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Bellezza: espressione matematica della natura Cesari Gianmarco 2 INTRODUZIONE “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' qua- li è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a in- tenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.” Galileo Galilei, Il Saggiatore Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, dalla piccola chiocciola che vive nel sot- tobosco fino all’immensa galassia a spirale che contiene miliardi di stelle, tutto sembra essere regolato da precise leggi matematiche, da calcoli predefiniti. Lo stesso Galilei, in questa celeberrima affermazione, intendeva dire che l’armonia del mondo si manifesta nella forma e nel numero. L’anima e la poesia della filosofia naturale s’incarnano nel concetto di bellezza matematica: ciò che è aggraziato e regolare è utile e perfetto. Già nelle antiche culture la perfezione ha de- stato curiosità ed ammirazione stimolando lo studio dei segreti nascosti da ll’incredibile bellez- za. Osservando la natura si scoprono espressioni d’eleganza e d’armonia: il tratto comune che definisce gli oggetti attraenti è generato da forze rigorose ed inequivocabili, che obbediscono a precise leggi matematiche. Le forme sono il primo aspetto intuitivo della realtà che l’occhio umano percepisce. Fin dall'antichità, gli studiosi hanno cercato di ricondurre la bellezza e la perfezione della natura a rapporti armonici. Ogni oggetto che compone l’Universo, infatti, tende all’equilibrio, che si astrae in perfezione matematica, e tale tendenza contribuisce a de- lineare la bellezza di tutto ciò che ci circonda. In particolare sembra che la natura “gradisca” due concetti matematici molto articolati ed i n- teressanti: la sezione aurea, che pone le sue radici nell’età greca (l’arte classica è fortemente i n- fluenzata da questo concetto matematico, anche se probabilmente anche gli egizi lo conosce- vano già), e la famosa successione numerica del matematico Fibonacci, introdotta a partire da 1202 circa.

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Bellezza: espressione matematica della natura

Cesari Gianmarco

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INTRODUZIONE

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' qua-li è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a in-tenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.”

Galileo Galilei, Il Saggiatore

Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, dalla piccola chiocciola che vive nel sot-tobosco fino all’immensa galassia a spirale che contiene miliardi di stelle, tutto sembra essere regolato da precise leggi matematiche, da calcoli predefiniti. Lo stesso Galilei, in questa celeberrima affermazione, intendeva dire che l’armonia del mondo si manifesta nella forma e nel numero. L’anima e la poesia della filosofia naturale s’incarnano nel concetto di bellezza matematica: ciò che è aggraziato e regolare è utile e perfetto. Già nelle antiche culture la perfezione ha de-stato curiosità ed ammirazione stimolando lo studio dei segreti nascosti dall’incredibile bellez-za. Osservando la natura si scoprono espressioni d’eleganza e d’armonia: il tratto comune che definisce gli oggetti attraenti è generato da forze rigorose ed inequivocabili, che obbediscono a precise leggi matematiche. Le forme sono il primo aspetto intuitivo della realtà che l’occhio umano percepisce. Fin dall'antichità, gli studiosi hanno cercato di ricondurre la bellezza e la perfezione della natura a rapporti armonici. Ogni oggetto che compone l’Universo, infatti, tende all’equilibrio, che si astrae in perfezione matematica, e tale tendenza contribuisce a de-lineare la bellezza di tutto ciò che ci circonda. In particolare sembra che la natura “gradisca” due concetti matematici molto articolati ed in-teressanti: la sezione aurea, che pone le sue radici nell’età greca (l’arte classica è fortemente in-fluenzata da questo concetto matematico, anche se probabilmente anche gli egizi lo conosce-vano già), e la famosa successione numerica del matematico Fibonacci, introdotta a partire da 1202 circa.

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IL PENTAGONO E LA SEZIONE AUREA

Il pentagono è un poligono regolare composto da cinque lati ed è una figura armonica e sim-metrica. Nella scuola pitagorica, in cui tutto era rappresentato con un numero, il 5 o pentade rappre-sentava la vita e il potere, dal momento che era la somma di 2 (diade) e 3 (triade) che rappre-sentavano rispettivamente il femminile ed il maschile. In particolare se si tracciano all’interno di tale poligono tutte le diagonali si forma una stella a cinque punte, o pentagramma, simbolo della scuola pitagorica. L'aura magica che i pitagorici associavano al numero 5, e a tutto ciò che vi fosse legato, può spiegare come il rapporto aureo potesse apparire ai loro occhi tanto affascinante, pur igno-randone ancora gran parte delle proprietà matematiche, e giustificare in parte l’alone di mi-stero che lo ha avvolto sin dalla sua scoperta fino ai nostri giorni. La sezione aurea risulta connessa con la geometria del pentagono, o meglio con il penta-gramma: in particolare il rapporto aureo è pari al rapporto fra e o , ma anche fra e o fra e a sua volta o e , e in un'infinità di relazioni simili, se im-maginiamo che nel pentagono centrale possiamo iscrivere un nuovo pentagramma, il quale produrrà a sua volta un nuovo pentagono centrale, in cui ripetere l'iscrizione della stella a cinque punte e così via, seguendo uno schema ricorsivo. Euclide, intorno al 300 a.C., lasciò la più antica testimonianza scritta sull'argomento. Nel XIII libro dei suoi Elementi, a proposito della costruzione del pentagono, egli fornisce la definizio-ne di divisione di un segmento in "media e ultima ragione”. Tale divisione si basa sul concetto di medio proporzionale.

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Oppure

inoltre

quindi

Il segmento risulta pertanto essere medio proporzionale tra e , dove è la som-ma di e . Ora è possibile dare la definizione di sezione aurea:

Definizione: dati due segmenti e con essi si trovano in rapporto aureo se il seg-mento maggiore ( ) è medio proporzionale tra la somma dei due segmenti e il segmento mi-nore( ).

Quanto vale ? Partendo dalla definizione di rapporto aureo è possibile calcolare il valore di , ovvero di quel numero che è costante in tale rapporto:

ovvero

se si effettua la sostituzione diventa:

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mettendo in evidenza e semplificando si ottiene

ovvero

Il numero phi risulta pertanto essere una delle due radici dell’equazione precedente.

Tra le due soluzioni quella che ha anche un significato geometrico è quella positiva, quindi

Il numero ricavato che esprime la sezione aurea è un numero irrazionale, cioè non rappresen-tabile sotto forma di frazione. In origine tale numero veniva indicato con la lettere Τ (tau) dell’alfabeto greco, successivamen-te è stato indicato con (phi) che è l’iniziale dello scultore greco Fidia, che per primo utilizzò il rapporto aureo per costruire il Partenone. Sia le sue proprietà geometriche e matematiche, che la frequente riproposizione in svariati contesti naturali e culturali, apparentemente non collegati tra loro, hanno impressionato nei secoli la mente dell'uomo, che è arrivato a cogliervi col tempo un ideale di bellezza e armonia, spingendosi a ricercarlo e, in alcuni casi, a ricrearlo nell'ambiente antropico quale "canone di bellezza"; testimonianza ne è forse la storia del nome che in epoche più recenti ha assunto gli appellativi di "aureo" o "divino", proprio a dimostrazione del fascino esercitato.

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Particolarità del numero aureo Il rapporto aureo è l'unico numero non naturale il cui reciproco e il cui quadrato mantengo-no inalterata la propria parte decimale. Infatti:

Quindi

È possibile inoltre trovale una formule che permette di conoscere tutte le potenze di . Per esempio la seconda potenza( ) si ottiene: In generale

se

se

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SUCCESSIONE DI FIBONACCI

Biografia Leonardo Fibonacci, detto Leonardo Pisano, fu un matematico italiano (Pisa 1175 circa - 1240 circa). Durante la sua vita ebbe l’opportunità di viaggiare tanto insieme al padre,Guglielmo Bo-nacci, facoltoso mercante pisano e rappresentante dei mercanti della Repubblica di Pisa nei territori dell’Africa settentrionale. Dopo aver assimilato, durante i sui viaggi, le conoscenze matema-tiche del mondo arabo, pubblicò intorno al 1202 la sua opera fondamentale, il Liber abaci, con cui si propose di diffondere nel mondo scientifico occidentale le regole di calcolo note agli Arabi, ovvero il sistema decimale ad oggi in uso in Europa. Nel capitolo I del Liber Abaci egli introdusse per la prima vota in Europa le nove cifre, da lui chiamate indiane, e il segno 0 che in latino è chiamato zephirus, adattamento del termine indiano sifr. Nel libro presentò inoltre criteri di divisibilità, regole di calcolo di radicali quadratici e cubici ed altro ed introdusse con poco successo anche la barretta delle frazioni, nota al mondo arabo prima di lui. Ma Fibonacci è soprattutto ricordato per la sua serie numerica, i cui numeri prendono il no-me di numeri di Fibonacci. L'intento di Fibonacci era quello di trovare una legge che descrivesse la crescita di una popo-lazione di conigli. Assumendo che: la prima coppia diventi fertile al compimento del primo mese e dia alla luce una nuova coppia al compimento del secondo mese; le nuove coppie nate si comportino in modo analogo; le coppie fertili, dal secondo mese di vita, diano alla luce una coppia di figli al mese; avremo che se partiamo da una singola coppia dopo un mese essa sarà fertile, e dopo due mesi avremo due coppie di cui una sola fertile. Nel mese seguente le cop-pie saranno 3 perché solo la coppia fertile ha partorito; di queste tre ora saranno due le cop-pie fertili quindi nel mese seguente ci saranno 3+2=5 coppie. In questo modo il numero di coppie di conigli di ogni mese descrive la successione dei numeri di Fibonacci. Successione numerica La serie di Fibonacci è una successione di interi definita a partire dalla coppia 1, 1 in cui l’elemento successivo è calcolato come somma degli ultimi due. Una definizione più formale della serie è:

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Il termine viene aggiunto nel caso si voglia far partire la serie con lo 0, ma storicamente il primo numero della serie è 1. Apparentemente la definizione formale risulta essere più compatta e più facile da utilizzare ri-spetto alla definizione informale. Ma in realtà non è così poiché essa genera un numero molto elevato di computazioni che ri-sultano essere pertanto scomode. Per esempio calcoliamo il quarto numero della serie ( ), che in realtà sarebbe il quinto se si considera lo 0 iniziale.

=

=

=

=

Si può osservare che per calcolare il quarto numero si utilizzano circa 16 operazioni. Più in generale il calcolo dell’n-mo elemento della successione genera un albero di computa-zioni dell’ordine del quadrato di n. L’ideale sarebbe quindi avere un’equazione, che seguendo un procedimento generalizzato dia la possibilità di trovare qualsiasi numero della serie. Ma per arrivare a ciò è necessario conoscere un numero, una costante, che accomuni tutti i numeri di Fibonacci. Successione di Fibonacci e la sezione aurea Il primo che riuscì a trovare una relazione tra tutti i numeri della successione di Fibonacci fu Keplero. Nel 1611, oltre 400 anni dopo la pubblicazione del Liber Abaci, egli scoprì che il rapporto fra due numeri consecutivi della serie di Fibonacci approssimava via via, sempre più precisamente, il numero aureo ( ):

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Ma Keplero, quale astronomo, non era forse tanto interessato a dimostrare la fondatezza della sua scoperta, quanto piuttosto a ricercarla nell'architettura dell'universo che lui osservava nel-le sue proprietà "divine". La dimostrazione fu fornita un secolo dopo con la scoperta della formula generatrice della se-rie di Fibonacci ad opera di Jacques Binet, anche se era probabilmente già nota ad Eulero. La formula di Binet permette di calcolare in modo generalizzato tutti i numeri della serie e ha come valore costante il numero , tenendo conto dell’osservazione di Keplero:

Pertanto, secondo l’osservazione di Keplero, il rapporto tra due numeri di Fibonacci consecu-tivi converge a . Infatti:

Dividendo numeratore e denominatore per si ottiene:

Passando al limite,

Ed essendo 0< <1, che elevato a infinito tende a 0 si ha:

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Questa è una relazione fondamentale che lega la serie di Fibonacci con il numero e quindi con la sezione aurea. Particolarità della somma dei numeri di Fibonacci Consideriamo la serie di Fibonacci A, B, C, D, E, G... Se si sommano due o più numeri consecutivi di tale serie, sempre a partire da A, e si aggiunge ulteriormente "1", si ottiene sempre un altro numero di Fibonacci che nella sequenza segue di due posti l'ultimo termine della somma.

( A+B+C+1 = E ) Esempio: 1+1+2+3+5+1=13 In questo caso si sono sommati i primi cinque numeri di Fibonacci, si è aggiunto uno e si è ottenuto il settimo numero della sequenza.

Inoltre se si prendono due numeri di Fibonacci consecutivi e se ne fa il quadrato, la somma fra i quadrati è un altro numero di Fibonacci che nella sequenza occupa il posto risultante dalla somma delle posizioni dei due termini di partenza.

Esempio:

3 è il quarto numero della serie e 5 il quinto: la somma dei loro quadrati è 34 che è il nono numero della serie ( ).

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LA SPIRALE

La spirale logaritmica, o equiangolare, fu scoperta da Cartesio nel 1638. Cinquanta anni do-po un altro matematico, Jackob Bernoulli scoprì molte altre sue proprietà, e ne rimase tal-mente affascinato che richiese di averne una scolpita sulla sua pietra tombale, accompagnata dalla scritta latina "Eadem mutata resurgo" (Sebbene cambiata, rinasco identica). Purtroppo la spira-le che ancora oggi è visibile sulla lapide del matematico a Basilea è una spirale di Archimede, forse l'unica che lo scalpellino riuscì a riprodurre. Diversamente dalla spirale di Archimede, che ha un punto di inizio, la spirale logaritmica prosegue indefinitamente sia verso l'interno che verso l'esterno, mantenendo la sua forma al variare della scala di osservazione. Mano a mano che si avvicina al polo, la curva ci si avvolge intorno senza mai raggiungerlo. Quindi, ingrandendo all’infinito, la forma della spirale rimar-rà invariata. La relazione tra i numeri di Fibonacci e la spirale logaritmica si rivela evidente se si costruisce una serie di quadrati in cui il lato di ognuno di questi è dato dalla somma delle misure dei lati dei due precedenti. Se li disponiamo come in figura e tracciamo un arco di cerchio avente per raggio il lato del quadrato, la figura che si ottiene è una spirale logaritmica.

Una spirale logaritmica si può ottenere considerando una semiretta che ruota unifor-memente intorno al suo estremo e un punto che si muove lungo questa semiretta con una ve-locità che aumenta man mano che il punto si allontana dall’estremo fissato. Se, invece, tale velocità rimane costante si otterrà una spirale di Archimede. Pertanto in una spirale logarit-mica il rapporto tra il raggio di una spira e il raggio di quella successiva è peri a Φ. Prendendo come sistema di riferimento un sistema di coordinate polari, in cui ogni punto del piano è identificato da un angolo e da una distanza da un punto fisso detto polo, l'equazione della curva, in coordinate polari (r, θ), può essere scritta come:

Dove k è una costante reale e λ è una costante positiva. Inoltre:

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Se la spirale si avvolge intorno al punto centrale in senso antiorario; Se la spirale degenera in una circonferenza; Se la spirale si avvolge intorno al punto centrale in senso orario.

E LA SERIE DI FIBONACCI IN NATURA Il numero aureo è una delle costanti matematiche predilette dalla natura e, insieme alla serie di Fibonacci, regola l’armonia del mondo che ci circonda. Sarà successo a tutti di rimanere incantati davanti alla bellezza di una rosa, o affascinati da un girasole. Il fascino della natura è frutto della proporzione intrinseca ad essa. Infatti la natura, seppure imperfetta, tende alla perfezione matematica. Ma perché proprio ? Questo per il fatto che i sistemi complessi si evolvono secondo il principio di “minima energi-a”, cercando di raggiungere l’equilibrio. E sembra che il numero aureo, in diversi ambiti della natura, permette questo. In particolare, esso è presente in molti esseri viventi, uomo compre-so, ma anche nei vegetali, e contribuisce a creare l’armonia del mondo che ci circonda, dove il caos è solo un’apparenza, e tutto tende alla perfezione secondo principi matematici. Ecco al-cuni esempi:

Fillotassi delle piante Fillotassi è un termine che deriva dal greco phyllon = fo-glia e taxis = ordine. È una branca della botanica prepo-sta allo studio ed alla determinazione dell'ordine con cui le varie entità botaniche (foglie, fiori, etc.) vengono di-stribuite nello spazio, conferendo una struttura geome-trica alle piante. Da semplici osservazioni botaniche che mirano ad individuare il numero di foglie presenti su ciascun nodo e l'orientamento di queste rispetto alle fo-glie del nodo superiore, la fillotassi si è potuta avvalere di studi incrociati di matematici e botanici, i quali hanno rivelato un sistema assai semplice, ma incredibilmente efficace, adottato dalle piante per generare non solo strutture semplici ma anche morfologie complesse a spi-rale. Infatti, tra i vegetali, le foglie sui rami e lungo il tronco tendono ad occupare posizioni che rendano massima l’esposizione delle foglie alla luce del sole. Se la disposizione delle foglie seguisse schemi retti-linei, tuttavia, si privilegerebbero solamente le foglie più alte, dal momento che quelle esposte al sole nasconderebbero le altre. La natura ha introdotto quindi una componente rotatoria, attraverso cui le foglie successive si susseguono attorno al fusto secondo un’ideale spirale. Al-cune piante come il pero e il salice hanno un quoziente di fillotassi di 3/8. Significa, cioè, che sul fusto, ogni 3 giri si susseguono 8 rami. Altre, invece, come il melo, alcune querce e

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l’albicocco hanno coefficiente 2/5. Come si può notare tutti questi rapporti hanno al nume-ratore e al denominatore numeri appartenenti alla serie di Fibonacci.

Il girasole Il girasole è forse uno degli esempi più belli della “matematica naturale”. Ammirando il gira-sole è facile notare, al centro dell’infiorescenza, che l’insieme di spirali orarie e antiorarie si intersecano con regolarità. Infatti gli elementi dell’infiorescenza crescono in modo da occupa-re nel modo più efficiente lo spazio circolare all’interno del fiore. Il numero di spirali presenti dipende dalla grandezza e dal tipo di girasole. Nel caso più comune, ad esempio, ci sono 34 spirali avvolte in un senso, e 55 avvolte nel senso opposto. Sono stati osservati, tuttavia, anche girasoli con rapporti diversi, ad esempio 89/55, 144/89 e, il più grande, 233/144.

La rosa Anche la rosa, uno dei fiori più armonici della che la natura ci offre, è collegata alla sezione aurea: gli angoli che definiscono le posizioni dei petali (in frazioni di angolo giro), sono infatti la parte decimale di semplici multipli di Φ. Tale disposizione, infatti, permette una maggior densità di petali.

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Altri esempi

La conchiglia del nautilus segue un andamento a spirale logaritmica. È un mollusco di grosse di-mensioni: dalla nascita, fino alla morte, esso cresce continuamente, e questo continuo accre-scimento genera una forma che si espande sem-pre di più, creando una spirale che tende ide-almente a quella raffigurata nella parte riguar-dante la matematica.

In quest’immagine è perfettamente osservabile la spirale che i rami formano durante l’ac-crescimento dell’albero (fillotassi).

I fiori più piccoli sono disposti, a partire dal centro, su dei bracci che a loro volta si evol-vono seguendo un’ipotetica spirale.

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La maggior parte delle piante genera dei fiori che possiedono un numero di petali pari ad un numero appartenente alla serie di Fibonacci. La maggior parte possiede 5, 8, 13 e 21 petali.

Il broccolo romano ha una struttura ben organizzata che si evolve su delle spirali. Inoltre esso è come un frattale, infatti ogni protuberanza conica si ottiene dalla ripetizione di coni più piccoli, che aggregandosi danno origine a coni più grandi e così via.

Gli uragani sono costituiti da venti ad alta velocità che soffiano in direzione circolare attorno a un centro di bassa pressione generando una spirale.

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LA MATEMATICA NEL COSMO

L’Universo è un concetto che da sempre ha affascinato l’uomo. Anche se al giorno d’oggi si sono compiuti imponenti passi in avanti nell’ambito delle scoperte scientifiche, l’Universo re-sta ancora una incognita infinita che intratterrà la scienza fino alla fine del tempo. Un sinonimo di Universo è la parola cosmo. Tale parola venne utilizzata per la prima volta, in tale ambito, da alcuni esponenti della scuola dei pitagorici (Felolao e Aristarco di Samo) che per primi avanzarono importanti teorie, come quella dell’eliocentrismo. “Cosmo” deriva dal greco “kosmos” che significa ordine. Anche in questo contesto, molto più vasto rispetto a quello ter-restre, l’ordine che poi ha permesso lo sviluppo e, nel nostro caso la vita, sembra essere stret-tamente legato a formule matematiche. Ma, stando alla teoria del Big Bang, l’Universo prima di giungere a questa fase di equilibrio, ha attraversato un lungo periodo caratterizzato da una situazione particolarmente caotica che va dal tempo 0 fino ai primi 2-3 milioni di anni. Secondo la teoria del Big Bang, dopo l’era di Plank, che va da a sec, l’Universo pos-sedeva una temperatura elevatissima (nell’ordine di K) e le forze fondamentali erano racchiuse in un’unica “superforza”. Successivamente, dopo più di un secondo, la temperatura era scesa a circa 10 miliardi di kelvin tanto da permettere la formazione di protoni, elettroni neutroni e fotoni. Nei tre minuti successivi si formarono i primi nuclei di elio, deuterio e pic-cole percentuali di elementi più pesanti. Bisognerà aspettare 300 mila anni per la formazione degli atomi, quando la temperatura scenderà a circa 3000 K, e solo dopo 2-3 milioni di anni si avrà la formare delle prime nebulose e delle prime protogalassie. Dopo questa fase caotica, dopo la formazione delle nebulose e delle prime galassie, l’Universo comincia la sua fase stabile caratterizzata sempre da una continua espansione. Molti sono gli esempi di come il cosmo sia regolato da leggi matematiche. Il primo è quello riguardante il movimento dei pianeti, dei satelliti e di altri corpi celesti, che avviene mediante le tre leggi matematiche introdotte dall’astronomo Keplero tra il 1609 (pri-me due) e 1918 (la terza). Tra l’altro bisogna ricordare che Keplero fu uno dei più importanti analisti della sezione aurea e della serie di Fibonacci, infatti egli cercava di trovare una corri-spondenza con le sue scoperte astronomiche.

Leggi di Keplero - Prima legge La prima legge descrive la forma delle orbite dei pianeti ed afferma: “i pianeti si muovono intor-no al Sole su orbite ellittiche, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi”. Secondo tale legge le orbite dei pianeti non sono circonferenze, come si era creduto per secoli e, a causa della loro forma ellittica, il pianeta varia in continuazione la sua distanza dal Sole. È possibile quindi individuare due punti fondamentali: afelio, che è il punto dell’orbita più di-stante dal Sole e perielio, il punto dell’orbita più vicino. La linea che congiunge perielio ed afe-lio è detta linea degli apsidi. Inoltre, poiché l'ellisse è una figura piana, i moti dei pianeti avven-gono in un piano, detto piano orbitale. Per la Terra tale piano è detto eclittica. Infine, in

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un'orbita ellittica, indicati i suoi parametri caratteristici (semiasse maggiore (a), semiasse mi-nore (b), semi-distanza focale (c), eccentricità (e)), è possibile stabilire le seguenti relazioni:

- Seconda legge La seconda legge, invece, descrive la velocità di rivoluzione ed af-ferma: “ogni pianeta si muove sulla propria orbita in modo tale che il raggio vettore, che congiunge il centro del pianeta con il centro del Sole, spazza aree uguali in tempi uguali”. Ciò significa che la velocità linea-re non è costante. Infatti a causa della forma ellittica dell’orbita, il raggio vettore non ha una lunghezza costante, ma varia da un minimo in perielio ad un massimo in afelio. Pertanto la velocità di rivoluzione non è co-stante ma varia di giorno in giorno. La velocità è minima in afelio e massima in perielio. - Terza legge La terza legge, infine, mette in relazione la distanza di un pianeta dal sole con il tempo neces-sario a percorrere l’intera orbita afferma: ”il rapporto tra il quadrato dei tempi di rivoluzione e il cubo della loro distanza media dal Sole è costante”.

Dove: d = distanza media dal sole; t = tempo di rivoluzione del pianeta. La legge dimostra che la velocità angolare media è tanto minore quanto più esso è lontano dal Sole: il pianeta più lento è Plutone, il più veloce è Mercurio.

La forma delle galassie Ma l’esempio più suggestivo della matematica del cosmo è dato dalla forma delle galassie. Le galassie sono degli ammassi di miliardi di stelle, polveri e gas tenuti insieme dalla forza di gravità. Sono dei sistemi autogravitanti che distano milioni di anni luce da quelle circostanti. In una galassia lo spazio fra una stella e l’altra non è vuoto, ma ci sono particelle di gas estre-mamente rarefatti e polveri cosmiche, costituite da atomi, ioni e molecole di varia natura, che formano il mezzo interstellare. Nonostante le galassie distino tra di loro 2 o 3 milioni di anni luce, in alcuni casi, sono sufficientemente vicine da risentire dell’attrazione gravitazionale re-ciproca. Si formano, così, sistemi più ampi, detti ammassi di galassie. Nel nostro caso la Via

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Lattea, la galassia di Andromeda, le Nubi di Magellano e un’altra ventina di galassie formano un ammasso di piccole dimensioni denominato Gruppo Locale. Poiché non è ancora chiaro come si evolvono le galassie, la loro classificazione si basa su crite-ri semplici ed immediati: la forma e le dimensioni. In base alla forma si distinguono tre tipi di galassie: ellittiche, a spirale ed irregolari.

Le galassie ellittiche si presentano come chiazze di luce di forma sferica o ovoidale, in cui le stele sono distribuite in maniera abbastanza regolare e la densità stellare è molto elevata, specialmente nella regione centrale. Al loro interno non ci sono stelle giovani, in genere predominano stelle rosse e si rilevano scarse quantità di polveri e gas. Perciò, a causa dell’assenza di nebulose di gas, la probabilità che si formino nuove stelle è molto ridotta. Infine la loro la massa delle galassie ellittiche è molto variabile: l’intervallo è compreso tra 10000 miliardi e 1 milione di masse solari.

Le galassie a spirale presentano un rigonfia-

mento al centro, detto bulge, circondato da un alone sferoidale e da un disco appiattito in rotazione, formato da stelle, polveri gas da cui originano bracci a spirale. I bracci con-tengono grandi quantità di polvere interstel-lare, stelle in formazione e stelle di seconda generazione; il bulge, invece, contiene stelle più vecchie, di prima generazione, e contiene una scarsa quantità di mezzo interstellare. Le galassie a spirale più grandi hanno una mas-sa pari a circa 2000 miliardi di masse solari. All’interno di questa famiglia rientrano an-che le galassie a spirale barrata e quelle a spira-le intermedia. Le prime sono delle galassie il cui bulge centrale presenta due prolunga-menti di stelle che nell'insieme ricordano una barra che attraversa il nucleo. In queste galassie i bracci della spirale partono dalla barra, anziché dal nucleo. Le seconde, inve-ce, hanno una struttura intermedia tra la spirale barrata e quella normale, e presentano pertanto una barra di dimensioni variabili.

Le galassie irregolari, infine, non sono dotate di una forma geometricamente definita e sono poco frequenti. In alcune, come le Nubi di Magellano, la forma è di una nebu-

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losa allungata. In queste galassie sono pre-senti di solito stelle molto giovani, di prima generazione, e nubi di polveri e gas in grandi quantità, distribuite disordinatamente. Per-ciò si osserva spesso un’intensa attività di formazione di nuove stelle. L'irregolarità può essere causata da molti fenomeni, come la fusione tra galassie o la deformazione do-vuta all'effetto gravitazionale di una galassia vicina più massiccia (come le Nubi di Magellano). La classificazione di Hubble ricono-sce due tipi di galassie irregolari: le irregolari del primo tipo e le irregolari del secondo tipo. Le prime possiedono alcune strutture ma non abbastanza per classificarle chiaramente tra le altre; le seconde, invece, non presentano alcuna struttura che permetta di classi-ficarle.

Il primo astronomo che avanzò un modello per spiegare l’evoluzione delle galassie fu lo statu-nitense Edwin Hubble nel 1936. Dai suoi studi riuscì ad elaborare uno schema, detto sequen-za di Hubble, che permise di spiegare la classificazione delle galassie. Lo scienziato riteneva che la sequenza rappresentasse un processo evolutivo che cominciava dalle galassie ellittiche che, in base alla densità e alle forze gravitazionali, davano origine alle galassie a spirale barrate e non. Invece quelle irregolari non fanno parte di questa classificazione, ma di una a parte.

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LA GEOMETRIA NELL’ARTE Anche nell’ambito artistico la sezione aurea è molto presen-te. Molti pittori, scultori ed architetti utilizzarono le pro-prietà di questo principio matematico per rendere le loro opere armonicamente proporzionate. Il numero d’oro fu u-tilizzato costantemente nelle opere della classicità, infatti bi-sogna ricordare che il numero Φ deve il suo nome all’iniziale dello scultore greco Phidia, il progettista del Par-tenone. Sorprendentemente questa costante matematica si può notare anche in delle opere colossali molto più antiche del Partenone: le piramidi di Gi-za. Il rapporto aureo sussisterebbe in questo caso fra il semilato della piramide e l'altezza della facciata triangolare costruibile sulla stessa. Anche nell’arte rinascimentale il rapporto aureo è molto presente, basti ricordale la “Venere” di Botticelli o “La Gioconda” di Leonardo. Ma questo concetto matematico, adottato nell’ambito artistico, trova spazio anche nell’arte moderna in cui, tuttavia, la razionalità lascia posto alla libera attività dell’artista condizionato anche dalle nuove teorie scientifiche e filosofiche. Uno dei principali artisti del Novecento che riprende la sezione aurea in alcune opere, sebbene in maniera totalmente diversa da quel-la classica, è l’olandese Piet Mondrian.

Piet Mondrian

Piet Mondrian, nato in Olanda nel 1872, studia all’Accademia di Belle Arti di Amsterdam ma, entrando in contatto con le avanguardie di quel periodo, nel 1911 si trasferisce a Parigi affascinato dall’esperienza cubista. Successivamente le sue ricerche pittoriche lo indirizzano verso l’astrattismo e, insieme ad altri artisti, dà origine alla rivista “De Stijl”. Lo scopo di tale rivista era quello di contribuire allo sviluppo di un nuovo senso estetico, che si basa princi-palmente su un nuovo tipo di arte plastica. L’artista cerca di rendere la propria pittura quanto più essenziale possibile, e tale essenzialità sarà espressa definitivamente con un astrattismo to-tale. Questo nuovo linguaggio sarà chiamato da Mondrian “Neoplasticismo”, dove per plastici-smo si deve intendere, per l’appunto, “linguaggio”. Ma è anche possibile far coincidere il ter-mine anche con l’espressione “nuova forma” o con il termine “stile”. Mondrian riconosce che l’arte deve identificarsi con la vita e, poiché la vita è essenzialmente interiorità, occorre che l’artista escluda il mondo oggettivo dalle sue opere, perché diverso dall’interiorità. Inoltre egli ritiene che l’aspetto delle cose in natura cambia, mentre la realtà rimane costante. Quindi c’è qualcosa che non muta mai ed occorre, pertanto, che la pittura si sganci dal particolare e diventi l’espressione dell’universale. Per evitare che l’opera d’arte diventi un’opera particolare, l’artista neoplastico deve eliminare la sua soggettività: deve agire solo attraverso linee rette ed utilizzare una tinta unita e piatta per evitare di trasmettere qualsiasi emozione. L’essenza immutabile della realtà è rappresenta-

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ta da forme geometriche che l’artista deve essere in grado di astrarre e rappresentare (si parla, infatti, di astrattismo geometrico). Nelle sue opere denominate “Composizioni” egli cerca di realizzare la fusione dell’arte con l’interiorità. I colori utilizzati sono solo i tre primari (rosso, giallo e blu), che talvolta si ridu-cono ad uno solo. Sono distribuiti armonicamente ed in modo asimmetrico insieme a super-fici bianche che tendono ad equilibrare, all’interno di una griglia sempre variabile costituita da linee perpendicolari tra loro che danno origine a quadrati e a rettangoli aurei. Ogni colore, poi, è dato in modo da riempire gli spazi senza alcuna variazione di intensità in una resa asso-lutamente bidimensionale dell’opera. L’infinita varietà di possibilità aggregative delle superfici colorate e non, assieme all’infinità di linee più o meno spesse e più o meno numerose, costituisce il limite dell’eventualità che re-almente l’arte possa legarsi alla vita intesa come interiorità, che può fare a meno del mondo reale, ma è, allo stesso tempo, la condizione perché tre colori e qualche linea retta stabiliscano tra di loro dei rapporti poetici tali da generare una sensazione di pace, quiete e benessere nell’osservatore.

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KANT: IL BELLO E IL SUBLIME

Il concetto di bellezza razionale venne analizzato dal filosofo tede-sco Immanuel Kant (1724-1804), la cui interpretazione influenzò successivamente il movimento dell’Estetismo. Kant è il fondatore di una nuova filosofia, con la quale intende af-frontare in maniera critica la conoscenza della realtà. Essa è una fi-losofia che rappresenta un’alternativa a quella empirista e a quella razionalista, che in quel periodo erano le più affermate. Con il suo approccio critico Kant intende opporsi al dogmatismo della metafi-sica, che un tempo era stata considerata la “regina delle scienze” ma che invece ora appariva lacerata da continui contrasti. Con il criti-cismo Kant analizza in primo luogo i limiti della ragione umana e a tal proposito effettua una netta distinzione tra scienza e metafisica ovvero tra fenomeno e nou-meno. Il fenomeno rappresenta la realtà così come appare invece il noumeno rappresenta l’essenza ultima delle cose che non può, quindi, avere un riscontro o una verifica. Per questo motivo Kant considera la metafisica come “sogni da visionari” e cade così nel suo sistema cri-tico l’idea che essa sia scienza. Ma tuttavia egli ritiene che, sebbene vada oltre i limiti della ragione umana, essa rappresenta un bisogno insopprimibile dell’uomo che cerca di abbraccia-re in sé il mondo come totalità compiuta. La prima opera che Kant dedica all’analisi della ra-gione è la “ Critica alla ragion pura”, in cui egli nega chiaramente il primato di essa nell’ambito della conoscenza. In quest’opera la ragione è considerata l’ultima facoltà conosci-tiva attraverso cui l’uomo cerca di guardare al di la del mondo dell’esperienza. Così inevita-bilmente la ragione cade nei paralogismi e nelle antinomie, ovvero nei falsi ragionamenti o nelle contraddizioni. Quindi la ragione è stata esclusa del criticismo kantiano dall’ambito del-la metafisica ma è stata inserita all’interno dell’ambito pratico. Infatti nella “Critica alla ragion pratica”, Kant considera la ragione come fondamentale pre-supposto per l’attività morale e per la libertà. In quest’opera afferma che l’agire dell’uomo è libero ma nello stesso tempo esso si svolge attraverso regole. La libertà inoltre è considerata come un postulato della ragion pratica, ovvero come qualcosa che è di per sé indimostrabile ma che è comunque il fondamento dell’agire morale dell’uomo. A questo punto sembra che l’uomo appartenga a due mondi: al mondo naturale, che è regola-to da una ferrea necessità causale (Critica alla ragion pura); e al mondo della morale che in-vece è regolato dalla libertà e dalla finalità dell’azione (Critica alla ragion pratica). Allora com’è possibile riconciliare queste due sfere che appaiono in piena contraddizione? A questo interrogativo Kant risponde con la terza critica, ovvero la “Critica del giudizio”.

Critica del giudizio Nella Critica del giudizio, pubblicata nel 1790, il filosofo descrive il punto di vista da cui sia possibile conciliare il determinismo della scienza con il postulato della libertà morale. Kant ritiene di trovare tale connessione fra questi due piani in una specifica facoltà dell’animo umano: il sentimento.

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Nelle precedenti critiche l’uomo era stato considerato come individuo che conosce e come individuo che agisce. Ma l’uomo non soltanto conosce e agisce, ma sente. Il sentimento è pre-sente in tutti gli individui ma è diverso dal “sentire” proprio della conoscenza sensibile poiché poggia su una particolare facoltà: la capacità di giudizio. Secondo Kant essa si colloca in una posizione mediana tra l’intelletto e la ragione pratica. Parlando di giudizi egli opera una di-stinzione tra:

Giudizio determinante Giudizio riflettente

Il giudizio determinante è il giudizio della ragion pura. In tali giudizi conoscere significava collegare un predicato a un soggetto, dicendo ad esempio che a è causa di b. Si cerca quindi di determinare i fenomeni mediante le leggi dell’intelletto e, partendo dal generale, si sussume il particolare attraverso le leggi necessarie di causa-effetto facendo riferimento alle forme pure a priori della sensibilità (giudizio sintetico a priori). Il giudizio riflettente, invece, svolge una funzione diversa, infatti esso "riflette" come uno specchio la realtà esterna dentro quella interiore. Tale giudizio parte dal particolare per sus-sumere il generale ed in questo caso conoscere significa collegare l’oggetto preso in considera-zione con se stessi, con l'io, attribuendogli una finalità che ci fa vedere le cose come se fossero in riferimento alle nostre facoltà, provocando il piacere o il dispiacere. Ciò significa che l'au-tore di quel collegamento è coinvolto nel giudizio stesso che egli dà. Così la ragione non è più sottoposta alla necessità delle leggi conoscitive di causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi e la libertà, che nella ragion pratica era un postulato verso cui tendeva l'agire etico dell'uomo, ora non è più solo un ideale da raggiungere ma una realtà. Dal momento che il giudizio riflettente è sia un giudizio che mira ad un fine, sia un giudizio che produce piacere o dispiacere, Kant lo divide in:

Giudizio estetico, nel quale il soggetto intuisce la realtà come armonicamente costituita, suscitando il lui un sentimento di piacere;

Giudizio teleologico, nel quale il soggetto pensa la natura e l’ordine delle cose come o-rientati ad un fine.

Giudizio estetico Il giudizio estetico è quella parte del giudizio riflettente che genere il piacere o il dispiacere nel soggetto. Esso si divide in:

Bello, che ha a che fare con un limite, una forma; Sublime, ha a che fare invece con l’illimitato, l’informe.

Il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, non esistono oggetti belli di per sé, ma è l'uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti. Il giudizio estetico basato sul senti-mento del bello è quello con cui noi percepiamo la bellezza e realizziamo l'accordo tra l'ogget-to sensibile e l'esigenza di libertà. Il sentimento del bello è per Kant:

puro: non è collegato alla reale esistenza dell'oggetto rappresentato; disinteressato: l'oggetto bello non deve rispondere né a fini utilitaristici né morali;

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universale: il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sot-tomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello;

necessario: evidentemente non di necessità logica, non esistono regole esplicite per il giudizio estetico.

In altre parole l'oggetto bello creato dall'artista soddisfa le esigenze della necessità naturale, poiché, per quanto libera sia la scelta del materiale utilizzato per l'opera d'arte, questo dovrà necessariamente rispettare le leggi fisiche, ma nello stesso tempo nell'opera l'artista esprime "liberamente" il suo ideale di bellezza e non lo fa né per utilità né per ammaestramento mora-le.

Sublime La concezione kantiana del sublime ha influenzato fortemente l’estetica e l’arte del Romanti-cismo. Molti aspetti differenziano il bello dal sublime e, soprattutto, il fatto che il bello ha a che fare con ciò che ha forma, ciò che è limitato, mentre il sublime ha a che fare con l’illimitato, con l’informe. Inoltre il bello produce solo piacere, il sublime, invece, presuppone un momento di dispiacere, è un piacere “negativo”. Si potrebbe definire il bello come quieta contemplazione ed il sublime come movimento alterno tra di repulsione e attrazione. Quindi il sublime è non è un oggetto ma è una “disposizione d’animo”.

“Sublime è ciò che, per il solo fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi”.

Il sublime, a sua volta, si divide in: sublime dinamico; sublime matematico.

Il sublime dinamico è assolutamente grande, smisurato, è ciò di fronte a cui ogni altra cosa è piccola. È l'infinito, che non può in alcun modo essere oggetto di conoscenza, in quanto non ha corrispettivo sul piano empirico. Esso è per così dire percepito dal giudizio davanti a certi spettacoli naturali che superano ogni capacità della nostra immaginazione, mirabili nella loro grandiosa potenza anche quando rappresentano lo scatenarsi delle forze della natura: le alte montagne, lo spalancarsi degli abissi, l'oceano in tempesta. Il senso di ammirato stupore, uni-to allo sgomento che proviamo di fronte a questi scenari sono determinati dal fatto che su di essi proiettiamo l'idea della grandezza assoluta che è propria del soprasensibile e di cui ritro-viamo una traccia in noi in quanto soggetti morali, appartenenti per questo aspetto al mondo intelligibile. Nel caso del sublime matematico, invece, di fronte alle grandiosità incommensurabili della natura, proviamo dispiacere in quanto la nostra immaginazione appare insufficiente a rappre-sentarle adeguatamente, ma nello stesso tempo proviamo piacere perché la nostra ragione tende a elevarsi all'idea dell'infinito, al cui paragone la stessa immensità dell'universo e dei suoi fenomeni sembra irrilevante. Risvegliata in noi dalle imponenti realtà del mondo natura-le, l'idea di infinito costituisce un inesauribile stimolo alla ricerca del tutto; grazie ad essa la primitiva sensazione della nostra piccolezza e fragilità fisica lascia il posto a quella della nostra

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dignità spirituale, e in tal modo ci eleviamo consapevolmente al di sopra della natura. Anche di fronte allo spettacolo dello strapotere delle forze naturali, per esempio del mare in tempe-sta o del fuoco di un vulcano in eruzione, come avviene nella sfera del sublime dinamico, all'inizio avvertiamo il senso della nostra debolezza materiale, a cui fa seguito tuttavia un sen-timento di grandezza, derivante dalla nostra realtà di esseri pensanti, dotati di ragione e di principi morali. È evidente che l'apprensione del sublime, che fa riferimento allo smisurato e dunque al senza limiti, avviene in modo diverso dall' apprensione del bello, che ha alla base il senso dell'armo-nia, in cui si combinano limite, misura, proporzione. Il sublime infatti nasce dal sentimento doppio e contraddittorio, di attrazione-repulsione, che l'uomo prova di fronte alla grandezza e alla potenza della natura: da un lato un sentimento di dispiacere derivante dalla consapevolez-za dei propri limiti e della propria impotenza; dall'altro un sentimento di piacere derivante dalla consapevolezza della propria condizione di essere razionale e libero, che lo innalza al di sopra di ogni entità della natura, la quale, per quanto grandiosa e potente, non potrà mai ri-durre sotto di sé l'uomo, destinato invece al mondo soprasensibile. Quindi la matematica, intesa come massima espressione della razionalità umana, è per Kant la vera forza che permette all’uomo di porsi al di sopra del dispiacere e di ogni fenomeno natu-rale.

D’ANNUNZIO: BELLEZZA, NATURA E POESIA Come si è detto in precedenza, il concetto kantiano di sublime ha fortemente influenzato sia la corrente estetica del Romanticismo, sia dell’Estetismo novecentesco. Gabriele D’Annunzio è il principale esponente dell’Estetismo italia-no, uno dei pochi scrittori del Novecento ad avere fama europea e può essere considerato uno dei maggiori esponenti del Decadenti-smo internazionale. La spettacolarizzazione della propria vita costituisce un abile sfrutta-mento dei nuovi meccanismi d’informazione creati dalla società di massa e serve soprattutto a riproporre in una condizione del tutto mutata il mito del poeta-vate, tramontato con l’avvento della nuova società. Rilanciando tale mito, d’Annunzio rinnova l’idea della poesia come privilegio e come valore assoluto, facendo nel contempo della propria arte raffinata e preziosa l’altra faccia di una vita che vuole proporsi come inimitabile. Oltre che scrittore, d’Annunzio volle essere anche ideologo e politico, intervenendo in nume-rose occasioni su questioni “strategiche” della vita civile nazionale e impegnandosi negli schie-ramenti parlamentari. Ma la sua ideologia è prettamente nazionalistica e si esprime nell’adesione alla politica coloniale aggressiva di Crispi, nell’interventismo durante la Prima Guerra mondiale, con l’appendice dell’impresa di Fiume, ed infine nell’adesione all’ideologia fascista con aperte concessioni al razzismo.

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Sul piano esistenziale e vitale, la posizione dannunziana è una riduzione dell’io a puro istinto, a sensazione naturale.

Il panismo Il tema della natura è molto ricorrente nelle sue opere sia in prosa che in versi. D’annunzio è fortemente attratto dalla natura circostante, molto probabilmente per la sua equilibrata ar-monia che riesce a travolgere l’animo umano. In tale ottica l’affermazione del soggetto coinci-de con la sua fusione nell’elemento naturale. È questo il panismo dannunziano. La voce deri-va dal nome del Dio greco Pan. Pan era una divinità del mondo pastorale, che presentava ca-ratteri di selvaggia bestialità e legami con il mondo infero. Il nome è collegabile anche alla voce greca “pan”, che significa “tutto”, così da attribuire al Dio il carattere di divinità universale della natura. A questa accezione si riferisce il termine panismo, da intendersi come tensione a identificarsi con le forze naturali, fondendosi con es-se con uno slancio gioioso ed istintivo. La vegetalizzazione e l’animalizzazione dell’umano che si riscontrano in numerosi testi dell’Alcyone, il terzo libro delle “Laudi”, ne costituiscono e-sempi calzanti, in quanto si rappresenta la capacità di entrare in contato diretto con la natura, di ascoltare la sua voce, di vivere le sue misteriosi leggi fino a raggiungere la chiave dei suoi se-greti. Al cospetto della realtà naturale il superuomo dannunziano rivela la capacità di fondersi in es-sa, di perdere la propria identità umana per assumere in modo panico l’identità del paesaggio circostante. Questa fusione può giungere fino alla vegetalizzazione dell’umano: è come se il si-stema nervoso del soggetto si prolungasse fino nelle fibre delle piante e la rappresentazione della realtà circostante si svolgesse secondo quel particolare punto di vista. Altre volte l’identificazione avviene con creature animali, di solito strappate al mito. Il componimento che meglio esprime la concezione panica dannunziana è “La pioggia nel pi-neto”, in cui l’immersione nel grande evento atmosferico della pioggia estiva diventa per i due protagonisti (il poeta stesso e la donna denominata Ermione) l’occasione per fondersi magi-camente con la natura. Sotto la pioggia la pineta si anima, diventando una sorta di orchestra il cui suono soave porta ad una vera e propria metamorfosi dei personaggi, tant’è vero che il loro cuore diventa come una pesca, gli occhi come gocce di rugiada, i denti come mandorle. In questo componimento è evidentissima l’impostazione simbolica che rende il rapporto con la natura un’esperienza mitica e spensierata. D’Annunzio infine non si misura con le difficol-tà tipiche dei moderni a dialogare con la natura (come accade in Leopardi prima e in Montale poi). Egli rimuove il problema e rovescia la difficoltà in sfida.

L’estetismo e il superomismo Il panismo è, a sua volta, correlato con due altri elementi caratteristici del pensiero del poeta-vate: il superomismo e l’estetismo. Il superuomo dannunziano nasce da una lettura assai parziale e forzata di Nietzsche. Infatti, a partire dalla fine dell’Ottocento, il pensiero nietzschiano ha subito un impoverimento filosofico che ha dato origine ad una sbagliata interpretazione del superuomo, intendendolo solo come individuo in grado di realizzarsi pienamente a dispetto e in contrasto rispetto al resto della società. D’Annunzio considera il superuomo come un eroe, che è inoltre dotato di una particolare sensibilità che gli permette di cogliere gli aspetti più

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nascosti della natura con cui egli si relaziona costantemente. Il superuomo, inoltre, è colui che pratica in maniera sublime il culto del bello. Le bellezza contemplata dal poeta, in relazione con il nuovo senso dell’estetismo decadente, è considerata come scelta aristocratica e segno di superiorità. Essa è al di sopra di tutto, è un va-lore assoluto che non ha pertanto nessuna finalità morale o educativa.

THE AESTETHIC MOVEMENT: OSCAR WILDE The aesthetic movement took its inspiration from the romantic poet John Keats, with his cult of beauty and the contrast art-life, but there were also lots of intellectuals and artists that in-fluenced this movement. In the middle of the 19th century John Ruskin protested against the indifference of the mate-rialistic Victorian society to art and the beautiful. Ruskin believed that “a work of art is an ex-pression of the spirit” and so he rejected academic art in favour of the spontaneity and spiri-tuality of the Italian painters before Raphael. Another important figure was Swinburne, who was not one of the group but was influenced by the Pre-Raphaelites and by French writers like Baudelaire, who found the Symbolist Movement creating analogies between colours, sounds and perfumes. Finally there was Walter Peter, who is considered the priest of the Aesthetic Movement. He proclaimed the idea that “life is a work of art” and rejected, like Ruskin, all established doc-trines and theories. He believed that the only reality is that of impressions and sensations, and the finest sensations are to be found in art. They advocated “Art for Art’s sake” based on the principle that art has no moral or didactic implications.

Oscar Wilde In England the most famous personality of the Aesthetic Move-ment was Oscar Wilde. One of the adjectives which best describes his personality is “eclec-tic”. Each of his work is full of originality, of wit, brilliant in ex-pression. He constantly challenged the conventions of his time and cultivated an extravagant style of living. Wilde, like the other Aesthetes, rejected the idea that art must be didactic and advo-cated the principle of art for art’s sake. He was fascinated by the contrast art-life, asserting the superiority of art and his supreme aim was the cult of beauty. Beauty, as pure form, is only in reality; the great abstractions, like truth, morality, etc., are elusive and cannot be grasped. What we can grasp is form. Formal, i.e. artistic value, is the only “real” value. The work which best expresses his aesthetic creed is “The picture of Dorian Gray”. Dorian Gray is a young man whose beauty fascinates an artist, Basil Hallward, who decides to paint him. While the young man desires eternal youth, the signs of the age appear on the por-

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trait. Dorian lives only for pleasure, making use of everybody. When the painters sees the cor-rupted image of the portrait Dorian kills him. Later the protagonist, witness to his spiritual corruption, wants to free himself of the portrait and stubs it, but he mysteriously kills himself. In the moment of death the picture returns to its original purity, and the signs of the age ap-pear on Dorian’s face. This final stubbing and the inversion of roles can be read in more than one way: the triumph of art over life, because, at the end, the picture survives in glory of its beauty; and the impos-sibility of a life characterized only by pleasure, without a moral responsibility. Finally the works that also gave Wild a great reputation are comedies, in which he condemns the emptiness and the hypocrisy of Victorian age.

HIROSHIMA: LA DISTRUZIONE DELLA

BELLAZZA Si è visto come la natura tenda costantemente a quel matematico equilibrio che genera la per-fezione e l’armonia. L’Universo ha guadagnato tale equilibrio e bellezza in maniera totalmente spontanea e graduale. Ma purtroppo il lavoro che la natura ha compiuto in centinaia di mi-lioni di anni sembra subire gravi danni proprio dall’azione dell’essere più armonicamente co-stituito e più razionalmente evoluto: l’uomo. L’uomo, con il suo costante desiderio di potere e con le sue azioni, ha determinato uno squilibrio che la natura, autonomamente, non avrebbe mai generato. Il caso limite è quasi sicuramente rappresentato dal secondo conflitto mondiale che è stato causato principalmente della follia della mente umana e che si è concluso in un modo ancora più drammatico: con l’esplosione dell’ordigno più devastante mai costruito. Nel febbraio del 1945, mentre i grandi discutevano a Yalta, era già scattata l’offensiva finale che, nel giro di pochi masi, avrebbe portato alla caduta del Terzo Reich. I sovietici alla fine del mese, dopo aver liberato Varsavia, si trovavano a pochi chilometri da Berlino, mentre gli alle-ati infliggevano in colpo di grazia ai tedeschi presso le Ardenne. Più a sud l’armata rossa libe-rava l’Ungheria, Vienna e Praga che ottennero l’indipendenza nella fine di aprile. Il 25 dello stesso mese cadeva anche il fronte italiano e pochi giorni dopo Mussolini venne catturato e fucilato. Il 30 aprile, mentre i sovietici entravano nella capitale del Reich, Hitler si suicidò nel suo bunker segreto. Finisce così la massacrante guerra in Europa durata più di cinque anni. A questo punto rimaneva solo l’ultimo scontro in atto: quello fra gli Stati Uniti ed il Giappo-ne. A partire dal 1943 gli USA avevano iniziato una lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico, utilizzando grandi portaerei e bombardando strategicamente il territorio nippo-nico. Ma il nemico continuava a combattere con un crescente accanimento, rifiutando ogni tipo di resa e facendo ricorso all’utilizzo dei kamikaze, aviatori suicidi che si gettavano sulle na-vi avversarie con i loro aerei carichi di esplosivo. Non vedendo altra via d’uscita e, volendo far conoscere al mondo la vera potenza americana, il nuovo presidente Henry Truman decise di utilizzare contro il Giappone la nuova arma “tota-le”, la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, denominata in gergo militare “Little Boy”, “il ragazzino”. Essa rappresentava il devastante risultato dell’ambizioso progetto americano

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“Manhattan”, portato avanti da numerosi scienziati ed ingegneri non solo americani, ma an-che europei emigrati negli USA. La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che si annunciava an-cora lunga e sanguinosa, oltre che a dimostrare al mondo la vera potenza statunitense. La mattina del 6 agosto 1945 un bombardiere americano sgancia Little Boy, contenente 64 chili di uranio 235 sui cieli di Hiroshima, che viene fatto brillare a 500 metri dal suolo, di-stanza ottimale per ottenere la più forte onda d’urto al suolo in un raggio di oltre 1,5 chilo-metri. Nonostante tutto i nipponici non si arrendevano e gli americani non esitarono a ripetere l’operazione sulla città di Nagasaki, utilizzando questa volta una bomba al plutonio denomi-nata “Fat Man”. Gli effetti della bomba Gli effetti e le conseguenze dell'esplosione non furono tutti subito chiari. Oltre alle macerie causate dalla forza d'urto dell'esplosione e dal fuoco, divampato a causa del forte calore, furo-no le radiazioni l'incognita principale. Fat Man e Little Boy avevano una potenza compresa tra i 10 e i 30 kilotoni (Un kilotone (kT) indica l'energia liberata dall'esplosione di mille tonnellate di tritolo), in grado di generare: u-stioni di terzo grado in un raggio di 2,7 Km; un onda d’urto di almeno 3,5 tonnellate per me-tro quadrato ad una distanza di 2 Km; ed un tasso radioattivo di 500 rem che provoca la de-formazione dell’individuo e altera tutte le funzioni vitali. Furono proprio le radiazioni la causa degli effetti peggiori. Come ricorda anche Tamiki Hara, un abitante di Hiroshima suicidatosi nel 1951, descrivendo l’evento in “Lettera da Hiroshi-ma”, le radiazioni, penetrando profondamente nel corpo umano, danneggiarono cellule, alte-rarono il tessuto sanguigno, diminuirono la funzione di generazione del sangue nel midollo osseo, danneggiarono i polmoni, fegato e altri organi. I danni da radiazioni variavano consi-derevolmente a seconda della lontananza dall'ipocentro o dalla presenza di alti corpi di riparo. Le radiazioni iniziali emesse entro il primo minuto furono letali fino alla distanza di un chi-lometro. La maggior parte delle persone in quell'area morirono in pochi giorni. Coloro che sembravano rimasti indenni ebbero conseguenze di vario genere e morirono pochi giorni o mesi dopo. L'esplosione lasciò una radiazione residua al suolo per un lungo periodo. Di con-seguenza, molti di coloro che entrarono in città dopo l'esplosione alla ricerca di parenti o col-leghi di lavoro, nonché coloro che arrivarono per aiutare i superstiti, ebbero sintomi simili a quelli con esposizione diretta alle radiazioni. Molti di questi morirono. Sintomi da radiazioni, onda d'urto e calore apparivano inesorabilmente subito dopo l'esplo-sione. Questi comprendevano, oltre alle lesioni esterne, vomito e perdita dell'appetito, inson-nia, perdita dei capelli, vomito di sangue, sangue nelle urine, febbre, disordini mestruali, ri-duzione di leucociti ed eritrociti. Le lesioni esterne erano complesse e la resistenza era debole a causa delle radiazioni e della malnutrizione. Anche senza lesioni esterne, i sintomi da radia-zioni sembravano essere fatali per molti. Le bombe di Hiroshima e Nagasaki suggellavano tragicamente un bilancio di perdite che non aveva precedenti nella storia dell’umanità. I morti della Seconda Guerra Mondiale furono ol-tre 50 milioni, per oltre due terzi civili, periti nelle carestie, sotto i bombardamenti, nei campi di concentramento, duranti i massacri indiscriminati.

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Che fine ha fatto in tutto questo la bellezza? Dov’è quella matematica armonia che la natura si auto-costruisce? C’è ancora quell’equilibrio naturale che ha permesso la vita, oppure l’uomo, l’esempio migliore della perfezione naturale, è riuscito in pochi secondi a distruggere ciò che la natura ha costruito in miglia o milioni di anni? Prima o poi ci renderemo conto che sfidare la natura non ha senso e che la sua bellezza altro non è che la sublime espressione matematica dello sviluppo e della vita.

Bibliografia Enciclopedia Italiana, La Piccola Treccani. Tamiki Hara, Lettera da Hiroshima. Franco Salerno, Navigar per testi

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