale Rodrigo dovette riprendere presto la via di Bari poiché nel 1508 ritroveremo elencati i viaggi dei cavallari che gli portano laggiù libri vestiti ornamenti e oggetti d'uso. Piccola scoperta, ma interessante è quella di una lettera inedita (in copia) di Jacopo Gherardi a Mario Maffei pubblicata da Luigi Pescetti ("Rassegna Volterrana", anno 1955). Questa lettera, datata da Roma, dell'umanista e curiale di Volterra, autore del noto Diario Romano, dà conto delle nozze di Lucrezia col conte di Pesaro avvenute nel giugno 1494, e dice ad un certo punto: "Acta sunt sponsalia pisauriensis ei Lucretie, non iam neptis, sed Pontificis filie". Un'altra testimonianza fra le mille che attestano il grado di parentela tra Lucrezia e Alessandro VI; questa è importante perché non soltanto è del primissimo tempo della storia dei Borgia, ma perché già da allora corregge l'indicazione che qualche prudente aveva usato per Lucrezia chiamandola "nipote" del Papa. Indicazione, del resto, che cadde proprio intorno al 1494; più tardi, infatti, in centinaia di lettere, cronache, corrispondenze, poesie, orazioni, iscrizioni, bolle e documenti di ogni genere i figli del Borgia sono suoi figli senza alcun velo o reticenza.

Non riguarda direttamente quest'opera, ma è troppo importante per non darne almeno l'indicazione, la scoperta delle lettere d'amore della gentildonna veneziana Maria Savorgnan a Pietro Bembo, nel periodo appena precedente all'incontro del poeta con Lucrezia. Questo gruppo di lettere è veramente prezioso per la nostra storia del costume Storia così scarsa di quegli epistolari femminili intimi e sciolti che danno il tono di un tempo, e il gusto, e magari il segreto, di una civiltà. Le ha edite con perizia e acutezza, Carlo Dionisotti (Carteggio d'amore, Le Monnier, 1950) ripubblicando, a

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riscontro, le lettere del Bembo a lei già stampate nel 1500 sotto il titolo Lettere giovanili. Le lettere del Bembo sono di buon lavoro, forse ritoccate più tardi per renderle più eleganti e levigate; ma l'uomo celebre deve qui cedere il posto alla donna oscura che si alza da queste pagine con una vitalità e genialità incantevoli. Genuine queste lettere non certo destinate alla pubblicazione; e raramente una donna, sia pure in una scrittura privata, si è manifestata creatura del proprio tempo manifestando se stessa come la geniale veneziana; leggendo, con indicibile gusto riconosciamo e segniamo a margine elementi di racconti bandelliani, commenti aretineschi, motteggi da Mandragola, battute da Calandria. La storia d'amore di Maria Savorgnan e di Pietro Bembo comincia nel 1500, e la prima data scritta è il 10 febbraio; finisce nel 1501, al 4 di settembre. Un anno e mezzo di passione; e intorno ai due amanti, calamitata dal caldo desiderio che essi hanno della reciproca presenza, vediamo muoversi la più vivida e realistica commedia del Rinascimento. Fu il Bembo a conservarci le lettere; ed egli stesso le ha anche corredate di qualche postilla brevissima e di indicazioni di date e di luoghi. Esse lo accompagnarono per tutta la sua lunga vita; poi, dopo oscuri viaggi nei secoli, deposte alla Biblioteca Ambrosiana, sono arrivate nelle mani dei Dionisotti, studioso attento e sensibile alla grazia del documento; così, vincendo le perplessità dei suoi predecessori e persino degli schedatori dell'Ambrosiana (che accantonarono il fascicoletto in una specie di limbo, senza nemmeno accennarvi negli indici) il fortunato ricercatore le ha pubblicate, restituendoci, straordinariamente viva, Maria Savorgnan: suonatrice e cantatrice, agile petrarchista e letterata acuta, compositrice di sonetti e di canzoni, istintiva e raffinata, lieta e generosa, savia e anche malinconica ai suoi momenti e subito dopo impennata in moti imprevisti, tutti estrosi: e sempre ritenuta in una delicatezza signorile e femminile: un carattere di donna del Rinascimento allo stato puro. Per l'iconografia di Lucrezia merita un cenno il breve studio di Giacomo Bargellese (Bartolomeo Veneto e il ritratto della Beata Beatrice Estense II e Lucrezia Borgia, Ferrara 1943). L'autore offre alla nostra attenzione un ritratto di dama attribuito dal Venturi a Bartolomeo Veneto, oggi nella collezione dell'Università di Notre Dame, Indiana. La dama rappresentata avrebbe tratti abbastanza simili a quelli di Lucrezia, una Lucrezia però più florida e meno conturbante di quella della National Gallery: ritratta in un momento disteso della sua vita, intorno al 15067. Secondo il Bargellese dovrebbe trattarsi di un ritratto ideale della Beata Beatrice d'Este II la dama porta nella fibbia della cintura il nome Beatrix alla quale Bartolomeo Veneto dette qualche tratto della duchessa regnante. (Anche Francesco d'Este, il figlio minore di Lucrezia, si fece ritrarre qualche anno più tardi nelle vesti di S. Giorgio da Dosso Dossi nel famoso dipinto oggi all'Accademia di Brera.) Certo, oltre la somiglianza, l'abito elegantissimo e straricco indossato col portamento superbo e naturale di chi è avvezzo alle vesti preziose, listato di raso e broccato d'oro, annodato nelle maniche e con la gorgerina alta sul petto pausata da fiocchi sembra ripetere

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uno degli abiti famosi di Lucrezia. Anzi, come giustamente osserva il Bargellese, tutto l'abbigliamento somiglia in modo singolare e con lievissime varianti a quello delle copie tanto goffe ma iconograficamente riconosciute come derivate da un ritratto sicuro, di Nimes e di Como. Tuttavia non potendo studiare il quadro, e notando il colore tendente al castano dei capelli e degli occhi della dama rappresentata, Più che mai ci atterremo alla cautela dell'interrogativo Le sorprese con i Borgia sono sempre possibili; e un'ultima scoperta mi è avvenuto di farla proprio in occasione di questa nuova edizione della storia di Lucrezia. Nell'aggiornare le note, ho ripreso a rileggere qualche scheda; e mi sono fermata sulla trascrizione di un documento tratto dall'archivio del duca di Ossuna e pubblicato parzialmente dal Thuasne (j. Burckardi, Diarium, Parigi, Leroux, 18831885, vol. III, Supplément à l'appendice, pagg. VIVII). Si tratta di una donazione che nel 1483 il cardinale Rodrigo Borgia faceva all'infante Giovanni Borgia suo "figlio carnale" (il futuro duca di Gandia) abitante in Roma e ivi presente. Il documento ci informa: che la madre del bambino era passata a seconde nozze (con Giorgio della Croce); che la nonna materna, Menica, vedova di jacopo "Pinctor" si dichiarava troppo vecchia per accettare la tutela del piccino; che degli altri parenti stretti di Vannozza, Giovan Battista e Paolo, figli di Maestro Antonio da Brescia, il primo, canonico di Santa Maria in via Lata, era troppo occupato ad attendere ai suoi beni ecclesiastici, e il secondo troppo impegolato in brighe ed inimicizie per poter amministrare beni di minori. Non essendovi altri parenti di Vannozza, precisa sempre il documento, si nominavano tutori del fanciullo Giovanni Borgia, il fratello Pedro Luis e il cugino Ottone Borgia etc. etc. Da questo documento appare chiaro che Vannozza era figlia di Menica e certamente del pittore Jacopo del quale però il documento non ci ha serbato il cognome. E a questo punto, messi a riscontro l'attributo di pittore dato a Jacopo e la qualifica di Maestro data ad Antonio da Brescia, padre di quegli stretti parenti di Vannozza qualifica che allora si dava agli artisti mi è venuta l'idea di ricercare nella direzione che all'improvviso il documento mi rivelava. Di Jacopo pittore, non ho trovato traccia; la risposta invece è stata pronta e chiara per Maestro Antonio suo fratello o cognato. Nel primo volume del Bertolotti, Artisti lombardi a Roma, Hoepli, 1881, pag. 13, ho trovato due ordini di pagamento fatti proprio a Maestro Antonio da Brescia "marmoraro" per lavori in marmo scolpiti, destinati ad ornare finestre camini porte e cisterne del costruendo palazzo Barbo di Paolo II, oggi palazzo Venezia. Altri ordini di pagamento riferiti da registri pontifici pubblica il Múntz (E Miintz, Les arts à la cours des papes, 1878, vol. II, pagg. 28, 35, 43, 61, 66) specificando i pagamenti fatti ad Antonio e ai suoi compagni, sociis suis, sempre per palazzo Venezia o per il Vaticano. Da escludere, mi sembra, la possibilità della coesistenza di due Maestri Antonio da Brescia operanti nello stesso tempo a Roma; e vuol dire qualche cosa anche che il padre di Vannozza era pittore; fratello o cognato di Antonio, apparteneva alla stessa famiglia di artisti, allo stesso gruppo

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lombardo di ingegneri, marmorari e decoratori, che erano calati a Roma in folti gruppi al tempo dei grandi lavori rinascimentali di Paolo II. Vannozza ci appare dunque da guardare in altra luce: figlia di artisti, e di quegli artisti lombardi per antica tradizione eccellenti e stimati in tutta Italia, gente sobria abile e capace, orgogliosa della propria secolare perizia artigiana tramandata di generazione in generazione. Forse Vannozza nacque a Roma e certo qui visse i tempi dell'infanzia o dell'adolescenza; i suoi parenti lavoravano in palazzi cardinalizi e pontifici; e lei che era bellissima, anzi "trionfante" come dice un relatore, e opponeva alla selvatica rozzezza delle donne romane la sciolta e libera vivacità lombarda, dovette essere notata presto tra quegli ammiratori della forma bella. Sul dato realistico di questo sfondo di artigiani settentrionali prende colore il romanzo di Vannozza, vivente fra pennelli e colori, tavole e tele, marmi scalpelli e disegni sotto gli occhi della madre Menica che certo non seppe reggere agli splendori cardinalizi del Borgia, e con lui dovette rimanere in buone relazioni per tutta la vita, se, così vecchia, era ancora rispettosamente interrogata per la tutela del nipotino. Era il 1483, Lucrezia aveva tre anni, nonna Menica le accarezzava i setosi capelli chiari. Altra interessante scoperta su Vannozza Cattanei, ho potuto fare in alcuni documenti dell'Archivio Estense di Modena. Si tratta di lettere, datate 1515, di Girolamo del Sacrato agente a Roma del cardinale Ippolito d'Este. La prima di esse dice dopo notizie varie:

"Et lui a visitare per parte di quella (il cardinale) Madama Vanozza, el mi fu molto grato, et mi offersi prestarli ogni aiuto e favore in ogni occurrienza sua secondo V. Ill.ma Sig.ria mi comanda e non mancarò; mi discorse molte cose sue (come anco ha facto altre volte); per bora non gli accade altro, se non che assai rengratia V. Signoria et in gratia de quella se raccomanda." Questo documento ci fa conoscere dunque che esistevano relazioni costanti e cortesi fra il cardinale Ippolito d'Este e la madre di Lucrezia alla quale gli inviati ferraresi rendevano visita onoratamente e volentieri. Da altre lettere inedite, sempre dello stesso tempo> sappiamo che Vannozza aveva offerto a Ippolito alcune colonne antiche, offerta graditissima al cardinale il quale però avrebbe voluto sdebitarsi verso la donatrice senza offenderla con ricompense che ella non avrebbe mai accettato. La figlia del pittore Jacopo, la nipote del marmoraro di Brescia, di marmi s'intendeva; e sapeva raccoglierne. E perfino Ippolito, il gran superbo di casa d'Este, rendeva omaggio alla perizia e alla personalità di questa donna così pertinacemente dignitosa da farsi trattare con grande rispetto e delicata considerazione fino alla fine della sua vita.

Ci sarebbero ora più cose da dire sul libro di Oreste Ferrara Il Papa Borgia scritto nel 1938 in lingua spagnola e tradotto in italiano nel 1953 con una presentazione di Alessandro Cutolo. E qui converrà dichiarare molto fermamente che questo libro, dovuto alla penna di un giurista e diplomatico

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nato a Napoli nel 1876, e poi divenuto cittadino cubano e scrittore di cose di storia, non meritava né traduzione né presentazione essendo il più confuso miscuglio di testimonianze alterate, di falsi ragionamenti, di arbitrarie affermazioni che si possa immaginare. Si trasecola a leggerlo: ed è risibile il tentativo di togliere a Rodrigo Borgia la paternità dei suoi figli nell'intento di quella "riabilitazione" in questo senso impossibile che meraviglia di vedere ancora tentata. Non farò qui alcuna confutazione di questo libro. Tutto ciò che c'era da dire è già stato ampiamente e definitivamente detto e in sede non dubbia dall'illustre studioso già da me citato, G. B. Picotti; (vedi Ancora sul Borgia. "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", dicembre 1954). Proprio per riguardo al Picotti rinuncio a riferire qui esempi degli inauditi e grotteschi falsi del Ferrara. Ma voglio invece riferire una bella pagina, appunto del Picotti, contro la stolta accusa fatta dal Ferrara di una colossale "falsificatrice" (di cui egli stesso non sa spiegarsi e sfido! il perché). Non pago infatti di aver accusato tutti i contemporanei dei Borgia e tutti gli storici che vennero poi, senza esclusioni, di essere entrati nella stessa congiura, il Ferrara con assoluta impudenza chiama falsi e interpolati persino i documenti che sono tuttora nei registri dell'Archivio Vaticano. Ed ecco la risposta del Picotti ("Riv. di Storia della Chiesa", citata, pag. 322): "Io ho fatto quello che né l'autore dell'opera (il Ferrara) né il curatore o il traduttore dell'edizione italiana hanno potuto o voluto fare. Per uno scrupolo ho esaminato di nuovo i documenti discussi, quantunque in gran parte veduti e riconosciuti autentici da storici ben più valenti di me; nei rarissimi casi in cui non l'ho potuto fare personalmente per non aver trovato subito il documento richiesto, sono ricorso a persone competenti e di onestà indiscutibile. Nessuna delle bolle che ho veduto, nessun registro papale, nessun protocollo di notaio, ad un esame sereno rivela traccia di falsificazioni o di interpolazioni: i documenti borgiani nei registri dell'Archivio Vaticano sono di mano di scrittori, a cui sono dovuti altri dello stesso o di altro registro riguardanti gli oggetti più svariati, e sono scritti in continuità con i documenti che li precedono e li seguono; i protocolli notarili sono minute con correzioni della stessa mano, senza che vi sia possibilità che i documenti siano stati introdotti o manipolati più tardi... Basti questo rilievo generale per il quale io impegno la mia probità di studioso e di uomo".

Parole così insieme con tutte le altre in difesa di una verità storica che pure riesce molto penosa ad un sincero cattolico come il Picotti e ispirano grande rispetto; esse fanno per la causa della religione assai più che non mille libri di un Ferrara; ciò che del resto era già stato detto ottant'anni fa, nel 1873, dalla Civiltà cattolica (Ottava serie, vol. IX, pag. 731) in occasione appunto di un altro libro apologetico sui Borgia: "La Santa Sede non vuole altra difesa né d'altra difesa ha bisogno che della verità, quand'anche questa torni a disdoro di qualche Papa... Il fare altrimenti non

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che giovare alla causa del Papato viene anzi a nuocerle più gravemente". Roma, 31 ottobre 1960.

FINE

Table of ContentsPARTE PRIMAAssalto al Vaticano"Il piú carnale homo"Contessa di PesaroPer l'amor di DioEnigmi e delittiLa tragica duchessa di BiscegliePARTE SECONDAIl terzo matrimonio.Secondo periodo alla corte degli EsteInquietudiniTempo d'amorePARTE TERZACongiure ed intrighi ducaliGuerra su FerraraTempo di paceQuaderno di Lucrezia BorgiaTavole di alberi genealogiciIconografia di Lucrezia BorgiaTrecento anni di seta