Bambole in Volo

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Le bambole in volo Romanzo di Massimo Citi

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Una storia scritta anni fa e forse non così stranamente ancora molto attuale.

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Le bambole in volo

Romanzo

di Massimo Citi

Storia normale di ambientazione urbano/padana con qualche risvolto fantastico, una

vera storia d'amore che non si sa quanto durerà, alcuni immigrati, qualche animale, una

pianta di nome Robespié, un contabile anarchico, numerosi effetti speciali e circa

duecento bambole.

"É buffo come una discesa vista dal basso assomigli tanto a una salita"

Stan Laurel

Le vie delle città alla fine dell'inverno.

Sudate di polvere e di fango, di un colore/non colore che è difficile anche chiamare

grigio.

Si viaggia con il naso intasato, le scarpe che producono rumorini imbarazzanti:

borborigmi e sussulti viscerali, quasi innominabili. Come in un storia di Lovecraft. Si

sente un peso in fondo ai polmoni, doppio se si fuma. Si guardano le macchine, i motorini

e gli autobus che scompaiono sgasando e si contano i giorni che rimangono, meno a ogni

conteggio. Un cielo-boccia di vetro appannato e incrostato, come quelle dove si sono

tenuti i pesci rossi - sopravvissuti due mesi e un bel mattino ritrovati a pancia in su - un

cielo che potrebbe benissimo non esserci, sostituito da un grosso coperchio. A pensarci

bene c'è da stupirsi che, essendo nati e cresciuti in città, sugli anta si sia ancora vivi. E

comunque vada ci si sente lumache: umidicce, fradicie, a trascinarsi dietro una storia che

non comincia e non finisce. Solo, a un certo punto ci si accende e in un altro ci si spegne.

E ci si illude di voler invecchiare e morire in campagna, con il canto degli uccellini che ti

sveglia, invece che col cigolare dei tram, la grancassa delle autoradio sparate a tutto

volume dentro le auto giovani, il tossire dei clacson.

Son cazzate, a voler essere onesti, perché se sei nato in città ti piacciono gli spigoli, sei

abituato al sudore dei muri e dei marciapiedi e le luci dei fari sparate in mezzo alle

feritoie delle persiane ti fanno sognare. La realtà è che vorresti la città solo per te, le

strade vuote e le auto ferme, tutti che dormono. Vorresti girarla, fermarti e correre

esattamente quando vuoi. Siamo sinceri: che cazzo c'è da vedere in campagna? Come fai

a sognare?

E poi non puoi spiare nessuno - in campagna - come ti permette di fare la città. Se spii e

orecchi in campagna, a parte che ti rompi, passi subito da mostro del Mugello. Devi

conoscere tutti quelli che incontri, non ci sono santi, mentre l'idea in città sarebbe appena

ridicola.

Eppure piacerebbe vivere in campagna, girare con le calze di lana spesse e senza scarpe

in una grande stanza con un grosso caminetto, sgranocchiare sedano fresco e lavarsi la

faccia con l'acqua del pozzo. Avere un solo libro da leggere, un solo disco da ascoltare e

un solo film da vedere. E diventare così gli esegeti assoluti di quel libro, disco, film. Far

discendere logicamente tutto da loro e ricondurre a loro tutto quello che accade.

Probabilmente il libro dovrebbe chiamarsi Bibbia, in quel caso. Il disco e il film non si sa,

forse Chopin e Tarkovskij, ma i gusti sono diversi.

Ma si è troppo dispersivi per un programma tanto ambizioso, troppo abituati alle novità

per concentrarsi così bene. Viene da allungare il collo, accendere almeno la radio,

guardare fuori dalla finestra, andare a comprare prodotti poco sani, mettersi indumenti

che non lasciano traspirare la pelle, addirittura accendersi una sigaretta, non mangiare

né verdura né frutta. Farsi del male, insomma, perché suona osceno - a pensarci -

trattare il corpo come un macchinario da mantenere in funzione, efficiente come un

circolo di qualità e ottimizzato come la distribuzione di un prodotto.

E poi, dopo il bel ragionamento, si esce ancora a respirare lo schifo, con in fondo alle

tasche briciole misteriose.

Ma la cocciutaggine può essere un vizio.

Dopo tre mesi di occupazione nella fabbrica sono rimasti Pino, Enrico, la Nena e

Gigio.

Gigio ha i capelli rossi, le orecchie a sventola e una via lattea di efelidi schierate

intorno al naso a punta. All'anagrafe farebbe Basilio, come il nonno materno morto in

Grecia, ma è tale la somiglianza che da quando ha tre anni Gigio è il suo vero nome.

A suo modo è una persona ordinata.

Si è svegliato con la testa pesante, stamattina, colpa del vino al kerosene portato da un

collega - «lo fa mio zio, solo poche bottiglie» - e si è messo a sedere, rigido come il conte

Dracula. Per un minuto intero - con lo sguardo nebuloso e la mente in arrivo sul binario -

ha fissato i vetri sporchi della cucina della mensa, incorniciati di unto e ha pensato che più

tardi avrebbe provato a renderli almeno un po' più trasparenti.

Sempre seduto e oscuro come un disegno venuto male, fa un elenco di quello che gli serve:

un solvente, magari un po' di trielina per smacchiare, il vetril ed uno straccio di cotone

spesso, non colorato, e soprattutto senza peli. Odia gli stracci che perdono le fibre e che

bisogna tornarci sopra ancora e ancora, mentre lo straccio continua a perderne e c'è da

uscirne matti.

Gigio viveva con la famiglia del fratello, Armando Berardelli e signora, ex-rappresentante

di commercio in telerie e affini, più Poppi e Lulù, le due bambine di due e quattro anni.

Anche Gigio farebbe Berardelli, ma dall'età di anni quattro ha l'impressione, anzi la

certezza, che i genitori, essendoci un solo cognome in famiglia, l'abbiano dato per intero al

fratello maggiore, prima alunno oscuro ma tenace, poi sarto e infine compare di biliardo

del Dottor Vergassola s.n.c. - tende e parasole - e quindi chiamato a un destino danaroso.

Adesso Berardelli Armando è col sedere per terra quasi quanto lui, ma Gigio non è il tipo

da provarci gusto. É già contento di dormire nella fabbrica occupata senza dover incontrare

ogni giorno sua cognata Luisa che l'ha sempre guardato come si guarda uno scarafaggio o

come certa gente guarda un cane randagio. Eppure i suoi soldi li ha sempre messi, un

milione e due al mese più un bel po' di straordinari.

Questo però quando il mercato tirava e la gente comprava le bambole che facevano il

ruttino e nemmeno riuscivano a starci dietro. Si fermava sempre un po' di più in fabbrica,

allora, tanto chi aveva voglia di vedere Luisa e le sue bambine che le bambole le

sfasciavano o le scarabocchiavano coi pennarelli.

Si alza mentre i suoi colleghi dormono ancora. All'inizio erano seri e nervosi e c'era

sempre qualcuno che aspettava l'arrivo della polizia, ma dopo tre mesi di occupazione

nessuno si preoccupa più di nulla.

Gigio prepara il caffè per tutti ed apparecchia su uno dei tavoli piccoli della mensa. Ha

portato una tovaglia di stoffa: quelle di carta che passava la fabbrica, importate dall'Austria

e con la scritta "gut appetit" sono finite da un pezzo.

Se Luisa se n'è accorta comunque non ha detto niente.

Un altro frammento di inverno è scivolato via. Un perfetto giorno invernale urbano:

inospitale e anonimo tra tutti gli altri della vita. A Gigio viene da pensarci la mattina

appena sveglio, nel gruzzolo di minuti di solitudine che il sonno degli altri gli lascia.

Gli dispiace che non esistano ricordi ben ordinati per giorni: "Il 2 febbraio 19.. ho fatto..." e

via l'elenco. I ricordi sono disordinati, non rispettano il ritmo prevedibile del tempo che

verrà, ma solo le leggi strampalate che governano il tempo già passato.

Taglia qualche fetta di pane, tira fuori la marmellata di ciliege e la mette sul tavolo.

Il rumore del caffè segue al profumo ed Enrico, un pezzo d'uomo scuro come un albero,

grugnisce e nasconde la testa sotto il cuscino. I segni d'inquietudine si moltiplicano e

finalmente la voce della Nena rompe l'incantesimo.

Sei un angelo, poi ti sposo se mi vuoi.

Gigio sorride e scuote la testa, mette in tavola le tazze comprate al mercato, con un grosso

fiore rosso stampato sul piattino, forse un papavero o forse niente, come i funghi e i fiori

dei libri delle elementari.

Nena viene fuori dal sacco a pelo con la tuta con la scritta Saskatchewan Lakes. Non c'è

nessuno in fabbrica che sappia leggerlo correttamente, tranne lei che ha visto un

documentario tanti anni prima che parlava dei castori e che dice sascaciiuann o

sascaceuann a seconda delle volte.

Ha tette scarse, la Nena - e questo è un grosso difetto per tanta gente - e vista di profilo,

con gli zigomi spessi, sembra un maschio. Ha una minuscola fossetta sul mento come il

geometra Volli, capelli corti e disordinati come un ragazzino col pallone sottobraccio e

parla sempre masticando qualcosa, generalmente un chewing gum, ma forse alle volte non

ha in bocca nulla e lo fa solo per darsi un tono.

Lei e Luisa non si piacerebbero mai, pensa Gigio, Nena che dice cazzo ogni tre parole, ha

alle spalle un marito semitossico sparito in qualche comunità - e che se lo tengano solo - e

che si mette una mano sul basso ventre per dire i miei coglioni. E adesso non ride più

nessuno quando lo fa, perché i coglioni da qualche parte deve averli davvero.

Luisa no, tu sai che ce L'ha perché te La fa pesare. E' come se ci fosse sempre nei suoi

discorsi e in come ti guarda. Forse perché è più carina, un po' bionda come dice Armando e

non direbbe mai i miei coglioni. É diversa e basta e, se ti va, ti puoi innamorare e morirle

dietro, ma mai trovarla simpatica. Da vecchia sarà grama, ha pensato tante volte Gigio, e

magari anche di chiesa, perché quando il mondo non mi vuol più mi rivolgo al buon Gesù.

Pino è meridionale. I suoi sono di qualche paese sperduto della Basilicata, ma è

cresciuto qui e capisce tutti i dialetti che girano in fabbrica anche se non ne parla nessuno.

Anzi non parla se non quando è proprio necessario e finché può grugnisce e fa dei

movimenti secchi e decisi con le mani per indicarti quello che vuole.

Porta sempre una camicia nera e Ragusa diceva perché è fascista. Ma intanto Pino il

camerata dorme in fabbrica da tre mesi mentre Ragusa che girava con Repubblica e Unità

è andato a lavorare col fratello elettrauto e aspetta la liquidazione.

Pino ha una moglie piccola e rotonda, che come lui non sorride mai e tutti i giorni gli porta

un termos panciuto con dentro gli spaghetti e la salsiccia conditi con pomodoro e

peperoncino, più una mezza bottiglia di vino chiusa con la macchinetta, che aprendola fa

un leggero botto.

Si siedono intorno al tavolo e Gigio serve il caffè. Dalle vetrate della mensa entra

una luce di cenere e Enrico va ad accendere i neon che si illuminano con una serie di

crepitii e di leggeri scoppi.

Bevono e mangiano senza parlarsi, mentre Gigio si alza una volta a prendere lo zucchero,

un'altra per il burro e un'altra perché è finito il pane.

Ci sono solo più queste.

Le fette biscottate non mi piacciono.

Enrico mentre mangia tiene gli occhi nella tazza, come per non vedere il fatale e inevitabile

raid nemico.

Tieni il mio pane, fa Nena, a me piacciono e poi ho ancora i denti.

Deve venire uno del sindacato con un assessore. Forse ci assumono in comune.

Enrico ha l'aria speranzosa nel dirlo. Se fosse un cane sarebbe uno schnautzer e

scodinzolerebbe.

Pino non parla e inzuppa il pane imburrato nel caffellatte. Evita di dirlo ma odia quelli del

sindacato e forse ancora di più quelli del comune.

Una volta è venuto uno con una patacca di plastica al risvolto della giacca con sopra

stampato un guerriero medievale e ha cominciato a dire che la colpa è di quelli di Roma o

anche di più giù, e Pino l'ha ascoltato per un po' con la sigaretta spenta in bocca. Sul più

bello della tirata ha sibilato come un serpente ed ha puntato il dito verso il cancello con un

movimento così improvviso che Gigio l'ha evitato per un pelo. Quello della patacca se n'è

andato, ma solo dopo aver lasciato tre o quattro copie di un giornale con i titoli tanto grossi

che anche la signora Berta delle spedizioni li avrebbe letti senza occhiali.

Che cazzo vengono a fare quelli là. Poi ci mandano a fare i camerieri come quelli dell'Alfa o

a spostare gli scatoloni.

Fatale, Pino.

Io ci andrei dice Enrico.

Tu andresti anche a battere il marciapiede.

Carino, magari con la barba e sopra il mascara.

Non è il mascara, Gigio, è il fard.

La guarda stupito, possibile che anche Nena sappia di cose tanto Luisesche?

Chi va a comprare il giornale?

Oggi è sabato non ci sarà su un cazzo.

Tu il cazzo ce l'hai sempre in bocca.

Quando ridacchia Enrico è particolarmente stupido, ma si vede che Nena è di buon umore.

Non gli versa in testa il caffelatte e dice: quelli piccoli però li mastico, sta' attento orango.

Vado io, Pino si alza in piedi ed esce con il cappotto lungo ed il bavero alzato come uno

zerozerosette.

Quanto durerà ancora?

Forse è la volta buona.

In quanti siamo rimasti?

Eravamo sessantadue ma parecchi hanno trovato un altro lavoro. Compreso Billi che a

sentir lui avrebbe bruciato il municipio.

Ho letto un articolo.

Enrico e Gigio si girano verso Nena, seri come bambini che guardano il papà che ha

promesso una storia del suo lavoro.

Vengono dalla Corea le altre bambole, Lillina, la bambola che si fa la pipì addosso, succhia

il ciucciotto e chiude gli occhi. La fanno vicino a Seul.

Dovrebbe avere gli occhi a mandorla, fa Enrico.

Gigio si chiede sempre se parla sul serio quando è così scemo e anche a guardarlo bene non

lo capisce.

Costano meno, la metà. Continua Nena.

Ma forse è solo perché la nostra Pippetta ha stufato. Il dottor Mazzoleni dovrebbe

inventarne un altro tipo.

Sì, con le tette e la figa con dentro l'acqua tiepida.

A te ti ci metterei i cubetti di ghiaccio.

Dai Nena, potrebbe sempre collaudarle tutte.

Ridono, ride anche Enrico che si sente un grande macho.

Vado a fare un po' di pulizie.

Ma che ti frega Gigio, mica è roba nostra.

E allora perché stiamo qui? É un po' nostra questa roba no?

Hai sbagliato sesso, tu.

Anche tu, ride Gigio.

Se l'avesse detto Enrico ci sarebbe da offendersi, ma con Nena sente solo un po' di

malinconia. Ci sono duecento bambole non finite di là, duecento Pippette abbandonate,

con lo sportellino sulla schiena aperto, per metterci l'apparecchio che fa il ruttino che non è

mai arrivata dalla fabbrica thailandese.

Mentre prende la scopa, lo straccio e la paletta si domanda se adesso la fabbrica

Thailandese produce apparecchi per fare la pipì per le innumerevoli Lilline che girano per

l'Italia.

Ma in fondo è normale, o almeno abbastanza normale: i bambini si stufano, si sa, vogliono

cose nuove tutti i momenti. O magari non è vero niente: i bambini vivono con alcune cose

importanti e un mare di scemenze, più o meno come gli adulti. E come gli adulti non sono

mai davvero soddisfatti di nulla.

Totale, fuori Pippetta e dentro Lillina.

Ma ha la faccia stupida Lillina, ed un nome stupido. Oddio, non che Pippetta sia

eccezionale, ma è simpatico, un nome pasticcione, buffo, mentre Lillina è un nome lezioso,

smanceroso. Fa venire in mente le zie con il tè e la filastrocca, i coniglietti con i vestiti di

pizzo, i portalettere con la divisa ben stirata, le maestre severemagiuste e tutte le cose al

loro posto, pulite e fasulle.

Le ha disposte ben sedute sugli scaffali, tutte e duecento, tutte uguali. Nei film dell'orrore

di adesso le bambole fanno paura, ma Gigio non la pensa così. Alle facce inespressive si

possono prestare tutte le espressioni possibili e lui pensa che le duecento Pippette si

sentano fra il disperato, il rassegnato e l'incazzato, e quando le fissa ben bene, una per una,

come se lui fosse un sergente e loro le reclute, riconosce nei loro occhi un po' di educato

smarrimento, da turista con la guida che non quadra. Qualche volta, mentre passa lo

straccio, si sente un filo nervoso con quei quattrocento occhi di vetro azzurro che lo

guardano e allora si mette a parlare. Spiega alle bambole il mondo, o almeno quel po' che

ne ha capito. Dice, senza guardarne nessuna in particolare, che adesso che sono rimaste in

fabbrica senza essere state comprate è un po' come se non fossero proprio più delle

bambine, ma quasi delle ragazze e che quindi devono imparare che il mondo alle volte tira

colpi mancini e che ci possono essere dei brutti momenti come quello, ma che prima o poi

passano.

Ripete frasi sentite dai genitori, dagli zii, dai nonni, frammenti di articoli del giornale,

discorsi televisivi e quando se ne va e spegne la luce le saluta a bassa voce sentendosi

strano.

Non commosso e neppure ridicolo, solo strano.

Forse c'è una soluzione. Forse è vero e li manderanno a spazzare i vialetti intorno al

Castello, sempre pieni di sacchetti di patatine e di lattine vuote, e qualche volta un

preservativo usato, pallido o rossastro, di quelli che i bambini prendono per un palloncino.

Gigio pulisce instancabilmente la stessa mattonella con lo straccio, come un robot guasto.

In fondo a lui piace stare lì. Gli piaceva persino stare alla polveriera, che per tutti era una

paranoia, figurarsi lì che c'è addirittura una donna.

Era stato proprio durante il servizio che, anni prima, le Brigate Rosse avevano assaltato un

camion di soldati. Si ricorda che c'era stata un bel po' di eccitazione - soprattutto

nell'ufficialame - e per la prima volta avevano guardato armi e divise con un altro occhio.

Ma era stata un'emozione breve, un gioco di bambini che hanno visto una luce nel bosco ed

immaginano i marziani.

Nella fabbrica occupata si aspetta come a essere tra parentesi in un discorso e intanto si

può girare, come il proprietario di un castello che nemmeno lo conosce tutto, preparare la

colazione e tenere tutto a posto.

Per Nena le cose non stanno così, si preoccupa davvero, lei, e non ha parenti che possano

aiutarla. Ha un marito, che se torna deve mantenere anche lui, sempre che non sia alla

ruota che allora di salari ce ne vorrebbero dieci, non uno.

Ma è il padrone il vero mistero per Gigio. L'ha visto in tutto un paio di volte. É ancora

giovane, ha i capelli corti e parla leggero, quasi sussurrando. Si muove avaro, come se non

finisse mai davvero un gesto per paura di toccare qualcuno o qualcosa.

Si dice che sia stato comunista e che da studente si sia picchiato con la polizia. Gigio ci

crede, come crede quasi a tutto, ma non ride del padrone quasi comunista e non scuote la

testa. Non gli piace che non venga mai a vedere la sua fabbrica, che di loro e anche delle

Pippette non gli importi nulla e che sia pronto ad usare i suoi soldi per costruire

qualcos'altro, magari cannoni o barattoli. Se la fabbrica fosse sua Gigio starebbe lì a

dormire e girerebbe con la macchina a vendere le bambole per la strada, piuttosto che

niente.

Ma ha altre fabbriche, il padrone, e forse vanno meglio, o forse in qualche altro paese

dell'Estremo Oriente gli fanno delle bambole diverse che si vendono bene, e tutti loro che

se ne stanno lì a occupare sono diventati dei pesi morti che non vale la pena di pagare.

Enrico lo dice sempre. Ha fatto le superiori e parla di decentramento delle produzioni e di

sovranazionalità del capitale.

Parla per un po' dei giapponesi e del debito degli Stati Uniti, poi delle fabbriche del terzo

mondo, commenta a bassa voce quando viene quello del sindacato e fa le smorfie o

ridacchia, ma nessuno lo prende sul serio lo stesso.

Tra poco arriverà qualcun altro, ancora fresco di dopobarba. Lo saluteranno e discuteranno

per un po' con lui e tra loro. E aspetteranno quello del comune, senza rabbia ma anche

senza molta speranza.

L'Assessore al Cineclub

Arrivano alla spicciolata i compagni, qualcuno vestito da domenica perché c'è anche

l'assessore. Un paio hanno messo la tuta sotto la giacca.

Gigio pensa che è come la metamorfosi dei bachi da seta. Si cambia poco per volta, prima

fuori e poi dentro. Da bachi blu si diventa bachi grigi, ci si alza un po' più tardi ma non

troppo, sempre neri e litigiosi perché a fare un cazzo si sta come nel limbo: né bene né

male, e i figli son contenti, almeno all'inizio, ma la moglie non dice niente e quello star zitta

così ostinato è peggio dei piatti rotti in testa.

Eccheccazzo mica è colpa mia, dice l'operaio sospeso, il capofamiglia a solo scopo

anagrafico.

La moglie si stringe nelle spalle e esce a lavorare. Spesso lascia l'elenco delle spese da fare.

Allora Signor Luigi o Gianni o Enrico ancora niente? Il tabaccaio bello tranquillo con il suo

mestiere da: Marlboro! - Ecco Marlboro - buongiorno- buongiorno, parla mezzo nascosto

da una batteria di ciclets e caramelline. E magari crede persino di essere gentile.

É la crisi, è un gran brutta, proprio, pensi che mio cognato ha speso trecento milioni per

una pizzeria ma riesce a fare solo cinque o sei tavoli per sera e non sa più che fare per le

cambiali.

Trecento milioni = duecento mesi = diciassette anni

o forse sedici a contare la tredicesima, senza mangiare mai, senza vestirsi, senza nulla. Li

rifilano come condanna sedici anni. E qualcuno strepita che sono troppo pochi, che al

muro bisognerebbe metterli, come si faceva da partigiani.

Luigi o Gianni o Enrico esce dalla tabaccheria con il morale sotto le scarpe e va a sedersi ai

giardini. Apre il pacchetto di sigarette e butta il filo e il cellofanino per terra con grinta da

anarchico. Il problema, senza lavorare, è diventato il tempo, da misurare con troppi

pensieri.

Gigio si sbatte a pulire la fabbrica e non calcola il tempo che manca. I giorni gli si

accumulano come in una vacanza indefinita. Non ci pensa e basta, come se la vita non fosse

proprio del tutto sua ma almeno in parte prestata.

La vita è camminare all'alba per le vie vuote e spiare il cielo e le case che cambiano colore.

Starsene in disparte - ma non sempre e non troppo - ascoltare gli altri anche quando loro

non ti ascoltano e tirare a indovinare su come si sentono.

Perché è importante, saperlo.

Ma si può vivere pensando a quando arriverà la pensione? A quando sarai Fuori, più

vecchio, più rognoso, a illuderti che ti tiri ancora come una volta, con la moglie che il

sedere e le tette le sono calate come la voglia?

I compagni chiacchierano, qualcuno va a ringraziare Enrico e Nena e un po' da lontano

anche Pino, terrone eroico, ma forse fascista e comunque imperdonabilmente terrone.

Ma forse non è tanto quello, è che Pino nessuno lo capisce, fa un po' di paura come uno che

ha una fissazione e solo quella.

Il paese? Il mare da bambino? Chissà cosa brucia dentro Pino. Forse è come il secchio

d'oro ai piedi dell'arcobaleno. Forse il suo secchio d'oro è tornare al sole che ricorda, che si

culla dentro, che alle volte gli passa davanti agli occhi insieme ai rumori senza eco del

mezzogiorno e all'inerzia tiepida e sudata di certe ore del Sud.

Anche lui, Gigio, ha paura a chiedere. Magari Pino gli risponde che lui del Sud se ne fotte,

che il paese lo odia e chissà se è vero.

I suoi sono di giù ma lui è venuto su da bambino e probabilmente ricorda meglio gli

autunni di ragnatela di qui.

Arriva l'assessore e dopo un po' il padrone.

Si attiveranno interventi... la tempistica del nuovo progetto di riassetto industriale...

nell'ambito di un armonioso sviluppo che veda prevalere... allo studio di un'apposita

commissione... ma il quadro della crisi impone una ridistribuzione...

L'assessore ha la giacca di velluto, la barba e non porta la cravatta ma solo una dolcevita.

Non sorride mai e li guarda poco: solo i primi davanti che annuiscono come ragazzini a

scuola, anche se non capiscono un ette e fiutano il solito bidone.

Non parla di sgombero: la giacca di velluto è una garanzia da questo punto di vista. Il

padrone se ne sta due passi indietro, ogni tanto gli suona il telefonino e alla fine lo spegne.

Non è nervoso ma neppure tranquillo, sembra uno che teme di essere venuto al funerale

sbagliato e si chiede come filarsela senza parere.

L'assessore va avanti, soporifero e vaselinoso, non c'è uno che banfi ma la noia si respira.

Tutti cambiano la gamba di appoggio troppo spesso e c'è un clima da predica troppo lunga.

A Gigio vengono in mente gli operai di certi film sulla rivoluzione russa, con le facce

sporche e concentrate. Li ha visti di sicuro anche lui, l'assessore, quei film lì e magari ci si è

gasato per una mezz'oretta o magari addirittura per un'ora prima di andare a nanna in

compagnia, dopo il dibattito in sezione.

Non si sbraccia lui, non è il tipo. Ma non parla di rivoluzione, solo di gesti burocratici, di

risorse da mobilitare, di interventi regionali, di sensibile attenzione al problema. Gigio

prova a immaginarlo con gli occhialini tondi, il panciotto e il farfallino mentre si infervora

e loro, gli operai, annuiscono convinti stringendo gli attrezzi di lavoro. Immagina la scena

virata seppia con i puntini bianchi della pellicola danneggiata che si aprono nell'aria e sulla

giacca dell'assessore / commissario del popolo.

Il telefonino del padrone risuona: l'ha riacceso, il pirla.

E Gigio pensa che poco per volta si è scivolati dall'altra parte del secolo, con i piedi nei

ricordi e la testa nel nulla.

Alla fine persino il padrone ha detto due parole. Ha attaccato con Ragazzi e ha finito

con Auguri, come se avessero comprato tutti insieme un biglietto per la lotteria.

Tutti ma lui no: lui è già ricco così.

Non l'hanno nemmeno fischiato, ma è perché in fondo faceva quasi pena. Spera come tutti

i padroni e padroncini che alla fine lo stato ci metta una pezza, lo stato come un papà

brontolone ma buono, che dopo tira-e-molla, moine e proteste finalmente caccia i soldi.

Il sindacalista dà sul sarcastico e fa il duro col padrone. É un tipetto basso, rissoso di suo.

Ha la barbetta come l'assessore ma la sua è tutta dritta con qualche buco, aggrappata al

bordo della mandibola.

Gli operai lo guardano come un fenomeno, qualcuno si distrae, gratta con le chiavi della

macchina uno scoprievinci ripescato in tasca, caso dei casi ci fosse un altro asso che non si

era visto prima. Comincia come Enrico a menarla con l'Estremo Oriente e il suo discorso si

gonfia, si gonfia, vola che sembra non debba posarsi mai.

Arriva alla guerra del Golfo, ricorda la mafia russa, la Bundesbank alla conquista del

mondo (ma lui dice Budèssbank per fingere padronanza) e la guerra in Bosnia.

Manca solo la pagina sportiva sussurra Nena che si è installata vicino a lui, in piedi su un

tavolo.

Dagli tempo risponde Gigio.

Il padrone ha l'occhio vitreo, l'assessore è andato in macchina a telefonare.

Atterra di colpo ripetendo le ultime dieci righe dell'assessore. Non tutti si accorgono che ha

finito. Scende dal tavolo e scompare sotto il livello delle teste. Nessuno chiede se ci sono

domande: tutti fermi come in un incantesimo.

E quando si rientra?

Già quando, quando, quando, quando? Q-U-A-N-D-O?

Fine dell'incantesimo e del tono mellifluo da conferenza. Cuccato Francesco, operaio

giovane con orecchino e coda di cavallo se ne fotte di giacche di velluto e Buddèsbank.

Aiuta in un banco al mercato - bravo come se ci fosse nato dietro - scrocca sigarette a tutti e

ne ha le scatole piene. Due mani d'oro diceva il capofficina Paratore - in questo preciso

momento intovagliolato al desco ad aspettar le tagliatelle col ragù - mani stanche di

insacchettare pere, renette e sedani.

Quando?

Gli altri gli vanno dietro brontolando come si fossero svegliati ora.

Il padrone si guarda la cravatta col disegno di tante botticelle maròn tenendo le mani in

tasca, l'assessore corruga la fronte e il sindacato è sparito. Magari si è sgonfiato e

autoriposto in una valigietta, pronto all'uso in un'altra fabbrica. Il robosindacalista da

incazzo, pensa Gigio: lo carichi nel baule della macchina e all'occorrenza via, con dischetto

nella nuca ad arringar maestranze.

Gigio fa o meglio faceva bambole perché non ha studiato abbastanza da far robot, ma era

quello il suo sogno. Con le lampadine al posto degli occhi che si accendono e si spengono e

dicono Sì-Si-gno-re. Alti, grossi e protettivi come tanti Robbie sullo sfondo del cielo color

smeraldo.

Ma è mica facile, cosa credete? La crisi ha pestato duro da queste parti. L'hanno rigonfiato

- si vede - e messo sul tavolone della mensa. Tiene un piede su una scritta incisa nel legno

che tutti giurano l'ha fatta Enrico: Nena se ce l'hai faccela vedere.

Ebbasta cazzate, quando si riapre?

Ma 'stà bambola non la vuole più nessuno, capito?

Beh, si fa qualcos'altro.

Ci vogliono investimenti, soldi.

Dì al padrone che li tiri fuori, ne ha fatti di quei tanti quando la Pippetta si vendeva, vero?

Siamo al buono. Adesso si lede la proprietà, il diritto di farsene quel che pare dei soldi,

anche giocarseli al casinò o sputtanarli per una sinforosa o un putèo. Ce l'ha il diritto

l'imprenditore?

Si tace, il dinamico datore di lavoro. Potesse guarderebbe anche lui il padrone, ma non

può.

Bisbiglia qualcosa. Nessuno lo sente. Parlare forte! Grida Cuccato. Si afferrano un "sarà

possibile" e un "reinvestire" prima che dispaiano nell'aria. E infine un "Ma.." che potrebbe

essere Marzo, Maggio o Maipiù.

Riappare l'assessore e spande olio sull'acque agitose. Son tutti padri di famiglia,

cattolicissimi o quasi, e non si organizzano linciaggi senza almeno un po' di preparazione.

Si convoca ulteriore assemblea a data presta.

E noi?

Si girano verso Gigio alzatosi in tutto il suo metro e settantasette di magrezza. Parecchi

sorridono, chissà perché Gigio fa l'effetto di essere figlio o nipote e non uomo fatto e

dabbene.

Stiamo qui noialtri?

Assessore, sindacalista e padrone si immobilizzano come si fosse rotta la pellicola. Si

guardano anche, ma manca il suggeritore.

Il padrone li avrà già invitati a pranzo: brasato e per primo pappardelle alla lepre.

Anche Gigio deve cucinare e il guaio è che non ha ancora neppure cominciato a pensarci. Ci

sono piselli nel congelatore, troppo grossi per farli in umido ma che andrebbero bene in

compagnia del riso.

É bene continui il presidio. Sentenzia il sindacato. Per prevenire manovre e sgomberi della

controparte.

Il padrone si stringe nelle spalle come a dire: ma guarda cosa va a pensare questo qui.

Già ma i soldi son finiti. Fa presente Gigio.

Colletta! Colletta!

Ramazzano duecentosessantacinquemila cinquecento. Le cinquecento della Ravasini e un

centomila peloso del padrone, messo lì per ridicolizzare lo Smerdjakov sindacale.

Se ne vanno come un sol uomo salutando chi resta tra le mura del capannone a mettere a

nanna le Pippette senza ruttino. Nessuno si offre di condividere il loro esilio, tutti con la

testa già piena di possibili occasioni, amici influenti, cognati con piccoli esercizi. Tutti

verso casa calcolando quanto farà la liquidazione o l'indennità o la buonuscita che in

definitiva il padrone dovrà sganciare.

Non sembra possibile ma la fabbrica che va in malora riempie la testa di sogni. In

definitiva restan pochi gli incazzati sul serio, tutti gli altri cominciano - come dicevasi

poc'anzi - a pensare con un angolino di testa che la cattiva sorte può essere un preannunzio

di buona cioè di attività in proprio: dal banchetto al mercato fino all'animatorìa su navi da

crociera.

Nena, che se ne sta aggrappata alla vita storta che le è data, non fa commenti e guarda il

portoncino della fabbrica che l'ultimo si è chiuso dietro facendo piano piano come al

cimitero.

Oggi c'è risi e bisi. Annuncia Gigio. Segue misto di formaggi e radicchio di Verona al forno.

Da bere Valpolicella. Va bene?

Bilancio di una vita a mani insaponate

Enrico è andato al cesso in compagnia di un'annata di Super-Macho, Nena

dormicchia, la metà inferiore sulla sedia e la metà superiore sul tavolo, mentre Pino è

uscito un'altra volta a contare gli alberi dei viali nell'aria ferma dell'inverno.

Gigio lava i piatti, con calma e precisione. Non usa guanti e fa andare poco detersivo. Tiene

la spugna non troppo bagnata in modo da non diluirlo troppo e passa i piatti la prima volta

con pochissima acqua per sciaquarli abbondantemente alla seconda passata. Non c'è acqua

calda e Gigio ha imparato a cucinare con poco olio per non dover tenere le mani troppo

sotto l'acqua fredda.

Ogni tanto gli danno il cambio, ma Enrico sciupa il detersivo come un bambino per creare

dei blob di schiuma che minacciano di ingoiarlo, Nena nonostante la donnitudine lava i

piatti da cani e ne schianta almeno uno per volta e Pino ci mette al minimo due ore.

Gigio si alza e li lava quatto quatto senza chiedere niente a nessuno e si gode quel quarto

d'ora di solitudine. Non lo disturbano mai e per Gigio è un po' come star seduto davanti a

un pianoforte a strimpellare: nessuno che lo consideri o che faccia strane domande.

Cosa direbbero di lui i genitori a vederlo così, fallito lavapiatti abusivo in fabbrica

illegalmente presidiata? Certamente aborrirebbero, ringraziando il cielo di aver dato loro

Berardelli Armando, Fratello Maggiore - detto come si dice un grado militare - e (si diceva

a scuola) spione del maestro.

Adesso Beradelliarmando gira per la provincia più deserta a presentare Vomitor, una

specie di Pongo filaccioso e grumuto, adatto a travestimenti splatter e scherzi schifidi.

Siccome ha la vocazione dell'ordine, della legalità e del progresso che avanza, egli depreca

sinceramente le vecchiette delle tabaccherie che lo mettono alla porta invocando il santo

patrono. Esse non capiscono che ai bambini Vomitor piace da pazzi. Esse non si adeguano

ai tempi e son ruderi, fossili e cimeli. Ma senza camiceria d'assalto Berardelliarmando è un

Achille in sedia a rotelle, ormai incapace di atterrire gestori col moto delle sopracciglia fitte

e ombrose. Il suo notorio fascino maschio e i modi executive sono sprecati sulle montagne

e lui si sente come un marine facente funzione bidello.

Si veste ancora con camicie azzurre e frescolana per girar le valli ma la gente lo guarda con

sospetto e nei bar con le macchine da caffè ottonate d'anteguerra gli servono sempre caffè

lunghi e tiepidini come per smorzarlo, a lui che chiede imperioso un nero ristretto come

fosse segreto di forza e venustà.

Gigio ha due anni meno di Armando e una carriera scolastica frantumata e contorta.

L'hanno cambiato di scuola almeno tre volte e di sezione non si sa più quante. Per capire

Gigio capiva e si riprometteva sempre di fare i compiti e di essere bravo come il fratello, ma

poi impiegava interi pomeriggi a costruire cattedrali e fortezze di stecchini e cartone o a

disegnare confini immaginari, strade inesistenti e città inventate su atlanti e carte stradali.

Arrivava a scuola impreparato, non solo, ma anche fresco, innocente e soddisfatto.

Al primo trimestre Gigio aveva nove di geografia e musica e tre di tutto il resto. I genitori

gli mostravano Armando chino alle sudate carte sul tavolo di cucina e facevano fosche

previsioni sul suo futuro. Gigio annuiva serissimo e provava persino stima e

considerazione per il fratello tanto ligio.

Quando uscivano insieme però, Gigio poteva attraversare un bosco mai visto o un'intera

città senza perdersi mentre Armando se prendeva la svolta sbagliata sotto casa non era più

buono a tornare per cena.

I commenti più amari sulle possibilità di Gigio venivano quando il di loro padre si

avventurava in viaggi extraurbani con le carte arricchite dal figlio minore e si aspettava di

incontrare Usbenia o Cromazia sulla strada che va da Mantova a Pavia.

Gli facevano sparire le carte allora, anche perché Gigio era diventato abilissimo nel fare

puntolini col cerchietto e a imitare la grafia topografica e con un pennarello rosso poteva

disegnare autostrade Torino - Binzania complete di svincoli, circonvallazioni e tangenziali,

tanto che il povero papà rischiava la guardina a urlare che sulla carta c'era uno svincolo o

una bretella per Innìdate - Trezuil - Como e che cazzo ne avevano fatto.

Armando non gli faceva mai paternali, tutto serio come se anche coi calzoni corti si potesse

già pensare da uomini e da maschi. Armando di quindici anni teneva le riviste con le donne

nude in soffitta, in una cassa con la scritta Cinzano Spumante e si dava arie come avesse un

harem personale. Gigio era talvolta ammesso a sbirciare ma il fratello immammalucchito

da pelo, tette e culi lo guardava male quando leggeva la posta o le didascalie o si stupiva di

nei, segni di abbronzatura, reggicalze flosci e calze smagliate.

Questa è la Fica, capito scemo? La F-I-C-A, diceva ieratico. Ma già che a tredici anni non si

possono ancora capire di queste cose.

Gigio si rendeva conto e non gli dispiaceva quel che vedeva, ma era rassegnato ad essere

uno che non capiva. E poi il fratello diceva fica con la "c", non come i bamberottoli che la

dicono con la "g" senza sapere né aver visto altro che quella delle sorelline piccole.

Magari è che sei un po' frocio, gli diceva il fratello e Gigio, pur sentendo pulsazioni e

languori sotto la cintura, non smentiva indignato perché il fratello maggiore poteva aver

ragione, come sempre.

A Gigio piaceva una brunetta: gli piaceva talmente che pensava che doveva essere bello

vederla vestita almeno all'inizio della conoscenza, ma non si azzardava a dirlo, perlomeno

non al Maggiore, che le appellava tutte indistintamente con lo stesso sostantivo,

smorfiando la bocca come papà quando si parlava di una nota squadra di calcio o dei

comunisti.

Per poi andare a sposarsi la Luisa, fredda come un pesce (parole sue, di Berardelliarmando

ben grappinato dopocena) una che subito dopo corre in bagno e mentre lo fa non chiude

mai gli occhi e ti senti osservato: praticamente un poverocristo pallido e sculettante.

Le fa schifo, penso. O forse sono io a farle schifo. Magari un altro no. Un bel giorno suona

alla porta uno e lei...

Si intorbidava la zucca e andava su di giri al pensiero di seduzioni mattutine, penetrazioni

sopra la macchina lavatrice o il tavolo di cucina antigraffio, attuate da postini, vigili passati

a portare il certificato elettorale, studentelli del censimento, rappresentanti del Folletto.

Gigio stava a sentire ed era pronto a giurare che mai, Luisa mai, comunque mai, con

nessuno. Una di quelle che tirano il fiato quando arriva la menopausa e chiudono

definitivamente la già scarsa attività.

E poi di campana sentiva solo quella del fratello. Magari Armando era un Livioberruti della

penetrazione, un Marinetti dell'erezione: rapido ed invisibile come i sottomarini che

sarebbero piaciuti al Duce.

Verso mezzanotte, dopo ore due e passa di confidenze e fantasie malsane il Maggiore

crollava di schianto. La mattina dopo ricordava poco ma abbastanza per non salutare

Gigio.

Dormire nella fabbrica occupata lo preserva se non altro dalle depressioni

Armandesche e dai malumori di Luisa, nonché dai vandalismi delle nipotine che lo

chiamano Giggio e Tu, ma mai zio.

Peccato, ci avrebbe tenuto a vestire i panni di zio buono e gentile, con taschino del

panciotto fornito di caramelle e una parola rasserenatrice per tutta la famiglia.

Gigio si specchia nel rovescio della pentola ben lavata: ancorché deformati i suoi tratti

nulla hanno di ziesco. Sorride e si apre una voragine d'ombra semicircolare nella padella.

No, fratello minore per omnia saecula saeculorum.

Life Size / Dimensione vita

Il pomeriggio silenzioso porta vento e Gigio esce a prenderlo tutto, insieme al sole

pallido dell'inverno.

Quel che ha di bello la fabbrica è il caratteristico profilo a denti di sega, il tetto incatramato

e le siepi di un verde bruno polveroso in qualunque stagione. Gigio pensa che non possono

essere piante vere quelle lì, che crescono in mezzo ai mozziconi svuotati dai portacenere

delle auto, alle profferte su carta giallo semaforo delle finanziaria Amica Per Sempre e

Fingentlemen - Prestiti in Giornata, anzi Subito e restituire Mai o Quasi mai - ai bicchieri

di carta appallottolati, ai ciclets consumati e sputati color avorio.

Saranno piante particolari, piante da palazzina uffici e da impiegati che se la tirano come la

Ravasini, più padronesca del padrone e ora orfanella tanto quanto.

Si fa un giro intorno al muretto - edificato solo davanti - e alla staccionata nera di smog

dietro. La palazzina degli uffici è colorata di un inverosimile viola / bordò, figlio dell'anima

grigia dell'aria di città. Vassapé il colore originale. Gigio resiste alla tentazione di rientrare

a prendere straccio e detersivo con pompetta per lucidare decimetri quadrati 1 di

mattonella muraria e scoprire la tinta nativa.

Si limita a fissarla, a contemplare la lunga vetrata zigrinata che scende dal terzo piano a

terra, con le ombre più scure della scala - barracuda fermi nell'acqua torbida - facendo

ipotesi cromatiche sempre più sbalorditive e improbabili.

Alla fine decide che preferisce credere ad un azzurro brillante venato di sfumature

smeraldo, come certi cieli incredibili e infiniti, sfondo a remoti bestiari dell'infanzia.

Guarda talmente tanto da finire per crederci e rinvenire persino qualche traccia di quel

leggero colore da cielo sognato.

Per la strada passano solo poche macchine, il motore addormentato dal panorama silente.

Il sole è già basso e in questa stagione tramonterà dietro la ALVA Panettoni, tra la L e la V.

Verso marzo rosseggerà eclissando la ...toni, tanto da sembrare sceso davanti alla fabbrica

e non dietro, e solo ad aprile inoltrato scivolerà lungo il muro colando fino all'orizzonte.

D'estate Gigio non è più lì a vedere dove passa il sole. É sempre uscito prima, nonostante

gli straordinari. A casa di Armando - primo piano con ascensore che perdio si usa visto che

lo paghiamo - il sole a metà pomeriggio è già sparito dietro un anonimo condominio

troppo largo con tende uniformemente blu e frange bianche.

Perché mai un solo colore? E perché non arancione, verde, viola o un po' di tutti quelli che

si trovano: a righe, scacchi o losanghe?

Sbattersi tutto il giorno, fare la forca a amici, parenti e collaboratori per avere il diritto di

inalberare una tenda da balcone più uguale possibile?

Case dove dominano amministratori cannibali che fanno la cresta su tutto, lusingati da

impiegati e gerenti che guardano tutte le mattine il condominio semiaddormentato per

cercare tende ribelli, bambini nel giardino e palloni nel cortile dei garage, pronti a scrivere

in orario di lavoro lettere infiammate sul decoro dello stabile.

Gigio è incapace di sentimenti come l'indignazione o il disprezzo. Ciò che riesce a provare è

una varietà malinconica di stupore, un farsi in là perplesso, certo eticamente riprovevole.

Ma via, chi è disposto a spendere due parole sulla libertà di avvolgere il balcone coi colori

che si prediligono? Solo lui, praticamente, che non abita nemmeno nel moloch dalle

palpebre blu e ciglia bianche, e che si limita a farsi domande inutili la mattina all'alba o

rientrando la sera.

Si avventura sul marciapiede tutto ondine come un foglio messo ad asciugare sul

termosifone. Deve fare un bel pezzo di strada prima di incontrare qualcuno e superare

piccoli crocchi di segnali gialli a freccia posti su angoli strategici: "Ristorante Albachiara" -

"Pasticceria del Golfo" - "Mativa Giocattoli" che poi sarebbero loro. Chissà se l'ignoto

autoviandante si è mai chiesto chi sono quelli del Ristorante Albachiara, o se il gestore

della pasticceria del golfo ha i baffi o no. Gigio prova un lieve malessere a vedere quei

cartelli quando gira per la città, sa che dietro quella profusione di nomi intercambiabili

(pasticceria Albachiara, ristorante del Golfo) se ne stanno rimpiattate altrettante vite. Per

alcuni suoi ex-colleghi gerenti, gestori e commercianti fanno tutti parte della stessa razza

di briganti e tagliagole dal sorriso tanto facile quanto falso.

Quando sui giornali Gigio legge di pellicciai miserelli e macellai diseredati finisce magari

per concordare ma c'è un angolino di lui che non si presta a tanta approssimazione.

Gli fanno malinconia quei cartelli, quasi fosse un mettere in piazza il proprio anonimato,

come scrivere su un cartello Basilio Berardelli e tra parentesi Gigio, scontando già il

chissenefrega di chi passa e legge.

Quelli dell'Albachiara son gente che cambia troppo spesso camerieri - si vede che li pagano

poco - servono porziuncole da anoressia annegate in metri cubi di rucola e radicchio,

spregiano i primi e infatti li fanno cattivi e non trattano patate, verdura informe e

grossolana. Ci andavano a mangiare i dirigenti della Mativa e di un'altra mezza dozzina di

fabbriche della zona, pagavano settantamila per un piatto di biada, un aroma di tacchino

travestito da vitello, risotto all'ortica in busta e capriccio di fragola agra, praticamente

fragole lavate male e annegate nel limone.

Scuote la testa mentre si avvicina alla statale, dopo aver camminato all'ombra ininterrotta

dei TIR parcheggiati per qualche centinaio di metri. A Gigio piace cucinare, piace vedere la

gente contenta quando mangia qualcosa fatto da lui e proprio non capisce che gusto c'è ad

aprire un ristorante per poi rendere tutti magri e rissosi, un po' per il menu un po' per il

telefonino che trilla in tasca come un bambinetto viziato e rompiscatole.

Molto meglio il signor Giuseppe della pasticceria del Golfo che sforna invendibili dolci

meridionali da un chilo a fetta e immalinconisce a vendere chantilly, meringhe e bigné.

Chissà quando perderà definitivamente le speranze, il signor Giuseppe, e come un Diogene

deluso mollerà la botte in discarica per affittare monolocale arredato uso ufficio / studio?

Per ora presenta ancora i suoi dolci da un megaton con fervore missionario, incredulo che

al mondo non ci siano più veri uomini, vere donne e veri bambini capaci di domare le sue

leccornie allo stato brado. E rincara ogni volta la dose, creando delikatessen con uova,

burro, cacao, panna, uvetta, canditi, barre di cioccolato fondente, fecola di patate, pan di

spagna e frutta secca, capaci di impinguare anche solo con un respiro profondo.

Eppure a Gigio è sempre stato simpatico, tanto da essere tra i pochi audaci che

acquistavano i suoi dolci. Ma a casa Luisa lo guardava come se le avesse portato intestino

di montone per il pranzo di domenica, riponeva il gravoso pacchetto in basso nel frigo e il

lunedì mattina lo buttava via.

Gigio arriva al bivio. A destra in città, a sinistra nel centro commerciale Life Size -

Dimensione Vita. Il traffico è sostenuto e scivola ansioso lungo la recinzione di cemento

della ferrovia come se i soldi bruciassero in tasca, da spendere in fretta come la mancetta

della zia quando ci sono i baracconi in piazza.

Decide per il centro commerciale e cammina sul bordo erboso sperando di essere visto.

Nessuno va al Life Size a piedi, nemmeno gli immigrati che probabilmente sono arrivati lì

tutti insieme in una notte e non si sono più mossi per la paura di essere arrotati.

Gigio sbarca incolume nel perimetro del parcheggio e tira fuori cinquecento lire per il

carrello festonato di pubblicità. Il carrello è fondamentale, con il carrello si diventa Clienti.

Infatti gli immigrati non ce l'hanno e sono solo scassapalle. Qui non siamo razzisti ma se

ne stessero a casa loro... ma certo sono poveretti, ma portano prostituzione droga e brutte

malattie. Gigio lo sa che parecchi lavorano in fabbrica e si accontentano di poco, veramente

troppo poco, e se ne stanno per conto loro, aggrappati alla promessa di un lavoro stabile e

di un permesso di soggiorno che funziona come la carota davanti al muso dell'asino. Sa che

è difficile per molti sopportarli, non parliamo poi di amarli. Ma è gente comunque, mica

zimbelli di una pietà a rullo compressore o babau neri che hanno attraversato il mare pieni

di pessime intenzioni.

Prima o poi ci si riuscirà a capire, se non proprio subito, tra una generazione o due. O

almeno Gigio ci spera.

Uno di loro si avvicina, con la cassetta rappezzata dallo scotch da pacchi, i fazzolettini, gli

accendini bic, le collanine e i ninnoli. Praticamente le stesse collanine che si portavano

dietro esploratori, missionari e mercanti per sedurre capitribù e stregoni da fumetto

colonialista, destinati a fregiarsi di una sveglia al collo alla fine della storia.

Chi può comprare qualcosa da loro quando di fronte c'è una cattedrale di Oggetti

Desiderabili? Gigio fa segno di no con la testa ma sbaglia e sorride. L'altro insiste. Finisce

per comprare un portachiavi con la piletta per illuminare la serratura, dopo aver ridotto il

prezzo da diecimila fino a duemila. Si separano esausti ma contenti come lottatori che

hanno constatato di essere bravi tutti e due.

Spingendo innanzi il suo carrello come un piccolo carrarmato Gigio entra cigolando nel

tempio. Una specie di bosco ben cintato da un muretto arancione si arrampica in alto a

sfiorare la balconata del primo piano. La luce del giorno entra da una cupola di vetro

altissima. Quando c'è andato con il sole Gigio si è sorpreso a chiedersi se il sole era lo

stesso di fuori, tanto delicato e moderno sembrava il sole del Life Size rispetto a quello

grossolano e primitivo che di fuori arroventava le lamiere delle auto.

Compra un frullato ai tre frutti e si siede sul muretto arancione a guardare la gente che

passa.

Un grande schermo alle sue spalle riproduce i passanti, il carrello vuoto di oggetti, ma

ancora pieno di speranze. Mentre degusta il frullato Gigio sbircia le espressioni sorprese e

deliziate dei teleprotagonisti di passaggio, l'affettata indifferenza dei clienti abituali, la

sorpresa dei bambini che fanno cucù sullo schermo e vanno avanti e indietro di corsa per

scoprire il punto esatto in cui si va fuoricampo e la sufficienza un po' sofferta delle coppie

alternative che vorrebbero tanto salutarsi nel megaschermo e correre avanti e indietro

come i bambini e invece soffrono senza darlo a vedere e rimandano il momento dello

svacco almeno fino al negozio Econatura o allo spaccio di prodotti del Terzo Mondo.

Gigio si gira ogni tanto e si trova anche più nasuto e puntuto di come si ricordava e

comunque diverso da com'è nello specchio da barba.

Il fatto è che lo specchio gli rimanda un Gigio invertito mentre la telecamera gli restituisce

tutta la sua pubblica gigitudine.

Praticamente così è come la gente lo vede: un po' come la voce sentita nel registratore che è

quella vera e non quella che ci si immagina di avere.

Già, ma se guardasse lo schermo nello specchio allora Gigio tornerebbe il consueto Gigio-

nello-specchio.

Aguzza lo sguardo per cercare una superficie atta allo scopo nella batteria dei negozi di

fronte a lui. Una colonna di metallo ben lucidata posta davanti all'ingresso del bar viene al

soccorso. Si alza e comincia a dondolarsi per azzeccare il riflesso dello schermo. La gente

passa e gli lancia sguardi dubbiosi, ma visto il luogo che rutila televisività pensa che Gigio

sia un tecnico, un attore, insomma qualcuno pagato all'esatto scopo di far bizzarrie.

Il guaio è che non essendo più seduto sul muretto Gigio non è più nel campo delle

telecamere e quindi, anche quando indovina il riflesso, vede l'inutile ripetizione del

muretto vuoto. Per un po' almanacca su una triangolazione che gli permetta

contemporaneamente di vedere Gigio-nello-schermo e Gigio-da-barba, conta passi e

misura la luce come uno di quelli esploratori che tracciavano i meridiani della Terra, ma

lascia perdere una volta scoperto che per raggiungere il suo scopo geometrico dovrebbe

penetrare nel giardinetto - tanto lucido da sembrare finto - che rallegra l'ingresso del

centro commerciale.

Va a recuperare il carrello con cautela studiata mentre il pubblico pensa alle riprese di uno

spot e inconsciamente tira dentro la pancia e si passa la punta delle scarpe contro il dietro

dei pantaloni.

Gigio intanto rumina sulla composizione dei prossimi pasti, ben conscio delle centomila-e-

basta stanziate dal comitato per la prossima settimana. Basta mettersi nei panni di un

pensionato, medita: pane, latte, tre X due, quattro X due, due X uno e uno X tutti.

Nell'ipermercato ci sono sempre graziose signorine pronte a offrire caffè, prosciutto,

tovagliolini, porzioni di surgelati da mensa di bambola, gelatini e formaggini.

In genere la gente le guarda con sospetto, in qualche caso scappa. Gigio no, assaggia

volentieri, infila nel carrello il campione omaggio - con la scritta omaggio bella grossa - più

una confezione dello stesso a sole lire 3990 per poi posare quest'ultima in un carrello

incustodito nel corridoio subito a fianco. Lo fa da quando è iniziata l'occupazione e le

signorine alle casse non hanno mai fatto commenti sui suoi omaggi senza pegno: li fanno

rotolare via in fretta come se scottassero, facendoli passare a fianco alla croce di raggi rossi

che legge codice e prezzo.

Ci sono poi anche le promozioni senza pegno, gli assaggi gratuiti e Gigio non ne perde uno,

anche perché - ragiona - mangiando al Life Size mangerà di meno a cena con evidente

vantaggio per la comunità.

Mette insieme un merenda fatta di Parmal - meglio del parmigiano - un caffè Araba Fenice,

una fetta di Krudel, lo strudel magro senza burro, senza margarina e senza grassi.

Racimola quattro formaggini con sopra la figurina olografica di un Power Vendicator che

spara all'acquirente e un piccolo surgelato con la scritta incomprensibile e il disegno di

cialdine bianche: forse ostie di merluzzo o tartine di farina di chissaché.

Gira ancora per un po' ma non trova altre promozioni e decide che è il momento di fare sul

serio. Mentre compila e cancella mentalmente una lunga lista di pasti esamina con sguardo

critico tutti i cartelli sporgenti dagli scaffali che promettono mirabilie. Il Life Size

ipermercato è talmente moderno e efficiente che i prodotti in offerta treperdue eccetera

divengono tali grazie ad un piccola barretta aggiunta nel codice EAN. Gigio se n'è accorto

confrontando confezioni acquistate in momenti diversi e come si sa è egli uomo dalla mano

ferma, perfettamente in grado di riprodurre linee più o meno spesse.

Comincia a stivare il carrello aggiustando i codici con l'ausilio di un pennarello punta 0.2,

costo lire 3.490. Come al solito il megacomputer del Life Size leggerà le barrette apocrife

con la stessa arcigna sicurezza con cui il babbo leggeva senza stupore "Ziggurate" sulla

carta stradale.

Esce nella nebbia illuminata di giallo che circonda l'ipermercato con la meraviglia

venata di rimpianto di quando usciva dal cinema da piccolo, incredulo che fuori il mondo

normale ci fosse ancora.

Fare la statale di notte col carrello equivale a mettersi una sciarpa bianca e pilotare un

aereo da ricognizione carico di tritolo contro una portaerei americana. Un viaggio senza

ritorno, senza nemmeno un imperatore a cui dedicare la propria gloriosa morte. Ma Gigio,

che ha visto tutti i film sulla guerra nel Pacifico, non si sente meno di un kamikaze e

ripassa la sua piccola recita a beneficio del primo Uomo Solo che vedrà.

Li riconosce dal carrello, in genere, medio-pieno, con quattro bottiglie da 2 litri ciascuna di

Coke, patatine e salatini, surgelati, salse e scatolami inconsueti. L'uomo solo ideale di Gigio

non aspetta donne per la sera e non mangia nulla di serio: si ingozza da solo davanti alla

TV come un bambino coi genitori fuori: intinge i salatini nella maionese, mangia tonno e

piselli direttamente nella scatola senza scaldare niente e finisce con un secchiello di gelato

in ogni stagione.

Se il soggetto è un padre separato, compra il doppio di tutto perché è probabile che la sera

ci sia il bambino/i a casa. Allora è anche più divertente abbandonarsi e mangiare porcherie

ed è più probabile che così la prole ci tenga a rivederti presto, alla faccia della mamma

separata che prepara la scaloppina e la verdurine che fanno bene.

L'Uomo Solo di questa sera ha gli occhiali e il vestito stazzonato. Non ha fretta e non è

nervoso. Per lui la sera d'inverno del sabato ha connotati inquietanti: è un momento di

relax venato di uno strazio sottile, da annegare nella maionese, come le sabbie mobili che

inghiottivano i cattivi dei film bianco e nero.

Buonasera, mi scusi tanto.

L'uomo solo del sabato sera non è sospettoso né ha troppa fretta.

Il senso fatale dell'esistenza si è infilato di soppiatto nella sua vita rapida ed è

inconsapevolmente contento che qualcuno gli parli.

Abbia pazienza, ma la macchina non mi parte.

Gigio indica un'auto a caso, lontana.

Mi ha piantato in asso e non so come fare. Ho chiamato il meccanico ma non può e quella

di mia moglie ce l'ha sua sorella.

L'uomo solo annuisce serio, in genere non dice scemenze tipo: mi faccia vedere, gliela

faccio ripartire io, come farebbe un vero padre di famiglia. É facilmente sopraffatto dal

pathos del papà naufrago o perduto nel bosco che non riesce a portare a casa l'alce o il

cervo faticosamente ucciso e si strugge pensando ai figlioli che han fame.

Abita lontano?

No alla seconda svolta della statale. Andrei anche a piedi ma...

Ma non vuole mica farsi la statale a piedi coi sacchetti? Vuole morire?

Guardi...

Non mi ringrazi, lo faccio volentieri.

E più tardi, in macchina: sa ogni tanto penso che ci si dovrebbe aiutare di più, che il mondo

così sarebbe migliore.

Gigio si fa lasciare davanti a un condominio e armeggia nella tasca a cercare le chiavi.

Qualche volta il benefattore aspetta che Gigio sia entrato con borse e tutto nel portoncino

prima di ripartire - e questo può essere un problema - ma in genere dopo adeguata

pantomima -chiavi mostrate mentre si saluta, conversazione falsa al citofono - il guidatore

solitario se ne va, meno triste in cuor suo.

É solo quando le lucine rosse dei fari sono sparite che Gigio parte per la fabbrica.

La torre della Luna.

La chiamano la Torre della Luna, come in un romanzo con fate, maghi e cavalieri.

Quando si era riparato il tetto del capannone - cominciava a piovere sui macchinari, un

vero presagio - gli operai di una piccola impresa avevano costruito un'impalcatura fatta di

tondini e assi di legno che arrivava fino alle grande finestre del tetto. Poi la Mativa aveva

cessato la produzione e le maestranze l'avevano occupata, impalcatura compresa.

Quelli dell'impresa riparatetti si erano fatti vivi nei primi giorni, mentre Ragusa coadiuvato

da Torchia, stava assicurando due Pippette sul cancello a reggere uno striscione con la

scritta "Mativa occupata - Il posto di lavoro non si tocca!". I due eroici proletari li avevano

guardati di brutto, come si suppone andassero guardate le guardie bianche o la

Wehrmacht.

Tutto quello che c'è in fabbrica resta dov'è.

Tanto intrepidi e risoluti che quelli dell'impresa erano risaliti sul furgoncino con la ruggine

sulle spondine e il motore diesel che andava a fuliggine. Ragusa era rimasto sul cancello a

guardarli allontanarsi, probabilmente immaginandosi una scena nevosa e un blindato alto

e oscillante come la credenza della nonna che scompare nella nebbia bianca dell'inverno.

Gigio aveva dovuto aspettare che Ragusa, Torchia e Billi dormissero per liberare le due

pippette al cancello sostituendole con banali cordicelle.

Si era poi data la colpa del furto delle pippette a un gruppo di ragazzini che venivano a

giocare a pallone davanti alla fabbrica, e Torchia, almeno finché non era andato a fare il

camionista, tutte le volte che usciva dalla fabbrica li guardava male e se il pallone cadeva

dentro glielo sequestrava.

Il pallone? Quale pallone? Chiedeva ostentando innocenza.

I ragazzini non gli credevano, si vedeva, ma non stavano a discutere troppo. Il giorno dopo

arrivavano con un nuovo Brasil Special e giocavano tenendolo inchiodato per terra:

passaggi rasoterra, tiri rasoterra, interventi rasoterra almeno finché qualcuno non si faceva

prendere dall'entusiasmo.

La cima dell'impalcatura ostaggio delle maestranze della Mativa in questi giorni si

colora dell'argento della luce della luna. Dalla luna magretta e filiforme stasera si è arrivati

alla lunona trionfante e rotonda che attraversa paciosa il vetro reticolato del tetto della

fabbrica.

Gigio l'aspetta seduto. La reticolatura del vetro pulito fino alla pedanteria lo aiuta a

inquadrare particolari del paesaggio lunare e si sente un po' un astronomo che debba

controllare che non siano comparsi nuovi crateri o non ne sia sparito qualcuno.

Cosa fai Gigio?

Vieni su, Nena.

Ma che cazzo farai mai là sopra. Borbotta la Nena mentre si arrampica. Non sei mica uno

molto giusto, lo sai?

Il viso spigoloso di lei compare sul bordo dell'impalcatura e Gigio allunga una mano per

aiutarla a salire. La Nena ha le mani ruvide, fredde e un po' arrossate di questa stagione. La

fa salire e sedere davanti a lui senza mollarle la mano.

Allora? Dice interrogativa. Forse c'è una puntina di imbarazzo in lei, di quello che hanno le

ragazzine di dodici anni quando il ragazzo al cinema le prende per mano.

Niente, guardavo la luna.

Anche Gigio è imbarazzato, si nasconde la mano in tasca come per punirla.

É bella, non credi?

Certo è bella.

Io penso che non la guardiamo abbastanza. Lei continua a girarci sulla testa ma non

alziamo mai la testa.

Nena si stringe nelle spalle. La luce scivola sulla sua camicia troppo larga.

L'aria non è mica pulita. Poi ci sono le luci della città, che la fanno pallida.

Hai ragione. Ma pensa se un bel giorno non ci fosse più. Arriva la notte, si accendono i

lampioni e la luna non c'è più. Almeno per un po' nessuno se ne accorge. Poi se ne parla,

magari anche per un bel pezzo, ma poi si dimentica tutto. La luna diventa come la grande

diva di Hollywood scomparsa, si mostrano le riprese, si fanno film, la gente si commuove.

Ma poi qualcuno comincia a stufarsi e dopo un po' la cosa diventa noiosa.

Ma dai, Gigio. Smettila di dire scemenze.

No, davvero. Conosco un sacco di persone che nemmeno si ricordano che esiste, che li devi

portare in campagna d'inverno di plenilunio per sentirli dire "Oh, che bello".

Qui intorno i lampioni sono rotti e ci sono solo fabbriche, per questo puoi vederla bene. Ma

se si vede bene la luna vuol dire che c'è miseria.

Gigio annuisce. Nena ha ragione, ma nemmeno lei sembra troppo contenta della sua

saggezza. Stanno zitti. Gigio tira fuori dalla tasca la mano, la stessa di prima, e gliela passa

sul viso lentamente.

Lei gli posa sopra la sua e alza gli occhi al cielo profondo, reticolato d'argento. La luce

lunare la rende più morbida, quasi una fata con la camicia troppo larga e senza tette, come

è giusto che siano le fate.

Che fate là sopra voi due?

Enrico ridacchia come il compagno di scuola scemo che ha pescato due della classe che

limonano nei bagni della scuola.

Cosa ridi, orango? Guardavamo la luna.

Nena si è alzata ed affacciata alla piattaforma.

Perché non vai a toccarti il pistolino, scemo, invece di rompere i coglioni al prossimo?

La luna, già. Se la cava bene Gigio? Insiste Enrico.

Nena scende di corsa minacciando qualcosa. Enrico scappa e la luna oltrepassa il bordo del

vetro scomparendo. Gigio si sente triste, ma è una tristezza speciale, fatta di rimpianto e di

speranza.

On the road

Piacerebbe avere sottomano un indice in tavole dei profili della città nel tempo.

Prima pochi campanili eretti su un mare rossastro di tegole, poi sempre meno rosso e

sempre più grigio cemento, abbaini, antenne, gabbie d'ascensore. Poi i finti grattacieli del

centro, orgoglio degli architetti del Regime e infine i cubi di Rubik di cristallo scuro, che

sembra impossibile che qualcuno possa entrarci, viverci e lavorare.

I profili delle montagne invece cambiano in milioni di anni. Sarebbe interessante farsi

ibernare con una sveglia che chiama una volta ogni cento milioni di anni. Una settimana in

circolazione nel 100.001.993 a vedere come si è spianato il Cervino o quanto è diventato

grande il Lago d'Iseo. E poi di nuovo nel 200.001.993 eccetera.

Gigio seduto sul letto fatto - ma senza scarpe come gli ha insegnato la mamma - infila

pensieri senza scopo, correndo dietro alla fantasia. La sua ansia da futuro remoto ricorda

da vicino H.G.Wells, ma non è plagio, Gigio infatti non è mai riuscito a leggerlo.

Ha saputo dell'esistenza della Macchina del Tempo, beninteso, e ancora adesso ricorda

vagamente una copertina con un tizio scuro e angustiato in piedi su una spiaggia gelida a

fissare qualcosa nell'acqua grigia, con il sole, piccolo, rosso, puntiforme, annegato in un

cielo violaceo.

Tutto inutilmente, dal momento che il libro nella biblioteca scolastica era sempre fuori in

prestito e mamma Ida non riteneva il caso di spendere sante lirette in libri per ragazzi,

oltretutto evidentemente pieni di strampalate assurdità.

E così Gigio è cresciuto senza aver letto né la Guerra dei Mondi né la Macchina del

Tempo. Ma a forza di fantasia ci sta andando vicino.

E magari nel 6.000.000.001.993 potrebbe svegliarsi in una Terra freddissima popolata

solo di scheletri di piante rotonde o tubolari, cristalline, senza neppure più l'ombra di un

animale e con in cielo un sole non più grande di una biglia da spiaggia, del colore del

sangue.

Di nuovo, è ancora lì.

Pino è penetrato, silenzioso come un thug, nelle sue fantasie per ricondurlo alle miserie

quotidiane.

Sempre quello là, vero?

Proprio.

Quello là è il proprietario di un gigantesco camper che, più o meno una volta alla

settimana, viene parcheggiato proprio di fronte all'ingresso della Mativa eclissando

completamente la scritta "Fabbrica Occupata".

Chi si trovasse a passare di lì in quel momento potrebbe anche pensare di transitare

dinanzi a una una fabbrica abbandonata in paziente attesa di erbacce e muffe, piuttosto

che a un esempio di resistenza a oltranza al tardo capitalismo. Non che sia troppo

importante il pensiero dei passanti, ma ormai è una questione di principio.

Oltretutto la sensazione che il tipo lo faccia apposta è difficile da cancellare. Trattasi di un

ex-giovane dalla faccia lucida e ansiosa, bruno e presumibilmente danaroso ma in jeans

debitamente scoloriti. Uno che ammicca spesso e parla dondolando un mazzo di chiavi da

secondino e che dice cioé veramente ogni tre parole.

Cioé veramente non c'è mica divieto di sosta, cioé veramente sono affari miei dove voglio

mettere il camper, cioé veramente la legge mi protegge in questo caso.

Il primo impulso, in considerazione dei modi lagnosaggressivi da ribelle appassito e

l'epidermide lampadata, sarebbe di ammaccarlo un pochino - lui e/o il suo camper da

globetrotter nullafacente - e il ProdePino si è già più volte proposto per la bisogna, ma la

cosa, pur piacendo a tutti, potrebbe creare complicazioni. Ci si è così limitati finora a

minacce vaghe e lunghe discussioni sul filo dell'incazzatura, tanto per ottenere che mister

camper sposti di qualche metro il suo quattro vani doppi servizi sgabuzzino e wc chimico.

Ma perché non lo tiene in deposito, non corre rischi a lasciarlo in giro?

Cioè veramente, ho un antifurto con quattro palle.

Gigio si separa malvolentieri dalla Terra terminale per ritornare alla fine del

secondo millennio - una vera miseria - tanto più che in genere in capo a un minuto di

dialogo avverte l'imperioso desiderio di sistemare camper e camperista selvaggio in un

cassonetto.

Si avvicina strascinando i passi, come il grande pistolero che ha deciso di non sparare mai

più dopo aver centrato per caso una bambina (ad Abilene, tanti anni prima).

Il tizio lo attende senza parere. Passa l'indice inumidito su uno spigolo del mostro abitabile

per togliere una righetta.

Gigio opta per l'attacco a sorpresa:

Cioè veramente, c'è tanto posto sul marciapiede.

Il camperista aggrotta le sopracciglia. Non ha capito dove sta il trucco, ma comunque non

molla. Ha un lungo passato dalla parte degli operai - volantinaggi, comizi volanti, picchetti

- ma adesso i tempi sono cambiati e sono cambiati anche gli operai. Adesso la Classe

Operaia non c'è più, e le ombre che si ostinano a lavorare in fabbrica sono gente noiosa e

senza fantasia, che si ostina a sopravvivere nonostante la fine dell'Utopia.

Io posso lasciarlo dove voglio, cioé veramente.

Ma com'è che non è in giro per il mondo, lei, ma giorno sì e giorno no ci viene a

parcheggiare il suo mostro sui piedi?

Il tipo esita. E' forse la sua immagine a essere discussa e vilipesa?

Io posso lasciarlo dove voglio, cioé veramente. E quando voglio. Mi sono stufato di queste

discussioni.

Gigio sembra incassare, quieto come un baro che perde una partita per non dar nell'occhio.

Fa il gatto da strada e socchiude gli occhi.

Quante ruote ha il suo camper?

Il tizio lo ricambia con uno sguardo obliquo. A due metri di distanza come sceriffo e

fuorilegge finalmente faccia a faccia.

Sei

Gigio annuisce serio-pensoso.

E come sono, tre per lato? Oppure due e quattro o cinque e una? O magari sono tutte e sei

dallo stesso lato?

Cioé veramente, tre per lato.

Il Reduce lo fissa meno sicuro.

E la trazione, com'é? Posteriore, anteriore, mediana? Oppure semianteriore,

semiposteriore, anteromediana, medioposteriore, anteroposteriore diagonale,

retrosterzante, omolatera, eterolatera alternata?

Il camperista dondola le chiavi invece di rispondere. Sorride fisso come un giornalista TV

dimenticato in onda. Una ciocca di capelli scuri gli spiove sugli occhi.

Gigio sa di aver preso l'iniziativa e non la perde. Si succhia le guance, alternativamente. A

suo tempo l'esercizio otteneva l'attenzione di due terzi di una classe tutta femminile delle

medie. Il tipo fa per imitarlo, ma dopo due tentativi a faccia tutta storta rinuncia e lo fissa

ipnotizzato.

E l'accensione? Com'è l'accensione? A candeletta, a retrospinta, iterativa, postulativa, in

groom, taylorista, biambale eteronima, frugivora, catatronica, a sferette...

Ma di cosa sta parlando?

Il deluso dal proletariato ha un sussulto di resistenza ma ha già fatto un passo indietro.

Dell'accensione. Poi c'è ancora l'alimentazione, la carburazione, l'accelerazione, la

retroazione, la cinematica, la tenuta in curva su terreno asciutto e terreno bagnato, con

fondo cedevole, ghiaietta, olio, nafta, pellicole ad alta viscosità...

Alle spalle di Gigio è comparso Enrico, che annuisce come un finto cane sulla cappelliera.

... cosità. Ripete

Fa lo zombie con gli occhi sbarrati e la braccia penzoloni.

...E come va su balsa, ordito ottagonale, schiuma isolante, basalto abissale? E su quercia

laccata, carta vetrata, frittata e insalata, mentaorzata, plastica zigrinata, carta macerata,

quercia impiallacciata? E l'alimentazione? A flusso, a biflusso, alternata, sotto spinta,

iniettata, vanadiostatata? E la carburazione? E l'accelerazione, cosa sa dirmi

dell'accelerazione? ...

Secondo te poi torna?

Non lo so.

Aveva la faccia spaventata, però.

Enrico piantala di fare lo zombie, che fai senso.

Non me n'ero accorto. Comunque secondo me non torna. Voleva solo risparmiare

sull'affitto per il posto camper, il piffero.

Tutto può essere.

... E quando lo pizzicano cambia posto.

Possibile.

In realtà probabilmente non va mai da nessuna parte.

Magari è così.

Cosa leggi Gigio?

Boh, un libro su uno che va sempre in giro. On the road, dice.

E ti piace?

No.

A cosa si pensa un istante prima della fotografia?

Piove. Non come d'estate che ci vuole preparazione, un minimo di coreografia,

nuvole che si raccolgono, una sfumatura di viola nell'aria, schiocchi di vento, echi e lontani

brontolii. No l'inverno è come accendere un interruttore e via, a piovere da un cielo sempre

grigio. Quasi si fa fatica a notarlo.

Pino ed Enrico giocano a carte su uno dei tavoli della mensa. La Nena scrive chissachè,

forse il suo diario, forse un romanzo che leggeranno tutti e la renderà ricchissima. Gigio

guarda fuori da una finestrella molto alta, in ginocchio su uno sgabello lungo e instabile

che ha trovato negli uffici.

Saranno le tre del pomeriggio, di un martedì o mercoledì.

Stare senza lavorare toglie il senso dei giorni, allunga il tempo o forse lo accorcia e senza il

giornale, senza guardare il calendario che ha portato Enrico, non si sa bene né il mese né

l'anno.

Ma sul calendario di Enrico i numeri si leggono male e i nomi dei giorni, scritti

piccolissimi, ancora peggio. Quasi tutta la paginona di febbraio è occupata da un paio di

tette con sopra una testa bionda o bruna che ammicca.

A Gigio quel calendario ricorda i trucchi fotografici degli anni '10 e si immagina la Nena

che infila la testa nel buco predisposto nella sagoma di cartone ed eccola fornita di un seno

da balia o da crema reclamizzata sulla Settimana Enigmistica, una cosa mai vista, un

monumento esagerato alla femminilità.

Ma Nena è il tipo da infilare la testa nella sagoma dell'aviatore o del marinaio, non della

balia.

Quante copie gireranno di quel calendario? A quanti indistintamente sorrideranno le

signorine patinate? É una cosa che lo intriga fin dai tempi della cassa Cinzano Spumante

del fratello: le ragazze-per-tutti che hanno sorriso a un fotografo, a un ricordo, al sogno del

tipo giusto, al desiderio di essere belle e ammirate.

Per tutti loro - loro maschi - era il tempo di un'eternità, di un destino.

Per le ragazze il tempo di un clic e poi di corsa a rivestirsi.

É come guardare un solo fotogramma, nemmeno il più importante, di un film. Come

rubare un sorriso senza destinatario, forse falso e forse no.

Berardelliarmando non lo stava nemmeno a sentire quando attaccava a far domande sulle

foto porno, lo guardava come si guarda un matto o un santo - che poi sono quasi la stessa

categoria di persone - e metteva via tutto di fretta, come se Gigio gli avesse insozzato con le

sue fantasie tutte le sue innocenti donne nude.

Eppure Gigio è sicuro che se riuscisse mai a parlare con una fotografia, a passarci

attraverso, a essere lì all'improvviso capirebbe molto di più del mondo. Ma è questa

sensazione di esserci - nelle fotografie - che non funziona. É questo che confonde un sacco

di gente, gente che crede di aver visto e poi non ha visto niente, solo quello che gli hanno

fatto credere.

Gigio adolescente aveva visto una foto famosa: Lenin con la mano appoggiata al

cornicione di un balcone che parla agli operai. Ma subito sotto nel libro c'era la stessa foto

con vicino altra gente e poi altre versioni successive della stessa foto. Lenin c'era sempre

ma a ogni giro sempre più solo. Le facce allegre o esaltate alle sua spalle scomparivano una

o due alla volta e scompariva anche la scritta - Emporio o chissà cos'altro - che si vedeva

dietro Lenin. E Vladimir Ilìc sembrava la vittima di uno scherzo sinistro: solo soletto alla

chetichella con la sua barbetta da ebreo da barzelletta, il pugno chiuso e il deserto alle

spalle senza saperlo.

Vista così la foto gloriosa della rivoluzione diventava persino allarmante e veniva da

chiedersi se davanti gli operai c'erano davvero o c'erano solo due pensionati e tre cani.

Veniva anche da chiedersi se le altre vere foto di Lenin fossero meno ispirate, meno adatte

e la stessa mano che aveva eliminato l'inutile sfondo di persone non avesse eliminato anche

quelle, tenendo solo la foto dove Lenin aveva la faccia incazzata, perché era davvero

incazzato che non ci fosse nessuno o quasi al suo comizio.

Ma parlare di queste cose con gente come Billi, Torchia e Ragusa voleva dire tirarsi dietro

occhiatacce peggio di quelle di Berardelliarmando e così Gigio taceva, teneva le mani in

tasca e quando parlavano loro faceva finta di fischiettare.

La pioggia si è fatta quasi invisibile e c'è poco gusto a starla a guardare. Persino le

pozzanghere sembrano ferme e ingrassano poco alla volta come signore che ogni giorno

mangiano una caramella di troppo.

Gigio scende, passa alle spalle di Enrico che con due regine e due re cambia due carte, forse

per tentare il full o forse perché non ha capito che sta giocando a poker e non a

scassaquindici e arriva nella stanza delle duecento pippette senza ruttino.

Accende i neon che lampeggiano per un po', come si fosse in un film di Dario Argento con

le luci a trattini, e le osserva. Stanno sedute sugli scaffali tutte in fila, i capelli corti e biondi,

gli occhi blu e niente vestitino, perché quello lo facevano dei laboratori di immigrati

clandestini.

Ogni tanto passa ancora, la signora Hanan: bassa, grassottella e sorridente, ma lui si

stringe nelle spalle come a dire: ancora niente. La signora Hanan sorride lo stesso, dice

qualcosa nella sua lingua e se ne va dondolando sui fianchi ampi e allegri, i capelli sempre

coperti come le suore, ma con qualche ciocca che viene fuori in modo da indovinare il

colore.

A Gigio è sempre piaciuta la signora Hanan, come gli piacevano mister Ju e suo fratello,

bassi e scuri che venivano al venerdì sera a portare i vestiti chiusi nelle buste di cellofan,

che parlavano sempre pianissimo e più che camminare appoggiavano i piedi per terra per

non disturbare.

Non gli è mai riuscito di vederli insieme, i fratelli Ju e la signora Hanan. Peccato perché gli

sarebbe piaciuto assistere all'incontro tra arabi e cinesi, spiarli mentre non si capivano e si

scambiavano sorrisi vaghi, forse un po' complici perché erano tutti quanti di fuori o forse

no perché ognuno è il terrone di qualcun altro.

Le bambole sorridono. Hanno il sorriso dipinto sulle boccucce color rosa pallido. Ovvio,

pensa Gigio, se potessero cambiare espressione sarebbero vere e sarebbe terribile tenerle

nude, sedute sugli scaffali di metallo pieni di polvere.

Ma le pippette sole gli mettono tristezza, non c'è niente da fare. In fondo tutto lì dentro è

un po' triste, troppo grande e troppo silenzioso. Gigio ci pensa per un momento, esce,

attraversa il cortile, entra nella palazzina degli uffici.

Rientra stringendo sul petto il prezioso dono. Cerca una spina e poi gira la rotellina fino a

trovare la frequenza giusta.

"...E con gli auguri di Gianni per Milena un vecchio e diabolico successo dei Led Zeppelin:

Starway to heaven... Let's the music play in questa serata di pioggia..."

Gigio alza un po' il volume, si ferma il tempo di sentire tutta la canzone che piace anche a

lui e poi va a preparare la cena. Spegne le luci ma non la radio, una di quelle che

trasmettono twenty-four-hours.

Ma la corrente per la Sedia Elettrica non manca mai.

"Preavviso di distacco": un cartoncino bordato di rosso Enel portato da un

giovanotto frettoloso con una borsa a tracolla logora e troppo pesante.

Sei milioni e mezzo, dice Enrico, chi li ha?

Il padrone, lui li ha.

La Nena guarda Pino non si capisce se per commiserarlo o con ammirazione:

Non sgancia, quello, poteva pagarla anche prima che si arrivasse al preavviso.

É vero. Cazzo dici Pino?

Il lucano gira gli occhi e distrugge Enrico con un'occhiata come il robot di Ultimatum alla

Terra.

Non dico che la pagherà spontaneamente, insiste.

E allora che si fa, gli si va a rubare in casa?

No, Nena, lo si convince.

Quello se ne fotte, Pino, e quando va in vacanza se ne fotte pure in vacanza. Ci lascerà

cadere a tocchi come la sua Mativa. Ma vi rendete conto che a nessuno frega un cazzo di

noi che ce ne stiamo qui a presidiare 'stò cassonetto di ex-fabbrica? Quello vuole prenderci

per fame e se ne sta lì ad aspettare le nostre dimissioni. Guardati intorno, Pino, chi è

rimasto? Due disperati come me e te, un matto come Gigio e quel babbuino di Enrico. Qui

bisogna fare qualcosa di assurdo perché qualcuno ci consideri, bisogna andare sui giornali

come quelli che tirano le pietre dai viadotti o ammazzano i genitori per andare a ballare.

Pino aggrotta le poderose sopracciglia e tace. Si sente il rumore del rubinetto in cucina che

sgocciola.

Non chiude più bene spiega Gigio a eventuali interessati.

E dopo la luce ci taglieranno anche il gas e l'acqua profetizza Enrico.

Perlomeno il rubinetto smetterà di perdere, fa Nena sarcastica.

Ha ragione.

Tutti si girano verso Gigio per stabilire di chi sta parlando.

Ha ragione la Nena, dico, bisogna andare sui giornali e soprattutto in TV.

Magari da Maurilio Costante - Propone Enrico - A far gli sfigati e chieder l'interessamento

di un onorevole che poi esce da dietro le quinte.

Gigio immagina la scena di Enrico con la barba ben fatta e la cravatta da povero che

sobbalza mentre l'onorevole gli posa una mano sulla spalla e un pianoforte sullo sfondo che

arpeggia "I'm singing in the rain". Chissà perché, proprio Gene Kelly?

IO non ci vado a fare la troia in TV. Pino in camicia nera tira fuori il petto e mostra una

volontà incontrovertibile e invalicabile.

Cazzo sei un fossile Pino, pure fascista.

Nena lo dice con affetto, come lo si direbbe a un vecchio zio suonato.

Comunque io non ci vado, fate come vi pare.

Pino ghermisce un ombrello ed esce, forse va a cantare nella pioggia.

Nemmeno gli avessi proposto di mostrare il culo davanti a un asilo.

Magari tu lo faresti anche, eh Enrico?

Se servisse lo farei, Nena.

Il fatto è... Comincia Gigio.

...

No, dicevo, il fatto è che non serve a niente andare da Maurilio Costante. Al massimo ci

ricaviamo un assegnuzzo che non ci paghiamo nemmeno la luce e una fornitura di

prosciutto cotto per un anno da mangiare al buio. E poi magari nemmeno ci considerano.

Se la Nena tenta il suicidio incinta perché nessuno pubblica le sue poesie magari la

chiamano, ma gli operai di una fabbrica occupata non fanno mica audience. Ne avete già

visti voi in TV?

Beh, al gazzettino regionale siamo già passati. Ricorda flebile Enrico.

Sì, una volta - dice Nena - e ha parlato Paratore, il capofficina. "Non è proprio che si sia

occupata la fabbrica, siamo qui per capire, per vedere se trovassimo una soluzione con il

padrone." Cazzo, me lo ricordo.

Beh, e allora che facciamo? Andiamo a buttare giù le pietre sull'autostrada?

Eppiantala Enrico, io dicevo tanto per dire.

O si va a mostrare il culo davanti alle Orsoline?

Nena fa le spallucce, bofonchia un "'azzo, ma v'accagare" e se ne va. Rimangono Gigio che

non sente più il rubinetto perdere e si chiede se l'acqua non l'abbiano già chiusa, più Enrico

di umore rissoso.

Tu cosa dici?

Bisogna pensarci su. Temporeggia Gigio.

Io intanto a Maurilio Costante gli scrivo.

Va bene.

Ci vado anche da solo se mi invitano.

Bravo.

E dovrete ringraziarmi.

Sicuramente.

Allora vado.

Vai.

Per dirla chiaramente la sensazione vera, profonda, è quella di essere degli assediati.

Assediati nella città di fine millennio, a scrutare sulla linea dell'orizzonte l'arrivo dei

nemici, ovviamente numerosissimi.

Ma la cosa davvero seccante è la paura che non ci siano nemici in arrivo, né pochi né tanti.

E' stata la sindrome da assediati a tenerli uniti all'inizio e, una volta evaporata quella è

evaporata anche l'Unità. Sono emersi i dubbi e le incertezze. Qualcuno si è fatto un

discorso serio, positivo, da Uomo adulto e con responsabilità e non si è fatto più vedere. "E

via, non si può mica sperare davvero di spuntarla" si è detto l'Uomo adulto, positivo e con

famiglia. "guardiamoci intorno, invece, per vedere se salta fuori un'altra occasione".

Curioso che quando si rivolgono a se stessi discorsi seri positivi eccetera salti fuori il "noi".

Gigio ricorda ancora una domenica pomeriggio piovosa passata a visitare una per una le

case dei disertori, tentando di convincerli a rientrare. Una domenica pomeriggio passata in

parte sulla vespa rugginosa di Pino, con Pino medesimo alla guida che riusciva a fumare

anche mentre guidava sotto la pioggia.

Come fai?

Cosa?

Come fai a fumare in vespa?

Cazzo c'è?

Niente, lascia perdere.

Cosa?

NIENTE, LASCIA PERDERE!

NON CAPISCO UNA SEGA!

Impossibile parlarsi in vespa, lo sanno tutti ma Gigio se ne dimentica ogni duecento metri.

A metà del giro la cerniera del K-way si scassa, una cerniera troppo lunga per essere stata

progettata da qualcuno sano di mente. Piove secco quando la cosa avviene.

A che punto siamo?

C'è ancora Billi.

Dove sta?

Pino indica un'altura in fondo alla via sterrata dove sono impantanati.

Là dietro, su, da qualche parte. Via S.Gerolamo 11.

Gigio considera da sotto la visiera fradicia del berretto "Acqua minerale Frizz" il sistema di

basse colline avvolte dall'umidità dove si nasconde il loro obiettivo.

Che ha detto Billi al telefono?

Ragazzi, ha detto, io avrei un'occasione.

Gigio indica il Vajont che li aspetta.

Sarà il caso?

Proviamoci, almeno.

Pino non deflette, pioggia o non pioggia. Uomo tuttudunpezzo.

Si parte fendendo acqua e fango. A Gigio viene in mente "O Gorizia" che intona sottovoce

appoggiato al giubbotto di Pino.

"Sotto l'acqua che cadeva a rovesci / grandinavano le palle nemiche"

Pino sgasa e accosta sotto un platano, tra scatoloni di cartone prossimi alla metamorfosi

finale in fango chiaro.

Ci siamo persi., annuncia freddissimo.

Ah. E che si fa?

Si cerca qualcuno e tu chiedi.

Proviamo.

Ma la domenica pomeriggio quando piove, sulle colline non circola un cane e presentarsi

suonando a un campanello - scusi ci siamo persi - fa subito banda dell'Arancia Meccanica.

E così si vaga fermandosi solo per rimirare cartelli storti con indicazioni inutili (comunità

terapeutica Il Focolare, QUI pere nostrane, GM-VATEK oleodinamica). Gigio intanto

medita che il problema di bagnarsi è tale solo all'inizio. Una volta bagnati di brutto cessa

anche la resistenza all'umidità e si può viaggiare protetti da uno straterello di acqua tiepida

a contatto con il corpo. Adesso basta, prendiamo sempre le strade che portano verso il

basso. Da qualche parte sbucheremo.

Pino tatticamente abborda tutte le discese che incontra, infilando vialetti privati, ingressi

di piccole fabbriche e attraversando paesaggi suburbani che nulla hanno di familiare.

L'imbrunire li trova davanti al cancello di Villa Patrizia, a pioggia ormai cessata.

Tu non sei quello che non si perde mai?

Chiede Pino, sottilmente rissoso.

Già. Ma non ho guardato la strada, mi fidavo di te.

Sollevano gli occhi contemporaneamente. A Gigio viene da ridere, Pino estrae dalla tasca

del giubbotto una sigaretta piatta e umidiccia. Contro ogni pronostico riesce ad accenderla.

Proviamo ad andare di là.

Cos'hanno detto?

Chiede Enrico, innocente e ben caldo, con una tazza di caffè in mano.

Chi?

Gli altri.

Praticamente tutti no grazie. Billi non lo so, non siamo riusciti a trovare la sua casa.

Billi ha telefonato.

E che ha detto?

Mi spiace ragazzi, ma ho trovato un altro lavoro.

Gigio e Pino si guardano inespressivi. Pino si stringe nelle spalle e mormora qualcosa che

finisce con "...muorte"

Desideri erotici di pornocasalinghe

Una settimana e gli Enel-Men vengono a tagliare i fili. Mettono anche dei sigilli di

piombo dentro e fuori il contatore incuranti degli sguardi feroci di Enrico.

Hanno un caposquadra e sono in cinque, piuttosto grossi, con giubbotti e guantoni.

Sembrano quasi delusi di non dover fare a botte e se ne vanno di corsa, mogi e un po'

straniti, come carabinieri venuti a sfrattare due coniugi con numerosa prole e che dopo

l'operazione si sentono vermi, sia pure in divisa.

Gigio aspetta che si siano allontanati per arrivare fino al traliccio vicino e collegarsi con un

cavo che poi fa passare in un arnese di plastica nera trovato negli uffici.

Ci lavora una mezz'ora e poi gira la manopola.

I neon della sala mensa si accendono.

Sono anche più luminosi così dice Enrico.

Nena per una volta gli dà ragione, mentre Pino sorride.

Ma il problema rimane.

Essere dimenticati, è il problema, e anche con le luci accese resta tale e quale. Senza

contare che tra un po' arriverà anche l'azienda del gas e a quel punto non resterà che

scaldarsi con la legna e costruire uno spiedo in mensa.

Gigio non ha mai usato un barbecue né uno spiedo e sa cucinare solo sul gas. Oddio

qualcosa sarebbe capace di combinare ma per i primi, come si fa? Ci vorrebbe un

treppiede, qualcosa che vada bene per appenderci un pentolone.

Rimarrebbe la possibilità di grattare il microonde di Luisa e Armando ma Gigio

preferirebbe evitare, e poi non è troppo sicuro del microonde: la roba per cuocere ci può

mettere due minuti o un'ora e vattelapesca come si fa a capirlo?

No, il fatto è che devono far parlare di loro, fare in modo che il padrone cacci fuori i soldi e

faccia ripartire la Mativa.

Gigio ci pensa spesso e di idee ne ha avute già fin troppe, ma c'è sempre qualcosa che non

lo convince.

Ha già pensato di fare della fabbrica una discoteca, di invitarvi a dormire gratis gli

immigrati, di cambiare i cartelli stradali di mezza città perché migliaia di auto finiscano per

imbottigliarsi davanti alla Mativa. Ha pensato di sparare fuochi artificiali a punto

interrogativo, dipingere la fabbrica con vernici fluorescenti, incatenarsi davanti al duomo

vestito come Ridolini, comporre sul tetto una scritta o un disegno osceno visibili solo da un

aereo o da un elicottero, sdraiarsi sulla statale o sui binari della ferrovia (Si suicidano per

il posto di lavoro, scrivono i giornali: il lettore gira subito pagina), emettere segnali di

fumo, rapire cani ricchi e chiedere riscatti strampalati come una tonnellata di meringhe o

diecimila abbonamenti a "Filatelia Oggi" tutti a nome di Enrico.

Ma tutte le idee e le invenzioni che il suo cervello sbalestrato produce - in genere al

risveglio - hanno senza eccezione qualche grosso difetto e rischiano di dare loro molti più

problemi di quanti non ne risolvano.

Non è un problema di idee, a pensarci bene, ma di soldi. Già perché sui giornali ci

vanno a finire giusto quelli che ne hanno troppi o troppo pochi. Questi ultimi in genere

nelle pagine interne: Tragedia della follia - Spara alla moglie e sgozza i tre figli, oppure

Sgozza la moglie e spara ai tre figli.

Lì alla Mativa sono messi male, certo, ma non ancora così tanto da finire in cronaca nera

per fatti di sangue. Con la giacca in testa passando davanti alle telecamere o in piccolo sul

giornale, con una foto che tra tutte quelle scattate in una vita è la peggiore.

"Con una faccia così..." dice la gente e legge l'articolo con la testa già messa di sbieco,

pronta alla scossetta e al sospirone che accompagna la fine della lettura e la pagina

seguente. Faccia da matto o da poco di buono, una faccia che a incontrarla sul tram vuoto

dell'ultima corsa chiunque si andrebbe a piazzare di fianco al conduttore, a guardare nel

vetro scuro dei finestrini se il tipo si avvicina oppure se continua a starsene seduto a

meditare pessime azioni.

Non capita spesso, però. In genere solo ubriachi che si fanno i loro pensieri senza uscita e i

loro discorsi aggressivi e generici. I matti con l'occhio iniettato di sangue evidentemente

girano solo in macchina o a piedi.

Ma potrebbe essere una follia contagiosa, che se ne sta tranquilla, endemica come la

malaria, annidata insieme agli scarafaggi negli angoli umidi dei palazzi di edilizia popolare,

di quelli che si considerano dignitosi solo non abitandoci. Uscire e rientrare da quelle

periferie che nessuno guarda, neppure quando ci passa vicino in auto, deve dare l'idea di

essere condannati a vita, in permesso giusto per lavorare. Sempre che il lavoro ci sia.

E si litiga per l'ingressino dove qualcuno ha rotto una bottiglia di birra, per la macchina

parcheggiata troppo vicina al portoncino, per la crepa nel muro che di sicuro l'ha fatta il

ragazzo del primo piano che suona la batteria o quel tipo pelato col giubbotto di pelle che

ha messo un laboratorio nel seminterrato.

La vita si consuma insapore e grumosa come certe polente fredde, tra singhiozzoni e

scariche di adrenalina, nell'invidia della vita TV e nell'attesa che finiscano le rate della

macchina. Quando sono finite è finita anche la macchina e bisogna comprarne un'altra.

Gigio con un cucchiaio di legno in mano, illuminato dalla luce color polvere della

giornata immobilizza i suoi pensieri, sicuro di riprenderli dallo stesso punto in qualsiasi

momento, come fare una piega alla pagina di un libro.

Basilio?

L'unico a chiamarlo con il suo vero nome e solo quando le cose vanno maluccio è Armando.

Vieni, vieni.

Ti disturbo?

Figurati.

Armando non si è mai preoccupato di disturbarlo. Quando dormivano ancora insieme

entrava in camera, accendeva la luce, canticchiava e lasciare cadere le scarpe per terra con

un tonfo esagerato, come si fosse arrampicato sul lampadario per togliersele.

Poi andava in bagno, tirava l'acqua almeno dieci volte, si lavava i denti e gargarizzava con

una nota in crescendo, rientrava, girava ancora un po' per la stanza sempre con la luce

accesa e solo dopo colpi di tosse, sportelli sbattuti e oggetti fatti cadere si metteva a letto.

Figurati.

Se Gigio apriva gli occhi Armando gli raccontava il colore del pelo pubico della sua ultima

conquista o - se la serata era andata storta - gli mormorava un 'azzovuoi pieno di astio e di

confuse velleità di rissa.

Figurati.

Eppure gli vuole bene, Gigio, al suo stupido fratello. A lui, alle sue camice azzurre e ai suoi

vestiti da settecento e passa carte comprati con lo sconto dai negozianti amici suoi. Adesso

che vende Vomitor cosa può mai ottenere dai gestori di tabaccherie e cartolerie? Una bic di

nome Armando, forse, o un cuoricino rosso gonfiabile di nome Luisa.

Va male Basilio. Luisa mi molla.

E perché?

Cazzo ne so? Ci sarà un altro.

Ma lei cosa dice?

Cosa dice e cosa dice, cosa vuoi che dica eh? Non dice niente. Stamattina mi ha chiesto

quanto tempo stavo via e poi è uscita per portare i bambini all'asilo. Una settimana, le ho

detto.

E allora?

Non è vero. Sai perché me l'ha chiesto?

Dimmi.

Per portarsi in casa l'amante. Non è evidente?

Oddio...

Cazzo, Gigio, ma sei proprio un fesso. Non lo capisci?

Gigio, restituito ai suoi panni gigeschi, si sente meglio. Il fratello maggiore è lui,

Berardelliarmando, e il suo modo di chiedere aiuto è quello: prenderlo per scemo. Gigio ci

è abituato e non si offende. Figurati.

Ma te lo chiede sempre, cosa c'è di strano?

É come mi ha guardato. Tu non l'hai vista ma io la conosco, cazzo se la conosco. Si sentiva

in colpa, si vedeva.

Gigio dubita. Luisa non gli è mai parsa una da sentirsi in colpa. Nemmeno a disagio. Quasi

la ammira: che non sia una banderuola, una che dubita, che ci ripensa, che fa casino. No,

Luisa è il tipo da cambiare la serratura e il nome sulla targhetta alla porta se vuole

cambiare marito. No, è Berardelliarmando che si fa delle illusioni. La ama, il powerilluso, e

si inventa che ci sia da qualche parte una Luisa passionale e un po' puttana che fa a

qualcun altro le smorfiette da calendario per gommisti.

Beh, non dici niente?

É che mi sembra strano, Armando. Non ce la vedo la Luisa.

É una gatta morta, un'acquacheta, proprio come diceva la mamma.

Berardelliarmando evidentemente si è affezionato all'idea delle corna e non demorde:

E poi con me è fredda, gelida.

Magari è frigida e basta.

Lo guarda malissimo. Armando vive nella convinzione che non esistono femmine frigide

ma solo maschi impotenti. Conseguentemente.

Riattacca:

Non è vero. Ma sarà l'età, le strane idee che le mettono in testa certi programmi TV. Sai

com'è, all'inizio il marito va benissimo, poi si scopre lo Yoga, il sesso perverso, la chiavata

cinese, l'astrologia della passera e sei fregato. All'improvviso ti guardano come fossi un

gorilla e a letto si girano dall'altra parte e dormono.

Ma sarà la stanchezza, i bambini. A tirarne su due, con te che non ci sei mai...

IO sono un padre come si deve, faccio la mia parte cosa credi?...

Sempre così, a dirgli le cose come stanno il Maggiore si offende.

... e che cazzo vuoi saperne tu, Gigio, che non hai figli né moglie?

Verrebbe da rispondergli: e che cazzo sei venuto a romperli a me, allora? Ma Gigio non si

arrabbia.

E cosa fai stasera, torni a casa?

Eh?

Dico, stasera che fai, torni a casa, tranquillo come niente fosse?

Berardelliarmando rimane a bocca aperta come un pescerosso da ottanta chilogrammi. Il

fratellino sbiellato come il solito ha giocato in contropiede.

Pensavo di spiarla, di seguirla...

Lo dice a mezza voce e tiene l'occhio basso, da cane pescato con le piume in bocca.

E dormi in pensione, mentre fai l'investigatore?

Eh, ma la ditta non mi rimborsa mica...

Gigio ha capito e si sente meglio.

Non è mica una pensione questa. E poi ci potrebbero fare grane se teniamo qui qualcuno

che non è della fabbrica. La polizia ogni tanto viene pure a dare un'occhiata...

Berardelliarmando è uno che se la fa sotto anche davanti a un vigile. L'idea della polizia lo

fa inorridire. Sbianca e si allenta la cravatta.

Non c'avevo pensato.

A vedere il Maggiore tanto panicato Gigio ha l'impressione di essere un rivoluzionario

inizio secolo, puro, duro e pericoloso. Ma non è quella l'emozione prevalente. Il fatto è che

ha detto "non c'avevo pensato", segno evidente di premeditazione, calcolo, congiura.

Armando, da quant'è che te la mediti questa?

Non dice "ma cosa vai a pensare" oppure "Cristo, Gigio, giuro che...". No, tiene basso il

testone ben pettinato e le mani incrociate in grembo, come un bambino che non vuole

chiedere scusa.

Tu mi devi aiutare Basilio, siamo fratelli no?

Già, siamo fratelli.

I tuoi compagni cosa diranno?

Gigio si stringe nelle spalle.

Non faranno problemi.

Allora posso portar dentro la valigia?

Sistema Armando nella palazzina impiegati, in una sala d'aspetto con divano

fintapelle verde e tavolino fornito di riviste significative e internazionali come

Illustratofiat e Il Mondo del Camion.

Gli porta una scopa e una paletta e gli fa vedere dov'è il bagno.

Il Maggiore annuisce mite come un agnellino.

Come Archie Goowin in un giallo di Nero Wolfe raccomanda di non affacciarsi alla finestra,

di uscire e rientrare da dietro o saltando il muretto, di non portarsi lì nessuno e gli

comunica l'orario dei pasti.

Va benissimo.

Centomila.

Eh?

Centomila, per il mantenimento, sempre che mangi qui.

Ma non è un po' caro?

Gigio sbuffa e aggrotta la fronte. Armando estrae il portafoglio e cava due fogli da

cinquanta guardandoli come figli che vanno in guerra.

É una fabbrica occupata questa, siamo senza lavoro e nessuno ci regala nulla.

Hai ragione.

Berardelliarmando apre la valigia, tira fuori tre pigiami di lusso, un manuale intitolato

"Venditori di successo in cinquanta minuti", tre Topolini, cinque camice, quattro cravatte,

fazzoletti, abito di ricambio. E poi un giubbotto consumato, un camicia boscaiola, un

maglione color penicillina, jeans, una barba finta e una lucetta a pinza.

Qui non c'è la luce. L'Enel ce l'ha tagliata. Se vuoi leggere devi venire di là.

Nemmeno questo aveva previsto, ce l'ha scritto in faccia. Chissà cosa si è pensato il

Maggiore col suo cervello in pantofole e le sue abitudini in poltrona. Ma sicuramente non

gli piace l'idea di dormire al buio, tutto solo in una palazzina deserta e piena di spifferi.

Non potrei dormire di là con voi?

Se ti accontenti.

Figurati, io mi adatto a tutto.

Si rifa' la valigia e giù a ritroso per la scala di metallo con mancorrente di ottone già più

opaco, illuminata di chiaro dai grandi finestroni di vetro smerigliato.

Mentre scende e sente il fruscio dei suoi passi doppiati da quelli del fratello, Gigio

immagina di essere in un film, di quelli dove l'umanità è sparita tutta o quasi e rimangono

case vuote, vie deserte e un terribile silenzio dappertutto. É quasi contento di avere alle

spalle il suo stupido consanguineo che marcia reggendo il valigione contenente una

patetica barba finta.

Ma già loro lì, inchiodati dentro una fabbrica ferma che si riempie di ragnatele, con le

Pippette che si coprono di polvere non sono un piccolo preavviso di Apocalisse? No è il

padrone che è un porco e un bastardo. Si spiega Gigio da sé. Vero. Almeno la luce doveva

pagarla.

L'Altrove in periferia

Dal finestrone della mensa si vedono i lampioni nuovi della via. Incurvati a formare

un'L rovesciata ospitano, dopo il gomito, una vasta popolazione di piccioni. La mattina

presto se ne stanno infreddoliti, accatastati in venti e più in un metro e mezzo di tondino di

metallo, la testa rincantucciata tra le piume gonfiate come tanti signori in cappotto dal

collo di pelo che hanno perso le chiavi di casa.

Gigio fa segno al fratello di girare al largo.

Ogni tanto sganciano, avverte.

Armando sul momento non capisce, poi rovescia la testa e si fa in là disgustato.

Ma non è in tiro: è solo l'abitudine. Stamattina niente giro dai carto-libro-bigiotto-tabaccai

del centro e quindi il Maggiore indossa i jeans, il giubbotto di pelle consumato con collo di

finto agnello, il maglione, la camiciona scozzese. E la barba finta.

Non stai mica così male. Forse la barba non era nemmeno necessaria.

Armando fumiga le sue Atlantic Menta e non risponde.

Probabilmente si sente un po' piffero così combinato, soprattutto dopo una notte passata

con le pippette. Ogni volta aprire gli occhi e vederle tutte in fila, sorridenti al fanale della

via e lo sguardo vuoto.

Non ha chiesto di cambiare un'altra volta stanza, ma a colazione ha detto in tutto sette

lettere - ngiorno - senza nemmeno protestare che il caffè non era abbastanza caldo, come

fa sempre a casa.

Non si è rasato in segno di amaro cinismo e adesso la barba vera gli prude sotto la barba

finta e sembra uno coi pidocchi.

Piantala, Armando, fai senso.

Mi dà fastidio.

Questo nei film non lo dicono, pensa Gigio. Ma la barba finta è una cosa che va d'accordo

con gli scompartimenti dei treni foderati di velluto, le carrozze a cavallo, le dame col

cappellino, i maggiordomi.

In periferia, a passare sotto i piccioni, tra i balconi fioriti di cellofan per i gerani, il respiro

di vapore dei pochi passanti e i gruppi di ragazzini con lo zainone Invicta, la barba finta

diventa un'impossibilità, come un netturbino in frac o un postino con l'armatura.

Dov'è che devi andare Gigio?

Da nessuna parte in particolare. Prendo l'autobus e giro. Per settanta minuti.

Armando vorrebbe commentare ma resta zitto. Anche lui ha deciso di usare il mezzo

pubblico lasciando la Croma parcheggiata davanti alla fabbrica. Astutamente non vuole che

la moglie riconosca la macchina per via del volante ricoperto in vera pelle, le foderine

fiorate e i cuscini a forma di cammellino sulla cappelliera.

Ma Berardelliarmando detesta il bus e chi ci sale. Senza macchina si sente svirilizzato e

cammina guardingo come si trovasse in territorio nemico, senz'armi né altra difesa che la

propria leggendaria prontezza di riflessi.

Viaggia persino un po' curvo come un gattone a zonzo in una via sconosciuta.

Non farti vedere dalle bambine, quelle ti riconoscono.

Figurati.

Vedrai.

Ho pensato a tutto: ho persino messo le zeppe nelle scarpe per cambiar modo di

camminare. No è impossibile: sono letteralmente un'altra persona.

Gigio si ferma, si lascia superare e lo guarda.

Che ne dici?

Sembri Armando col mal di piedi. Fai occhio alle bambine.

Starò attento. Quale prendiamo?

Il dodici. Tu scendi alla terza dopo il cavalcavia. Io proseguo.

Fa cenno di sì con la testa, le mani affondate nelle tasche. Anche quella è un'avventura in

fondo.

Il dodici arriva zeppo e il Maggiore entra come un proiettile spostando zaini e trascinando

borsette. Arriva vicino all'uscita mentre Gigio si scusa per lui. Nell'autobus c'è una musica

di sax, un assolo acido ritmato da una batteria eccessiva. La gente ritira la testa nelle spalle

e fa le smorfie quando il DJ già troppo caffeinato abbassa la musica per commentare una

notizia pescata su chissà quale giornale.

É un'iniziativa della nuova giunta. Al sax segue una chitarra distorta e aggressiva come una

maledizione. A Gigio non dispiace ma dubita siano in molti ad apprezzare. Eppure è

un'idea abbastanza carina: sarebbe bello veder scendere dall'autobus vecchietti flippati e

spavaldi che rovesciano le auto e minacciano i motorini.

Ma sembra siano solo gli immigrati ad apprezzare. Ce n'è un paio appoggiati allo snodo che

muovono la testa ritmicamente come fossero in discoteca. I ragazzini se ne fottono e

continuano a chiacchierare tra loro ma a voce molto più alta.

Sono tutti un filino più aggressivi. Forse una musica più piana, un Faustopapetti che sufola

evergreen andrebbe meglio.

Scendo.

Ciao, ci si vede alle sette.

Un cenno a denti stretti e Armando si strattona giù dai gradini alti dell'autobus.

Gigio si sistema subito alle spalle dell'autista e guarda le auto che si incanalano nervose a

fianco dell'autobus. La mano sul cambio e una porzione delle gambe del guidatore formano

tutto il suo campo visivo.

Ciascuno ha il suo modo di stringerla - la leva del cambio - c'è chi la impugna con una sorta

di furore guerresco, chi la lusinga con movimenti languidi e scatti improvvisi, chi

tamburella sul pomo ai semafori, chi la ignora e rotola a fianco dell'autobus senza

cambiare mai, chi vi si aggrappa come un naufrago e chi l'aggredisce con la mano guantata.

Ma ciò che affascina di più Gigio sono le mani femminili: fini, rapide. Mani che lasciano

intuire volti sottili, occhi profondi e sorrisi instabili, subito dimenticati nella

concentrazione della guida. Non è estate e quindi le automobiliste non sollevano le gonne

molto in alto sulle gambe nude per trovare refrigerio e tutto quello che Gigio riesce a

vedere sono ginocchia velate dalle calze, seminascoste dall'orlo delle gonne kilt. Regalare

un volto a quelle gambe e mani femminili è un passatempo che lo assorbe completamente,

tanto da non sentire più gli spintoni e la musica troppo sparata. Se fosse un pittore

cercherebbe di fissare in uno schizzo il movimento insieme intimo e scattante che unisce

gamba - mano / frizione - cambio / acceleratore. La distanza e la possibilità di essere

pubblico invisibile rendono più fluida e inavvertita la successione di gesti, ne fanno una

geometria essenziale, inconscia, automaticamente perfetta.

Gigio si innervosisce quando riconosce guidatori svagati o dilettanti, quando avverte

legnosità e rigidezza. Vorrebbe scendere e insegnare il ritmo giusto, il tempo silenzioso del

movimento. Sono punti nell'aria, linee tratteggiate come quelle che uniscono le orme

disegnate sul pavimento per i ballerini. Come le strade e i quartieri su una carta geografica:

un'armonia inafferrabile che Gigio riconosce senza sapere perché: un Ikebana fatto di

ginocchia, mani, strade, vie, segni rossi / gialli, portoni e nuvole.

Ogni tanto l'autobus deve frenare all'improvviso ma procede più spedito man mano che si

inoltra in periferia. Le case diradano e nessuno sorpassa più. Gigio si volta: all'interno

dell'autobus sono rimaste sei persone, sette a calcolare un bimbo molto piccolo con i

calzerotti fucsia. Sul fondo staziona una pensionata con tre sporte colme di verdure: i

sedani chiari e le coste dal verde profondo che fanno capolino dall'orlo azzurro delle borse

come vestigia o arti di incredibili mostri vegetali.

Lì in periferia, uguale e simmetrica a quella dove agonizza la Mativa Giocattoli, si vede di

nuovo l'orizzonte, reso malcerto dal grigio umido del cielo, dalle nebbie in Val Padana e dai

colli in crescendo che preannunciano le montagne.

Fermata.

Scendono in due. La prossima è il capolinea e sono rimasti in cinque, lui compreso. Curva:

l'autista l'affronta come a un rally e i presenti lasciano affiorare un complice sorriso

bambino, come su una giostra.

Capolinea.

Gigio è l'ultimo a scendere e accompagna con lo sguardo gli altri passeggeri che si

allontanano. Non è successo nulla di straordinario o di inatteso e loro cinque - bimbo con

calzerotti fucsia compreso - irripetibile combinazione di esseri umani, non sono stati rapiti

dagli Ufo né sono finiti inesplicabilmente in un altro universo.

Si guarda intorno stordito. Per chi abita lì, quel paesaggio - le siepi basse, l'edicola, il dodici

fermo che ronfa col motore lento - sono familiari come la palma della mano. E prova una

fitta di smarrimento sapendo che per lui non sarà mai così, perché avrebbe dovuto nascere

non-Gigio per riconoscere quelli o altri luoghi come suoi.

E all'improvviso il mondo gli sembra davvero troppo grande per viverlo tutto.

Ma non ti assomiglia mica tanto.

É un po' più largo di spalle.

Nena scuote la testa.

Di faccia proprio no. Ha il naso a patata e molte più rughe di te.

Ha solo tre anni più di me. Le rughe le avrò anch'io. E poi Armando ha preso più da papà,

io dalla mamma.

É solo quando camminate vicini, visti di spalle, che si capisce che siete fratelli.

Gigio pensa al rialzo nelle scarpe di Berardelliarmando e sospira.

Può darsi.

Ma cosa ci fa qui?

É una storia delicata.

Guai con la famiglia?

Eh, sì.

La Nena tace: non vuol dare l'impressione di essere curiosa.

É che ha paura di essere cornificato.

Tutto lì? Cazzo, cornifichi anche lui e la famiglia sarà salva.

Gigio ride.

No, parlo sul serio.

É che lui la ama davvero.

Allora è grave. Non l'avrei detto però a vederlo. Cioè, scusami, non volevo dire...

Armando fa il duro ma ha un cuore di burro. É una vita che lo fa: gli altri lo sanno e

lasciano correre. I miei l'hanno sempre considerato parecchio e lui non si capacita di non

capire un tubo della moglie.

Dev'essere una un po' stronza quella lì. Giusto? Cioè, non proprio stronza ma una un po'

così... Oh, cazzo, Gigio, non ne azzecco una. Che cazzo ne so in fondo?

La Nena è venuta nervosa e spara i cazzo come fossero cioè. Gigio le prende la mano e

annuisce.

É un po' strana, ecco. Chiusa, un po' vecchia di testa, ma è anche colpa di Armando se è

venuta così.

Ci sono donne che nascono cattive, Gigio, e cattive muoiono.

Gli sembra impossibile ma non lo dice. Sarebbe come dire che lei, Nena, è nata per soffrire

e farsi delle storie stupide con uomini stupidi. Non può essere tanto facile e anche Nena lo

sa, ma preferisce fare quella tosta, la disincantata a forza, come Armando.

Si alza per accendere la radio. Ci sono tizio e tizia che discutono di astrologia e sesso. Ci

fosse il Maggiore butterebbe trasmittenti e trasmissione dalla finestra.

Gli piace, Nena, non c'è niente da fare. Non una cosa da far capriole o guidare nella notte a

fari spenti. No, piuttosto da portarle la colazione a letto o guardarla dormire senza

disturbarla.

Si volta e la bacia. Ha labbra morbide e asciutte e la bocca che sa di mentina. E mani forti,

sottili ma robuste. Gigio sorride dentro di sé a sentirle sulla schiena, come fossero le mani

di un altro uomo mentre - sorpresa! - appartengono a una donna.

La pelle di Nena sotto la maglietta è tiepida e morbida: viene da chiudere gli occhi solo per

sentirla meglio.

Le pippette come sempre non guardano da nessuna parte di preciso, come veri bambini

che, quando i protagonisti si baciano, cominciano a distrarsi e a sbadigliare.

Fedeli alla Linea.

Tardo pomeriggio, ora mesta ma gradevole, non così tardi per considerare la

giornata del tutto sprecata, ma abbastanza per riposarsi e compiacersi di se stessi ad

averne imbroccata una.

Gigio si gode il riflesso distratto del sole invernale, dopo che il vento ha spazzato ben bene

nubi basse, smog, polvere gonfia di umidità, smoccolii e fumi della città sempre sporca.

Enrico fa parole incrociate, un fascicolone di propria ideazione e rudimentale legatura,

formato esclusivamente dalle pagine della Settimana Enigmistica dedicate ai solutori più

che abili. É immobile da almeno un'ora e non è di quei cruciverbisti che stressano il

prossimo con domande tipo l'Ammiraglio che vinse a Lissa o chi musicò il Faust. Preferisce

sbagliare da solo e ricalcare la G con una R e poi con una M fino a bucare la carta. Nei casi

disperati ricorre a un foglio a quadretti nel quale pazientemente riporta il reticolo originale

e ricomincia da capo.

Pino è in cucina a fare il bucato, vista la mancanza di autoclavi, macchine lavatrici e di

qualunque altro attrezzo o apparecchiatura atti all'uopo. É un lavandaio cocciuto e ostinato

e un eccellente stiratore ma quando riconsegna la camicia o i pantaloni non manca mai di

fare commenti su sughi, ragù e macchie di frutta, tanto che Gigio e Enrico preferiscono

lavarsi da sé di nascosto i capi più sporchi per non esporsi alle materne reprimende di

Pino.

Nena è uscita per motivi suoi e il Maggiore non è ancora ricomparso. Il momento è

malinconico e silenzioso e Gigio rievoca con qualche brivido la pelle della schiena di Nena,

tanto liscia e lunga che la mano scivola da sola fino all'inevitabile. É una che tace, Nena, al

massimo sospira leggermente nell'orecchio e ti manda su di giri mica poco.

Il marito chissà com'era? Lei ne parla niente o quasi e il modo più gentile per

riferirsi a lui è: quelfetente dunrottinculo.

Ma è pure frocio? Ha chiesto l'ingenuo Enrico un giorno.

Magari!

Drogato sì, questo lo sanno tutti, ricoverato o trattenuto presso una comunità dove si pesta

e si prega.

Ruffiano com'è si sarà piazzato bene come spia e gli passano la roba gratis, sostiene

Nena.

E divorziare?

Ma la domanda che fa ogni tanto Pino sembra troppo intelligente o troppo stupida e

Nena non risponde. Si stringe nelle spalle, arriccia labbra, naso e fronte e se ne va.

Gigio vorrebbe chiederle come diavolo ha fatto a sposarlo ma non lo fa. Se non altro

per sentito dire sa che ci sono donne che si direbbero di primo acchito intelligenti ma che

prendono scivoloni, sbandate e scuffie per completi imbecilli e infilano storie balorde come

perline, donne con cui puoi fare discorsi interessantissimi, passare deliziose serate, magari

amoreggiare in allegria ma che al richiamo dell'Idiozia non sanno resistere.

E come vittime sacrificali in adorazione si prosternano di fronte allo sciamano del biturbo,

al languido innamorato di se stesso, allo sfigato cronico commosso e lamentoso, a quello

che si sciupa e vuole 'na vita esaggerata.

Gigio ne ha conosciuto un certo numero, abbastanza da abbozzare qualche teoria, ma non

a sufficienza da capire davvero. Le donne li considerano poco - almeno all'inizio - fanno

sfoggio di disprezzo e sufficienza eppure con la coda dell'occhio non li perdono mai di

vista, sentono la sgommata e l'ultima battuta cretina urlata nel posteggio e mentre

scrollano la testa si innamorano un altro po'.

Sarà perché gli altri uomini sembrano così capaci di cavarsela da soli che i fessacchiotti

spopolano? Già ma i fessacchiotti se ne fottono di avere moglie, gli basta una vicemamma

che apra le gambe a comando o, meglio, diverse vicemamme eccetera.

Se lo immagina così il marito di Nena ed è sicuro che lei sarà savia solo finché il pistola non

si farà di nuovo vivo. Allora chissà.

Davanti al cancello stazionano due tizi. Non hanno divisa né altri emblemi più o

meno ufficiali. Gigio che attende da un giorno all'altro l'azienda Municipale del Gas o la

vendetta dell'ENEL li scruta con la massima attenzione ma senza risultato. I due se ne

stanno buoni buoni, ogni tanto scambiano una parola ma non hanno borse né altro.

Esce per aprire il cancello e sciogliere il mistero.

Buongiorno! Dicono in coro.

Buonasera. Gigio li corregge tanto per mantenere le distanze.

Sembrano testimoni di Geova e sfoggiano sorrisi da cuorcontenti.

Lei lavora qui?

Lavoravo. Al momento ci abito.

La fabbrica è occupata, vero?

Gigio indica lo striscione.

Parrebbe.

Il più giovane ha una barbetta da ardito, una giacca mimetica di tela e sotto una

camiciona scozzese stile new-look Armandesco. Il più anziano porta occhiali, un cappotto

grigio regular che addosso a lui dà sul cubico e una cravatta rossa con un nodo grosso come

un moscone.

Poco amante della cravatta in generale Gigio detesta di cuore - senza sapere perché - quelle

col nodo piccino. Gli danno l'idea che il soggetto abbia tentato di strangolarsi ripensandoci

solo all'ultimo secondo, scegliendo poi di andare in giro per il mondo a pubblicizzare il

fallimento dell'insano gesto.

Noi siamo del collettivo operaio di zona. Immagino che conosca già questo giornale.

Il cubo estrae dall'interno del cappotto un groppo di fogli listati in rosso. Gigio svolge

l'involto e legge:

"RISPONDERE ALLE MANOVRE DELL'INTERNAZIONALE SOCIALFASCISTA!!!"

e sotto appena più piccolo:

"Mobilitare le masse per combattere le falsità di stampo revisionista / i collettivi operai

rinnovano la loro fedeltà al pensiero del compagno Lenin / Organizzare e difendere

l'iniziativa operaia."

I due lo guardano. Fossero cani pastori scodinzolerebbero.

Bene, dice Gigio. Vi ringrazio. Piega il giornale e lo infila nella tasca posteriore del

jeans. Poi lo leggo, spiega.

I due sollevano le sopracciglia. Chiaramente non si aspettavano un gesto tanto improvviso.

Noi siamo qui per portare la nostra solidarietà. Dice il giovane in mimetica

Grazie.

Quanti siete?

Quattro, poi c'è mio fratello.

Ma in tutto.

In tutta la fabbrica? Quarantaquattro, come i gatti.

Eh?

I gatti, quella della canzone... Non importa.

Ma ci conoscete vero? Noi siamo di Scelta Comunista.

Già. Cosa potete fare per noi?

Vogliamo mandare un articolo al giornale. Una di queste volte poi lo pubblicano.

Gigio ricorda un titolo in basso nella pagina sull'eroica lotta dei tagliatori di canna da

zucchero della Guayana e si interroga sull'aggettivazione adatta ad un gruppo di operai di

una fabbrica di giocattoli dell'Alta Italia. Titanica, Epica? O solo inaspettata e impensabile?

Siete molto gentili. Quando passate per l'intervista?

Intervista?

La parola sembra suonare loro del tutto nuova, come parapendìo o ribaltone.

Sì dico, con qualcuno dovrete parlare per scrivere l'articolo.

Veramente no. Non usa farlo. Le condizioni operaie sotto il giogo imperialista ben si

sanno.

Il tentato suicida dopo aver espresso il Verbo si porta due dita al cravattino e tossisce.

Imbarazzo. Dal fondo della strada si profila la figura boscaiola di Armando, le spalle curve

come quando la sua squadra le busca secche.

Piomba in mezzo al silenzio irto di incomprensioni e fissa bieco i due chierici.

Ci sono problemi?

Come da ragazzi per difendere il fratello minore. Non si può menare il fratello di Berardelli

Armando, per i compagni Panzer.

Gigio scuote la testa. No, i due signori qui rappresentano un'organizzazione comunista

internazionale che pubblicherà un articolo sulla nostra fabbrica.

Ben gentili.

Il Maggiore arriva al punto di edificare un faticoso sorriso, tanto si sente sperso e in balia

del fratello.

Come si chiama il giornale, l'Unità? Chiede candido e sprovveduto.

I due lo guardano con astio e tirano fuori un'altra copia di Scelta Comunista.

Ah.

Armando prende il giornale, lo apre e sbircia i titoli.

Eh, già, voi siete molto più comunisti, giusto?

C'è solo un modo di esserlo. Spiega il giovane. Gli altri sono traditori, deviazionisti e

revisionisti.

É evidente, evidente. Assicura Armando.

Com'è andata? Gli chiede Gigio.

Da piangere. Peggio di così...

Oddio e quanti ne ha?

Poi, poi ti dico.

Gigio si ricorda dei due Purieduri che adornano il cancello.

Beh, se vi servono altre informazioni sapete dove trovarci.

Giovane e vecchio non parlano ma in compenso non levano le tende.

Il giornale ci costa un tot, azzarda il giovane.

Gigio sbarra gli occhi ma Armando in depressione è molto più ricettivo.

Giusto, giusto. Caccia fuori un diecimila e, convinto di aiutare il fratello Basilio, lo

consegna agli apostoli del proletariato.

Lo facciamo per la causa comune. Spiega il vecchio infilando il modesto quibus in

una busta rosso-arancione.

Che sarebbe? Chiede Gigio.

La rivoluzione comunista internazionalista mondiale.

Ovvio, come ho fatto a non pensarci.

Guarda i tizi allontanarsi mentre Armando lo tira per la camicia verso la fabbrica, ansioso

di confidarsi.

Quasi una notte da Innominato.

Per tutta la cena il Maggiore non parla. Mangia poco, lo sguardo affondato nel piatto

semivuoto.

Si discute dei colleghi. Ne sono passati tre al mattino, mentre Gigio faceva il Livingstone

metropolitano. Nessuno ha un cristo di idea e pare che il padrone offra venti milioni per

una letterina di dimissioni.

Scalcioni, l'orfano, come dire, per venti milioni sarebbe anche disponibile ma ecco, non gli

sembra bello.

Se aspetta un pochino, Scalcioni, il padrone gliene offre venticinque. Tutta la

baracca di solo capannone e terreno vale qualche miliardino. - Enrico è uno che valuta e

computa veloce. - Diciamo undici o dodici miliardi a vendere il tutto. Se anche ce ne

volesse dare un terzo per toglierci di mezzo farebbero...quattro miliardi diviso tot superstiti

tra operai e impiegati fanno ottanta e passa cartoni a cranio. Altro che venti, quello tira al

bidone.

E che ci fai? Ci campi sei mesi da ricco e poi ti ritrovi a dare via il culo sulla

tangenziale.

Pino inesorabile non si commuove né davanti a venti né davanti a ottanta.

Già e poi probabilmente ci calcola nei venti o quanti sono anche liquidazione e

mensilità arretrate.

Nena ha talmente ragione che nessuno discute. Dopo aver terminato patate in umido con

spezzatino di tacchino e due gotti di rosso cadauno non di più, si sente Enrico

mormorare ...cento e bòn, ma nessuno ha voglia di riprendere la discussione.

Chissà se c'è qualcuno disposto a venire a occupare con noi?

Gigio lo dice più per abitudine che altro. Già chiesto, visto, sentito, ma niente: pattuglia

sono e pattuglia restano. Chi ha famiglia ha famiglia e non può, chi ha paura non lo dice e

sorride scrollando la testa, come da bambini quando si doveva entrare nella grotta. Chi si

fida del padrone nemmeno si fa vedere - o forse ha già preso qualcosa per il disturbo - e chi

pensa di trovare di meglio viene alle assemblee ma sta zitto e di venire a dormire in

fabbrica manco ci pensa.

Ed è così che si finisce per sentirsi sempre più soli, megasfigati strambi e cocciuti senza

alternative, attaccati alla fabbrichetta come cozze e mitili, come l'edera che dove s'attacca

muore.

Viene da pensarci la sera prima di dormire, quando si tirano bilanci comunque al brutto e

ci si abbandona ai vittimismi e alle domande cosmiche ma inutili.

Gigio giura a se stesso, in quei momenti, di prendere una nave per l'Australia o, meglio, per

la Nuova Zelanda e non tornar mai più.

É vero: teme sospettando o sospetta temendo che anche là sia arrivata la civiltà con la C

maiuscola e che quindi anche davanti al Pacifico e all'Antartide un uomo in quanto uomo

valga sempre e comunque quanto un bottone, ma non è detto e una volta giunto là vedrà.

Sa fare quasi tutto, in più legge bene e scrive discretamente. Ha studiato anche un po' di

inglese con le cassette che regalava il noto quotidiano, mentre l'istituto tecnico mai finito

gli ha fruttato poco più di due frasi: "Parlez vous francais" e "Nous sommes ici".

Si sono alzati tutti dal tavolo meno Armando che spezza stuzzicadenti sulla tovaglia

in frammenti infinitesimali, giochino tipico di chi non ha il vizio del fumo.

Allora?

Il Maggiore esibisce uno sguardo iniettato di sangue, da bove l'ultima sera prima del

macello.

Allora cosa?

Quanti sono?

Gigio gira lo sguardo nella sala mensa. Ci siamo solo noi, puoi sputtanarti quanto vuoi.

É mica così facile.

Eddai, Armando, sono tuo fratello.

Eh, non è facile. L'ho seguita, è uscita verso le otto come tutte le mattine...

...Per portare i bimbi all'asilo, giusto?

Sì. Poi è andata a far la spesa. Nel discount.

Gigio annuisce. Per deformazione professionale Armando odia gli Hard Discount che

"distruggono il commercio al dettaglio".

Non è mica poi grave.

Lo sa che non voglio, lo sa.

Vabbè. E poi?

Poi è tornata a casa. Verso le tre è uscita a prendere i bimbi, li ha portati ai

giardinetti, ha comprato una rivista di moda, si è seduta. Lulù si è fatta male cadendo con

la biciclettina. É andata a bagnarla alla fontanella, si è riseduta e verso le sei è tornata

a casa a preparare la cena. C'è un buco.

Che buco?

Dalle nove e mezza fino alle tre. Cos'ha fatto? Chi ha ricevuto?

Non eri lì apposta?

Già. Sono entrati sedici uomini dal portoncino del condominio, con un ritmo di uno

ogni venti minuti più o meno. Togli pure il ragionier Verdelli che ha ottant'anni e il signor

Lorenzi che tutti sanno che è frocio, aggiungine uno perché ho perso venti minuti per

andare a farmi un panino. Fanno in tutto quindici. Quindici uomini.

Gigio vorrebbe aggiungere "...sulla cassa del morto oh oh oh, e una bottiglia di

rhum" ma si astiene. Armando è venuto paranoico come una pensionata ricca, il suo

problema è tutto lì.

Ma ti pare possibile?

Magari tutti e quindici no, ma buona parte.

Quanto si sono fermati dentro?

Armando estrae un taccuino dalla tasca posteriore dei pantaloni come un vero

investigatore.

A per un minuto e trentanove secondi, B per tre minuti e sei secondi. C, eccolo qui il

maiale, per un'ora, 36 minuti e 25 secondi, D per...

Ma hanno suonato tutti al tuo campanello?

No, nessuno di loro. Ma magari è per confondere le acque.

Armando...

Eh?

Sei ridicolo, lo sai?

Il Maggiore allarga le braccia.

No, non lo so. Ma perché Luisa non mi vuole più, cosa le ho fatto? Basilio, tu devi

capire, dev'esserci un altro per forza. Per forza. Si andava così bene prima, così bene. E

adesso non mi cerca più, si sposta se la tocco, non mi risponde se le parlo e mi prende in

giro davanti alle bambine. C'è un altro per forza, Gigio, sei tu che non capisci niente. Come

il solito.

Domani lo rifai?

Certo. Mi compro una macchina foto, una polaroid e li fotografo tutti, uno per uno.

Tutti e quindici, i porci.

Vai a dormire, Armando, devi essere stanco.

Non c'è la TV qui?

No, non l'abbiamo. Se arrivano altri ospiti paganti magari la comperiamo.

Armando non capisce lo scherzo e annuisce.

Potrebbe essere una bella idea. Buonanotte

Buonanotte.

Si fa presto a dire buonanotte ma per Armando, illuminato di gelo dal fanale giallo

sodio, assediato dalle Pippette sedute sugli scaffali di metallo e tormentato dal pensiero di

Luisa sola - o forse no - a letto, e che sicuramente senza di lui sta benissimo, la notte non si

annuncia per nulla buona.

Per un po' si gira e rigira cercando di chiudere ogni spiffero malefico che si insinua sotto la

copertona da cavallo passatagli da Basilio. Ma anche quando riesce a rincalzarsi come

un'acciuga portoghese in scatoletta la sensazione di benessere lascia ben presto il posto alle

paranoie.

Cerca di distrarsi, pensa alla signorina Gaido la volta che l'ha pescata china sulla scrivania

in minigonna e all'ombra di mutandine giallo limone forse viste o forse no prima che lei si

rendesse conto che qualcuno era entrato nella stanza.

E salpando da quel lembo di mutandine color girasole Armando tenta di prendere il largo

nel suo ricco pornoceano affollato di biondone dalla bocca soavemente socchiusa,

biancheria sovrabbondante di pizzi e languorosi sospironi. Ma anche lavorando

intensamente di meningi non riesce nemmeno a scalfire il cubo di piombo che gli pesa

addosso. C'è una domanda, tanto tosta che nemmeno la vuole pensare.

E se Luisa...

...NON AVESSE NESSUN AMANTE E FOSSE SOLO STUFA DI LUI?

Armando si gira verso le bambole e il freddo nel petto lo accompagna.

Il sorriso delle pippette è prolungato dall'ombra del fanale. Storto e asimmetrico com'è

assomiglia a un ghigno idiota e maligno moltiplicato per duecento, contate anche quelle

che non si vedono , ma che di sicuro sogghigneranno tanto quanto.

Armando più che spaventato o irritato per quelle piccole presenze questa sera si sente

oppresso, come se le pippette volessero significargli senza parole la sua infinita,

insondabile coglionaggine nei confronti del sesso femminile.

Altra giravolta nel letto mentre, sbocconcellati da un sonno nervoso e sfuggente, i ricordi di

visi, occhiate eloquenti e divertite, risatine, discorsi interrotti gli assediano la mente

instaurando in lui l'improvvisa ma assoluta convinzione che non ha mai capito un tubo di

femmine e ne è stato appena appena tollerato, magari usato e sempre sbeffeggiato, a

cominciare dalla mamma.

Infatti mamma Ida se la intendeva benissimo con Basilio e a lui, il Maggiore, dimostrava

una considerazione e una stima un po' troppo ovvie, forzate, come in caserma quando si

salutava il tenente e lo si spernacchiava appena girato l'angolo.

Nella sua testona da Panzer, solitamente posata e positiva, lussureggia vittoriosa

un'ulteriore paranoia. Tutte, a cominciare dalla mamma fino alle pippette, passando per

Luisa, Poppi e Lulù - Basilio compreso nonostante il genere - l'hanno sempre considerato

un fessacchiottone tipo orso che balla, con l'aringa per premio alla fine.

Incurante del freddo Armando - in pigiama avana - si leva a sedere nel letto, venato di

sudore come le birre delle pubblicità estive.

In questi casi la mente si impegna a scovare giusto le cose che possono venire in soccorso

della tesi più deprimente, e Armando, come un assediato, ricorda, interpreta, collega,

comprende, suo malgrado esaltato dalla scoperta, sgradevole, penosa ma sempre scoperta.

Ricorda certi sorrisi di mamma Ida e certe frasi indirizzate a Basilio che solo lui

sembrava afferrare, visto che nella loro capronaggine Armando e Papà avevano tante

possibilità di capire quante un topo che rosicchiando un libro di Einstein voglia informarsi

sulla Relatività.

E Carluccia - al buio in macchina sotto la tangenziale - quella sera che rideva e rideva e non

si capiva perché e lui con il reggiseno in mano, con tutte e due i ganci dalla stessa parte

dell'elastico, che si sentiva scemo senza speranza e senza nessuna voglia di ridere con lei. E

poi Anna, Lidia e infine Luisa, le donne che hanno attraversato la sua vita come si

attraversa un passaggio a livello. La sensazione di gelo, di serate affannose, di nebbia

appena illuminata dai lampioni lontani della statale, mentre si affannava a cercar loro lo

slip e la direzione nel quale tirarlo per farlo scendere.

UNO CHE HA SEMPRE RAGIONATO COL CAZZO.

Armando legge la frase proiettata sullo schermo della mente con lettere in granito, come il

titolo di Ben Hur. É vero: l'ha usato per ragionare, per giudicare, per scegliere, ne ha fatto

la sua Guida e Maestro.

Fa freddo a star seduti nel letto ma il Maggiore sente che è giusto e quindi soffre.

L'Armando executive, quello che sgomenta e lusinga le cartotabaccaie si è autoaffondato

lasciandolo solo, in compagnia di altri pensieri inconfessabili. Stringe i pugni e pensa,

finalmente. Alle volte, quando il padre lo guardava fisso e serio si sentiva completamente

fregato e, Dio, come avrebbe voluto che a fare il capostipite della discendenza fosse Basilio,

uno che si fotte del mondo e se ne è sempre fottuto, e certe volte quando guarda lontano

sembra Crocodile Dundee.

Armando si è sposato, ha fatto figli, ha lavorato come un cretino, ha detto sempre sì,

sempre sì, sempre sì. Gli bastava che la Luisa a letto accettasse alle volte di fargli certi

numeri da video a luce rossa e le bambine gli mostrassero tanto rispetto - sì papà, va bene

papà - per sentirsi arrivato come un grossista di frutta e verdura o un commercialista.

E invece chi cazzo è? Un povero fesso che passa il tempo a spiare la moglie, un po'

terrorizzato e un po' eccitato a immaginarla che la molla al primo che capita.

Probabilmente come sempre ha ragione Gigio, Luisa non è il tipo, e quello che è diventata

adesso - fredda, stanca - è anche opera sua.

Intirizzito si lascia cadere nel letto, la testa arroventata dal pensare affannato. Le

pippette educatamente guardano da un'altra parte, tutte color senape per via del lampione

sodico.

Con le dita informicolite, le gambe irrigidite si alza e nella penombra fantascientifica

striata di giallo parte alla ricerca della stanza del fratello. É troppo depresso per

vergognarsi e d'altro canto desidera intensamente comunicargli il frutto dei suoi pensieri.

Attraversa la sala mensa dove dormono Enrico e Pino e arriva allo spogliatoio.

Gigio, Gigio.

Silenzio assoluto.

Gigio!

Brancolando cerca e trova l'interruttore della luce.

Letto vuoto, ben rassettato, evidentemente non visitato, almeno stanotte.

Come un sonnambulo Armando sale la scaletta che porta all'ufficio del capofficina, sulla

balconata. Entra nella scatola di vetro - in tutto simile ad una serra - come un soffio di

vento.

Basilio.

Chi è? Chiede una voce, chiaramente non quella del fratello.

Oddio, mi scusi.

Chi sei? Armando sei tu?

(Voce femminile) (Voce maschile, appartenente a Gigio).

Cazzo scusatemi, me ne vado subito.

... Ma no aspetta, dove vai?

Scusatemi, scusatemi.

Armando si precipita fuori, rotola giù dalla scaletta di metallo, attraversa la sala mensa

urtando una mezza dozzina di sedie e di chissà cos'altro e si va a nascondere dalle pippette.

Per un po' sta a sentire se qualcuno lo ha seguito poi crolla a dormire stecchito.

Come stai?

Armando apre un occhio e si accorge del naso tappato e dolorante.

Abbastanza bale. Sgusabi per ierizera.

Non ti preoccupare, vuoi un'aspirina?

Zì, grazie.

Gigio gli porge il caffè e una pastiglia.

Oggi non esci, fa freddo.

Vabede.

Armando lo guarda con affetto e si gira, sollevato come un bambino che salta scuola il

giorno della prova in classe.

La signora araba, quella che cuciva i vestiti per le bambole.

Enrico gli comunica la notizia e ritorna alla lettura del Sole, giornale del quale capisce

abbastanza da improvvisare ogni tanto concioni e acrobatiche analisi economico

-finanziarie.

Buongiorno.

La donna, abbigliata con una dei suoi consueti gonnoni fantasia e di un giubbotto in vera

finta pelle ripescato chissà dove, tiene in una mano una gabbietta di vimini e nell'altra una

valigia fumè con rotelle.

Buonciorno.

Si guardano sorridendo fino a un momento prima di sentirsi imbarazzati.

Sfratatta. Dice la signora Hanan e per Gigio è sufficiente a capire tutto.

Venga.

Non si può, questo è sicuro. E che cavolo, una fabbrica non è mica un ricovero di carità. E

poi la fabbrica è Sua, anche senza corrente, anche buia e abbandonata, piena di Pippette

che finiranno per sgretolarsi, con la plastica che diventa fragile e scura.

Ma lo farà lo stesso.

Cede alla signora Hanan il suo letto nello spogliatoio. Se con Nena non dura pazienza, per

un po' dormirà come una volta col fratello.

Dalla gabbietta di vimini è uscita una gatta striata con un occhio più grande dell'altro e una

specie di smorfia da brigante sul musetto rotondo.

Bella, come si chiama?

Ester. Non bella, solo furba.

La gatta solleva il muso con la calma ovvia di chi è abituato a essere al centro

dell'attenzione e non ci trova niente di strano. Si lecca una zampa e dopo un'annusatina

all'ambiente sale sul letto e si siede.

Ciao.

A Gigio viene naturale salutare anche gli animali.

Mi-gnau risponde Ester. Ha una voce leggermente rauca, come avesse appena finito

di farsi una pipata.

La cena è alle otto in sala mensa.

La signora Hanan annuisce e si toglie il giubbotto.

Mi spiacce, conosevo solo voi e non sapevo dove andare. Sono clandestina.

Già. Anch'io.

Gli è venuto d'impulso, un impulso forse persino stupido. Ma la signora Hanan capisce, fa

sì con la testa e si siede sul letto accanto alla micia.

Io cucina.

Bene.

Metto soldi che servono per me e per Ester.

Gigio fa un cenno con la mano come per dire c'è tempo e si ritira con un leggero inchino

come in una commedia di Goldoni. Gli verrebbe da dire Sì Lustrissima ma si trattiene.

A cena nessuno fa commenti ma dopo un po', mentre è occupato nel consueto

pellegrinaggio agli stampi, sente una presenza alle sue spalle.

Si volta. Pino tiene la sigaretta - nazionali o chissà cos'altro senza filtro - all'angolo della

bocca e il filo di fumo lo obbliga a tenere un occhio semichiuso. Assomiglia molto a Ester,

così.

Dimmi.

Sei sicuro? Non avremo grane per l'araba?

Gigio si stringe nelle spalle.

Secondo te a qualcuno fotte qualcosa di cosa si fa noialtri?

Pino guarda nel vuoto e scuote la testa.

Bisognerebbe mettere le bombe.

Pino il fascista o presunto tale nasconde l'anima sensibile e ribelle di un anarchico inizio

secolo. Non dice "le bombe" come fanno tutti ma "lebboombe" e con quella O rotonda e

prolungata è come se volesse risvegliarne almeno l'eco.

Sai come è andata la storia delle bombe, in questo paese. Per metterne una devi fare

il concorso ed entrare nello stato.

Il lucano nichilista sorride senza far cadere la sigaretta.

Non ho conoscenze. Nemmeno in municipio mi hanno preso. Però bisognerebbe

pensare. Qui si dimenticano di noi.

Gigio è d'accordo. Girano sempre intorno al problema senza risolversi mai a nulla. Enrico

ogni tanto va al sindacato e torna con ventimilalire e un po' di pacche sulle spalle. L'ultima

volta solo diecimila e invece di pacche sguardi al cielo.

Si dovrebbe fare un'altra assemblea.

Non servono a una minchia. Un po' alla volta se ne vanno tutti e alla fine ce ne

andremo anche noi perché tanto...

Gigio stringe le labbra e guarda oltre la finestra. Come Crocodile Dundee, anche se Gigio

preferisce l'ispettore Callaghan.

Adesso ci muoveremo.

E le stelle (ci) stanno a guardare.

Prima di uscire getta un'occhiata all'orologio dell'ingresso, quello dove si timbrano i

cartellini. Fa le dieci e diciannove da un paio di mesi almeno, come si fosse dimesso in

spirito poco dopo la fermata della fabbrica.

D'istinto a Gigio viene da guardare il suo vecchio orologio meccanico, di quelli che si

caricano con l'interno dell'indice producendo un ronzio delicato simile alle fusa di un gatto

piccolissimo.

Sa benissimo che l'arnese non funziona più e che continua a timbrare i cartellini con 27-12

h.10.19, ma - potenza di un quadrante - non riesce a fare a meno di considerarlo.

Ci vogliono poco meno di dieci mesi perché arrivi il suo compleanno - suo dell'arnese -

l'attimo durante il quale l'orologio a cartellini darà l'illusione di funzionare ancora, come

certi fantasmi che appaiono solo in certi luoghi solo una volta l'anno.

Un'idea, gli serve un'idea: insieme non violenta, spettacolare, poco costosa e legale.

Gigio esce nella via silenziosa, imbocca il corso e scorre sotto le finestre illuminate in

giallo e velate di tendine a fiori. Riconosce quelle dei bagni, smerigliate per non turbare il

vicinato con improbabili e pallide seminudità, le cucine bianco- azzurrine per via dei neon

e le cangianti luci televisive dei salotti completi come da fotografia lire 650.000.

É solo d'estate che si può apprezzare bene il colpo d'occhio di tante tv accese insieme, le

tende e le finestre verdine e rosate, il mix di voci concitate e di stelle filanti musicali che si

fanno eco da una facciata all'altra dei condominii. Adesso, di febbraio, l'effetto sonoro è

perso, molte tapparelle sono abbassate e si può anche immaginare che la gente si faccia

almeno in parte i propri più o meno tristi cazzi.

Magari faccia l'amore o racconti una storia ai bambini.

Una storia di power vendicator che imbottiscono di sberle e piombo i cattivi o anche solo

gli indecisi e i titubanti, di astronavi venute da Vega e di ragni extraterrestri cannibali,

perché se non la si butta sul manesco, sanguinolento, raccapricciante e orrido i bambini di

oggi, secondo i genitori moderni, non stanno più a sentire e vogliono accendere la tv.

Tanto tempo fa, quando Gigio era ancora bambino, il papà aveva contratto il morbo

dell'astronomia.

Era stato dopo il sessantasette e lo sbarco sulla luna, quando milioni di italiani, fino al

giorno prima interessati solo al calcio, si erano scoperti tutti bisnipoti di Galileo ed erano

corsi da cine-foto-ottici comprando telescopi o anche solo cannocchiali o binocoli.

Papà aveva comprato un modello semiprofessionale che adeguatamente usato sarebbe

stato in grado di guardare in casa o perlomeno nel giardino di un eventuale selenita.

Nonostante le raccomandazioni del venditore il babbo aveva installato lo strumento sul

tetto del condominio, tra una selva di antenne e una ragnatela di vecchi fili per stendere

che nessuno usava più.

Erano sbucati per la prima volta - lui, Armando e Papà - dalla porticina del tetto in cima

alle scale, con lo scatolone del telescopio e il cuore in gola, come fossero stati i primi

uomini della Terra a scrutare l'infinito, e avevano trascorso qualche secondo di silenzioso e

meraviglioso smarrimento scoprendo che, nonostante la molesta presenza di tre o quattro

fabbricati più alti del loro, il cielo era veramente enorme, smisurato, insondabile.

Era un cielo senza dimensioni né profondità, abbagliato dal riflesso delle luci cittadine, più

vuoto che in qualunque altra epoca dell'umanità. Ma le stelle, intuite più che viste,

sembravano l'approdo naturale dello sguardo, lo scopo originale degli occhi.

Avevano puntato l'arnese verso la luna, cercando di leggere le istruzioni alla luce di una

scatola di cerini e di un salotto illuminato nel condominio alle loro spalle.

Quando sembrava che tutto fosse stato regolato alla perfezione papà aveva posato l'occhio

a metà del tubo e dopo un secondo aveva fatto un gesto con la mano senza staccarsi dal

telescopio, come quando si vuol dire che una cosa è buonissima ma senza parlare a bocca

piena.

Dopo era stata la volta di Armando, che se anche si era sentito attratto dallo spazio

profondo aveva fatto la faccia saputa, come passasse la giornata a catalogare galassie.

Buon ultimo Gigio aveva immerso lo sguardo nel tubo rosso. Una curva d'ombra aureolata

di una specie di arcobaleno pallido fu tutto ciò che vide.

Cos'è?

Sarà un cratere, anzi è il Mare della Tranquillità.

Come l'hai riconosciuto papà?

Ma non lo vedi?

No, no figurati, lo vedo benissimo, solo...

Lascia perdere, che adesso cerco Venere.

Certo Venere non è sempre visibile ma né quella sera né nelle seguenti qualcuno riuscì a

distinguerlo. E nemmeno Marte, Giove o Saturno, nonostante i bluff del padre che giurava

di aver visto anelli, macchie rosse, satelliti medicei, fasi e persino canali. In compenso

Armando individuò a un chilometro di distanza la stanza da letto di una tizia che tutte le

sere a quell'ora aveva l'abitudine di far ginnastica solo col reggiseno e che quando

cominciava a sudare toglieva anche quello.

Per un po' di volte lo svago principale delle serate fu quello, cioè tentare di acchiappare i

pianeti. Ma alcune notti nuvolose, i ripetuti fiaschi e Armando che dava troppo sul

guardone spinsero papà a mettere via il telescopio, con la promessa di ritirarlo fuori

l'estate dell'anno dopo.

Ma si sa come vanno queste cose e l'anno dopo il telescopio rimase nella parte alta

dell'armadio, nonostante le velate insistenze del maggiore.

Unico strascico della cosa fu che Gigio prese l'abitudine di andare ogni tanto sul

tetto a guardare le stelle. Poi non è tanto che le guardasse: guardava la città, le sue luci che

si arrampicavano sulle colline e si sentiva il re di un cielo rovesciato, di un mondo

chiassone che rotolava a fatica sulla crosta della vecchia terra mentre lassù tutto sembrava

leggero e silenzioso, tanto leggero e silenzioso da far paura.

Tornava giù anche lui silenzioso, come se avesse fatto una capatina nell'eternità. Per una

mezz'ora riusciva a non incazzarsi con nessuno e tutto quello che leggeva o vedeva gli

pareva bello. Tutte le parole gli sembravano giuste, le immagini uniche e riusciva a trovare

un bello anche nel telegiornale.

Poi per fortuna la sensazione passava e mamma Ida e papà si sentivano meglio. Avere un

figlio santo, profeta o eremita non fa piacere a nessuno.

Le luci dei lampioni, più vecchi e più bassi in questo gruppo di vie formano cerchi di

luce da fumetto o da film giallo anni '30.

Gigio prova a camminare restando solo all'interno degli ovali illuminati, poi solo al buio e

poi sul confine tra luce e ombra, tracciando con i suoi passi sul marciapiede largo e

screpolato d'erba una serie di ghirigori da insetto ubriaco, dei quali perde quasi subito il

disegno mentale.

Trasformare tutto in punti, linee e schemi, confini, vie, percorsi: non se la toglierà mai

quell'abitudine? Ha qualcosa a che fare con la musica quel modo di rappresentarsi il

mondo, di vederlo tutto come pause e suoni legati da nessi misteriosi, che solo un orecchio

esercitato sa riconoscere.

Il professore di musica delle medie, un uomo calvo, alto, imponente ma timidissimo, quasi

imbarazzante nel suo nascondersi, nelle sue esitazioni e titubanze, riusciva a diventare una

persona quasi normale solo quando parlava di musica o quando spiegava loro l'architettura

di una canzonetta o di una sinfonia.

Il fatto che quell'insieme di note, talvolta ovvio ma spesso faticoso, fosse sorretto da uno

schema invisibile, da una volontà, sembrava a Gigio incredibile e miracoloso. Si chiedeva

se il compositore avesse inventata la sua musica di sana pianta o avesse riconosciuto un

ritmo della strada, come il rumore di un ombrello contro un cancello o il fruscio di una

cartolina contro i raggi della bicicletta.

Geografia e musica, le uniche materie dove Gigio brillava senza sforzo e senza

praticamente studiare. Gli bastava ascoltare una volta per fare una figura da Pico della

Mirandola, salvo poi diventare un semideficiente davanti alla pagina bianca di un tema

sulle vacanze.

Zona di case basse con giardino. Un cane di dimensioni fiabesche, nascosto

dall'ombra della siepe si strangola mezzo per ricordargli che anche quel pezzo di

marciapiede appartiene al suo padrone. Gigio sobbalza e si inchioda. Il cane alza il volume,

schianta rami e strappa foglie per giungere a minacciare più da vicino l'intruso.

Da bambino aveva l'abitudine di fermarsi davanti ai cancelli dove i cani di quel genere

diventavano rauchi e isterici a furia di abbaiare. Ogni tanto faceva un movimento

improvviso giusto per vedere l'Argo della situazione rinculare, preoccupato e perplesso. Ma

adesso è diventato grande ed è notte e il cane romperà sicuramente le scatole al vicinato. E

poi non riesce a vederlo e quindi non può nemmeno divertirsi a rendergli la pariglia

spaventandolo a sua volta.

Tira dritto accompagnato dalle minacce del Fido che al termine dell'esibizione tornerà

sicuramente alla sua zuppona non finita, alla ciotola d'acqua e alla cuccia con il nome

scolpito: almeno Donatienne, Salomone o Clausewitz.

Armando in tutto il giorno ha mangiato poco, semirimbambito dalla febbre e dal

raffreddore ma di un umore inconsueto, liliale - si sarebbe detto - felicemente allegro come

un poverello d'Assisi. Ha incontrato la signora Hanan a cena e l'ha gratificata di sorrisi

come una cara zia, mentre verso Nena ha mostrato una considerazione che normalmente

riservava ai titolari dei grandi negozi del centro.

Sarà merito delle Pippette? O dell'autoesilio?

Al momento di uscire l'ha guardato quasi addolorato:

Esci?

Come una moglie tanto cara e un po' malinconica.

Chissà quanto tempo andrà avanti la follia di Armando, Otello contemporaneo senza

nemmeno uno Jago verosimile a guastargli la digestione e rendergli il mondo malsano. E

Luisa? Ha intuito qualcosa o tira avanti la sua vita senza esitazioni come al solito,

roboticamente affettuosa con le bambine e alle prese con il suo bidone di camicie

armandesche da stirare di fino?

Penetrato profondamente nel reticolo di viuzze, cancelli, passi carrai, meccanici e

giardinetti cintati Gigio si sente un esploratore alieno sotto mentite spoglie, un occhio

estraneo che considera con simpatia un po' distaccata - o forse con una punta di sufficienza

- il povero sfarzo di quella razza di un pianetino, figlio prediletto di un sole periferico.

Altri due passi e Gigio ha trovato l'idea, con la I maiuscola: quella che li tirerà fuori dal

pantano.

Quando torna in fabbrica Pino, Enrico e Nena sono ancora svegli, seduti a un

tavolino della mensa discutono fitto a bassa voce.

É passato De Toni, quello del sindacato.

Bene.

Tra quindici giorni c'è assemblea, hanno trovato una soluzione per tutta la Mativa.

Sarebbe?

Una nuova ala del Life Size. Si andrebbe a fare i magazzinieri, i contabili o non so

cos'altro.

A voi piace?

Enrico si stringe nelle spalle. Un posto e uno stipendio...

Pino tiene le sopracciglia aggrottate ma non dice né sì né no.

Nena si guarda le ginocchia.

Ci sarà sotto qualche fregatura, tipo contratto triennale o di prova o qualifiche da

schiavo o stipendio da fame. Niente liquidazione né mensilità arretrate...

Ti piace fare il menagramo Gigio?

No, è che non credo a Babbo Natale. E poi ci andiamo tutti e quarantaquattro?

Enrico non è troppo sicuro.

Pare.

Pino sembra sollevato. Siccome non si fida per principio è contento quando trova un altro

tignoso come lui.

Cazzo, è abbastanza probabile che ci fottano. Noi quattro per primi che abbiamo

scassato più di tutti.

Nena ha alzato gli occhi e ostenta un'espressione amara e cinica.

Lo sapete come sono quelli del sindacato, no?

Vabbè, stare a sentire non ci costa niente.

Già, ma se diciamo no che cazzo possiamo fare senza tutela sindacale? Quello è un

Signor Problema e spiega come mai siano ancora tutti svegli a cercare di farsi piacere la

minestra.

Abbiamo ancora due settimane, si possono fare tante cose in due settimane...

Cosa vuoi dire, Gigio?

Adesso vado a dormire e ci penso. Domani mattina a colazione se ne parla.

Nena lo raggiunge dopo pochi minuti.

Cos'hai in mente?

Un'ideuzza per far parlare di noi, tutto qui. Un modo per tirare le cose in lungo.

Nena esce dai jeans e si infila nel letto col maglione. Come prevedibile gli schiaffa i piedi

gelati contro i suoi.

Le donne vanno a letto con gli uomini solo per scaldarsi i piedi. - Commenta Gigio. -

É una cosa molto più importante del sesso o del far figli.

Nena gli ride nell'incavo della spalla.

Dev'essere vero. Forse gli uomini per cuccare dovrebbero vantare i piedi tiepidi

piuttosto qualche centimetro di cazzo in più.

Me lo ricorderò.

La difesa della Razza

Si potrebbe pensare che una fabbrica occupata sia un posto che impressiona la

piccola borghesia, i benpensanti, i bottegai.

Dev'essere stato così una volta, magari all'inizio del secolo o subito dopo le guerre.

Ma in questi tempi degeneri e senza principi la gente non si accorge nemmeno dello

striscione rosso sangue e si ferma al cancello per i motivi più ridicoli.

Le signore sono ben vestite: una a cui piacerebbe sembrare ancora giovane e una

decisamente più anziana e posata. La prima indossa uno shearling con collo di pelo e un

paio di pantaloni scuri, di quelli con la staffa che passa sotto l'arco del piede e la riga cucita.

Quella vecchiotta ha una pelliccia probabilmente ottenuta da un animale raro e costoso, un

foulard fantasia e una spilla d'avorio, a forma di gazzella con le corna d'oro.

Gigio legge la lunghissima pappardella infilata in un raccoglitore a pinza. Seguono

fogli di firme scritte con almeno dieci inchiostri diversi, come in un albo di autografi.

Le sembra chiaro?

La giovane è un tipino impaziente e nervoso, abituata a una condiscendenza un po'

insultante, da professoressa o da impiegata statale allo sportello.

Gigio sorride beato.

Temo di no.

Glielo spiego a voce se vuole.

Va bene, faccia così.

Il fatto è che noi non siamo razzisti, assolutamente no. Però ultimamente sono

accaduti dei fatti che ci hanno spinto a promuovere una raccolta di firme per ottenere...

Ecco, per chiedere al comune di provvedere...

Provvedere...

Lo guarda male, come a dire: non lo capisci da te?

... L'immigrazione clandestina è un enorme problema, soprattutto in un quartiere

come il nostro che non possiede le strutture per poter accogliere gli stranieri. La presenza

di individui senza lavoro né fissa dimora, dediti allo spaccio di droga, alla prostituzione e a

decine di altre attività illegali non può più essere tollerata. É diventato impossibile uscire la

sera e anche in casa si rischia di essere rapinati o di subire ogni tipo di violenza. Non si può

uscire con i bambini né camminare sul marciapiede senza essere borseggiati o accoltellati.

Gigio annuisce educatamente e si ingegna di produrre un'espressione angustiata almeno

all'altezza delle circostanze.

...E poi il valore degli immobili della zona diminuisce, capisce? Sono i nostri

risparmi a perdere di valore. Poniamo che una persona voglia vendere il proprio

appartamento e andare a vivere in un altro quartiere, come fa? Come fa adesso che tutti

sanno - lo dice ogni giorno "La Notizia" nelle pagine locali - che in via Oberdan si

accoltellano le casalinghe e si violentano le bambine?

Gigio si stringe nelle spalle:

Non leggo La Notizia, in fabbrica leggiamo solo il Sole.

Le due grippano come un motorino zuccherato. Si guardano incerte. La più vecchia gli

toglie di mano la petizione.

É intollerabile.

Non spiega chi o cosa sia intollerabile, ma da come lo guarda si direbbe che a essere

intollerabile sia la diserzione dalla lettura della cronaca nera.

Ma lei cosa pensa di questa immigrazione selvaggia?

La giovane non è tipo da fermarsi a metà e ora lo fissa inquisitiva, come in

un'interrogazione.

Beh...

Non pensa che sono troppi, veramente troppi?

Gigio si guarda le mani e poi le infila in tasca.

Ma voi cosa volete di preciso?

Una firma per chiedere la protezione della polizia e l'intervento delle autorità.

Firmano anche quelli che affittano una stanza a dieci persone, trecentomila a testa

al mese? Anche i proprietari di quegli immobili lì?

Ovviamente speriamo di no.

La giovane resta battagliera anche se si capisce che almeno una ruota a terra ce l'ha.

Io la firmerei anche la vostra petizione: non sono contento che ci siano tanti crimini.

Perché sono tanti, vero?

Tantissimi.

Però sarei contento se ce ne fosse anche un'altra contro quelli che danno certi lavori

alla gente di fuori: dieci ore al giorno per seicentomila lire. E poi contro quelli che affittano

soffitte per tre milioni al mese, per non parlare di quelli che mettono su le Findonna e le

Finscema e coi soldi dello strozzinaggio aprono bordelli travestiti da tintostireria, per poi

far arrivare qui dall'Africa le povere criste da sbattere sul marciapiede. Ecco una petizione

così la firmerei volentieri.

Non è davvero arrabbiato, Gigio, solo non gli piace la gente che si accontenta delle

soluzioni facili.

Vedete, prendersela con quattro poveracci che non riescono a mettere insieme il

pranzo con la cena è un po' troppo facile e probabilmente non serve a niente. Se anche

riuscite a buttare fuori questi ce ne sono altri mille pronti a vendersi i figli per venire qui.

E lei cosa proporrebbe allora?

Nel tono della giovane c'è una punta di scherno mal controllata, ma Gigio si stringe nelle

spalle: non va più a scuola da tanto tempo e non gli serve nessun certificato.

Mettersi il cuore in pace e trattare chi arriva come uno nato qui. Se uno ha una casa

e un lavoro regolare non va in giro spacciare droga, giusto?

Posso dire che questo suo modo di vedere le cose è almeno ingenuo?

Certo, ma preferisco essere ingenuo. Se tutti fossero un po' più ingenui al mondo si

starebbe meglio.

La giovane sibila tra i denti: non credo, non credo proprio. Ha un'aria antipatica e volgare

che non si sarebbe detta a vederla.

Allora non firma?

La più vecchia non ha evidentemente seguito oppure è davvero un po' suonata.

No, non firma, non l'hai capito? Andiamo.

La vecchia lo fissa un po' smarrita e un po' spaventata e poi corre via come se Gigio fosse

diventato all'improvviso nero di pelle.

Le guarda allontanarsi immalinconito.

Gli piace la gente sorprendente, ma quelle due non l'hanno sorpreso nemmeno un po'.

Chi ebano?

Armando vive fuori dal letto ma il raffreddore non gli è ancora passato. Ciabatta in giro

bevendo tè bollenti e attaccando bottoni da clown a tutti quelli che incontra.

Due deluse dalla vita.

Ah.

Armando non ha capito ma fa finta di sì.

Dobadi tonno a casa.

Sarebbe ora.

Giudo, d'oba ibboi doddo faccio biù.

Mi sembra ottimo.

Sei ingazzado, Basidio?

Lascia perdere. Voglio chiederti una cosa, puoi procurarmi un quintale di vomitor,

senza pagarlo, si intende?

Armando si sfrega gli occhi.

Eh?

Un quintale di vomitor senza le confezioni. Conoscerai ben qualcuno che può

imboscarlo no?

Lo faddo in Cadadà.

Mmhh, troppo lontano. E poi?

C'è uda fabbrica dicenziadaria vicido a Cobo...

Bene. Fattelo spedire come campione omaggio per una scolaresca o una roba del

genere.

Ba un quindale è trobbo.

Allora per quella in più fatti fare la fattura, da intestare a Mativa Giocattoli S.p.A.,

pagamento sessanta giorni fine mese data fattura, va bene?

Ba a cosa serve? E boi è uda truffa, la Mativa doppagherà.

Pagherà, vedrai, tra due mesi pagherà. Entro il prossimo venerdì Vomitor deve

essere qui, ce la fai?

Benso di sì.

Bravo, vai a telefonare al bar. Da Lino, l'hai visto no?

Bi vesdo e vado... Berò...

Armando...

Ogghei.

Nel retro, per Las Vegas

Salve, c'è Baffo bianco?

Lino è un perticone coi capelli già grigi di taglio tattico infilati uno ad uno come

minuscoli aghi in cima a un viso magro e famelico da mercenario del seicento. Si rade un

giorno ogni tre ma si cambia ogni mezz'ora il grembiule e sembra un chirurgo pazzo da

film dell'orrore. Alza la testa dal cestello pieno di tazzine da caffè sporche, considera per un

istante l'intruso e fa un cenno con la testa.

Guarda da te, Rosso.

Già. Fuori il camion c'è ma lui no.

Lino infila il cestello nella lavastoviglie, si pulisce scrupolosamente le mani e si abbassa

sotto il bancone a prendere un mazzo di chiavi.

Gigio lo guarda affascinato: Lino è una di quelle rare persone capaci di un'economia di

movimenti da assassino professionista o da grande mimo. Anche mentre attraversa il

locale, immerso nella semioscurità nonostante siano le tre del pomeriggio, non fa ballare le

chiavi né si tocca i capelli o si passa le mani sul grembiule.

Cammina - semplicemente - come se fosse programmato per fare un solo movimento alla

volta.

Ovviamente non parla, nemmeno per chiedere scusa ai giocatori di biliardo o al gruppetto

di pensionati che invecchiano davanti a un mazzo di carte da briscola e a un bicchiere

mezzo vuoto di vino troppo rosso e denso per essere vero.

Gira le chiavi nella toppa della porta nascosta da un tendaggio e entra senza bussare.

Baffo, il Rosso ti cerca.

Il camionista solleva le carte e gli occhi con un movimento sincrono e Gigio capisce che ha

una buona mano o che vuol far credere di averla.

Gioca con due facce note, Elmetto e Filo, più un altro tizio con una giacca a quadrettoni da

piazzista televisivo.

Elmetto cambia una carta e sogghigna.

Nessuno ci bada: gli è preso un ictus cinque anni prima e se apre bocca è per fare smorfie.

Ha un'età indefinibile - dai cinquanta agli ottanta- e una vena che gli sporge dalla tempia

che sembra debba scoppiargli da un momento all'altro. Beve solo acqua minerale con

qualche goccia di Aceto Cirio e si accorge subito se Lino tenta di usare un'altra marca.

Filo cambia tre carte, le guarda per un istante e ne fa un piccolo mazzetto che si

passa da una mano all'altra. Pallido, magro come un deportato, con i capelli nerissimi

appiccicati al cranio e i baffetti sottili sembra una versione teatrale di Macchia Nera. Fa

l'insegnante di ginnastica in un Istituto Tecnico ma soffre di ernia del disco e il massimo

che fa è guardare gli studenti che giocano a pallone o che si pestano.

Il tizio è un frescone, cambia due carte e cerca il posto nel mazzo per metterle in ordine con

le altre, si agita sulla sedia col sederone fasciato di vigogna e manca solo che scodinzoli o si

versi da bere.

Servito, dice Baffo Bianco.

Elmetto si gratta il naso, Filo fa un rumorino passando l'unghia del pollice sul suo gruzzolo

di carte mentre il piazzista, che deve aver azzeccato un full, raddrizza la schiena come

dovesse fare a botte.

Vedo.

Mette sulla tovaglia verde una fiches grossa come una fetta di mortadella che copre due

intere bruciature di sigaretta.

Filo posa le carte. Dice: non toccava a te.

Il frescone si scusa e fa per tirare su il quibus.

Lascia perdere, è solo per regolarità. Comunque io vado.

Elmetto spinge via le carte - vado - e guarda verso Baffo Bianco.

Non basta.

Il camionista raddoppia senza sorridere, gelido come un orso bianco.

Il tizio rabbrividisce e muove ancora il sederone come una baiadera a una settimana dalla

pensione. Fa scivolare un'altra fiches pensando che in tutto sul tavolo ci sono due cartoni.

Colore, dice Baffo.

Il piazzista rovescia la mano mostrando un bel full, inutile ma eroico come un milite

ignoto.

Baffo tira su le quatto fiches e indica Gigio.

Adesso sono desiderato, grazie della bella partita.

Consegna i dischi colorati a Lino - Mettili sul conto - e abbandona il tavolo.

Eh no, che cazzo, voglio la rivincita.

Il piazzista è uno che non sa perdere, ha la faccia rossa e sudata e si è alzato mezzo dalla

sedia come volesse placcare Baffo al passaggio.

Il signore qui mi vuole, capito?

Baffo ostenta una pazienza un po' sforzata mentre gli altri due giocatori aggrottano le

sopracciglia come anziane dame turbate da uno spettacolo indecente.

Un'altra mano, me la devi.

Il coso insiste. Inaudito e penoso.

Io non ti devo nulla, vedi? Domani alle tre sono ancora qui.

Ma io domani non ci sono!

Cavoli tuoi, verrebbe da dire, ma il camionista non lo dice. Si stringe leggermente nelle

spalle e scivola fuori dalla stanzetta seguito a ruota da Elmetto e Filo.

Il tipo stringe tanto forte i braccioli che le nocche gli diventano bianche. Solleva la testa e

incontra lo sguardo di Lino che esprime un disgusto profondo, a un pelo dal diventare

aggressione.

Molla i braccioli e si alza.

La prossima settimana?

Filo si gira.

Martedì o mercoledì, concede.

Ci sarò.

Ebbravo.

Per cosa mi volevi?

Gigio si scusa.

Figurati, quello è talmente scemo che i soldi in tasca a lui soffrono. Cosa bevi?

Un caffè.

Un caffè e un cynar.

Lino, tornato al suo ponte di comando serve quattro dita di liquore e un caffè tanto

ristretto che si potrebbe bere in un ditale.

Bevono.

Mi serve il tuo camion. Guidato da te. E un carico di lastre e tondini, di quelli che

porti per l'Eurobuilding.

Baffo bianco tace e si accarezza un orecchio. Gli mancano almeno venti centimetri per

pareggiare la statura di Gigio, ma il carisma è una dote che non si misura in centimetri. Ha

sopracciglia sale e pepe tanto cospicue da sembrare basette, che insieme alle rughe gli

permettono di dosare le occhiate come un liquore a novanta gradi.

Il suo sguardo. acuto come una lancetta dei minuti, prende di mira le lentiggini di Gigio.

Non a fottere. Io a quel gioco non ci sto.

Mi servono in prestito per una notte, diciamo domenica prossima, che così la

faccenda viene fuori il lunedì, ma il martedì La Notizia la spara di nuovo in prima pagina

come fosse nuova.

Ma che ci devi fare mai col mio camion e tutto il resto?

Con te, il tuo camion e tutto il resto.

D'accordo, con me...

Per il momento non te lo posso dire.

Cazzo, Gigio, proprio domenica ventura. Avevo promesso al bambino...

Portalo, vedrai che si diverte.

Davvero?

Giuro, si divertirà come non si è mai divertito in vita sua.

Ma gli faccio fare la notte in bianco, povera creatura?

Fallo dormire prima. Gli avevi promesso di portarlo da qualche parte?

Eggià. Ogni due domeniche lo vedo, vuoi che lo porti qui a giocare?

Beh, digli che si divertirà di più. I bambini si eccitano all'idea di un'avventura

notturna.

Gigio mi devo fidare?

Fidati.

Gigio, sua madre, quella buona donna, mi mette in croce se gli succede qualcosa.

Tranquillo. Vi aspetto alle dieci di sera alla Mativa. Prima portalo in pizzeria.

Buona idea.

Evening in the park.

Di colpo i giorni prima tranquilli, sospesi, assorti di Gigio e degli altri sono diventati

concitati, rapidi, essenziali.

Pino è passato dalle trenta alle cinquanta sigarette al giorno e si addormenta e fa il

bagno con un mozzicone appeso alle labbra come Humphrey Bogart. Enrico ha rinunciato

alle parole incrociate: si limita a qualche schema facile facile da consumare in bagno come

un peccato solitario, non risparmiando parole sferzanti all'indirizzo dell'autore asino e

impreciso.

Nena, la signora Hanan e Ester - ovvero la parte femminile della comunità - sono

altrettanto impegnate, sia pure con qualche perplessità di Ester. Persino Armando si agita,

cerca, telefona, si sbatte come uno che si gioca la carriera.

Per la vernice argento siamo a posto.

Bene.

Mio cognato ce ne ha trovato un fusto da cinquanta litri, solo...

Solo?

Enrico si gratta l'occipite e inghiotte.

Non gli arriva fino a sabato pomeriggio.

Cazzo, no!

Eh, dovremo passare anche la notte di sabato svegli.

Già, così domenica siamo tutti stracci. Non riesce prima?

No, pensa proprio di no.

Gigio sbuffa. Si sente come uno che sta preparando una spedizione al Polo e deve ricordarsi

di tantissime cose, fondamentalmente troppe.

Riguarda per la centesima volta l'elenco:

1.Tela cerata: fratelli Ju.

2.Senape: all'Up & Down ingrosso con la tessera di Lino.

3.Compressore: ne ha uno Biagio, il ferramenta. Chiederglielo.

4.Gas: dovrebbe trovarsi da un amico di Baffo bianco che trasporta bombole

semivuote.

5.Corde: si comprano.

L'elenco continua per altre trenta righe o giù di lì ma leggerle tutte è inutile, ha imparato a

memoria oggetti e prestatori. Il problema è sincronizzare gli arrivi e passare ore al telefono

del bar di Lino.

E poi c'è il punto 22, Luci, con un punto interrogativo vicino.

Lì nessuno sa come fare o dove trovarle, ma senza adeguata illuminazione tutto il loro

apparato non serve a nulla.

Gigio ha pensato e ripensato a fatti, eventi e persone conosciute in trenta e più anni di vita

ma niente: riflettori da teatro e gente che li sappia usare non ne ha incontrata.

Vado a fare un giro.

Quando la pressione si fa eccessiva fa così, si infila il suo inseparabile giubbotto da aviatore

e va a guardare un po' di alberi sul fiume sperando che gli venga un'ispirazione.

Vengo anch'io.

La candidata è Nena, cioè l'unica persona che in questo momento può sopportare.

Ti aspetto.

Lei si mette un montgomery chiaro che ne fa una specie di studentessa e lo raggiunge di

corsa al cancello.

Si va?

Nena con le scarpe basse, il montgomery e spettinata è bella e rapida come una rondine.

Non è il momento, è ovvio, ma la stringe e la bacia lo stesso. Camminano fino alla fermata

del 66 senza parlarsi. Salgono.

Andiamo al fiume?

Sì, a Villa Gobbi.

Bel posto. E che facciamo?

Passeggiamo.

Per me va bene.

Mentre l'autobus li sbatacchia ben benino rotolando sul pavé pieno di buchi e rattoppi

Gigio non pensa alle luci ma a Nena e a lui.

Si fosse in una situazione normale la potrebbe portare a prendere un tè in qualche posto

tiepido e costoso, poi in pizzeria, anzi no, al ristorante, poi al cinema e infine a casa a far

l'amore. Il cielo grigio ma non freddo, l'aria ancora pulita dal vento, la gente che pare più

leggera, forse perché si comincia ad annusare la primavera, lo rendono malinconico, quasi

triste.

A cosa pensi?

Così, che sto bene. Sto bene qui con te.

Nena non risponde, guarda fuori dal finestrino ma sorride.

Scendono davanti a una discoteca - Blue Way - chiusa e addormentata. Tagliano per una

viuzza all'ombra di un vecchio palazzo e arrivano alle colonne color cappuccino chiaro che

affiancano il cancello della villa.

C'è pochissima gente a girare per il grande viale delimitato dai platani centenari con la

corteccia crema e torroncino. Qualche bambino molto piccolo con il nonno e due o tre

ragazzi che se ne stanno seduti sullo schienale della panchina, scomodi ma trasgressivi.

Ridacchiano e parlano a voce troppo alta per mascherare un principio di noia.

Gigio e Nena camminano piano sulla ghiaietta come se non volessero spostarla,

scivolano a fianco del padiglione dell'acquario e arrivano al laghetto. I cigni non si vedono,

ci sono solo anatre, stranamente silenziose.

C'è il problema delle luci.

É Nena a dirlo mentre guarda una coppia - paperino e paperina - che attraversa rapida lo

specchio d'acqua.

Già, infatti.

A me è venuta in mente una cosa.

...?

Conoscevo un tizio, una volta. Uno che si occupava di cinema.

Di cinema...

Sì. Uno che faceva video e cazzate del genere per le scuole. Ho ancora il suo numero.

Uno bravo, un po' strano ma bravo.

Cazzo, Nena, siamo a posto.

Lei tentenna.

Ci siamo lasciati un po' male. L'ho mollato io.

Per imbarcarti il coso.

Già, per imbarcarmi il coso.

Non sorride più.

Per un po' mi sono sentita come quell'anatra lì. A testa alta con un uomo giusto

vicino.

...

Ma non era giusto, per niente. Però mi piaceva, cazzo se mi piaceva. E perché? Boh.

Forse perché mi sembrava che potesse fare e diventare quello che voleva se solo avesse

allungato una mano o aperto bocca. E mi sembrava che da lì a poco sarebbe venuto fuori

quello che valeva. Se non succedeva la colpa era del mondo del cazzo in cui viviamo e un

po' anche mia che stavo attaccata alle sue ali. Sì, ali, perché diceva di averle, me l'ha detto

la sera che ci siamo conosciuti. Ali per volare lontano, via da questo mondo, ali per

attraversare i continenti e guardare la terra, i posti e la gente e vederli lontani, piccoli -

quello che valgono davvero - diceva.

L'ho già sentita questa storia. Si è solo letto il Gabbiano Jonathan Livingstone, il

pirla.

Lo so, l'ho letto anch'io. Tutte cazzate. Ma lui mi sembrava uno che ce la poteva fare,

uno diverso dagli altri.

Un'anatra si avvicina fino al bordo di pietra del laghetto e si mette a guardare Nena

voltando un po' la testa, come una vicina impicciona che cerchi di carpire dei brani di

conversazione.

Hanno gli occhi di lato. Ti sta fissando.

Oddio, cosa gli dò?

Gigio estrae da una tasca una confezione di crackers e glieli passa. Nena ride.

Sembri Eta Beta

Sono Eta Beta.

Dopo un minuto le anatre vicino a Nena sono diventate almeno una decina. Fanno le corse

per rubarsi i pezzetti di crackers anche se alle volte sono precedute dai pesci che fanno la

loro parte.

Che belli che sono.

Nena ride. Sembra una bambina, una bambina davvero - pensa Gigio - non una che fa finta

per strappare un po' di considerazione. L'idea del tè, della pizza eccetera è diventata un

imperativo. Peccato che per l'amore ci sia solo il letto a una piazza e mezzo della fabbrica e

che la loro privacy sia una cortesia degli altri.

Alle volte si finisce per sposare una speranza, sai Gigio?

Nena ha finito i crackers e si è alzata in piedi.

Perché alle volte si baratta l'oggi normale con un domani che magari sarà

superlativo. E poi a ripensarci, a ricordare, è solo l'oggi normale a renderti felice. Ma siamo

miopi, giusto? O forse presbiti o come si dice, insomma, vediamo solo lontanissimo. E

male. Magari è questo anche il trip che ha preso lui.

Gigio si stringe nelle spalle. Si sente intensamente inadeguato, quasi quasi ha voglia di

scappare perché Nena così non l'ha mai vista.

D'altro canto tutto quello che riguarda lei gli interessa e quindi non può che stare lì

impalato nel suo giubbotto aviatorio come un Saint Exupery abbattuto. Non pensa che il

tizio meriti tante riflessioni, ma le merita Nena e quindi fa andare le meningi cercando

qualcosa di intelligente da dire.

Lui si bastava da solo, Nena.

Vero. Me ne sono accorta in ritardo. Vuoi che torniamo in fabbrica?

É il momento. Gigio stringe i pugni in tasca e parla d'un fiato.

Verresticommeinpizzeriaepoiaprendereunté?

Eh?

Scusa, hai voglia di andare a farti un tè e poi andare a mangiare un boccone

insieme?

E gli altri?

Sono grandi, per un po' possono arrangiarsi.

Nena lo prende sottobraccio.

Come due normali?

Sì, come due normali, per una volta.

Va bene.

La decima Musa

Per telefono il cinemista sembra gentile ma un po' vago.

Non ho mai visto una fabbrica occupata.

E poi:

Vengo oggi a fare due foto, va bene?

Deve abitare vicino perché dopo tre minuti un giraffone con i capelli crespi come un

négher e un sorriso ingenuo da calciatore brasiliano compare davanti al cancello, armato

di una macchina foto da paparazzo anni '50.

Nessuno se ne accorge. Giusto Ester che era andata a fare un pisolino nei dintorni apre un

occhio e lo vede.

Mi-gnau.

Dante Occhipinti in arte Occhipinti scruta il soggetto/micia attraverso l'obiettivo. Con un

occhio aperto tutto e l'altro solo mezzo assomiglia a Marlene Dietrich che luma il professor

Unrat.

Occhipinti le fa un paio di foto in bianco e nero. Ester decide che dev'essere un bravo

umano e gli dà una spintarella contro il fondo dei pantaloni. Altra foto con tutta micia -

meno coda fuori campo - e grande piede in scarpa da ginnastica Superga + fondo del jeans.

Punta la fabbrica e ne scatta altre due. Che sia occupata si capisce giusto dalla striscione

rosso, ultimamente un po' seduto, e dall'assenza di auto nel parcheggino. C'è il portone

chiuso e nessun movimento. Sembra brutto appendersi al cancello e urlare, così il titolare e

unico socio della Mirafilm comincia a compiere gesti misurati per farsi notare.

Ester si siede e lo guarda. Apre bene tutti e due gli occhi e sembra debba tirare fuori

da un momento all'altro un taccuino per prendere appunti su Occhipinti, che sembra uno

di quei tizi che parcheggiano i caccia sulle portaerei, ma più lento.

Finalmente qualcuno l'ha notato.

Un tizio basso, vestito di scuro e con una sigaretta mezza spenta all'angolo della bocca

percorre i cinque metri che separano portone da cancello.

Tòrnatene in Questura.

Il cinemista non capisce e fa la faccia divertita.

Fuori dalle balle, capito?

Sono Dante Occhipinti della Mirafilm.

Tira fuori un cartoncino violetto stampato storto e lo affida a Pino.

Ho parlato con Basilio Bertinelli per telefono. É lei?

No.

Sembra voglia dire: "Ma non lo vedi da te?"

C'è?

Adesso lo chiamo.

Si allontana senza perderlo di vista, tallonato da Ester diretta al suo piattino di Deli-cat

gusto palombo e scampi.

Buondì.

Basilio Bertarelli?

Berardelli. Sì sono io.

Io sono Dante Occhipinti della Mirafilm.

Bene, vieni dentro che parliamo.

Posso fare due foto poi?

Prima parliamo, va bene?

Certo.

Gigio saluta Dante, cioè Occhipinti e scrive Mirafilm accanto a Luci nella sua famosa

lista.

Pare che verranno in cinque o sei, una vera troupe, sicuramente una pattuglia di individui

assurdi come il titolare della "Casa di produzione", come sta scritto sul cartoncino viola.

Si sono anche incrociati con Nena ma lui l'ha salutata con un sorrisone, come si fossero

visti la sera prima. L'unico problema è la tendenza dell'Occhipinti a divagare tirando in

ballo film vecchi e nuovissimi, attori, sceneggiatori e doppiatori. Mentre parlavano ha fatto

un paio di giri guardando in alto come un vero regista e Gigio, che è già uno che tende a

divagare e pigliar farfalle per conto suo, ha dovuto faticare per rimanere nel seminato.

Tutto bene con Dante?

Nena sta fumando una delle tre sigarette che si concede all'anno e in veste fumogena

sembra anche più decisa e spiccia del solito.

Bene. Non è più un nome tanto comune il suo.

Occhipinti fa Dante primo nome, Petrarca secondo nome e Boccaccio terzo. Il papà

faceva il professore di Italiano al Liceo.

Ah.

Gigio che di secondo nome fa Edgardo perché papà durante la gravidanza di mamma Ida

aveva letto "La caduta della Casa degli Usher", non si stupisce né si scandalizza. In realtà

Gigio si stupisce raramente e non si scandalizza mai. Alle volte starebbe meglio di salute se

si facesse qualche domanda in meno, questo sì, ma crescendo ha imparato a far finta di

niente davanti a certi perché inviolabili.

Facciamo un film?

La domanda proviene da Armando, quasi ristabilito.

In un certo senso.

Il Maggiore, restituito alle sue condizioni normali, ha telefonato a Luisa che si fermava in

giro fino a lunedì, e, quando non si sbatte al telefono per reperire Vomitor o altri strani

aggeggi, gira per la fabbrica e dintorni con le mani in tasca, fischiettando spettinato. Sta da

Dio, è evidente, e forse il suo problema fondamentale fin dall'inizio era prendersi un po' di

ferie fuori programma. Delle paranoie per le corna di Luisa non ha più parlato né Gigio si è

più sognato di chiedergli qualcosa.

Hai delle foto delle bambine?

Il Maggiore quando gli parlano delle sue piccole diventa friabile come un wafer. Estrae il

portafoglio e sciorina davanti a Nena un piccolo album di Poppi al primo boccone, Lulù al

suo primo budino e di nuovo Poppi con il cavallino meccanico che si spinge da sé, regalo

dei genitori di Luisa.

Nella foto la bambina più che contenta sembra perplessa.

Carine. Non ti mancano?

Armando rinfodera il campionario della sua paternità e sospira.

Tanto.

Anche Nena quasi quasi sospira.

Però dev'essere bello.

Il Maggiore ci pensa su qualche secondo.

Come la guerra, diceva un tale, bella ma scomoda.

Ridono

Finalmente, la controparte

Se piove sono fregati o quasi, diventa tutto più difficile e ci sono meno possibilità

che qualcuno se ne accorga. A febbraio non piove mai troppo ma non è detto e stamattina,

tanto per fare un esempio, piove che Dio la manda.

A colazione si sentono come tanti scienziati della NASA con il missile che se piove non

parte.

Enrico non si lamenta della marmellata e Pino non parla dei caffè che fanno i suoi.

Mangiano ingrugnati senza sentire sapori, che a dargli una colazione da albergo svizzero o

miglio per canarini non cambierebbe nulla.

Vai al sindacato anche oggi Enrico?

Chiede Nena.

Si fotta, il sindacato.

Anche Armando nonostante il suo umore da convertito di fresco se ne sta rigorosamente

zitto e ogni tanto guarda verso le finestre o aguzza le orecchie per sentire se lo scroscio ha

smesso

Pino finisce il caffè e si alza.

Vado a comprare il giornale e a salutare Immacolata.

La frase va così letta ma pronunciata da un Pino di cattivo umore fa: "d'compra'ggiornhe ea

slutarre M'clata"

Annuiscono in coro come scolaretti. Pino che esce. Dieci secondi e rientra.

C'è uno al cancello.

Cosa sembra?

Direi il padrone.

Gigio si alza.

Armando sparisci. Anche lei signora Hanan. Nena vai a farlo entrare. Togliete le

tazze, nervi a posto e non una parola di troppo.

Quando il padrone in loden, camicia gialla e cravatta di seta grigia fa la sua comparsa in

sala mensa si trova davanti a Gigio, Enrico e Pino disposti a semicerchio come per un

pestaggio.

Buongiorno.

Buongiorno signor Mandelli dice Gigio a nome di tutti.

Non c'è nessuno seduto e quindi anche il piccolo industriale sta in piedi.

Volevo vedervi, in particolare voi, senza il sindacato.

Sorride come uno che sta per dichiarare il suo amore.

Spero non vi dispiaccia.

No. Basta che ci dica: qui ci sono gli arretrati, da domani si riparte a far questo e

quello. É così?

Mandelli guarda Gigio grattandosi sotto il mento.

Non farò più giocattoli, troppi pochi bambini.

Si possono fare giocattoli per grandi, oggettistica erotica.

Enrico non lo dice per scherzo, guarda il padrone come volesse sfidarlo.

Fanno in Asia anche quelli, dovrei darvi centomila al mese per tenere quei prezzi.

Si guardano: un pentagono di sguardi abbastanza drammatico. Mandelli fa il suo mestiere

- né più né meno - e lo sanno anche i sassi che tutto quello che si può fare qui lo fanno

anche laggiù e per quattro soldi.

Ci vorrebbe un'idea, una levata di genio italico da allocchire l'Est e l'Ovest. Ma ci

vorrebbero soldi, bisognerebbe spendere, magari pagare qualcuno per farsi venire l'idea in

questione, acquistare altre macchine e ricominciare e Mandelli non ci sente da

quell'orecchio.

Non ha idee, boss, qualcosa di un po' nuovo?

É meglio se sono sincero. I soldi li sto portando fuori Italia e qualcosa da fare lo

trovo di sicuro. Per me questa fabbrica è morta. Non si faranno più Pippette né altre

cazzate del genere. Per voi quattro c'è un assegno da cento milioni a cranio se togliete il

disturbo. Si possono fare tante cose con cento milioni, vero? In cambio di una firma sulla

lettera di dimissioni. Ci sono dentro arretrati, liquidazione e buonuscita. Tasse niente

perché dichiaro di avervi dato meno della metà di così.

Li guarda uno a uno.

Anche solo a investirli bene ci tirate fuori abbastanza da vivere modestamente senza

più fare un cacchio o quasi.

Se ha le nostre lettere firmate poi firmano tutti, vero Signor Mandelli?

Infatti. E con gli altri me la cavo con meno. Ma voi siete quelli che avete sudato

anche per loro e quindi mi pare giusto così.

Gigio fissa ipnotizzato i bottoni del loden foderati di pelle chiara. Sono piccoli, lucidi, divisi

in quattro come pagnottine e del pane hanno anche il colore.

Lo aspettava, questo momento, perché il padrone è uno che può scucire quattrocento

cartoni per quattro fessi come loro - e forse anche di più a tirare sul prezzo - avendo già un

tot di miliardi in Svizzera. Non c'è partita, praticamente.

I miei avvocati mi hanno sconsigliato da fare questo passo. Tempo due mesi e si

accontentano di niente per andarsene, ma a me sembrava più giusto risolvere tra noi,

velocemente.

Nessuno risponde. Si evita persino di incrociare lo sguardo degli altri quando c'è di mezzo

qualcosa di poco pulito.

Gigio ha calcolato che in tutta la sua vita lavorativa non arriverà mai a mettere

insieme un miliardo. Con cento milioni può persino sposare Nena o comunque andare a

vivere con lei senza troppi assilli né preoccupazioni almeno per un po'. Come dire che per

due anni possono andare tutti i giorni a passeggiare a Villa Gobbi, poi il tè, la pizza -

pardon il ristorante - e poi a casa a far l'amore.

La guarda. Se lei ha una certa faccia Gigio dirà di sì e la storia sarà chiusa, velocemente.

Ma Nena non ha la faccia giusta. Tiene le labbra strette e non guarda il padrone. Se

pensa qualcosa non è ai cento milioni. Forse al fatto che Mandelli ha definito cazzate le

Pippette o al marito che, appresa la notizia, tornerebbe a casa giusto per mangiarsi i dané

con le sue famose ali da cherubino tossico.

Io preferisco vivere male ma vivere del mio, signor Mandelli. I soldi che ha

guadagnato qui sono anche un po' nostri come è un po' nostra anche la fabbrica. Ci ha mai

pensato? Nessuno l'ha autorizzata a portarli in Svizzera.

Liscio, pulito, tanto vero che pare di sentire un coro celeste che gli canta dietro. Enrico

l'inopinato, il babbuino, l'orango, il maniaco, che forse è stato al mondo fino adesso solo

per bruciarsi cento milioni e magari di più in dieci secondi, come un Mandelli qualunque a

Montecarlo.

Mefisto si fa piccolo. Se non funzionano i soldi cazzo fare?

Armeggia dentro il loden ma non tira fuori niente.

Poi dicono che la lira va giù. Ma se è pieno di Mandelli che portano marchi in

Svizzera per investire in Malesia...

Corea, in Corea.

Il Boss non ha idea del motivo per cui ha perso tempo a correggere Enrico. Forse perché la

storia della discussione franca e amichevole se l'è bevuta lui per primo.

Va bene, Corea. E intanto qui in Italia quarantaquattro pifferi si arrangino, tanto chi

se ne fotte mai?

Per il momento non ci va bene, direi.

Gigio si mostra affabile ma fermo. C'è sempre nei romanzi di Dickens quello che butta fuori

il reprobo confuso e tremante affettando noncuranza.

Probabilmente da qui a mezz'ora si sentiranno tutti male da cani solo all'idea di aver

buttato fuori Mandelli e i suoi quattrocento cartoni, ma per il momento l'ebbrezza da

romanzo prevale e così tutto va come deve andare.

Per una settimana l'offerta è ancora valida.

Come prevedibile il Tentatore non disarma subito.

Poi dovrò prendere altri provvedimenti. La fabbrica mi serve e in fretta.

Virtualmente si morde le labbra. Adesso che i quattro bastardi sanno alzeranno la parcella.

Pazienza, quindici miliardi gli hanno offerto per terreno e capannone.

Da qui a una settimana possono succedere tante cose.

Saluta pallido nella luce al neon e infila la porta con la sensazione che sia più grande di

quando è entrato.

Stranamente anche Gigio e gli altri hanno la stessa sensazione.

Gigio ha sempre avuto un ritegno, una soggezione tutta particolare per gli uomini

che sanno il fatto loro. Da suo padre fino al padrone: uomini che hanno pochi grilli per la

testa, che sanno, fanno, decidono, ridono, danno di gomito e sanno schiacciare un solo

occhio senza cambiare espressione. Quei maschi, per intenderci, che Armando vorrebbe

tanto impersonare senza mai riuscirci del tutto.

Ma non è tanto questione di sapere il fatto proprio, no, è che ci sono due modi di

mostrarlo, uno da scansati ragazzino lasciami lavorare e l'altro no. Gigio si sente da sempre

uno che si deve scansare e l'epifania del padrone con i suoi assegni e i suoi miliardi oltre

Lugano gli hanno improvvisamente ricordato l'esistenza di queste categorie maschili e la

sua irrimediabile appartenenza alla classe dei superflui, all'indistinto mondo di quelli che

devono fare da pubblico e farsi più in là, di quelli che hanno il diritto di tacere e portare

rispetto, non ingombrare, non intralciare i veri uomini in azione.

Loro quattro perdigiorno come tanti ragazzini si sono concessi il lusso stravagante di

sgonfiare le gomme a un adulto, come se nel mondo non fossero gli altri a decidere, a

scegliere, a tenere in mano tutto.

Loro, quelli che si sentono pubblicità viventi di un whisky o di un deodorante, quelli che

non devono chiedere, che hanno sempre fretta, quelli che il mondo lo accettano solo

quando gli somiglia, altrimenti non capiscono un ette e allora fanno la faccia incazzata da

Giove Pluvio contraddetto e ti guardano come un barile di letame, sempre che ti guardino.

Ma Mandelli junior in fatto di pelo sullo stomaco è un dilettante: è un cinico, questo

sì, un furbetto, ma niente a che vedere col padre. Papà Mandelli si vestiva da

metalmeccanico e andava a lavorare anche la domenica mattina, non parlava mai e se

interrogato ringhiava. Era ignorante come un operaio e non andava nemmeno a messa per

non perdere tempo. Di questo figlio fighettone con cravatte e pantaloni in tinta non si

fidava e adesso dall'altro mondo starà sacramentando, a bassa voce perché non si devono

scandalizzare i bambini.

Papà Mandelli nella sua malcreanza aveva inventato giochi semplici ma potenti, aveva

smerciato palline mezze colorate e mezze trasparenti con dentro la miniatura del grande

ciclista, aveva inventato i secchielli a forma di torre, torrione, barbacane, bastione e

minareto, aveva venduto soldatini alti come l'unghia del pollice ma tantissimi per pochi

soldi, perché tanto i bambini ci vedono bene e sono conquistati dal numero, aveva

costruito autoarticolati, aviogetti, elicotteri, astronavi, missili con l'elastico, boomerang,

pezzi di go-kart, case per le bambole, borsette per bambine e cestini da merenda. Le sue

creazioni invadevano le estati del Boom come i coni da cinquanta e le canzoni di Fred

Bongusto con un semplice formula: prezzi bassi e grossisti giusti, di quelli che arrivano a

piazzare roba anche nello spaccio del rifugio di montagna.

L'Italia delle pubblicità di Viarisio e Zoppelli era piena di Papà Mandelli, che non

sapevano di preciso neppure il nome dei figli, diffidavano fino alla paranoia di comunisti e

degli intellettuali che li fiancheggiavano, lavoravano anche più dei loro dipendenti,

viaggiavano a testa bassa con i conti della fabbrica sempre in testa e se necessario

avrebbero rubato o ucciso pur di salvare l'Impresa.

I vari figli di Mandelli invece si sentono perdonati dalla TV per la loro ricchezza e

anche se non dicono spesso miliardi o milioni, parlano di obbligazioni, joint-venture,

franchising, quote e redditività con un compiacimento che si sforza di sembrare disinvolto

ma che ha qualcosa di contorto, sforzato, come se temessero da un momento all'altro

l'arrivo di una sberla.

Quando - sei anni prima - Mandelli Junior aveva rilevato la fabbrica a lavorarci

erano in duecentododici, adesso sono rimasti quarantaquattro e come nei film di ambiente

coloniale - con la legione straniera in chepì col fazzoletto sulla nuca - aspettano, pochi e

inquieti, l'ultimo assalto del nemico barbaro e fanatico.

Sapere è potere

GRANDE ENCICLOPEDIA DEL SOPRANNATURALE E DEL MISTERO.

Quattro volumotti formato foglio di carta da lettera, rilegati in finta pelle nera con

eleganti bordure similoro e faccina di alieno o forse di fantasma sovrimpressa - sempre in

similoro - sulla costa. Il tutto in vendita a dispense in edicola, Bertuzzo editore.

Enrico gli ha portato il malloppo, prestito di un amico, e glielo ha scaricato davanti.

Magari ci dà qualche idea.

Gigio dubita ma si dispone serenamente a considerare l'opera.

Leggiucchia un po' di presentazione, curata dal professor Centrini dell'Università di

Tacoma, e stabilisce che andrebbe bene quasi per qualunque cosa, da un manuale sulla

pesca a un romanzo di cappa e spada.

...E la vita stessa non è forse mistero insondabile, imprevedibile gioco?...Conclude Mister

Centrini buttandola sulla filosofia da telequiz.

Gigio mormora: Certo, e gira le pagine distrattamente.

Sotto la B c'è una certa Madame Blavatsky che si svegliava in piena notte parlando lingue

sconosciute e che in sogno è stata pure su Marte. Dopo un po' ci sono i coniugi Albert e

Rose Butor, rapiti da alieni con la testa a forma di thermos - ma forse era il casco - e

restituiti alla famiglia più giovani di dieci anni per via della relatività einsteiniana. Seguono

storie e foto di ectoplasmi sputati dalla bocca di medium in trance, torri maledette, palazzi

diroccati, mostri sottomarini, astronomi pazzi, un certo Swedemborg, matto anche più

della media, l'incrociatore stellare di Tungushka in Siberia e in chiusura un certo Oskar

Zumdahl che nel 1932 aveva inventato un calcolatore ottico ma poi era stato chiuso in un

campo di concentramento mentre il suo geniale marchingegno era stato sequestrato dai

nazisti, che, non capendoci nulla, l'avevano protocollato e sepolto in un magazzino.

Siccome un bombardamento aveva semidistrutto il fabbricato, nelle mani degli alleati

erano arrivati due specchietti e poco più, ma a quanto pare abbastanza perché certo

professor Shellingcamp dell'università di New Mexico ne dicesse meraviglie.

In quanto al povero Zumdahl, genio sì, ma si sospetta omosessuale o comunista, era

sparito nel campo portandosi dietro il mistero del suo numeratore ottico.

Bella storia. Gigio chiude il quarto volume un po' frastornato, con la netta

sensazione di aver idealmente mangiato una porzione eccessiva di insalata capricciosa. Di

leggere integralmente quella collezione zoppa e delirante di misteri e assurdità non se ne

parla nemmeno. Solo gli viene da sorridere a pensare che se tutto va bene nella prossima

edizione ci saranno anche loro, anche se non sa ancora se sotto la M di Mativa o sotto la U

di Ufo.

Ma anche Luisa ha le sue ragioni.

Ci sono momenti, secondi che durano un'eternità, nei quali si vorrebbe

intensamente essere altrove. Magari anche ad annoiarsi con un tizio scemo o magari a

dormire o a far straordinari, qualsiasi cosa, insomma, meno che trovarsi all'improvviso

davanti a Luisa mentre si beve un caffè al bar di Lino.

Eppure è lì, sbimbata - vale a dire senza bimbe - i capelli malpettinati e raccolti da una

fascia, con il cappotto cammello che le ingrossa i fianchi e le scarpette scollate che fanno

freddo solo a guardarle i piedi.

Mentre circospetta e visibilmente disgustata attraversa il fumo del locale - fumo di

sigarette e di toast bruciacchiati - Gigio ricapitola affannosamente gli eventi degli ultimi

giorni e come James Bond si prepara all'inevitabile tortura.

Ciao.

Ciao, come mai da queste parti?

Attacco pessimo. Gigio non ha mai detto e nessuno "come mai da queste parti", frase

insultante che sottintende: Che cavolo sei venuta a fare qui?

Cerco Armando.

Due possibilità: prendere l'espressione dello scemo che nulla sa oppure stare sul

vaghissimo cercando di sondarla.

Luisa ha una faccia da tempesta e se c'è una al mondo con la quale i bluff non riescono è

proprio lei. Gigio scarta la possibilità di fare il furbo e girando il cucchiaino nella tazza

ormai vuota dichiara:

Non lo vedo da un po'. Che ne è stato?

Luisa non si accorge che il cognato sta rimestando un caffè finito e si siede davanti a lui.

Stai bene Basilio?

Sorprendente. Luisa l'ha chiamato Basilio il giorno che l'ha conosciuto poi è sempre stato

Gigio, anzi Giiiiigio, con una i prolungata che sa di pazienza in riserva.

Abbastanza e tu?

Si passa una mano sul viso senza trucco e comincia a tormentare il fermatovaglia della

cerata.

Non troppo. La ditta l'ha cercato. Ho saputo che in questi giorni è in permesso. A me

ha detto che era in Veneto per lavoro.

Ah.

Finora non ho detto nulla a nessuno. Ma sono sicura, quel bastardo mi mette le

corna. Ha detto che rientrerà lunedì e io lunedì gli faccio trovare la valigia sullo zerbino. E

cambio la serratura della porta. Vada un po' a vivere con quella là.

Beh, ma sei così sicura?

Tu cosa penseresti al posto mio?

Gigio non ha idea di cosa penserebbe, probabilmente male come Luisa. Se anche le

raccontasse tutta ma proprio tutta la storia di Armando e delle sue gelosie difficilmente lei

la prenderebbe per buona. Conosce Luisa, ben che vada gli direbbe: ha preso per i fondelli

anche te, scemo che sei.

Mi rendo conto che...

Ha preso su i pigiami più belli, il maiale. Deve averglielo promesso per mesi: una di

queste volte mi prendo un po' di giorni e andiamo a farci nove settimane e mezzo da

qualche parte. E poi nicchia se dico che alla bambina bisogna comprare un cappotto nuovo.

"No, per quest'anno va ancora bene." E intanto va a buttare i soldi dalla finestra con

un'altra.

Ma non credo che spenderà molto...

Gigio vorrebbe nascondersi sotto la cerata o tuffarsi nel portaombrelli per quella frase

sciagurata, ma Luisa non lo sta nemmeno a sentire, occupata com'è a edificare il suo muro

di recriminazioni, e malanimi.

... Ma tanto gli alimenti per me e le bambine li deve tirare fuori, vuol dire che

lavorerà anche di notte, invece che fare il Tinto Brass. Porco bastardo, e fa pure il sostenuto

per telefono. "Sto fuori ancora tre giorni, tanto a te non dispiace." E per chi mi prende?

Non sono né sua madre né sua sorella. E a me che non mi guarda due volte neppure in

camera da letto... Ma è ovvio, pensa a quella suina in reggicalze.

Si potrebbe dire che c'è un grosso equivoco e Gigio vorrebbe tanto dirlo ma non sa

proprio da dove cominciare. Luisa è una che quando dice stupido è arrivata praticamente a

fine corsa del suo turpiloquio. Suina in reggicalze è veramente drammatico, è come dire

che è andata fuori scala, si è starata come una bilancia sovraccarica e può essere capace di

tutto, compreso sgozzare il Maggiore con un coltellaccio da cucina o percuoterlo con un

batticarne. Urge fare qualcosa.

Ma Armando dice...

Cosa dice quella bestia? Cosa dice? Lo sai quanto tempo mi dedica? Tre minuti al

giorno quando va bene. Ciao Luisa quando esce, ciao quando rientra, è un po' freddo, è un

po' salato, è un po' duro, è troppo cotto. E a letto è meglio non parlarne proprio.

Luisa esplicita, Luisa delusa, Luisa che soffre e si incazza.

Gigio si guarda intorno perché il mondo non dev'essere più lo stesso. Eppure la

cazzata c'è ed è tanto sua quanto di Armando. La gelida perfetta Luisa non è né gelida né

perfetta, sembrava solo così, si schermava, si nascondeva.

... e le bambine, che sono sempre sola perché mia madre è un'incapace e la vostra le

vizia da far schifo...

Vero, pensa Gigio.

... sempre stanco per il lavoro, bestia che sono, altro che lavoro. Ma è chiaro che si

spompa e poi non gli tira più niente, né il cervello né il resto. Voglio un caffè.

Gigio ci mette un attimo ad afferrare, poi solleva un dito verso Lino che ha vigilato la scena

a distanza. Tempo tre secondi e un caffè profumato e una volta tanto buono atterra davanti

a Luisa.

Anche una brioche, grazie.

Lino parte mentre Luisa spiega.

Ieri non ho mangiato. E ho anche picchiato le bambine.

La brioche arriva, fatta in pasticceria e non nel forno a microonde del bar. Viene giustiziata

in sette secondi e quattro morsi. Il caffè bevuto d'un fiato.

Faccio male, Gigio? Tu sei migliore di tuo fratello, di te mi fido.

Fossi in te aspetterei. Forse una discussione franca e aperta...

Lo apro io, quel porco, aspetta che torni a casa...

Un piccolo passo avanti si è fatto, se non altro la valigia è tornata nell'armadio e la

serratura è ancora la stessa.

Forse Luisa voleva giusto sfogarsi prima di esplodere.

Senti, mi rendo conto che tutti gli indizi sono contro di lui.

Gigio si sente Perry Mason a usare una frase come quella e l'idea gli piace, forse anche

Luisa preferisce così.

Ma se Armando ama una donna quella sei tu. Ma no, ti giuro. E poi lo sai com'è

fatto, se avesse una storia con un'altra si sarebbe tradito molto prima. Lo sai che non è

capace di fingere, lo sai, no, com'è goffo e infantile?

Luisa è ancora torva ma un angolino della bocca le si solleva di un millimetro.

Questo è vero.

Un semplicione, un ragazzino. Non è il tipo, via, poi almeno a me l'avrebbe detto. Mi

dice tutto.

Meno male che Armando non è presente. Il ritratto che ne sta venendo fuori non è

precisamente lusinghiero, ma Luisa ha bisogno di crederlo innocuo, ingenuo, stupidotto.

So che in questo periodo è veramente stanco, un po' esaurito. Magari ha voluto

rimanere solo per riflettere. Ci sono dei momenti così nella vita di un uomo.

Luisa è profondamente convinta che la vita maschile racchiuda segreti insondabili,

turbamenti indicibili, impeti inafferrabili e annuisce soprappensiero. Il fatto che Armando

sia passato dall'essere Ridolini a reincarnare Ugo Foscolo non la turba minimamente. Gli

uomini sono grandi nelle grandi cose e piccoli nelle piccole, mentre le donne possono

essere grandi solo nelle piccole, che poi sono quelle che contano davvero per campare. Così

la pensa Luisa e non solo lei.

E allora cosa devo fare? Aprirgli le braccia quando arriva e consolarlo? E chi consola

me?

É solo un colpo di coda. Luisa non vuole fare sul serio. Gigio non saprebbe dire se ama

davvero il fratello ma comunque se lo vuole tenere ben stretto. Il suo compito - suo di Gigio

- è di renderglielo di nuovo digeribile.

Dai, magari stasera ti telefona. Magari ti torna indietro un Armando del tutto

diverso.

Per carità.

Luisa si alza. Se non allegra sembra perlomeno sollevata. Si riveste del suo abituale

distacco e si passa una mano nei capelli.

Devo essere orribile. Adesso devo andare a prendere le bambine. Ci vediamo.

Non gli chiede nulla della fabbrica né tantomeno se e quando tornerà a casa. Ma Gigio non

si offende, la conosce bene. La saluta stampandole un grosso bacio sulla guancia e la vede

uscire dal bar, svelta e decisa come il solito.

Ci sono problemi?

Lino sa essere sollecito e discreto come un buon prete o uno psichiatra. É un vero barista,

una razza sempre più rara.

Niente che non si risolva.

Bene.

Ground Control to Mighty Tom.

Non ha l'abitudine di dormire di pomeriggio, Gigio, ma oggi è il Giorno - il D-Day - e

si farà l'alba. Così è meglio farsi una dormitina da metronotte.

Nena non ne ha voluto nemmeno sentir parlare.

Se dormo dopo pranzo mi viene mal di testa. E comunque posso fare la notte sveglia

senza problemi.

Come dire una camionista, razza epica e feroce.

Gigio pisolerebbe ma naturalmente, vista la scarsa abitudine, il sonno non vuole

venire. Si gira e si rigira, volta contro il muro la sveglia con il quadrante giallo, si alza a

bere un bicchier d'acqua, legge tre pagine di "Viaggio al centro della terra", poi un'altra e

un'altra ancora. Arriva fino in fondo al capitolo per ritrovare il povero Axel e si sveglia con

lui sulle rive dell'oceano ipogeo.

Si alza per mettere il libro fuori portata e si siede a braccia conserte nel letto come

faceva il bisnonno. Gli manca giusto il sigaro e la berretta lunga bianca con il pompon in

fondo. E a parlare di sigari ricorda il tipo con i mustacchi che nei film di Stanlio e Ollio

saltava da fermo, strabuzzava gli occhi e portava quasi sempre un camicione bianco e il

berretto. Come si chiamava, Ben Turpin? No, forse no, quello doveva essere un altro

comico.

Non ci siamo. Si tratta di pensare a qualcosa che concili il sonno. A tradimento gli

viene in mente Nena con la sua camicia addosso e nient'altro, per giunta sbottonata. Si alza

come un gatto a cui abbiano pestato la coda e va a farsi un caffè. Pazienza, non dormirà.

In cucina c'è Pino che dorme su una sedia, con la testa nascosta tra le braccia

incrociate sul tavolo.

Niente caffè. Armando ed Enrico stanno facendo una partita a scacchi in sala mensa e

quando entra nemmeno alzano la testa.

Li guarda per un pezzetto, stabilendo che suo fratello, troppo affezionato ai suoi alfieri e ai

suoi pedoni non ha nessuna possibilità di cavarsela con Enrico, che gioca come Tara's

Bulba e mena fendenti per la scacchiera come fosse un tavolo da ping-pong.

Se fumasse, Gigio sarebbe alla trentesima sigaretta. Il tempo rotola lentissimo verso le

sette e mezza, quando è previsto l'arrivo dei fratelli Ju con il pallone di cerata ancora

sgonfio.

Alle sette e venticinque Gigio si alza e va al cancello.

I fratelli Ju arrivano con la 127 Rustica di decima mano e parcheggiano in mezzo

alla strada dopo aver manovrato avanti e indietro senza mai sterzare.

Buongiorrrno.

Il fratello più anziano ha la fronte alta un dito e un'espressione da mafioso. Ma quando

sorride sembra Buddha in persona, muove persino la testa su e giù come un cinesino da

cartoon, ma più lento.

Il fratello più giovane porta jeans attilatissimi e sembra la risposta cantonese a James

Dean. Un ciuffo rigido di capelli gli spiove negli occhi al più piccolo movimento ed è magro

di una magrezza nervosa e famelica, da manichino per pittori.

Tutti e due sfoderano una erre aggressiva, quasi meccanica. Enrico dice che dipende dalla

zona da cui vengono, ma Gigio non può fare a meno di stupirsi che non parlino come il

dottor Fu Manchu, e in fondo in fondo pensa che lo facciano apposta, per inquietare gli

stupidi europei.

Il pallone?

Il più anziano annuisce e sorride. É là. Indica la macchina.

Bene, andiamolo a prendere.

Noi vorremmo...

Si guardano, i due fratelli, un po' imbarazzati.

Sì?

Ecco... Piacerebbe vedere, guardare... tutto.

Gigio ride.

Va bene. Ma è solo uno scherzo, lo sapete?

Noi piacciono gli scherzi.

Il giovane annuisce e spinge indietro i capelli con uno scatto della testa, come un cavallo.

Va bene, venite.

Entro le dieci sono arrivati, tutti. Anche la Mirafilm con Dante Petrarca Boccaccio

Occhipinti che miracolosamente non ha dimenticato nulla e si è portato dietro altri tre tizi,

uno alto, secco come il proprio cadavere e altrettanto pallido, l'altro vestito di una camicia

scozzese rossa e nocciola spessa e pesante, che viene voglia di grattarsi solo a guardarla. Il

terzo non è al momento visibile perché sta tirando fuori da un furgone verdino fatto per

metà di ruggine e con la scritta "Compagnia Artedanza", una batteria di riflettori, specchi,

faretti, cavi e rotaie da film di Spielberg.

Ehilà.

Occhipinti si guarda intorno sorridente come un vero regista.

Ho portato la camera, magari facciamo un piccolo video.

Gigio si stringe nelle spalle.

Attento a chi riprendi.

Dante Petrarca Boccaccio sorride anche di più. Chissà se ha capito, difficile a dirsi.

Dove lo metto il camion?

Baffo Bianco lancia uno sguardo di contenuta diffidenza verso i cineasti mentre suo figlio -

una versione ridotta e senza baffi del padre - sta esplorando l'interno del furgone

Artedanza con la scusa di aiutare.

Nel cortile, adesso ti apro. Hai le lastre?

Baffo Bianco fa un cenno di assenso quasi invisibile.

Ti spacco in due se non la pianti!

Sta parlando con il figlio, ma intanto si sono immobilizzati tutti, cinesi compresi, come

gatti che intuiscono l'arrivo di una pantofola.

Il camion viene parcheggiato nel cortile, dove il pallone d'argento, collegato al

compressore, dorme ancora il sonno del giusto.

Gigio si guarda intorno. Ci sono tutti, no manca Armando.

Eccolo che arriva.

Scusate!

La piccola armata, i legionari senza chepì né fazzoletto candido, si voltano a guardarlo.

Gigio si chiarisce la voce. Ci si vede poco: le uniche luci, per il momento, sono quelle della

mensa della fabbrica, neon smorzati dalla grata fine dei vetri e dallo sporco.

Sarà bene ricapitolare le cose da fare. Giusto perché non capitino casini. La

successione delle operazioni è stata ripetuta fino alla nausea, ma la ridico, non si sa mai.

Innanzi tutto si gonfia il pallone. Poi all'1.35 si accendono tutti i riflettori e Toni, il figlio di

Baf..., del signor Valenti si mette a pestare sulle lastre con un martello, cercando di fare

quanto più casino si può...

Il ragazzino in prima fila annuisce entusiasta: Occhipinti direbbe che la parte è ritagliata su

di lui.

...Le luci illuminano il pallone fermo cinquanta metri sopra il cortile. Le funi che lo

tengono a terra le abbiamo dipinte di nero, come ha suggerito il signor Occhipinti. All'1.37

cominciamo a far scendere il pallone. Si sente un fischio allucinante...

Enrico alza uno spray da stadio formato gigante, protesizzato con un fischietto d'ottone.

...Appunto. All'1.38 il pallone arriva a terra. Un minuto dopo si puntano le luci sulla

fabbrica, sparate al massimo. Mativa illuminata come un albero di natale per due minuti.

All'una e quaranta si spegne tutto. Un minuto per sgonfiare il pallone, caricarlo sul camion

e scomparire. Tre minuti per togliere di mezzo le luci. Entro le 2.00 arriva la polizia, i vigili,

i carabinieri, la finanza, i vigili del fuoco, la protezione civile e la guardia forestale. Sul tetto

della fabbrica trovano una stranissima sostanza - metà senape e metà vomitor - e noialtri

che siamo diventati tutti ciechi per un'ora o giù di lì. Domani notizia sparata sul giornale in

prima pagina. "Alieni sbarcano in fabbrica occupata"

Misteriosa esplosione in una fabbrica occupata, questo è il massimo che possiamo

aspettarci.

Enrico non è troppo convinto e nemmeno lì riesce a stare bravo.

Forse ci danno denaro perché sta zitti.

É stata la signora Hanan a rimbeccare il Santommaso e tutti i presenti approvano.

O magari ci deportano all'Asinara, noi e il nostro segreto.

Non ci si preoccupa di rispondere al reprobo e all'improvviso, senza accorgersene, tutti

alzano la testa verso il cielo, come se Loro dovessero arrivare davvero, e proprio quella

notte.

Sincronizziamo gli orologi.

Il tempo non lo si misura mai come si deve.

Aspettando qualcuno in ritardo o assistendo a un varietà della Domenica

pomeriggio si trasforma in un blocco ferruginoso inerte, un TIR con rimorchio di rottami

metallici che vi transiti a passo d'uomo in cucina durante la cena.

Quando le cose da fare sono troppe e l'orologio scotta a forza di guardarlo, allora il tempo

diventa un jet d'alta quota: una linea di fumo candido già svirgolata dal vento quando

alzate la testa. L'aereo non riesce a vederlo nessuno.

Aspettando l'1.35 alla MATIVA si sperimentano tutti i possibili sentimenti del tempo. Il

pallone adesso non va ancora gonfiato, è presto - poi è troppo tardi per gonfiarlo - cazzo,

così lo vedono e poi arriva la pula. Il bidone della senape e il mastello del Vomitor vanno e

vengono cinque volte dal magazzino. Non è ancora il momento - Ma no, poi non si fa più in

tempo.

Si provano le luci venti volte perché Teseo, il terzo elemento della Banda Mirafilm, è un

emotivo e continua a dire che qualcosa non va nella tensione.

Basta anche un attimo, dice, come uno che si scusa ma si capisce benissimo che

tanto lo farà lo stesso.

Pino lo tiene d'occhio con pacata diffidenza, come aspettasse per certo la fregatura. Il tipo,

in felpa rossa con ritratto di Che Guevara, è calvo come una lampadina e affannato come la

mamma della sposa. Controlla e ricontrolla cavi, prese, triple e poi accende per un attimo

la Mativa come uno studio TV. Annuisce pacificato, e dopo dieci minuti tocca qualcosa e

ricomincia che bisogna fare un'altra prova.

Qualcuno se ne intaglia, prima o poi.

Gigio, che ha appena convinto Enrico e Armando a rimettere a posto il Vomitor - dopo, tra

una mezz'ora, avete tanta voglia di sporcarvi tutti? - ascolta Pino con una smorfia.

Già.

Tutto quell'accendi/spegni sembra fatto apposta per richiamare l'attenzione del mondo su

di loro con troppo anticipo.

Gigio punta Teseo, fa un cenno di assenso al FidoPino e marcia verso l'emotivo con tutta

l'intenzione di farlo smettere.

Il tempo di fare due passi e si congela. Non solo lui, comunque, tutti si inchiodano come un

presepio vivente quando passa la Stella Cometa.

Lontana, ma nemmeno troppo, una sirena.

Si avvicina, cala e cresce in rapporto alle curve e alle svolte, ma sicuramente si avvicina.

Teseo non smette di manipolare una prolunga, indifferente in maniera sospetta. La sirena

abborda l'ultima curva e adesso suona davanti al cancello.

Nena scatta come una centometrista e si infila in sala mensa. La sua testa riappare un

attimo dopo da una finestrina.

I pompieri!

Non è difficile capire com'è andata e Gigio impiccherebbe volentieri Teseo con una delle

sue prolunghe.

Cosa ci fanno qui i pompieri? Mica c'è un incendio.

Dante Occhipinti si guarda intorno con l'allegro stupore di un bambino e si capisce subito

perché mai Teseo Carloni e lui abbiano fatto comunella.

Occhipinti, se quello lì accende ancora una volta le luci prima del tempo lo butto

nella senape.

Il cineasta lo guarda stupito per tanta aggressività, inusuale in uno quieto come Gigio.

Ma è per via delle luci?

Nessuno gli risponde: Gigio è già ripartito per il cancello.

Ci sono cinque pompieri in divisa, assiepati intorno a Nena, più uno seduto al posto

di guida che tamburella le dita sul volante.

Hanno telefonato che c'erano lampi come di fulmine, forse un cortocircuito.

C'era un contatto, ma adesso è tutto a posto.

Nena sorride serafica come una scolaretta, mentre Gigio si sente male pensando

all'impianto elettrico rapinoso che ha messo insieme.

Ma che genere di contatto? Forse sarebbe bene dare un'occhiata.

Il tizio col nasone - un parente di Giorgio Gaber che non ha fatto fortuna, si direbbe - è uno

di quelli che si vedono sempre nei film coi partigiani: il fascista impiccione e paranoico che

ha immancabilmente ragione ma che a) viene zittito dal capo che non ha voglia di perder

tempo b) viene accoppato da un revolver tirato fuori all'improvviso da uno dei

protagonisti.

Non essendo praticabile l'ipotesi B a Gigio e Nena non resta che sperare nella A.

Eh, già bisognerebbe...

Il capo infila la mano sotto l'elmetto per grattarsi la testa.

Ma la fabbrica è chiusa, non è vero?

Più che chiusa è occupata, siamo tutti a spasso.

Nena è dignitosa ma accorata. Meglio di Filomena Marturano.

In sostanza non funziona, giusto?

Eh, no. Non funziona.

E lei mi garantisce che non ci sono pericoli?

Come no!

Il capo fa un gesto alla pattuglia, che come un sol uomo risale sul camion ancora con la luce

rotante accesa.

Io devo fare un rapporto, capite?

Nena e Gigio annuiscono.

Ma non voglio darvi più grane di quante ne abbiate già. Dirò che si è trattato di un

falso allarme. Ma voi non combinatemi casini, se qui stanotte scoppia un incendio...

Non c'è bisogno di aggiungere altro. Il capopattuglia, alto a dir poco un metro e

ottanta + venti cm. di casco lucidissimo, con la faccia colorata di blu a intervalli di pochi

secondi dalla luce rotante, sembra il Jolly di Batman che non abbia voglia di scherzare.

Nena e Gigio assicurano, giurano e spergiurano come un sol uomo e poi stringono la

manona del pompiere gigante.

Sembra poco serio salutare con la mano i militi che si allontanano, così si limitano a

guardarli partire, sentendosi molto più bambini di mezz'ora prima.

L'albero in cortile, l'unico o l'ultimo, ha la chioma sbilenca, si direbbe spinta da un

lato da un colpo di vento, e ha un nome, Robespié, affibbiatogli da Uffreduzzi, il

capocontabile anarchico.

Non era poi strano che il vecchio Mandelli stipendiasse un anarchico, sia pur efficiente

come un giapponese e pignolo come uno della finanza prima della stecca: l'importante per

il Padreterno della Mativa era non avere la Tessera di Partito. Poco capendoci di politica

aveva in odio inestirpabile in primis quella parola: Tessera, che metteva nello stesso

canestro con carta annonaria, coprifuoco, oscuramento, silenzio il nemico ti ascolta, la

Difesa della Razza e la Perfida Albione.

Volendo gli si poteva spiegare - a inseguirlo mentre andava avanti e indietro dalla fabbrica

all'ufficio o mentre saliva a bordo della giardinetta color penicillina e faceva il primo

chilometro tutto in prima - che tra il PCI e il Ventennio c'era in mezzo un abisso di

barbarie. Niente, si sarebbe inciampato alla fine nella parola tessera e lui a dire:

"M'importa assai di come la pensa la mia gente: ma tesserati non ne voglio: o la tessera o il

lavoro."

Gigio aveva conosciuto solo per pochi mesi Mandelli Senior, quando ormai il fondatore

aveva sparato le ultime cartucce e passava gran parte del tempo a sonnecchiare in ufficio e

a ringhiare al figlio «Ti te capiss negotta». Ma parlava ancora della "mia" gente e si

commuoveva - ai vecchi capita spesso di commuoversi a cazzo, diceva Mandelli Junior -

pensando a Uffreduzzi sceso nella tomba da pochi mesi, con una bandiera rossa e nera

sulla bara e senza preti.

Robespié in tutto ciò si faceva la sua onesta vita vegetale, mai troppo selvaggio né

eccessivamente lussureggiante: un vero albero di città, riservato, silenzioso e discreto.

Le sue foglie non erano mai troppo verdi e d'autunno cadevano tutte entro una settimana

per non intralciare il lavoro né sporcare troppo il cortile.

Ma adesso, a un'ora o giù di lì dall'inizio dello spettacolo, il buon Robespié, gremito di

gemme imbozzolate dalla primavera in arrivo, dà dei problemi. Il cortile interno della

Mativa è grande come un chiostro e se la pianta non ingombra quando ci si deve

camminare, dovendo volarci attaccati a un pallone occupa più di metà del cielo visibile.

Il pallone è troppo largo: non ci passa.

A lanciare l'allarme è stato Pino, che unico tra tutti, si è reso conto dell'esistenza del pioppo

Robespié.

Eh, già...

Gigio alza la testa e misura: non c'è gioco, la mongolfiera non si può gonfiare dove si

allunga la chioma dell'albero.

Chessifà? Chiede Nena.

Enrico misura la circonferenza del tronco e dice: ce l'abbiamo un'ascia?

Aspetta.

Tirare giù Robespié sembra un gesto esagerato, dettato da fatale nervosismo, il nervosismo

che fa perdere le battaglie e le grandi occasioni.

Ma gonfiare il pallone e tirarlo su e giù stando fuori dalla fabbrica è come mettere in scena

una tragedia con le quinte aperte e i morti che se ne tornano a piedi nei loro camerini. E

rischiare di farsi bucare l'argento dell'UFO fatto in casa con i rami del pioppo e mandare

così tutto a puttane non è possibile, né onesto.

Serve un'idea, e in fretta.

Gigio si sente un megafesso a non averci pensato, a Robespié, ma in fin dei conti

l'albero ce l'hanno avuto sotto il naso tutti per anni e nessuno che ci abbia pensato.

Si capisce agevolmente come mai loro quattro siano dei poveri sfigati con la zucca vuota e il

sedere per terra. Probabilmente gli executive-rolex-manager-on trend è gente che non si fa

scappare un filo d'erba, altro che un albero.

Si può gonfiare il pallone sull'albero.

La vocina di Fabio Alessandro Baffo Bianco detto Scassaca' dal padre affettuoso suona

come una tromba del Paradiso nella valle di lacrime della Mativa.

Ci salgo io. Sono capace.

Il piccolo Scassaca' viene abbracciato e portato in trionfo da una dozzina di adulti esaltati,

compreso il James Dean made in China e il tuttora sospettabile Teseo Carloni.

I preparativi divengono febbrili, a questo punto, e Fabio Alessandro il Grande,

accompagnato da Xao - lo Ju minore - e da Nena, sale sul pioppo a piazzare una carrucola.

In un batter d'occhio Nena e Xao installano anche una piattaforma fatta con la base di un

bancale e tirano su compressore e bombole.

Tempo dodici minuti e mezzo e Robespié, un po' martellato ma ancora ben vivo, è

diventato la torre di lancio dell'"Imperatore Ming".

Il nome immaginoso dell'UFO posticcio è stato fortemente voluto da Enrico, fumettomane

diviso tra il porno e il fantascientifico, ed è scritto con il pennarello, di sbieco accanto ad

una delle cuciture per non essere visto che da pochi intimi. Sarebbe infatti poco credibile -

pur se suggestiva - un'invasione direttamente dal pianeta Mongo.

Il momento più emozionante è stato quando Enrico è riuscito finalmente a dire:

"Sincronizziamo gli orologi". Se la preparava da quindici giorni e gli è venuta bene, con la

voce giusta, pressante ma virilmente calma. E anche agli altri in fondo non è dispiaciuto

sentir pronunciare una frase tanto spettacolare a titolo non del tutto gratuito.

All'una e trentacinque, ora sincronizzata sull'orologio di tutti, si accendono le luci

sull'Imperatore Ming sospeso sopra Robespié e la Mativa e Occhipinti aziona la camera.

Scassaca' ha cominciato a percuotere le lastre con un grosso martello, mentre papà Baffo

Bianco ci dà dentro col motore del camion, tanto per fare il basso del coro.

Si accendono le luci! Le case qui intorno!

Per farsi sentire Nena deve urlare nell'orecchio di Gigio.

Il pallone d'argento levita nel buio, potente come un fulmine.

Da non crederci che l'hanno creata loro una cosa tanto bella, tutti loro insieme. Cinque

minuti di volo in tutto, ma di quelli che non si dimenticano.

Il fischio, una meraviglia di fischio che comincia a dare sul boato.

Ma in anticipo, non è ancora l'una e trentasette.

Gigio si volta verso Enrico e incontra il suo sguardo straperplesso, con la bombola in mano

inattiva.

Madda...

L'intenzione era di dire "Maddadovecazzomai?", ma se anche Gigio è riuscito a dirlo tutto

nessuno l'ha sentito.

Perché a meno di cento metri da loro, più o meno dove si erano fermati i pompieri, si è

schiantato un arnese del peso di un paio di chilogrammi. La vernice non c'è più, arrostita

dalla discesa veloce nell'atmosfera, ma su un pezzetto di metallo che ha bucato i vetri della

Mativa c'è scritto U.S.Navy.

Molto d'altro del coso non è rimasto, anche a voler cercare nel buco fatto nell'asfalto.

Comunque, come The End un banale satellite metereologico non poteva sperare di meglio.

Nel cortile della Mativa ci si alza in piedi dopo qualche secondo, al buio e in mezzo

ai cocci. Hanno tutti le orecchie che ronzano e fischiano come un amplificatore in

risonanza e conservano sulla retina l'impronta di una lampo bianco - arancione. Poco

loquaci ma sostanzialmente incolumi, tirano giù il pallone dalla cima dell'albero e caricano

tutto sul camion al buio, inciampando e bestemmiando.

Ce l'ho, è fatta!

Occhipinti, seduto con la schiena appoggiata a Robespié, solleva la camera che non ha mai

mollato.

Una ripresa unica, e l'ho fatta io!

Dopo il calcio di rigore

Dentro c'è Nena e la musica. Fuori il buio e il freddo.

Non si può festeggiare la sfiga facendo baldoria, ma lì non è questione di far baldoria.

Magari consolarsi, farsi compagnia, dimenticarsi che è tutto, ma proprio tutto, andato

storto.

La casa di Nena, camera-cucina-bagno con un terrazzino grosso come un bidè, ha l'odore

delle case abbandonate da troppo tempo e una maxi-foto di Schwarzenegger, con la

mimetica e la faccia tinta di nero, appesa dietro la porta dell'ingresso.

Ti piace quello lì?

L'avrei voluto in fabbrica. Con il cannone sotto l'ascella.

Magari ci saremmo evitati anche quel satellite del cazzo.

Eh già, magari lo centrava al volo...

Nena è uscita dai vestiti dieci minuti dopo essere entrata, incurante del freddo.

Ti va, Gigio?

Lui ha detto di sì con lo sguardo, e si sono infilati nel letto gelato cercando di dimenticare

che fuori il mondo continuava ad andare regolare e stupido come un segnatempo.

Gigio si tiene sul cuore Nena in maglione - ma in quanto al resto nuda - e fissa il soffitto

colorato a strisce dai lampioni. Da qualche parte dev'esserci stato vento perché l'aria sa di

nuovo.

Il traffico fuori è stranamente silenzioso, lontano, come durante una nevicata, e il tempo si

è congelato.

Per il momento non c'è nulla di serio da fare o da pensare.

Tenersi vicino Nena è davvero il massimo, come se il suo letto, pieghevole per non tenere

troppo spazio, fosse un arca per due che li salverà dal diluvio.

Dopo l'amore, particolarmente se ben riuscito, si sa che il cervello tende ad

andarsene per conto suo, a svolazzare come una falena impazzita, a ricordare cose piccole,

odori, luci, musiche che fanno sentire all'improvviso indifesi, unici e perduti, rarefatti

come una nuvola.

Mi sa che non ci torneremo più, lì in fabbrica.

No.

Una volta, sai, pensavo di diventare una cantante rock. Cantavo con dei ragazzi in

un garage. Provavamo il sabato mattina. Ce n'era uno, Roby, il batterista, che portava del

basilico - almeno per me era basilico - e preparava dei cannoni che andavano fumati in

religioso silenzio. Poi, si suonavano i Pooh e Battisti per andare a fare qualche serata. Ma a

me piaceva Patti Smith, «...Because the night belongs to lovers...» la conosci?

Cantala.

É proprio uno spettacolo, Nena in ginocchio sul letto a cantare. Ma ha una voce da

svegliare i morti, roca quanto basta, tesa come una fucilata. A Gigio ogni tanto l'occhio

scappa sotto l'orlo del maglione, ma non pensa che a Nena la cosa possa dispiacere.

Cazzo sei brava.

Nena tira su la testa di scatto e sorride, o almeno così sembra nella poca luce che viene da

fuori.

Me l'hanno detto. Ma non ho avuto tante occasioni. Chissà a quanta gente capita.

Si siede a gambe incrociate.

Adesso sarebbe il momento di farsene uno, dei famosi cannoni di Roby. Cazzo, mi

sento vuota. Ho passato degli anni in quella fabbrica. Cosa ne faranno adesso?

Il padrone chiederà un risarcimento alla Marina Americana, ma ci vorranno mesi

prima che abbiano finito i rilievi. Nel frattempo tutto andrà definitivamente in malora.

É probabile che qualche soldino venga fuori anche per noi, ma magari tra cinque

anni.

Eeeeh, tra cinque anni potrei pure essere morta! Intanto che facciamo?

Gigio la prende per un braccio e la trascina giù.

Scemo. - Nena ride. - Non intanto adesso, cioè, intanto dopo.

É andata male, in definitiva.

Non che sia facile capire cosa passa per la testa di una come Luisa. Se sorride magari è

giusto per non graffiarti, se dice poverino forse pensa bentistà.

Gigio sta per dire che ci sono andati a un pelo, che per poco andavano tutti sui giornali,

compreso il Maggiore, ma poi lascia perdere e continua a fare una cosa malinconica come

mettere via la sua roba in una valigia.

No le magliette te lo ho spostate, sono nel cassetto in basso del mobile in bagno.

Gigio si trasferisce in bagno e intanto pensa che a dire ci siamo andati proprio vicini si fa

una figura anche più idiota. La caduta a un metro dall'arrivo è ciò che distingue il ciclista

pivello. E il calciatore che inciampa da solo in area è un coglione, anche se ha dribblato

dieci avversari su undici e tutti di corsa.

A lei piacciono i vincenti, su questo non ci piove. Non è poi nemmeno del tutto colpa sua.

Nata femmina, l'hanno sistemata ben bene a pensare che la vita non è cosa da donne, e a

lei non è rimasto che campare per interposta persona, mandare anziché andare, allenare

invece che giocare.

Come sta Armando?

Gigio lo chiede tanto per sviare, stare sul normale.

Al solito.

Luisa si stringe nelle spalle come a dire: per quello che me ne importa. Con lei alle spalle, i

capelli raccolti sulla nuca e aureolata dal neon, Gigio, longeque inferior, cioè accucciato a

frugare in un cassetto, si sente un bambino senza un gran futuro, uno di quelli che vengono

sempre nell'angolino della foto di gruppo, con la faccia anonima che fanno dire: "Quello...

quello... Cazzo! Sai che non me lo ricordo più come si chiamava?"

Comunque è tornato a lavorare, quel fesso. Questo mese dovrà fare un bel po' di

straordinari.

Chiara, positiva. Ha fatto il cretino, il Maggiore, quindi adesso paga, perché la famiglia

deve pur campare decorosamente.

Chi diavolo gliel'abbia messo in testa, il decoro, a Luisa e a qualche altro milione di donne

italiane non saprebbe dirlo. Come se fosse decorosa una casa tanto anonima da sembrare

la pubblicità di un mobilificio - cucina in arte povera come da fotografia lit. 1.990.000

senza anticipo e senza cambiali - come se fosse decoroso tirare su due bambini in mezzo ai

tubi di scappamento, spianati come revolver ad altezza di passeggino.

Gigio mette le magliette nella valigia e ci impiega un tempo assurdo, le solleva

delicatamente e le adagia come morticini nella bara.

Luisa si stufa di starlo a guardare e se ne va in cucina a girare qualcosa, l'arrosto o forse il

ragù. Gigio rimane nel bagno che sa di deocasa e di borotalco, con un vuoto nel petto che

l'ha preso all'improvviso.

Si sono ritrovati al bar di Lino. Forse non è proprio l'ultima volta, ma pensandoci

bene non è tanto probabile che si ritrovino ancora.

Forse mio fratello mi ha trovato un posto. Due soldi e un orario da carcerato, ma è

sempre lavoro.

Enrico porta un maglione Aran con il collo rimboccato appena sotto la barba e per una

volta non ha l'aria da coglione, anzi sembra un capitano di lungo corso, uno che va in

batiscafo o su un rompighiaccio.

E tu, Pino?

L'eroico terùn si stringe nelle spalle. Non parla per un po', aggrappato alla sigaretta senza

filtro che gli fa diventare le mani gialle, come un Jean Gabin troppo magro.

Forse un parente di mia moglie...Ma è ancora tutto da vedere. Sta in Veneto.

La signora Hanan + gabbietta con Ester siede a un palmo dal tavolino, come avesse paura a

toccarlo. Sorride per motivi tutti suoi che loro, privati di un vero Dio di Consolazione e di

Guerra, non riuscirebbero a capire. Si è arrangiata a dormire in una comunità, ma i suoi

gesti sono più lenti, insieme cauti e fatali, da personaggio di una fiaba.

Gigio si sente in colpa e le rivolge un eccesso di sorrisi. Certo, certo, il fottuto

satellite non l'ha mica evocato lui, ma ad offrire ospitalità e poi dover far sgombrare

l'ospite di corsa non si fa certo una gran figura. Gigio ha l'anima di un Signore del

Rinascimento e fosse ricco terrebbe una tavola sempre addobbata per gli ospiti e i

viandanti.

Già, ma ricco non lo è proprio - sorriso - E quindi niente tavola addobbata - sorriso -

Nemmeno uno schifo di fabbrica malriscaldata e piena di spifferi, probabilmente futura

reliquia per uno studioso di archeologia industriale - sorrisone -

Sì, perché esiste persino l'archeologia industriale. Nei musei probabilmente ci metteranno

quelli come loro: "operai che occupano una fabbrica", loro quattro, magari anche la

Signora Hanan se ritrovano una foto, in pose eccessive come attori del cinema muto.

Lino porta cinque caffè senza scontrino e un vassoietto di paste. Se ne va senza

guardarli, omaggio della casa.

Però ci sono le bambole!

Doveva covarsela dentro da un po', questa, Gigio. Fatto sta che gli secca da matti lasciare là

le pippette da sole, duecento pippette che qualunque bambino sarebbe contento di

giocarci, almeno per un po' prima di stufarsi e buttarle nel mucchio in compagnia di

Stardust Vendicator, Big Ghost transformer e Alien Queen, con tre paia di mascelle.

Che ci possiamo fare noialtri?

Chiede Enrico, già meno marinaro e un po' preoccupato.

Andarle a prendere e portarle ad un asilo, a una scuola elementare, insomma dove vi

pare, e regalarle.

A come lo guardano Gigio ci è abituato. E anche loro si sono abituati. Di quelli come lui ne

nascono uno su un milione, e meno male.

Va bene.

Pino sorride. Sorride davvero, con l'occhio storto per il fumo e la mano vicina alla bocca

per staccare la cicca esausta prima di scottarsi.

Va bene anche per me.

Enrico si stringe nelle spalle.

Tanto prima di un mese non inizio. Ma adesso c'è l'esercito a presidiare la fabbrica.

La Signora Hanan non dice niente ma fa un sorriso grande e allegro, come non le si vedeva

da un po'.

Bene.

Ci vuole metodo e stile, ma si può fare. Innanzitutto...

Gigio si volta verso il bancone.

Lino, mi trovi Baffo Bianco?

Le bianche tende dei Templari accarezzate dal vento del deserto...

Il Sergente Adelmo Mazzacurati - alto, sottile, quasi calvo, ancora tre anni alla

pensione, una moglie erborista con una sorella mezza matta, due figli sposati così così e un

gatto guercio di nome Balthazar - da quando riesce a ricordarsi ha sempre preferito vivere

in caserma che in casa.

I pomeriggi dei giorni di festa, quelli che le spine trovano allucinanti e che i graduati se

appena possono evitano, sono per lui ciò che per un lama è un monastero, per un

montanaro un bosco di larici, per un eremita un eremo. Adelmo Mazzacurati sergente,

dopo la mattinata passata in casa di malumore, torna in caserma verso le tre, con in corpo

un pasto tattico formato da una paillard al sangue + insalatina verde ben scolata e

croccante, e comincia a perlustrare le camerate, i corridoi, i cortili, a misurarli con passo

lento e regolare, come fosse lui il padrone di tutto.

Sulle brandine i soldati stravaccati a sbirciare fumetti porno di decima mano riconoscono il

suo passo e si tirano a sedere con la schiena dritta, senza smettere di leggere. Adelmo

sergente risponde al saluto con un cenno impercettibile del capo e prosegue. In cuor suo si

duole dell'accidia della truppa e sogna gli attendamenti bruciati dal sole dell'Ordine

Templare, o i tempestosi furori della falange macedone.

Disapprova la pornografia. Non certo per moralismo - il pomo di Eva ha i suoi

misteriosi poteri sul maschio - ma perché l'amore di un soldato dev'essere caldo e potente

come un raggio di sole, deve profumare di vento e d'erba e non deve svilirsi tra vecchie

coperte e disinfettante al creosoto.

É un romantico, Adelmo Mazzacurati, e se i soldati non lo capiscono - ma in fondo

gli sono affezionati come a un vecchio cane pieno di tic e manie - ancor meno lo capiscono

gli ufficiali, unicamente preoccupati dello scatto d'anzianità e del recupero contingenza.

Uscendo dalle camerate il Sergente Mazzacurati ha l'abitudine di scendere i due

piani di scale e comparire nel cortile al centro del lato più breve, dimodoché l'intera

superficie a pavé gli si stenda ininterrotta davanti agli occhi, immobile nella sonnolenta

quiete domenicale.

Il fatto che nessuna presenza umana disturbi il silenzioso raccoglimento della scena

lo dispone all'ascesi, lo convince di far parte di una poderosa armata, che, solo

apparentemente vinta dalla pace dell'ora, sia pronta a sollevarsi e colpire come una tigre al

risveglio.

L'apparizione remota di un paio di burbe armate di scope e bidone con rotelle,

pressoché inevitabile data l'ora e il giorno, interrompe il suo sogno riconducendolo alla

realtà, ma Adelmo sergente ha bisogno di quei pochi minuti d'illusione: gli permettono di

tollerare tutti i piccoli soprusi, le piccinerie, le assurdità burocratiche, i ritardi, gli impacci

del resto della settimana.

Il fatto è che adesso, inscatolato nella Mativa senza più un solo vetro intatto, a far la

guardia a un bucozzo vuoto - il satellite, o ciò che ne restava, se lo sono già portato via -

Adelmo Mazzacurati si sente in debito di immaginario.

Il tenente Vigliani, nominalmente comandante del plotone posto a difesa del luogo, passa

ogni tanto, gli dà una bella pacca sulla spalla e gli offre un cioccolatino gianduia conservato

nella tasca del cappotto, probabilmente l'ultimo del sacchetto.

I rilievi non sono terminati, spiega.

Sgt. Mazzacurati è sicuro che non siano mai nemmeno cominciati, se si esclude il passaggio

di una comitiva di MP, mai più visti dal '56, e di alcuni tizi occhialuti in borghese. La Patria

ha mandato a sua volta un gruppetto di graduati dell'aviazione che hanno dato un'occhiata

schifatissima in giro e, dopo aver preso un paio di appunti, se ne sono andati su un

camioncino blu targato AM.

Ma non dovrebbe essere di competenza dell'aviazione la cosa?

Il capitano Vigliani dice di sì, che sicuramente saranno presto rimpiazzati da altrettanti

militi dei VAM in divisa azzurra, o forse da marinai, visto che il satellite americano era

stato lanciato dalla marina.

E intanto il tempo si sfilaccia senza passare mai e Adelmo si sente sempre più infelice e

infreddolito, a custodire ciò che ha tutta l'apparenza di una fabbrica bombardata per

errore.

Organizzare i turni di guardia e di riposo, stendere rapporti, preparare il caffè è tutto ciò

che resta da fare. Non si può nemmeno spazzare o coprire i buchi dei vetri, in attesa dei

rilievi dell'apposita costituenda commissione paritetica, e inutilmente il sergente ha già

inviato tre rapporti, oggetto: "Restaurazione vetri sala mensa, allo scopo di permettere al

distaccamento militi di servizio di usufruire di adeguate condizioni di riscaldamento."

Si sono consolati ragionando che primavera è vicina e comunque il tenente Vigliani ha

fatto loro inviare un supplemento di coperte.

Ma non possono mettere un bel lucchettone al cancello e via?

Se lo è chiesto più volte anche lui, ciò che il caporale Mingardi va dicendo da giorni.

Perché mai starsene lì? Per i libici, i serbi, i cubani, gli irakeni? Ridotti i nemici rispettabili

al rango di poveretti, rimangono giusto le mezze calzette, gli sfigati attaccabrighe, che è

difficile credere vogliano sottrarre materiale di proprietà della U.S. NAVY.

Si è ridotto a tacere e a far finta di nulla il sergente Mazzacurati, senza nemmeno

tentare di tacitare il caporale sedizioso e le altre sette reclute semicongelate che

cominciano ad annuire non appena Mingardi dice "Ma..."

Fino a prima dell'arrivo del satellite lì dentro ci stavano alcuni operai, poveri cristi

strabuggerati dal padrone e dal sindacato, che per ovvi motivi hanno dovuto togliere le

tende. I bersaglieri del sergente ne hanno rinvenuto le tracce sotto forma di marmellata,

fette biscottate e altre derrate alimentari, nonché di suppellettili da cucina, mazzi di carte e

una collezione completa di pornazzi da poche lire, che hanno subito suscitato simpatia e

fraternità tra i militi.

Alla proposta del soldato Turri di provvedere a una distribuzione alla truppa del

materiale alimentare lì rinvenuto, il sergente ha risposto picche a muso duro, senza sapere

bene nemmeno lui perché. Forse per via dello stutus semiillegale di marmellate e

merendine o forse per un oscuro senso di pena all'idea di sgavazzare con la roba di quattro

disperati. Il soldato Turri, peraltro, non ha nemmeno insistito, come se la sua proposta

fosse originata più dal consueto spleen militare che da un residuo di mentalità barbarica.

Proprio come un castello scozzese.

La ringhiera.

C'era. Sicuro che c'era.

Lasciava dei segni di ruggine in mezzo alle mattonelle.

...

Quel tipo vestito di scuro. Non alza nemmeno la testa mentre passa qualcosa sulla

ringhiera.

...

Ma c'era bisogno di staccarla per pulirla?

No perché così qualcuno rischia di farsi male.

Ci sono dei bambini.

Tantissimi bambini che cantano.

E il tizio non solleva nemmeno la testa. E cazzo, ne fa di casino.

E la ringhiera è mia.

Adesso mi sentirà.

...

In tuta azzurra piena di sfilacciature, con la scritta "Esercito Italiano" Andrea Stenti,

bersagliere della Repubblica, tuttora acneico nonostante i vent'anni suonati, una passione

esagerata per film e fumetti fanta-splatter-horror, evade dal sacco a pelo con l'eleganza dei

sonnambuli e riesce a fare tre passi prima di rendersi conto in maniera oscura ma

definitiva che non c'è nessuna ringhiera e nessun tizio, ma solo un terrificante sfrigolio

metallico di origine sconosciuta, accompagnato dal canto di almeno tremila bambini,

probabilmente cinesi.

Il milite si immobilizza mentre, traditori, i peli della nuca gli si sollevano con

calcolata lentezza.

É notte fonda.

Si trova in una fabbrica abbandonata.

I suoi compagni e il sergente sicuramente dormono.

O meglio, dormivano.

Totale: si tratta di un evento innaturale, sicuramente ai confini della realtà.

Probabilmente il satellite era carico di alieni liofilizzati. Alla prima pioggia: zac, invasione

della terra.

In piedi, agghiacciato dal terrore, il soldato Stenti non trova neppure il coraggio di

andare a cercare le scarpe al buio.

Il rumore continua, vittorioso. A momenti ricorda un macellaio che affili i coltelli

strofinandoli l'uno con l'altro. Poi passa ad un registro cupo, sardonico.

Come sentire il raschiare di un apriscatole stando all'interno della scatola.

E i bambini, o quel che sono.

Hanno voci acutissime, quasi fossero fatti solo di bocca. Una bocca con due piedini

sotto, come una dentiera dei cartoni animati.

Più niente, senza nessun preavviso.

Agalìt tadìfa kal! AGALIT TADIFA KAL! KAL, KAL, KAL!

Il bersagliere Stenti non potrebbe giurare che le parole siano esattamente quelle, ma

suonano più o meno così. Cosa poi vogliano dire non ci tiene nemmeno a immaginarlo -

anche se i KAL! avevano una risonanza decisamente imperiosa - ma è la voce che li ha

pronunciati a turbarlo. Una voce che uno sprovveduto in pieno giorno potrebbe attribuire a

una donna almeno singolare, ma che deve appartenere a qualche creatura madornale e

definitiva, una Gorgone, una Furia, un'Erinni.

Il silenzio totale che segue non calma la fantasia venata di reminiscenze mitologiche

del bersagliere Stenti, 60/60 di maturità classica. Rimane per un po' a gelare sul posto,

cercando di afferrare l'istante esatto nel quale le orripilanti creature lorde di sangue e

interiora altrui spalancheranno la porta della sua stanza e faranno bizzarro scempio di lui.

Stenti, ci sei?

Sergente...

Proprio io. Cosa ci fai al buio?

Ha sentito?

Certo. Accendi la candela.

Nella luce oscillante della fiamma anche il viso familiare di Mazzacurati si rivela

sottilmente ambiguo, deformato.

Alien. Dentro il sergente.

...

Ho mandato Turri e Venturini a dare un'occhiata in giro.

Sì.

Ma non sono ancora tornati. Si saranno nascosti da qualche parte.

Probabile.

Prendi il sacco a pelo. Dormiamo tutti in sala mensa. Teniamo le candele accese. Tu

e io stiamo svegli e ci guardiamo un po' intorno. Va bene?

Ha un'aria sottilmente diversa, il sergente, soddisfatta, eccitata. Come dire che non è più

lui.

Alien nel Sergente Mazzacurati. Da non crederci.

Allora va bene?

Va bene.

Chi saranno mai, si chiede il sergente. Perché pensare ai fantasmi non è serio. In

quanto a fantomatiche presenze aliene nemmeno a parlarne, tantomeno in un rapporto ai

superiori.

Il respiro del soldato Stenti, in piedi sulla porta a fissare il buio rigato di giallo pallido dei

lampioni, riempie il silenzio riuscendo persino un po' inquietante.

Quand'era piccolo avevano portato la Gina Parenti del piano di sotto dai Frati,

passando per il sentiero stretto dei cipressi sulla collina.

Né lui né sua madre erano andati, solo suo padre in quanto uomo e guidatore. La Gina,

nata Addisabeba, era partita la mattina - con un maglione bianco e un fazzoletto

incorniciato di giallo sugli occhi gonfi e arrossati - e tornata la sera. Avevano sentito le sue

urla non appena era scesa dalla macchina e la voce di suo padre che lanciava ordini tra i

denti alla sorella Graziana, mentre teneva le braccia o la testa o chissà cos'altro alla Gina.

Suo padre con la faccia stravolta non aveva fatto motto di quello che era successo su

al convento dei Frati e inutilmente aveva orecchiato dalla sua cameretta una volta andato a

dormire. Suo padre aveva sì raccontato tutto alla mamma ma parlando pianissimo, con

una voce che sapeva di paura e di mistero, di cose insomma con le quali nessuno con un

briciolo di sale in zucca avrebbe voluto avere a che fare.

Effettivamente la faccia del bersagliere Stenti non era poi troppo diversa da quella di

suo padre quella famosa sera, o forse non era troppo diversa dalla faccia della Gina che non

era riuscito a vedere.

La silhouette del soldato, con le pieghe della divisa che intercettano la poca luce

della notte metropolitana, ha qualcosa di inquietante, o forse ha qualcosa di inquietante il

fatto che non lo possa vedere bene in faccia.

I demoni del duomo, incastonati in pittoresca ammucchiata sul portale laterale:

novantanove demoni zannuti, soavi, perversi, mezzi cancellati dall'inquinamento ma

ancora decisamente arzilli quando il piccolo Adelmo andava a catechismo.

Il volto del soldato Stenti che non può vedere potrebbe mutarsi in quello di uno dei

novantanove demoni o anche via via incarnarli tutti: sbavanti, feroci, accecati dall'ira, occhi

senza pupille, occhiaie vuote, vagine dentate, nasi fallici e anemoniformi, bocche senza

labbra, squarci osceni aperti su gole nere e insondabili...

Il sergente Mazzacurati si alza e marcia verso il bagno, luogo freddo e disagevole

quanto pochi altri nella ex-fabbrica, ma proprio per questo adatto a darsi una regolata.

Il soldato Stenti udendolo muoversi si è voltato con un guizzo di una rapidità

innaturale e sicuramente lo segue con lo sguardo. Il sergente, coraggioso o folle, non si

volta e va a tuffare la faccia sotto il rubinetto gelato.

...Piacerebbe sapere che cazzo è successo.

Non c'era niente e nessuno da nessuna parte.

Il sergente non ha chiuso occhio e il milite Stenti meno di lui. I due si lanciano occhiate

strane, fatte per metà di diffidenza e per metà di timore misto a considerazione. Gli altri

cinque soldati, che non l'hanno presa meglio, si guardano e li guardano con espressione

inebetita, stancamente allarmata, in generale sovreccitata.

Turri, cosa vuol dire che non c'era niente da nessuna parte?

Voglio dire nessuna traccia. Né impronte, né segni di effrazione, né altri segni di

presenze umane.

Quell'umane sembra al sergente un po' troppo insistito, comunque pleonastico.

Giusto le bambole. Giurerei...

Giureresti cosa?

Niente, è una scemenza. Qualcuno vuole un altro caffè?

Tutti ne vogliono, anche il sergente Alien.

Ovvio, pensa il bersagliere Stenti, the Thing from another World può metabolizzare

qualsiasi cosa.

Vuoi parlare Turri?

Ma sergente, se dico che è una cazzata...

Vogliamo sentirla, magari ci dà una traccia.

Un Segno, pronuncia ispirato il soldato Aguggiani, il cranio calvo riscaldato da un

berretto rimboccato da pescatore.

Il tuo copricapo è fuori ordinanza, Aguggiani. Se non la pianti con questi giochi di

parole ti faccio rapporto.

Che ho detto? Ho detto giusto...

Turri vuoi parlare?

Il sergente ha urlato, una cosa che non rientra proprio nelle sue abitudini. Stenti prende

nota con un brivido.

Ecco, è che mi sembrava... Anche Venturini può confermare, vero?

Venturini, un ragazzo pingue e pacifico come un angelo serafino in vacanza, conferma.

Ci fissavano, le bambole. Facevamo due passi e si erano girate giusto di quei due

passi. Da una parte della sala sembrava che fossero girate verso di noi, andavi fin dall'altro

lato e tracchete, erano girate di nuovo verso di noi... Rendo l'idea?

Che avete fatto?

No, abbiamo guardato lo stesso, non siamo mica... Insomma abbiamo pensato a

un'illusione ottica. C'è un quadro in una cittadina delle mie parti che fa lo stesso scherzo, ti

punta col braccio quando entri nella stanza...

Turri, non ce ne frega niente.

Era per esemplificare.

Non esemplificare. Dopo il caffè io e il soldato Stenti andremo a fare un sopralluogo.

Si è accorto che mi sono accorto, pensa il maturato classico.

In quanto al Sergente, visto il rapporto burocratico che intrattiene con se stesso, non arriva

a essere cosciente che si tira dietro il terrificante bersagliere Stenti per evitare che accoppi

o invasi tutti i suoi compagni. Lo fa per senso del dovere, Sgt. Mazzacurati, anche se il

SuperIo tattico lo rende top secret perfino a se stesso.

Le bambole sembrano normalissime bambole. Un po' tristi, se si vuole.

Hanno fatto strane evoluzioni per evitare di darsi le spalle, il Sergente e il bersagliere

Stenti, ridicoli come gentiluomini troppo attaccati alle forme: "prima lei, no prima lei, per

carità, ma la prego, insomma soldato Stenti si muova!".

Adesso se ne stanno fianco a fianco senza staccarsi l'uno dall'altro, come due gemelli

siamesi con tre gambe in due.

Si spostano scivolando di fianco e arretrano all'unisono come una coppia di comici.

Effettivamente non ci sono tracce. Ma non c'è nemmeno polvere, e invece dovrebbe

essercene.

Già, è vero.

Il sergente, quand'era ancora il sergente, non è mai stato tanto lucido.

Ma tu ce lo vedi qualcuno che dà una bella spazzata qui dentro alle tre del mattino?

Non tanto.

E invece deve essere andata così.

Mazzacurati scivola di lato di due passi e Stenti lo segue.

Ma non è vero per un... Ti pare che le bambole abbiano girato la testa?

Forse si riferivano alle pupille.

"O forse alla luce del giorno tornano ad essere solo bambole"

Mazzacurati si stringe nelle spalle.

Andiamo. Stasera qui dentro ci mettiamo Aguggiani e Mingardi. Noi due faremo

l'ultimo turno.

La giornata fila via fin troppo veloce, anche se nessuno ha voglia di fare nulla di

particolare. La truppa passa il tempo a confabulare a bassissima voce e a farsi caffè.

Il sergente se ne sta alcune ore seduto davanti alla macchina da scrivere recuperata

nell'archivio del reggimento, un mostro nero, ossuto e pesante, irto di tasti, levette e

stanghette come un pesce abissale.

"Probabilmente Garibaldi ci ha battuto Obbedisco" è stato il commento del

caporale Mingardi, informatico oltre che contestatore.

Incurante dell'ironia della bassa forza Adelmo Mazzacurati ha infilato un foglio di

carta intestata nel glorioso rullo del cembalo scrivano, ha battuto la data sbagliata, ha

gettato via il foglio, ne ha infilato un altro, ha battuto la giorno burocratico corrente e si è

impiantato come un robot cortocircuitato.

Dopo una mezz'ora di sofferenza ha scritto nel rapporto "Niente da segnalare" ed è

andato a bere il caffè avanzato.

Darebbe i galloni della divisa per dormire a casa sua, questa sera, ma preferisce non

saperlo.

Un po' di solitudine fa bene all'amore.

Sta bene da Nena, ma stenta a farsene una ragione. Il maschio, qualunque maschio,

a campare in casa di una donna che non sia la Mamma dopo qualche giorno comincia a

sentirsi - come dire - meno reale, quasi opzionale, tendenzialmente superfluo.

A non lavorare la sensazione diventa anche più molesta e rende il soggetto nervoso e

psicosomatico. Gigio ha un eritema alla schiena e un vecchio callo che si è rifatto vivo.

É pur vero che anche Nena è a spasso, ma nemmeno Gigio è così poco sessista da mettere

sullo stesso piano il suo farnulla con quello di lei. Non è proprio che litighino, le missioni

notturne alla Mativa per far sgomberare i sette militi li mantengono tesi come nei primi

tempi dell'occupazione, ma si è fatta viva in loro una tendenza a rimanersene in solitudine

almeno una volta al giorno. Nena si infila le cuffie e ascolta musica irlandese, celtica,

bretone, hobbit ed elfica a volume altissimo. Ogni tanto balla con addosso un paio di jeans

macchiati e bucati come la bandiera del generale Blücher.

Gigio i primi tempi la guardava e magari muoveva anche qualche passo, adesso

prepara la cena oppure va a fare un giro.

Si sorridono anche in quei momenti, un sorriso di intesa, che non vuol dire:"va tutto

benissimo", ma solo "va il meglio possibile per due come noi".

É essenziale, se ci si pensa, che le storie d'amore abbiano questa cautela, che non

cerchino di essere definitive, ultime e perfette. Gigio e Nena non vivono una storia d'amore

sospesa nel tempo e nello spazio, una bolla fluttuante piena di colori e di pericolosa

cretineria. Si accontentano di una felicità a sorpresa, che li stupisce quando un sorriso si

incontra, o dopo l'amore, apres l'amour.

Mentre va a spasso, misurando ad ogni cartellino di prezzo la sua poco contingente

povertà, Gigio non si chiede quanto durerà, né cosa andrà a fare in definitiva nella vita.

Cosa farai mai nella vita? Suo padre glielo chiedeva, e quel tornarci su era come dire "Hai

un tempo X per fare tot. Se non riesci se ne dovrà desumere che sei venuto al mondo per

un caso, un deplorevole errore, una cazzata del Padreterno, distratto e menefreghista."

Gigio va alla deriva, questo è quanto, e le bambole da liberare sono un puntiglio, il gol della

bandiera dopo averle prese toste.

Ci sono altre fabbriche in giro che assumano?

Poche e comunque li vogliono giovani e coglioni, gente che non aspetta altro che il

sabato sera per sputtanarsi un po' di soldi nel whisky del supermercato. Gigio è abbastanza

giovane, d'accordo, ma non abbastanza coglione. Ha decisamente passato l'età per

sbattersi al sabato sera, dormire metà della domenica e dedicare la fine del week-end a

immaginare quanto sarà bello il prossimo sabato se Loredana finalmente la molla.

Luigi Tenco cantava "un giorno dopo l'altro / una vita se ne va" e giustamente -

vista l'allegria della prospettiva - s'è accoppato.

Un negozio senza cartellini dei prezzi. Vetrina in allestimento, c'è scritto su una

sciarpa fantasia. Ci sono negozi che fanno così, magari perché si vergognano, oppure che

scrivono tutto su un foglietto formato francobollo seminascosto da una manica, da un

setaccio con manico di plexiglas, da un tagliere firmato.

Capita così di leggere 20.000 invece che 200.000 e fare figure barbine, con le

commesse gentili che si schiariscono la voce e dicono "...Veramente...".

A Gigio piace camminare lungo il fiume quando le case cominciano a rarefarsi. Il

marciapiede si fa più avventuroso, sconnesso, praticamente medievale. Ci sono capannoni

industriali abbandonati, resti di automobili, materassi sventrati, piante di pomodoro nate

dai semi dei pelati. Ogni tanto un cadavere, ma grazie al Cielo non ne ha mai incontrati.

Poca gente e nessuno a piedi.

Attraversa quelle lande solitarie incrostate sulla città in perfetta apnea di pensieri. É

quello che gli serve: il freddo, la solitudine lo ricaricano, gli regalano la sensazione

preziosissima che solo lui, in quel momento e in quel posto, ha potuto percepire un

tempo/spazio tanto definitivo. Si è regalato un'esitazione cronologica, un singhiozzo del

tempo. Vuole scombinare le carte anche al povero Luigi Tenco, distinguendo un giorno

dall'altro, inventando un mazzo di carte tutte diverse e non fatto solo di due di picche.

Tornare da Nena a quel punto ha il sapore di un pellegrinaggio, farle da mangiare

un omaggio, amarla un miracolo.

Staccarsi dalle cose per riincontrarle. Un giochetto da romanziere, un artificio

masochista che attrae ben pochi. Ma l'assiduità è un preludio funebre alla morte di un

amore e di qualsiasi passione, un assolo di trombone che invade la vita di tutti i giorni

rendendola prevedibile come una telenovela spompata.

Gigio si vuol stupire, cribbio, e non posso dargli torto.

Ci vorrebbe un altro capitalista.

Ancora lì Gigio? Dobbiamo cominciare a cercare da un'altra parte e scordarci la

Mativa.

Ci ho fatto più di dieci anni, mica è facile.

Io c'ero prima di te.

Sei mesi prima.

Vabbé. Lo so anch'io che con tutti i soldi che girano sembra strano che non si

trovino proprio quelli che servono a noi. Ma lo sanno tutti che va così. Possiamo comprare

totogol, gratta-e-vinci e lotteria del Pesce Azzurro di Racalmentalbuto di Sopra. Magari...

Ne conosci di capitalisti?

No. Mio padre aveva un negozio di ferramenta ma l'ha ceduto. Adesso c'è una ditta

di antifurti per auto.

Mio padre faceva lo stesso mestiere di Armando. Ha rappresentato spazzolini da

denti elettrici, biancheria intima maschile e femminile, scaldabagni, enciclopedie,

investimenti finanziari. Poi stenditoi quando la finanziaria è fallita e tutti lo cercavano per

saccagnarlo di botte...

E adesso?

Casa di proprietà, alfa 133 con la copertina di cerata perché non ha un garage, la

pensione sua e di mamma e 87 milioni in bot. La casa ce l'ha un po' fuori sempre per via

della defunta Finanziaria Hot-Money. Il suo vicino è un dentista di anni 43,

completamente calvo e che di soprannome fa Senzafattura.

Chissà quanti ne ha quello lì.

Già. Ma è onesto se non chiedi fattura. Mio padre l'ha chiesta solo la prima volta, poi

ha deciso che l'erario poteva anche arrangiarsi. Lo stato non ha mica i denti. Comunque

capitalisti niente. Tantomeno intimi.

E allora?

Niente, si mette un avviso gratuito su Tuttoquanto. "Operai specializzati, pratici uso

stampi plastici..."

"Provetti uso stampi plastici" Pratici/plastici suona male.

Nena non è che hai fatto la scrittrice oltre che la cantante e nonsocosaltro?

No, solo che pratici / plastici suonava male.

"Con esperienza decennale nell'uso di stampi plastici"?

Ottimo. Hai un foglio sottomano?

No.

Bene, vado a prenderlo io.

Nena scivola giù dal letto e essenzialmente nuda parte alla ricerca di una penna e un foglio.

Gigio l'ha fatto apposta: voleva spiarle la schiena e anche il resto. Trova strano desiderarla,

un pensiero - anzi un atteggiamento - che si fa vivo senza fare anticamera nel cervello,

volando sopra i pensieri normali: "mi fa un po' male la gamba / bisognerebbe dare il

bianco al soffitto / non ci sarà un cane che ci risponde e forse è meglio un annuncio a

pagamento..." Passa il sedere nudo di Nena, un sedere nervoso da quasi top-model, per

nulla fastoso o invadente, e i pensieri scivolano via educati dietro le quinte della mente.

Probabilmente amare qualcuno è tutto lì.

Allora:"Operai specializzati..."

Increscioso screzio in casa Mazzacurati

- Fantasmi.

Irma, moglie erborista del sergente Mazzacurati non ha nemmeno un'esitazione. Gli serve

la frittata alla borragine che piace solo a lei e si siede.

Preferivo la paillard.

Lo dice a mezza voce, il sergente Adelmo, in modo da non impegnare nessuno a

rispondere. Infatti né moglie, né cognata né il gatto Balthazar danno segno di essersi

accorti della sua educata protesta.

Hai capito Adelmo? Si tratta di fantasmi.

Figurati.

Palmira, sorella di Olga, alza gli occhi dal piatto. Una volta tanto non porta gli occhiali neri

a trapezio rovesciato e senza montatura che tengono il mondo a distanza. Diverse volte

Adelmo ha pensato che una così gli occhiali dovrebbe portarli anche alle orecchie -

orecchiali? - in modo da rimarcare meglio il distacco e il disgusto per i congiunti e il resto

dell'umanità in generale, rei di esistere.

Non cominciate a discutere, adesso.

Il sergente aggrotta le sopracciglia. L'abituale invito della cognata ha su di lui l'effetto di un

segnale bellico, tipo un tamburo, una tromba, una scarica di fucileria. Diventa rissoso, a

quel punto, puntiglioso, pignolo, tignoso, insofferente, infantile, autoritario, vendicativo,

gretto, piccino e permaloso.

E che cavolo ci starebbero a fare dei fantasmi in una fabbrica costruita nel '53?

Cosa c'era prima della fabbrica su quel terreno?

Il sergente trasecola. A quel particolare non ci aveva pensato.

Il bello di essere dei tipi pragmatici, poco inclini alla speculazione, fa sì che uno come

Adelmo non perda tempo a discutere sull'ontologia dei fenomeni. Quindi è normale che

non replichi alla moglie Olga: "Smettila con queste cazzate", ma cerchi di smontare le sue

argomentazioni con armi tratte dalla medesima armeria.

Cosa ci sarà stato su quel terreno un secolo fa? Due secoli fa? Tre secoli fa? N secoli fa?

Un casino di caccia? Il magazzino di un mercante ebreo? Uno stabilimento

dell'inquisizione?

Cazzo, non ci avevo pensato.

Dovresti informarti. E non usare questo linguaggio da caserma in casa.

Palmira annuisce con una smorfia di disgusto, come un nobile francese che sarebbe un

godere lavargli il collo con la ghigliottina.

Conseguentemente il sergente diventa giacobino:

Non è un linguaggio da caserma. Cazzo lo dicono anche in TV, lo dice anche Geppo

Baldo. E magari lo dice anche Suor Germana, quando non la sente nessuno. E magari

anche messiè Sailcazzo, quello che alleva le mucche in Francia.

Adelmo!

Palmira si alza.

Torno nella mia camera. Quando sarete tornati civili avvisatemi.

Ce ne guarderemo bene. E se vuoi un maschio per non sentirti sola fammelo sapere,

io ne comando tanti!

Palmira solca imperiosa e nera come una corazzata le acque tempestose di casa

Mazzacurati e approda nella sua camera. Si chiude dentro con quattro mandate.

Ha paura che glielo comandi davvero l'uomo? Poveretti, gli basta già la naja.

Olga se ne sta seduta con il viso nascosto tra le mani.

Hai finito Adelmo?

No, non ho finito. Adesso vado a mangiare un toast al bar e torno in caserma. Poi in

fabbrica. E ci resterò fino a quando non mi avrai avvisato che la Strega Palmira Pallanera

ha fatto fagotto. Chiaro? Sciò, fuori dai piedi, anzi, fuori dalle palle!

Normalmente il sergente non è tanto sboccato, né parla a voce tanto alta. E infatti si deve

obbligare a farlo, un po' come un insegnante che cerca di non uscirsene mai con un

nonfarmincazzare, ma al contrario. Se gli viene perbacco DEVE farlo diventare perdio, se

sta per dire porcatrottola si ferma all'ultimo microsecondo per trasformare l'ottola in oia.

Olga non l'ha mai visto così, rosso apoplettico e definitivo, quasi ducesco nel gesto

esagerato da divo del muto.

Adelmo, ti prego...

Il sergente indossa la giacca, il cappotto, il cappello con gesti da baleniere mentre snocciola

il suo rosario a base di maleparole udite in caserma e finora attentamente rimosse.

Nel breve volgere di tre minuti la signora Olga apprende il lessico di un pirata plebeo in

una situazione difficile, tipo quando la colubrina è scarica e gli spagnoli stanno arrivando.

Quella ficamorta deve portare il suo culone fuori di qui entro stasera, alles kapito?

M'ha strarrotto i coglioni lei e le sue puzze sotto il naso da gransignora degli zebedei.

Altrimenti non mi vedi più e a letto ci vai con tua sorella. Ebbuon divertimento!

Siccome ...vertimento è stato pronunciato dopo l'angolo della scala alla povera Olga è stato

se non altro risparmiato il brutale invito all'omosessualità incestuosa. Nell'aria è rimasto

solo un ebbuondi... che potrebbe passare per un saluto talmente affrettato da trascurare

accenti e cortesie.

Il primo pensiero della signora Olga è "meno male che se ne è andato", riflessione

interamente dovuta all'esistenza di vicine malevole. Poi, mentre lava i piatti, la consorte del

Sergente si chiede per la prima volta da anni se il marito non abbia un po' ragione. La casa

per loro due soli... la stanza della sorella trasformata finalmente in serra... seratine

romantiche... magari qualche ritorno di fiamma... qualche bacetto, carezze... La signora

Olga arrossisce e sorride. Ficamorta non l'ha mai sentito, ma la diverte da matti, non sa

nemmeno lei perché.

Cos'hai da ridere?

Palmira sulla porta della cucina, avvolta nello scialletto e con gli occhiali sul naso sembra

l'idea platonica della zia cattiva.

Niente, lo sai che il geometra del piano di sopra ha dei monolocali da affittare?

Nemmeno troppo lontani da qui.

Misteri d'Italia

Gigio in casa a metà mattina sta facendo pulizie.

C'è da dire che da quando è arrivato lui la casa di Nena è diventata uno specchio. Gigio è il

tipo che spazza anche sotto il letto, dietro i sanitari del bagno o che lucida i rubinetti e

passa il vetril sui vetri smerigliati delle porte, accompagnando l'operazione con degli

eccoguarda! da far sobbalzare anche i vicini.

Quando suona il campanello è alle prese con una vasca da bagno che andava

rismaltata dieci anni prima e che adesso assomiglia allo scafo di una barca affondata.

Va ad aprire con in mano una spugna e i capelli un po' lunghetti tenuti fermi da una

fascia tipo mescalero.

Buongiorno.

Il sergente Mazzacurati, con l'orlo del cappello ad alzo sopracciglia sembra un agente della

CIA con la luna storta e Gigio per un istante interminabile sente le gambe farsi di burro.

Buongiorno a lei.

Posso entrare?

Come no.

Gigio rincula e l'Esercito Italiano gli penetra in casa.

Il sergente toglie il cappello e tace.

Mi dica, azzarda Gigio.

É una cosa un po' delicata.

Adelmo Mazzacurati si decide ad alzare lo sguardo. Fissa in sequenza la spugna e la fascia

da pellerossa ma non dà segni di alcun tipo.

Lei lavorava alla Mativa giocattoli, non è vero?

Infatti.

Basilio Berardelli, giusto?

In persona.

Ecco... Posso togliermi il cappotto?

Ma certo. Il riscaldamento qui è un po' sparato. Ci chiediamo come faremo a

pagarlo.

Lei vive qui con Antonia Bersano, mi hanno detto.

Nena, io l'ho conosciuta come Nena, ma fa Antonia, di nome.

La condotta del milite lo lascia perplesso. Come minimo avrebbe già dovuto minacciarlo di

nefandezze iperburocratiche e di raffinate rappresaglie a colpi di marca da bollo, se non

addirittura di detenzioni, punizioni e processi. Invece niente, il graduato ha un aria assai

poco ufficiale - tuttalpiù sottufficiale, avrebbe detto Totò - e non si schioda dalla mattonella

che gli ha dato finora ospitalità.

Sarei contento ci fosse anche la signorina.

É andata a fare un po' di spesa, ma dovrebbe rientrare a momenti.

Vabbé, la cosa posso cominciare a vedermela con lei. Allora, mi stia bene a sentire.

Lei ha dormito in quella fabbrica per mesi, vero?

Sì, non è che mi divertissi, ma...

Ecco, appunto!

Il sergente si illumina.

E perché non si divertiva? Perché in quella fabbrica ci si sente, ho ragione?

l sergente parla con lui, per una mezz'oretta, poi con Nena per quasi un'ora, non

accetta un invito a pranzo ma giusto perché è di servizio e se ne va con il cappello in

posizione normale.

Ne hai di fantasia, eh Gigio?

Un po'

La storia dell'Orfanotrofio con le monache eretiche a me è sembrata un po'

eccessiva.

Gigio sorride.

Ha funzionato.

Eretiche e sadiche. Che torturavano i bambini. E li ammazzavano. Da fumetto.

Già, però gli è piaciuta.

Cribbio, aveva una faccia. É diventato pallido come un lenzuolo. Ma potrebbe fare

delle ricerche, informarsi. Tu sai cosa c'era lì prima della Mativa?

Una fattoria, credo. O forse un cimitero della automobili. Ma le monache c'erano nel

700 o anche prima.

Ah. Ma senti Gigio, mica è vera la storia, quella delle monache, eh?

Abbandono del posto.

In certi casi quando si avanza per la strada si deve procedere in ordine sparso,

soprattutto quando si sta venendo meno alla consegna e si abbandona la postazione.

Otto militari dell'esercito della Repubblica nata dalla Resistenza camminano veloci

evitando i lampioni, spostandosi negli angoli bui e tenendo il berrettino con il fiocchetto in

fondo ben rincalzato sugli occhi.

In un primo momento il sergente ha anche pensato di alloggiare in pensione, ma

valutando il costo dell'operazione ha invitato i militi a munirsi di sacco a pelo ed effetti per

l'igiene personale.

E dove si va?

I casi sono due: o consigliarsi con la truppa o dire avanti march!

Sergente Mazzacurati è conscio della delicatezza della situazione. Si può decentemente

ordinare ai sottoposti di tradire la consegna o è meglio fare come nella gloriosa armata

Rossa, laddove soldati e ufficiali discutevano insieme almeno di tattica se non di strategia?

Ragazzi bisogna discutere!

I sette bersaglieri sollevano le sopracciglia e non banfano. Mai visto un sergente che vuole

discutere con la bassa forza. O meglio, anche visto, ma solo nei film con pattuglie sperdute

e nemici terrificanti, tipo Alien, per capirci.

Il soldato Stenti si rimpiatta dietro la schiena poderosa del caporale Mingardi, nel

caso di allucinanti, barocche esplosioni di violenza aliena.

Io non ho intenzione di passare un'altra notte, anche una sola in questo posto. -

Perché andare per approssimazioni, tanto vale sputare il rospo - Diciamo che ho buoni

motivi per ritenere che i... fenomeni dei quali siamo stati testimoni abbiano un origine...

un'origine tale da far escludere la possibilità che cessino spontaneamente. D'altro canto

non credo che il comando del battaglione sarebbe disposto a prendere in considerazione la

mie riserve. Ho pensato anche di ricorrere al cappellano del reggimento, padre Tadei, ma...

alcune considerazioni mi hanno sconsigliato. Quindi vi chiedo: se ce ne andassimo a

dormire in qualche altro posto e rientrassimo qui per l'alba?

Ci vuole almeno un attimo per assimilare l'idea ma non c'è nessun bisogno di

discutere.

Va bene, sergente. Partiamo subito.

Spegnete le candele.

I sette scattano come un reparto robot e a mezzanotte passata varcano il cancello della

fabbrica ancora addobbato con frammenti e ritagli dello striscione originale, ridotti a un

crittogramma in campo rosso:"...B.IC. ..CUP.TA"

Olga?

Madame Mazzacurati ricorda un pochino la moglie di Maigret, alle volte. Arriva in

vestaglia celeste e bigodini, ma, nonostante la mise piccolo borghese, sa avere fantasia e

prontezza di spirito.

Avete mangiato?

Ecco...

Olga guarda il marito che si stringe nelle spalle.

Faceva freddo. E nessuno aveva molta voglia di mangiare.

Ho capito.

Ma hanno capito anche i militi. Aguggiani posa il sacco a pelo e tira su le maniche.

L'aiuto io, signora, ha delle uova? Io faccio una carbonara... Permette?

Adelmo la tira da parte.

Dov'è Palmira?

Nella sua stanza.

Fa' in modo che ci resti.

Madame Olga annuisce ma in cuor suo dubita. In ogni caso evita di prendere

contatto, lasciando che le cose facciano il loro corso.

I bersaglieri si stipano al tavolo di cucina, felici e contenti come ragazzini a casa di

un amico momentaneamente privo di genitori.

Il sergente scende in cantina a prendere un paio di bottiglie di rosso - di quello che

non si fa più - e la carbonara riesce una meraviglia.

Palmira arriva verso l'ultima forchettata, con i suoi famosi occhiali da sole modello

Jaruzelskj.

Se ne sta impalata sulla soglia reggendo un valigino con i nomi degli hotel stampati.

Me ne vado! Annuncia carica di disgusto e amarezza.

L'abbiamo disturbata? Chiede il soldato Venturini, rampollo di famiglia dabbene.

Sì, e poi mi fate schifo.

Il sergente si alza, arriva al frigorifero e chiede:

Qualcuno vuole del prosciutto?

Estrae da un sacchetto un pacchetto rosa legato col cordino.

Telefona, ogni tanto Palmera. Ma non spesso.

Il tonfo della porta chiusa da Palmira Pallanera arriva mentre tutti stanno facendo un

brindisi per la Signora Olga, bella e ospitale.

Le bambole in volo

Qui non c'è più un cane.

Già.

Domani sera veniamo a prendere le bambole.

C'è da avvisare Baffo Bianco.

Non c'è problema.

Se non succede nient'altro...

Eppiantala Enrico, non abbiamo avuto abbastanza sfiga così?

Gigio punta la torcia elettrica sulle bambole sedute a occhi aperti.

In fin dei conti ci riprendiamo giusto quello che abbiamo fatto noi. Ci riappropriamo

del frutto del nostro lavoro.

Chi l'ha detto?

L'ha chiesto Pino, vestito tutto di nero, come un topo d'albergo anni '40.

Marx, credo.

Bella frase.

Non è mica l'unica.

Beh, però anche Mussolini...

Eh no, Pino, non tirarmi fuori il Duce proprio adesso.

Sei tu che hai tirato fuori Markès. Il Duce per esempio ha detto: NOI TIREREMO

DIRITTO.

Già. E ha fatto una caterva di cazzate.

L'hanno consigliato male. Non poteva mica fare tutto da solo.

Però ci ha provato, il coglione. Andiamo che è meglio.

E adesso che ne facciamo?

Gigio guarda Nena, poi la Signora Hanan, poi uno ad uno i protagonisti dell'avventura,

compresa la micia Ester.

Bella domanda.

Si potrebbero regalare a un orfanotrofio, o a un asilo. Propone Enrico.

In effetti ci avevo pensato, ma non credo che ci lascino.

A un ricovero, dice Nena.

Stesso problema.

Si va ai giardini e le si dà ai bambini che si incontrano...

Però poi le mamme...

Proprio così, Enrico. Minimo chiamano il 113. Adescamento.

Si trovano nel retro del bar di Lino, davanti al tavolo verde, ma senza carte.

Ci sono anche Baffo Bianco, Scassaca' e Occhipinti, quest'ultimo per solidarietà.

Vi faccio un film, un documentario, un video, qualcosa insomma che faccia ricordare

tutta la storia.

Si può fare, certo, ma poi chi lo va a vedere? Lo passano all'Ambrosio, al Lux, al

Cabiria? O magari su Rete Quattro?

No.

Bene, allora risparmia i soldi.

Lino porta bottiglia e bicchieri. Anche un piattino e un cartoccio di latte, visto che è un vero

barista.

Qualcuno ha qualche idea?

Se è Gigio a chiederlo, quello che in genere le idee deve sudare per farle accettare, la cosa

dev'essere grave.

E poi c'è il pallone. Dice Baffo Bianco nel silenzio da chiesa. Io sono stufo di tenerlo

in rimessa.

... Il pallone... Ci sono!

Hanno dovuto cambiare le navicella e la scritta in nero sull'argento del pallone è diventata

"LA MATIVA GIOCATTOLI FA LE BAMBOLE CON LE ALI."

É l'alba di un giorno di fine Marzo.

Ci sono dieci persone, un camion e una gatta sul prato dietro la ex-Mativa, un

campo di calcio spelato dove si allena la Borgo Armida s.s..

Gigio, Nena, Pino, Enrico, la Signora Hanan, i fratelli Ju, Dante Occhipinti, Baffo

Bianco, Scassaca', Lino il barista e Armando il Maggiore.

Guardano alzarsi il pallone con le bambole, lo vedono prendere vento, diventare una

bolla di sole sulle montagne lontane.

Ci sarebbe da essere un po' tristi, come riguardarsi in una fotografia di tanti anni

prima. Difatti nessuno guarda in faccia nessuno, alla fine dell'avventura. Niente sarà più

come prima, adesso. Ma la città è stranamente bella, mentre dorme grigia e ruggine.

Bisogna esserci nati e averla respirata, per capire: sapere che lo sguardo a fine corsa ha

comunque un appiglio, che ci sarà sempre un balcone, una finestra, un geranio, qualcosa di

usato, consueto, qualcosa di dormito, mangiato, stropicciato, calpestato, tenuto in mano,

trascinato dietro di sé, a darci speranza.

É che il cielo e lo spazio senza fine ci fanno un po' paura, a noi di città, ci mettono dentro

un po' di vuoto.

Guardare le pippette volar via e sentire un po' di quel vuoto che scivola dentro è

praticamente la stessa cosa.

A bordo le duecento pippette guardano la città dall'alto.

Le auto, colorate e piccole come caramelle, sono il massimo del bello.

Stanno zitte, ma solo perché per il momento hanno ancora paura.

FINE

AGOSTO 1995

OTTOBRE 1998

OTTOBRE 2013

© M.Citi