BARI SOLE & CERASE

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Associazione Culturale Terrae Edizioni

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Audiolibro realizzato per Ass. cult. Terrae Edizioni

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Associazione Culturale TerraeEdizioni

Un prezioso audiolibro che propone l'omonimo lavoro

pubblicato in LP quasi trent'anni fa con l'indimenticabile voce di

Riccardo Cucciolla. Oggi, a restituirci con rispetto

l'alchimia sonora fra testi e musiche, la delicata interpretazione di Rocco Capri Chiumarulo.

Alle registrazioni originali dello storico vinile, affidate all'epoca a musicisti straordinari

(tra cui Pino e Nando Di Modugno, tuttora tra i protagonisti dello spettacolo dal vivo),

si affiancano quattro nuove tracce con gli interventi di Paolo Mastronardi,

Massimo La Zazzera e dell'emozionante voce del Maestro Piergiovanni.

All'interno, le affascinanti foto di Nicola Amato ed un’elegante elaborazione grafica

dei disegni originali dello stesso Maestro.

Mario Piergiovanni e Riccardo Cucciolla,i Maestri a cui è dedicato questo audiolibro

LIBRO + CD MUSICALEPrezzo consigliato € 10,00

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le &

Cer

ase

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TERRAE si forma nel 1993 ad opera di artisti pugliesi, per dar vita ad un ensemble nel quale riassumere le eterogenee esperienze maturate sia nella musica che nel teatro dai suoi fondatori. Prima ancora di essere un gruppo aperto nel quale confl uiscono e si confrontano esperienze che attingono senza distinzione o preferenza ad un patrimonio non solo italiano ed europeo, è un’idea legata al fascino mutevole del nomadismo, un’idea in divenire collocata su un’incerta frontiera dell’immaginario, accesso simultaneo a mille luoghi.Con queste premesse, è facilmente comprensibile come Terrae rinunci volutamente alle pretese fi lologiche, favorendo invece una chiave di lettura squisitamente interpretativa. Una propensione al ‘vagare’ attraverso linguaggi espressivi i più diversi, senza alcuna preclusione, proprio come nel labirinto scolpito sulla pietra ritrovata casualmente in Spagna e diventata il suo simbolo, metafora di quella sorta di Babele creativa nella quale si perdono tutti coloro i quali condividono, di volta in volta, i vari progetti artistici. Terrae, dunque. Luogo di passaggi scambi sovrapposizioni. Quanto al dittongo, lasciamo al caso l’interpretazione del caso.

BARI SOLE & CERASElibretto: MARIO PIERGIOVANNI - Musiche: GIANNI GIANNOTTI

ROCCO CAPRI CHIUMARULO voce recitantefatta eccezione per U SOLE con la voce del Maestro Mario Piergiovanni

I musicisti delle basi musicali di BARI SOLE & CERASE:NANDO DI MODUGNO chitarra classica, mandolino PINO DI MODUGNO collaborazione arrangiamenti, fi sarmonica, piano, vibrafono GIANNI GIANNOTTI arrangiamenti, chitarra classica, cantoROSA CAVALIERI canto - PIERFRANCO MOLITERNI violino solistaPASQUA DE RUVO violino - NINO LEPORE violaTONIO MARVULLI viola - ZBIGNIEW STANKIEWICZ violoncello VINCENZO CHIAPPERINI contrabbasso - FRANCO DI PUPPO fl autoI musicisti di NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE:ROCCO CAPRI CHIUMARULO cantoPINO DI MODUGNO fi sarmonica - MASSIMO LA ZAZZERA fl auto traversoPAOLO MASTRONARDI chitarra classica, chitarra battente- Registrazione basi musicali eff ettuata nell’aprile 1981 negli studi della C&M Discografi ca - Bari- Registrazione voce Rocco Capri Chiumarulo eff ettuata il 9-10-14 aprile 2009 negli Studi Sorriso - Bari

- Registrazione “Ninna Nanna de Sanda Necòle” eff ettuata il 20 aprile 2009 negli Studi Sorriso - Bari

- Le registrazioni originali delle basi musicali sono state recuperate dagli archivi della C&M - Sorriso srl

- Ingegneria del suono e restauro audio Tommy Cavalieri

I testi e le poesie di questo disco sono tratti dal libro “Sole & cerase” edito dai Fratelli Laterza - Bari

Si ringrazia il Dott. Giuseppe Laterza per la gentile concessione dei testi,

Mimmo Trisciuzzi e Terri Cantarone per aver autorizzato l’utilizzo delle basi originali del 1981

e Anna Garofalo per l'accurata trasposizione dei testi in italiano.

Inoltre: Nicola Amato, Tommaso Armenise, Banca Popolare di Puglia e Basilicata,

Saverio Catacchio, Tommy Cavalieri, Arturo Cucciolla, Luca De Napoli,

Pino Di Modugno, Saverio Fiore, Adriano Garofalo, Gianni Giannotti, Massimo La Zazzera,

Sergio Leonardi, Progetto Vallisa, Daniele Sarno, Antonio Schirinzi.

Un grazie sentito alla famiglia Piergiovanni: alle fi glie Anna e Denny e,

in particolare, al nipote Erio Macchia per la sua generosa disponibilità.

Le foto dell'audiolibro sono di Nicola Amato

(inserite anche nel suo video “Bari cambia”

che chiude gli spettacoli live), Archivio Fotografi co Fotogramma - Bari

(fatta eccezione per la foto d’archivio di Mario e Riccardo,

e di Mario sulla terrazza del suo studio in Via Venezia)

Progetto grafi co ed elaborazioni foto: www.tommasoilgrafi co.it

In collaborazione con: Con il contributo di:

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Mario Piergiovannisulla terrazza del suo studio in Via Venezia

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Associazione Culturale TerraeEdizioni

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ISBN 9788890557200

© Copyright 2010Associazione Culturale Terraeweb: www.progettoterrae.com

e-mail: [email protected] i diritti riservati.

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INTRODUZIONE

Sono passati quasi trent'anni dalla pubblicazione discografi ca a tiratura limitata di BARI SOLE & CERASE. Prima, ve ne fu una soltanto letteraria.Lo straordinario libretto del poetapittorescultore Mario Piergiovanni (Bari, 15.4.1927 - 9.4.2009), musicato per l’incisione con assoluta pregevole delicatezza da Gianni Giannotti con alcuni “suggerimenti” dello stesso Piergiovanni, venne ulteriormente impreziosito dai valori inestimabili della voce e dell’interpretazione di Riccardo Cucciolla(Bari, 5.9.1924 - Roma, 17.9.1999) con cui Rocco Capri Chiumarulo e Terrae hanno avuto più volte l’onore e il piacere di collaborare. Da allora, di questo lavoro, si sono inspiegabilmente perse le tracce.Il ventennale dell’Auditorium Diocesano Vallisa di Bari, nell’ottobre 2006, è stato solo il pretesto formale grazie al quale abbiamo riletto e riproposto dal vivo questo prezioso scrigno di poesia elegante e raffi nata che, restituendo dignità di Lingua al Dialetto, ne divarica le distanze dal vernacolo: una gemma che già da tempo l’Autore ci aveva fi duciosamente affi dato con slancio sincero, insieme a tutta la sua produzione letteraria e non.E se con lo spettacolo s’intese, e s’intende, rendere anche un modesto ma sentito omaggio a Riccardo, questo disco ha il compito di ricordare Mario ad un anno dalla sua scomparsa fatalmente avvenuta proprio mentre cominciavamo queste nuove registrazioni. Un grazie al primo, quindi, attore raffi nato e schivo e tra i più sensibili di una città spesso immemore, per essere riuscito a coniugare il grande talento con il coraggio di un impegno civile che lo ha preservato dalle sirene seducenti della popolarità di massa. E al secondo, artista poliedrico, ostinato, scomodo, che non ha fatto sconti a nessuno nel perseguire la bellezza e l’armonia della verità con una ricerca costante sulla materia e sul verso. Grazie anche a Francesca Castriota che, ancor prima dei due, regalò quest’opera al nostro cuore.

Terrae

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NOTAAlcuni passaggi testuali registrati nel disco diff eriscono leggermente da quelli dell’edizione letteraria. In questo modo, si è preferito rispettare sia le variazioni concordate tra Piergiovanni e Cucciolla per l’incisione del 1981, sia quelle concesse dall’Autore stesso a Rocco Capri Chiumarulo per gli spettacoli dal vivo. A diff erenza dei testi dialettali, fedelmente riportati nell'audiolibro con i probabili refusi di stampa di quell’edizione, abbiamo invece riscritto, con il dovuto rispetto, tutte le traduzioni in italiano, così da renderne più scorrevole la lettura.

STÉVE NA VOLDE NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE (tradizionale)

VELESSECERASELE SGAGLIOZZEBENEDITTEGESEMUNNE “U FRANGESE”U QUÈSTE DU SPARÀGNEU SAGRESTANE E U CANÒNECHEU MMJIRE DU CANÒNECHEPOVER’I CIECHILUCIELA PALME DE LA ZITEU SOLE con la voce del Maestro Mario Piergiovanni

LE CIELZE RUSSEPE NU BAMMÌNEU NATALEASPETTANNE NA SCERNATA BBONEFINALE (strumentale)

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Edizioni Emi Music Publishing Italia Srl

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STÈVE NA VOLDE[C’ERA UNA VOLTA]

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Stéve na volde nu vecchie e na vecchie, stevene a menzequà le fave dret’o specchie.Steve na scale longa longa pe salì. Jié bbelle, la ué sendì? ...Se n’è sciute o senne…C’era una volta un vecchio e una vecchia, sgranocchiavano fave dietro lo specchio.C’era una scala lunga lunga che saliva. È bella, vuoi sentirla? ...Si è addormentato…

STÈVE NA VOLDE [C’ERA UNA VOLTA]

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Gianni Giannotti

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NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE[NINNA NANNA DI SAN NICOLA]

(tradizionale)

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Paolo Mastronardi

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NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE[NINNA NANNA DI SAN NICOLA]

E nninna nanne e nninne e nninna vole,cambana sande e di, cambana sande e di Sanda Necòlo.Sanda Necòla mì, ce va facènne?Jie vogghe accheiesscènne, jie vogghe accheiesscènne le peceninno.Sanda Necòla mì, ce me lu manne u vogghie ricche e pure, u vogghie ricche e pure senza mammo.Sanda Necòla mì merachelùse, iabbre la porte a ccì,iabbre la porte a ccì la tène achiuso.

E ninna nanna e ninna e ninna vola,campana santa e di, campana santa e di

San Nicola.San Nicola mio, che fai?

Voglio tranquillizzare, voglio tranquillizzare i bambini.

San Nicola mio, se mi mandi un marito, lo voglio ricco ed anche, lo voglio ricco

ed anche senza mamma.San Nicola mio miracoloso,

apri la porta a chi,apri la porta a chi la tiene chiusa.

Allore... viste ca u pecceninne se n’è sciut’o senne… nge facime nu surse de penziere?

Allora… visto che il bambinosi è addormentato...

vogliamo farci un sorso di ricordi?

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Rocco Capri Chiumarulo

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VELESSE[VORREI]

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VELESSE [VORREI]

Velesse fà nu surse de penziere come ce fosse na trate de mire.Velesse agnì na bottiglie chiene p’acquanne u core mì me vene mene;e mette la recchie sop’o quedde e, dolge, sendì na voscie de uagnedde,le resate, le remmure de le vase d’acquanne nu jèveme cerase.Vorrei farmi un sorso di ricordi come se fosse una tirata di vino.Vorrei riempirmi una bottiglia per quando il cuore mio si rattrista;e mettere l’orecchio sul collo e, dolce, sentire una voce di ragazza, le risate, i rumori dei baci di quando noi eravamo ciliegie.

A proposete de cerase... Quando si diceva “Te canosceche da quanne jive cerase...”, molti pensavano di dire “Ti conosco da quando eri giovane...” Beh, io invece vi voglio raccontare la storia vera...

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Pino Di Modugno

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CERASE[CILIEGE]

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Nu contadine, nu zappatore teneve n’arue e non sapeve ce ff à;non deve frutte, non deve fi urevecchie cerase ma ce steve a ff à.Na bella diì pigghie na serree chiane chiane acchemenze a serrà;u arue geme, u arue cedee rrame e foglie cadene ggià.Passe da ddà nu frangescane,vede u cerase ca jè bbelle assà;disce o chezzale:

Un contadino, uno zappatore aveva un albero e non sapeva che farne:non dava frutti, non dava fi ori;un vecchio ciliegio che non serviva a nulla.Un bel giorno prende la segae piano piano comincia a tagliarlo;l’albero geme, l’albero cedee rami e foglie cominciano a cadere.Passa da lì un francescano,vede il ciliegio così belloe dice al contadino:

CERASE [CILIEGE]

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“Ce tu m’u dà,nu Crocefi sse jie me fazze fà.”“Megghie acchessìpe la lusce de Criste,ca pe le fi amme du demonie triste.”Le tiembe triste, l’annata avarep’u poveriedde la vite è amare;la terre è arse, u grane morese mangie sule ppane e sedore.Semme cchiù ttriste, chiù desperatetrase a la chiese pe sciue a pregà;u Criste vede sop’o ualdaree s’angenocchie e acchemmenz’a parlà:“Gesù u sà ce vvenghe a ff à?Na grazia granne Tu m’ha da fà,a mmè non puete disce de noca Tu sà bbune jie ce ssò.Si state fatte cu legne de case;jie Te canosceche da quanne jìve cerase.So ff adegate, so semenatema sta terra ngratenudde m’ha date.”“E ce jà disce jie” - Gesù nge respennì -“ca so semenate tand’amoree so raccolde sule na Crosce.”

“Se me lo dai,mi faccio fare un Crocifi sso.”“Meglio cosìper la luce di Cristoche per le fi amme del demonio triste.”I tempi diffi cili, l'annata avaraper il povero la vita è amara;la terra è arsa, il grano muore,si mangia solo pane e sudore.Sempre più triste, più disperato,entra in chiesa per andare a pregare;sull’altare vede il Cristo,s’inginocchia e comincia a parlare:“Gesù, sai perchè sono venuto?Mi devi fare una grazia grande;a me non puoi dire di no, perché Tu sai bene chi sono.Sei stato fatto con il legno di casa;io Ti conosco da quando eri ciliegio.Ho lavorato, ho seminato,ma questa terra ingratanon mi ha dato niente.”“E che devo dire io” - gli rispose Gesù -“che ho seminato tanto amoreed ho raccolto solo una Croce.”

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SGAGLIOZZE[LE SGAGLIOZZE]

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SGAGLIOZZE

Nu bbuche chiù peccenunne de cudde non u tenevene manghe le scarpare ca se vonne a capà tutte le pertuse chiù stritte c’asistene, come a le pelose, pe quanne u juse ca se jeve capàte Vastiane jeve vascie e ccurte a la vì de la Torrette.Rase rase, nzertate, capave jidde, n’anghette, na beff ette e la ramere fatte a fernacedde.La gatte, acquanne traseve jidde, asseve fore. Arrevave per tiembe la matine p’auandà le megghie cliinde su: le uagnungiedde de la scole alimendare e pò, le peccenunne ca scevene a la majestre.Sop’o tarde qualche uagnedde ca sceve a fà la vequate a la fendane.Na sporte de carvune stetate sott’o vrazze, nu vendagghie arremediate da nu buatte de comacchie e da nu maneche de scope, nu chieppe de fermenande jind’a ogne palde, jeve tutte le mercanzie p’u commercie su.Precise e asatte com’a nu sagrestane acquanne apprepare u aldare la matine, s’asseduave sop’o u anghette, che la fernacedde menze a la scenocchiere, l’armave e deve fueche.Fin’acquanne u fume du giornale e du uegghie, ca ngatramave le carvune, non asseve d’o juse, e l’arie non schiarave, Vastiane non se arrecanesceve. Jinde a na sorte de fresore, che du discete de gnore atturne atturne, calave u egghie, accurte com’a n’arefece. Da na tiedde de fernare chiene de polende tagghiate a quadrotte, tutte na mesure, asseve le sgagliozze gialle com’o uore. A june a june le calave jind’o uegghie frevute ca sùbbète acchemenzave a sckattà, come a le secce, pe tutte l’acque ca nge scettàve jinde nzime a la polende. Che la fercina longhe, ameruse, le veldave, le gerave, l’asseduave e cu nase con-drollave la cotture. Le peteve reterà pure a iecchie achiuse tande jeve pradeche o u addore de le sgagliozze sfritte o punde ggiuste.Le spanneve pò sop’a na carta ggialle du fermaggie o a chedda blu de le mienze zite; le chenzave cu sale gresse e, mane che mane, prime auandave u solde, e pò allendave la sgaliozze. Mò la strate de la Torrette ave state achiuse; va ttruve percè, e Vastiane ha spa-resciute. Ce disce ca stà appeggiate, pe mò, appierse a la fi gghie ‘nzerate a Cegghie; ma jie crete, ce cambe angore, ca stà a le poveriedde. U juse stà semme achiuse e le pete du settane donne angore d’egghie sfritte.

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[LE SGAGLIOZZE]

Un buco più piccolo di quello non ce l’avevano nemmeno i ciabattini, che scelgono i pertugi più piccoli, come i granchi; difatti il sottano che si era scelto Vastiane era basso e corto, alla via della Torretta.Basso basso, stretto, ci entrava soltanto lui, una panchetta, un tavolinetto e una latta di vernice a mò di braciere. La gatta, quando entrava lui, era costretta ad uscire.Arrivava per tempo la mattina per assicurarsi i suoi migliori clienti: i ragazzini della scuola elementare e, poi, i più piccoli che andavano dalla maestra. Sul tardi, qualche ragazza che andava a fare il bucato alla fontana.Sotto il braccio, una sporta di carboni spenti, un ventaglio ricavato da un barattolo di an-guille Comacchio e da un manico di scopa, una manciata di fi ammiferi in ogni tasca: era tutto l’occorrente per il suo commercio. Preciso e rigoroso come un sacrestano che prepara l’altare al mattino, si sistemava sulla panchetta, con il braciere in mezzo alle ginocchia, l’armava e dava fuoco. Fino a quando il fumo del giornale e dell’olio che incatramava i carboni non usciva dal sottano e l’aria non si rischiarava, Vastiane non lo si distingueva. Dentro un’enorme padella con due dita di grasso nero tutt’intorno, versava l’olio, preciso come un orefi ce.Da una teglia da fornaio, piena di polenta tagliata a quadrotti, tutte di una misura, prendeva le sgagliozze gialle come l’oro. Le immergeva una ad una nell’olio bollente, che subito cominciava a scoppiettare come le seppie a causa di tutta l’acqua che cadeva dentro assieme alla polenta. Con la forchetta lunga, amorevolmente, le voltava, le girava, le sistemava e col naso ne controllava la cot-tura. Le poteva ritirare anche ad occhi chiusi tanto era abituato all’odore delle sgagliozze fritte al punto giusto. Le stendeva poi sulla carta gialla da formaggio, o a quella blu dei mezziziti, le condiva col sale grosso e, mano con mano, prima prendeva il soldo e solo dopo dava la sgagliozza. Ora la strada della Torretta è stata chiusa, vai a sapere perché, e Vastiane non c’è più. Chi dice che, per ora, sta a Ceglie dalla fi glia sposata; ma io credo, se è ancora vivo, che sta all’ospizio dei poveri.Il sottano è sempre chiuso e le sue pietre sanno ancora di olio sfritto.

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BENEDITTE[BENEDETTO]

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Steve assedute semme ddà, matine e sere.Nu stezze de vecchie fi dilinetutt’arrafagnate e asseccate com’a na fi che asseccate;nzertate sop’a na segge addò jidde asselute peteve capàpe ccome se jieve fatte la forme com’a nu chianidde.A la case deve ndriche e tutte u vavesciavene e u menduavene.E ppò jieve megghie pe strate addò se faceve arrecanosce, veneve respettate:“Care nononne!”“Addie, addie!”E se remetteve che la cere de june ca ce ssape ce teneve da penzà.Punduale, d’o queste de la vocche,sembe drecate da na pippe de terragghia rossee cu zippe de cannedda ggialle,ngi ascenneve na vave e se squagghiave sop’o gelè.Le capisciole c’attaccavene le calzenitte e le cannedde de le gambe,

Era sempre seduto lì, mattina e sera.Un piccolo, gracile vecchio

tutto accartocciato e rinsecchitocome un fi co;

incastrato in una sediain cui poteva starci solo lui:

per via del calco che si era creato,come fosse una pantofola.

In casa dava fastidioe tutti lo deridevano, lo spingevano.

E poi era meglio per stradadove veniva riconosciuto,

veniva rispettato:“Caro nonno!”“Addio, addio!”

E si rimetteva con l'espressione di unoche chissà quali pensieri avesse per la

testa.Puntuale, dal lato della bocca,

occupata da una pipa di terraglia rossa

e col cannello di canna gialla,gli colava una bava

che gli fi niva sul gilè.Le fettucce che legavano

le brache alle gambe

BENEDITTE[BENEDETTO]

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assevene da sotte o calzone e se stesciavene sop’a le scarpe,tagghiate a le ponde e a le queste,pe vvì de le cepodde ca nge duèvene acquanne aveva cangià u tiembe.Nu pare de calzune e na giacchette ca nge scevene a cature, arrecherdavene o popele la stazza sò acquanne jieve uagnone staddigne.Ca l’ànnere e u tiembe u jevene strengiute.Ma u prìesce su jève u cappidde.Nu cappidde tipe militare che la visiera gnoreca jidde deceve de la Reggia Marinema a mmè pareve chiù de nu uardiamorte.Maisì a levàngeue da ngàpe: jeve notte!Pe qualche birbande ca u sfetteve,u teneve attaccate che nu lazze pe scarpe da sott’a la pechiocche.Jidde deceve ca ngi acchemegghiave na brutta ferite ca se jeve abbesckuate a la uerre de le Dardanelle,ma le male lengue decevene o ca la scazzette se jeve ngheddate o quere, o pure jeve na vecchia tigne ca non nge passave mà.Na dì non u vedemme cchiù.Fu ddìtte ca p’acchendendà u l’uldeme desederie su,chedda bona femmene de Jannine, la megghiere,invece d’attaccange u fazzuettone da sotte a la babbisce,pe non mannaue nnanze a Criste a vocc’aperte,ngi u asseduò sap’a la cape a la manere de le chezzale,

uscivano da sotto il pantalonee strisciavano sulle scarpe,tagliate alle punte e ai lati

per via dei calli che gli dolevanoquando doveva cambiare il tempo.

Un paio di pantaloni ed una giacchettache gli andavano molto larghi, ricordavano

a tutti la stazza di quando era un giovanotto robusto.

Perché gli anni e il tempo lo avevano rinsecchito.

Ma il suo più grande vanto era il cappello.Un cappello tipo militare

con la visiera nerache lui diceva appartenesse

alla Regia Marina,ma che a me pareva più quello di un becchino.

Guai a sfi larglielo dalla testa: si imbestialiva!Per colpa di qualche birbante che lo stuzzicava,

se lo fermava con un laccio da scarpelegato sotto al mento.

Lui diceva che gli coprivauna brutta ferita che si era procurato

alla guerra dei Dardanelli,ma le malelingue dicevano

o che il berretto si era incollato alla testao che coprisse una vecchia tigna

che non gli passava mai.Un giorno non lo vedemmo più.

Fu detto che per accontentarel’ultimo suo desiderio,

quella buona donna di Annina, la moglie,

invece di legargli il fazzolettoneda sotto al mento,

per non mandarlo davanti a Cristo a bocca aperta,

glielo sistemò sulla testaalla maniera delle contadine,

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p’asconne u segrete sù.Su pertòrene che la carrozze du amore de Ddì.Nu tavutiedde fatte che quatte strascedde cendrate a la megghie e, sope o chevierchie, u cappidde, a l’use de le capindeste militare.Me parì de vedèue chendende, che la vocche totta schegnate, a passà a la reviste tutte nu adenate menz’o llarghe.“Addie, addie!”Jeve chedde l’uldema sfazzione de la vita sò. O, forse, la sole.

per nascondere il suo segreto.Se lo portarono con la carrozza dell’amore di Dio.

Una piccola bara fatta con quattro tavole

inchiodate alla meglioe sul coperchio,

il cappello, a mo' dei capintesta militari.Mi parve di vederlo contento,

con la bocca tutta sdentata, a passare in rivista noi tutti radunati

nella piazza.“Addio, addio!”

Fu quella l’ultima soddisfazione della sua vita.

O, forse, la sola.

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Nando Di Modugno

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GESMUNNE “U FRANGESE”SCRITTURALE DU PICCINNE

[GESMUNNE “IL FRANCESE" SCRITTURALE DEL PICCINNI]

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Na volde jiève usanze ca l’ommene e le giovanottielle, a le dì de feste, s’avevena mette, jind’o paldine de la giacchètte, appierse o fazzuètte bbune miise a pizze come a nu salviêtte, june o dò pènne stilograff e.U cchiù de le volde jièvene cheperchiette de pènne ma sênza pènne.Pe cì non sapeve scrive, avastave u cheperchiette asselute.La cose imbortande jiève la fegure ca se faceve acchessì acchengertate: chidde cheperchiette le facevene parè tand’ommene de penne!Allora sceve a fernesce ca pure ce qualche d’une teneve na penne adavere, l’astepave jind’o comò; e usave u cheperchiette asselute.Ma a Bbare esisteve pure ce le sapeve usà.June de chisse jiève u scritturale du Piccinne: Gesemunne u frangese, chiamate “u frangese” pe vì de na erre moscie ca nge streppiave tutte le parole.N’ommene de penne adavere ca jieve fatte le scole granne a le timbe sù.Nonn’eve cudde u poste sù, sotte a le chelonne du tiatre Piccinne, a scrive le lettere per conto terze; ma le cose de la vita sò nonn’èvene sciute da la vanna ggiuste e, pedenne, se jiève adattate ddà.“Provvisoriamente” - deceve jidde. E dopo 30 anne nonn’eve perdute le speranze d’avè u poste ggiuste ca ngi attecquave pe le studie ca jiève fatte.Jiève state semme nu bell’ommene; de chidde ca sule ad acchiamendalle mbaccie te mettevene suggezzione.Jalde jalde, sicche sicche: pareva ca, da uagnone, jiève fatte la cure du spiite arrezzenite.Vestute semme a zibinotte: sckolline, gelèe; calzune a tubbe sop’a la scarpe gnore a specchie.Sotte a na cape de capidde gnore com’o carvone, spartute o centre da na riga drette, ca pareve scritte a ggisse, teneve u ècchie tradetore e ingannatore ca jiève fatte seff rì chiù de na fi gghie de mamme.U serdelline ca sapeve fà jidde, arrevave punduale a tutte le recchie ca velevene sendì:

GESMUNNE “U FRANGESE”SCRITTURALE DU PICCINNE

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speggie de certe femmene senza pasce...Pareve nu gardidde acquanne, la matine, ialze le penne, ndoste la creste e se fasce na cam-minate mmenze a le gaddine.Se capisce ca, a la vecchiame, se jiève addelendate nu picche e se jiève asseccate de cchiù: pareve na garrubbe.Pure a chelore jiève sciute nderre: ca cudde bbelle rrusse ca teneve mbaccie jiève devendate nu marrongine spresedute.Da ggiovene jiève acchemenzate a pertà nu pare d’acchiale a “pinz nez”: percè u facevene chiù bbelle, percè ngi aggestavene nu nase nu picche cresciute; e ddope, percè, adavere non aff ettave cchiù.Tande ca scì a fernesce ca l’occhiale non se le levave cchiù manghe la notte e jièvene devendate nu tutt’une che la cannedde du nase.Drete a le vitre s’askennevene nu pare d’ècchie a palle, com’a ddù pemedùre; e u chelore, gnore all’orìggine, assemegghiave a cudde de le cepodde sott’acite.Che le discete lenghe e settile, a nute a nnute come a certe cannedde de bambù, jiève prade-che a pelzà u vitre da la vanne du uècchie bbune, che na pezzate de vellute ca teneve jind’a la marriole du gelèe.Drete o ualde vitre, mbrattate de feliscene, steve n’ècchie frecate, fore iuse da tanda tiembe, pe vvì de na ciambesciate a trademiende ca ngi ammenò na gatta malepile, pu vizzie ca Gesemunne jiève semme tenute de scì spianne jinde a tutte le pertuse c’acchiave da nanze.Sop’a nu musse a trombette, tutt’arrappate a chieche a chieche, come ce se jiève mangiate nu lemone iagre o se jiève sequate nu stezze d’allume de varviere, steve chiandate nu pare de mestazze ngiallesciute do tiembe, abbresciate da nu mienze toscane, tutte vavesciate, ca teneve sembe attaccate o queste de la vocche, come ce faceve parte du musse. Ammandenute ddà da nu dende a chelore du mestazze: u sule ca ngi jiève arremanute mmocche nzieme a nu pare de gangale de drete.Da quanne se jiève permiise de cercà, na volde, quande chestàve na dendiera nove, jiève sckandate e non ngi jiève penzate cchiù.E datocchè non peteve menzequà cchiù com’a na volde, sceve nnanze a botte de pane quette e sciacquature de caldare.U vestite ca aveva iesse gnore de partenze, jiève deventate chelore cangè: a seconde du tiem-be, e mbaccie a le sacche appennute de la giacchette, stève nu discete de grasse appezzecusepe tutte cudde ca ngi ammenave jinde acquanne certe cliende su u pagavene che qualche ccose da mangià.“Carmina non dant panem” - ammenave ogne ttande.Pedenne, siccome non peteve avè moneta condande, s’acchendendave de tutte: do ciam-botte a le lepìne.La matine, sop’o ttarde, u vedìve spendà da drete o chiostre de l’acque du Serine.Che na beff ette, n’anghette e nu sckadue de cartone attaccate che nu spache; ca pò jiève la cascetedde de le fi erre du mestiere:

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jinde steve na penna stilograff e adavere, e ppò... na dezzine d’asticciuole de le-gname de chelure deverse adatte, deceve jidde, a l’argomende ca sceve a trattà; nu sckaduicchie de purga S. Pellegrine chiine de pennine d’ogni razze e mesure, pure chidde schegnate: petevene semme servì!Na pezze de federe de cappidde pe pelzà le penne, na bottigliodde cu feldure chiene de rene p’assequà u gnostre; qualche fogliette de quaderne a righe e a quadrotte; na bottiglie de gomme arabbeche, cu pennedduzze, p’appezzecà le bbuste, e da dò a ttrè bottiglie de gnostre ca se preparave jidde stesse che certe cartine de bblù ca accattave da don Carle u spezziale.A parte teneve astepate na penne de pabere andiche ca usave pe le lettere pe le zite.Tande, Gesemunne, aveve guste a scrive: pigghiave la penne delicatamente, stenneve u de-scetiedde, faceve tre o quattre ggire che la mane prime d’avviarse, com’a ccerte fermaggiare acquanne fascene u cunde e scrivene u 5, e acchemenzave: “Con molto rispette... io mi permette...” E la scritture veneve asatte e aggarbate.U poste su jiève sotte a le chelone du tiatre Piccinne come so dditte apprime, mbaccie o mure, o repare du fresckone c’arrevave semme da la vanne de chiazza Massare, addò steve n’annicchie, addò, se deceve, aveva venì la cape de gisse de nu grand’artiste.“Percè segnerì non sì nu grand’artiste?” - nge decève qualche femmene ca jiève avute semme sim-batì pe jidde.“Ma nnò, ce stà a ddisce... non sò l’ommene com’a mmè ca javene chidde fertune...”Ma sotte sotte nu penziere u jiève semme fatte: tande ca steve da vive, peteve arremanè pure da muerte!Menze a nu chiamiende du mure, a la direzzione de la cape, jiève miise nu cedrone addò appenneve u cappiedde ca, cu tiembe, jiève allassate na stambe grasse come ce fosse state pittiate apposte da nu penniedde abbagnate jind’o uegghie sfritte. A pparte tutte, jiève n’ommene cerveddine assà ca se n’acchiavene picche. Come t’acchiamendave, te jiève fatte u retratte.Ce pote disce quanda fatte jiève sendute, quanda segrete jiève tenute e quanda lettere jiève scritte!Lettere scritte a la manèra sò dope ca jiève sendute ciò ca l’alde velevene mannà a ddisce: o uommene mbarcate, o fi gghie seldate, o pure o zite lendane.Ngi avevane asselute disce: “Tenghe a marideme ca va mbarcate e sta a Trieste, e nge vogghie disce ca è nnate n’anda femmene...”E subbete jidde: “Caro marite, con la presente ti vengo a ddire che è nata Carmela, il nome della nonna femmina, come volevi tu...” o pure: “Caro fi glio, noi tutti bene, come spero di te... Ti scrivo la presente per farti sapere, per farti venire a conoscenza...”, “L’amore è cieco e non conosce ostacoli...” o, quanne sceve na uagnedde a la scuse de la mamme: “Ce m’à scrive?” - deceve Gesemunne - “Fà segnerì, ce ne sacce jie..?!” E allòre jidde: “Angelo mio adorato... va bbune?” “Sine, sine” - e se ne scève totta chendènde.Acquanne la màne acchemenzò a tremuà Gesemunne alzò màne. “Null’altro a dirvi e qui mi sottoscrivo.”

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U mestiere su non u allassò a nesciune, prime ca non teneve nesciune o munne, e ppò percè oramà le cliende jièvene quase fernute, pe la congorrenze c ange facevene certe scole ca jièvene apèrte le porte a tutte quanne, ca ognedûne acchiàne acchiàne stève a mbarà de lèsce e scrive, spèggie le pecceninne, e le màmme lore s’aff rangavene pure chedda spèsa pu scritturale; pure pe non fà sapè all’alde le fàtte lore.Le uagnèdde venèrene pure mène percè acchiàvene le cartolline già belle e ff àtte, cu còre stambàte mbaccie o cu palumme che na lèttera mmòcche indestàte “All’angelo mio ado-rato”.L’asticciuole scèrne a fernèsce a ff à da zippe pe la gaggie de l’aciedde e l’uldeme gnostre ca ngi avanzò u dette a na majestre de scôle pe le pecceninne chiù poveriedde. La pènna stilograff e se l’astepò pe recorde, jind’ò paldine, appierse a la medegghie de la uèrre de la Libbie. Arremanì u cendrone jind’o mure e la stambe de ggrasse du cappidde.Fin’acquanne, pe na festa granne, fu ddate n’aggestate a le mure du Piccinne e u cendrone fu tràte e la stambe de grasse fu scangellàte da na bèlla passate de bruscke e sapone.“Sic transit gloria mundi.” E addacchessì passò pure Gesemunne u frangêse.

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[GESMUNNE “IL FRANCESE” SCRITTURALE DEL PICCINNI]

Una volta c’era l’usanza che, nei giorni di festa, che adulti e giovanotti, si mettessero nel taschino della giacca, davanti al fazzolettino piegato a punta come un tovagliolo, una o due penne stilografi che. Il più delle volte si trattava solo di coperchietti, ma senza la pen-na. Per chi non sapesse scrivere, bastava il solo coperchietto.La cosa importante era l’impressione che si faceva così conciati: quei coperchietti li face-vano sembrare tanti uomini di lettere!Allora andava a fi nire che qualcuno, pur avendo una penna, la conservava nel comò e ne usava il coperchietto soltanto.Ma a Bari esisteva anche chi sapeva usarla.Uno di questi era lo scritturale del Piccinni: Gesemunne “il francese”, chiamato "il fran-cese" per via di una erre moscia che gli storpiava tutte le parole.Un vero uomo di penna, che aveva studiato ai suoi tempi.Non era quello il suo posto, sotto le colonne del teatro Piccinni, a scrivere lettere per conto terzi; ma le cose della sua vita non erano andate per il verso giusto e, perciò, si era adattato a stare là.“Provvisoriamente” - diceva lui. Ma dopo 30 anni non aveva perduto la speranza di avere il posto giusto che gli spettava per gli studi che aveva fatto.Era stato sempre un bell'uomo; di quelli che solo a guardarli ti mettono soggezione. Alto alto, secco secco, sembrava che da ragazzo avesse fatto la cura dello spiedo arrugginito.Vestito sempre elegante: farfallino, gilè, calzoni a tubo sulla scarpa nera a specchio.Sotto una testa di capelli neri come il carbone, divisi al centro da una riga diritta che pareva scritta col gesso, aveva l'occhio nero, traditore e ingannatore che aveva fatto soff rire più di una ragazza.Il fi schio che sapeva fare lui arrivava puntuale a tutte le orecchie che volevano sentire; specialmente quelle di certe donne senza pace.Pareva un galletto quando, la mattina, alza le penne e la cresta, e si fa una camminata tra le galline. Si capisce che, in vecchiaia, si era un po’ lasciato andare e si era rinsecchito di più: sembrava una garruba. An-che il suo colorito era cambiato: quel bel rosso del viso era diventato un marroncino scipito.Da giovane aveva cominciato a portare un paio di occhiali a "pinz nez", perché lo facevano più bello e gli aggiustavano un naso un po’ cresciuto. E poi perché davvero non vedeva più. Così, andò a fi nire che gli occhiali non se li toglieva più nemmeno di notte, tanto erano diventati un tutt'uno con il naso.Dietro alle lenti si nascondevano un paio di occhi a palla, come due pomodori, il cui colore, nero all'origine, somigliava a quello delle cipolle sott'aceto. Con le dita lunghe e sottili a nodi a nodi come certe

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canne di bambù, era bravo a pulire la lente dalla parte dell'occhio buono, con una pezzetta di velluto che teneva nella mariuola del gilè.Dietro all'altra lente, annerita dalla fuliggine, c’era l'occhio off eso, fuori uso

c h i s s à da quanto tempo, a causa della zampata a tradimento che gli dette una gatta malpelo, per il vizio che Gesemunne aveva sempre avuto di spiare in tutti i buchi in cui s’imbatteva.Sopra un muso a trombetta, tutto raggrinzito a pieghe a pieghe, come se avesse mangiato un limone acre o se si fosse succhiato un pezzo di allume da barbiere, c’era un paio di baffi ingialliti dal tempo, bruciati da un mezzo toscano, tutto sbavato, sempre incollato al lato delle labbra, quasi facesse parte della bocca, mantenuto là da un dente in tinta coi baffi : il solo che gli era rimasto assieme a un paio di molari di dietro.E da quando si era permesso di chiedere, una volta, il costo di una dentiera nuova, si era spaventato e non ci aveva pensato più. E siccome non poteva masticare più come una volta, andava avanti a pane cotto e brodino scaldato.Il vestito, che doveva essere nero in partenza, era diventato di colore cangiante, a seconda del tempo, e vicino alle tasche appese della giacchetta, aveva un rigo di grasso appiccicosolasciato da tutto quello che ci aveva messo dentro le volte che alcuni suoi clienti lo aveva-no pagato con qualcosa da mangiare.“Carmina non dant panem” - sentenziava ogni tanto. Perciò, non potendo avere soldi contanti, accettava di tutto, dal ciambotte ai lupini. La mattina, sul tardi, lo vedevi spun-tare da dietro al chiosco dell'acqua del Serino, con un tavolinetto, uno sgabello ed una scatola di cartone legato con uno spago, che poi era la cassetta dei ferri del mestiere; den-tro, una vera penna stilografi ca, e poi una dozzina di astucciuole di legno di colore diversoadatte, diceva lui, all'argomento che si andava a trattare; una scatoletta di purga S. Pel-legrino pieno di pennini d'ogni razza e misura, pure quelli spuntati: potevano sempre servire!Una pezza di feltro di cappello per pulire le penne; una bottiglietta col tappo, piena di sabbia per asciugare l'inchiostro; qualche foglietto di quaderno a righe e a quadretti; una bottiglietta di gomma arabica con un pennellino per incollare le buste e da due a tre bot-tiglie di inchiostro che si preparava lui stesso con certe cartine di blu che comprava da don Carlo lo speziale. A parte, conservava un’antica penna d’oca che usava solo per le lettere degli innamorati. Allora, Gesemunne, provava piacere a scrivere: prendeva delicatamente la penna, stendeva il mignolo, faceva tre o quattro giri con la mano prima di avviarsi, come certi formaggiai quando fanno il conto e scrivono il 5, e cominciava: “Con molto rispetto… io mi permetto…” e la scrittura veniva precisa e garbata.Il posto suo, era sotto le colonne del teatro Piccinni, come ho detto prima, vicino al muro, al riparo dal vento che soffi ava sempre da piazza Massari, dove c’era una nicchia, nella quale si diceva dovesse venire la testa di gesso di un grande artista.“Perché, vossignoria non è un grande artista?” - gli diceva qualche femmina che aveva avu-to sempre simpatia per lui. “Ma no, che dici... non sono gli uomini come me che hanno

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quelle fortune.” Ma segretamente un pensiero lo aveva sempre avuto: se ci stava da vivo, poteva rimanerci anche dopo morto!In una crepa del muro, in direzione della testa, aveva piantato un chiodo dove appendeva il cappello che, col tempo, aveva lasciato l’impronta di unto come se fosse stata dipinta apposta da un pennello bagnato nell'olio sfritto.A parte tutto, era un uomo assai intelligente come pochi. Appena ti guardava, aveva già capito chi fossi. Chi può dire quante storie aveva sentito, quanti segreti aveva mantenuto, quante lettere aveva scritto.Lettere scritte alla sua maniera, dopo che aveva sentito ciò che gli altri volevano mandare a dire: all'uomo imbarcato, al fi glio soldato oppure al fi danzato lontano.Gli dovevano dire soltanto: “Mio marito è imbarcato e sta a Trieste e gli voglio dire che è nata un'altra femmina...”E subito lui: “Caro marito, con la presente ti vengo a dire che è nata Carmela, il nome della nonna, come volevi tu...” oppure: “Caro fi glio, noi tutti bene, come spero di te... Ti scrivo la presente per farti sapere, per farti venire a conoscenza…”, “L'amore è cieco e non conosce ostacoli…” o quando andava una ragazza di nascosto alla madre: “Che dobbiamo scrivere?” - diceva Gesemunne - “Fate Voi, che ne so io?”E allora lui: “Angelo mio adorato... va bene?” “Si, si.” - se ne andava tutta contenta.Quando la mano cominciò a tremare, Gesemunne si arrese. “Null'altro a dirvi e qui mi sottoscrivo.”.Il mestiere non lo lasciò a nessuno; primo perché non aveva nessuno al mondo, e poi perché ormai i clienti erano quasi spariti per la con-correnza che gli facevano certe scuole aperte ormai a tutti quanti; e anche perché ognuno, piano piano, stava imparando a leggere e scrivere; specie i più piccoli, e le loro mamme risparmiavano la spesa per lo scritturale evitando così di far sapere agli altri i fatti propri.Anche le ragazze vennero meno perché trovavano le cartoline già belle e fatte, col cuore stampato e con la colomba con una busta in bocca, intestata: “All'angelo mio adorato”.Le asticciuole andarono a fi nire a fare da appoggio per le sue gabbie degli uccelli e l'ultimo inchiostro che gli avanzò, fu dato ad una maestra di scuola per i bambini più poveri.La penna stilografi ca la conservò per ricordo nel taschino, insieme alla medaglia della guerra della Libia.Rimase il chiodo nella crepa e l’impronta del cappello, fi no a quando per una festa grande, fu data una rinfrescata ai muri del Piccinni; il chiodo fu tirato via e l'unto fu cancellato da una bella passata di brusca e sapone.“Sic transit gloria mundi.”.E così, passò pure Gesemunne "il francese".

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Nicola Amato

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U QUèSTE DU SPARàGNE[IL SALVADANAIO DEL RISPARMIO]

U SAGRESTANE E U CANòNECHE[IL SAGRESTANO E IL CANONICO]

U MMJIRE DU CANòNECHE[IL VINO DEL CANONICO]

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Da quànne scheprìbbe, jind’a la sagrestì, u canòneche ad’armeggià mbaccie a nu quèsteche la làme du chertìdde nzzaccàte ind’ò pertùse pe ff à sceuà fòre le terrise,non credibbe cchiù o sparàgne ca jidde scève predecànne a le uagnùne de la dottrine.E me dibbe a la bella vite.Da quando scoprii, nella sacrestia, il canonico che armeggiava vicino ad un salvadanaiocon la lama di un coltello fi ccata nella fessura per far scivolare fuori i soldi,non credetti più al risparmio che predicava ai ragazzi del catechismo.E mi detti alla bella vita.

Nu remore de cose rotte da la sagrestì.“S’à rrutte u tubbe… mannaggi’o mbierne e o diàue!”

“Corrette Ceccille... corrette! Ma ci à seccisse?”

“S’à rrutte u tubbe... padre.”“Mannaggi’o peccate e ci u adore!”“Corrette Cellenze... corrette!”“Ave Maria gratia plena...”“Santa Maria Madre Dei”

Un rumore di cose rotte dalla sacrestia.“Si è rotto il lume...mannaggia all’inferno e al diavolo!”

“Corretto Ciccillo... corretto! Ma che è successo?”

“Si è rotto il lume... padre.”“Mannaggia al peccato e chi lo adora!”“Corretto Eccellenza... corretto!”“Ave Maria gratia plena...”“Sancta Maria Mater Dei”

U QUÈSTE DU SPARÀGNE[IL SALVADANAIO DEL RISPARMIO]

U SAGRESTANE E U CANòNECHE[IL SAGRESTANO E IL CANONICO]

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U fastidie ca petì dà u canòneche de Sanda Vàrverepe chedda volde ca non acchiò cchiù la bottiglie de mjire bbune pe la “Funzione”, sule Ciccille u sagrestane u pote disce.

Na dì Ciccille la scheprj askennutedret’a la stadue du Iangeue custode,senza feldùre: dève d’acìte.Acquànne u semmenestrò jind’o Sande Càlece, zì prèvete tercj l’òcchieree, che la vocche arrappàte come ce se fosse surchiàte nu stèzze d’allùme pe la vàrve,vrazz’alzate o cjièle:“Sande Frangiscus, agrus est; in sagrestia ngi vidimus!”“Ce me truve...” - respennì Ciccille. E se la felò.

Il fastidio che potè dareil canonico di Santa Barbaraper quella volta che non trovò più la bottiglia di vino buono per la “Funzione”,solo Ciccillo il sacrestano può dirlo.

Un giorno Ciccillo la scoprì, nascostadietro la statua dell’Angelo Custode,senza turacciolo e che sapeva d’aceto.Quando lo somministrò nel Santo Calice,il prete storse gli occhie, con la bocca raggrinzita, come se avesse succhiato un pezzo di allume da barba,con le braccia alzate al cielo:“Sande Frangiscus, agrus est; in sagrestia ngi vidimus!”“Se mi trovi...” - rispose Ciccillo. E scappò via.

U MMJIRE DU CANòNECHE[IL VINO DEL CANONICO]

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POVER'I CIECHI[POVERI I CIECHI]

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“Mèste Gesèppe... uè assaggià dò cozze?”

“Grazzie, no... a chess’ore... Ma tu me canusce?”

“Eccome no... te tenghe nnanze all’ecchie ogne ddì... ogne matìne alle nove... che la valisce de gravatte...”

“Nanze a S. Ferdenande?”“Nnanze a S. Ferdenande... jie a chedd’ore so ff atte già do iore de fatiche.”

“Addò fatiche?”“Meh... fatiche... stogghe nnanze a la chiesie...”

“Sagrestane?”“No, cercalemosene.”“Ma tu non sì Giuànne u cecate?”“Sì.”“Emmè... tu non si cecate?”“Jie!.. E ci tu ha dditte?”“Nesciùne... ma jie te facève cecate.”“N’alda volde... grazzie a Sanda Lecì, la viste jè l’uneca cose ca me va bbone... Ma percè aia jesse cecate aff orze?”

“Eccome... pover’i ciechi, pover’i ciechi... tutte la dì... ogne ddì?”

“Emmè!?”“E non si cchiù cecate?”“E ci tu ha dditte ca sò cecate?”“Tu!!”“Jie?... E ce sò dditte?”“Pover’i ciechi...”“Emmè?... Nonn’è ca so dditte ca so cecate jie. Jie so dditte ca so poveriedde la ceca-te... Chidde adavere.”

POVER'I CIECHI[POVERI I CIECHI]

“Maestro Giuseppe... vuoi assaggiare due cozze?”

“Grazie, no... a quest’ora... Ma tu mi conosci?”

“Eccome no... ti tengo davanti agli occhi ogni giorno... ogni mattina alle nove... con la valigia di cravatte...”

“Davanti a S. Ferdinando?”“Davanti a S. Ferdinando... io a quell’ora ho fatto già due ore di lavoro.”

“Dove lavori?”“Meh... lavoro... sto davanti alla chiesa...”

“Sacrestano?”“No, mendicante.”“Ma tu non sei Giovanni il cieco?”“Sì.”“Embè... tu non sei cieco?”“Io!.. E chi te l’ha detto?”“Nessuno... ma io ti credevo cieco.”“Di nuovo... grazie a S. Lucia, la vista è l’unica cosa che mi va bene... Ma perché devo essere cieco per forza?”

“E com’è... Poveri i ciechi, poveri i ciechi... tutto il giorno... ogni giorno?..”

“Embè!?”“E non sei più cieco?”“E chi te l’ha detto che sono cieco?”“Tu!!”“Io?.. E che ho detto?”“Poveri i ciechi...”“Embè?.. Non è che ho detto che sono cieco io. Io ho detto che sono poveri i ciechi... quelli veri.”

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“Sì... ma tu fasce le terrise sope a le cecate...”“No... jie non sò mà levate le terrise a la ce-cate; so dditte ca sò poveriedde le cecate. Ma non so mà ditte ca jie so cecate. Se ma, so arrecherdate a le cristiane ca stonne le cecate e ca so poveriedde.”

“Si, jà rascione... ma tu fasce terrise o poste de le cecate...”

“Belle belle... jie non sò mà proibbite a le cecate de fà terrise. Lore sò libbere de fà ciò ca vòlene. Jie digghe ca le cecate so poveriiedde e la ggende me dà la monete. Nonn’è ca digghe la bescì... Percè... pe ttè le cecate non sò poveriedde?”

“Come no!”“Ebbè? Te pare ca fazze na cosa male? Se mà jie, adacchessì, so apierte l’ecchie pure a la cecate... nge so ff atte capì come se fasce a stà megghie.”

“Ma almene, te prioccupisce de lore?”“Sì... me dispiace... ma, pe la verità, nonn’è ca ne fazze na malatì. Oh, uè sendì? Nonn’è ca jè ccolpa mè ce lore so ceca-te... Ma tu da ce vvanne de munne viene? U sà quanda terrise fascene chidde ca di-scene ca u popele jè poveriedde, ca u po-pele va aietate, va respettate. Ma chidde nonn’hanne mà ditte ca “lore” so pove-riedde. Hanne acchiate l’inderessa lore a ddisce acchessì. Chidde gridene: “povere a le poveriedde, povere a le poveried-de!” E jie digghe: “pover’i ciechi, pover’i ciechi.” e fàzze terrise a la stessa manèra lore. Lore assedute a le boldrone... e jie assedute nderre. Ma la tatteche jè semme chedde da quanne fu criate u munne... Beh... buen’appetite...”

E s’ammenò sop’o piatte de cozze gnore... e se le scettave nganne... a la cecàte.

“Sì, ma tu fai soldi al posto dei ciechi...”“No... Io non ho mai tolto i soldi ai cie-chi; ho detto che sono poveri i ciechi.Ma non ho mai detto che io sono cie-co. Semmai ho ricordato alla gente che stanno i ciechi e che sono poveri.”

“Sì, hai ragione... ma tu fai soldi al posto loro...”

“Piano piano... io non ho mai proibito ai ciechi di fare soldi. Loro sono liberi di fare ciò che vogliono. Io dico che i cie-chi sono poveri e la gente mi dà la mo-neta. Non dico mica una bugia... per-ché... per te i ciechi non sono poveri?”

“Come no!”“Embè? Ti pare che faccio una cosa cat-tiva? Semmai io, così, ho aperto gli oc-chi pure ai ciechi... ho fatto loro capire come si fa a stare meglio.”

“Ma almeno ti preoccupi di loro?”“Sì... mi dispiace... ma, per la verità, non è che me ne faccio una malattia. Oh, vuoi sentire? Non è colpa mia se loro sono ciechi... Ma tu da che parte di mondo vieni? Lo sai quanti soldi fanno quelli che che dicono che il po-polo è povero, che il popolo va aiuta-to, va rispettato. Ma quelli non han-no mai detto che “loro” sono poveri. Hanno trovato il loro utile a dire così. Quelli gridano: “Poveri i poveri, pove-ri i poveri!!” E io dico: “Poveri i ciechi, poveri, i ciechi.” e faccio soldi alla stessa maniera loro. Loro seduti alle poltro-ne... e io seduto per terra. Ma la tattica è sempre quella da quando fu creato il mondo... Beh... buon appetito!”

E si gettò sul piatto di cozze nere... e se le ingollava... alla cieca.

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LUCIE[LUCIA]

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lucie[LUCIA]

Me parj de vedè proprie Lecj.U stesse sole ca nge mbrellàve le capìdde,la stessa vetrine, la stessa tendine attaccate che nu spille.La gaggie du frengille.O numere iunnece du viiche de la neve.Capìdd rùsse cu nastrìne, do pèrle bbianghe pe recchìne.Senale a ffi ure de percallesott’o u’azzurre de nu scialle.“Lecj, so ije... Emanuele!”“Ddò non nge sta nesciuna Lecj; da tand’anne javete sule jie.”Jè ccolpe de Lecj c’acquànne se ne scì, se pertò u amore e la fandasì.

Mi parve di vedere proprio Lucia.Lo stesso sole che le brillava tra i capelli,

la stessa vetrina, la stessa tendina legata con uno spillo.

La gabbia del fringuello.Al numero undici del Vico della Neve.

Capelli rossi col nastrino,due perle bianche per orecchini.

Grembiule di percallesotto l’azzurro di uno scialle.

“Lucia, sono io... Emanuele!”“Qui non c’è nessuna Lucia;da tanti anni abito solo io.”

È colpa di Lucia che, quando se ne andò,si portò l’amore e la fantasia.

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Bari Sole & Cerasedebutto dello spettacolo dal vivo per il ventennale

dell’Auditorium Diocesano Vallisa (2006) Da sinistra: Pino Di Modugno, Rocco Capri Chiumarulo, Paolo Mastronardi

Bari Sole & Cerasereplica di commemorazione per la scomparsa del Maestro Piergiovanni (2010) Da sinistra: Pino Di Modugno, Rocco Capri Chiumarulo, Nando Di Modugno

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LA PALME DE LA ZITE[LA PALMA della FIDANZATA]

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Da giovane non sapeve ce veleve. Cudde jiève bruttefatte, cudd’alde jiève schenzate, nand’unalde me parève na menza fem-mene. Fatte sta ca u tiembe passave e jie non m’aff edave.Le uagnedde d’atturne a case crescevene dì pe ddì e matravene com’a le cerase: mò te le vedive peccenenne e già addevendavene femmene fatte. “U ccurte non arrive e u frascete non ammandene.” - deceve semme mamme. E jie: “no, no!”Acquanne me n’avvertiebbe pure jie, ca mamme aveve rascione achiedibbe l’ecchie e, u prime ca me capetò sottomane, mu pigghiabbe. Mechele non deve de nudde: ma jiève masque! Però jiève chiene de gendilezze e d’attenzione pe mmè. Jie, pe la verità, u teneve e non u teneve. Quacchè vvolde u faceve avvecenà, qualche jialda volde, no.Sapite come so le cose... me peteve capetà nu partite megghie... e jie non me combrometteve assà... Ma u partite megghie non arrevò. Arrevò la Sanda Pasqua invesce... Mechèle s’appresendò a ccase che la Sanda Palme, ca non petiebbe rifi utà. No le palme ca se vennene nnanze alle chiesie, chidde a trecce a trecce a ff orme de Cro-sce... ma iuna, granne, a ff orme de mazze de fi ure, come asselute le meste pastecciere sabene fà. Le chembitte rosè e bbianghe facevene come a ttante margherite, e, atturne atturne, palline bianghe e argiende. Mmenze mmenze stevene tande foglie verde de paste d’aminue ammandenute mbaccie a ttande fi rre felate, nzieme a tanda nastrine colorate. Na palme ca pareve nu cinematografe pe quanne jiève bbelle. Come l’aviebbe la mettieb-be jinde a la cristalliere e da dà non la meviebbe cchiù. Quanda volde Mechèle mì me deceva: “Rosine... damme nu chembiitte... Jiune ap-ped’une... aggestamence la vocche...”E jie: “No!... No! Astepàmele... non la siime uastanne...” E jidde: “Meh... Rosine a Mechèle... almene jiune...” E jie: “Nudde!”E quanda “no” e quanda “nudde” nge decibbe a Mechèle, tande ca... accome mettì pète sope o prime pirosche ca passò da Bbare, se la felò. M’arrevò na cartollina da Rode Eggèe ca m’aprì u core a la speranze, e ppò chiù nudde. Passòrene tand’anne e pure la speranze se ne scì. La palma arremanì jinde a la cristalliere, ma ogne tande ca la pelzave e nge levave nu picche de polvere, cadeve semme qualche stez-ze: na foglie, na pallette... “Tande vale...” - penzabbe - “...me mangeche nu chembitte!” E na dì me faciebbe coraggie e prevabbe a mangiamme june. Ma la polve e u fi erre felate le jevene uastate e mmocche m’arremanì nu sapore amare ca se mesckò cu amare ca teneve jind’o core. Capesciebbe, tanne, ca Mechèle u jiève perdute pe semme.

la palme de la zite

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Da giovane non sapevo quel che volevo. Uno era bruttino, uno era scipito, un altro mi pareva eff eminato. Certo è che il tempo passava ed io non mi fi danzavo. Le ragazze del vicinato crescevano giorno per giorno e maturavano come ciliegie: non facevi in tempo a vederle bambine che già diventavano donne.“Il corto non arriva e il fradicio non mantiene” - diceva sempre mia madre. Ed io: “No!”Ma quando mi accorsi, col tempo, che mamma aveva ragione chiusi gli occhi e mi fi danzai con il primo che mi capitò. Michele non era niente di che, ma era maschio!Ad onor del vero, era pieno di premure e di gentilezze per me. Io, come dire, lo tenevo e non lo tenevo. Qualche volta lo facevo avvicinare, altre volte lo allontanavo.Sapete come sono queste cose... mi poteva sempre capitare un partito migliore... era meglio non compromettersi molto. Ma il partito migliore non arrivò. Arrivò invece la Santa Pasqua... e Michele si presentò a casa con la Santa Palma che io non potetti rifi utare.Dovetti dargli in cambio la pecorella bianca di pasta di mandorla, con la bandiera di Cristo Risorto. Non era una delle solite palme intrecciate che si vendono davanti alla chiesa, ma una grande a forma di mazzo di fi ori, come solo i maestri pasticcieri sanno fare. Con i confetti bianchi e rosa confezionati a margherita, e attorno, palline bianche e argento. Poi tante foglie verdi di pasta di mandorla fi ssate su tanti fi li di ferro. Una palma che sembrava uno spettacolo per quanto era bella. La misi subito nella cristalliera e di là non la mossi più.Quante volte Michele mio mi diceva: “Rosina, prendi un confetto... aggiustiamoci la bocca...”Ed io: “No! No! Conserviamola... non la guastiamo...” E lui, ancora: “Meh, Rosina... almeno uno... uno per uno...”Ed io: “Niente!!” E quanti “no” e quanti “niente” dissi a Michele, tanto che, appena messo piede sul primo mercantile che passò da Bari, scappò via.Mi arrivò una cartolina da Rodi Egeo che aprì il mio cuore alla speranza e poi più niente.Passarono tanti anni e anche la speranza se ne andò. La palma rimase nella cristalliera, ma ogni volta che la pulivo per togliere un po’ di polvere, ne cadeva un pezzo: una foglia, una pallina... Pensai: “Tanto vale che mi mangio un confetto!”Un giorno mi feci coraggio e provai a mangiarmene uno.Ma la polvere e fi l di ferro lo avevano guastato, e in bocca mi rimase un sapore amaro che si mischiò con l’amaro che avevo nel cuore.Capii, allora, che Michele lo avevo perduto per sempre.

[LA PALMA delLA FIDANZATA]

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U SOLE[IL SOLE]

LE CIELZE RUSSE[I GELSI ROSSI]

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Sceuanne d’o uascratiedde e trapananne na cangeddeu sole se squagghie sop’a nu vasenecole, jind’a nu buatte de chenzerve.

Scivolando da un terrazzino e fi ltrando da una cancellatail sole si scioglie sul basilico, in un barattolo di conserva.

con la voce del Maestro Mario Piergiovanni - Registrazione amatoriale del novembre 2008

“Ciiielze, le ciiieelze...” U gride du chèzzale c’arrevavepunduale com’o destìne a na certadì d’agust d’ognè jiànne, trapanàve jind’à ogne carrevutte e trasève jind’à ogne case.“Ciiilze, le ciiieelze...”La vòscie, pe la calandrèdda feròsce de la condròre, ca levave pure la forze de parlà, fescève velosce e arrevave ad’ogne rrècchie.Sceuàve mmènz’o ccàlde scereppuse, stagnuse e te facève sendì la vocca map-pose e u musse ngheddate come pe na fìche mangiàte non angòra ammatràte.T’appezzecave la rrobba nguèdde e te squagghiàve jind’a nu bbàgne de sedore;te facève scì tutte spezzate pu reste de la scernate.

“Gelsi, i gelsi...”Il richiamo del contadino che arrivava puntuale come il destino in un certo giorno d’agosto di ogni anno e fi ltrava in ogni buco ed entrava in ogni casa.“Gelsi, i gelsi...”La voce per il caldo feroce della controrache toglieva persino la forza di parlare, fuggiva velocemente e arrivava ad ogni orecchio.Scivolava in mezzo al caldo sciropposo, stagnoso e ti faceva sentire la bocca mapposa e il muso incollato come per un fi co mangiato non ancora maturo.Il caldo attaccava i vestiti addosso e ti scioglieva in un bagno di sudore;ti faceva camminare tutto spezzato per il resto della giornata.

U SOLE[IL SOLE]

LE CIELZE RUSSE[I GELSI ROSSI]

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“Ciiielze, le ciiieelze...” Le uagnune aff orzate a ddòrme dalle mammere, pe teràlle da la stràte e pe non fa fà la jiose a chèdd’ore, stèvene sèmm’addèrte che le rècchie appezzàte, e la scùse scèven’acchiànne p’alzàrse e assì.“Ciiielze, le ciiieelze...” U cchiù aff ertenate, ca s’acchiàve u ssòlde arrepàte, u assaperave.U assaperave peccè cchiù de nu cielze non ng’attecquàve: june a nonònne,june a zizì, june a mamàmme, june a chèdd’àlde, june a tèn’àlde... e parèvene ca stèvene tutt’a ddòrme.E ppò tutte avèvene deritte de defresck-arse la vocche.Arremanève asselùte la fògghia pelose de fi che che nu muerse de sùche rùsse ca s’assecuàve che na stesciàta de lèngue; na fògghie, addò u chezzàle t’asseduàve le cielze che na màne totta ròsse terate da na galètta tutta ggnòre.Còme facève u chezzàle, ognè jànne, ad’andevenà u desedèrie nèste?

“Gelsi, i gelsi...”I ragazzi venivano costretti dalle mamme a dormire, perché non stessero a quell’ora in strada a fare chiasso, ed erano sempre all’erta con le orecchie tese, cercando una scusa qualsiasi per alzarsi.“Gelsi, i gelsi...”Il più fortunato che si era conservato il soldo da parte, poteva assaggiare i gelsi.Ma solo assaggiare, perché più di un gel-so non gli toccava: uno andava alla nonna, uno alla zia, uno alla mamma,uno a quell’altra, uno a quest’altra... mentre pareva che dormissero tutti.In fondo, tutti avevano diritto a rinfre-scarsi la bocca.Rimaneva soltanto la foglia pelosa di fi co con un po’ di succo rosso che si asciugava con la lingua; una foglia sulla quale il contadino sistemava i gelsi con la mano tutta rossa tirata fuori da una tinozza tutta nera.Ma come faceva il contadino, ogni anno, ad indovinare quel nostro desiderio?

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PE NU BAMMÌNE[PER UN BAMBINO]

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PE NU BAMMÌNE[PER UN BAMBINO]

Ce fàsce u bbuène fi gghie ta ja dà u ssòlde.U desedèrie de còrre da Tarèse ca vennève le cose bbèlle, jève cchiù ff òrtedu prisce de scettarme ndèrre e sporcarme le calzune.Come me vedève arrevà cu ssòlde nzerràte mmàne, Tarèse aprève u chevìerchie a riezze de la vanghetèdde e schemegghiàve u tresòre.U chiacòne mbernàte che l’aminue:nu sòlde. U chiacòne crùte: dù, nu sòlde.Semènze, cigere o fàve: nu sòlde o misurìne cheppùte.Cusse pu repàrte... passatìmbe...Pe le còse dòlge se scève sope a ccifre gròsse:fi n’a quaz’zòlde!Asselute a la ressòle o a nu chièppe d’anesine se petève appedà che nu sòlde.Sott’a Natàle Tarèse aprève u commèrce de le fertùne: nu

Se fai il buon fi glio ti do il soldo.Il desiderio di correre da Teresa

che vendeva le cose belle, era più forte del piacere di buttarmi a terra e sporcarmi

i pantaloni.Appena mi vedeva arrivare col soldo

stretto in mano, Teresa apriva il coperchio a rete della panchetta

e scopriva il tesoro.Il fi co secco infornato con la mandorla:

un soldo. Il fi co secco crudo: due un soldo.

Semi, ceci o fave: un soldo al misurino fondo.

Questo per il reparto “passatempo”.Per le cose dolci si arrivava a cifre grosse:

fi no a quattro soldi!Soltanto alla ressòle o ad una manciata di confettini si poteva ambire con un soldo.

I giorni prima di Natale, Teresa apriva il commercio della fortuna: un

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tùbbe de cartòne achiùse da na cartavelìna coloràte e, jinde, na statue de gìsse pu presèbbie.E Jie m’ammenzuàve le terrìsepe petè accattà le stàtueca m’ammangàvene dò uànne apprìme.Aprève la fertùne: San Gesèppe... mannènghie, u tenève!La pègre... la tenève!U vòve... meh, u sò’ngarràte!Ma u Bammìne non u’acchiàve mà.Forse Tarèse u facève appòste pe famme ngannarì.Cudd’anne avibb’a fà nu cànge che n’amìche mì:nge dìbbe quàtte San Gesèppe e tre pègherep’avè u Bammìne.O se no... zembàve u Natale!

tubo di cartone chiuso da una cartavelina colorata e, dentro, una statua di gesso

per il presepio.E io mettevo da parte i soldiper poter comprare le statue

che mi mancavano dall’anno prima.Apriva la fortuna: San Giuseppe...

mannaggia, ce l’avevo!La pecora... ce l’avevo!

Il bue... meh, ci sono riuscito!Ma il Bambino non lo trovavo mai.

Forse Teresa lo faceva apposta per farmi ritornare.

Quell’anno dovetti fare un cambio con un mio amico:

gli detti quattro San Giuseppe e tre pecorelle

per avere un Bambino.O se no... saltava il Natale!

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U NATALE[IL NATALE]

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U Natale s’acchemenzave a sendì jinde all’arie cu uaddore du qquètte de le carteddate e du zucchere squagghiate du atterròne. Le femmene s’acchemenzavene a preparà pe la pulizzia granne a tutte la mobbilie ca se trave nnanze... se sciangavene sane sane ma, ce non facevene adacchessì, a lore non nge pareve Natale. L’omene se scevene ad alzà u costume bbune do meste panne o u sartore, accome u chia-mene mò: nge velèvene almène sètte o uètte prove pe fangiue scì a pennidde. Na volde p’allargà sotto o vrazze, na volde u cavadde de le calzune, na volde pe mette a ppare le chieche de sotte, ca iune se stresciave nderre e iune nge allassave u calzette schemegghi-ate. Le mammere e le nononne a trembà pe le cose dolge e le uagnune atturne atturne o taveliere pe vedè d’arremedià qualche ccose. M’arrecordeche: jie semme attiende speggie acquanne mamme facève la masse che l’aminue, che la semenze de fenucchie e u chiote de garieff e pe le castagnedde, oppure cu vine quette e le stezze de nosce pe le mustacciule. Le ponde e la residiatore du taveliere se mangiave crude, a la crudèle. Da la masse de le taralle invèce se facève na speggie de ciccie ca s’arrestève sopa a la frascere e se mangiave calde dope na stesciate a la megghie. E chèdde jiève tutte ciò ca petieve arrebbà come mamme scanzave l’ècchie, percè la rrobba preparate non la petive assaprà prima de la Vescigghie acquanne se facève la taua granne careche d’ogne bbène de Ddì: la dì de l’abbennanze dope n’anne d’appetite. “Venda mè fatte a vesazze, cchiù n’ammine e cchiù ne nzacche” - e dda ssope te petive sfezzià come velieve. Ma u recorde cchiù bbèlle jiève u presèbbie. Nu presèbbie fatte de taue e cartapeste sop’o chevierchie de na cascie. Nge veleve tutte nu studie p’acchià le strascedde c’abbesegnavene, le pondine, la farine pe la codde e la carte. Le strascedde se tagghiavene che nu chertiedden schegnate abbattute da nu martiedde o da nu pise de velanze; pò se centravene che cèrte sorte de pondine ca, o prime colpe, le spaccavene, e nge velève la sanda pasciènze p’attaccalle cu spache o qualche capesciole. Pò s’arrevegghiavene che la carta gialle du fermaggie ammeddate che la codde de farine e s’allassavene stà fi n’acquanne non s’assequave e non se ndestàve. Ca la barrac-che stève ammandenute che la feliscine. La dì appierse se dève na mane de chelore a iacque marrò e vèrde, pe ff à parè u terrene, che na scheduate de pennidde gresse de ‘mbianchesciatore. Pure tande steve u sugghere, ma pe nù chestave assà. Ogne jianne venève u penziere de fà u megghie presebbie de tutte. Megghie de cudde de l’annere apprime; de chidde de le casere atturn’atturne. Quase com’a cudde de S. Ando-nie. Ma pò veneve tale e qquale come a uanne apprime. Tre grotte sotte e dò strate sope. E ce scive acchianne? Cudde jiève u spazie fra u stipe e u buff è: chidde jièvene le stadue. E ppò la grotte de Gesù, ddà l’aviva mètte: o cèndre. Ce l’aveva sendì a nononne? A

U NATALE

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mmana dèstre sceve u veccìere cu bangone e a mmana manghe u fermaggiare che nu presutte mbrazze. Nnanza a la grotte sande u zampugnare, u pastore e le pèghere de tutte le mesure: a tre gamme, a ddò gamme, scettate nderre sènza na gamme ca parèvene acquaquagghiàte. Nu pare de cagnele, nu lione che la ciambe sope a na palle, ca ce ssape da ddò jiève assute e ce acchecchiave cu presebbie; nu percine de ghettone acchiate jind’o uève de Pasque de qualche janne addrète, na ranocchie de ramère, n’aquilotte che le scidde apèrte e le ciambe sope a na rote arremediate da qualche cappidde de la fèrrovie, n’aciedde de terragghie cu frisckarule. Chiù na ddà nu pezzecatore che na cannedda mmane e che nu pèsce mbond’o fi le mbac-cie a nu laghette fatte cu specchiètte de la vorza bbone de mamme, na fèmmene cu ciste e na peddastre, n’omene che nu trunghe d’arue, nu pombiere, nu cazzapete. Sop’a la grotte, u uangiue che la scritte “Glorie, glorie”. Le dò strate ca salèvene suse, pertavene iune a na massarì e iune a nu castidde de cartone che le fenèstre de ceruloide. Mbacce o mure, appendate che do pondine, nu ciele blu scure fatte che nu pare de foglie de carte de le minze zite, chiene de stèlle e llune aurate e na sorte de stella comète careche a brellande adavere, ca jève chestate n’ècchie de faccie. A chevierchie du presebbie, nu zippe d’arue de pine o de lemone mesckate che qualche fronze de llore addò s’appennèvene cinghe o sè marange, nu pare de melengèdde e nu nosce pettiate che nu scartuccie sope ca pareva la cape de nu vecchiariedde. La lumenarie jiève fatte che na lambadine che la cartavèline arrevegghiate atturne ca s’appecciave as-selute acquanne veneve qualche d’une pe fà vedè mègghie; ma se stetave subbete o se no se peteve abbrescià tutte u pallone. Finalmènte la sère de la Vescigghie tutte atturne o presebbie pe vedè nasce u Bammine: mamme appecciave u lumine jinde o becchiere chine d’acque, che nu discete d’egghie sope, e stetave la lusce granne. E attaccàve la litanie a la Madonne ca non ferneve mà. Nononna femmene, appessuate sop’a la seggetedda vascie, totte aggestate che le merliette mbiette e le capidde a ndacche a ndacche, o “Ianua coeli e Stella matutina” se ne jiève sciute o senne e jiève trasute jinde o presebbie su. O senà de la cambane de la Chiesia Madre, a la mbrevvise, a mezzannotte, u Bammine s’acchiave jinde a la grotte: le vrazze apèrte e la gloria dorate atturne a la cape come u jiève viste la Madonna la prima volde, la notta Sande. Raff aeluccie, u chiù peccenunne, all’empiede sope a na segge che la cape mmenze a le pèghere e a le statuètte: a vocche aperte come a tutte nù atturne o presebbie. Nesciune se faceva capasce de come peteve jesse cudde miràchele ca se repeteve ogne janne, a la stessa notte. Le lusce de le cannele, ca se specchiavene jinde all’ècchie de le pecceninne, parevene tanda stèlle. Jiève cudde u Natale neste.

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Il Natale cominciava a sentirsi nell’aria con l’odore del vincotto delle carteddate e dello zucchero squagliato del torrone. Le donne cominciavano a prepararsi per le grandi pulizie a tutta la mobilia che si tirava avanti e in tutti gli angoli della casa. Si ammazzavano di lavoro, ma se non facevano così, a loro non sembrava Natale. Gli uomini andavano a farsi fare l’abito buono dal sarto: ci volevano almeno sette-otto prove per farlo andare a pennello. Una volta per allargarlo sotto il braccio, una volta per sistemare il cavallo dei pantaloni, una volta per mettere a pari le pieghe di sotto, perché una strisciava per terra e l’altra lasciava la calza scoperta. Le mamme e le nonne a impastare per i dolci e i ragazzi tutt’attorno al tavoliere cercando di rimediare qualcosa.Mi ricordo: io sempre attento, specialmente quando mamma faceva la pasta di mandorle, con i semi di fi nocchio e il chiodo di garofano per le castagnedde, oppure col vincotto e i pezzetti di noce per i mustacciule.Le punte di pasta rimaste sul tavoliere si mangiavano crude, con voracità.Dall’impasto dei taralli si faceva invece una specie di focaccetta che si arrostiva nella cene-re della brace e si mangiava calda dopo una pulita alla meglio sulla camicia.E quello era tutto ciò che potevi rubare non appena mamma si distraeva, perché la roba preparata non si poteva assaggiare prima della Vigilia, quando si allestiva la tavolata gran-de carica di ogni ben di Dio: il giorno dell’abbondanza dopo un anno di appetito.“Pancia mia fatti bisaccia, più ne metti e più ne va” - e lì potevi sfi ziarti come volevi.Ma il ricordo più bello era il presepio. Un presepio fatto di tavola e cartapesta sul coper-chio di una cassa.Ci voleva tutto uno studio per trovare le tavolette giuste, i chiodi, la farina per la colla e la carta.Le tavolette si tagliavano con un coltello senza fi lo battuto da un martello o da un peso da bilancia; poi si inchiodavano con certi grossi chiodi arrugginiti che, al primo colpo, le spaccavano: ci voleva la santa pazienza per legarle con lo spago o qualche fettuccia. Poi si ricoprivano con la carta gialla del formaggio imbevuta di colla di farina e si lasciavano stare fi n quando il tutto non si asciugava e si induriva. Perché la baracca era “mantenuta con la fuliggine”!Il giorno dopo, si dava il colore ad acqua marrone e verde per ricordare il terreno, con una mano di pennellone da imbianchino. Anche allora c’era il sughero, ma noi non potevamo permettercelo: costava troppo.Ogni anno pensavamo di fare il miglior presepio di tutti. Migliore di quello degli anni prima, di quello delle case attorno. Quasi come quello di S. Antonio.Ma poi veniva tale e quale a quello dell’anno prima.Tre grotte sotto e due strade sopra. E che ci volevi fare? Quello era lo spazio tra lo stipo e il buff è; sempre quelle erano le statue. E poi la grotta di Gesù, solo lì la potevi mettere: al centro. E chi l’avrebbe sentita la nonna?

[IL NATALE]

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A destra andava il macellaio con il bancone e a sinistra il formaggiaro con un prosciutto sotto il braccio.Davanti alla santa grotta lo zampognaro, il pastore e le pecore di tutte le grandezze: a tre gambe, a due gambe, buttate a terra senza gambe, come se stessero accovacciate.Un paio di cagnolini, un leone con la zampa su una palla che chissà da dove era uscito e cosa c’entrava col presepio,un pulcino di cotone trovato nell’uovo di Pasqua di qualche anno prima, una ranocchia di lamiera, un aquilotto con le ali aperte e le zampe su una ruota rimediato da qualche cappello della ferrovia, un uccello di terraglia col fi schietto.Più in là, un pescatore con la canna in mano e con un pesce alla punta del fi lo vicino ad un laghetto fatto con lo specchietto della borsa buona di mamma, una donna con un cesto ed una pollastra, un uomo con un tronco d’albero, un pompiere, uno spaccapietre. Sulla grotta, l’angelo con la scritta “Gloria, gloria”.Una delle due strade che salivano portava ad una masseria, l’altra invece ad un castello di cartone con le fi nestre di plastica.Vicino al muro, appuntato con due chiodi, un cielo blu fatto con un paio di fogli di carta per mezziziti pieno di stelle e lune dorate e una grossa stella cometa carica di brillanti veri costata "un occhio della testa".A copertura del presepio, un ramo d’albero di pino o di limone insieme a qualche fronda di alloro dove si appendevano cinque o sei arance, un paio di mele e una noce pittata con un cartoccio sopra che ricordava la testa di un vecchietto.La luminaria era fatta da una lampadina con la cartavelina accartocciata attorno, che si accendeva soltanto quando veniva qualcuno perché si vedesse meglio, ma che si spegneva subito, altrimenti poteva andare tutto a fuoco.Finalmente la sera della Vigilia tutti attorno al presepio per veder nascere il Bambino. Mamma accendeva il lumino nel bicchiere pieno d’acqua con un dito di olio sopra, spe-gneva la luce grande e attaccava la litania alla Madonna che non fi niva mai.La nonna, appisolata sulla sedia bassa, tutta vestita per l’occasione con i merletti in petto e i capelli acconciati a onde, al momento dello “Ianua coeli Stella matutina” si era già addormentata, entrando così in un presepio tutto suo.Al suono delle campane della Chiesa Madre, come per incanto, il Bambino era già nella grotta.Le braccine aperte e la gloria dorata attorno alla testa. Esattamente come l’aveva visto la Madonna la notte santa.Raff aeluccio, il più piccolo, in piedi sulla sedia con la testa in mezzo alle pecore e alle statuette, restava a bocca aperta come tutti noi attorno al presepio.Nessuno riusciva a capire come quel miracolo potesse ripetersi ogni anno, la stessa notte.Le luci delle candele che si specchiavano negli occhi dei bambini sembravano tante stelle.Era quello il nostro Natale.

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ASPETTANNE NA SCERNATA BBONE[ASPETTANDO UNA GIORNATA BUONA]

FINALEstrumentale

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ASPETTANNE NA SCERNATA BBONE[ASPETTANDO UNA GIORNATA BUONA]

Da quanne non m’arrecordeche na scernàta bbone senza tenè ce ff à, senza penzìere.Forse l’uldema volde fu acquanne faceve l’amore che Maria mè. No... tanne no.Bell’assà jeve Marì e jie gelùse da merì. No. Seff rève assà e na scernata non la passàbbe bbone... tanne.O acquanne me spesàbbe? No. Chedda dì stibbe frasturnàte assà.Tutte appìerse a mmè a darme u buen’allègre.A mmè ca nonn’ève abituate a le ceremonie, a le chemblemìende. A mmè ca stève semme sule mmenze a mmare, jinde a la varca mè. Notte e ddì. No. Non fu manghe chedde na scernata bbone.Oppùre fu acquànne nascì u peccenìnne mì?No. Tenève u core stritte strìtte e l’ecchie de pavure. No, non fu tanne... no.O acquanne se spesò Colette? Giovena ggiovene! Me l’arrecordeche chedda dì: ne facèmme de resàte, de zzùmbe, de iòse...

Da quanto tempo non ricordo una giornata serena senza nulla da fare,

senza pensieri.Forse l’ultima volta fu quando facevo

l’amore con Maria mia. No... allora no.Bellissima era Maria e io geloso da morire.

No. Soff rivo molto e non passai neanche una giornata tranquilla... allora.

O quando mi sposai? No. Quella volta stetti tutto frastornato.

Tutti intorno a me a farmi gli auguri.

A me che non ero abituato alle cerimonie e ai complimenti.

A me che stavo sempre solo in mezzo al mare, nella mia barca, notte e giorno.

No. Nemmeno quella fu una giornata buona.

Oppure fu quando nacque mio fi glio? No. Avevo il cuore stretto e gli occhi

di paura. No, non fu allora... no. O quando si sposò Nicoletta?

Era giovanissima! Mi ricordo quel giorno:

ce ne facemmo di risate, di salti, di baccano...

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Ma u chiànde de la mamma sò uastò tutte cose chedda dì.No. La scernata bbone l’jià scì ad’acchià chiù drète, chiù lendàne, acquanne jève uagnone; acquanne se redève a vocc’aperte, a voscia jalde cu gorgheggie, com’a n’aciedde.Come sule le pecceninne sàbene rite. Acquanne na scernata jève bbone pe na partite a la palle mmenz’o llàrghe, o pe nu pare de pisciaridde pezzecàte a mmare che nu stèzze de cannèdde e nu spille chiecàte a la pònde; o pe na fèdde de pane che nu picche d’egghie de cchiù.Na scernata bbone s’acchecchiàve pe ddò rèsate scettàte o viende, pe na fessarì, pe nnùdde. Pu piacère de rite. Dò resàte strùtte senza sparàgne, senz’astepàlle pe crà... pe ddòppe.Come fazze jie mò ca me l’astipeche pe na scernata bbone c’a và venì, pure ce sacce ca u tiembe m’a va fà skerdà de rite.

Ma, il pianto di sua madre rovinòtutto quel giorno.

No. Una giornata serena devo andare a cercarla più indietro nel tempo, quando

ero ragazzo; quando si rideva a bocca aperta, a voce alta col gorgheggio,

come un uccello. Come solo i bambini sanno ridere.

Quando una giornata era buona per una partita a pallone in piazza,

o per un paio di pesciolini pescati in mare con un pezzetto di canna

e uno spillo piegato alla punta, o per una fetta di pane con un po’ d’olio in più.

Una bella giornata si rimediava con due risate regalate al vento per una fesseria; per nulla. Solo per il piacere di ridere. Due risate consumate senza risparmio,

senza conservarle per domani... per dopo.Come faccio io adesso,

che me le conservo per una giornata serena che deve ancora venire,

anche se so che il tempo mi farà dimenticare di ridere.

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INTRODUZIONESTÉVE NA VOLDE NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE (tradizionale)

VELESSECERASELE SGAGLIOZZEBENEDITTEGESEMUNNE “U FRANGESE”U QUÈSTE DU SPARÀGNEU SAGRESTANE E U CANÒNECHEU MMJIRE DU CANÒNECHEPOVER’I CIECHILUCIELA PALME DE LA ZITEU SOLELE CIELZE RUSSEPE NU BAMMÌNEU NATALEASPETTANNE NA SCERNATA BBONE

I N D I C EI N D I C E

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Questa copia di "Bari Sole & Cerase"è un gentile omaggio di:

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TERRAE si forma nel 1993 ad opera di artisti pugliesi, per dar vita ad un ensemble nel quale riassumere le eterogenee esperienze maturate sia nella musica che nel teatro dai suoi fondatori. Prima ancora di essere un gruppo aperto nel quale confl uiscono e si confrontano esperienze che attingono senza distinzione o preferenza ad un patrimonio non solo italiano ed europeo, è un’idea legata al fascino mutevole del nomadismo, un’idea in divenire collocata su un’incerta frontiera dell’immaginario, accesso simultaneo a mille luoghi.Con queste premesse, è facilmente comprensibile come Terrae rinunci volutamente alle pretese fi lologiche, favorendo invece una chiave di lettura squisitamente interpretativa. Una propensione al ‘vagare’ attraverso linguaggi espressivi i più diversi, senza alcuna preclusione, proprio come nel labirinto scolpito sulla pietra ritrovata casualmente in Spagna e diventata il suo simbolo, metafora di quella sorta di Babele creativa nella quale si perdono tutti coloro i quali condividono, di volta in volta, i vari progetti artistici. Terrae, dunque. Luogo di passaggi scambi sovrapposizioni. Quanto al dittongo, lasciamo al caso l’interpretazione del caso.

BARI SOLE & CERASElibretto: MARIO PIERGIOVANNI - Musiche: GIANNI GIANNOTTI

ROCCO CAPRI CHIUMARULO voce recitantefatta eccezione per U SOLE con la voce del Maestro Mario Piergiovanni

I musicisti delle basi musicali di BARI SOLE & CERASE:NANDO DI MODUGNO chitarra classica, mandolino PINO DI MODUGNO collaborazione arrangiamenti, fi sarmonica, piano, vibrafono GIANNI GIANNOTTI arrangiamenti, chitarra classica, cantoROSA CAVALIERI canto - PIERFRANCO MOLITERNI violino solistaPASQUA DE RUVO violino - NINO LEPORE violaTONIO MARVULLI viola - ZBIGNIEW STANKIEWICZ violoncello VINCENZO CHIAPPERINI contrabbasso - FRANCO DI PUPPO fl autoI musicisti di NINNA NANNE DE SANDA NECÒLE:ROCCO CAPRI CHIUMARULO cantoPINO DI MODUGNO fi sarmonica - MASSIMO LA ZAZZERA fl auto traversoPAOLO MASTRONARDI chitarra classica, chitarra battente- Registrazione basi musicali eff ettuata nell’aprile 1981 negli studi della C&M Discografi ca - Bari- Registrazione voce Rocco Capri Chiumarulo eff ettuata il 9-10-14 aprile 2009 negli Studi Sorriso - Bari

- Registrazione “Ninna Nanna de Sanda Necòle” eff ettuata il 20 aprile 2009 negli Studi Sorriso - Bari

- Le registrazioni originali delle basi musicali sono state recuperate dagli archivi della C&M - Sorriso srl

- Ingegneria del suono e restauro audio Tommy Cavalieri

I testi e le poesie di questo disco sono tratti dal libro “Sole & cerase” edito dai Fratelli Laterza - Bari

Si ringrazia il Dott. Giuseppe Laterza per la gentile concessione dei testi,

Mimmo Trisciuzzi e Terri Cantarone per aver autorizzato l’utilizzo delle basi originali del 1981

e Anna Garofalo per l'accurata trasposizione dei testi in italiano.

Inoltre: Nicola Amato, Tommaso Armenise, Banca Popolare di Puglia e Basilicata,

Saverio Catacchio, Tommy Cavalieri, Arturo Cucciolla, Luca De Napoli,

Pino Di Modugno, Saverio Fiore, Adriano Garofalo, Gianni Giannotti, Massimo La Zazzera,

Sergio Leonardi, Progetto Vallisa, Daniele Sarno, Antonio Schirinzi.

Un grazie sentito alla famiglia Piergiovanni: alle fi glie Anna e Denny e,

in particolare, al nipote Erio Macchia per la sua generosa disponibilità.

Le foto dell'audiolibro sono di Nicola Amato

(inserite anche nel suo video “Bari cambia”

che chiude gli spettacoli live), Archivio Fotografi co Fotogramma - Bari

(fatta eccezione per la foto d’archivio di Mario e Riccardo,

e di Mario sulla terrazza del suo studio in Via Venezia)

Progetto grafi co ed elaborazioni foto: www.tommasoilgrafi co.it

In collaborazione con: Con il contributo di:

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Associazione Culturale TerraeEdizioni

Un prezioso audiolibro che propone l'omonimo lavoro

pubblicato in LP quasi trent'anni fa con l'indimenticabile voce di

Riccardo Cucciolla. Oggi, a restituirci con rispetto

l'alchimia sonora fra testi e musiche, la delicata interpretazione di Rocco Capri Chiumarulo.

Alle registrazioni originali dello storico vinile, affidate all'epoca a musicisti straordinari

(tra cui Pino e Nando Di Modugno, tuttora tra i protagonisti dello spettacolo dal vivo),

si affiancano quattro nuove tracce con gli interventi di Paolo Mastronardi,

Massimo La Zazzera e dell'emozionante voce del Maestro Piergiovanni.

All'interno, le affascinanti foto di Nicola Amato ed un’elegante elaborazione grafica

dei disegni originali dello stesso Maestro.

Mario Piergiovanni e Riccardo Cucciolla,i Maestri a cui è dedicato questo audiolibro

LIBRO + CD MUSICALEPrezzo consigliato € 10,00

Bar

i So

le &

Cer

ase