Basaglia Repubblica 20150215-2

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la Repubblica DOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 30 LA DOMENICA <SEGUE DALLA COPERTINA SIMONETTA FIORI ARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI DUNA STAGIONE di disordine e furore che affiora dalle carte conservate in archivio, ora inventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per rac- coglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti, l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Qui è la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, di- retta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono cu- stodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agen- de, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccon- tano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci sia- no state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile», dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia fami- gliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Una storia che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’ar- chivio servono a ricordarlo. Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quelli di Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca On- garo, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani co- me fronteggiare una personalità potente rimanendo se stessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dalle catene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dal mutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nel marzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la ri- voluzione psichiatrica. L’istituzione negata fu subito be- stseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioni perfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggi- stica. Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Par- la Andrea che racconta della rete intorno al manicomio, di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta in una sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’e- state con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che fa- ceva male stare legati come Cristo in croce, dalla matti- na alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si usciva in giardino si stava legati all’albero. Lo stesso racconta Carla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusa nel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enor- me letamaio impregnato di un lezzo infernale», aveva detto Basaglia appena varcato il portone del manicomio di Gorizia. L’istituzione negata rappresenta un gigante- sco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche dei medici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori». Del suo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati, che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casa editrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scri- verti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e mol- to importante. Vive delle tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze auto- distruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggire l’inquietudine di un movimento che si nutre di contrad- dizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stu- pirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irri- tati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già sie- te: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccol- to non per raccontare o fingere la morte di Agamenno- ne, ma per ucciderlo con le proprie mani”. Moriva non la psichiatria ma un certo modo di intenderla, come insieme di nor- me e codificazioni. «Tra la malattia e il ma- lato senza dubbio mi interessa più il malato», diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai dif- fusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostra- no una rete vastissima di relazioni, da un mae- stro della fenomenologia come Eugène Minkow- ski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agli esponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper e Ronald Laing, che spingevano per il superamento della disciplina. Anche voci più ufficiali manifestava- no attenzione per le sue posizioni eterodosse. Ignacio Matte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?, un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sul mondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967 gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei in tutti i punti — il che sarebbe impossibile tra esseri pen- santi — ma condivido fortemente l’impostazione gene- rale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”. Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero con- durlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cam- biare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoi confini ad altri campi, in una più vasta riflessione poli- tico-culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in una lettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiesta di altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlato con Laing, che suggeriva di organizzare un trattato di antipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte ita- liana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trat- tato di antipsichiatria non ha senso in questo momen- to”. A Basaglia interessa di più trasformare la psichia- tria in “un’occasione di incontro-discorso politico anti- stituzionale” che offra una possibilità di azione. Un progetto poi realizzato con Crimini di pace, volume col- lettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e Michel Foucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al cen- tro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole libe- rarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo co- stringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione auto- biografica. Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantot- to. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissi- me resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà, non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”, scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “co- munità terapeutiche” dove il disagio psichico viene cu- rato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti. “Sono in crisi anche per quel che riguarda il significato più profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di una struttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro è funzionale all’attuale sistema politico ed economico ri- spetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qual- cosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato in quel che faccio”. Sarà un incidente ad allontanarlo da Go- rizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uc- cide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe sta- to assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Si dimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’an- no successivo va a insegnare a New York. Per realizzare il suo progetto — chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute men- tale — deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del 1971. È la stagione più intensamente vissuta, in una esplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta che nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costrui- to, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che, nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana pa- ziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dal- l’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario del- l’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Gior- dano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedale psichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questo caso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzio- ne, ma il processo si chiude tra molte ombre. Ancora una volta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo so- stegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “La cosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Ba- saglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condan- nato il medico del centro di igiene mentale cui spettava il controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centri di igiene mentale, come un prolungamento poliziesco del controllo che l’ospedale psichiatrico non può più at- tuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenza lascia immutato il problema della prevedibilità o impre- LE IMMAGINI AL CENTRO “MARCO CAVALLO”, IL GRANDE CAVALLO AZZURRO CHE NEL 1973, A TRIESTE, RUPPE (MATERIALMENTE) LA RETE CHE SEPARAVA MANICOMIO E CITTÀ. IN ALTO UN’IMMAGINE DI BASAGLIA GIOVANE. LE LETTERE E LE FOTOGRAFIE CHE PUBBLICHIAMO IN QUESTE PAGINE PROVENGONO DALL’ARCHIVIO DELLA “FONDAZIONE FRANCA E FRANCO BASAGLIA”. A UN NUOVO PROGETTO DELL’ARCHIVIO STA LAVORANDO L’ASSOCIAZIONE LAVORO CULTURALE (WWW.LAVOROCULTURALE.IT) CHE RACCOGLIE UN GRUPPO DI GIOVANI STUDIOSI COORDINATO DA SILVIA JOP E MASSIMILIANO COVIELLO La copertina. Laboratorio Basaglia Archivio Basaglia RTV - LA EFFE LUNEDÌ SU REPTV NEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50 DEL DT E 139 DI SKY) FABRIZIO GIFUNI RACCONTA FRANCO BASAGLIA A Sartre scriveva dei processi, al collega Maxwell Jones confidava quanto si sentisse in crisi come psichiatra I documenti inediti raccontanola più pazzesca delle rivoluzioni: quella di un medico “interessato più al malato che alla malattia” S

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la Repubblica

DOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 30LA DOMENICA

<SEGUE DALLA COPERTINA

SIMONETTA FIORI

ARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI D’UNA STAGIONE di disordinee furore che affiora dalle carte conservate in archivio, orainventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per rac-coglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti,l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Quiè la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, di-retta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono cu-stodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agen-de, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccon-tano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci sia-no state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile»,dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia fami-gliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Unastoria che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’ar-chivio servono a ricordarlo.

Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quellidi Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca On-garo, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani co-me fronteggiare una personalità potente rimanendo sestessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dallecatene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dalmutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nelmarzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la ri-voluzione psichiatrica. L’istituzione negatafu subito be-stseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioniperfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggi-stica. Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Par-la Andrea che racconta della rete intorno al manicomio,di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta inuna sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’e-state con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che fa-ceva male stare legati come Cristo in croce, dalla matti-na alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si uscivain giardino si stava legati all’albero. Lo stesso raccontaCarla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusanel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enor-me letamaio impregnato di un lezzo infernale», avevadetto Basaglia appena varcato il portone del manicomiodi Gorizia. L’istituzione negatarappresenta un gigante-sco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche deimedici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori». Delsuo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati,che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casaeditrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scri-verti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e mol-to importante. Vive delle tensioni che si producono nelsuo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze auto-distruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggirel’inquietudine di un movimento che si nutre di contrad-dizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stu-pirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irri-tati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già sie-te: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccol-to non per raccontare o fingere la morte di Agamenno-

ne, ma per ucciderlo con le proprie mani”.Moriva non la psichiatria ma un certo

modo di intenderla, come insieme di nor-me e codificazioni. «Tra la malattia e il ma-lato senza dubbio mi interessa più il malato»,diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai dif-fusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostra-no una rete vastissima di relazioni, da un mae-stro della fenomenologia come Eugène Minkow-ski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agliesponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper eRonald Laing, che spingevano per il superamentodella disciplina. Anche voci più ufficiali manifestava-no attenzione per le sue posizioni eterodosse. IgnacioMatte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?,un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sulmondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei intutti i punti — il che sarebbe impossibile tra esseri pen-santi — ma condivido fortemente l’impostazione gene-rale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”.

Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero con-durlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cam-biare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoiconfini ad altri campi, in una più vasta riflessione poli-tico-culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in unalettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiestadi altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlatocon Laing, che suggeriva di organizzare un trattato diantipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte ita-liana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trat-tato di antipsichiatria non ha senso in questo momen-to”. A Basaglia interessa di più trasformare la psichia-tria in “un’occasione di incontro-discorso politico anti-stituzionale” che offra una possibilità di azione. Unprogetto poi realizzato con Crimini di pace, volume col-lettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e MichelFoucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al cen-tro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole libe-rarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo co-stringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione auto-biografica.

Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantot-to. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissi-me resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà,non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”,scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “co-munità terapeutiche” dove il disagio psichico viene cu-rato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti.“Sono in crisi anche per quel che riguarda il significatopiù profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di unastruttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro èfunzionale all’attuale sistema politico ed economico ri-spetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qual-cosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato inquel che faccio”. Sarà un incidente ad allontanarlo da Go-rizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da

tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uc-cide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe sta-to assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Sidimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’an-no successivo va a insegnare a New York.

Per realizzare il suo progetto — chiudere il manicomioe dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute men-tale — deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del1971. È la stagione più intensamente vissuta, in unaesplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni diMarco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapestache nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costrui-to, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che,nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana pa-ziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dal-l’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo

del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario del-l’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Gior-dano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedalepsichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questocaso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzio-ne, ma il processo si chiude tra molte ombre. Ancora unavolta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo so-stegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “Lacosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Ba-saglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condan-nato il medico del centro di igiene mentale cui spettavail controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centridi igiene mentale, come un prolungamento poliziescodel controllo che l’ospedale psichiatrico non può più at-tuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenzalascia immutato il problema della prevedibilità o impre-

LE IMMAGINI

AL CENTRO “MARCO CAVALLO”,IL GRANDE CAVALLO AZZURRO CHE NEL 1973,

A TRIESTE, RUPPE (MATERIALMENTE)LA RETE CHE SEPARAVA MANICOMIO E CITTÀ. IN ALTO UN’IMMAGINE DI BASAGLIA GIOVANE.

LE LETTERE E LE FOTOGRAFIE CHE PUBBLICHIAMO IN QUESTE PAGINE PROVENGONO DALL’ARCHIVIO

DELLA “FONDAZIONE FRANCA E FRANCO BASAGLIA”. A UN NUOVO PROGETTO DELL’ARCHIVIO

STA LAVORANDO L’ASSOCIAZIONELAVORO CULTURALE (WWW.LAVOROCULTURALE.IT)

CHE RACCOGLIE UN GRUPPODI GIOVANI STUDIOSI COORDINATO

DA SILVIA JOP E MASSIMILIANO COVIELLO

La copertina. Laboratorio Basaglia

ArchivioBasaglia

RTV - LA EFFE

LUNEDÌ SU REPTVNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50DEL DT E 139 DI SKY)FABRIZIO GIFUNIRACCONTAFRANCO BASAGLIA

A Sartre scriveva dei processi, al collega Maxwell Jonesconfidava quanto si sentisse in crisi come psichiatraI documenti inediti raccontanola più pazzesca delle rivoluzioni: quella di un medico “interessato più al malato che alla malattia”

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vedibilità della pericolosità del malato di mente”. Unaquestione che dopo quarant’anni è ancora irrisolta, conlo scandalo dei manicomi giudiziari tuttora in vita.

È anche per questo che la famiglia Basaglia ha decisodi rendere pubblico l’archivio dell’isola di San Servolo.«Il discorso sui matti e sui più deboli resta attuale», com-menta Alberta, che continua la tradizione famigliarecon la sua attività di psicologa. «È una storia che va avan-ti e non dobbiamo fermarci». Sartre diceva che ci sonomorti che vivono, e sono loro il nostro avvenire, il compi-to futuro. «Questo si può dire anche di Franco e FrancaBasaglia e dell’impresa da completare che ci hanno la-sciato», conclude l’antica collaboratrice Giannichedda.Morti che ci parlano da un tavolino assolato di Parigi, con-tenti di stare insieme, anche se per l’ultima volta.

A GIULIO EINAUDI

A LONDRA HO PARLATOCON LAING CHEMI HA SUGGERITODI ORGANIZZAREUN TRATTATODI ANTIPSICHIATRIA.LA COSA PERÒ A MIO AVVISOÈ ASSURDA: FARE UN TRATTATODI ANTIPSICHIATRIANON HA SENSOIN QUESTO MOMENTO

A MAXWELL JONES

CARO MAX,SONO IN CRISI ANCHEPER QUEL CHE RIGUARDAIL SIGNIFICATO PROFONDODEL MIO LAVORO.SENTO SEMPRE DI PIÙ CHE È FUNZIONALEALL’ATTUALE SISTEMA POLITICO E ECONOMICORISPETTO AL QUALE SONO IN DISACCORDO

DA GIULIO BOLLATI

CARO FRANCO,IL VOSTRO LIBROÈ BELLISSIMOMA NON MI STUPIREISE NE FOSTE SCONTENTI.È COME SE VI FOSTE RACCOLTINON PER RACCONTAREO FINGERE LA MORTEDI AGAMENNONEMA PER UCCIDERLOCON LE PROPRIE MANI

A JEAN-PAUL SARTRE

CARO SARTRE, IL PROCESSOSI È CONCLUSOAMBIGUAMENTE. È QUINDIUNA VITTORIA E, INSIEME,UNA SCONFITTAPERCHÉ LA SENTENZA LASCIAIMMUTATO IL PROBLEMADELLA PREVEDIBILITÀO IMPREVEDIBILITÀDELLA PERICOLOSITÀDEL MALATO DI MENTE

<SEGUE DALLA COPERTINA

FABRIZIO GIFUNI

MA QUESTA VOLTA sentivoche era importante, perme che lo dovevostudiare, capire come ecosa avesse studiato lui.

Chi fossero stati i suoi maestri e quanto loavessero influenzato.I padiglioni abbandonati del vecchioospedale psichiatrico di Imola servironoa raccontare la maledizionedell’ospedale di Gorizia e la suatrasformazione. Giornateindimenticabili: alla troupe del film siunirono le ragazze e i ragazzi di alcunecooperative che avevano attraversato —nella realtà — problemi di disagiomentale. Riempirono con incontenibile ea volte silenzioso entusiasmo, constrabiliante professionalità, tutte lescene delle prime assemblee goriziane. È lì, credo, che ha preso definitivamentecorpo il personaggio di Franco Basaglia.Per merito degli altri corpi e degli altrisguardi in cui mi impigliavo, tutto siconfuse. Tutti ci perdemmo. Unendo lenostre forze, scambiandoci consigli osemplicemente osservandoci da lontano.Quando ci trasferimmo a Trieste,all’ospedale San Giovanni — “la città deimatti” immersa nel parco — PeppeDell’Acqua, allievo e secondo successoredi Basaglia, fu il mio Virgilio. Dopo leriprese lo accompagnavo nei suoi giri neicentri di salute mentale, nelle microaree,in tutti quei luoghi resi possibili da unadelle leggi più avanzate al mondo. Avevoil privilegio di attraversare, per qualchesettimana, un territorio dove, ognigiorno, persone pazienti epreparatissime mettono in gioco tutte leproprie energie per aiutare “i nostrifratelli più sfortunati”. In strutturepubbliche straordinariamente civili dovenon esiste più, come diceva Basaglia, unapsichiatria per i poveri e una psichiatriaper i ricchi. Persone consapevoli che, unavolta restituita dignità e diritti civili aindividui per decenni privati di tutto, lamaggior parte del lavoro sia ancora dafare. Potevo vedere finalmente con i mieiocchi cosa significa cercare di applicarequotidianamente la Legge 180 perriempirla concretamente di senso. Ecome sia a tutt’oggi molto più faciledisattenderla in tante regioni italianedove ritardi, mancanze e cattivacoscienza consentono ancora abusi edegradi. Dove il peso viene scaricato condisinvoltura sulla famiglie, per poter dire“avete visto? È colpa di Basaglia”. E poi la paura. Quella sempre. Ilsentimento dall’innesco facile, virus dirapido e irrazionale contagio. Facilissimoalimentarla, lo sappiamo. Una cosa ècerta, disponiamo oggi di uno strumentolegislativo e culturale molto più avanzatorispetto alla sensibilità diffusa. Ci sono uomini che cominciano apensare dove gli altri finiscono. Restanosoli, spesso. Intorno non capiscono,denigrano, procurano il fallimento.Anche Basaglia ha fallito, in molti sensi.Non siamo stati all’altezza del suosguardo, non ancora.

Per vederela città dei mattiho indossatoil suo sguardo

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ELAB

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ALIN

ARI