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LE MALATTIE GENETICHE EREDITARIE Facoltà di Medicina e Chirurgia di Catania Platania Alessio INTRODUZIONE -il DNA Il DNA costituisce il materiale ereditario della cellula. L’acido deossiribonucleico (DNA) è costituito da una lunga catena di nucleotidi, ogni nucleotide è formato da una base azotata, dallo zucchero deossiribosio e da un gruppo fosfato. Vi sono due tipi di basi azotate: le purine, che presentano una struttura a due anelli e le pirimidina, che hanno un solo anello. Nel DNA vi sono due tipi di purine, l’adenina (A) e la guanina (G), e due tipi di pirimidine, la citosina (C) e la timina (T). Riunendo i vari dati Watson e Crick dedussero che il DNA è una doppia elica molto lunga e spiralizzata, inoltre trovarono un importante vincolo legato alla sua conformazione, scoprirono infatti che; non solo le purine non potevano appaiarsi con altre purine, e le pirimidine con altre pirimidine, ma anche che, a causa della struttura delle basi azotate, l’adenina poteva appaiarsi soltanto con la timina mediante due legami a idrogeno e la guanina soltanto con la citosina, formando tre legami a idrogeno. Le basi appaiate erano complementari. Ognuno dei due filamenti ha una direzione, ciascun gruppo fosfato è attaccato a una molecola di zucchero in posizione 5’ e a un'altra molecola di zucchero in posizione 3’, ogni filamento ha perciò un’estremità 5’ e una 3’. All’interno della doppia elica i due filamenti corrono in senso opposto, vengono perciò definiti antiparalleli. Lungo una catena i nucleotidi possono disporsi in un ordine qualunque, ma la loro sequenza determinerà l’ordine dei nucleotidi dell’altra catena, in quanto le basi azotate sono complementari. -duplicazione del DNA La duplicazione del DNA è un processo che si verifica una sola volta a ogni generazione cellulare, durante la fase S del ciclo cellulare. Nella maggior parte delle cellule eucariote la duplicazione del Dna è seguita da mitosi, mentre nelle cellule che danno origine ai gameti viene seguita dalla meiosi. Essa è semiconservativa, cioè da una molecola di DNA ne otteniamo due 1

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LE MALATTIE GENETICHE EREDITARIEFacoltà di Medicina e Chirurgia di Catania

Platania Alessio

INTRODUZIONE

-il DNA

Il DNA costituisce il materiale ereditario della cellula. L’acido deossiribonucleico (DNA) è costituito da una lunga catena di nucleotidi, ogni nucleotide è formato da una base azotata, dallo zucchero deossiribosio e da un gruppo fosfato. Vi sono due tipi di basi azotate: le purine, che presentano una struttura a due anelli e le pirimidina, che hanno un solo anello. Nel DNA vi sono due tipi di purine, l’adenina (A) e la guanina (G), e due tipi di pirimidine, la citosina (C) e la timina (T). Riunendo i vari dati Watson e Crick dedussero che il DNA è una doppia elica molto lunga e spiralizzata, inoltre trovarono un importante vincolo legato alla sua conformazione, scoprirono infatti che; non solo le purine non potevano appaiarsi con altre purine, e le pirimidine con altre pirimidine, ma anche che, a causa della struttura delle basi azotate, l’adenina poteva appaiarsi soltanto con la timina mediante due legami a idrogeno e la guanina soltanto con la citosina, formando tre legami a idrogeno. Le basi appaiate erano complementari.Ognuno dei due filamenti ha una direzione, ciascun gruppo fosfato è attaccato a una molecola di zucchero in posizione 5’ e a un'altra molecola di zucchero in posizione 3’, ogni filamento ha perciò un’estremità 5’ e una 3’. All’interno della doppia elica i due filamenti corrono in senso opposto, vengono perciò definiti antiparalleli. Lungo una catena i nucleotidi possono disporsi in un ordine qualunque, ma la loro sequenza determinerà l’ordine dei nucleotidi dell’altra catena, in quanto le basi azotate sono complementari.

-duplicazione del DNALa duplicazione del DNA è un processo che si verifica una sola volta a ogni generazione cellulare, durante la fase S del ciclo cellulare. Nella maggior parte delle cellule eucariote la duplicazione del Dna è seguita da mitosi, mentre nelle cellule che danno origine ai gameti viene seguita dalla meiosi. Essa è semiconservativa, cioè da una molecola di DNA ne otteniamo due aventi ciascuna una catena polinucleotidica parentale (quella originale) ed una catena di nuova sintesi. Per la sintesi del DNA occorrono:

1) stampo di DNA2) nucleotidi3) enzima Dna Polimerasi4) ATP/NADH (come energia)

Delle due catene di DNA una è il filamento Leader o veloce, cioè che viene copiato velocemente dall’enzima, l’altra catena invece è il filamento lento. La DNA Polimerasi sa leggere solo in direzione 5’ 3’. Per la duplicazione all’inizio occorre un enzima che si chiama DNA Elicasi, la cui funzione è quella di aprire la doppia catena del DNA, dopodichè entra in gioco l’enzima Primasi ( si tratta di un enzima che deve fabbricare un Primer di RNA). La DNA Polimerasi ha bisogno di un innesco (Primer) perché non sa dove cominciare a leggere. Quando si arriva a copiare il filamento lento questo viene copiato sotto forma di frammenti detti “frammenti di Okazaki”; siccome ci sono dei vuoti tra un frammento e l’altro, entra in gioco un quarto enzima che si chiama DNA Ligasi aventete la funzione di riempire i vuoti. Alla fine della duplicazionedeve essere rimosso il Primer che viene sostituito dalla DNA Polimerasi.

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-il ruolo dell’RNAIl Dna è il codice che contiene le istruzioni della struttura e della funzione biologica, queste istruzioni sono eseguite dalle proteine. La sequenza lineare degli amminoacidi di una catena polipeptidica determina la struttura tridimensionale dell’intera proteina, ed è questa struttura che determina la sua funzione. Ma come fa la successione delle basi azotate a determinare la sequenza degli amminoacidi di una proteina? La risposta è nell’ acido ribonucleico (RNA), una sostanza chimicamente simile al DNA. Vi sono tre differenze principali tra l’RNA e il DNA:

1) nei nucleotidi dell’RNA lo zucchero è il ribosio e non il deossiribosio;2) la base azotata timina, che si trova nel DNA, non è presente nell’RNA; al suo posto l’RNA

contiene una pirimidina molto simile, l’uracile (U) che, come la timina, si appaia solo con l’adenina;

3) la maggior parte dell’RNA è composto da un filamento singolo.

Tre tipi di RNA agiscono come intermediari nei processi che, partendo dal DNA, portano alle proteine, ma al momento ne descriverò soltanto uno: l’RNA messaggero.Le molecole di RNA messaggero sono copie (trascrizioni) di sequenze nucleotidiche codificate nel DNA. A differenza del DNA, tuttavia, le molecole di RNA hanno in genere un solo filamento. Ogni nuova molecola di mRNA viene copiata, o trascritta, da uno dei due filamenti del DNA con lo stesso principio dell’accoppiamento delle basi che regola la duplicazione del DNA.Come un filamento di DNA, ogni molecola di RNA ha un’estremità 5’ e una 3’. I nucleotidi, che sono presenti nella cellula come trifosfati, si aggiungono, uno alla volta alla catena di RNA in formazione a partire dall’estremità 3’. Il processo conosciuto come trascrizione, è catalizzato dall’enzima RNa Polimerasi; questo si muove in direzione 3’ 5’ lungo il filamento stampo del DNA, sintetizzando un nuovo filamento complementare di nucleotidi in direzione da 5’3’. Il DNA è la copia matrice dell’informazione genetica, costantemente a disposizione sui cromosomi. L’RNA messaggero, invece, è la copia di lavoro dell’informazione genetica; acquisendo le istruzioni codificate nella molecola di Dna, l’mRNA detta la sequenza di amminoacidi che caratterizza le proteine. Quando il suo compito è terminato, l’mRNA si scompone nei nucleotidi che lo costituiscono, i quali poi saranno di nuovo disponibili per la sintesi di altre molecole di mRNA.

-il codice genetico

Le proteine contengono 20 amminoacidi differenti, mentre il DNA e l’RNA solo quattro diversi nucleotidi. Se ciascun nucleotide << codificasse>> per un amminoacido le quattro basi potrebbero determinare solo quattro amminoacidi; Se un amminoacido corrispondesse a due nucleotidi, ci sarebbe un massimo di 4x4 = 16 combinazioni possibili; perciò ogni amminoacido deve essere determinato da almeno tre nucleotidi in sequenza; in questo modo si hanno 4x4x4= 64 combinazioni possibili, o codoni. Delle 64 possibili combinazioni di triplette, 61 determinano amminoacidi e tre sono segnali di arresto. Essendoci 61 combinazioni codificanti per solo 20 amminoacidi, è chiaro che molti amminoacidi devono avere più di un codone , questo è un sistema di protezione dalle mutazioni.

-i cromosomi

Il DNA è avvolto a formare i cromosomi, visibili al microscopio come strutture simili a bastoncini. Normalmente, ciascuna cellula umana possiede 46 cromosomi, di cui 23 sono ereditati dalla madre, 23 dal padre. Questo è il nostro corredo cromosomico:

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2 cromosomi sessuali: il cromosoma X e il cromosoma Y. Le femmine possiedono due copie dell'X (XX) i maschi possiedono un cromosoma X e un cromosoma Y (XY). Il cromosoma Y è sempre di origine paterna.

22 coppie di cromosomi non sessuali, detti autosomi, uguali a due a due. Questo fa sì che ciascun gene dell’organismo sia presente in due copie, una di origine materna e l’altra di origina paterna. Ognuna delle due copie è detta allele.

Non sempre gli alleli sono uguali fra loro, anzi molto spesso presentano delle differenze. Gli alleli sono quindi versioni diverse dello stesso gene. Fanno eccezione i geni contenuti nel cromosoma X e Y, che sono presenti in una sola copia nel maschio, in due copie nella femmina. Il cariotipo è l’insieme del corredo cromosomico di un individuo.

-i geni

All'interno di ciascun cromosoma si trovano migliaia di geni. Ognuno è un segmento di DNA che contiene le istruzioni per fabbricare una proteina. I geni sono le unità funzionali del patrimonio genetico: se paragoniamo il genoma ad una enciclopedia, ogni gene rappresenta una singola frase.

Si stima che nel genoma umano esistano 30-40mila geni. Curiosamente, i geni rappresentano solo il 2 % circa di tutto il DNA umano. La maggior parte del DNA non codifica per alcuna proteina, e la sua funzione non è ancora del tutto chiara.

GENERALITA SULLE MALATTIE GENETICHE

Le malattie genetiche sono malattie causate da un'alterazione del patrimonio genetico (DNA) che, nella maggior parte dei casi sono ereditarie. Non tutte queste patologie sono trasmesse alle generazioni successive in quanto il patrimonio genetico di un individuo può subire modificazioni, mediante fattori esterni (es.: radiazioni nucleari), anche dopo la nascita e, se queste mutazioni non coinvolgono le cellule germinali (spermatozoi nel maschio e ovuli nella femmina), la persona che ne è portatore non la trasmetterà ai propri figli. È questo il caso del cancro, malattia genetica in genere non ereditaria.

Le malattie genetiche si possono dividere in monogeniche o mendeliane (alterazione di un singolo gene), cromosomiche (alterazione del numero o della struttura di uno o più cromosomi), multifattoriali (concorrono più geni ed intervengono fattori esterni affinché si instauri la malattia); a queste si aggiunge una categoria particolare, quella delle malattie mitocondriali.

Ereditarietà monogenica

Molte malattie ereditarie dell'uomo sono determinate da mutazioni in singoli geni e sono quindi trasmesse come caratteri monogenici. In questo le malattie monogeniche si differenziano da quelle multifattoriali, ma questa distinzione non è così netta, perché molte malattie monogeniche presentano sintomi che variano - per tipo e gravità - da individuo a individuo, spesso per la presenza di geni modificatori diversi. Le malattie monogeniche si possono trasmettere con tre modalità diverse:

-Autosomica dominante: Si verifica quando la presenza di un solo allele alterato è sufficiente per dare origine alla malattia. La malattia quindi si manifesta sia negli individui eterozigoti che omozigoti.

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E' come se l'allele alterato dominasse su quello normale, per questo si parla di trasmissione dominante. Per questa modalità di trasmissione non esistono portatori sani. Si dice autosomica per differenziarla dalla trasmissione legata all' X.-Autosomica recessiva: Perché si verifichi la malattia è necessario che entrambi gli alleli siano alterati. La malattia quindi si manifesta solo negli individui omozigoti, mentre gli eterozigoti sono portatori sani. Si dice autosomica per differenziarla dalla trasmissione legata alla X.-Legata all' X: Si verifica quando l'alterazione riguarda geni contenuti nel cromosoma X. In questo caso- a differenza della trasmissione autosomica - le probabilità di ammalarsi sono diverse nei maschi e nelle femmine. Le femmine eterozigoti in genere sono portatrici sane; i maschi eterozigoti -che in questo caso si dicono emizigoti - si ammalano. Non esistono maschi portatori sani.

Lo studio dell'albero genealogico permette in molti casi di distinguere tra questi diversi meccanismi ereditari individuando il modello di trasmissione di una determinata malattia monogenica.

Eredità Cromosomica

Le malattie causate da anomalie cromosomiche sono tra le più importanti cause di morte prenatale o di malattie congenite. Esse derivano da variazioni nel numero o nella struttura dei cromosomi.

La presenza di un cromosoma soprannumerario è detta trisomia (es. trisomia 21 o sindrome di Down). Al contrario, la mancanza di un cromosoma è detta monosomia (es. sindrome di Turner). Anomalie cromosomiche da modificazioni della struttura cromosomica

Le anomalie di struttura dei cromosomi hanno origine da rotture o da un alterato ricongiungimento allorché un cromosoma subisce una rottura.

La più tipica anomalia strutturale è la delezione, ossia la perdita di una porzione più o meno grande di cromosoma (es. sindrome del "crì du chat" da delezione del braccio corto del cromosoma 5).

A volte, come conseguenza di una rottura di una porzione di cromosoma si ha il trasferimento di questa parte su un altro cromosoma: questa anomalia è detta traslocazione. Se con questo riarrangiamento non viene perso DNA i soggetti eterozigoti sono clinicamente normali.

Eredità Multifattoriale

La maggior parte dei caratteri dell'essere umano non segue la trasmissione Mendeliana, ma è determinata dall'intervento di più geni, che spesso interagiscono con l'ambiente. Questi caratteri, a differenza di quelli monogenici, non sono facilmente riconoscibili con l'analisi dell'albero genealogico.

Sono molti i difetti congeniti e le malattie dell'adulto che vengono ereditati come caratteri multifattoriali. I fattori che concorrono a determinare la manifestazione del carattere si chiamano fattori di suscettibilità. Quando il numero dei fattori di suscettibilità di una malattia supera un determinato valore detto soglia la patologia ad essi legata comparirà. Il numero di persone che superano il valore soglia definiscono la cosiddetta prevalenza della malattia nella popolazione.

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Nel caso di matrimonio tra consanguinei il numero medio dei fattori di suscettibilità di una determinata malattia è superiore a quello del resto della popolazione.Un numero elevato di persone affette da una determinata malattia in una stessa famiglia, o la particolare gravità di essa, indica la presenza, in quella famiglia, di un numero relativamente elevato di fattori di suscettibilità.

Eredità Mitocondriale

I mitocondri sono dei corpuscoli contenuti nel citoplasma della cellula che contengono un proprio DNA, che possiede caratteristiche differenti dal DNA contenuto nel nucleo della cellula stessa:

è soggetto a mutazioni spontanee più frequentemente; possiede meccanismi di riparazione poco efficaci; è presente in oltre un migliaio di copie in ogni cellula; viene trasmesso con eredità materna non mendeliana;

In questo tipo di ereditarietà l'espressione della malattia è in funzione della quantità di genomi mutati presenti in ciascun organo e dalla dipendenza dell'organo dai processi ossidativi i quali vengono proprio svolti nei mitocondri.Il cuore, i muscoli ed il cervello sono pertanto gli organi più spesso colpiti da una malattia con eredità mitocondriale.

Poiché il DNA mitocondriale interagisce con il DNA nucleare si possono distinguere tre gruppi di malattie mitocondriali geneticamente determinate:

dovute a difetti del DNA nucleare; dovute a difetti del DNA mitocondriale; dovute a difetti di "comunicazione" tra i due genomi;

LA DIAGNOSI PRENATALE

Lo scopo della diagnosi prenatale (DP) è quello di offrire ai genitori e al medico le migliori informazioni possibili sui rischi di dare alla luce un bambino affetto da un'anomalia congenita o da una malattia genetica. Fondamentalmente, possiamo dividere le tecniche di DP in due tipi: quelle invasive e quelle non invasive. - Si dice non invasiva una tecnica che permette di analizzare il feto "dall'esterno", senza rischi di alterazioni o danni per la madre o per il nascituro. Le metodiche di DP non invasive attualmente piu' in uso sono l'ecografia, il tri-test, la valutazione della translucenza nucale ed in alcuni casi il bi-test. -Si dice invasiva una tecnica di DP che comporta la penetrazione nella cavità uterina.Le metodiche di DP invasive più utilizzate sono l'amniocentesi (prelievo di liquido amniotico), la villocentesi (prelievo dei villi coriali), e la funicolocentesi (prelievo di sangue fetale). Non si tratta di tecniche di analisi, ma di procedure di prelievo, che permettono di ottennere materiale di origine fetale: cellule, liquidi o tessuti biologici. Il campione verrà poi analizzato in laboratorio utilizzando a seconda dei casi tecniche biochimiche, citogenetiche o molecolari.

Le tecniche di diagnosi non invasive:

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1) L'ecografia 2) La traslucenza nucale 3) Il TRI-TEST 4) Il BI-TEST

L'ecografia L'esame ecografico si basa sulla capacità dei tessuti di riflettere particolari onde sonore chiamate ultrasuoni.Questo permette di avere un immagine dell'interno dell'utero e del feto. L'ecografia fornisce molte informazioni sul decorso della gravidanza e sullo stato del feto, come ad esempio: - la localizzazione intra-uterina o extra-uterina della gravidanza- l'eventuale presenza di gemelli- l'epoca di gravidanza- la crescita, la posizione e la vitalità del feto- lo stato della placenta- il sesso del feto- la presenza di malformazioni fetali- lo stato del liquido amniotico- la presenza di alcune anomalie cromosomiche Per la sua utilità e innocuità, l'esame ecografico è ormai praticato a scopo preventivo su tutte le gestanti e a diverse epoche della gravidanza.

La traslucenza nucale Un esame di recente introduzione è l'ecografia per la valutazione della translucenza nucale, che evidenzia se nella parte posteriore della nuca del feto vi è un accumulo di liquido. Questa condizione può infatti essere associata ad un problema genetico.Viene effettuata tra la decima e la quattordicesima settimana di gestazione, in caso di rischio elevato si può procedere per tempo a ulteriori analisi (villocentesi o amniocentesi).

Il TRI-TEST Il tri-test si effettua preferibilmente tra la 15a e la 17a settimana di gravidanza, consiste nel dosaggio di tre ormoni circolanti nel sangue materno durante la gravidanza, tali sostanze prodotte dal feto e dalla placenta sono l'alfafetoproteina (AFP), l'estriolo-non-coniugato (uE3) e la gonadotropina corionica (hCG).L'epoca di gestazione va determinata con esattezza, infatti, la concentrazione degli ormoni varia durante la gravidanza.La valutazione combinata di queste tre sostanze e di altri parametri (eta' materna, peso, fumo, etcc.) permette di individuare le donne con un rischio aumentato di partorire un feto affetto da Sindrome di Down, difetti del tubo neurale o da altre anomalie cromosomiche. Iil TRI-TEST può stabilire se esiste una probabilità' maggiore rispetto ad un valore di riferimento scelto (cut-off), che il feto sia affetto, ma non significa che il feto sia sicuramente malato. Il valore del cut-off, puo' cambiare da regione a regione.La diagnosi puo' essere accertata solo attraverso l'indagine citogenetica fetale (amniocentesi).In questo caso e' la coppia che deve decidere se sottoporsi o meno all'amniocentesi, non e' infatti obbligatorio eseguire l'amniocentesi. Un rischio di S. di Down inferiore al cut-off, non esclude completamente la possibilita' che il feto sia affetto dalla Sindrome o da altre anomalie cromosomiche. Il tri-test e' in grado di individuare circa 2 feti su 3 affetti da S. di Down e 3 feti su 4 affetti da trisomia 18.

Il BI-TEST

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Il bi-test e' sostanzialmente sovrapponibile al tri-test, infatti si tratta anche in questo caso di una stima di rischio. In molti centri e' svolto solo a livello sperimentale poiché si tratta di un esame di recente introduzione.Viene preferibilmente effettuato fra la 10ma e la 12a settimana di gravidanza, in questo modo si ha a disposizione più tempo in caso si rendessero necessari ulteriori accertamenti. E' importante tenere presente che che sia il tri-test che il bi-test consentono esclusivamente una valutazione probabilistica, cioè, non permettono di identificare o di escludere direttamente le anomalie cromosomiche ma di selezionare pazienti a basso e ad alto rischio.

Le tecniche invasive di prelievo: 1) L'amniocentesi 2) Il prelievo dei villi coriali 3) La funicolocentesi

L'amniocentesi L'amniocentesi consiste nel prelievo, mediante un ago sottile, di liquido amniotico, cioè del liquido che circonda il feto all'interno dell'utero. L'ago viene introdotto di solito attraverso l'addome, tutta l'operazione viene guidata tramite ecografia, per evitare di procurare danni al feto o alla madre.Nel liquido amniotico si trovano alcune cellule fetali (chiamate amniociti), che vengono prelevate ed utilizzate per le analisi citogenetiche e/o molecolari.L'analisi del liquido amniotico può dare importanti indicazioni sulla presenza di malattie genetiche. Una proteina del liquido amniotico che viene frequentemente misurata è l'alfa-feto-proteina (AFP), prodotta dal feto.Quando il valore di AFP è elevato, può indicare la possibilità di malformazioni fetali, come difetti del tubo neurale (spina bifida, anencefalia o meningocele), difetti della parete addominale e altri.L'amniocentesi non è un procedimento doloroso (più o meno come una normale puntura), è veloce e si pratica senza anestesia. L'amniocentesi si può praticare a partire dalla 15a - 16a settimana di gravidanza.Come tutte le procedure invasive, l'amniocentesi presenta una certa percentuale di rischio di aborto spontaneo, calcolata intorno allo 0.5 per cento (se praticata da personale esperto e ben attrezzato).Per questo motivo - oltre che per il costo - l'amniocentesi non viene offerta di routine a tutte le madri, ma solo nei casi considerati a rischio.

Il prelievo dei villi corialiE' una procedura che consiste nel prelievo di un minuscolo frammento di tessuto dalla placenta (o meglio dal corion, la parte di placenta che "appartiene" al feto).Il prelievo avviene per via transcervicale (cioè attraverso la cervice uterina) o per via transaddominale (come l'amniocentesi), a secondo della posizione della placenta. Le cellule fetali ottenute con il prelievo vengono poi utilizzate per le indagini citogenetiche e/o molecolari. Quali sono i pro e i contro del prelievo dei villi coriali rispetto all'amniocentesi? Vantaggi: Rispetto all'amniocentesi, il prelievo dei villi coriali offe il vantaggio di poter essere effettuato più precocemente (intorno alla 10a - 12a settimana di gravidanza). Svantaggi: il prelievo dei villi coriali presenta un rischio più elevato di aborto: circa il 2 per cento. Inoltre, dato che non viene prelevato liquido amniotico, non è possibile effettuare indagini biochimiche sul liquido. Generalmente, il prelievo dei villi coriali si utilizza quando esiste un rischio elevato di malattie genetiche. Questo perchè, pur essendo più rischioso, il prelievo dei villi coriali permette una diagnosi più precoce.

La funicolocentesi

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Consiste nel prelievo di sangue fetale dal cordone ombelicale. Si pratica per la diagnosi di alcune malattie ereditarie del sangue., o per verificare lo stato di salute del feto nel caso in cui la mamma abbia contratto alcune gravi malattie infettive durante la gravidanza.

Le tecniche di analisi: 1) Le tecniche citogenetiche 2) Le tecniche di indagine molecolare

Le tecniche citogenetiche Si tratta di indagini diagnostiche che permettono di stabilire il numero e le caratteristiche dei cromosomi di un individuo. Per la diagnosi prenatale si analizzano i cromosomi delle cellule fetali prelevate dal liquido amniotico o dai villi coriali. I cromosomi possono essere analizzati al microscopio dopo.avere subito particolari trattamenti che li rendono visibili. L'analisi citogenetica consente l'individuazione di aberrazioni cromosomiche, cioè anomalie nel numero e nella struttura dei cromosomi. Ad esempio, indica con sicurezza se il feto è affetto da Sindrome di Down (in cui è presente un cromosoma 21 in più).

Le tecniche di indagine molecolareSi tratta di metodiche che studiando direttamente il DNA. permettono di, diagnosticare le alterazioni genetiche conosciute,altrimenti invisibili all'esame citogenetico. La maggior parte delle alterazioni, infatti, è talmente piccola che non provoca alcuna modificazione visibile nella struttura dei cromosomi.Esistono oggi tecniche di biologia molecolare talmente sensibili da permettere l'analisi anche di campioni piccolissimi.La diagnosi molecolare di una malattia è possibile solo se si conoscono le alterazioni genetiche che la causano: si può così analizzare il DNA alla ricerca di queste alterazioni. A volte per la diagnosi è necessario analizzare anche altri componenti della famiglia, soprattutto se affetti dalla malattia.

I limiti della diagnosi prenatale

La DP non può stabilire in assoluto se il nascituro sarà sano, ma può, in alcuni casi, indicare se sia o meno portatore di una determinata alterazione genetica.Anche se per moltissime malattie la DP offre un responso certo, per altre, purtroppo, non fornisce una indicazione sicura al 100 per cento, ma la risposta può essere è espressa sotto forma di probabilità percentuale; non si tratta di un limite specifico della DP, ma dipende dal grado di accuratezza delle tecniche oggi a disposizione, per l'analisi genetica. Spesso la stessa anomalia genetica può avere effetti molto diversi da un individuo all'altro. Alcune malattie possono presentarsi in forma più o meno grave, oppure avere un'età di esordio variabile.In questi casi la DP è in grado di identificare l'anomalia genetica ma non può predire se il nascituro svilupperà la malattia in forma lieve o grave, né prevedere l'età di esordio. E' quindi dovere dello specialista e del consulente genetico informare i genitori sull'accuratezza della diagnosi nel caso specifico.

Le tecniche di tipo invasivo comportano una percentuale di rischio abortivo. In alcuni casi questo rischio è trascurabile rispetto agli enormi benefici che una DP offre per al nascituro. Ad esempio:- Alcune malattie genetiche sono curabili se diagnosticate precocemente.Già da oggi, e si spera sempre di più in futuro, per alcune gravi malattie genetiche è importante una diagnosi precoce, che permetta di instaurare tempestivamente una terapia.Un esempio è offerto dalla SCID, una grave immunodeficienza che si può curare con il trapianto in utero.

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- Per alcune malattie, una DP permette in ogni caso di pianificare una serie di interventi importanti, prima e dopo la nascita.

LA TERAPIA GENICA

Le basi della terapia genica

Si definisce terapia genica la procedura che consente di trasferire materiale genetico (DNA) allo scopo di prevenire o curare una malattia. Nel caso delle malattie genetiche, in cui un gene è difettoso o assente, la terapia genica consiste essenzialmente nel trasferire la versione funzionante del gene nell’organismo del paziente, in modo da rimediare al difetto. In altre patologie si può invece voler uccidere in modo mirato le cellule patologiche. Solitamente questo approccio è molto diffuso nella terapia genica contro il cancro. Alcuni geni possono essere infatti trasferiti nelle cellule tumorali in modo da causare la morte delle cellule che li ricevono. Un’altra strategia ancora prevede il trasferimento di geni all’interno di cellule malate allo scopo di bloccare il meccanismo alterato che causa la malattia. L’idea di base della terapia genica è semplice, tuttavia la sua realizzazione pratica è un vero e proprio percorso ad ostacoli.

La terapia genica è una scienza giovane: il primo tentativo fu effettuato negli Stati Uniti da Michael Blaese nel 1990 su una bambina affetta da SCID, una grave immunodeficienza ereditaria. Da allora, nonostante gli indubbi progressi raggiunti, sono ancora pochissimi i tentativi di terapia genica per i quali si possa parlare di un successo dal punto di vista clinico. Il successo della terapia genica rimane una prospettiva per il prossimo futuro. Ad oggi, le numerose ricerche condotte in tutto il mondo hanno soprattutto lo scopo di migliorare le conoscenze biologiche di base e le metodiche di terapia genica perché possa finalmente diventare uno strumento efficace nelle mani dei medici.

Anche se tutti i protocolli di terapia genica si basano essenzialmente sugli stessi principi ed utilizzano metodiche simili, ogni malattia – oltre che l’isolamento del gene o dei geni specifici- richiede spesso anche la messa a punto di una metodica differente. Molto spesso è il bersaglio ad essere differente: ad esempio, i tentativi di terapia genica per curare la fibrosi cistica hanno come principale bersaglio le cellule delle vie aeree, mentre quelli per le immunodeficienze mirano a trasferire il gene nelle cellule del sangue. E’ evidente che ognuna di queste malattie, oltre che i problemi comuni a tutte le tecniche di terapia genica, pone delle sfide tecniche peculiari.

Terapia genica in vivo e terapia genica ex-vivo

Le procedure di terapia genica in vivo mirano a trasferire il DNA direttamente nelle cellule o nei tessuti del paziente. Nelle procedure ex-vivo, invece, il DNA viene dapprima trasferito in cellule isolate dall’organismo e cresciute in laboratorio. Le cellule così modificate possono essere reintrodotte nel paziente. Questa procedura indiretta, anche se più lunga, offre il vantaggio di una migliore efficienza di trasferimento e la possibilità di selezionare e amplificare le cellule modificate prima della reintroduzione.

Prima tappa: l’isolamento del gene

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La prima tappa verso la terapia genica è l’identificazione del gene responsabile di una malattia o coinvolto in un processo patologico. Un gene è una porzione di DNA che contiene le informazioni necessarie a fabbricare una proteina. Quindi prima di pensare a trasferire un pezzo di DNA in un paziente per riparare un difetto è necessario "avere in mano" il pezzo giusto. Questa prima tappa si chiama isolamento o clonaggio del gene. Nessuna malattia è candidata alla terapia genica fino a che non sia stato isolato il gene (o i geni) da trasferire. Grazie ai progressi della biologia molecolare e della genetica questa prima tappa è oggi relativamente più semplice rispetto a qualche anno fa. E’ stato possibile isolare numerosi geni responsabili di malattie genetiche, ed altri se ne scoprono quasi ogni settimana.

Trasferimento del DNA nelle cellule bersaglio

Che si tratti di procedure in-vivo o ex-vivo lo scopo è lo stesso: il gene deve essere trasferito all’interno delle cellule bersaglio, e una volta inserito deve "resistere" per un tempo sufficiente. In questo tempo il gene “sano” deve essere funzionale e produrre sufficienti quantità di proteina, rimediando così al difetto genetico. Si possono riassumere tutte queste caratteristiche in un solo concetto: il gene estraneo si deve esprimere in modo efficace nell’organismo ospite. Il sistema più semplice sarebbe naturalmente quello di iniettare direttamente il DNA (DNA "nudo") nelle cellule o nei tessuti da curare. Nella pratica questo sistema risulta estremamente inefficace: il DNA nudo viene captato molto difficilmente dalle cellule. Inoltre questo processo richiede l’iniezione di ogni singola cellula o gruppo di cellule del paziente. Per questo quasi tutte le tecniche correnti per il trasferimento del materiale genetico implicano l’uso di vettori, in grado di trasportare il DNA all’interno delle cellule "bersaglio" dell’ospite. I vettori possono essere virali o non virali. I vettori virali sono virus manipolati geneticamente in modo da non risultare pericolosi, che però mantengono la capacità naturale di infettare le cellule dell’ospite e introdurre materiale genetico all’interno. Con le tecniche di ingegneria genetica è possibile aggiungere al DNA del virus il gene che si vuole trasferire. Così il virus, infettando la cellula bersaglio, porterà con sé una o più copie del gene desiderato. I vettori virali possono essere di diverso tipo:

-i retrovirus che hanno la capacità di integrare il loro DNA all’interno dei cromosomi delle cellule bersaglio determinando l’inserimento stabile del gene nei cromosomi della cellule infettata e il suo trasferimento a tutte le cellule figlie; i retrovirus infettano solo cellule che stanno proliferando;

-i lentivirus, come l'HIV, che permettono di trasferire materiale genetico anche in cellule che non proliferano, come le cellule "mature" (es. neuroni, cellule del fegato ) o in cellule particolarmente refrattarie ai retrovirus (es. cellule staminali prelevate del midollo osseo);i virus adenoassociati che integrano il loro DNA nei cromosomi della cellula ospite come i retrovirus, ma hanno rispetto a questi il vantaggio di essere per natura innocui; difficilmente trasportano geni di grandi dimensioni.

-gli adenovirus, che non si integrano nei cromosomi della cellula ospite, ma possono trasportare geni di grosse dimensioni; tuttavia la loro espressione non dura nel tempo.virus dell’herpes simplex infettano soltanto alcuni tipi di cellule, in particolare i neuroni e sono quindi indicati per la terapia di patologie neurologiche.

Per quanto riguarda i vettori non virali, i liposomi sono essenzialmente gli unici vettori non virali correntemente utilizzati. Si tratta di sferette lipidiche all’interno delle quali viene impacchettato il DNA da trasferire. Rispetto ai virus, hanno il vantaggio di non presentare alcun rischio in termini di sicurezza, ma tendono ad avere un efficienza minore e ad essere poco selettivi.

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Altre metodiche non basate sull’uso dei virus come trasportatori di geni per la terapia genica, sono oggetto di sperimentazione.

I limiti della terapia genica

Sono numerosi i problemi irrisolti della terapia genica con i quali si trovano a combattere gli scienziati.

La sicurezza della procedura Questo è un problema particolarmente evidente per i vettori virali. Alcuni di questi derivano infatti da virus pericolosi, come l’HIV. E’ quindi necessario che prima dell’utilizzo questi vettori siano privati della virulenza originaria del virus e mantengano invece inalterata la capacità di infettare le cellule bersaglio.

Efficienza di trasferimento Negli studi sulla terapia genica, la maggior parte degli sforzi si concentra oggi sulla ricerca di vettori in grado di trasferire il DNA in modo efficiente e di inserirlo stabilmente nelle cellule.

Selettività del bersaglio In questi ultimi anni sono stati messi a punto una varietà di vettori, alcuni dei quali in grado di fare esprimere il gene estraneo in uno specifico tipo cellulare (come i globuli bianchi, le cellule del muscolo, delle vie respiratorie ecc…).

Durata dell’espressione del gene trasferito La terapia genica risulta praticamente inutile se l’espressione del gene "estraneo" non viene mantenuta per un tempo sufficiente. Le ricerche mirano a sviluppare sistemi che permettono un espressione duratura, in modo da sottoporre il paziente ad un unico trattamento, o al limite a trattamenti ripetuti a distanza di qualche anno.

La reazione immunitaria Come ogni altra sostanza estranea, il prodotto del gene nuovo, il gene stesso e soprattutto il vettore possono scatenare una risposta immunitaria da parte dell’organismo ospite. Questa può portare all’eliminazione delle cellule modificate geneticamente, o all’inattivazione della proteina prodotta dal nuovo gene, annullando quindi tutti gli effetti della terapia. Nello sviluppo delle nuove strategie di terapia genica si cerca di evitare per quanto possibile che il vettore o il gene estraneo producano una reazione immunitaria.

Le sperimentazioni cliniche in corso Nel 1989 è stata approvata la prima sperimentazione sull’uomo di un protocollo di terapia genica. Da allora, di più di mille protocolli sono stati approvati in tutto il mondo; di questi alcuni si sono conclusi, altri sono in corso. Più del 90% delle sperimentazioni sono in fasi molto precoci del protocollo (fase I o II) (vedi figura1). Queste fasi iniziali permettono di valutare l’eventuale tossicità del trattamento, l’efficacia del trasferimento genico e l’espressione a breve/medio termine del materiale genetico introdotto. E’ nelle fasi successive (dalla III) che si valuta invece in modo più approfondito la reale efficacia del trattamento in funzione della cura. Ad oggi, la FDA americana (Food and Drug Administration), l’ente governativo cui spetta l’approvazione di nuovi trattamenti terapeutici affinché possano essere introdotti nella pratica medica corrente, non ha autorizzato la commercializzazione di nessun prodotto di terapia genica.

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Tuttavia la ricerca in questo campo cresce a ritmi sempre più rapidi sia negli Stati Uniti che in altre parti del mondo ed l’FDA è impegnata in un attento monitoraggio delle sperimentazioni.

ELENCO DELLE MALATTIE GENETICHE EREDITARIE

ACONDROPLASIA ACROMATOPSIA CONGENITA Agammaglobulinemia legata all'X tipo Bruton ALBINISMO OCULARE tipo 1 AMILOIDOSI SISTEMICHE EREDITARIE ANEMIA DI FANCONI ANEMIA FALCIFORME ANGIOEDEMA EREDITARIO ANOMALIE CROMOSOMICHE ATASSIA DI FRIEDREICH ATASSIE SPINOCEREBELLARI ATROFIA MUSCOLARE SPINALE TIPO I, II, III AUTISMO CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO (ARVD) CARDIOMIOPATIA DILATATIVA FAMILIARE CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA FAMILIARE CEROIDOLIPOFUSCINOSI CINCA CISTINURIA COLOBOMA DEFICIT ALFA-1-ANTITRIPSINA DEFICIT DI ADESIONE LEUCOCITARIA (LAD) DEFICIT G6PD (FAVISMO) DEFICIT SELETTIVO DI IgA DIABETE GIOVANILE DIFETTI DEL COMPLEMENTO DISTONIA DISTROFIA FACIOSCAPOLOMERALE DISTROFIA MIOTONICA DISTROFIA MUSCOLARE DI BECKER DISTROFIA MUSCOLARE DI DUCHENNE DISTROFIE DEI CINGOLI EMOCROMATOSI EREDITARIA EMOFILIA EPIDERMOLISI BOLLOSA EPILESSIE FENILCHETONURIA FIBROSI CISTICA GLICOGENOSI IMMUNODEFICIENZA CON IPER IGM IMMUNODEFICIENZE COMBINATE GRAVI (SCID) IMMUNODEFICIENZE DA DIFETTI DEI FAGOCITI IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE IPERTERMIA MALIGNA IPEX

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LEUCODISTROFIA METACROMATICA MALATTIA DI CHARCOT-MARIE-TOOTH MALATTIA DI GAUCHER MALATTIA DI HUNTINGTON MALATTIA DI VON WILLEBRAND MALATTIA GRANULOMATOSA CRONICA MALATTIE LISOSOMIALI MALATTIE METABOLICHE EREDITARIE MALATTIE MITOCONDRIALI MORBO DI ALZHEIMER MORBO DI PARKINSON NEUROFIBROMATOSI DI TIPO 1 NEUROFIBROMATOSI DI TIPO 2 OSTEOGENESI IMPERFETTA PARAPLEGIA SPASTICA EREDITARIA PORFIRIE PSEUDOXANTHOMA ELASTICUM RENE POLICISTICO RETINITE PIGMENTOSA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA SCLEROSI TUBEROSA SINDROME 18-p (Delezione 18-p) SINDROME ADRENO GENITALE SINDROME DEL QT LUNGO SINDROME DI ALPORT SINDROME DI ANGELMAN SINDROME DI BRUGADA SINDROME DI CRIGLER-NAJJAR SINDROME DI DOWN SINDROME DI EDWARDS (TRISOMIA 18) SINDROME DI KALLMANN SINDROME DI KLINEFELTER SINDROME DI LEIDEN SINDROME DI LOWE SINDROME DI MARFAN SINDROME DI MARTIN BELL SINDROME DI MC CUNE-ALBRIGHT - Displasia Fibrosa SINDROME DI MENKES SINDROME DI MOEBIUS SINDROME DI PATAU (TRISOMIA 13) SINDROME DI POLAND SINDROME DI PRADER WILLI SINDROME DI RETT SINDROME DI SHWACHMAN SINDROME DI SMITH-LEMLI-OPITZ SINDROME DI TIMOTHY SINDROME DI TURNER SINDROME DI WEST SINDROME DI WILLIAMS SINDROME DI WISKOTT-ALDRICH SINDROME X FRAGILE SORDITA' EREDITARIE

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TACHICARDIA VENTRICOLARE Polimorfa Catecolaminergica TALASSEMIA ALFA TALASSEMIA BETA TELANGIECTASIA EMORRAGICA EREDITARIA, HHT TROMBOFILIA EREDITARIA

MALATTIE IN DETTAGLIO

ALBINISMO OCULARE tipo 1

Nome Inglese: Ocular albinism (OA1)

Frequenza: 1:50.000

Che cos'è: L’albinismo oculare di tipo 1 è una forma di depigmentazione che colpisce prevalentemente l’epitelio pigmentato dell’occhio, mentre la pelle e i capelli sono di solito normalmente pigmentati. A differenza di altre forme di albinismo, nell’albinismo oculare di tipo 1 non è alterata la produzione di melanina ma bensì la sua distribuzione all’interno delle cellule.

Come si manifesta: La depigmentazione dell’epitelio pigmentato dell’occhio causa riduzione dell’acuità visiva (diminuzione della vista), nistagmo (movimenti involontari degli occhi), strabismo e fotofobia (ipersensibilità e conseguente fastidio alla luce). Infatti, i problemi maggiori si manifestano nella retina, la parte dell’occhio in cui si trovano i fotorecettori (cellule deputate a ricevere lo "stimolo visivo").

Le cause: Nel 1995 un gruppo di ricercatori dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (TIGEM) ha identificato il gene che risulta alterato nelle persone affette da questa malattia. Il gene è chiamato OA1 e si trova sul cromosoma X: contiene le informazioni necessarie per produrre un recettore importante per regolare la formazione dei melanosomi, strutture contenenti melanina e presenti all’interno delle cellule pigmentate (melanociti).

Come si trasmette: La trasmissione è recessiva legata al cromosoma X: la malattia si manifesta nei maschi ed è trasmessa da femmine portatrici del gene mutato. Le portatrici possono manifestare sintomi, anche se in misura minore rispetto ai maschi affetti. Ad ogni gravidanza una donna portatrice presenta un rischio del 50% di generare un figlio maschio affetto dalla malattia ed un rischio del 50% di generare una figlia a sua volta portatrice.

La diagnosi: La diagnosi viene effettuata dall’oculista attraverso l’osservazione del fondo oculare, che dimostra nei pazienti maschi una diffusa ipopigmentazione della retina. Inoltre è necessario analizzare il fondo oculare anche nella madre del paziente. La caretteristica peculiare del fondo oculare della madre portatrice di albinismo oculare di tipo 1 è la presenza di zone di ipopigmentazione retinica accanto a zone normalmente pigmentate. Queste due indagini insieme permettono di distinguere l’albinismo oculare di tipo 1 da altre forme di albinismo.

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Esiste una terapia: Al momento non esiste una cura per questa malattia. Sono di aiuto degli occhiali particolari. A volte, può essere indicato l’intervento chirurgico per lo strabismo.

ANEMIA FALCIFORME

Sinonimi: drepanocitosi

Nome Inglese: Sickle-cell disease (SCD)

Frequenza: variabile nelle diverse popolazioni.

Che cos'è l'Anemia Falciforme: L'anemia falciforme (AF) è una malattia genetica del sangue, caratterizzata da anemia cronica (scarsità di globuli rossi e di emoglobina) e da episodi dolorosi più o meno frequenti in varie parti del corpo, causati dall'occlusione dei vasi sanguigni. L'AF prende il nome dalla forma "a falce" che assumono i globuli rossi dei malati, ed è particolarmente frequente nelle regioni del mediterraneo (soprattutto in Africa).

Come si manifesta: L'AF non ha un decorso clinico uguale per tutti: alcune persone affette mostrano sintomi molto lievi, mentre altre mostrano disturbi anche molto gravi. I disturbi principali causati dall'AF sono: Anemia cronica. I globuli rossi che contengono emoglobina S vengono distrutti molto prima di quelli normali. Mentre la vita media di un globulo rosso normale è di circa 120 giorni, quella dei globuli "falciformi " non supera in genere i 20 giorni. Questo causa una penuria di globuli rossi, e quindi anemia (con senso continuo di fatica, pallore, "fiato corto" etc..) Infezioni. I globuli rossi vengono ditrutti soprattutto nella milza, che può così risultare danneggiata. La milza ha un ruolo importante anche nel proteggere l'organismo dalle infezioni, ed è per questo che per le persone affette da AF (specialmente i bambini) alcune infezioni batteriche possono risultare molto pericolose. Dolori alle mani e ai piedi (dactilite -hand-foot syndrome-). Dolori e tumefazioni del dorso delle mani e dei piedi (dactilite) sono causati dall'occlusione dei capillari da parte dei globuli rossi alterati. Spesso questo è uno dei primi sintomi dell'AF nei bambini. Dolori improvvisi. L'occlusione dei capillari può avvenire in modo imprevedibile in qualunque parte del corpo, bloccando l'afflusso di sangue agli organi colpiti. La frequenza di queste "crisi" è molto variabile: in alcuni pazienti sono rare (meno di una volta all'anno), mentre altri possono averne anche 15 o più in un anno. Il dolore può durare poche ore oppure diverse settimane e può richiedere un ricovero ospedaliero. I dolori sono la manifestazione più frequente dell'AF. Sindrome polmonare acuta. E' una delle complicazioni più pericolose dell'AF, simile ad una polmonite, causata dall'infiltrazione di gloguli rossi nei polmoni o da infezioni polmonari. Nel peggiore dei casi, questa manifestazione può anche risultare letale. Ictus. E' un rischio possibile, a causa dell' occlusione dei capillari che portano il sangue al cervello.

Le cause: L'AF, come le talassemie, è causata da alterazioni nel gene che dirige la produzione dell'emoglobina, una grossa proteina contenuta nei globuli rossi, la cui funzione è quella di catturare l'ossigeno dai polmoni e trasportarlo nei diversi tessuti. L'emoglobina raccoglie anche l'anidride carbonica prodotta nei tessuti e la trasporta ai polmoni, dove viene eliminata. L'emoglobina è costituita da 4 catene proteiche più piccole (chiamate sub-unità). Negli adulti ogni molecola di

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emoglobina contiene 2 subunità dette di tipo alfa e 2 subunità dette di tipo beta. Nella AF le alterazioni colpiscono la subunità di tipo beta, e danno origine ad una forma anomala di emoglobina, chiamata emoglobina S. Le molecole di emoglobina S tendono facilmente ad aggregarsi fra loro, formando dei microscopici filamenti all'interno del globulo rosso. A causa di ciò, i globuli rossi diventano rigidi ed assumono la caratteristica forma "a falce" - o a mezzaluna- invece della forma normale a disco. Questi globuli rossi sono incapaci di scorrere normalmente all'interno dei capillari (vasi strettissimi dove i globuli rossi normali passano proprio grazie alla loro elasticità) e quindi tendono a bloccarsi, causando "ingorghi" nella circolazione.

Come si trasmette: L'AF si trasmette geneticamente con una modalità chiamata autosomica recessiva. In altre parole, un individuo presenta i sintomi della malattia solo se possiede un'alterazione in entrambe le copie del gene per l'emoglobina beta che possiede. Chi invece ha una copia del gene normale e una alterata è un portatore sano e non presenta alcun sintomo. Questo significa che un bambino malato può nascere solo se entrambi i genitori sono portatori sani dell'alterazione genetica che provoca la malattia. Una coppia di portatori sani avrà una probabilità del 25%, ad ogni gravidanza, di concepire un figlio o una figlia malati, del 50% di avere un figlio o una figlia portatori sani, del 25% di avere un figlio o una figlia sani e non portatori. Per le coppie in cui uno dei partner appartenga ad una famiglia a rischio, un colloquio con un consulente genetista è indispensabile per valutare le possibilità di dare alla luce figli affetti dalla malattia. I portatori sani sono facilmente identificabili con un esame del sangue ed è anche possibile effettuare la diagnosi prenatale.

Esiste una terapia: Attualmente, nessuna terapia è in grado di risolvere completamente i problemi e i rischi causati dall'AF. Tuttavia, molti trattamenti si sono evoluti negli ultimi anni ed hanno portato ad un sensibile miglioramento delle condizioni di vita delle persone affette da AF: Farmaci antidolorifici sono utili per sedare le crisi di dolore più o meno frequenti; il trattamento preventivo con antibiotici fin dalla prima infanza permette di limitare i rischi di infezione; regolari trasfusioni di sangue possono aumentare il numero di globuli rossi normali, limitando i problemi alla milza e il rischio di complicanze; una nutrizione adeguata, il riposo e una vita sana contribuiscono a limitare gli effetti della malattia; Il trattamento con un farmaco chiamato idrossiurea, sperimentato già dal 1995, ha dato risultati molto positivi, ed è oggi utilizzato dagli specialisti per trattare le persone affette da AF. Si tratta di un farmaco che da anni viene usato come antitumorale. Di recente si è scoperto che questa farmaco ha anche l'effetto di aumentare la produzione di emoglobina fetale (un tipo di emoglobina che normalmente non viene prodotta nell'adulto). La presenza di emoglobina fetale ha l'effetto di "diluire" la quantità di emoglobina S presente nei globuli rossi e di limitare i sintomi della malattia. Anche se gli effetti a lungo termine dell'idrossiurea non sono ancora noti, è dimostrato che il trattamento porta ad una diminuzione delle crisi dolorose e diminuisce sensibilmente il rischio di complicanze; pertanto è stato approvato come trattamento da effettuarsi sotto stretto controllo medico. L'idrossiurea ha effetti collaterali anche gravi e solo uno specialista pratico di AF può decidere le modalità del trattamento.

ANOMALIE CROMOSOMICHE

Nome Inglese: Chromosomal abnormalities, chromosome disorders.

Frequenza: 1/170 neonati.

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Che cosa sono le anomalie cromosomiche: Con questa definizione si indicano tutte le alterazioni che riguardano il numero o la struttura dei cromosomiLe anomalie cromosomiche sono responsabili di circa il 50% degli aborti spontanei e sono un’importante causa di malformazioni.Si stima che 1 neonato su 170 presenti un’anomalia cromosomica.

I vari tipi di anomalie cromosomiche:

Le anomalie numeriche

Le monosomie sono condizioni in cui un cromosoma è presente in singola copia anziché in duplice copia. Il numero totale di cromosomi è quindi 45 invece di 46. Ad esempio, monosomia 5 indica la presenza di un solo cromosoma 5 invece di due.L’assenza totale di un autosoma è talmente grave da essere incompatibile con la vita: pertanto quando è presente in un feto causa un aborto spontaneo.Talvolta si indica con il termine monosomia anche l’assenza di un braccio cromosomico, invece che dell’intero cromosoma. L’assenza di un braccio cromosomico è a volte compatibile con la vita, come nel caso della 18p-. Questa sindrome è causata dall’assenza del braccio corto (p) del cromosoma 18, e viene detta anche monosomia 18p.La monosomia 18p non è però una vera e propria anomalia numerica dei cromosomi (il numero totale di cromosomi è 46) ma piuttosto una anomalia strutturale (una delezione - vedi più avanti).

Le trisomie sono condizioni in cui un cromosoma è presente in triplice copia, il numero totale di cromosomi è quindi 47 invece di 46.Le uniche trisomie che si riscontrano nella vita post-natale sono la trisomia del cromosoma X nelle femmine, la trisomia 21, la trisomia 18, la trisomia 13. Le altre trisomie complete non sono compatibili con la vita e quando sono presenti in un feto sono causa di aborto spontaneo.Il termine trisomia viene impiegato anche per indicare la presenza in triplice copia di una regione cromosomica. Ad esempio, la trisomia 9p consiste nella presenza in triplice copia del braccio corto del cromosoma 9. Anche in questo caso non si tratta di una vera e propria anomalia numerica, ma piuttosto di una anomalia strutturale dovuta a duplicazione o traslocazione (vedi più avanti).

Il meccanismo che più comunemente causa una trisomia è la non disgiunzione dei cromosomi durante la divisione cellulare che porta alla formazione di ovociti e spermatozoi: anziché separarsi l’uno dall’altro nelle 2 cellule figlie, i 2 cromosomi di una coppia vanno entrambi nella stessa cellula figlia. Pertanto, in seguito alla fecondazione tale cromosoma sarà presente in 3 copie anziché in 2 copie.La causa della non disgiunzione non è ancora nota, anche se è stato dimostrato che l’età materna è un fattore di rischio per eventi di non disgiunzione: all’aumentare dell’età tale evento si verifica più frequentemente.

Le anomalie strutturali

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Le delezioni consistono nella perdita di un frammento di cromosoma le cui dimensioni possono essere molto diverse. Le delezioni si possono evidenziare in un cariotipo attraverso l’assenza di una o più bande cromosomiche, o addirittura di un intero braccio, come avviene ad esempio nella sindrome 18p.L’effetto di una delezione dipende dalla grandezza della porzione mancante e dal tipo di informazione genetica in essa contenuta: in una sola banda cromosomica possono trovarsi centinaia di geni.

Le microdelezioni, rispetto alle delezioni, consistono nella perdita di frammenti cromosomici più piccoli e non sono evidenziabili attraverso un normale cariotipo. Esempi di sindromi da microdelezione sono: la s. di Prader-Willi, la s. di Angelmann, la s. di Di George, la s. di Williams. La perdita di materiale genetico è in genere nell’ordine di una o qualche decina di geni.

Le duplicazioni e microduplicazioni consistono nella presenza in due copie di uno stesso frammento di cromosoma: è come se una o più parole di una frase fossero ripetute. Ad esempio, la malattia di Charcot-Marie-Tooth 1A è causata da una microduplicazione che coinvolge un frammento posto sul braccio corto del cromosoma 17 (11p).

Le inversioni consistono nel distacco di un frammento che successivamente si riposiziona sul cromosoma, dopo una rotazione di 180°.

Le traslocazioni consistono nel trasferimento di materiale tra due o più cromosomi diversi.

Le traslocazioni bilanciate sono il caso più fortunato: consistono infatti nello “scambio alla pari” di frammenti fra cromosomi diversi. Questo tipo di traslocazione non comporta perdita di materiale genetico e perciò i portatori di una traslocazione bilanciata non manifestano in genere alcun segno clinico.Nel caso di una traslocazione non bilanciata, uno o più cromosomi in seguito alla traslocazione hanno subito la perdita di materiale genetico, mentre altri ne hanno in sovrappiù.Chi è portatore di una traslocazione bilanciata, pur non manifestando alcun sintomo, rischia di avere figli portatori di traslocazioni patologiche (non bilanciate).

Le cause: Un feto o un bambino colpiti da un’anomalia cromosomica hanno quasi sempre genitori perfettamente normali. La causa delle anomalie cromosomiche è in genere da ricercarsi in un errore accidentale durante la formazione delle cellule-uovo o degli spermatozoi dei genitori. Durante la formazione delle cellule riproduttive i cromosomi subiscono un complesso processo di divisione e di “rimescolamento” ed è possibile, anche se relativamente raro, che insorgano alterazioni cromosomiche. Un discorso a parte riguarda le alterazioni cromosomiche che insorgono durante la vita adulta e che sono alla base di numerose forme di tumore. In genere, questo tipo di alterazioni avviene in una singola cellula di un individuo adulto che diventa cancerogena ed origina una popolazione (clone) di cellule tumorali. Un esempio molto noto è quello della leucemia mieloide cronica che è causata da una traslocazione fra il cromosoma 9 ed il cromosoma 22. In moltissimi altri tipi di cellule tumorali è possibile riscontrare anomalie cromosomiche che contribuiscono alla trasformazione maligna. Il rapporto fra i tumori e le anomalie genetiche non è però fra gli argomenti di cui si occupa Informagene e pertanto non verrà trattato in questa scheda.

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La diagnosi: L’assetto cromosomico di un individuo, cioè il numero di cromosomi, il tipo di cromosomi sessuali ed eventuali anomalie (numeriche o strutturali) è anche definito cariotipo. Per esaminare il cariotipo di un individuo adulto si utilizzano generalmente i globuli bianchi ottenuti da un semplice prelievo di sangue. In seguito ad opportune procedure e colorazioni, è possibile rendere visibili al microscopio i cromosomi presenti nel nucleo di queste cellule. Si possono studiare i cromosomi anche da cellule del midollo osseo, della placenta, del liquido amniotico e da alcuni tessuti in cui sono presenti cellule in fase di crescita. Il cariotipo di un feto, ad esempio, può essere analizzato da cellule fetali presenti nel liquido amniotico, nei villi coriali o nel sangue fetale (vedi la scheda sulla diagnosi prenatale). Il settore della genetica che si occupa dello studio dei cromosomi è detto citogenetica e quindi l’analisi cromosomica è spesso indicata come analisi citogenetica. Ognuno di noi possiede 46 cromosomi, di cui:· 2 cromosomi sessuali: il cromosoma X e il cromosoma Y. Le femmine possiedono 2 copie del cromosoma X (XX), i maschi possiedono 1 cromosoma X e 1 cromosoma Y (XY).· 44 cromosomi "non sessuali" (autosomi) uguali 2 a 2. In altre parole, 22 coppie di autosomi.· ogni cellula dell'individuo possiede lo stesso corredo cromosomico di 46 cromosomi.

Il cariotipo di un maschio normale è quindi 46, XY. Di questi, X e Y sono i cromosomi sessuali: il cromosoma X è ereditato dalla madre, il cromosoma Y dal padre. Il cariotipo di una femmina normale è 46, XX. L’unica differenza rispetto al maschio risiede nei cromosomi sessuali, che in questo caso sono rappresentati solo dal cromosoma X: uno è ereditato dalla madre, l’altro dal padre.

E’ possibile distinguere i cromosomi in base alla loro dimensione ed alla loro forma. Inoltre, con specifiche colorazioni è anche possibile evidenziare delle bande trasversali all’interno di ogni cromosoma, che identificano precise regioni. I cromosomi sono numerati progressivamente in base alle loro dimensioni: il cromosoma 1 è il più grande di tutti mentre il cromosoma 22 è il più piccolo. In ogni cromosoma si distinguono un braccio corto, indicato come “p”, un braccio lungo, indicato come “q” ed una costrizione centrale detta “centromero”.

L’analisi del cariotipo fetale permette di evidenziare anomalie numeriche e strutturali dei cromosomi del feto. Mentre le anomalie numeriche sono evidenziabili facilmente, alcune anomalie strutturali, come ad esempio le microdelezioni, possono essere di più difficile identificazione e richiedono metodiche di analisi più sofisticate.

AUTISMO

Nome Inglese: Autism; Autistic Disorder (AD)

Frequenza: ~10/10.000 (autismo); 30-60/10.000 (insieme dei disturbi dello spettro autistico)

Che cos'è: L’autismo è un disturbo caratterizzato da gravi problemi nella comunicazione, nelle interazioni sociali e nel comportamento, i cui sintomi si manifestano entro i primi tre anni di età. Altre condizioni, come ad esempio la Sindrome di Asperger, presentano caratteristiche in comune con l’autismo, tanto che l’insieme di queste patologie viene incluso nella definizione più generica di Disturbi dello Spettro Autistico o Disturbi Pervasivi dello Sviluppo.

Come si manifesta: Lo Spettro Autistico comprende una vasta gamma di manifestazioni, dalle forme più gravi di autismo, in cui gli individui possono essere privi di linguaggio, socialmente isolati, gravati da comportamenti stereotipati e con profonda disabilità intellettuale, alle forme più

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leggere in cui gli individui manifestano problemi nella comunicazione e interazione sociale, mostrano scarsa flessibilità o interessi ristretti, ma hanno capacità intellettive e di linguaggio nella norma.. In questo caso sono autosufficienti per quanto riguarda le attività pratiche della vita quotidiana, ma il deficit dell’interazione sociale condiziona pesantemente l’inserimento nel lavoro, nella famiglia e in qualsiasi tipo di attività sociale.

Le cause: Le cause specifiche dell’autismo sono generalmente sconosciute. Tuttavia, da una serie di studi condotti negli ultimi decenni è emerso che i disturbi dello spettro autistico sono in gran parte determinati da fattori genetici. Per esempio, studi su gemelli hanno indicato che nel caso di coppie di gemelli monozigotici (che quindi hanno lo stesso patrimonio genetico), nel 60%-85% dei casi se uno dei due è affetto, anche l’altro lo sarà, mentre è molto più raro che coppie di gemelli dizigotici (che hanno il 50% dei geni in comune, come i normali fratelli) siano entrambi affetti. A parte il caso di gemelli identici, è relativamente raro che una coppia abbia più di un figlio con autismo. La probabilità che una coppia che ha già un figlio affetto ne abbia un secondo è circa il 2-6% : tuttavia rispetto alla prevalenza dell’autismo nella popolazione generale, ciò corrisponde ad un rischio 10-60 volte maggiore rispetto all’atteso. E’ chiaro quindi che alla base dell’autismo ci sono delle importanti determinanti genetiche, anche se queste sono molto complesse. Fatta eccezione per una minoranza di casi (< 10%) in cui l’autismo risulta associato ad anomalie cromosomiche o a malattie a trasmissione mendeliana, quali la Sclerosi Tuberosa e la Sindrome dell’X Fragile, per la maggior parte dei casi non è stata ancora individuata una specifica causa genetica. Si ritiene che l’autismo sia una condizione “multifattoriale”, cioè che non sia dovuto all’effetto di un singolo gene, bensì alla presenza di varianti in più geni che singolarmente non sono sufficienti a scatenare la patologia, ma che se presenti contemporaneamente concorrono alla predisposizione al disturbo autistico. Non esiste quindi il gene dell’autismo, ma probabilmente una serie di geni che predispongono alla malattia. Alcuni dati suggeriscono anche che la piena espressione clinica del disordine dipenda da complesse interazioni fra la predisposizione genetica ed altri fattori biologici (come ad esempio il virus della rosolia) non ancora identificati

Esiste una terapia: Il trattamento dei bambini con autismo si basa essenzialmente su interventi educativi, che siano per quanto possibile precoci ed intensivi. Questi sono basati su valutazioni puntuali dei punti di forza e di debolezza di ogni singolo soggetto fatte da personale altamente specializzato. Da queste valutazioni deve scaturire un programma personalizzato che deve essere condiviso e praticato da tutti i naturali educatori del bambino: genitori e insegnanti in primo luogo. I genitori devono essere informati sulle specificità del disturbo autistico e formati ad applicare quei metodi psico-educativi che si sono mostrati utili all’acquisizione dell’autonomia nelle attività della vita quotidiana e, in prospettiva, ad un inserimento lavorativo. Le migliori possibilità di riuscita sono riconosciute essenzialmente ai metodi cognitivo-comportamentali, in particolare se applicati nell’ambito di una strategia globale che coinvolge tutti gli ambienti di vita del soggetto, come per esempio indicato nel TEACCH (Treatment and Education of Autistic Children and Communication Handicapped). I percorsi educativi possono essere modellati in varia maniera, includendo ausilii di tipo visivo, opportuni rinforzi comportamentali, potenziamento delle abilità meno compromesse del soggetto autistico e sono articolati in maniera da prevedere la partecipazione attiva dei genitori e di educatori opportunamente preparati. In considerazione della variabilità del quadro clinico, nessuno dei provvedimenti sopra indicati presenta pari efficacia in tutti i casi di autismo. In casi specifici, alcuni farmaci utilizzati per il trattamento di altri disturbi neurologici sono utilizzati per attenuare parte dei sintomi associati all’autismo.

DEFICIT G6PD (FAVISMO)

Nome Inglese: glucose-6-phosphate dehydrogenase deficiency (G6PD

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Frequenza: variabile nelle diverse popolazioni

Che cos'è: Il deficit di G6PD, o “favismo” è una condizione determinata dalla carenza dell’enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD), importante in una via metabolica minore del glucosio. Questa via metabolica è uno dei modi in cui l’organismo utilizza il glucosio disponibile, ed è importante soprattutto nei globuli rossi maturi per proteggere la membrana cellulare dai danni ossidativi causati da numerosi farmaci e sostanze.Il deficit di G6PD è definito una condizione farmacogenetica: i sintomi della malattia si manifestano, nella maggioranza delle persone affette, solo in seguito all’esposizione a fattori scatenanti, quali ingestione di fave (da cui il nome favismo), ma anche digiuno, infezioni, somministrazione di alcuni farmaci (ad esempio aspirina, antimalarici, sulfamidici). Un numero ristretto di pazienti mostra costantemente i sintomi della malattia.

Come si manifesta: Il difetto di G6PD si manifesta con emolisi, cioè rottura della membrana dei globuli rossi e conseguente rilascio di emoglobina, necessaria per il trasporto di ossigeno ai diversi tessuti. Per questo motivo si può instaurare un’anemia (basso numero di globuli rossi) di tipo emolitico (cioè dovuto alla rottura dei globuli rossi). Nella maggioranza delle persone affette l’emolisi si manifesta solo in seguito ad esposizione ai fattori scatenanti. Nei pazienti che mostrano costantemente emolisi, l’esposizione ai fattori scatenanti può aggravare il quadro clinico. Nelle persone affette da deficit di G6PD, a causa dell’insufficiente attività dell’enzima G6PD, i globuli rossi diventano estremamente sensibili allo stress ossidativo. Determinate sostanze sono in grado di causare, in misura più o meno intensa, stress ossidativo: si tratta di un processo chimico che può danneggiare, se non viene contrastato da appositi meccanismi naturali, diversi componenti della cellula. Nelle persone non affette lo stress ossidativo è “assorbito” grazie anche a reazioni piuttosto complesse cui partecipa l’enzima G6PD. I globuli rossi maturi, mancando di nucleo e ribosomi (organelli importanti per la sintesi delle proteine), sono incapaci di produrre nuove proteine per sostituire quelle degradate. Nelle persone affette dal deficit di G6PD lo stress ossidativo porta a lisi selettiva dei globuli rossi più vecchi. I globuli rossi giovani, infatti, hanno livelli più alti di attività di G6PD rispetto ai globuli rossi più vecchi e quindi sono più resistenti al danno ossidativo. In un soggetto con deficit di G6PD ma per il resto normale, il midollo osseo risponde alla lisi dei globuli rossi, causata dallo stress ossidativo, aumentandone la loro produzione; finché il midollo osseo è in grado di aumentare la produzione di globuli rossi l'anemia emolitica (anemia derivante dalla lisi dei globuli rossi) è auto-limitante.

Le cause: Le informazioni necessarie per la produzione deIl’enzima G6PD sono contenute in un gene che si trova sul cromosoma X. Esistono numerose varianti di questo gene che portano alla produzione di G6PD con diverso grado di attività. Le forme che causano manifestazioni patologiche sono caratterizzate da una grave riduzione dell’attività enzimatica. Le varianti di G6PD vengono distinte in 5 classi a seconda del livello di attività enzimatica e delle manifestazioni cliniche: la classe 1 comprende le varianti con minore attività enzimatica e che presentano emolisi cronica (le forme più gravi ma anche più rare). All’aumentare della classe aumenta il livello di attività di G6PD e le manifestazioni cliniche sono meni gravi. I soggetti portatori di varianti di classe 2 o 3 manifestano l’emolisi solo in seguito ad esposizione a fattori scatenanti.

Come si trasmette: Il difetto si trasmette come carattere legato al cromosoma X, dato che il gene interessato si trova sul cromosoma X. Il quadro clinico è più grave nei maschi: essi possiedono un

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unico cromosoma X e se il gene è alterato presentano unicamente la copia alterata del gene. Nelle femmine, che possiedono 2 cromosomi X, il difetto del gene alterato è parzialmente mascherato dalla copia corretta del gene presente sul secondo cromosoma X ed il quadro clinico è generalmente più lieve.

La diagnosi: Un difetto di G6PD deve essere preso in considerazione in ogni caso di emolisi cronica e specialmente nei casi di emolisi acuta. I soggetti portatori del difetto possono essere identificati sia mediante analisi biochimiche, che permettono di valutare l’attività dell'enzima G6PD, sia con analisi diretta del gene interessato.

Esiste una terapia: Non esiste attualmente una terapia in grado di restituire funzionalità all'enzima G6PD nelle persone affette; pertanto i portatori del difetto devono evitare accuratamente tutte le sostanze che possono causare crisi emolitiche.

DIABETE GIOVANILE

Sinonimi: Diabete mellito insulinodipendente; diabete tipo 1

Nome Inglese: Diabetes Mellitus, Juvenile-Onset- insulin-dependent

Frequenza: 2-4/1.000

Che cos'è il Diabete Giovanile: Con il termine diabete si intende genericamente un aumento della glicemia (la quantità di glucosio nel sangue) al di sopra dei valori normali.

Le diverse forme di Diabete: Il diabete si distingue in due tipi, tipo 1 e tipo 2. Si tratta di due malattie a origine diversa anche se i danni che possono provocare sono simili perché dovuti all’aumento della glicemia che persiste negli anni. La frequenza totale di persone diabetiche (comprendendo quelle note e quelle non ancora diagnosticate o delle forme latenti) è stimato in circa il 4% della popolazione generale. Questa percentuale aumenta molto se ci si concentra in una popolazione anziana. Nel 85% dei casi si tratta di diabete di tipo 2, solo in una piccola percentuale (15%) si tratta di diabete mellito di tipo 1.

Come si manifesta: Il diabete mellito di tipo 1 (detto anche diabete giovanile, diabete insulino-dipendente, magro o chetoacidotico) si manifesta di solito a partire dall’infanzia e richiede la terapia insulinica per la sopravvivenza. La terapia insulinica prevede iniezioni di insulina ad ogni pasto e un’ulteriore iniezione prima di andare a letto. La dose di insulina deve essere scelta dal paziente sulla base della misurazione della glicemia (su una goccia di sangue ottenuto pungendo il polpastrello di un dito con un ago) da eseguire prima di ogni iniezione di insulina, della quantità e qualità del pasto e dell’attività fisica. Lo scopo è mantenere la glicemia il più possibile vicino ai valori normali per evitare le complicanze (danni vascolari alla retina dell’occhio, ai reni, al sistema nervoso periferico e centrale, alle arterie degli arti inferiori, coronariche, ecc.) senza però incorrere nell'ipoglicemia, che può essere causata da un eccesso di insulina e che può essere anche molto pericolosa Si tratta quindi di una navigazione a vista, quotidiana, che richiede molta pazienza perché dura tutta la vita. Esistono oggi speciali apparecchi (pompe a insulina) che permettono una somministrazione programmata di insulina, evitando di ricorrere alle continue iniezioni. Un

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apparecchio che permette la misura del glucosio senza ricorrere al prelievo di sangue, di recente sperimentazione, è stato da poco autorizzato per la commercializzazione negli Stati Uniti.

Le cause: Il diabete mellito di tipo 1 è di origine autoimmune. Per ragioni ancora ignote, a un certo punto della vita, nel bambino o nel giovane, il sistema immunitario si mette ad aggredire le cellule del pancreas che producono insulina e le distrugge. Quando le cause di questo processo anomalo saranno chiarite, si potrà forse prevenire il diabete di tipo 1. Mentre la ricerca deve andare avanti, è fondamentale che i pazienti con il diabete mellito di tipo 1 siano ben curati mantenendo la glicemia il più possibile vicino alla norma per evitare le complicanze. Le basi genetiche del diabete giovanile sono estremamente complesse e tuttora oggetto di studio.

DISTROFIA MUSCOLARE DI DUCHENNE

Nome Inglese: Duchenne muscular dystrophy (DMD)

Frequenza: 1,5/10000

Che cos'è la Distrofia Muscolare di Duchenne: E’ una forma di distrofia muscolare trasmessa come carattere legato all’X che determina degenerazione progressiva delle fibre muscolari. E’ dovuta all’assenza di una proteina detta Distrofina. L’assenza di questa proteina determina una serie di eventi che portano a degenerazione del tessuto muscolare, che viene sostituito da tessuto fibroso e adiposo. La conseguenza clinica è una progressiva perdita di forza muscolare con conseguente progressiva perdita delle abilità motorie.

Come si manifesta: Non si sa quando la malattia realmente inizi, ma i sintomi cominciano a vedersi più o meno intorno ai tre anni di vita. I genitori notano che il bambino ha difficoltà nel correre, salire le scale, alzarsi da terra, non riesce a saltare. Questi problemi sono dovuti al prevalente interessamento dei muscoli del cingolo pelvico e in particolare dei muscoli glutei. Naturalmente, sebbene vi sia un interessamento prevalente dei distretti muscolari prossimali (cioè vicini al tronco), la malattia è fin dall’inizio generalizzata. Alla visita si può notare molto precocemente il peculiare aspetto “pseudoipertrofico” dei polpacci: sono voluminosi e alla palpazione risultano di consistenza aumentata, perché il tessuto muscolare viene sostituito dal tessuto fibroadiposo. A volte raccogliendo attentamente le notizie relative alle prime fasi dello sviluppo di questi bambini si trova un lieve ritardo nell’acquisizione delle tappe motorie e in particolare della deambulazione e con discreta frequenza si riscontra un ritardo nell’acquisizione del linguaggio. In alcuni casi i problemi relativi alla sfera linguistica e cognitiva possono prevalenti rispetto a quelli motori nei primi anni di vita, ritardando l’inquadramento diagnostico. Con il progredire dell’età le difficoltà motorie diventano evidenti e al momento dell’ingresso nella scuola elementare il quadro clinico è chiaro. I bambini hanno un’evidente pseudoipertrofia dei polpacci e a volte anche del quadricipite femorale, accentuazione della fisiologica curvatura della regione lombare della colonna vertebrale (iperlordosi lombare), scapole alate, andatura anserina, si alzano da terra con una caratteristica manovra di arrampicamento (manovra di Gowers), corrono con fatica e con una caratteristica andatura “da maratoneta”, salgono le scale con difficoltà, tenendosi al corrimano. La malattia progredisce ulteriormente causando la perdita della deambulazione autonoma entro i 12 anni di età e, sia pure più tardivamente, la progressiva perdita di funzione degli arti superiori. Anche i muscoli respiratori e il cuore sono coinvolti: i soggetti sviluppano invariabilmente una sindrome disventilatoria restrittiva e in un arco di tempo variabile da soggetto a soggetto si renderà necessaria una ventilazione meccanica dapprima notturna e poi anche diurna.

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Più variabile per età e gravità è il coinvolgimento cardiaco, che consiste nell’insorgere di una cardiomiopatia dilatativa. In alcuni casi insorge in tempi relativamente precoci e acquista un’importanza dominante nell’evoluzione clinica. L’aspettativa di vita dei soggetti affetti è ridotta proprio a causa delle complicanze cardiache e respiratorie. Altri problemi clinici rilevanti sono la scoliosi e le retrazioni articolari. Sebbene non condizionino direttamente l’aspettativa di vita dei soggetti questi aspetti hanno importanza nel definire l’andamento clinico della DMD. La scoliosi infatti, quando diventa particolarmente severa, oltre a creare problemi posturali può contribuire a complicare la situazione respiratoria. Le retrazioni articolari possono contribuire e accelerare la perdita della funzionalità motoria rendendo difficile per esempio il mantenimento della stazione eretta. Nei casi (circa un 30%) che presentano un deficit cognitivo – di varia entità – questo resta stabile nel tempo . Anche i soggetti con normale dotazione intellettiva possono avere lievi difficoltà legate all’apprendimento della letto-scrittura o comunque nella processazione verbale. La Distrofina è normalmente presente – e assente nei soggetti affetti da DMD -anche in alcune aree del Sistema Nervoso Centrale: questo è probabilmente alla base del possibile coinvolgimento cognitivo, ma molte cose non sono ancora chiare in quest’ambito.

Le cause: E’ una malattia genetica, legata ad un gene presente sul cromosoma X che codifica per la proteina detta Distrofina. Solo i soggetti di sesso maschile presentano i sintomi della malattia , mentre le femmine portano l’alterazione genica senza manifestazioni cliniche, tranne rari casi nei quali il fenotipo è comunque lieve. Nelle femmine infatti abbiamo due cromosomi X e la copia “sana” del gene può compensare l’altra. Nei soggetti di sesso femminile si possono riscontrare: aumento del livello di Creatin Kinasi (CK) nel siero, a volte polpacci voluminosi e lievi deficit di forza; nel corso degli anni le femmine portatrici possono sviluppare problemi cardiaci. Il gene della Distrofina è molto grande e le alterazioni responsabili della malattia possono essere delezioni (cioè perdita di alcuni frammenti), mutazioni puntiformi (cioè sostituzioni nucleotidiche) o anche duplicazioni. L’effetto di queste alterazioni è la mancata produzione della proteina.

La diagnosi: Nei bambini più piccoli (primo-secondo anno di vita) è più probabile dell’iter diagnostico venga avviato a partire dal riscontro casuale di un aumento del livello di CK nel sangue, nei bambini più grandi abitualmente è il riscontro di difficoltà motorie da parte dei genitori a suggerire l’opportunità di una valutazione. All’esame obiettivo si riscontreranno i segni descritti sopra (pseudoipertrofia dei polpacci, iperlordosi lombare, manovra di Gowers, difficoltà nel salire le scale e nel salto…) . La diagnosi riposa poi sul riscontro dell’assenza della distrofina documentato su un frammento di muscolo prelevato mediante biopsia muscolare e sull’analisi genetica. Si può partire dall’analisi genetica, meno invasiva perché si effettua su un prelievo di sangue, ma va detto che in circa il 30% dei casi di soggetti affetti le indagini genetiche routinarie non consento di dimostrare alterazioni nel gene della Distrofina. Sarà pertanto necessario procedere ad una biopsia per verificare l’assenza di distrofina nel muscolo e distinguere quindi il quadro da altre forme di distrofia muscolare. La diagnosi prenatale è possibile mediante villocentesi e amniocentesi . La ricerca di alterazioni del gene della Distrofina non fa parte delle indagini prenatali di routine, ma viene effettuata in situazioni a rischio (presenza di soggetti affetti nel nucleo familiare). Circa un terzo dei casi di DMD nasce da madri non portatrici, per nuove mutazioni (cioè eventi accidentali). E’ in ogni caso essenziale una consulenza genetica per il nucleo familiare nel quale sia stata fatta diagnosi di DMD.

Esiste una terapia: Al momento non esiste una terapia risolutiva per la malattia. E’ molto importante una presa in carico globale, plurispecialistica, da parte di un centro specializzato che sia in grado di gestire i molteplici aspetti della malattia in relazione all’evoluzione clinica e comprensiva di un attento supporto emotivo per tutto il nucleo familiare. Gli interventi varieranno

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secondo le specifiche necessità cliniche, in relazione all’età ma anche al peculiare andamento che ogni bambino può presentare pur con la stessa diagnosi. Esistono comunque alcuni elementi comuni fondamentali, quali la valutazione della funzionalità respiratoria in sonno e veglia e della funzionalità cardiaca. Nelle fasi più avanzate della malattia sarà necessaria una ventilazione meccanica assistita. Attualmente l’insufficienza respiratoria è ben controllata dalla ventilazione non invasiva e la tracheotomia viene riservata ai casi –rari- nei quali non sia possibile controllare altrimenti la situazione. L’impiego della ventilazione meccanica ha significativamente migliorato sia la qualità sia la durata della vita dei soggetti affetti da DMD: oggi la sopravvivenza fino e in alcuni casi oltre la terza decade è possibile. I problemi cardiaci possono essere contenuti , almeno nelle prime fasi, con una terapia farmacologica. Tuttavia l’evoluzione della patologia a carico della cellula miocardica rende inefficace la terapia e le condizioni generali non consentono di ipotizzare un trapianto. Per quanto riguarda la fisiocinesiterapia, pur non esistendo un consenso univoco e dimostrato scientificamente circa la sua utilità, il corretto momento di inizio del trattamento, la frequenza ideale ecc, sono considerati importanti l’attenzione al controllo delle posture, allo sviluppo di retrazioni e di scoliosi. Nei casi di scoliosi evolutiva che abbiano una discreta funzionalità cardiaca e respiratoria si può valutare l’intervento di correzione chirurgica della scoliosi. Non ci sono studi conclusivi sull’efficacia né sull’effetto dell’esercizio fisico sul muscolo distrofico e la maggior parte dei dati è inferita dagli esperimenti sul modello animale (murino) che tuttavia non è del tutto sovrapponibile a quello umano. Sembra tuttavia che esercizi che stimolino la contrazione eccentrica del muscolo (per esempio scendere le scale, correre in discesa…) siano dannosi, mentre un blando esercizio aerobico possa anche essere utile. Per i bambini in ogni caso l’attività fisica costituisce un elemento estremamente importante nella vita emotiva e relazionale e pertanto ci si limita di solito a consigliare di rispettare il limite della sensazione di fatica e a sconsigliare sforzi eccessivi. Tentativi terapeutici Da anni è ormai invalso l’uso di steroidi nei soggetti affetti da DMD. Vari studi, con diversi farmaci e diversa posologia hanno dimostrato una discreta efficacia degli steroidi con riduzione della sensazione soggettiva di fatica e discreto miglioramento nelle performance motorie. Rispetto alla storia naturale della malattia i soggetti trattati deambulano per un tempo più lungo, sebbene la risposta alla terapia possa variare da soggetto a soggetto. Non si hanno invece ancora dati certi sull’eventuale efficacia della terapia steroidea sull’insorgenza dell’insufficienza respiratoria e sulla cardiomiopatia dilatativa. La somministrazione di steroidi rende naturalmente necessari controlli clinici, ematochimici e strumentali periodici per controllare l’eventuale comparsa di effetti collaterali.

EMOFILIA

Sinonimi: (Emofilia tipo A e B)

Nome Inglese: Hemophilia

Frequenza: 1/10 000 maschi (emofilia A); 1/50 000 maschi (emofilia B)

Che cos'è l'Emofilia: L'emofilia è una malattia ereditaria dovuta ad un difetto della coagulazione del sangue. La coagulazione è il processo con cui, in caso di fuoriuscita dai vasi sanguigni, il sangue forma un "tappo" composto da piastrine, cellule del sangue e fibrina, un componente del plasma. La coagulazione è un processo complesso, che comporta l'attivazione di numerose proteine del plasma in una specie di reazione a catena. Due di queste proteine, il fattore VIII ed il fattore IX -che vengono prodotte dal fegato- sono assenti o difettose nelle persone affette da emofilia.

Le diverse forme di Emofilia: Esistono due forme diverse di emofilia:

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- emofilia A, causata da deficienza di fattore VIII- emofilia B, causata da deficienza del fattore IX.

I sintomi delle due malattie sono praticamente identici e solo tramite gli esami di laboratorio, o conoscendo la storia familiare, il medico può differenziare questi due tipi di emofilia. Questa differenza è importantissima ai fini della terapia, perché determinerà quale dei fattori bisognerà eventualmente somministrare alla persona affetta.

Esiste un'altra malattia simile all'emofilia (la malattia di von Willebrand) che colpisce sia i maschi che le femmine. Si tratta di un difetto in un altro fattore della coagulazione (il fattore di von Willebrand) e di solito non provoca sintomi molto gravi.

Come si manifesta: Entrambe le emofilie colpiscono solo i maschi, mentre le femmine possono essere portatrici sane. Solo in rarissimi casi le femmine possono presentare i sintomi della malattia. Le persone affette subiscono facilmente emorragie esterne ed interne più o meno gravi. L'emofilia si manifesta essenzialmente in 2 forme:Forma grave, in cui l'attività coagulativa è inferiore all'1% del normale. Le persone affette dalla forma grave rischiano di avere gravi emorragie in seguito ad estrazioni dentarie, operazioni chirurgiche o ferite. Un pericolo serio è la possibilità di emorragie interne apparentemente spontanee, anche dopo traumi talmente lievi da passare quasi inosservati. Microtraumi possono causare ripetute emorragie nelle articolazioni (chiamate emartri), causando dolori e rigidità articolare. Altri sintomi più rari sono la presenza di sangue nelle urine (ematuria) o emorragie intracraniche, che sono estremamente pericolose. La forma grave colpisce circa il 60-70 per cento delle persone affette da emofilia ed i primi sintomi si verificano in genere quando il bambino comincia a camminare.Forma moderata o lieve, in cui le emorragie spontanee sono molto meno frequenti, così come i problemi articolari. Alcune persone hanno una forma talmente lieve di emofilia che può passare inosservata ed essere diagnosticata per caso in età adulta.

Le cause: I due tipi di emofilia A e B sono causati dall'alterazione di due geni diversi, situati entrambi sul cromosoma X. Si conoscono diverse alterazioni in questi geni, ma tutte portano alla produzione di fattore VIII o IX difettosi, oppure ne impediscono del tutto la produzione.

Come si trasmette: La trasmissione della malattia è legata al sesso: colpisce solo i maschi, mentre le femmine sono portatrici sane. Una madre portatrice sana avrà ad ogni gravidanza 1 probabilità su 2 di concepire un figlio maschio malato, e 1 su 2 di avere una figlia portatrice. Non esistono maschi portatori sani. I figli (maschi) di uomini malati sono sani (se la madre non è portatrice) mentre le figlie saranno tutte portatrici. Nelle famiglie in cui siano presenti casi di emofilia è possibile sottoporre le femmine all'analisi del DNA, che si effettua a partire da un normale prelievo di sangue, per stabilire se siano portatrici. E' anche possibile effettuare la diagnosi prenatale nelle gravidanze a rischio. Alcune donne portatrici hanno un'attività coagulativa più bassa del normale e possono presentare alcuni lievi sintomi, come ad esempio la tendenza a perdere molto sangue durante le mestruazioni. In circa 1 caso su 3 di emofilia A, possono nascere figli emofilici da genitori sani. In questi casi l'alterazione genica si è verificata al momento della formazione degli spermatozoi o degli ovuli. Se gli esami indicano chiaramente che nessuno dei genitori è portatore, le possibilità di avere un altro figlio ammalato è bassa. Le coppie che temono di poter trasmettere l'emofilia ai propri figli possono rivolgersi ad un centro di consulenza genetica, dove nel corso di un

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colloquio potranno essere informati in modo preciso sulle possibilità di dare alla luce figli malati o portatori, dopo aver eventualmente eseguito gli esami ritenuti opportuni.

La diagnosi: Il test di laboratorio più utilizzato è chiamato tempo di tromboplastina parziale (PTT). Nelle persone affette da emofilia il tempo di tromboplastina parziale risulta più lungo del normale. Altri valori, come il tempo di emorragia, il tempo di protrombina e la conta delle piastrine, sono normali. La conferma e la tipizzazione dell’emofilia (se di tipo A o B, se lieve, moderata o severa) viene poi avvalorata dal dosaggio delle proteine plasmatiche carenti (il fattore VIII o il fattore IX), metodica ora abbastanza diffusa nei laboratori analisi di molti ospedali del territorio nazionale.

Esiste una terapia: Il trattamento per l'emofilia consiste nella terapia sostitutiva, cioè nella somministrazione del fattore mancante (fattore VIII nell'emofilia A, fattore IX nella B). Fino a pochi anni fa questa era una pratica necessaria ma rischiosa, perché l'unico modo per ottenere questi fattori era quello di concentrarli partendo dal sangue di molti donatori, con un elevato rischio di contrarre virus come l'HIV o l'HCV (responsabile di epatite). In anni passati, molti emofiliaci sono stati contagiati da questi virus presenti nel sangue dei donatori; oggi questa possibilità è improbabile, grazie ai maggiori controlli ed al trattamento del sangue dei donatori. Inoltre, oggi le tecniche di ingegneria genetica permettono di ottenere gli stessi fattori in grande quantità, senza la necessità di ricorrere a donatori, evitando così ogni pericolo di infezione: una parte sempre maggiore di questi fattori sostitutivi viene prodotta tramite ingegneria genetica. La complicazione principale della terapia sostitutiva è la comparsa, nel sangue dei riceventi, di anticorpi diretti contro il fattore VIII o IX, che ne neutralizzano l'effetto, e che possono rendere difficile la terapia. Tutti i farmaci, come l'aspirina, che hanno un effetto negativo sulla coagulazione, devono essere sempre evitati. La frequenza della terapia sostitutiva va decisa dal medico in funzione del caso specifico. In genere, le persone affette da forma grave necessitano di una terapia continua, mentre nelle forme lievi la terapia sostitutiva si effettua generalmente in seguito a traumi, o in previsione di eventi come operazioni chirurgiche, estrazioni dentarie etc... Molti centri hanno organizzato programmi domiciliari che consentono ai pazienti di ricevere l'infusione ai primi sintomi. Nelle forme lievi di emofilia A, per episodi emorragici minori si può usare la desmopressina, un farmaco capace di determinare un aumento del 25-30 per cento del fattore VIII nel plasma.

EPILESSIE

Nome Inglese: MYOCLONUS EPILEPSY, EPILEPSY, GENERALIZED, IDIOPATHIC; EGI, EPILEPSY, PARTIAL; EPT

Frequenza: circa 1 persona su 100; l’epilessia è molto diffusa, nei paesi industrializzati e colpisce circa l’1% della popolazione: ciò significa, secondo le stime, oltre 500.000 cittadini e circa 24.000 nuovi casi all’anno solo in Italia. Sulla base dei rilievi di prevalenza (6-8% nei paesi sviluppati, fino al doppio nei paesi in via di sviluppo) si calcola che 50 milioni di persone nel mondo soffrano di epilessia

Che cos'è l'epilessia: Per la medicina moderna l’epilessia e’ una condizione caratterizzata dalla presenza di episodi accessuali (le crisi) che si ripetono in modo apparentemente spontaneo nel tempo. La base fisiologica e’ rappresentata dalla presenza di una eccessiva eccitabilita’ della cellula nervosa (neurone) che determina la occasionale generazione di scariche epilettiche. Una sola crisi

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non indica necessariamente che ci si trovi di fronte ad un caso di epilessia: infatti il 5% della popolazione ha avuto una sola crisi in tutta la vita.

Le diverse forme di Epilessia: Nell’ambito dell’epilessia si distinguono forme cliniche diverse per eziologia, presentazione clinica e prognosi. Le crisi si definiscono parziali quando la scarica epilettogena inizia e si mantiene localizzata ad una popolazione ristretta di neuroni; se la scarica inizia localmente ma si diffonde a vaste aree corticali vi puo’ essere una generalizzazione secondaria. Le crisi primitivamente generalizzate sono invece sostenute d una scarica epilettica che fin dal suo esordio interessa contemporaneamente ampie aree corticali di entrambi gli emisferi. Le crisi epilettiche sono classificate come elaborato dalla commissione della International League Against Epilepsy:Crisi Parziali (semplici e complesse) e Crisi Generalizzate (toniche, cloniche, miocloniche, atoniche, tonico-cloniche, convulsioni infantili, assenze). Le sindromi epilettiche vengono cosi’ classificate: epilessie idiopatiche (con crisi parziali o generalizzate) sono caratterizzate da esordio legato all’eta’, normale sviluppo psicomotorio e assenza di danno cerebrale. Le epilessie idiopatiche sono caratterizzate da un meccanismo di ereditarietà complesso (multifattoriale) in cui intervengono probabilmente più geni. Studi epidemiologici hanno rivelato l'importanza del ruolo dei fattori genetici nella predisposizione alla malattia, ma la trasmissione ereditaria non avviene con modalità prevedibili.

Le epilessie sintomatiche/criptogenetiche (con crisi parziali o generalizzate) rappresentano la maggioranza delle epilessie, possono insorgere a qualsiasi eta’ e comprendono forme con danno cerebrale individuato o ipotizzabile. Nelle epilessie sintomatiche, le crisi possono essere secondarie a lesioni cerebrali, encefalopatie, malformazioni vascolari, tumori cerebrali, traumi postatali oppure essere associate a malattie metaboliche o difetti congeniti (microcefalia, lissencefalia) per cui le cause genetiche possono essere preponderanti. Ad esempio, le epilessie miocloniche progressive sono malattie genetiche ad eredità autosomica recessiva (ad eccezione della MERRF, caratterizzata da trasmissione materna mitocondriale).

Esistono infine condizioni associate ad epilessia che comprendono ad esempio le convulsioni febbrili, in cui gli attacchi epilettici sono associati ad episodi febbrili. A seconda del tipo e della durata della crisi si distinguono le convulsioni febbrili semplici e le convulsioni febbrili complesse. Anche per le convulsioni febbrili è stata identificata una predisposizione familiare.

Come si manifesta: Il cervello è costituito da cellule nervose chiamate neuroni. La proprietà fondamentale del tessuto nervoso è di emettere degli impulsi nervosi. Questi sono costituiti da un passaggio di corrente elettrica che si genera nella cellula nervosa e si propaga ad altri neuroni con cui essa prende contatto. Ogni funzione cerebrale (il movimento, il linguaggio, la vista, dipende da una perfetta e complicatissima regolazione della trasmissione degli impulsi nervosi. Durante una crisi epilettica avviene una improvvisa, abnorme e sincronizzata scarica di impulsi nervosi da parte di un gruppo più o meno esteso di cellule nervose. Questo è il meccanismo comune ad ogni tipo di crisi epilettica; ciò che può cambiare sono le manifestazioni cliniche, cioè i segni visibili delle crisi

Esiste una terapia: Terapia farmacologica. La terapia delle epilessie è in prima istanza di tipo farmacologico (assunzione di uno o più farmaci). Tuttavia, il trattamento farmacologico può diminuire o far cessare le crisi, ma non ne elimina le cause. Un soddisfacente controllo delle crisi con minima incidenza di effetti collaterali si ottiene nel 70% dei casi, il restante 30% dei pazienti risulta refrattario alla terapia farmacologica.

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Trattamento chirurgico. In caso di fallimento della terapia farmacologica e in presenza di forme debilitanti particolarmente gravi, si prende in esame la possibilità di intervenire chirurgicamente, a condizione che la zona epilettogena sia ben individuata e circoscritta ed in un’area cerebrale la cui aspertazione non causi deficits neurologici significativi. L’intervento di emisferectomia puo’ essere preso in considerazione in alcuni casi di epilessia infantile associati a deficits neurologici gravi. Altri trattamenti medici. ACTH e cortisonici vengono utlizzati nella sindrome di West ed in alcune forme di epilessia infantile grave farmacoresistente. La vitamina B6 viene utilizzata per il trattamento delle epilessie piridossino-dipendenti ad insorgenza infantile. La dieta chetogenica e’ basata sulla somministrazione di una dieta ricca di grassi e povera di carboidrati e proteine e risulta efficace in pazienti con gravi epilessie farmacoresistenti in particolare in eta’ infantile. La plasmaferesi e’ stata adottata in pazienti affetti da epilessia associata a encefalite di Rasmussen. Un recente metodo ancora in fase di sperimentazione consiste nella stimolazione del Nervo Vago utilizzando uno speciale "stimolatore" avente la funzione di rilasciare debolissimi impulsi elettrici con lo scopo di contrastare le "scariche" anomali, causa prima delle crisi epilettiche. Si può guarire dall’epilessia, tuttavia è più corretto parlare di "remissione" delle crisi perché è possibile che ci siano delle ricadute anche a distanza di molti anni. Per guarigione o remissione totale delle crisi si intende il completo controllo delle crisi indipendentemente dall’assunzione di farmaci oppure l’assenza di crisi da almeno 4-6 anni, con EEG normale. Nel 60-70% dei casi è possibile ottenere una "remissione totale" dopo 3-10 anni dall’inizio di una terapia farmacologica appropriata. In alcuni casi (epilessia a Punte Rolandiche e Piccolo Male non associato a crisi di Grande Male) si può parlare di "guarigione" perché le crisi scompaiono verso i 15 anni di età. Lo stesso vale per molti casi di pazienti sottoposti ad interventi chirurgici positivamente conclusi.

FENILCHETONURIA

Nome Inglese: Phenylketonuria

Frequenza: 1/10000 nati indipendentemente dal sesso

Che cos'è la Fenilchetonuria: La fenilchetonuria (PKU) è una malattia metabolica ereditaria potenzialmente grave. Quando il trattamento non viene instaurato tempestivamente. Subito dopo la nascita, è caratterizzata dalla presenza di ritardo mentale irreversibile di grado medio - grave. Esiste anche una forma benigna detta non-PKU HPA. La fenilchetonuria è una malattia ben conosciuta, e grazie alla diagnosi precoce e ad un opportuna dieta è possibile prevenire completamente il manifestarsi di questi gravi sintomi.

Come si manifesta: La manifestazione principale della fenilchetonuria è il ritardo mentale. Tuttavia il ritardo mentale si può prevenire con un’alimentazione corretta, limitando l’assunzione di fenilalanina; in questo modo è possibile prevenire i danni provocati, in particolare sul sistema nervoso centrale, dall'accumulo dell’amminoacido. Poiché la fenilalanina è presente in molti alimenti, la dieta risulta in pratica costituita da minime quantità di proteine di origine animale, e’ necessaria l’assunzione di integratori dietetici per garantire un adeguato apporto calorico e degli altri amminoacidi, essenziali per una crescita corretta. La forma benigna non-PKU HPA non richiede trattamento ed è compatibile con un’alimentazione normale. Un tempo si riteneva che fosse sufficiente osservare il regime alimentare particolare fino alla pubertà, oggi molti esperti ritengono che sarebbe meglio continuare la dieta per tutta la vita.

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Le cause: La causa è rappresentata da alterazioni genetiche che provocano la carenza dell'enzima fenilalanina idrossilasi. Questo enzima è responsabile del metabolismo della fenilalanina, un amminoacido presente nelle cellule di tutti gli esseri viventi. Quando l’enzima non funziona in maniera corretta, la fenilalanina non viene trasformata in tirosina e si accumula nei tessuti, provocando danni all’organismo. Le conseguenze più gravi si hanno sullo sviluppo del sistema nervoso centrale: al ritardo mentale si associano spesso manifestazioni di tipo neurologico (ipercinesia, epilessia). A livello cutaneo è presente una caratteristica pigmentazione chiara (capelli biondi ed occhi celesti).

Come si trasmette: La PKU si trasmette con modalità autosomico-recessiva Questo significa che negli individui malati entrambe le copie del gene che codifica per la fenilalanina idrosillasi sono alterate. Gli individui che possiedono una copia alterata del gene e una normale sono invece privi di ogni sintomo, ma sono portatori sani. Potranno nascere bambini affetti da fenilchetonuria solo se entrambi i genitori sono portatori sani. Due genitori portatori sani avranno una probabilità del 25 % di avere figli affetti; dalla stessa unione i figli avranno una probabilità su due di nascere portatori sani, come i genitori. Il gene che se mutato provoca la fenilchetonuria è stato isolato ed è localizzato sul braccio lungo del cromosoma 12. Dal momento che le mutazioni che possono causare la malattia sono oltre 400, l’analisi molecolare non è usata di routine nella diagnosi, che si avvale invece del più semplice ed economico test di Guthrie.

La diagnosi: Su tutti i neonati viene eseguito uno screening di massa mediante il dosaggio biochimico della fenilalanina (test di Guthrie) per l'individuazione tempestiva dei soggetti affetti da fenilchetonuria: e’ un esempio classico di efficace intervento di medicina preventiva, che permette di instaurare molto precocemente il trattamento idoneo e per questo e’ estremamente difficile, al giorno d’oggi, riscontrare quello che in passato era il quadro clinico tipico della malattia. Occorre tuttavia ricordare che questi programmi di screening sono ancora carenti o del tutto inesistenti nei Paesi in via di sviluppo. Lo screening di massa si effettua nei primi giorni di vita dosando la fenilalanina su una piccolissima quantità di sangue prelevata dal tallone del neonato (test di Guthrie). Se viene riscontrato un aumento di fenilalanina nel sangue, si procede ad un approfondimento della diagnosi presso un centro di riferimento. L’approfondimento diagnostico permette di individuare con esattezza la specifica forma di PKU presente nel paziente in modo da predisporre il trattamento più idoneo. In ogni regione italiana esiste almeno un centro di riferimento per la diagnosi e il trattamento della fenilchetonuria. La diagnosi prenatale nelle gravidanze a rischio è oggi possibile con un approccio di tipo molecolare. In Italia la sua applicazione ha trovato un impiego limitato dato che comunque tutti i neonati nel nostro paese vengono sottoposti al test neonatale di Guthrie e, in caso di positività, è possibile intervenire con una dieta per evitare le conseguenze della malattia. La diagnosi prenatale rimane comunque un’opzione possibile per le coppie a rischio (con uno o più figli fenilchetonurici).

Esiste una terapia: Grazie alla diagnosi precoce e ad un opportuna dieta è possibile prevenire completamente il manifestarsi dei gravi sintomi della fenilchetonuria. Tuttavia, la dieta, per essere efficace, deve essere adottata con estremo rigore e i suoi risultati devono essere controllati da regolari valutazioni dei livelli plasmatici di fenilalanina. Per le donne fenilchetonuriche che decidono di intraprendere una gravidanza, è indispensabile osservare uno strettissimo regime dietetico che mantenga la concentrazione della fenilalanina nei limiti indicati. Le madri fenilchetonuriche, che non hanno iniziato una dieta prima del concepimento e non l’hanno osservata accuratamente per tutto il periodo della gravidanza, hanno un rischio molto elevato di avere figli con ritardo mentale e malformazioni congenite (fetopatia da fenilchetonuria materna). Queste

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indicazioni valgono non solo per le madri che presentano una forma grave di PKU, ma anche per le donne che presentano la forma benigna, non-PKU HPA.

FIBROSI CISTICA

Sinonimi: Mucoviscidosi (vecchia denominazione; in Francia “mucoviscidose”, in Germania “mucoviszidose”)

Nome Inglese: Cystic Fibrosis (CF)

Frequenza: Frequenza stimata nella popolazione di origine caucasica in Europa e Nord-America circa 1:2.000-1:6.000 nati

Che cos'è la Fibrosi Cistica: La fibrosi cistica, nota anche col nome di mucoviscidosi, è una malattia genetica.Paradossalmente, è poco conosciuta, eppure si tratta della più comune fra le malattie genetiche mortali nelle popolazioni di origine caucasica.Nelle popolazioni occidentali, una persona su ventisette è portatrice della mutazione del gene che provoca la malattia, senza avere alcun sintomo e un bambino ogni 2000-6000 nati è colpito dalla malattia. In Italia vi sono circa 3500 pazienti seguiti nei centri regionali. Ogni anno dovrebbero nascere circa 200 nuovi bambini colpiti dalla malattia. Nella sua forma più grave, la fibrosi cistica colpisce diversi organi, principalmente il pancreas (da cui il nome fibrosi cistica del pancreas), i polmoni, il fegato, l’intestino. Il danno al pancreas è precocissimo e provoca difficoltà nella digestione e nell’assimiliazione dei grassi. Un tempo, i bambini morivano di malnutrizione. Da molto tempo, questo aspetto della malattia è correggibile.Il danno polmonare compare più o meno tardi con infezioni ripetute fino all’infezione cronica che danneggia, in maniera progressiva e irreversibile, il tessuto polmonare. L’insufficienza respiratoria è la causa principale di morte.Oltre a queste principali manifestazioni la fibrosi cistica provoca diabete (15% dei pazienti giovani adulti), malattia epatica grave (3% dei pazienti giovani), pancreatiti ricorrenti, sterilità maschile (quasi sempre), sterilità femminile (alcuni casi), sinusite e poliposi nasale, occlusioni intestinali.

Le diverse forme di Fibrosi Cistica: Esistono forme classiche di fibrosi cistica, quelle in cui sono presenti i principali sintomi e che, storicamente, hanno condotto alla descrizione della malattia (insufficienza pancreatica, infezioni respiratorie), ma non solo le sole. Circa il 20% dei pazienti non presenta le manifestazioni intestinali (il pancreas è sufficiente) e quindi nei primi mesi di vita crescono bene senza bisogno di supplementazioni. Vi sono poi forme a decorso lieve che si manifestano tardivamente, forme dette atipiche, di cui ci si può accorgere da adulti e, infine, forme che si limitano alla sterilità maschile e non si associano ad alcun altro sintomo della malattia classica.Le stesse mutazioni del gene CFTR si ritrovano in pazienti con diversa espressione della malattia. Quindi, la genetica non aiuta a prevederne l’andamento. Fratelli che condividono le stesse mutazioni nel gene possono presentare condizioni cliniche molto diverse. Invece, la malattia ha lo stesso andamento in gemelli monoovulari.

Come si manifesta: In circa il 15% dei casi la malattia può esordire alla nascita con una grave forma di occlusione intestinale (ileo da meconio) ch espesso deve essere risolta chirurgicamente.

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Nella maggior parte dei casi, i sintomi si manifestano nelle prime settimane o nei primi mesi di vita con ritardo di crescita dovuto alla scarsa assimilazione dei grassi per insufficienza pancreatica. Le feci sono untuose e il peso del bambino non aumenta. In altri casi le prime manifestazioni sono quelle di infezioni ripetute delle vie aeree. Queste comunque tendono a comparire nel corso della storia naturale della malattia, con sintomi più o meno gravi.

Le cause: La malattia è determinata dal funzionamento anomalo di una proteina detta CFTR ( acronimo di cystic fibrosis transmembrane regulator) che regola il passaggio del cloro attraverso la membrana di cellule epiteliali. Questa proteina viene codificata da un gene (CFTR) le cui mutazioni ne provocano difetti di sintesi o addirittura ne impediscono la formazione. Il difetto della CFTR comporta diverse conseguenze, difficili da ricondurre a un’interpretazione unitaria. Vi sono alterazioni di alcune secrezioni, per esempio il sudore, ricco di sale, oppure delle secrezioni delle vie respiratorie, che sono più dense perché povere di acqua, alterazioni della bile, che è spessa. Ma altre anomalie, precipue, legate al malfunzionamento della proteina CFTR, ma meno comprensibilmente legate alla sua funzione di canale del cloro, sono la propensione a risposte infiammatorie esagerate delle vie respiratorie, anche a fronte a stimoli assai banali, la facilità all’infezione cronica dei bronchi, da parti di particolari germi come la Pseudomonas aeruginosa o lo stafilococco. Questi batteri aderiscono facilmente alla mucosa delle vie aeree dei pazienti, che non se ne sanno liberare, e provocano un’infiammazione e un’infezione cronica.

Come si trasmette: Dato che tratta di una malattia recessiva i portatori non presentano alcuna manifestazione della malattia. Per avere la fibrosi cistica bisogna ereditare i geni mutati da entrambi i genitori.

La diagnosi: Diagnosi per screening neonatale - La fibrosi cistica si può diagnosticare alla nascita con un’analisi sul sangue del neonato. In Italia, alcune regioni hanno messo in atto programmi di screening alla nascita e, vengono eseguiti esami per ricercare la fibrosi cistica e altre malattie congenite. Se i primi esami sono positivi il neonato viene sottoposto a prove più specifiche (il test del sudore) che permettono di diagnosticare in maniera specifica la fibrosi cistica. In seguito, si eseguono indagini genetiche per sapere quali siano le mutazioni presenti (vengono identificate circa nell’85% dei casi). Questo permette di fare poi indagini sulla famiglia per riconoscere i portatori. Per definizione, la diagnosi per screening precede l’insorgenza di sintomi.Diagnosi per sintomi. Come abbiamo detto, una certa percentuale di casi si manifesta nei primi giorni di vita, prima che possano essere eseguiti i test di screening, con ileo da meconio. Laddove lo screening non venga eseguito la diagnosi viene fatta, a partire dai sintomi che la rendono sospetta, eseguendo il test del sudore, a cui si fanno seguire le indagini genetiche. Diagnosi per familiarità. In alcuni casi, la fibrosi cistica si manifesta in maniera molto lieve e viene scoperta quasi per caso, a partire da un caso più grave verificatosi in un parente stretto. Test del sudore . Questo test, per quanto diffuso, deve essere eseguito in ambienti specializzati perché soggetto a elevato rischio di errore E’ l’esame che viene eseguito su una goccia di sudore per determinare la quantità di cloro in esso contenuta. I pazienti con fibrosi cistica hanno una concentrazione di cloro nel sudore elevata. (Una nonna ci ha detto: “quando baciavo la bambina mi restava un sapore salato sulle labbra, lo dicevo ai dottori, mi prendevano in giro”. Aveva ragione.)Il test del sudore permette di stabilire la diagnosi nella gran maggioranza dei casi. In alcuni casi il suo significato resta dubbio e l’esame deve essere ripetuto anche più volte. Esistono esami più sofisticati, eseguiti in pochi centri che permettono di arrivare alla diagnosi in casi che restano dubbi malgrado le indagini genetiche e malgrado il test del sudore. Uno di questi esami consiste nella misurazione dei potenziali nasali. Attraverso un elettrodo appoggiato sulla mucosa nasale viene direttamente valutato il funzionamento del canale CFTR nelle cellule delle vie respiratorie.

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Le mutazioni del gene colpito nella fibrosi cistica sono più di mille e non è possibile ricercarle tutte per identificare con certezza un portatore. Quando però in una famiglia vi sia una persona affetta dalla malattia e si conoscano le sue mutazioni, queste possono essere ricercate nei parenti più stretti con una elevata probabilità di individuare i portatori sani. In casi particolari si possono eseguire indagini sofisticate che permettono di trovare mutazioni anche senza partire da un familiare affetto, ma queste tecniche genetiche non sono applicabili alla popolazione generale. E ad esse si deve ricorrere solo in casi ben definiti dopo consulenza genetica. Conoscendo le mutazioni di cui i genitori sono portatori, queste possono essere ricercate sul feto con prelievo dei villi coriali.

Esiste una terapia: Non vi è una terapia risolutiva né si può parlare, oggi, di possibilità di guarigione dalla malattia. Vi sono cure croniche (enzimi pancreatici, fisioterapia) e cure frequenti o subcontinue (terapia antibiotica, aerosol per dilatare le vie respiratorie e migliorarne il drenaggio). Se compaiono complicazioni come il danno epatico o il diabete, vanno affrontate in maniera specifica. Circa il 3% dei pazienti può arrivare alla necessità di un trapianto di fegato (mediamente in età giovanile). Più numerosi sono i pazienti in cui si rende necessario un trapianto di polmone. La malattia non si riproduce nel fegato e nel polmone trapiantati. In alcuni casi di sterilità maschile possono essere usate tecniche di fecondazioni assistita. I pazienti affetti da fibrosi cistica devono essere presi in carico molto presto da centri specialistici. In Italia, in ogni regione, esiste un centro fibrosi cistica e possono esservi servizi di supporto. Dato che la malattia tende a dare segni precoci nella sua forma classica, le prime cure sono indirizzate a normalizzare la digestione e a prevenire il danno respiratorio. Per il primo aspetto si somministrano enzimi pancreatici che devono essere assunti cronicamente, mentre per affrontare o prevenire i sintomi respiratori si inizia quanto prima un programma di fisioterapia per permettere l’espettorazione del muco denso che tende ad accumularsi nelle basse vie aeree e a infettarsi L’aspetto digestivo è quasi sempre facilmente controllabile, ma il bambino con fibrosi cistica può finire per presentare infezioni respiratorie (broncopolmoniti) ricorrenti. Alcuni batteri tendono a colonizzare le vie aeree in maniera cronica e a causare un processo infiammatorio persistente che si manifesta con un’infezione cronica che, più o meno spesso, si riacutizza. Un tempo la fibrosi cistica era considerata una malattia mortale nell’infanzia. Oggi il 50% dei pazienti supera il 37-40 anni. Questo dato dipende da diversi fattori come la diagnosi precoce, il miglioramento delle cure, la diagnosi sempre più frequente di forme lievi che un tempo non venivano considerate fibrosi cistiche. Il trapianto di polmone, diventato più frequente solo negli ultimi 10 anni, si sta rivelando un fattore decisivo per il prolungamento ulteriore dell’aspettativa di vita nelle forme classiche gravi.MORBO DI ALZHEIMER

Sinonimi: Malattia di Alzheimer

Nome Inglese: Alzheimer Disease (AD)

Frequenza: 500 000 persone colpite in Italia; 6-10% oltre i 65 anni, 20% oltre gli 80 anni.

Che cos'è il Morbo di Alzheimer: La malattia di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915), il neurologo tedesco che per primo la descrisse intorno al 1910. Si tratta di una malattia degenerativa delle cellule cerebrali che provoca demenza, cioè un declino progressivo delle funzioni intellettive e della memoria, con alterazioni della personalità e del comportamento. Le persone malate perdono progressivamente la loro autonomia, fino a diventare totalmente dipendenti dagli altri per le necessità più elementari come lavarsi, vestirsi, mangiare.

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Le diverse forme del morbo di Alzheimer: Si può fare una prima importante distinzione fra le forme di Alzheimer sporadiche e quelle familiari.

Le forme sporadiche sono la maggioranza (circa il 75% dei casi): sporadico significa che la malattia colpisce un solo membro di una famiglia. Tutti casi di Alzheimer che non presentano familiarità vengono considerati come sporadici.

Nelle forme familiari (il restante 25% dei casi) più persone sono invece colpite nella stessa famiglia. Le forme familiari si possono a loro volta suddividere in:

Forma tardiva familiare (AD2): si diagnostica questa forma nelle famiglie con più casi di malattia che si manifestano dopo i 65 anni.

Forme precoci familiari (AD1, AD3, AD4): si diagnosticano queste forme nelle famiglie con più casi della malattia che si manifestano prima dei 65 anni. I sottotipi (AD, AD2, AD3) si possono distinguere solo con un test genetico (vedi più avanti).

Come si manifesta: La malattia si manifesta prevalentemente dopo i 60 anni, anche se esistono casi molto più rari di esordio fra i 30 e 50 anni. Costituisce un vero problema sociale: recenti statistiche indicano che in Italia i malati sono più di 500mila e che nella maggior parte di casi la loro cura pesa totalmente sui familiari; in oltre la metà dei casi i familiari di persone affette dalla malattia si occupano a tempo pieno della cura del malato. I primi sintomi della malattia sono in genere difficili da riconoscere. Una delle prime alterazioni è la difficoltà a ricordare gli eventi recenti. Col tempo il deficit della memoria, che all’inizio può essere sfumato, tende a peggiorare diventando evidente e può accompagnarsi ad alterazioni del comportamento e dell'orientamento spazio-temporale. Possono essere presenti anche disturbi cognitivi, problemi di linguaggio (afasia), incapacità a riconoscere persone, cose e luoghi (agnosia), incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita -lavarsi, vestirsi, mangiare (aprassia)- deliri e/o allucinazioni. Man mano che la malattia progredisce, risultano evidenti anche sintomi di tipo motorio: rigidità muscolare, difficoltà nel camminare, tremori simili a quelli che si osservano nel morbo di Parkinson, incontinenza. La malattia di Alzheimer e la demenza senile non sono la stessa cosa. Anche se la malattia di Alzheimer è la causa più frequente di demenza (il 50-70% di coloro che soffrono di demenza hanno la malattia di Alzheimer) la demenza può essere dovuta anche ad altre patologie, come la Malattia di Parkinson, la M. di Huntington, la Demenza multi-infartuale (MID) causata da ictus multipli, la Malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e la Malattia di Pick. Tutte queste patologie possono presentare sintomi simili, ma uno specialista è in grado di effettuare una diagnosi differenziale.

Le cause: Le conoscenze sui meccanismi che causano la degenerazione e la morte dei neuroni nella malattia di Alzheimer sono tutt’ora lacunose e molte ricerche sono in corso. E’ noto che nelle cellule nervose delle persone malate si può riscontrare un accumulo anomalo di sostanze, solo in parte identificate, che provocano la formazione di placche e fibrille all’interno delle cellule. Una di queste sostanze è la proteina amiloide, che a sua volta deriva da una proteina normalmente presente nelle cellule cerebrali, chiamata APP (precursore della proteina amiloide). I meccanismi che portano alla formazione di questi accumuli sono ancora poco conosciuti, anche se numerose e recenti ricerche stanno facendo luce sulle altre proteine e sugli enzimi coinvolti in questo processo. Informazioni importanti sono anche arrivate dallo studio delle forme familiari di Alzheimer, per le quali sono state identificati alcuni geni che, se mutati, possono causare la malattia:

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Il gene della proteina amiloide (APP), localizzato sul cromosoma 21 risulta alterato nella forma AD1. Le mutazioni dell’APP sono rare (solo circa 43 famiglie finora identificate nel mondo) e causano una malattia ad esordio precoce (35-50 anni).Il gene della presenilina 1 (PS1) localizzato sul cromosoma 14, risulta alterato nella forma AD3. In particolare oltre 125 diverse mutazioni di questo gene sono state finora identificate in pazienti con forme familiari ad esordio precoce appartenenti a 254 famiglie, in tutto il mondo. Queste mutazioni rapppresentano la causa più comune delle forme di Alzheimer familiare ad esordio precoce (28-60 anni). (le preseniline sono proteine che hanno la funzione di tagliare la proteina amiloide, per questo un'ipotesi è che il loro alterato funzionamento potrebbe portare all’accumulo di proteina amiloide).Il gene della presenilina 2 (PS2) localizzato sul cromosoma 1, risulta alterato nella forma AD4. Fino ad oggi solo 6 mutazioni sono state identificate in pazienti appartenenti a famiglie americane originarie dell’Europa dell'Est ed in 2 famiglie italiane. In queste famiglie l’età di esordio può essere precoce (30 anni) ma anche molto tardiva (oltre 80).

Come si trasmette: Dallo studio delle famiglie affette è stato possibile individuare le modalità di trasmissione ereditaria delle diverse forme: Le forme AD1, AD3 e AD4 (da mutazioni dei geni APP, PS1 e PS2) si ereditano con modalità autosomica dominante. Per la forma AD2 non si è ancora potuto stabilire con certezza quale sia la modalità di trasmissione ereditaria, ma si ipotizza una trasmissione di tipo autosomico dominante.

La diagnosi: Non esiste per ora alcun esame specifico per la malattia di Alzheimer. La diagnosi si basa essenzialmente sull’attento esame clinico del paziente, dei sintomi e sulla storia familiare, nel caso di forme ereditarie. Altri esami, tra cui la diagnostica per immagini (TAC, RMN), non hanno valore decisivo per la diagnosi, ma possono servire ad escludere altre cause di demenza. Per le forme è possibile confermare la diagnosi tramite l’analisi del DNA. Di recente, sia per le forme familiari che per quelle sporadiche, accanto all’esame clinico (che resta fondamentale) è stato introdotto anche un esame genetico per un particolare allele – l’allele 4 - del gene della Apolipoproteina E (APOE4). L’APOE è una proteina che si lega alla proteina amiloide e diversi studi hanno mostrato che l’allele 4 è più frequente nelle persone affette da malattia di Alzheimer rispetto a quelle sane. Si tratta comunque di una dato indicativo e che non basta da solo a definire la diagnosi: infatti, quasi la metà delle persone affette non possiede questo allele, che d’altra parte può essere presente anche in una percentuale di persone sane. Pertanto, l’esame genetico ApoE non è utilizzabile per predire il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer.

Esiste una terapia: Non esiste al momento una terapia risolutiva per questa malattia, che per ora rimane inesorabilmente progressiva. Un parziale miglioramento si ottiene con l’uso di una classe di farmaci chiamati "inibitori della colinesterasi". Si tratta di farmaci che hanno l’effetto di mantenere attivi più a lungo i segnali che vanno da un neurone all’altro. Questi farmaci hanno mostrato di poter rallentare anche per diversi mesi la progressione dei sintomi, in una percentuale di pazienti che va dal 20 al 40%.

MORBO DI PARKINSON

Sinonimi: Malattia di Parkinson

Nome Inglese: Parkinson's Disease

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Frequenza: 100.000 persone colpite in Italia; 1-4% intorno a 55 anni - 3,4% oltre i 75 anni.

Che cos'è il Morbo di Parkinson: E’ la più frequente malattia neurodegenerativa dopo la malattia di Alzheimer. E' una malattia degenerativa del cervello, lentamente progressiva, che colpisce le cellule cerebrali che producono la dopamina, una sostanza chimica importante per un controllo preciso dei movimenti. La dopamina è un neurotrasmettitore, cioè una sostanza che i neuroni utilizzano per comunicare fra loro.

La malattia colpisce generalmente dopo i 50 anni, con un picco fra i 59 e i 62 anni, ma esistono casi in cui la malattia si manifesta in età più giovane (principalmente nella terza-quarta decade), soprattutto per quanto riguarda le forme di tipo familiare.La malattia di Parkinson (o Morbo di Parkinson) colpisce in eguale misura uomini e donne

Come si manifesta: Nella malattia di Parkinson, per ragioni ancora in gran parte sconosciute, i neuroni che producono dopamina degenerano, causando una carenza di questo neurotrasmettitore. Come risultato, le persone affette presentano progressivamente i sintomi tipici della malattia: tremore a riposo, lentezza ed impaccio nei movimenti, rigidità muscolare, instabilità posturale. Esistono numerosi farmaci, tra cui la levodopa e gli agonisti della dopamina, per il trattamento sintomatico della malattia di Parkinson. Tuttavia questi farmaci non “curano” la malattia, né influenzano in alcun modo la progressione del quadro clinico. Da alcuni anni è disponibile anche un trattamento chirurgico di alcune forme di malattia di Parkinson, basato sull’impianto di elettrodi cerebrali che permettono di stimolare ad alta frequenza alcune zone del cervello. Questo approccio terapeutico ha portato risultati estremamente soddisfacenti, e al momento rappresenta una valida alternativa alla terapia farmacologica, soprattutto in quei pazienti in cui i farmaci non riescono a controllare le manifestazioni della malattia e comportano gravi effetti collaterali. Nella maggior parte dei casi la malattia di Parkinson, soprattutto quando esordisce nella sesta-settima decade, è sporadica, cioè non è ereditaria. Esistono però alcune forme ereditarie più rare (forme di tipo familiare). Le forme ereditarie possono essere trasmesse sia con modalità autosomica dominante, che autosomica recessiva. Le forme ad esordio giovanile tendono ad essere trasmesse in forma recessiva (da due genitori sani), e sono forme a progressione più lenta, andamento solitamente benigno e buona risposta alla terapia. I geni responsabili di alcune forme familiari, sia dominanti che recessive, sono stati individuati di recente. Lo studio della funzione di questi geni sta permettendo di comprendere i meccanismi patogenetici che verosimilmente intervengono anche nelle forme di malattia di Parkinson idiopatica.

Le cause: Sino ad ora sono stati identificati due geni responsabili di malattia di Parkinson a trasmissione dominante (alfa-sinucleina e ubiquitin-cicloidrolasi-L1), e due geni responsabili di malattia di Parkinson a trasmissione recessiva (parkina e DJ-1). L’identificazione di questi geni ha permesso di poter studiare la loro funzione fisiologica e il meccanismo per il quale mutazioni in questi geni determinano la degenerazione dei neuroni dopaminergici cerebrali e quindi la malattia di Parkinson. Al momento, due principali meccanismi cellulari sono stati coinvolti nella malattia di Parkinson: 1) lo stress ossidativo e l’alterazione della funzione mitocondriale; 2) l’accumulo intracellulare di aggregati proteici e l’alterazione della via ubiquitina-proteosoma. I mitocondri sono degli organelli presenti in tutte le nostre cellule e svolgono un ruolo fondamentale per la sopravvivenza cellulare, in quanto rappresentano la sorgente di energia della cellula. Se i mitocondri non funzionano in modo efficiente, la cellula non ha energia sufficiente per espletare tutte le sue funzioni vitali e va quindi incontro a morte. Alcune condizioni, come lo stress ossidativo ed i radicali liberi, danneggiano la funzionalità mitocondriale. Questo avviene soprattutto nelle cellule dopaminergiche del sistema nervoso, in quanto il metabolismo della dopamina di per sé è

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una fonte di radicali liberi. Le cellule normalmente mettono in atto efficienti sistemi di difesa, attivando alcuni geni che svolgono un ruolo protettivo contro lo stress ossidativo. Ad esempio, DJ-1 sembra essere coinvolto nei meccanismi di difesa contro lo stress ossidativo; mutazioni in questo gene ne alterano la funzione e determinano l’insorgenza della malattia di Parkinson. Un secondo meccanismo coinvolto nella patogenesi della malattia di Parkinson è l’accumulo di aggregati proteici nelle cellule dopaminergiche. Ad esempio, alfa-sinucleina è una proteina che tende a formare aggregati proteici. Mutazioni dell’alfa-sinucleina aumentano la tendenza di questa proteina ad acquisire una conformazione anomala e formare aggregati proteici dannosi per le cellule dopaminergiche, e portano alla malattia di Parkinson. Le cellule normalmente possiedono efficienti meccanismi di difesa per contrastare la formazione di aggregati proteici. Il più importante è il sistema ubiquitina-proteosoma, un complesso sistema specializzato nel riconoscere e degradare le proteine anomale. La proteina parkina gioca un ruolo importante nella via ubiquitina-proteosoma. Mutazioni nel gene che codifica per questa proteina comportano un alterato funzionamento di questo sistema di difesa nelle cellule dopaminergiche cerebrali, e quindi malattia di Parkinson. La comprensione dei meccanismi patogenetici cellulari alla base della malattia di Parkinson è fondamentale per poter individuare nuovi approcci terapeutici e neuroprotettivi mirati, ad esempio per ridurre lo stress ossidativo o la formazione di aggregati proteici.

SINDROME DI DOWN

Sinonimi: Trisomia 21

Nome Inglese: Down Syndrome (DS); Trisomy 21

Frequenza: 1/700 nati vivi

Che cos'è la sindrome di Down: La Sindrome di Down (SD) è la più frequente causa di ritardo mentale. Nota fin dal XVI° secolo ha avuto il suo inquadramento nosologico solo nel 1866 ad opera di John Longdong Down, l’illustre medico inglese da cui prende il nome, che ha dedicato tutta la sua vita allo studio e alla cura dei bambini con anomalie psichiche, e che per primo ha descritto le caratteristiche di un gruppo di bambini con ritardo mentale e tratti orientaleggianti del viso, definendoli come affetti da “idiozia mongoloide”. Nel 1959 J.Lejeune e al. hanno dimostrato che la SD dipende dalla presenza di un cromosoma in più nella coppia 21, e da allora viene anche definita “Trisomia 21”. Data la casualità della sua comparsa è una anomalia cromosomica congenita non ereditaria, ed è anche la più nota e diffusa, perché la lunga sopravvivenza delle persone che ne sono portatrici ha determinato nella società la consapevolezza della sua presenza.

Come si manifesta: Alla nascita, le caratteristiche fisionomiche dei bambini con SD alla nascita sono principalmente le seguenti: Viso rotondo con sella nasale larga e appiattitaOcchi con taglio delle palpebre di tipo orientalePiega cutanea all’angolo interno degli occhi (epicanto)Orecchie piccoleCollo tozzo con plica nucale abbondante e lassa Mignoli inclinati verso l’interno della mano (bradiclinodattilia)Solco palmare unico in entrambe le maniMarcata ipotonia muscolare Articolazioni molto flessibili per l’eccessiva lassità dei legamenti

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Ovviamente non è evidente alla nascita il ritardo mentale, che è ben noto a tutti come intrinseco ai trisomici 21 e che rappresenta la caratteristica che più preoccupa in questa sindrome. Poiché questi tratti fisionomici possono essere presenti, in modo più o meno evidente, anche in neonati non trisomici, la diagnosi di certezza di SD si ottiene solo dallo studio del cariotipo, che si evidenzia eseguendo la mappa cromosomica. L’indagine, indicata anche con il termine di analisi citogenetica, è la sola che autorizza la diagnosi di Trisomia 21. Consiste nell'analizzare e fotografare al microscopio, con particolari tecniche, i cromosomi di alcune cellule del sangue (in genere linfociti), prelevate dal bambino e bloccate in mitosi, e rende possibile il riscontro di una trisomia primaria o da traslocazione. Pertanto deve essere eseguita subito alla nascita ogni volta che si avanza il sospetto di Trisomia 21 su base clinica, al fine di avere una certezza diagnostica incontrovertibile. Le persone con SD non vanno a priori considerate delle persone malate, tuttavia alcune patologie si possono manifestare con maggior frequenza rispetto a coloro che non hanno la SD. La tabella di Allen Crocker qui riportata, evidenzia le situazioni che meritano maggior attenzione. Un tempo, le persone affette da SD avevano una prospettiva di vita molto inferiore, in qualità e durata, rispetto alla media della popolazione, e la mortalità prima dell’adolescenza era la regola, mentre la sopravvivenza in età adulta una eccezione. Oggi la situazione è notevolmente migliorata: gli interventi per correggere i difetti cardiaci congeniti, il trattamento delle infezioni e in generale le cure migliori che oggi sono disponibili, permettono alle persone Down di vivere sempre più a lungo, anche se l'aspettativa di vita è ancora statisticamente di 10-15 anni inferiore alla media. Oggi la vita media delle persone con SD è di 45-46 anni, con una sopravvivenza del 13% nella fascia di età fra i 45 e i 65 anni. Si calcola che in Italia vi siano 48.000 persone con SD, di cui circa 10.500 nella fascia di età fra 0-14 anni, 32.000 fra i 15-44 e 5000 oltre i 44 anni. Il dato che emerge da queste cifre è l’odierna superiorità numerica delle persone adulte rispetto ai bambini, e la necessità che ne consegue è quella del loro inserimento nella società. Non siamo quindi più di fronte solo a piccoli bambini diversi ma felici, con una prospettiva di vita relativamente breve, ma sempre di più il maggior numero dei trisomici 21 è proiettato verso la vita adulta con tutto ciò che questo implica. E’importante quindi che le persone Down, siano correttamente seguite fin dai primi mesi di vita, perché possano sviluppare al meglio le loro capacità, essere autonome, lavorare ed avere un vita di relazione soddisfacente. Nonostante il deficit cognitivo e i problemi che ne conseguono, i bambini che nascono oggi con SD hanno davanti a loro la possibilità di un'esistenza serena anche da adulti.

Le cause: Per comprendere le cause che determinano la sindrome di Down è necessario innanzitutto sapere come si dividono le cellule del nostro organismo. In generale, tutte le cellule si moltiplicano per mitosi e danno origine a cellule con lo stesso patrimonio cromosomico diploide (2n), cioè duplice. In questo processo due cromosomi omologhi, cioè portatori dei geni che controllano gli stessi caratteri, si accoppiano e si duplicano nella stessa cellula, poi la membrana nucleare scompare, i cromosomi si separano e vanno a collocarsi in due cellule distinte determinando la formazione di cellule identiche alla cellula madre originaria. Ricordiamo che l’uomo nel nucleo delle sue cellule ha un patrimonio genetico diploide, costituito da 46 cromosomi, 44 autosomici + 2 eterocromosomi (XX nella femmina e XY nel maschio). Nell’uomo pertanto vi sono 23 coppie di cromosomi omologhi. Metà del patrimonio genetico proviene dalla cellula germinale paterna (spermatozoo) e l’altra metà dalla cellula germinale materna (ovocito). La cellula della linea germinale maschile (spermatogonio) e quella femminile (ovogonio) giungono invece a maturazione mediante la meiosi dando origine a spermatozoi e ovociti che hanno un patrimonio genetico dimezzato, aploide (n) a differenze di tutte le altre cellule dell’organismo. Durante la prima divisione meiotica, si ha l’accoppiamento dei cromosomi omologhi, lo scambio di materiale genetico fra i due cromosomi (crossing-over) e la disgiunzione dei due cromosomi omologhi che vanno a collocarsi in cellule distinte. Con la seconda divisione meiotica, che in pratica è una mitosi, il processo di maturazione si completa. La meiosi è il meccanismo attraverso il quale viene assicurata la variabilità genetica. Al momento del concepimento, con la fusione delle

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cellule germinali maschile e femminile, si ripristina il numero usuale di 46 cromosomi, in una combinazione unica e irripetibile per ogni zigote, se non nei gemelli uniovulari. Nella meiosi i passaggi in cui si possono determinare errori biologici sono: l’appaiamento dei cromosomi omologhi, la ricombinazione, la disgiunzione, la segregazione. Facendo riferimento agli errori più rilevanti nell’eziologia delle varie trisomie, e della 21 in particolare, li possiamo identificare nella non-disgiunzione o mancata separazione e nell’alterata segregazione o mancata trasmissione di un intero cromosoma alla cellula in maturazione. Nella maggior parte dei casi è quindi durante la meiosi, che occasionalmente si verifica l’errore biologico che determina poi l’alterazione cromosomica. Più raramente gli errori si verificano dopo il concepimento, cioè nel normale processo di moltiplicazione cellulare che è la mitosi. La meiosi maschile avviene durante la spermatogenesi con ciclo continuo dalla pubertà all’età avanzata. Nella donna, invece, la prima divisione meiotica avviene nel corso della sua embriogenesi, mentre la seconda divisione meiotica si verifica molti anni dopo, al momento dell’ovulazione, quando la cellula germinale, che era stata per lungo tempo bloccata allo stadio di meiosi I, completa in poche ore la sua maturazione. E’ stato ben documentato che, nei casi di trisomia, tutto dipende da quanto avviene nel momento del crossing-over, cioè nella prima divisione meiotica, e i due momenti della meiosi sono collegati, anche se avvengono a distanza di diversi anni l’uno dall’altro. Sostanzialmente oggi si ritiene che i cromosomi siano in qualche modo predisposti alla non-disgiunzione se non riescono a effettuare una normale ricombinazione durante la prima divisione meiotica, e che questa loro fragilità diventa sempre più manifesta nella donna con l’avanzare dell’età. L’età sarebbe responsabile nel rendere meno efficaci sia i meccanismi che cercano di contrastare la non-disgiunzione dei cromatidi mal-ricombinati, sia le difese biologiche deputate a distruggere gli spermatozoi, le uova e gli zigoti anormali. Nei soggetti con corredo cromosomico normale, l’errore meiotico si ritiene comunque un evento occasionale e non ereditario, se non in casi eccezionali. La Sindrome di Down ha una prevalenza di circa 1 su 700-1000 gravidanze, e di 1:2000 nella popolazione generale e le sue cause,nel 92% dei casi, sono legate ad un fenomeno di non-disgiunzione, cioè mancata separazione dei cromosomi della coppia 21 durante la meiosi, per cui uno dei genitori nella sua cellula riproduttiva, uovo o spermatozoo, è portatore di due cromosomi 21 invece di uno. Di conseguenza la combinazione con l’uovo o lo spermatozoo normale determina la formazione di uno zigote con tre cromosomi 21, uno ereditato da un genitore e due dall’altro. Tale condizione, definita Trisomia 21 “libera” o “primaria”, si verifica spontaneamente e in modo imprevedibile, anche se è noto il dato statistico di una maggiore frequenza legata alla più elevata età materna, dopo il 36° anno di età. E’ ben documentato che nel 75% dei casi la trisomia origina nel corso della meiosi materna, mentre nel 25% l’errore avviene nella maturazione meiotica della cellula germinale paterna. Per chi ha già un figlio con SD le probabilità di avere un altro figlio Down, calcolate su base statistica, dipendono dalle cause della trisomia e dall'età materna e possono essere definite dal genetista in base al cariotipo del bambino con la sindrome. Ad esempio, nel caso di trisomia 21 libera completa, l’eventualità di ricorrenza è statisticamente pari al rischio legato all’età materna al momento del concepimento più un 1% aggiuntivo. Questo 1% in più si “diluisce” però nel rischio dell’età materna sopra i 30 anni e diventa irrilevante. Per cui una donna con più di 30 anni che ha avuto una precedente gravidanza con SD non ha un rischio aggiuntivo significativo di avere una nuova gravidanza con SD. Nel 4,8% dei casi la trisomia è la conseguenza di una traslocazione o trasferimento di un cromosoma 21 su un altro cromosoma, in genere il 14, ma anche il 13 e lo stesso 21, e si definisce Trisomia 21 “secondaria”. Un certo numero di persone è portatore inconsapevole, nel proprio patrimonio genetico, di una traslocazione. In questi individui il numero e la qualità dei cromosomi sono normali, e di conseguenza anche il loro assetto biologico, fisico e psichico, che nel complesso definiamo fenotipo è del tutto normale. Questo tipo di traslocazione si definisce “bilanciata” o Robertsoniana. In questo caso, anche se non sempre, durante la meiosi l’individuo con traslocazione può produrre cellule germinali con due cromosomi 21. Di conseguenza l’unione di questo gamete anormale con uno normale determina la formazione di uno zigote con Trisomia 21. In questa circostanza, per l’elevato rischio di ricorrenza in successive

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gravidanze, lo studio del cariotipo dei genitori e la consulenza genetica sono di fondamentale importanza. Nel 3% dei casi, per una non-disgiunzione verificatasi solo in alcune delle cellule derivate dallo zigote nella prima o nelle successive divisioni o, per la perdita dell’extracromosoma 21, cioè del cromosoma in eccesso, nella prima o nelle successive divisioni di uno zigote trisomico, si possono avere nello stesso individuo cellule a 46 cromosomi e cellule a 47 cromosomi, in proporzione diversa a seconda del momento in cui è intervenuto l’evento sopra indicato. In questo caso si parla di mosaicismo. Dal punto di vista clinico, poichè in pratica possiamo esaminare solo cellule del sangue e del tessuto connettivo, e poco sappiamo dell’interazione dei geni fra loro e quindi sulla loro espressività, è difficile fare previsioni sulla minore o maggiore importanza delle manifestazioni cliniche che ne conseguono rispetto alla Trisomia “libera”, in cui le cellule sono trisomiche nella loro totalità. Solo nello 0,2% dei casi si riscontrano trisomie parziali. E’ questa una circostanza che consegue a situazioni molto particolari, sia familiari che di nuova insorgenza, in cui la parte cromosomica in eccesso è solo una frazione del cromosoma 21 (DCR1), tuttavia in grado di determinare le alterazioni caratteristiche della SD. Dal “Progetto genoma”, iniziato 15 anni fa, grazie al lavoro di numerosi gruppi di ricerca, sono stati identificati 86 geni localizzati sul cromosoma 21, la maggioranza dei quali è stata ormai mappata. Inoltre con uno studio dettagliato della regione q22, che è il tratto terminale del braccio lungo del cromosoma 21, si è potuto stabilire che alcune zone sono correlate a specifiche manifestazioni cliniche della SD. In questa regione critica si trova ad es. la spiegazione della cardiopatia congenita e della stenosi duodenale, e anche delle principali caratteristiche fisiche della SD, quali tratti del volto, statura, ipotonia, alterazioni delle mani. Tuttavia non tutti i bambini con SD presentano cardiopatia congenita o l’ancora meno frequente stenosi duodenale e, malgrado i progressi conseguiti nelle conoscenze, molti aspetti patogenetici sono tuttora oscuri. A spiegazione di questo fatto si sostiene oggi l’ipotesi che sia l’intero patrimonio genetico a costituire il fattore principale delle diverse manifestazioni individuali. In questi ultimi anni sono comparsi nella letteratura scientifica importanti contributi relativi alla conoscenza e all’espressione dei geni localizzati sul cromosoma 21. Vi è l’evidenza che la trisomia e gli altri caratteri genetici familiari si influenzano reciprocamente, per cui si hanno profonde differenze individuali nelle caratteristiche psichiche, biologiche e fisiche dell’individuo, anche se fondamentalmente il responsabile primo della SD è l’extracromosoma 21. In altre parole, finora si è dato molto peso alla presenza in eccesso di questo cromosoma in sé, mentre oggi si ritiene più probabile che i geni in triplice presenza abbiano un effetto integrato sull’intero genoma e che, con la loro espressione, condizionino il funzionamento di moltissimi altri geni, attivandoli o inibendoli a seconda della costituzione genetica individuale. Sarebbe questa la base teorica che permetterebbe di comprendere la diversità individuale e la non prevedibilità a priori degli effetti dell’extracromosoma 21, sia per quanto riguarda l’aspetto fenotipico in senso lato, sia per quanto riguarda il manifestarsi o meno delle varie situazioni patologiche.

La diagnosi: La SD si può diagnosticare in gravidanza con certezza con metodi quali la villocentesi e l’amniocentesi (diagnosi prenatale), oppure con esami non invasivi del sangue ed ecografici combinati, ma con un certo margine di errore. Tuttavia, la SD non si può prevenire in quanto non sono note le modalità con cui si forma lo zigote e non siamo in grado oggi determinare la formazione di zigoti senza difetti o di favorire l’eliminazione spontanea di quelli che ne sono portatori, come già in gran parte avviene naturalmente. Infatti i neonati con anomalie cromosomiche che vedono la luce sono la punta di un iceberg, in quanto la grande maggioranza va incontro ad abortività spontanea.

Esiste una terapia: Attualmente, non esiste alcun trattamento in grado di risolvere radicalmente la SD. I due fattori che permettono di ottenere uno sviluppo armonico e un buon inserimento

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scolastico, sociale e lavorativo sono i regolari controlli medici ormai codificati, sia per i bambini che per gli adulti con SD e la terapia riabilitativa fisica e mentale. La terapia riabilitativa deve essere iniziata fin dai primi mesi di vita e può dare risultati estremamente positivi. I primi tre anni, infatti, sono molto significativi per quanto concerne la successiva organizzazione delle abilità cognitive e di socializzazione delle persone Down, come dimostrato da risultati, statisticamente significativi. Le capacità cognitive, anche degli individui meno dotati, sono modificabili in ogni condizione di vita e Feurestein lo ha dimostrato applicando il suo metodo che si basa appunto sulla teoria della modificabilità cognitiva strutturale.. Infatti è dimostrato che il bambino con SD, purché non trascurato, ma incoraggiato, stimolato e guidato con affetto, sensibilità e comprensione, con la mediazione di genitori ed educatori, è in grado di incrementare significativamente le sue capacità intellettive. Sempre in primo piano vi deve essere la vigilanza del sistema neurosensoriale. In particolare vista e udito esigono un controllo costante. Infatti, i difetti neurosensoriali possono essere interpretati come decadimento delle capacità intellettive e cognitive, così come un decadimento di queste facoltà può essere misconosciuto e ritenuto solo un difetto di vista o di udito. Sono queste le situazioni che vanno ricercate e corrette perché per comportamenti analoghi, le cause ed i possibili interventi sono diversi. La correzione di un difetto di vista o di udito può infatti permettere alla persona che ne è affetta, di tornare ad inserirsi rapidamente nel suo ambiente sociale, il deterioramento delle capacità cognitive con organi sensoriali integri, richiederà invece strategie diverse e più complesse.

SINDROME DI KLINEFELTER

Nome Inglese: Klinefelter syndrome.

Frequenza: 1 su 1000 neonati maschi.

Che cos'è la sindrome di Klinefelter: La sindrome di Klinefelter appartiene al gruppo delle anomalie cromosomiche patologie determinate da alterazioni del numero o della struttura dei cromosomi.Si stima che la sindrome di Klinefelter presenti una frequenza alla nascita di 1 su 1000 neonati maschi.

Come si manifesta: Caratteristiche generali sono: ipogonadismo (testicoli di dimensioni ridotte), bassi livelli di testosterone, mancata produzione di spermatozoi (azoospermia) e quindi sterilità; possono essere presenti una sproporzione tra lunghezza degli arti e lunghezza del tronco e statura superiore alla media. Spesso la diagnosi viene posta solo in età adulta, nel corso di analisi eseguite per infertilità di coppia: è stato evidenziato che il 10% dei maschi azoospermici (con liquido seminale privo di spermatozoi) presenta sindrome di Klinefelter.

Le cause: I soggetti affetti da questa sindrome hanno 47 cromosomi, con un cromosoma X sovrannumerario (cariotipo 47, XXY). La sindrome di Klinefelter può presentarsi anche in mosaico: in questo caso i pazienti presentano sia cellule con cariotipo 46, XY sia cellule con cariotipo 47, XXY; in questi pazienti le caratteristiche cliniche della sindrome sono attenuate.

La diagnosi: La diagnosi oltre che sulle caratteristiche cliniche della sindrome si basa anche sull’analisi dei cromosomi, che permette di evidenziare l’alterazione del numero dei cromosomi (v. anomalie cromosomiche), confermando così la diagnosi. L’esame del liquido amniotico, dei villi

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coriali e del sangue fetale permettono di analizzare i cromosomi del feto e quindi di evidenziare la presenza di eventuali anomalie cromosomiche, compresa la sindrome di Klinefelter .

SINDROME DI TURNER

Nome Inglese: Turner’s syndrome.

Frequenza: 1 neonato femmina su 4000 - 1 su 8000.

Che cos'è la sindrome di Turner: La sindrome di Turner appartiene al gruppo delle anomalie cromosomiche, patologie determinate da alterazioni del numero o della struttura dei cromosomi.Si stima che la sindrome di Turner presenti una frequenza alla nascita di circa 1 neonato femmina su 4000 - 1 su 8000.

Come si manifesta: Caratteristiche principali della sindrome di Turner sono: linfedema periferico (mani e piedi gonfi a causa di stasi linfatica), pterigio del collo (collo corto “a tenda”), bassa statura, amenorrea primaria (mancata comparsa delle mestruazioni). Talvolta sono presenti anche cardiopatia, ipertensione e anomalie renali. Sia l’intelligenza sia l’attesa di vita sono normali.

Le cause: Nella maggior parte dei casi (circa il 50%) la s. di Turner è causata dalla mancanza di un cromosoma X ("monosomia X"); il cariotipo è quindi indicato con la formula 45, XO. Circa il 25% circa dei casi è determinato da alterazioni nella struttura di un cromosoma X. Più raramente la patologia è causata da alterazioni di numero o di struttura del cromosoma X presenti in mosaico (cioè non in tutte le cellule dell'organismo ma solo in alcune di queste); in questi casi si riscontra un’attenuazione delle caratteristiche cliniche della sindrome.

La diagnosi: In alcuni casi la sindrome di Turner è evidente già alla nascita. Le principali caratteristiche neonatali sono: peso e lunghezza ridotti, linfedema delle mani e dei piedi, presenza di pliche della cute sulla nuca. In alcune pazienti la sindrome di Turner non comporta particolari alterazioni e viene diagnosticata solo alla pubertà a causa di amenorrea primaria (mancata comparsa delle mestruazioni) e bassa statura. In tutti i casi, la diagnosi oltre che sulle manifestazioni cliniche si basa anche sull’analisi dei cromosomi, che permette di evidenziare sia anomalie di numero sia anomalie di struttura (v. anomalie cromosomiche). L’esame del liquido amniotico, dei villi coriali e del sangue fetale permettono di analizzare i cromosomi del feto e quindi di evidenziare la presenza di eventuali anomalie cromosomiche, compresa la sindrome di Turner.

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