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Faculteit Letteren & Wijsbegeerte Gaelle Braeckman Autorialità nel cinema e nella letteratura Un quarantennio di riflessioni (1930-1970) Masterproef voorgelegd tot het behalen van de graad van Master in de taal- en letterkunde Nederlands - Italiaans Academiejaar 2012-2013 Promotor Prof. dr. Sabine Verhulst

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Faculteit Letteren & Wijsbegeerte

Gaelle Braeckman

Autorialità nel cinema e nella letteratura

Un quarantennio di riflessioni (1930-1970)

Masterproef voorgelegd tot het behalen van de graad van Master in de taal- en letterkunde

Nederlands - Italiaans

Academiejaar 2012-2013

Promotor Prof. dr. Sabine Verhulst

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Faculteit Letteren & Wijsbegeerte

Gaelle Braeckman

Autorialità nel cinema e nella letteratura

Un quarantennio di riflessioni (1930-1970)

Masterproef voorgelegd tot het behalen van de graad van Master in de taal- en letterkunde

Nederlands - Italiaans

Academiejaar 2012-2013

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Ringraziamenti

In primo luogo vorrei rivolgere i miei ringraziamenti alla professoressa Sabine Verhulst che già nel

primo anno del Bachelor, durante i corsi di cultura italiana, ci ha introdotto il cinema italiano, con i

suoi capolavori e i suoi attori prominenti. Per di più ci ha sempre motivato ad allargare la

prospettiva critica, grazie ai suoi numerosi suggerimenti di lettura, presentando così non solo

differenti modi di approfondire i concetti spiegati durante le lezioni, ma anche offrendo un più

ampio contesto filosofico e culturale cui riferirli. In particolare la ringrazio per tutti i consigli, i

suggerimenti, le correzioni e tutto il tempo che ha dedicata sia alla mia tesina di bachelor, sia alla

mia tesi di laurea.

Anche la dottoressa Rossella Bonfatti è stata un aiuto indispensabile. Mi sono sempre meravigliata

della tempestività e della diligenza con cui ha preso in esame le pagine di questa tesi, nonostante

che – o meglio: specie perché – sia solo entrata nella collaborazione a giugno, e ha dovuto

familiarizzare con l’impostazione della mia tesi in un arco di tempo molto breve. La chiarezza del

contenuto, la correttezza dei riferimenti bibliografici e l’appropriatezza del registro scientifico sono

piani specifici su cui i suoi suggerimenti sono stati particolarmente utili.

Questa tesi è nata da un vivo interesse per la lingua e la cultura italiana, che senza dubbio è sorto e

stimolato dai numerosi viaggio in quel paese fatti con mia famiglia. Vorrei ringraziare i miei

genitori, ma non solo per quella ragione: non potrei fare a meno di menzionare il loro appoggio

durante tutto l’anno accademico e specie durante i periodi d’esame, nonché l’opportunità che mi

hanno dato di andare in Erasmus e di vivere e studiare a Bologna. Tutti gli amici che mi hanno

accompagnato durante quell’esperienza, ma anche i professori dell’Alma Mater Studiorum – in

particolare i professori Gino Ruozzi, Guglielmo Pescatore e Cristina Bragaglia – sono stati influenze

indispensabili per il mio percorso di studio.

Infine vorrei ancora ricordare Salvatore Bono, per le correzioni finali, ed alcune persone: Koen

Demeulemeester, Geoffrey Braeckman, i colleghi del Festival, i coinquilini, i compagni di scuola e i

migliori amici. Visto che purtroppo non tutti siete in grado di leggere questa tesi in italiano, posso

almeno rivolgere questa parola finale a voi: grazie!

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Indice

Parte 1 Autorialità nel cinema.................................................................................................................... 3

Capitolo 1 Il processo di creazione: alcune precisazioni terminologiche ..................................3 1.1 Il soggetto ...................................................................................................................................... 4 1.2 Scalette, sinossi e trattamento ..................................................................................................... 5 1.3 La sceneggiatura............................................................................................................................ 5

Capitolo 2 L’evoluzione storica della paternità .........................................................................8 2.1 Il soggettista .................................................................................................................................. 8 2.2 Lo sceneggiatore ......................................................................................................................... 10

2.2.1 Prima del neorealismo .................................................................................................. 12 2.2.2 Durante il neorealismo .................................................................................................. 15 2.2.3 Dopo il neorealismo ....................................................................................................... 21

2.3 Il regista ....................................................................................................................................... 23 2.4 Il produttore ................................................................................................................................ 26 2.5 Gli attori ....................................................................................................................................... 27

Parte 2 L’autore-cineasta a confronto con l’autore- scrittore ............................................................... 29

Capitolo 1 L’autorialità nel cinema e nella letteratura: un confronto legittimo? .................... 30 1.1. L’adattamento cinematografico ................................................................................................. 32 1.2. Due estremi teorici ...................................................................................................................... 35

1.2.1. L’autonomia del discorso cinematografico ................................................................. 36 1.2.2. L’unità delle arti ............................................................................................................. 38

Capitolo 2 Il creatore dell’opera letteraria.............................................................................. 42 2.1. L’intenzione autoriale ................................................................................................................. 42 2.2. La morte dell’autore? .................................................................................................................. 45

Capitolo 3 I letterati prestati al cinema .................................................................................. 48 3.1 Pier Paolo Pasolini ....................................................................................................................... 49 3.2 Alberto Moravia .......................................................................................................................... 51

Conclusioni 53

Bibliografia 54

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Introduzione

Agere, augere, auieo e autentim. Queste parole sono i quattro lessemi latini e greci proposti per la

derivazione etimologica della parola “autore”1. Il verbo agere è legato a un atto o un’occupazione,

mentre il significato di augere è “crescere”. Auieo poi appartiene all’ambito della poesia e la

traduzione “legare” fa riferimento alla struttura metrica dei poemi classici. Infine dal sostantivo

autentim si può dedurra il significato “autorità”. Solo quest’ultima parola contiene la connotazione

artistica e autorevole che oggi viene associata spontaneamente alla nozione di autore. Perciò ora si

pone una domanda: qual è la definzione dell’autore? Oppure: esiste una definizione di questo

concetto, utilizzabile diacronicamente? Nella presente tesi distinguiamo diverse caratteristiche

attribuibili a questo ruolo, confrontandoli fra di loro, ma anche ponendoli in un periodo storico – o

paradigma teorico – specifico.

Se si vuole poi allargare la prospettiva e studiare come il concetto viene utilizzato in due ambiti

mediatici, il quadro si complica ulteriormente. Oggi il rapporto tra cinema e letteratura è

caratterizzato da una continua interazione tra le due arti, sia al livello contenutistico sia al livello

stilistico, ma anche da una circolazione di scrittori e di cineasti. Gli studi sull’influsso della

letteratura sul cinema e anche, negli ultimi decenni, sulla direzione opposta e sulla bidirezionalità di

questa influenza, sono numerosi; il che porta al riconoscimento universale della dinamicità di

questo rapporto. Nel frattempo la multimedialità della nostra società stimola gli autori e la critica a

sempre esplorare e oltrepassare i confini tra i diversi media.

Questo cambiamento culturale dà luogo allo sviluppo di teorie come quelle dell’intermedialità, che

trovano infatti tutte le loro radici nelle prime elaborazioni di Bachtin, Kristeva e altri del concetto

d’intertestualità. La lunga tradizione dei richiami e dei legami intertestuali ci ha portato alla

domanda se i paralleli tra letteratura e cinematografia siano anche estensibili all’autorialità. Il

contesto di creazione di un film è di natura collettiva e perciò fondamentalmente diverso dalla

produzione letteraria, ma l’importanza dell’autore non è limitata al contesto produttivo: l’autore

può anche essere presente nel testo (o invece no?) e può persino determinare la ricezione dell’opera

dalla critica o dal pubblico (o si dovrebbe invece limitare l’impatto dell’intenzione autoriale?).

Nella presente tesi facciamo in primo luogo emergere tali domande, e facciamo riferimento ad

un’ampia bibliografia per formulare delle risposte, sempre tenendo conto dall’evoluzione storica

1 Séan Burke, Authorship. From Plato to the Post modern. A reader, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1995

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delle nozioni e dei paradigmi teorici. Al fine di ottenere un insieme coerente, abbiamo delimitato un

periodo di quaranta anni, dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, che costituisce il

quadro di riferimento per questa tesi, perché durante quegli anni si situano i grandi cambiamenti sia

del cinema italiano, sia della teoria letteraria internazionale. Non a caso la corrente neorealista

cinematografica italiana si trova al centro del periodo fissato: questa scelta ci permette di analizzare

gli sviluppi anteriori al neorealismo nonché i cambiamenti conseguenti a questo movimento così

influente. A questo proposito Lino Miccichè afferma che “per contastro o per distacco è sul

neorealismo che si fonda la realtà attuale della nostra cinematografia”2.

Nella prima parte forniamo un percorso storico delle diverse interpretazioni e valorizzazioni del

concetto di “autore cinematografico”. Dato che la creazione cinematografica è da natura un lavoro

d’équipe, il fulcro della questione esposta in questi paragrafi è la legittimità dell’assegnazione del

ruolo di autore ai diversi ruoli – simultaneamente o non.

La seconda parte comincia con delle osservazioni sul rapporto bidirezionale tra cinema e letteratura

in generale, per poter poi inserirne le riflessioni teoriche e poeticali dei letterati. Questo quadro

permette di interpretare ciò che segue in modo più analitico, grazie a un confronto e una

valutazione dei diversi approcci allo studio di opere cinematografiche e letterarie.

L’obiettivo della ricerca è dunque di analizzare i paralleli e le differenze tra l’autorialità nel cinema e

letteratura, dopo aver esplorato i significati connessi a questa nozione nei due ambiti

indipendentemente. L’innovazione della prospettiva di questa tesi consiste pertanto nella

combinazione di, d’un canto, uno studio sull’autorialità, e d’altro canto una prospettiva

intermediale. Questo punto di vista comparativo si concretizza nel paragrafo sull’adattamento

(parte 2, 1.1.) e nel capitolo sui letterati che si sono prestati al cinema: la riflessione di Pasolini e di

Moravia contiene allo stesso tempo delle osservazioni critiche e generali nonché poeticali e

personali, mentre fornisce contemporaneamente una sintesi delle teorie sull’autorialità nel cinema

e nella letteratura, finora esposti prevalentemente separatamente.

2 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, Archetipo Libri, 2010, p. 1.

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Parte 1 Autorialità nel cinema

Se vogliamo trattare dell’autore di un’opera cinematografica, occorre innanzitutto stabilire a quale

persona o a quali persone si fa riferimento con questa nozione. Già l’esistenza stessa della

definizione di ‘cinema d’autore’ (cfr. infra) ci informa che la presenza di un “marchio d’autore” non è

una caratteristica intrinseca di qualsiasi film. Nel primo capitolo approfondiamo i termini legati alle

diverse tappe nella creazione di un film (dal soggetto alla scaletta, dalla sinossi al trattamento, per

arrivare infine ai vari tipi di sceneggiatura). Il secondo capitolo verte sulla storia del concetto di

paternità artistica: viene fornito un percorso storico relativo alla funzione del soggetto, dello

sceneggiatore, del regista, e, infine, del produttore e dell’attore. Lo scopo precipuo della prima parte

della tesi è di studiare il grado in cui i differenti ruoli e professioni sono adatti a tutelare un certo

diritto d’autore, e come la rilevanza dell’applicazione della paternità evolva diacronicamente. Alla

luce di questa visione complessiva ci si è focalizzati, in particolare, sul neorealismo, sui suoi presagi

e sul suo impatto, ponendolo a confronto con il contesto cinematografico in trasformazione degli

anni 1930-1970.

Capitolo 1 Il processo di creazione: alcune precisazioni terminologiche

Ogni pellicola è frutto di un lavoro collettivo, a causa dei diversi passaggi necessari per realizzare un

film: dal livello scritto a quello orale. La natura collettiva del prodotto cinematografico rappresenta

pertanto la più grande differenza rispetto alla creazione letteraria (cfr. infra). Partendo da questa

premessa, cominciamo questo primo capitolo con una descrizione delle diverse fasi che

appartengono al processo di realizzazione di un film, richiamando di volta in volta le professioni e i

termini tecnici correlati.

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1.1 Il soggetto

Il punto di partenza è il soggetto, ossia il riassunto o la riduzione del film, la trama, che spesso è

tratto da un’opera letteraria12. Come evidenziano molti studi, fra cui, tra gli altri, Brandi (2007),

Guagnelini & Re (2007) e Rossi (2007), il rapporto tra letteratura e cinema è sempre stato stretto.

Studi di questo genere dimostrano che dopo una fase iniziale, durante la quale la narrativa

(prevalentemente ottocentesca) forniva la materia prima per il nuovo medium, tuttavia il rapporto

tra cinema e letteratura ha subito mutamenti, diventando sempre più bidirezionale.

Giacomo Manzoli afferma che alla base della relazione tra un film e un romanzo si trovano due

premesse fondamentali: da un lato si riscontrano delle componenti comuni, dall’altro lato alcuni

elementi sono funzionali soltanto ad un solo medium, pur appartenendo realmente all’ambito

dell’altro3. Di conseguenza lo studioso enumera la storia, i personaggi, i dialoghi e le didascalie, i

cartelli o i sottotitoli come fattori comuni sia alla letteratura sia alla cinematografia. L’ultimo caso

dimostra persino la presenza simultanea della scrittura e delle immagini: una porzione di testo

all’interno di un’inquadratura, che fa convivere le due dimensioni – ma che può anche dare adito a

una specie di contesa a causa delle esigenze di leggibilità e sincronizzazione temporale che devono

essere comunque soddisfatte.

Una sceneggiatura tratta da un libro viene chiamata adattamento: si tratta di un concetto che a sua

volta racchiude, secondo Manzoli, tre approcci (film ‘liberamente ispirati’, film ‘tratti da’ e film con

l’obiettivo utopico della fedeltà assoluta)4, e secondo Rossi quattro modalità (mimesi, riduzione-

adattamento, radicale trasformazione e parodia)5. Su questi concetti ritorneremo nella parte

seconda, richiamando insieme due estremi teorici: l’autonomia rispetto all’unità delle arti.

Il ruolo del soggetto è stato determinante soprattutto per l’evoluzione storica del concetto di

autorialità, grazie alla pubblicazione di soggetti cinematografici da parte dalla Cines durante gli anni

Trenta, ma entreremo nel merito della questione nella sezione 2.16.

1 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci, 2003. 2 Cristina Bragaglia & Enrico Marchese, Alfabeti: il cinema, Bari, Laterza, 1999. 3 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit. 4 Ibidem. 5 Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, cit. 6 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, in: Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, Torino, Lindau, 2006, pp. 71-108.

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1.2 Scalette, sinossi e trattamento

Prima di procedere all’elaborazione della sceneggiatura, si potrebbe ancora individuare la sinossi, la

scaletta e il trattamento. La sinossi è una nozione piuttosto vaga, visto che può manifestarsi in forme

e dimensioni varie. Stando a Giacomo Manzoli la sinossi è l’“esposizione sintetica e sistematica della

trama del film realizzato”7 per cui, stando a questa definizione, la si può intendere come un

equivalente del soggetto, ma compiuto posteriormente.

Lo stesso studioso fornisce anche la seguente definizione del termine ‘trattamento’: “il copione

cinematografico che rappresenta la fase precedente alla sceneggiatura”8. Se prendiamo in esame

questo significato, possiamo dedurne che il trattamento, o treatment, contiene le battute degli attori,

ma non ancora le indicazioni più tecniche, che invece faranno parte della sceneggiatura. Fabio Rossi

descrive il trattamento come un primo raffinamento del soggetto, suddiviso in blocchi narrativi o,

sinteticamente, in scene, con l’aggiunta di battute e di informazioni sull’ambiente. Alla base del

trattamento si trova di solito una scaletta preparatoria9.

Millicent Marcus opera la stessa distinzione tra trattamento e sceneggiatura, specificando che

quest’ultima è arricchita della descrizione dei gesti, della scena e dei movimenti della macchina da

presa10. Il trattamento differisce inoltre dalla tappa posteriore per la sua forma: è scritto in forma

prosaica, mentre la sceneggiatura si posiziona più a destra nel continuum tra testi letterari e testi

visivi, come rilevato anche da Rossi. Più precisamente, secondo Massimo Moscati, lo stato d’animo

dei personaggi è oggettivato nel trattamento, mentre nella sceneggiatura occorre che sia visto,

anziché essere semplicemente descritto11.

1.3 La sceneggiatura

Come è stato riferito sopra, il trattamento precede la sceneggiatura, la quale costituisce la versione

scritta finale del film e il testo di riferimento per le riprese. La sceneggiatura comprende di norma le

battute dei personaggi, la suddivisione della trama in scene (ossia in unità più articolate rispetto ai

7 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit., pp. 64-65. 8 Ivi, p. 64. 9 Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, cit. 10 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, Baltimore/London, Johns Hopkins University Press, 1993, p. 23. 11 Massimo Moscati, Manuale di sceneggiatura, Milano, Mondadori, 1989, pp. 38-39.

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blocchi narrativi del trattamento), le notizie concernenti l’ambiente e spesso anche indicazioni

relative ai movimenti della macchina da presa, consistendo insomma di cenni di scenografia e di

regia1213. Stando a Mariapia Comand si tratta, per definizione, di un oggetto dinamico14.

Analogamente Giorgio Tinazzi qualifica la sceneggiatura come “zona di mezzo”, accennando al

saggio La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura” (1972)15 di Pier Paolo Pasolini (cfr.

infra), e citando lo “stato transitorio”16 con cui Ennio Flaiano circoscrive la condizione intermedia

della professione particolare di sceneggiatore.

Bragaglia e Marchese specificano ancora che la sceneggiatura come scrittura filmica completa va

distinta dalla sceneggiatura tecnica, visto che quest’ultima contiene notazioni tecniche più precise,

come per esempio i campi e i piani, le indicazioni di illuminazione, eccetera.17 Secondo Giuliana

Muscio il termine “sceneggiatura di ferro” di Pudovkin, giunto in Italia grazie alla traduzione di

Umberto Barbaro, equivale proprio al concetto della sceneggiatura tecnica18. Tuttavia il retroterra

pudovkiano attesta che la nozione di ‘sceneggiatura di ferro’ ha un significato più specifico, ovvero

che il termine non funziona solamente come specificazione terminologica, ma assume un valore di

poetica, sul quale torneremo nella sezione 2.1.

Nel 1926 sul quotidiano fascista “Il Tevere” appare la seguente descrizione, nel contesto di un

concorso per la realizzazione di un film: “La sceneggiatura è […] il film completamente e

perfettamente realizzato, prima che sulla pellicola, sulla carta, in tutti i suoi particolari più minuti e

accidentali”19. Sul set, mentre si gira, o anche dopo, durante il montaggio, il film subisce comunque

inevitabilmente ancora delle modifiche rispetto al piano redatto precedentemente. Perciò esiste

anche una sceneggiatura desunta, ossia la trascrizione o découpage: una versione che corrisponde

diligentemente all’opera cinematografica poiché è la trascrizione del film finito20. Rossi sottolinea

12 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit. 13 Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, cit. 14 Mariapia Comand, Carta canta, Introduzione a Eadem (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, Torino, Lindau, 2006. 15 Pier Paolo Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972. Anche consultabile online: http://www.uniurb.it/lingue/matdid/martelli/2011-12/Laboratorio_testi/Pa_sulla_sceneggiatura.pdf (ultima verifica 6-08-2013). 16 Ennio Flaiano, Lo sceneggiatore uno che ha tempo, “Cinema nuovo”, n. 37, 15 giugno 1954, senza pagina. 17 Cristina Bragaglia e Enrico Marchese, Alfabeti: il cinema, cit. 18 Giuliana Muscio, Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, in Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit. 19 Il grande concorso del “Tevere” per un film italiano, “Il Tevere”, 22 luglio 1926, p. 3. Citato in Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, cit., p. 83. 20 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit.

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l’importanza di questa versione (tra)scritta per i critici cinematografici, giacché è “l’unico testo

trascritto veramente completo e attendibile” e pertanto l’unico testo adatto all’analisi di un film21.

Renato May infine vede il termine “sceneggiatura” come un termine complesso, che ingloba tre

differenti tipologie. L’ultima, la sceneggiatura “da film montato”, corrisponde alla sceneggiatura

desunta, mentre le altre due tipologie sono, in ordine cronologico, la sceneggiatura “da ripresa”, in

cui vengono proposte le inquadrature in modo strutturato, e la sceneggiatura “per il doppiato”, che

racchiude anche i dialoghi22.

In conclusione riferiamo che i termini appena proposti sono molto diffusi in manuali e in

monografie, ma che i loro confini semantici e la loro collocazione nelle tre fasi di realizzazione

filmica in realtà non sono sempre ben delineati. I soggettisti, gli sceneggiatori e i registi partecipano

spesso anche ad altri momenti nel processo di creazione di un’opera cinematografica: una pellicola è

frutto di una collaborazione. Per di più gli incarichi, i rapporti professionali, e i valori che vi

associano, cambiano diacronicamente: ne tracciamo il percorso nel capitolo seguente.

21 Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, cit., p. 12. 22 Renato May, articolo apparso su “Bianco e Nero”(senza data), citato in Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, cit., p. 102.

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Capitolo 2 L’evoluzione storica della paternità

Nel 1938, sulla rivista “Bianco e Nero”, da lui stesso fondata, Luigi Chiarini pubblica il saggio Il film è

un’arte, il cinema un’industria1. Il titolo in questione è diventato non solo una citazione famosa, ma

anche l’adagio di Chiarini, ossia la summa della sua poetica autoriale e delle sue convinzioni critiche.

Anche al traguardo della presente tesi esso fornisce uno spunto interessante, poiché analizziamo

l’autorialità attraverso le intersezioni fra arte e industria. In questo capitolo presentiamo il percorso

storico del soggettista, dello sceneggiatore e del regista nell’ottica dell’evoluzione della paternità

artistica. Vi aggiungiamo, per finire, il produttore e gli attori poiché anche questi due ruoli

influenzano intensamente il processo creativo, sebbene l’autorialità non sia propriamente ad essi

applicabile.

2.1 Il soggettista

Oltre alla sua funzione nella pre-produzione di un film, discussa nella prima sezione, il soggetto

assume anche un valore importante dal punto di vista diacronico nella storia dell’autorialità. La

nostra storia comincia nel 1910, l’anno in cui, secondo Brunetta, si fissa l’attenzione sulla questione

della paternità artistica delle opere cinematografiche italiane2. A decorrere dalla fine del primo

decennio del Novecento alcuni fenomeni come i problemi del diritto d’autore o come la

compartecipazione dei letterati alla scrittura filmica, dischiudono un serrato dibattito

sull’autorialità.3. Cosicché, già a partire dal 1912 l’industria e l’arte filmiche italiane possono essere

qualificate come “un cinema d’attori e d’autore”4. Tali osservazioni potrebbero generare la falsa

1 Luigi Chiarini, Il film è un’arte, il cinema è un’industria, in “Bianco e nero”, II, n. 7, 1938, pp. 3-8. 2 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 1.: Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Bari, Laterza, 2004, p. 92. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

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impressione che durante i decenni seguenti non ci fossero prese di posizione polarizzate; perciò in

ciò che segue riportiamo i maggiori svolgimenti sul tema.

Durante gli anni Trenta scoppiano parecchi dibattiti in Italia, che vertono sulle questioni del plagio e

del copyright. A questo proposito Luca Mazzei cita il soggetto di Terra madre (Alessandro Blasetti,

1931; che può essere considerato uno dei film precursori del neorealismo5, se assumiamo un quadro

teorico di continuità piuttosto che di rottura tra gli anni Trenta e il dopoguerra, cfr. 2.2.2). Il case

study viene sviluppato dettagliatamente mediante molti documenti giornalistici, i quali

testimoniano lo sviluppo della polemica6. Durante lo stesso periodo la Cines7 inizia a pubblicare in

modo sintetico, in libretti, i soggetti dei film che sono in elaborazione presso la casa

cinematografica. Grazie a questa iniziativa la casa produttrice è dunque in grado di registrare ogni

soggetto pubblicato come ‘opera d’ingegno redatta da un ben preciso autore’8. In questo modo

finiscono non solo i dissidi qui ricordati, ma viene per di più compiuto un primo passo decisivo verso

l’affermazione del culto dell’autore.

Il grande merito del soggetto cinematografico deve quindi esser visto da una prospettiva storica: il

ruolo del soggettista è stato determinante per la nascita del copyright e dell’autorialità nell’ambito

del cinema. I testi pubblicati nei libretti della Cines sono infatti firmati dai soggettisti, ossia dagli

autori di questi nuclei narrativi, che si firmano con il loro nome proprio o con uno pseudonimo9,

sancendo la loro paternità intellettuale. Lo scrittore del soggetto non deve per forza essere una

persona incaricata per questo esclusivo compito, ma può altresì prendere parte attiva in altre fasi

del processo creativo: per esempio, occuparsi della sceneggiatura, insieme agli altri sceneggiatori. La

creazione cinematografica va dunque definita un lavoro d’équipe (cfr. 2.2.1.) non solo perché i

collaboratori a ognuna delle tappe del progetto artistico sono vari, ma anche perché i ruoli (di

soggettista, di sceneggiatore, etc.) spesso oltrepassano i confini di queste fasi e perciò finiscono per

sovrapporsi.

5 Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in: Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1975. Anche in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 156- 197. 6 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, in: Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, Torino, Lindau, 2006, pp. 71-108. 7 La Società Italiana Cines, casa cinematografica fondata nel 1906, dal 1929 al 1931 chiamata Cines-Pittaluga, perché incorporata nella SASP (Società Autonoma Stefano Pittaluga). Per maggiori informazioni si veda: Riccardo Redi, La Cines. Storia di una casa di produzione italiana, Roma, CNC Edizioni, 1991. 8 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ‘30, cit., p. 78. 9 Ivi.

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Per i produttori però, il soggettista ideale rimane un letterato, e, ancor meglio, uno scrittore di fama.

Su questa diffusa tendenza di sfruttare nomi famosi interviene nel 1932 con toni aspri il futurista

Arnaldo Ginna:

I […]letterati si limitarono a fornire schemi scheletrici, novellette, che poi gli sceneggiatori, i direttori, dovettero sviluppare o trasformare o rifare in gran parte, aggiungendovi (bene o male, non conta) di proprio. Se l’esito è poi stato lodevole, questa è un’altra questione10.

Già pochi anni dopo le prime pubblicazioni di soggetti cinematografici invece si attestano stesure

firmate con l’acronimo ‘N.N.’ o con sigle svariate. Questa seconda e contraria tendenza svela una

disinteresse verso la forma del soggetto, e allo stesso tempo una conferma della natura collettiva

della creazione cinematografica11.

Una simile protesta comprova non soltanto un’evoluzione dall’individuo al gruppo, ma anche dal

soggetto (testo letterario) verso la sceneggiatura (testo più filmico e più visivo), e testimonia dunque

un divario fra letteratura vera e propria e testi destinati a diventare pellicole. Oggi il ruolo del

soggettista è subordinato rispetto a quello dello sceneggiatore e soprattutto a quello del regista:

questo fenomeno si può dedurre dalla pubblicità (i trailer, gli spot, i poster,…) nonché dai crediti che

passano sullo schermo all’inizio e alla fine del film.

2.2 Lo sceneggiatore

Secondo Mariapia Comand è difficile ignorare l’importanza della sceneggiatura: dal punto di vista

teorico essa rappresenta “un gesto fondativo” che “scornicia il mondo reale […] e lo trasforma in

possibilità cinematografica”12. Ma qual è, in fondo, l’apporto dello sceneggiatore alla realizzazione

del film? È maggiore o minore (sia quantitativamente, sia qualitativamente) rispetto a quello del

regista? Per rispondere a queste domande, trattiamo dello sviluppo storico del concetto di paternità

attinente allo sceneggiatore, ponendolo a confronto con quello del soggettista e del regista. L’analisi

si divide in tre parti alla stregua della cronologia presa in esame: prima, durante e dopo il periodo

del neorealismo, che delimitiamo come il periodo compreso tra il 1943 (ossia l’uscita di Ossessione di

10 Arnaldo Ginna, Per favore, spiegatemi!..., ‘Oggi e domani’, 15 gennaio 1932, p. 6. 11 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, cit. 12 Mariapia Comand, Carta canta, Introduzione a Eadem (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit., p.9.

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Luchino Visconti) e i primi anni Cinquanta13, benché fuori dal quinquennio 1945-1949 i film

propriamente neorealisti siano pochi14.

La critica ha dedicato parecchie pagine alla problematicità di una definizione o di una

periodizzazione precisa del neorealismo. Alberto Farassino, per esempio, situa la stagione

neorealista analogamente tra i primi anni Quaranta e il 1953, ma aggiunge che “[i]l vero neorealismo

esiste quando non c’è teoria del neorealismo, quando la teoria è nei fatti”15. E questi “fatti” si

manifestano in particolare nel periodo compreso tra il 1945 e il 1949, a causa di considerevoli

cambiamenti socio-politici nei due ultimi anni di questo intervallo, tra cui le elezioni politiche, la

legge Andreotti16, le condizioni di vita mutate – ma anche il convegno di Perugia17. Quest’ultimo

argomentazione conferma di nuovo quanto già detto nella frase appena citata: che il neorealismo

nell’anno 1949 è diventato qualcosa su cui si ragiona, perché non è più qualcosa che si fa18.

Noto e Pitassio propongono una prudenziale suddivisione della periodo neorealista in tre fasi,

riconoscendo tuttavia il carattere artificioso della ripartizione19. La fase iniziale, dalla fine degli anni

Trenta alla fine della seconda guerra mondiale, è caratterizzata da dibattiti accesi e da film ancora

oggi percepiti come imprescindibili. Dal 1945 alla fine del decennio si afferma il canone neorealista,

mentre si registra un ritardo dalla parte della critica: sia il periodo, sia il rapporto inversamente

proporzionale tra produzione creativa e saggistica riecheggiano dunque le osservazioni di Farassino.

L’inizio della terza fase coincide con i due convegni sul neorealismo sopraccitati (Perugia e Parma), e

la fine viene – seppur in modo meno demarcato – situata verso la fine del decennio. Un dibattito

riavviato e la dispersione del nucleo creativo contraddistinguono infatti quest’ultimo momento

neorealista negli anni Cinquanta. Concludendo precisiamo che ovviamente la riflessione e la pratica

non vanno viste come due estremi reciprocamente alternativi. Sulla scorta del giudizio di Carlo

13 Daniel Biltereyst, Ontwikkeling en esthetiek van de film (appunti delle lezioni), Gent, Universiteit Gent, primo semestre 2012-2013. 14 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, in Idem (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, Torino, EDT, 1989. Anche in: Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, Archetipo Libri, 2010, pp. 204-218. 15 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, cit., p. 214. 16 Giulo Andreottti (1919-2013), importante uomo politico di area cattolica, allora sottosegretario allo spettacolo, impose delle leggi a protezione del cinema nazionale, invaso dalle pellicole americane importate. Gli interventi inaugurarono una fase di convergenza tra le diverse istanze produttrici e il governo, ma il bilancio risultante per il neorealismo è ambivalente. Per maggiori informazioni, si vedano Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 46-47; David A. Cook, A history of narrative film, New York, W.W. Norton & Company Inc, 2004, p. 366-367. 17 Uno dei due celebri convegni sul neorealismo; il primo nel 1949 a Perugia e il secondo nel 1953 a Parma. Entrambi i congressi testimoniano dell’importanza del neorealismo all’epoca, ma allo stesso tempo documentano il passaggio dalla pratica al dibattito teorico. Su questo aspetto si vedano, tra gli altri, Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 53. 18 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, cit. 19 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 52-54.

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Lizzani, secondo cui il neorealismo rappresenta “l’incontro organico tra intellettuali e cinema”20,

ribadiamo che ogni netta periodizzazione del neorealismo risulta tendenziosa.

2.2.1 Prima del neorealismo

Stando a Silvio Alovisio, il periodo tra 1908-1909 e i primi anni Venti è caratterizzato dalla

progressiva valorizzazione della posizione del soggettista, ma allo stesso tempo anche dal

riconoscimento della proprietà della sceneggiatura21. Tuttavia già nel 1926, Blasetti e il gruppo

attorno alla rivista “Cinematografo” fanno da contraltare allo status crescente del soggettista22. I

critici prendono una posizione anticolletivistica, valorizzando il lavoro dello sceneggiatore e

attribuendo esclusivamente a quest’ultimo il ruolo d’autore. Blasetti propugna uno scambio –

seppur in modo limitato – tra sceneggiatore e regista, e la soppressione totale del soggettista, visto

che dall’unico autore, vale a dire lo sceneggiatore, proviene lo spunto iniziale del film. La sua

concezione parte insomma dalla centralità di un solo autore che procura la sceneggiatura, ma il

quale auspicabilmente controlla anche le fasi produttive anteriori e posteriori.

Il contesto cinematografico dell’anno 1931 presuppone una continuità rispetto al decennio

precedente: durante questo “anno chiave per la nascita della cinematografia moderna”23 le

sceneggiature ottengono una posizione primaria, e il concetto di soggetto riceve sempre più

connotazioni industriali anziché creative24. Nel 1932 la critica assume un atteggiamento duplice. A

causa dell’affermazione del film parlato, aumenta l’importanza dello sceneggiatore come

compositore delle battute, ma, allo stesso tempo, anche l’influenza del soggetto e il ruolo del

soggettista a causa di due ragioni25. In primo luogo, si accorda di nuovo un’attenzione maggiore alla

scelta del soggetto di partenza; in secondo luogo, escono in quegli anni due importanti libri del

regista sovietico Vsevolod Pudovkin – tradotti in italiano e curati dal critico pluridisciplinare

Umberto Barbaro – che vertono sulla problematica della sceneggiatura e del soggetto,.

I libri in questione sono Il soggetto cinematografico (1932) e Film: soggetto e sceneggiatura (1939). Benché

siano di matrice sovietica, i pensieri del gran cineasta Pudovkin riscuotono un grande successo

20 Carlo Lizzani, Il cinema italiano, Firenze, Parenti, 1953. Citato in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 57. 21 Silvio Alovisio, Scenari. La sceneggiatura nel cinema muto, in Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit. 22 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, in Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit. 23 Ivi, p. 85. 24 Ibidem. 25 Ibidem.

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internazionale. Per Pudovkin il processo creativo del film comincia con l’isolamento del tema, ossia

con l’idea di partenza, che dalla forma-racconto diventerà “sceneggiatura di ferro”26. Quest’ultimo

termine corrisponde, secondo Muscio, alla sceneggiatura tecnica (cfr. 1.3.), ma le idee

specificamente pudovkiane (l’idea come spunto iniziale, la discussione durante il progetto,

l’importanza del controllo creativo, etc.27) che ne costituiscono le fondamenta aggiungono significati

che vanno oltre il contenuto meramente tecnico e produttivo della sceneggiatura tecnica.

Nella sua introduzione al testo La settima arte (1939) Barbaro interpreta le idee di Pudovkin,

dichiarando: “Il regista non è più considerato l'unico autore del film, ma il film è frutto di una

collaborazione”28. Secondo la poetica autoriale di Pudovkin, la realizzazione di un film è dunque un

progetto collettivo; per di più in Il soggetto cinematografico il regista russo accosta esplicitamente lo

sceneggiatore al regista e al montatore29. Riepilogando, dagli anni Venti agli anni Trenta registriamo

l’evoluzione dai modelli anticollettivistici di Blasetti e dei suoi seguaci ad una discussione che

investe le diverse personalità creative, ossia i diversi autori coinvolti.

Un’altra personalità importante per il dibattito sulla paternità di una pellicola, con particolare

riferimento all’opposizione fra collettività e anticollettività, è Benedetto Croce. Mazzei considera la

sua impronta un ostacolo nell’evoluzione della paternità cinematografica, visto che le idee crociane

impediscono di “riconoscere valore ed esistenza a un oggetto artistico nato dalla mediazione fra più

soggetti fra loro interdipendenti”30. Altri, come il teorico Eugenio Giovanetti nell’anno 1934, non

negano lo scambio tra le diverse professioni, ma cercano semplicemente di evitare la terminologia

generalizzante e vaga, articolando per esempio il concetto di ‘autori cinematografici’ in categorie

più specifiche.31

La discordanza sulla centralità dell’autore (e di quale autore), non è ancora risolta alla metà del

quarto decennio del Novecento. D’una parte si trovano le tesi registacentriche, dall’altra vi si

contrappongono coloro che; come Gino Rocca, ritengono l’autore dell’idea iniziale il vero autore del

film32. Rocca sembra quindi far riferimento al soggettista, anche se, secondo la teoria di Pudovkin, il

26 Giuliana Muscio, Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, in Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit. 27 Ivi. 28 Umberto Barbaro, Introduzione a Vsevolod Pudovkin, La settima arte, a cura di Umberto Barbaro, Roma, Bianco e Nero, 1939, p. 27. 29 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, in Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, cit. 30 Ivi, p. 94. Si veda anche Alberto Consiglio, Cinema. Arte e linguaggio, Milano, Ulrico Hoepli, 1936. 31 Eugenio Giovanetti, Gli scenaristi cinematografici possono considerarsi autori? E i registi?, “Comoedia”, anno XVI, n.5, 1934, pp. 32-34. Citato in Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, cit., p. 94-97. 32 Gino Rocca, Cinema. Chi è l’autore del film?, “Il Dramma”, anno XII, n. 230, 15 marzo 1936, pp. 29-30. Citato in Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e film nel cinema degli anni ’30, cit., p. 96-97.

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soggetto è già un passo ulteriore rispetto allo spunto originale. A controtendenza si trova lo

scrittore e il cineasta Lucio D’Ambra, che nel suo articolo del 1938 dall’ambiguo titolo Fuori l’autore!,

(che si contrappone a quello del saggio di Rocca prudentemente intitolato Chi è l’autore del film?)

problematizza la definizione stessa del “autore cinematografico”. Stando a D’Ambra è più opportuno

applicare quest’ultimo concetto allo sceneggiatore, “se proprio [lo] obbligassero a scegliere fra tre

uno solo”33. Interessante in questo contributo è non soltanto la scelta in favore dello sceneggiatore,

ma anche la segnalazione esplicita che il concetto di autore potrebbe essere applicato appunto a tre

differenti persone: al soggettista, allo sceneggiatore e/o al regista.

Secondo Mazzei i primi grandi mutamenti, che hanno anche condizionato e contrassegnato il

contesto del neorealismo, hanno avuto luogo negli anni 1936-1937. Il critico individua alcune

tendenze, senza però instaurare alcun nesso di causa-effetto limitativo. Anziché tentare di stabilire

un rapporto univoco tra un solo fenomeno e il contesto cinematografico in trasformazione, egli

riporta sia l’aumento di film realizzati in Italia, sia quello di tecnici e di letterati prestati al cinema34.

Ancora alla fine degli anni Trenta, escono alcuni rilevanti articoli sulle riviste specializzate, e

vengono pubblicate due monografie che prestano particolare attenzione alla sceneggiatura. Più

specificamente su “Cinema” la posizione dello sceneggiatore e della sceneggiatura divengono

oggetto di dibattito, mentre l’appena fondata “Bianco e Nero” comincia a pubblicare non solo degli

interventi innovativi, ma anche delle sceneggiature (quasi) intere35. Quest’ultima iniziativa attesta il

riconoscimento di un valore autonomo e letterario alla sceneggiatura, contrariamente alla

convinzione esposta da Renato May nella sua “storia della sceneggiatura”36, pubblicata nel 1939

sempre su “Bianco e Nero”. May asserisce che la sceneggiatura non è e non può essere altro che un

testo creato per la lavorazione del film, e che dunque il valore artistico della sceneggiatura proviene

soltanto dalla sua attuazione cinematografica.

Ma la pubblicazione di sceneggiature rispecchia anche il rilievo accordato ai fini didattici, i quali

prevalgono in questi anni sulla paternità individuale37. Quest’asserzione è confermata dal confronto

tra le pubblicazioni della Cines soprammenzionate (cfr. 2.1.) e quelle del Centro Sperimentale di

Cinematografia: nei primi anni Trenta la casa produttrice Cines cura l’edizione dei soggetti di film in

lavorazione (cfr. 2.1.), mentre alla fine dello stesso decennio su “Bianco e Nero” compaiono delle

sceneggiature, ovvero dei testi molto lontani dalla letteratura tradizionale. Oltre a ciò, anche le due

33 Lucio D’Ambra, Dopo il convegno di Bolzano. Fuori l’autore!, “Lo schermo”, anno III, n. 10, ottobre 1938, p. 15. 34 Luca Mazzei, Percorsi fra testo letterario e fim nel cinema degli anni ’30, cit., pp. 98-99. 35Ivi, p. 99. 36 Ivi, p. 102. 37 Ibidem.

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monografie precipue di questi anni incorporano dei brani di sceneggiature in appendice: è il caso di

Soggetto e sceneggiatura (1939) di Umberto Barbaro e di Come si scrive un film (1939) di Seton Margrave

(a cura di Paolo Ojetti)38. La radicale differenza tra il punto di partenza della Cines (il soggetto) e

quello del Centro sperimentale (la sceneggiatura), tra Barbaro e Margrave, attesta lo status

crescente della sceneggiatura. Questa tendenza, già visibile in un lasso di tempo così breve, diventa

così uno dei cambiamenti fondativi di un’epoca nuova nel cinema italiano: il neorealismo.

2.2.2 Durante il neorealismo

Il neorealismo è la corrente più studiata del cinema italiano, ma non a caso il periodo compreso tra

gli anni 1943 e 1952 è segnato da evoluzioni interessanti anche al livello dell’autorialità. Nella

sezione 2.2.1. abbiamo già anticipato qualche cambiamento, che stimola la transizione dagli anni

Trenta al contesto cinematografico dell’Italia postbellica: il numero crescente di film italiani da una

parte, e di tecnici e letterati prestati al cinema d’altra parte39. Più in generale questo periodo è

caratterizzato dalla volontà di “liberarsi dalle regole della grammatica e della sintassi del cinema

degli anni trenta”40. Analogamente anche André Bazin (cfr. infra) descrive il neorealismo come un

tendenza innovativa, dichiarando che questo movimento artistico ha avuto sempre una vita breve e

che è per forza passeggero41.

Più moderata è invece la sua convinzione che taluni componenti basilari per la nuova corrente

fossero già presenti prima, ma che la loro combinazione con i fattori politici e socioeconomici del

secondo dopoguerra ha promosso un ambiente favorevole ad ulteriori cambiamenti42. Si può

associare questa prospettiva di Bazin alle considerazioni di Mazzei riferite di sopra, che riportano

non tanto ad un’innovazione radicale, ma piuttosto ad una commistione feconda di elementi

tradizionali e nuovi, ovviamente catalizzati dalla seconda guerra mondiale. Affine è anche la tesi di

Lino Miccichè, il quale invalida il luogo comune del divario enorme tra il cinema del fascismo e

quello del dopoguerra. Anzi l’ex presidente del Centro Sperimentale propugna l’idea di continuità

tra le due fasi cinematografiche, ma d’altro canto instaura comunque una specie di linea di

demarcazione che interrompe la continuità. Tre film, ossia Quattro passi fra le nuvole (Alessandro

Blasetti, 1942), Ossessione (Luchino Visconti, 1943) e I bambini ci guardano (Vittorio De Sica, 1943)

38 Ivi, p. 101. 39 Ivi, pp. 98-99. 40 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2.: Dal 1945 ai giorni nostri, cit., p. 80. 41 André Bazin, An Aesthetic of Reality, in: What is cinema? Vol. 2, Berkeley, University of California Press, 2004. Anche consultabile online: http://isites.harvard.edu/fs/docs/icb.topic235120.files/BazinAesthetic.pdf (ultima verifica 1-06-2013). 42 Ivi, p. 19.

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costituirebbero, secondo Micciché, il confine tra l’ “immaginario cinematografico” preneorealistico

e l’ “immaginario cinematografico” neorealistico43.

Già nella sezione 2.1. è stata affrontata la problematica periodizzazione del neorealismo e il

medesimo argomento è affiorato anche nella questione della (dis)continuità cinematografica. Molti

studiosi ritengono che il neorealismo abbia rappresentato una corrente quantitativamente minore

del dopoguerra, e perciò sarebbe errato assimilare il cinema di quegli anni al neorealismo44. Sulla

stessa scia si pone la percezione sincronica del neorealismo non come una scuola, ma come un

“clima comune”45, sostenuta da Antonio Pietrangeli nel 1950. Allargando l’orizzonte si può infatti

considerare il neorealismo sia come fenomeno storico, prodotto specifico del dopoguerra; sia come

un fenomeno eterno, “una costante ricorrente dell’espressività cinematografica soprattutto

italiana”46, ma su questo tema ritorniamo nel paragrafo 2.2.3. Quali sono dunque le caratteristiche

che contraddistinguerebbero il periodo del neorealismo dagli anni precedenti? Forniamo una breve

rassegna delle nuove poetiche delle personalità del periodo in questione, che influenzeranno il ruolo

della sceneggiatura.

Il film ideale secondo Cesare Zavattini47, universalmente noto come il padre del neorealismo,

consiste di novanta minuti consecutivi della vita di un uomo, durante cui non accade niente di

speciale48, ma ogni fotogramma “vibrerà in sé come un microcosmo”49. Tale tipo di cinema s’impone

allo stesso tempo come antinarrativo e spettacolare, perché è proprio la realtà che deve coincidere

con lo spettacolo50. Probabilmente questo obiettivo creativo non è mai stato raggiunto nella sua

totalità, tanto che, secondo Gian Piero Brunetta, l’“illusione dell’immediatezza e della spontaneità” è

durata poco51.

43 Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo, in Id., Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1975, pp. 7-28. Anche in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 156-173. 44 Ivi, p. 165. 45 Antonio Pietrangeli, Cinema italiano sonoro, Livorno, Quaderni della F.I.C.C. (Stabilimento Società Editrice Italiana), 1950, citato in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 55. 46 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia,cit., p. 214. 47 Cesare Zavattini (1902- 1989):scrittore, giornalista e collaboratore di diversi giornali e riviste. Autore di romanzi, molto dei quali pubblicati presso la Bompiani (esordio Parliamo tanto di me, 1931) e di soggetti e sceneggiature in collaborazione, tra gli altri, con registi come Amidei, Blasetti e, in particolare, De Sica. Non va neanche dimenticato il suo lavoro critico-riflessivo incentrato sul neorealismo italiano. Per ulteriori informazioni bio- bibliografiche, si veda Lina Angioletti, Invito alla lettura di Cesare Zavattini, Milano, Ugo Mursia, 1978. 48 David A. Cook, A history of narrative film, New York, W.W. Norton & Company Inc, 2004, p. 367. 49 Cesare Zavattini, Relazione al convegno internazionale di cinematografia – Perugia 24-27 settembre 1949, citato in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 89. 50 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 27. 51 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2.: Dal 1945 ai giorni nostri, cit, p. 80.

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Per rispondere all’esigenza di autenticità e di contatto diretto con la realtà, occorre soffermarsi su

almeno tre caratteristiche tecniche principali del film neorealista: i film vengono girati in esterni, i

ruoli sono spesso interpretati da attori non professionisti e la sceneggiatura ricopre una posizione

ambivalente52. Quantunque anche altre istanze critiche ammettano di collocare un film tra le opere

neorealiste (tra cui, per esempio, l’attenzione per problemi sociali e collettivi53), nondimeno ci

concentriamo esplicitamente sulle caratteristiche legate all’espressione di autenticità: questa non è

la sede appropriata per fornire una definizione esaustiva del fenomeno del cinema neorealista.

D’altronde ribadiamo l’adagio che esistono tanti neorealismi quanti furono i neorealisti54 e che la

stagione neorealista non è solo segnata da differenze, ma anche da continuità con il periodo

precedente.

La prima caratteristica, ossia l’uso di attori non professionisti invece di divi, permette di raggiungere

un grado di autenticità più alto grazie all’assenza di preconcetti da parte del pubblico. Secondo

Bazin questa scelta artistica contiene in sé la propria distruzione, visto ché non si può evitare

l’evoluzione verso uno dei due lati della dicotomia retrostante: o la divinizzazione dell’attore, o il

passaggio al documentario senza attori. Per poter guidare interpreti dilettanti, occorre l’esperienza

dei tecnici e una sceneggiatura ben elaborata, ma, d’altro canto, secondo Zavattini e i neorealisti una

trama inventata risulta artificiale e inautentica, secondo Zavattini e i neorealisti55. La sceneggiatura,

insomma, deve esserci, ma deve allo stesso tempo dare l’impressione che non ci sia.

Due casi esemplari di film neorealisti con una manipolazione particolare della sceneggiatura sono

Paisà (1946) di Roberto Rossellini e La terra trema (1948) di Luchino Visconti. Paisà, il secondo film

della trilogia della guerra di Rossellini, racconta in sei episodi le conseguenze della guerra e della

liberazione sulla vita privata dei protagonisti, riportando così l’avanzata delle truppe alleate. Visto

che gli episodi si susseguono, ma non sono connessi da una logica narrativa, spetta allo spettatore il

compito di rintracciare la morale complessiva. Grazie a questa struttura, ma non attraverso una

fissazione predeterminata dai soggettisti, dagli sceneggiatori o dal regista, i fatti ricevono così il loro

significato56.

In conseguenza della volontà di instaurare un rapporto il più diretto possibile con la realtà, l’unità

costitutiva del film diventa, secondo Bazin, invece dell’inquadratura, il fatto concreto57. Gli altri

52 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 53 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, cit. 54 Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit. 55 Ivi, p. 367. 56 André Bazin, An Aesthetic of Reality, cit., p. 36. 57 Ivi, p. 37.

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procedimenti di cui i cineasti di Paisà si avvalgono sono l’impiego di attori non professionisti e, in

particolare, la manipolazione della sceneggiatura58. In questo caso la sceneggiatura è frutto di una

collaborazione di Sergio Amidei, Federico Fellini e Roberto Rossellini ed è diversa da ciò che

possiamo chiamare la sceneggiatura desunta o “da film montato”: durante le riprese Rossellini

decide di improvvisare parecchie situazioni e battute. Mediante questo procedimento tipicamente

neorealista lo sceneggiatore-regista vuole accostarsi all’ideale “illusione del presente”, un concetto

messo in luce da James Agee59.

La terra trema (1948) di Luchino Visconti si configura come un progetto ancora più audace, per il

fatto che è interamente girato nel porticciolo siciliano di Aci Trezza, con un cast composto solo di

attori non professionisti e per di più senza una completa sceneggiatura prestabilita. Il soggetto è

“liberamente ispirato” al romanzo verista I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga e gli aspetti tecnici

sono tutti progettati, ma la gran parte delle battute degli attori viene improvvisata – in dialetto

siciliano – durante le riprese60. Anche se Visconti stesso dichiara di aver girato il film senza

sceneggiatura precostruita, comunque su ogni scheda tecnica del film sono menzionati Antonio

Pietrangeli e Luchino Visconti come sceneggiatori. Oggi è anche disponibile una versione stampata

della sceneggiatura desunta, per definizione creata durante e dopo le riprese (cfr. 1.3.), e pubblicata

per la prima volta nel 1951 dalla casa editrice della rivista “Bianco e Nero”61.

Entrambi i film citati, Paisà e La terra trema, illustrano bene il mito neorealistico di girare film senza

copione. A dispetto di questa pretesa, un’elaborazione tecnicamente perfetta è comunque necessaria

per controllare il processo di produzione, nonché per guidare l’équipe e soprattutto gli interpreti non

professionisti. Cesare Zavattini si oppone alla costruzione dettagliata di una trama cinematografica

che impone una “struttura artificiale” alla vita quotidiana dei personaggi, mentre suo intento è

appunto mostrare “la dignità e la sacralità” della vita ordinaria62. In un’intervista il critico-

sceneggiatore pronuncia la frase audace “basta con i soggetti”63: egli spiega che il cinema non deve

essere né solo spettacolo, né solo narrazione, e denuncia il tradimento dell’invenzione di una storia

(di un soggetto) rispetto all’immediatezza delle riprese dell’attualità. Lo sceneggiatore invece

ricopre, nell’ottica zavattiniana, ancora un ruolo rilevante, visto che si ha ancora bisogna di una

58 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 59 Ivi, p. 361. 60 Ivi, p. 363. 61 Luchino Visconti, La terra trema. Sceneggiatura desunta dall’edizione integrale del film, con un’introduzione di Luigi Chiarini, a cura di Fausto Montesanti, Roma, Bianco e Nero, 1951. 62 Ivi, p. 358. 63 Cesare Zavattini, Basta con i soggetti, intervista concessa a Elio Petri nel 1950, rimasta incompiuta e citata in Idem, Cinema. Diario cinematografico, neorealismo, ecc., a cura di Valentina Fortichiari e Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 2002, pp. 688-692.

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persona in grado di “fotografare ciò che pensiamo nell’atto stesso in cui vediamo”64. Già negli anni

Trenta Leo Longanesi, uno dei precursori del neorealismo, formula un simile punto di vista,

sconfessando l’uso di scenografi perché responsabili di aumentare il grado di artificialità dell’opera

cinematografica:

Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messi scena, pellicole senza artifizi, girare quanto si può dal vero65.

È ancora proficuo approfondire la collocazione de La terra trema tra i film neorealisti: Visconti

occupa, com’è noto, una posizione originale tra estetismo, perfino decadenza, e realismo66. Cook

sostiene che il realismo deve essere valutato come uno stile anziché come un’ideologia, e che per

questa ragione estetismo e realismo non sono incompatibili. Secondo Lino Miccichè è appunto ne La

terra trema che il neorealismo diventa stile67. Secondo Bazin realismo ed estetismo non sono due

fenomeni opposti e incompatibili, visto che l’arte comporta la scelta di conservare o di eliminare

elementi della realtà. Per cui la natura del realismo è ineluttabilmente anche estetica68. È di nuovo la

riflessione di Miccichè che serve come precisazione pertinente alla questione: il neorealismo era già

all’atto della sua nascita un’“etica dell’estetica” in quanto tutti i film appartenenti alla corrente

esprimono la volontà di “proteggere l’uomo dalle sofferenze”, pur imboccando differenti filoni

estetici69.

Il cinema (neo)realista possiede dunque non solo delle caratteristiche meramente oggettive e reali,

ma anche delle proprietà estetiche e perfino, inevitabilmente, artificiali. Il neorealismo dovrebbe

essere, secondo la vulgata comune, un cinema in cui “le cose parlano da sole, in cui si registra la vita

dal vero e l’aspetto espressivo-formale è ridotto al minimo”70. Secondo la maggior parte dei critici

quest’accezione può essere classificata come uno dei numerosi miti nati attorno allo stile

cinematografico italiano più celebre. Nemmeno i protagonisti del neorealismo intendevano

realizzare documentari o giornali cinematografici, anzi, il cinema è sempre stato per loro una forma

d’arte.

64 Ivi, p. 689. 65 Leo Longanesi, articolo sull’”Italiano”, 1933. Citato in Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, cit., p. 182. 66 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 67 Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo, cit., p.169. 68 André Bazin, An Aesthetic of Reality, cit., p. 26. 69 Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo, cit. p. 170. 70 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 58.

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Cesare Zavattini auspica una vera presa di contatto con la realtà, mentre i giornali documentari gli

paiono più simili a dei film storici71. Secondo Mario Gromo nella pellicola neorealista si verifica una

conciliazione tra documento e poesia, mentre sia Zavattini sia Alicata e De Santis vi aggiungono la

fantasia. Quest’ultimi tre cineasti prendono le difese della forza creatrice e incitano a “spalancare le

porte alla fantasia”, pur nel quadro complessivo di un rapporto diretto con la realtà7273. Queste

osservazioni innescano la stessa conclusione riferita da Noto e Pitassio: “il cinema di finzione

neorealista pare avere effettivamente poco in comune col documentario vero e proprio”74.

Ora spostiamo l’attenzione dall’oggetto al creatore: dalla sceneggiatura allo sceneggiatore. Sergio

Amidei75 accosta il procedimento del suo lavoro di sceneggiatore alle usanze di una bottega

rinascimentale76. A questa similitudine si appressano le constatazioni altrettanto amare di Brunetta,

che osserva come molti contributi individuali “scompaiono nello spazio indistinto del lavoro di

sceneggiatura” perché non è inusuale che vi collaborino perlomeno cinque scrittori77.

L’apprezzamento della sceneggiatura quindi non implica necessariamente la stima dello

sceneggiatore, o meglio dei singoli sceneggiatori.

Nelle concezioni artistiche proprie del neorealismo lo sceneggiatore assume, lo si è detto, una

posizione ambivalente. La comune poetica neorealista racchiude il traguardo di un legame

immediato con la realtà, per cui si pretende non aver bisogno di uno specialista che “costruisce un

sistema narrativo solo sulla carta”78. Questa chimera ideologica nasce già alla fine degli anni Trenta:

allo scopo di concedere alla realtà l’opportunità di parlare autonomamente – e provocatoriamente –

si tenta di celare i contributi degli autori79. D’altro canto comunque lo sceneggiatore funziona come

“una specie di collante, di tessuto culturale retrostante rispetto al lavoro di regia che, visto in

trasparenza, tiene insieme l’intero edificio del cinema italiano”80.

71 Cesare Zavattini, Morirà il cinema?, “Vie Nuove”, anno V, 19, 7 maggio 1950, p. 4. Anche in Idem, Cinema. Diario cinematografico, neorealismo, ecc., cit., pp. 686-687. 72 Cesare Zavattini, Poesia, solo affare del cinema italiano, “Film d’oggi”, 10, 25 agosto 1945. Anche in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p 91-93. 73 Giuseppe De Santis & Mario Alicata, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, “Cinema”, anno VI, 127, 10 ottobre 1941. Anche in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit, p. 76-79. 74 Paolo Noto & Franceco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 42. 75 Sergio Amidei (1904-1981), sceneggiatore e produttore cinematografico, che ha collaborato fra l’altro a Roma città aperta (Rossellini, 1945) e Sciuscià (De Sica, 1946). Per maggiori informazioni si veda Franca Faldini & Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano (due volumi), Bologna, Cineteca di Bologna, 2009. 76 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2.: Dal 1945 ai giorni nostri, cit, p. 54. 77 Ibidem. 78 Ivi, p. 52. 79 Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, cit., p. 190. 80 Ivi, p. 53.

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2.2.3 Dopo il neorealismo

A causa del miglioramento delle condizioni economiche, degli effetti delle leggi Andreotti, nonché

della mancanza di un vero impegno sociale e dello slittamento verso il mercato e il sentimentalismo,

il declino del neorealismo all’inizio degli anni Cinquanta diviene inesorabile81. L’impatto dello stile è

difficile da valutare, perché, com’è noto, si espande sia in Italia sia, ancora di più, all’estero, visto lo

status marginale del fenomeno nel cinema nazionale durante la stagione neorealista. La sentenza di

Penelope Houston sul contesto italiano fornisce una sintesi sostanziale sulla questione: la forza del

cinema italiano è appunto l’incapacità di fuggire l’eredità neorealista82.

Il neorealismo ha dato vita a una forte rivitalizzazione del cinema italiano, oltre ad aver favorito la

formazione di futuri cineasti illustri (come Fellini e Antonioni), e ad aver introdotto delle tecniche

innovative che oggi sono diventate di uso frequente nel cinema d’autore. Secondo Leonardo

Quaresima il paesaggio cinematografico italiano dopo il neorealismo è infatti caratterizzato da una

dicotomia fra cinema triviale e cinema d’autore83. Giuliana Muscio distingue, alleggerendo la

tendenziosità dei termini, il cinema d’autore e la commedia all’italiana84. Visto che lo scopo della

presente tesi è invece quello di individuare dei paralleli diacronici, confrontando la concezione

dell’autore cinematografico prima e dopo il neorealismo, adottiamo in particolare il ragionamento

di Houston, appena citato, e quello di Farassino. Quest’ultimo riconosce nel neorealismo un

fenomeno intramontabile e continuo, che sfugge alle ristrette periodizzazioni.85

L’influenza internazionale del neorealismo è soprattutto stata rintracciata e studiata per la nouvelle

vague francese, ma è anche stata notevole in Grecia, India, Spagna e negli Stati Uniti. Il critico André

Bazin, a cui abbiamo già rinviato parecchie volte, disegna nel modo più esplicito l’importanza del

neorealismo per la riflessione teorica in Francia, in particolare a partire del 1951 nella rivista da lui

fondata, i “Cahiers du Cinema”, ma anche per il nascente stile cinematografico. Il periodo di

fioritura, nel senso preciso, della nouvelle vague si situa tra 1959 e 1963 ed è per molti versi

paragonabile al neorealismo italiano.

Entrambe le correnti cinematografiche hanno influenzato profondamente il contesto artistico del

paese di provenienza, ma anche quello internazionale, e sono caratterizzate da una retroterra

teorico molto elaborato. La tradizione documentaria di Georges Franju, Chris Marker, Alain Resnais 81 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 82 Traduzione nostra. Citato in Ivi, p. 368. 83 Leonardo Quaresima, Neorealismo senza, in: Il neorealismo nel fascismo. Giuseppe De Santis e la critica cinematografica, Bologna, Edizioni della Tipografia Compositori, 1984. Anche in Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 197-204. 84 Giuliana Muscio, Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, cit., p. 138. 85 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia,cit., p. 214

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e, in particolare, il cinema vérité di Jean Rouch offrono uno degli spunti iniziali della nuova onda

cinematografica, cosicché il realismo documentario vi occupa una posizione meno ambivalente

rispetto al neorealismo86. Un altro influsso imprescindibile è la caméra-stylo, introdotta dal critico

Alexandre Astruc già nel 194887: ovvero l’aspirazione ad avvicinare il medium cinematografico ad una

penna, e di conseguenza il cineasta ad un autore. Astruc prevede la liberazione del cinema dalla

tirannia del visuale e dello spettacolo, compiendo così un passo decisivo verso vari cinema che

funzionano come lingue o letterature diverse88.

Una delle conseguenze di questo ideale, oltre alla maggiore attenzione riservata all’espressione di

idee, filosofie, pensieri e ai rapporti tra personaggi, è appunto l’affermazione dello status di autore.

Questo concetto si applica, nella concezione di Astruc, al regista, o meglio: l’autore collima con il

regista. Il critico pone la domanda retorica: “how can one possibly distinguish between the man who

conceives the work and the man who writes it?”89, che ha un contraccolpo pesante sul ruolo dello

sceneggiatore. La teoria di Astruc implica una sovrapposizione tra sceneggiatore e regista, o, più

precisamente, perfino la cancellazione di questa sussidiaria mansione.

La teoria della caméra-stylo è stata successivamente raffinata e diffusa dai critici dei “Cahiers”, con

una influenza (diretta) assai maggiore rispetto a quella di Astruc sul cinema a venire. La politique des

auteurs è uno dei principi fondamentali del gruppo nato attorno alla rivista, e implica la

valorizzazione dell’espressione artistica e personale e quindi del marchio autoriale90. Allo stesso

tempo questo progetto racchiude una reazione contro la, ormai generalmente accettata, natura

collettiva della creazione cinematografica91. Anche gli esponenti della nouvelle vague spostano

l’attenzione verso il regista a scapito dello sceneggiatore, ma si avvalgono primariamente di letture

– tendenziose – dell’opera di Roberto Rossellini92, che diviene modellizzante per la nuova tendenza

cinematografica francese.

Dell’importanza delle interpretazioni di André Bazin per la diffusione sia della nouvelle vague, sia

della “Scuola italiana della Liberazione” (il termine che designa, nel suo gergo critico, il

neorealismo), abbiamo già trattato di sopra. Non va nemmeno dimenticato l’apporto di Jacques

86 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 87 Alexandre Astruc, The birth of a new avant-garde: la caméra-stylo, School of Media Arts, Santa Barbara City College, 1968. Anche consultabile online : https://soma.sbcc.edu/users/davega/FILMST_113/Filmst113_ExFilm_Movements/FrenchNewWave/ cameraStylo.pdf. Edizione originale: Idem, Du stylo à la caméra et de la caméra au stylo, “L’Ecran Française”, 30 marzo 1948. 88 Ivi, p. 3. 89 Ivi, p. 4. 90 David A. Cook, A history of narrative film, cit. 91 Jean-Pierre Esquenazi, Politique des auteurs et théories du cinema, Parigi, L’Harmattan, 2002, p. 6. 92 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 35.

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Truffaut, critico-regista appartenente alla generazione dei “Cahiers du Cinéma” poiché è proprio nel

suo saggio Une certaine tendance (1954) che si introducono la politica degli autori e il culto della

personalità93. In una fase successiva, negli anni Sessanta, il progetto viene ripreso da Andrew Sarris,

il padre dell’auteur theory94. Si è dunque verificata, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta,

un’evoluzione simultanea all’affermazione del neorealismo italiano e poi della nouvelle vague

francese, da un ruolo autoriale presente ma ambivalente (perché la “Realtà” prevale sull’espressione

dell’individuo95) ad un auteur la cui firma personale corrisponde a un marchio di qualità.

2.3 Il regista

Innanzitutto ci pare opportuno fornire una spiegazione storica della nozione di regista, perché è la

storia del termine che coglie il suo contenuto specifico, il quale comunque nelle varie lingue viene

espresso da parole genealogicamente non connesse. Il vocabolo “regia” è un neologismo dei primi

decenni del Novecento, derivato dall’uso tedesco del termine francese régie96. Mentre il significato

francese della parola si riferisce soltanto alla direzione amministrativa del teatro, il termine viene

introdotto in italiano nel 1931 per esprimere l’evoluzione trascorsa in quegli anni rispetto alla

messinscena tradizionale. Nel gergo italiano si presenta dunque una netta differenza tra la messa in

scena, che comprende tutte le attività per portare un’opera scritta sul palcoscenico o davanti alla

macchina da presa, e la regia, che riceve invece il significato aggiunto di artisticità e di uno stile

personale (cfr. marchio d’autore) dotato di valore estetico, ideologico e morale97. Nella critica

cinematografica francese invece, la mise en scène equivale all’uso di regia in italiano, ma la parola

réalisateur (in inglese: director) possiede una denotazione quasi sinonimica. Grazie all’adozione della

mise en scène, a dispetto del montaggio, come uno dei due pilastri della nouvelle vague (oltre alla

politique des auteurs)98, la connotazione della nozione francese è opposta al suo calco italiano.

Nella nouvelle vague è dunque il regista a cui è accordato il ruolo di auteur, essendo la persona che

può incarnare insieme l’ideale di scrittore e di realizzatore del film. Anche oggi è soprattutto il

93 François Truffaut, Une certaine tendance du cinéma français, “Cahiers du Cinéma”, numero 31, gennaio 1954, pp. 15-29. 94 Andrew Sarris, The auteur theory revisited, in Virginia Wright Wexman (a cura di), Film and authorship, New Brunswick, Rutgers University Press, 2003, pp. 21-29. 95 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 10. 96 Mirella Schino, La nascita della regia teatrale, Roma/Bari, Laterza, 2003. 97 Voce “regia”, Enciclopedia Treccani, Roma, 2000. Anche consultabile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/regia/ (ultima verifica 14-07-2013). 98David A. Cook, A history of narrative film, cit.

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regista che acquisisce rinomanza grazie a un’opera cinematografica fortunata, e, inversamente, è

anche colui che funziona come indicatore della qualità dell’opera. Passi decisivi verso l’affermazione

dell’autorità del regista vengono fatti a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta: la fondazione di un

cinema nazionale (che sarà il neorealismo) si avvia e coincide con l’attribuzione di paternità artistica

al regista99.

Perfino durante il secondo conflitto mondiale il suo dominio si accresce progressivamente. Il

contesto cinematografico è caratterizzato da due differenti tipologie di regista: d’una parte il regista

professionale, competente a regolare, controllare la produzione e la realizzazione filmica, e dall’altra

parte il regista demiurgo, con un termine derivato dalla filosofia platonica100. Per traslato il regista

demiurgo rappresenta un artigiano o un creatore nella concezione più vicina al poeta vates. Dal

nucleo semantico originale della nozione proviene l’interpretazione del regista-demiurgo come

creatore del suo proprio mondo narrativo e visivo; ma, d’altronde, egli deve essere inteso come un

regista-dittatore, che mira alla perfetta corrispondenza tra le proprie intenzioni e l’opera

realizzata101.

Nel neorealismo il regista si manifesta come autore con più vigore, e Roberto Rossellini può essere

citato come caso emblematico: è lui stesso a fornire il modello, l’abbozzo per la politique des auteurs

della nouvelle vague102. Taluni cineasti della stagione neorealista negano il valore dello

sceneggiatore, dichiarando di girare senza copione, ma i principi teorici non corrispondono

pienamente con la pratica. Lo sceneggiatore resta presente, anche se piuttosto nell’oscurità, a favore

del regista, ma soprattutto a favore della realtà, in linea con le dichiarazioni di poetica di Cesare

Zavattini sopraccennate. Oltre al valore della sceneggiatura per la realizzazione del film, un

découpage precostruito aiuta anche a svincolare il regista dalle “servitù” che gli vengono imposte

dalle condizioni materiali, e soprattutto dalla complessità legata all’inglobamento

dell’improvvisazione103. Muscio evidenzia che nei credits di film italiani il nome del regista appare

frequentemente nella sezione degli sceneggiatori e che, in conformità a questo palesamento, si

tratta sovente di un collega-sceneggiatore che non partecipa soltanto alle discussioni104. Le

professioni di sceneggiatore e di regista comunque non sono opposti o inconciliabili: come abbiamo 99 Ivi. 100 Originalmente, nella concezione platonica, indica una figura che ha formato l’universo, modulandolo di materia preesistente invece di crearlo ex nihilo. (Etienne Vermeersch & Johan Braeckman, De rivier van Herakleitos. Een eigenzinnige visie op de wijsbegeerte, cit.) 101 Voce “regista”, Enciclopedia Treccani, Roma, 2000. Anche consultabile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/regia/ (ultima verifica: 9-06-2013). 102 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 178. 103 Ivi, p. 105. 104 Giuliana Muscio, Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, cit., p. 115.

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già riferito, la collettività che contrassegna la creazione cinematografica implica la collaborazione di

diverse personalità a ogni livello, ma anche tra le diverse fasi.

Perciò si può vedere il rapporto fra i due (tipi di) autori come un continuum piuttosto che

un’opposizione tra due estremi. Questo punto di vista è sostenuto dal fatto che numerosi

professionisti, tra cui cineasti illustri come Federico Fellini, dopo aver acquisito esperienza nel ruolo

di sceneggiatore, passeranno poi alla regia. Una delle motivazioni cruciali, alla base di questo

passaggio, può essere ritrovata nella volontà di esprimersi in modo più soddisfacente, di realizzare il

film più fedelmente come previsto (nella sceneggiatura ) da se stessi105. A questa prospettiva si

accosta anche Alberto Moravia con affermazioni perspicue quali: “uno sceneggiatore non può mai

dire che si è espresso nel film” e “il regista è il solo a firmare il film”106. Ma entreremo più

dettagliatamente nelle sue opinioni sulla questione sceneggiatore–regista nel capitolo terzo. Non si

può negare che il contributo del regista sia veramente fondamentale poiché realizza il prodotto

finito, ossia il film nella sua compiutezza partendo dagli elementi sparsi risultanti dalle fasi

precedenti. Il regista sovrintende alla stessa produzione, ma anche alle pre- e post-produzione, ed è

appunto grazie al complesso dei suoi apporti creativi, aggiunti alle sue funzioni di controllo e di

coordinamento, che egli appare agli spettatori come l’autore finale dell’opera107.

In Per una verifica del neorealismo Lino Miccichè propone un elenco dei registi più attivi del periodo

(appena) pre-neorealista al fine di illustrare la continuità tra il periodo fascista e il neorealismo108.

Analogamente Alberto Farassino compendia i nomi di diversi registi neorealisti per illustrare

l’autorialità associata alla professione di regista, e la rilevanza professionale associata al mero nome

dell’individuo. Anche in Muscio viene descritta la fase matura del neorealismo mediante una lista di

personalità importanti, benché il catalogo proposto riguardi soltanto gli sceneggiatori: ovviamente è

una conseguenza dell’impostazione del suo lavoro, ma allo stesso tempo dimostra che è possibile

ricostruire la storia del neorealismo per mezzo degli sceneggiatori, anziché dei registi. La studiosa

accosta ai grandi nomi della prima sezione (Sergio Amidei, Cesare Zavattini, Suso Cecchi d’Amico e

Ennio Flaiano) un elenco degli esordi illustri, a partire dal 1948, tra cui si trovano anche nomi meno

noti: Age e Scarpelli, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, Ennio De Concini, Rodolfo Sonego, e Ugo

Pirro e Franco Solinas109. Il culto della personalità comporta anche un giudizio di valore, e perciò

105 Francesco Bicchieri, 35 millimetri di carta, Salice narrante, consultabile online: http://www.cgsbachelet.org/ ilsalicenarrante/archiviorubriche/35mm_02%20-%20Chi%20e%27%20lo%20sceneggiatore.pdf (ultima verifica: 10-06-2013). 106 Alberto Moravia, Cinema italiano, Recensioni e interventi 1933-1990, a cura di Alberto Pezzotta & Anna Gilardelli, Milano, Bompiani,, 2010, p. 1549. 107 Lorenzo Gangarossa, Guida alla tutela dell’opera cinematografica, Milano, Nyberg, 2005. 108 Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo, cit., pp. 162-163. 109 Giuliana Muscio, Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, cit.

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Farassino ordina i registi secondo la pubblica opinione in tre fasce, dai “grandi” a quelli di minore

importanza – ma non senza criticare in filigrana questa pratica canonizzante:

I veri neorealisti sarebbero solo i grandi neorealisti (Rossellini, Visconti, De Sica e forse ora anche De Santis) mentre i registi della fascia appena inferiore (Castellani, Lattuada, Genina, Soldati, Germi, Zampa ecc.) vengono giudicati neorealisti molto occasionali, o equivoci, o opportunisti e l’accostamento al neorealismo di quelli della fascia ancora un po’ più bassa (Mattoli, Gentilomo, Righelli, Gallone, Bonnard, Ferroni, Bianchi, Borghesio, Francisci, Landi ecc.) non viene neppure osato110.

2.4 Il produttore

Non è usuale considerare il produttore cinematografico come possessore di paternità della pellicola

risultante, ma non va neanche messo in disparte rispetto alla questione dell’autorialità. Nella nostra

cultura il diritto d’autore deriva dall’atto di creazione artistica, mentre al produttore vengono

associati esclusivamente valori commerciali ed economici. In Polonia, ma anche negli Stati Uniti e in

Gran Bretagna, e in altri paesi di influenza anglosassone, invece soltanto e specificamente il

produttore viene riconosciuto come autore del film111. La funzione primaria del produttore è

appunto quello di finanziatore del prodotto cinematografico, anche se questo compito comporta

indirettamente anche una scelta artistica: ovvero collaborare strettamente con il regista per

concordare il soggetto e la sceneggiatura. Comunque il retroterra e gli interessi del produttore

rimangono sempre principalmente economici e non creativi, ed è proprio in ragione di questa

diversa impostazione che la nozione di autore pare meno adeguata per il produttore.

Non a caso gli intellettuali hanno sempre nutrito critica e disprezzo nei confronti dei produttori

italiani perché colpevoli di coltivare l’opposizione tra industria versus arte, ovvero, nella

classificazione suggerita da Zavattini, tra “l’impresa economico-industriale” e “l’espressione di una

civiltà e cultura nazionali”112. Nemmeno il padre del neorealismo assume una posizione moderata

rispetto all’egemonia dei produttori. Nel suo “grido d’allarme” del 1945, li accusa dell’imminente

disastro del cinematografo. Secondo Zavattini i produttori hanno infatti fallito dal punto di vista

morale e artistico perché guidati unicamente dalla loro natura affarista e capitalista, così da

risultare “privi di intelligenza, ma anche di amor patrio”113. La questione dell’autore oltrepassa

110 Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, cit., p. 210. 111 Lorenzo Gangarossa, Guida alla tutela dell’opera cinematografica, cit., p. 184. 112 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 86. 113 Cesare Zavattini, Poesia, solo affare del cinema italiano, cit., p. 91-93.

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quindi i limiti del dibattito meramente teorico e oggettivo, ma assume proporzioni più vaste,

persino poetiche e morali.

2.5 Gli attori

Nel 1926 compare su “ Il Tevere” un articolo, quasi un manifesto a favore della sceneggiatura, che

contiene la seguente divisione del lavoro:

Secondo una buona sceneggiatura, artisti e direttori di scena, attori ed operatori non dovranno avere altro compito che quello di seguire minutamente quanto dalla sceneggiatura stessa è minutamente indicato e fissato114.

La gran parte dei critici, contemporanei al neorealismo e attuali, adottano invece un’angolatura

dissimile a quella della sceneggiatura ideale. Luchino Visconti dichiara di essersi appassionato al

lavoro con gli attori, in conseguenza del potere di creare “uomini nuovi” con il “materiale umano”

dell’attore, sino a dar vita ad una nuova realtà115. Un simile riconoscimento degli attori prende

spunto dal contributo interpretativo e dal valore artistico-esecutivo che vengono loro associati116,

cosicché anche questi interpreti contribuiscono al processo creativo del film e ottengono, per questa

ragione, una sorta di autorialità parziale.

Contemporaneamente al rafforzamento della posizione del regista, si afferma l’impiego dell’attore

non professionista. Questo procedimento non è interamente nuovo; già dagli anni Venti agli anni

Quaranta i registi del cinema d’arte europeo ricorrono talvolta ad interpreti “dilettanti” poiché

vedono l’attore come un ostacolo, come un “materiale costruttivo” e non come un artista. Il non-

professionista, secondo questi cineasti, non è così influenzato dalla recitazione teatrale, e si colloca a

metà fra il cinema e la realtà117. Un ulteriore problema, di stretta pertinenza dei registi neorealisti, è

quello che gli attori disponibili ad incarnare i valori della società del dopoguerra, sono gli stessi che

fino ad allora avevano rappresentato le ideali nel cinematografo fascista118. Il cineasta neorealista

combina spesso attori “presi dalla strada” con recitanti professionisti, allo scopo di raggiungere

114 Il grande concorso del “Tevere” per un film italiano, “Il Tevere”, 22 luglio 1926, p. 3. Citato in Mariapia Comand, Carta canta, cit., p. 16 [corsivi nostri]. 115 Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, “Cinema”, anno VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, 108-109. Anche in: Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 84-85. 116 Gangarossa Lorenzo, Guida alla tutela dell’opera cinematografica, cit. 117 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 31. 118 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2.: Dal 1945 ai giorni nostri, cit.

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l’equilibrio perfetto, rispettivamente, tra verità e competenza119. Il risultato è un’ “amalgama” –

secondo il termine adottato da André Bazin - di attori reclutati per strada e personalità che poi

diventeranno divi: caso esemplare di questo progetto è Roma città aperta (1945) di Rossellini, che

vede la fortunata partecipazione di Anna Magnani120. Il divo e la diva italiani, analogamente allo star

system hollywoodiano, trovano spesso la loro origine in attori non professionisti, stando alla teoria

dell’autodistruzione dell’interprete non professionista di André Bazin (cfr. 2.2.2.).

119 Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 31. 120 André Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della liberazione, in: Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1986. Anche in: Paolo Noto & Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 101-113.

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Parte 2 L’autore-cineasta a confronto con

l’autore- scrittore

Dopo un primo capitolo in cui sono chiarite e precisate le nozioni preliminari per lo studio della

creazione di un’opera cinematografica (il soggetto, la scaletta, la sinossi, il trattamento e la

sceneggiatura), abbiamo allargato la prospettiva mediante una rassegna storica incentrata

sull’attribuzione dell’autorialità alle diverse professioni cinematografiche. I ruoli centrali nel

processo creativo individuati sono il soggettista, lo sceneggiatore (anche riscontrabili nel plurale) e

il regista; ma anche il produttore e gli attori contribuiscono artisticamente al prodotto finale.

Possiamo concludere che l’importanza accordata agli incarichi in questione cambia col passare del

tempo, ovvero con l’alternanza dei paradigmi culturali vigenti, come avviene con il neorealismo e la

nouvelle vague, che fanno assumere un valore particolare.

Nella seconda parte dell’analisi spostiamo l’attenzione dall’autorialità nel cinema in senso stretto, al

crocevia tra cinema e letteratura. Gli studi incentrati sull’influenza della letteratura sul cinema sono

numerosi, e di conseguenza è anche aumentata l’interesse per la saggistica con punto di partenza

invertito, o, soprattutto, con attenzione alla bidirezionalità del rapporto tra le due arti. Nel primo

capitolo di questa parte trattiamo della legittimità del confronto dell’autorialità nel cinema e nella

letteratura. Il punto di partenza viene fornito dai saggi e dalle monografie sull’interazione tra

cinema e letteratura, e poi passiamo all’analisi del genere specifico dell’adattamento

cinematografico. Il quadro viene completato, da un lato, con le teorie dell’unità delle arti, e dall’altro

lato con la posizione teorica opposta, che propugna l’autonomia della cinematografia.

Il secondo capitolo verte sulla riflessione teorica incentrata sull’autore di un’opera letteraria.

L’applicazione del concetto di paternità artistica è di per sé meno problematico, visto che la

scrittura romanzesca di regola non è un lavoro di gruppo (tranne magari alcuni casi specifici, tra cui

il collettivo Wu Ming, o gli scrittori di romanzi rosa o pulp). Comunque l’autore ha sempre occupato

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30

una posizione centrale nella critica letteraria, ed è l’elemento cardinale di una delle quattro

poetiche secondo M.H. Abrams1. Per questa ragione aggiungiamo le osservazioni fondamentali di

Roland Barthes, secondo il quale l’autore viene scalzato dal piedistallo – non dalla parte di Barthes

stesso però, ma piuttosto dal testo, o dalla funzione dell’autore nel testo stesso. Inoltre le idee di

Wimsatt & Beardsley sull’intenzione autoriale vengono riportate, e anche il lavoro critico-

cumulativo di Séan Burke è vitale per uno studio sull’evoluzione dell’autorialità in letteratura.

La questione dell’autorialità nel cinema rispetto al medesimo concetto nella letteratura, viene

approfondita ulteriormente nel terzo capitolo. L’ottica dei letterati che si sono prestati al cinema, e

più specificamente l’analisi delle poetiche letterarie e cinematografiche di Alberto Moravia e Pier

Paolo Pasolini, serve a gettare ponti tra i due media, connessi, ma pur sempre separati.

Particolarmente in questo ultimo capitolo si trova il suo culmine la prospettiva comparativa

adottata nella presente tesi, visto che ambedue le personalità citate incarnano le qualità sia

dell’autore cinematografico, sia dell’autore letterario. Il modo di procedere che seguiamo addensa le

osservazioni teoriche, collocandosi di più sul piano concreto, corrispondente all’intento di J. Dudley

Andrew. Egli difende i case study opponendosi alle generalizzazioni dichiarando: “It will no longer do

to let theorists settle things with a priori arguments. We need to study the films themselves as acts

of discourse.2”

Capitolo 1 L’autorialità nel cinema e nella letteratura: un confronto legittimo?

Qualunque medium, proprio in quanto nuovo, ha bisogno, per essere compreso e usato, di appoggiarsi alle regole che governano i media che l’hanno preceduto, trasformandole e ricombinandole in maniera più o meno originale e trasparente, ma comunque sempre attingendo abbondantemente al passato3.

1 M.H. Abrams, The mirror and the lamp. Romantic theory and the critical tradition, Oxford, Oxford University Press, 1953. 2 J. Dudley Andrew, Concepts in film theory, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 106. 3 Giovanna Cosenza, Semiotica dei nuovi media, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 9.

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In queste parole Giovanna Cosenza offre la spiegazione storica delle ragioni per cui il cinema si è

rivolto alla letteratura, il che è risultato non solo di una capacità molto maggiore e molto più

raffinata di esprimere narrazione, ma contrassegna pure l’inizio di uno scambio bidirezionale tra

letteratura e cinema. Presto però la letteratura non funziona più soltanto come fonte di trame

ottocentesche ben scritte, ma anche come incentivo all’esperimento. Ed è esattamente questo

apporto che caratterizza il contributo del cinema alla letteratura: l’integrazione di procedimenti che

non si limitano meramente agli elementi narratologici.

Sulla stessa scia Manzoli individua due modi diversi per affrontare il rapporto tra cinema e

letteratura: la strada convenzionale dell’analisi circoscritta al livello del testo, trascurando lo stile, il

linguaggio e le finalità specifiche del medium cinematografico4. Questo primo approccio si limita

spesso ad una critica delle varianti, in contrasto con la seconda proposta, la quale permette di

“indagare la natura stessa dei due mezzi”5. Oltre al fatto che il secondo approccio è più incentrato

sulla dinamicità della relazione tra cinema e letteratura, uno dei grandi vantaggi è anche il focus

sull’influsso dei nuovi media sulla cultura odierna.

Attualmente il panorama culturale è sempre di più caratterizzabile come una “rete intermediale”,

nelle parole di Manzoli6, o come una “cultura convergente”, nella terminologia di Henry Jenkins7.

Questi neologismi si pongono tuttavia direttamente nella tradizione di Michail Bachtin e la nozione

fondamentale del dialogismo8; di Julia Kristeva, che ha introdotto il concetto di intertestualità9; di

Barthes che riconosce che ‘[o]gni testo è un intertesto”10 (cfr. 1.3.); di Genette che riflette sulla

tassonomia della citazione11, e di tanti altri, per infine arrivare all’opera di Irina O. Rajewski, di cui

trattiamo più avanti in questo capitolo. Sia l’approccio più tradizionale, sia quello più dinamico,

riconoscono nell’adattamento cinematografico il caso prototipico per studiare lo scambio tra

cinematografia e letteratura.

4 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit. 5 Ivi, p. 9. 6 Ivi, p. 10. 7 Henry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007. 8 Mikhail Mikhailovich Bachtin, The dialogic imagination: Four essays, Austin, University of Texas Press, 1981. 9 Julia Kristeva, Semeiotike: recherches pour une sémanalyse: extraits, Parigi, Seuil, 1969. 10 Roland Barthes, Scritti. Società, testo, comunicazione, a cura di Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi, 1998, p. 235. 11 Gérard Genette, Palinsesti, Torino, Einaudi, 1997.

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1.1. L’adattamento cinematografico

La sceneggiatura è per definizione una forma intermedia tra il visivo e il testuale: abbiamo già

accennato ai discorsi di Comand e Tinazzi, ricordando Pasolini e Flaiano, a questo proposito (cfr.

1.1.3.). Stando a Manzoli la sceneggiatura illustra persino il modo in cui anche la letteratura “ruba”

dal cinema: gli sceneggiatori riadattano segni del codice cinematografico alle proprie necessità, per

poi restituirli al cinema mediante il regista12. Anche Pasolini sostiene che in questa particolare forma

di scrittura si evidenzia l’influsso del cinema sulla letteratura: egli mette in rilievo che la

sceneggiatura è una forma letteraria elaborata specificamente in funzione della realizzazione di film

(cfr. capitolo 3)13. Come detto, l’argomento privilegiato del paradigma conservativo (studi

dell’influenza della letteratura sul cinema) nonché del paradigma moderno (studi dell’interazione

tra i due media) è l’adattamento di un testo letterario per il medium cinematografico: un fenomeno

che comporta anche delle ripercussioni importanti per l’autorialità dell’opera.

Un buono punto di partenza per la descrizione e la tassonomia dell’adattamento viene fornito da

André Gaudreault, e specie Thierry Groensteen. La definizione proposta è “il processo di traslazione

con cui si crea un’opera O2 a partire da un’opera O1 preesistente, laddove O2 non utilizza, o non

utilizza solamente, le stesse materie dell’espressione di O1”14. Groensteen riconduce il procedimento

ai fenomeni più generali di trasmutazione, nozione introdotta da Jakobson, e trascrittura, ma

aggiunge tre fattori macroscopici che sono propri dell’adattamento e indispensabili alla sua analisi.

Le variazioni tra l’opera risultante e l’opera originale sono, secondo Groensteen, soprattutto dovuti

alla soggettività dei due autori differenti, al passaggio a un medium (o discorso, cfr. infra) diverso, e

infine alle condizioni psicologiche legate al contesto mediatico stesso (anziché allo spettatore o al

lettore concreti)15. Sempre partendo da una visione ampia il teorico, d’altronde specializzato nel

terreno del fumetto, individua una caratteristica, chiamata adaptogénie, che può esser intesa come

una qualità intrinseca di certe opere che suscitano un gran numero di adattamenti16.

Secondo Paul Ricœur l’adattare consiste di due tipi di procedimenti: quelli che comportano una

trasformazione scritturale, e quelli che riguardano la messinscena cinematografica17. Sia Giacomo

Manzoli, sia Fabio Rossi offrono una tipologia per classificare i diverse tipi di adattamento e e la 12 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit. 13 Pier Paolo Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, cit. 14 André Gaudreault & Thierry Groensteen, La Transécriture. Pour une théorie de l’adaptation, Québec/Angoulême, Nota Bene/Centre national de la bande dessinée et de l’image, 1998, p. 273. 15 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit., p 89. 16 Ivi, p. 90-91. 17 Paul Ricœur, Perché così tante storie?, introduzione a: Frédéric Sabouraud, L’adattamento cinematografico, Torino, Lindau, 2007.

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riflessione di Marcus chiarisce i rapporti tra le diverse posizioni teoriche. Dopo una suddivisione

iniziale tra quattro angolature diverse (letteratura nel cinema, cinema nella letteratura, cinema

tratto dalla letteratura e letteratura tratta dal cinema), Rossi procede alla classificazione dei film

tratti da opere letterarie18. Dal travaso più fedele a quello più libero, possono essere distinte quattro

differenti modalità: mimesi, riduzione-adattamento, radicale trasformazione e parodia. Essenziale

però è la postilla critica aggiunta, in cui Rossi sostiene che secondo la maggioranza dei critici il film

e la sua ispirazione letteraria vanno valutati indipendentemente, il che porta alla conclusione che la

“questione della fedeltà” risulta una prospettiva inadatta19.

Anche secondo John Ellis, professore delle arti mediatici in Gran Bretagna, l’ottica della fedeltà

introduce un “falso problema”, nelle parole di Rossi20. Ellis scopre la complessità e la problematicità

di questo tipo di studi già dalla domanda preliminare: invece di analizzare in che modo l’opera

cinematografica sia fedele (o infedele) all’impulso letterario, egli sposta l’interesse al nucleo di

questo rapporto: rispetto a che cosa l’adattamento può esser considerato fedele21? Centrale

nell’argomentazione si trova l’idea che nel testo risultante residua solo la “memory” del testo

originale22. L’innovazione di questo approccio si situa infatti nell’importanza accordata al contesto

storico e culturale, nonché alla ricezione personale dalla parte del lettore del testo, il quale

diventerà a sua volta anche autore. Ellis conclude che l’adattamento cinematografico può solo

riscuotere successo se riesce a cancellare e a sostituire la memoria antecedente.

La problematizzazione dell’analisi della fedeltà riceve anche una posizione centrale nella riflessione

di Millicent Marcus stessa. Secondo la critica americana l’analisi della fedeltà non comprova

nient’altro che il gusto personale del critico in questione, poiché l’analisi parte inevitabilmente

dall’interpretazione soggettiva e ad hoc del critico che si ritiene autorizzato a valutare l’accettabilità

dell’adattamento. Per sviluppare la sua teoria dell’adattamento, Marcus si riferisce al dibattito sulla

distinzione tra storia e discorso, ovvero tra il livello della diegesi e il livello del medium di

espressione23. La polemica da origine a una bipartizione dei critici: i sostenitori della separabilità

assumono che esista un “codice universale di narratività”, mentre gli oppositori sostengono che la

significazione è inscindibilmente legata alla realizzazione concreta. Si potrebbe vedere questo

18 Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, cit. 19 Ivi, p. 101. 20 Ibidem. 21 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 16. 22 John Ellis, The literary adaptation: an introduction, “Screen”, 23, 1 (maggio/giugno) 1982, pp. 3-5. 23 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit.

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dibattito come una continuazione strutturalista della distinzione tra il signifiant e il signifié, operato

dal linguista e semiologo Ferdinand de Saussure24.

La posizione presa da Marcus medesima si situa fra i due estremi, perché la sua soluzione trova le

sue basi nel principio dell’indecidibilità: ella propone di considerare la separazione storia/discorso

alla stregua di un’opposizione tra produzione e ricezione. Più precisamente Marcus sostiene che la

distinzione è solo sostenibile per quanto riguarda la strategia dell’autore (degli autori) del film,

mentre una tale consapevolezza non è presente – e neanche richiesta – dal pubblico. In questa sede

ci concentriamo sull’aspetto produttivo, visto che è sempre l’autore dell’opera creativa che si trova

al centro della presente tesi.

La conversione di un testo (prevalentemente) diegetico (letterario) in un testo mimetico

(cinematografico) che deve esser svolta dall’adattatore, comporta sempre, secondo Marcus, un atto

interpretativo duplice. Il procedimento creativo presuppone la distinzione storia/discorso: nella

prima fase il cineasta induce (nel senso filosofico) un’idea preliminare dal testo letterario, per poi

poter dedurne una struttura adatta al medium cinematografico25. Prendendo spunto dalla

separabilità di storia e discorso, e dalla conseguenza produttiva appena citata, Marcus propone un

modello triangolare, il quale dimostra come il rapporto tra l’opera letteraria e il suo travaso

cinematografico non sia rettilineo, essendo investito da un processo di decomposizione e

ricomposizione:

I movimenti induttivi e deduttivi compresi nella rappresentazione geometrica confutano il biasimo

racchiuso nelle ipotesi di parecchi critici, che riprovano l’adattamento a causa di una presupposta

mancanza di originalità. Lo schema triangolare tenta, al contrario, di raffigurare il fatto che anche la

realizzazione di un film ‘tratto’ da un’opera letteraria è una forma di re-writing, di scrittura in senso

dinamico26. Ciò funziona come fondamento della teoria di Marcus sulla paternità dell’adattamento.

L’immagine dell’autore della trasposizione risultante è una personalità creativa che sperimenta con

le confini del medium cinematografico.

24 Ferdinand De Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi, Payot, 1995 (prima edizione 1916). 25 Millicent Marcus, Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 15. 26 Ibidem.

libro film

Rappresentazione visuale prendendo spunto da Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 15.

storia

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D’altro canto comunque, la critica osserva che in pratica i cineasti che si avvalgono di ispirazione

letterario, lo dichiarano con prudenza, e quasi difendendosi. La differenza tra questo atteggiamento,

che si esterna nella scelta di testi famosi, ma non sacri e inviolabili, spesso da autori deceduti27, e

l’attitudine dominante della critica è senz’altro considerevole. Questa divergenza secondo noi prova

dunque la discrepanza tra teoria, ossia la posizione degli esperti, e la pratica, ossia l’interpretazione

del pubblico – che influisce a sua volta di nuovo sull’autore.

Anche il ragionamento di Manzoli è affine alla riflessione di Rossi, di Ellis e di Marcus sulla questione

della fedeltà: prima di elaborare una tripartizione dichiara in parole chiare e schiette sulla fedeltà

dell’adattamento cinematografico:

Crediamo sia ormai chiaro che il partito preso di una fedeltà assoluto, pedissequa e alla lettera è destinato a perdere in partenza. Ammesso che sia possibile perseguirlo, esso partorirebbe un mostro […]28

Proseguendo verso la trasposizione cinematografica più fedele, separa il film piuttosto libero dal suo

predecessore, dal film ‘tratto da’, per arrivare infine alla categoria della fedeltà assoluta29. Manzoli

chiama quest’ultima classe un obiettivo utopico, che potrebbe solo essere raggiunto nell’ambito

dell’intermedialità, concetto ideato da Irina O. Rajewski, che abbiamo già anticipato parecchie volte.

Come esempio viene citato Teorema di Pier Paolo Pasolini, romanzo e film contemporaneamente nati

nel 1968. Manzoli aggiunge però che si potrebbe argomentare che opere concepite nell’atmosfera

dell’intermedialità hanno una natura diversa da quelle che vengono trasferite da un medium

all’altro, considerando la loro reciproca separazione.

1.2. Due estremi teorici

Già dall’esposizione sintetica della riflessione teorica attorno all’adattamento cinematografico di

un’opera letteraria è emersa l’esistenza di due posizioni estreme e quasi inconciliabili: da un lato i

critici che analizzano la fedeltà del travaso cinematografico rispetto all’opera originale, e dall’altro

coloro che considerano i due testi come indipendenti. La distinzione tra storia e discorso crea

comunque la possibilità di avvicinare questi due estremi, permettendo anche l’assunzione di

posizioni intermedie. L’opposizione approfondita nella sezione 1.1. può esser allargata alle due

27 Ivi, p. 12. 28 Giacomo Manzoli, Cinema e letteratura, cit., p. 70. 29 Ivi, p. 74.

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prospettive che saranno al centro dei paragrafi seguenti: l’autonomia contrapposta all’unità delle

arti, sempre con specifica attenzione per la cinematografia.

1.2.1. L’autonomia del discorso cinematografico

La distinzione tra storia e discorso, che abbiamo appena affrontata, viene integralmente negata dalla

prima personalità critica che assume un’importanza centrale in questo paragrafo: Fausto

Montesanti. Nell’articolo Della ispirazione cinematografica, pubblicato su “Cinema” nel 1941, egli

argomenta che una tale separazione analitica è impossibile, visto che la narratività non può esser

studiata indipendentemente dall’espressione artistica 30. Per Montesanti l’adattamento

cinematografico non è una forma di écriture equivalente alla creazione del libro-modello. Perciò egli

può esser considerato un “purista cinematografico”, perché dal suo punto di vista l’interazione tra

cinema e le altre arti è piuttosto una forma di contaminazione invece che un valore aggiunto. La

trasposizione cinematografica, stando a Montesanti, riduce il cinema non solo ad uno status inferiore

rispetto alla letteratura, ma persino a un “repository of recycled stories”31.

Egli non esclude comunque la possibile presenza di richiami letterari, ma contemporaneamente

traccia una linea di confine tra l’artista e la critica: solo per quest’ultima il riconoscimento di una

specie di intertestualità può assumere rilevanza32. Invece di una distinzione tra storia discorso,

possiamo dunque dedurre una separazione tra produzione artistica e ricezione critica. Nel suo

ragionamento rivolto specificamente all’adattamento, Montesanti si sottrae ai paralleli tra

letteratura e cinema dichiarando che il film “trascende” a priori la fonte letteraria. Proprio a questo

punto si situa la contraddizione interna alla riflessione montesantiana, che viene rivelata da Marcus.

Da un lato, infatti, Montesanti riconosce il valore artistico che certi adattamenti possono riscuotere,

mentre dall’altro lato insiste risolutamente sull’inconciliabilità di due media diversi. Si potrebbe

valutare questa posizione doppia di Montesanti come un raffinamento del suo atteggiamento

polarizzato, però Marcus chiarisce che la negazione della distinzione tra storia e discorso comporta

un diniego dell’esistenza stessa dell’adattamento. Perciò l’ambivalenza nella teoria del Montesanti

viene in definitiva interpretata come una inconsistenza.

Seguendo un ordine cronologico, dopo la pubblicazione delle ipotesi polemiche di Montesanti su

“Cinema”, spostiamo il focus al teorico centrale del neorealismo, Cesare Zavattini (cfr. 2.2.2., 2.3. e

30 Fausto Montesanti, Della ispirazione cinematografica, “Cinema”, 10 novembre 1941, p. 281. Citato in Millicent Marcus, Italian film in the light of Neorealism, Princeton, Princeton University Press, 1986. 31 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 8. 32 Ivi.

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2.4.). Nel saggio Alcune idee sul cinema, pubblicato nel 1952, Zavattini espone la “poetica

dell’immediatezza”, legata al suo ideale cinematografico – irraggiungibile? – del film composto da

“novanta minuti consecutivi della vita di un uomo” 33. A causa delle connotazioni collocate nel

campo semantico dell’artificio e dell’immaginazione, la storia, lo si è detto, riceve un valore

ambivalente – se non negativo – nella riflessione zavattiniana:

La caratteristica più importante e la più importante novità del neorealismo mi sembra perciò che sia quella di essersi accorti che la necessità della “storia” non era altro che un modo inconscio di mascherare una nostra sconfitta umana e che l’immaginazione, così come era esercitata, non faceva altro che sovrapporre degli schemi morti a dei fatti sociali vivi34.

Nelle pagine di questo saggio Zavattini confuta l’associazione di “noia” agli eventi quotidiani,

argomentando che lo spettacolo può anche esser racchiuso nella realtà (immediata): “dateci un fatto

e noi lo sviseremo fino a riuscire a trasformarlo in spettacolo”35. La decifrazione del termine

“antinarratività” risulta, secondo noi, più problematico. Da un lato è indiscutibile che Zavattini mira

a una “storylessness”36, a vantaggio di una rappresentazione più naturale della quotidianità, ma

dall’altro lato vuole sempre raccontare qualcosa. Non una successione veloce di eventi, ma solo un

piccolo fatto, analizzandolo e scomponendolo cosicché ne risulta un film di due ore37. Questo

“contenuto” che viene sempre espresso, serve comunque specialmente allo scopo morale di

suscitare “l’attenzione sociale”.

Relativo al rapporto con la letteratura, Marcus rivela una “militanza antiletteraria”, nel senso che

Zavattini diffida della struttura morta e spuria della storia. La critica americana rivela comunque un

procedimento che si verifica sempre nella sua forma mentis: dopo aver postulato un’affermazione

risoluta, la attenua parzialmente38. Dalla lettura di Alcune idee sul cinema (1952) deduciamoche

l’attitudine di Zavattini riguardo all’adattamento, o riguardo alla letteratura, rientra in un quadro

complessivo del film confrontato a tutto ciò che è extra-cinematografico. Zavattini spiega

l’asserzione che “il cinema non deve ripetere” facendo riferimento al soggetto cinematografico che

è “una ‘storia’ pensata prima”39 , ma questo non allude soltanto all’adattamento di un’opera

letteraria, bensì può più in generale anche riferirsi a ogni testo elaborato prima delle riprese, e

dunque ad ogni soggetto o sceneggiatura.

33 Cesare Zavattini, Alcune idee sul cinema, in: .Idem, Cinema. Diario cinematografico, neorealismo, ecc., Valentino Fortichiari e Mino Argentieri (a cura di), Milano, Bompiani, 2002, pp. 718-736. 34 Ivi, p. 718. 35 Ivi, p. 720. 36 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 5. 37 Ivi, p. 729. 38 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit. 39 Cesare Zavattini, Alcune idee sul cinema, cit., p. 729.

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Questa precisazione ci pare appropriata, visto che Zavattini torna al medesimo argomento

discutendo le fasi di creazione di un’opera cinematografica. Le sue affermazioni sull’abolizione dello

sceneggiatore sono spesso citate (e a buon titolo): Zavattini dichiara letteralmente che “[l]o

sceneggiatore e il soggettista dovrebbero scomparire”40. Tuttavia, secondo noi, il nodo della

questione si situa nella parte successiva della frase: “si dovrebbe arrivare all’autore unico”41. Non si

tratta dunque di una specifica svalutazione della funzione del soggettista o dello sceneggiatore, ma

piuttosto di un’aspirazione a un processo creativo in cui tutto è connesso, e, di conseguenza, tutto è

possibile, poiché “[s]oggetto, sceneggiatura, regia non dovrebbero essere tre fasi distinte”42. Stando

a Zavattini, realizzare un film in collaborazione è possibile, ma “c’è sempre qualcuno che fa l’atto

creativo decisivo”, ovvero: ci sarà sempre un unico autore finale.

1.2.2. L’unità delle arti

Un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei paladini della purezza cinematografica, può

esser riscontrato negli articoli di Giuseppe De Santis e Mario Alicata. Non a caso questo paragrafo

inizia con un riferimento a questa coppia: De Santis e Alicata erano coinvolti nella polemica con

Fausto Montesanti, in cui quest’ultimo ha delucidato e motivato la propria posizione teorica, che

abbiamo appena esposta. Mentre Montesanti, Zavattini e parecchi altri critici combattono per un

cinema capace di ottenere autonomamente valore artistico, le ricerche di De Santis e Alicata li

portano alla conclusione che il migliore del cinema italiano è sempre stato influenzato dalle

tecniche e dalle tematiche della letteratura43.

Il loro atteggiamento positivo rispetto all’adattamento non significa però che il panorama

cinematografico contemporaneo non dovrebbe subire cambiamenti. Nell’articolo Verità e poesia:

Verga e il cinema italiano (1941)44 esemplificano il valore che la letteratura verista verghiana potrebbe

aggiungere al cinema italiano finora troppo borghese45. Il secondo articolo di loro mano

appartenente al medesimo dibattito, intitolato Ancora di Verga e del cinema italiano (1941)46, esprime

40 Ivi, p. 732. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit. 44 Mario Alicata & Giuseppe De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano (1941), in: Sergio Toffetti (a cura di), Rosso fuoco: II cinema di Giuseppe De Santis, Torino, Lindau, 1996, pp. 273-276. 45 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, p. 7. 46 Mario Alicata & Giuseppe De Santis, Ancora di Verga e del cinema italiano, “Cinema”, n. 130, 25 novembre 1941, pp. 314-315.

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un ulteriore e più attinente passo verso il secondo estremo teorico che vogliamo presentare e

commentare: l’unità delle arti. Allo scopo di confutare le tesi di Montesanti partono anche loro dalla

distinzione tra storia e discorso (cfr. 1.1.), cosicché sono in grado di proporre Verga come modello

aulico (per la storia), ma allo stesso tempo lasciano intatta la libertà espressiva (del discorso)47. È

appunto il problema della libertà artistica che rende l’opposizione tra gli autonomisti e gli unitaristi

così spinosa, e perciò la separazione tra storia e discorso diviene estremamente utile e pertinente.

De Santis e Alicata specificano la loro visione sulle arti e considerano l’ispirazione letteraria come

segue:

a given use of the categories of space and time, that is not only of literature, nor particularly of the novel… but can be usefully applied to define the needs and the results of a given painting style... and therefore especially of the cinema, in which a similar narrative element, with only a few exceptions, is always present and essential48. (corsivi nostri)

In questa citazione si può riconoscere quasi letteralmente il punto di vista adottato da Ricciotto

Canudo, già nel 1921. Benché i suoi contributi cadano al di fuori dai limiti temporali prefissati per la

presente tesi, riteniamo che la sua attività critica attorno a questo argomento rimanga attuale anche

oggi, e per questo la presentiamo brevemente. Il saggio L’estetica della Settima Arte è per certi versi

una sollecitazione al riconoscimento del cinema come arte, con il suo proprio “sistema”, una

“concezione unitaria” o, brevemente, un’estetica49.

Il testo è in primo luogo una difesa retorica del cinema, e in questo senso anche un richiamo

all’autonomia di questa disciplina artistica, soprattutto rispetto al teatro. “Non cerchiamo analogie

tra il Cinema e il Teatro. Non ve n’è nessuna” e “Se esiste una parentela fra Teatro e Cinema, è quella,

già indicata, che lo colloca tra gli altri spettacoli”. Tali frasi esemplificano il suo atteggiamento

sfavorevole riguardo al teatro, che egli distingue dall’Arte Cinematografica (con maiuscole) 50. Per

altri versi, invece, Canudo sottolinea invece la connessione tra il cinema e le sei altre arti. Spiega che

due di queste sei arti funzionano come i punti focali di un’elissi; più specificamente è l’architettura

che ingloba la pittura e la scultura, mentre la poesia e la danza sono inglobate dalla musica. Il

cinema, poi, riassume tutte queste arti, cosicché può esser definito “Arte plastica in movimento”51. È

quest’ultima definizione che ci permette di instaurare il legame con le citate parole di De Santis e

47 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, p. 9. 48 Mario Alicata & Giuseppe De Santis, Ancora di Verga e del cinema italiano, cit. Citato in: Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, p. 9. 49 Ricciotto Canudo, L’estetica della Settima Arte (1921), in: Guido Aristarco (a cura di), Teorici del film da Tille ad Arnheim, Torino, Celid, 1979, pp. 46-59. 50 Ivi, p. 49. 51 Ivi, p. 50.

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Alicata. Canudo circoscrive il cinematografo come il “Dramma Visivo”, che è la fusione tra le Arti

plastiche e le Arti ritmiche, e tra la Scienza e l’Arte52.

Il gruppo Cinegramma (Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti) segna un vero rilancio delle idee di

Canudo nel cinema del neorealismo, che secondo questi critici si esterna in “una totalità culturale”53.

Conformemente alle concezioni espresse da Canudo negli anni Venti, anche nel dopoguerra italiano

si può quindi osservare un’unione tra cinema, filosofia, letteratura e le altre arti. Cinegramma vi

aggiunge un’ulteriore nozione di specificità: la “totalità mediologica”, che comprende, oltre al

cinema, la radio, il rotocalco e persino la televisione. Tutti questi mezzi di comunicazione appena

affermati caratterizzano, stando a Casetti et al., il cinema neorealista come “una totalità eterogenea

di più media”54. Inoltre il gruppo ipotizza che nel neorealismo si verifica un clima intermediologico,

piuttosto che una sintesi della arti. Quest’ultimo termine, che sarebbe più vicino alla concezione del

panorama artistico della parte di Canudo, si riferirebbe ai media tradizionali (come la pittura e la

musica, cfr. supra), mentre i canali importanti per il periodo neorealistico sono specialmente i media

della registrazione55.

Per trovare una definizione disambiguante del termine “intermedialità”, ci si dovrebbe poi rivolgere

all’opera di Irina O. Rajewski. Nel saggio Intermediality, intertextuality and remediation: a literary

perspective on intermediality (2005) ella offre non solo una definizione originale per l’adozione

appropriata della nozione, ma anche una sintesi ben delineata delle diverse interpretazioni nel corso

degli anni56. Anche Rajewski afferma che il concetto di intermedialità non è una novità teorica nata

insieme con i nuovi media, ma una nozione che ha invece le sue radici nella lunga tradizione degli

interarts studies. Nell’articolo viene spiegata da una parte la generalità del termine, che nel senso più

ampio ricopre tutti i fenomeni legati a un attraversamento delle frontiere tra i media, mentre,

dall’altra, una seconda e più specifica concezione del termine si riferisce alle manifestazioni proprie

dell’intermedialità57. La tassonomia proposta viene ulteriormente elaborata mediante tre fattori

centrali: Rajewski distingue tra approcci sincronici e diacronici, tra l’intermedialità come condizione

fondamentale o come strumento di analisi concreta, e, infine, mette in evidenza la diversità dei

52 Ivi, 48. 53 Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, cit., p. 193. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Irina O. Rajewski, Intermediality, intertextuality, and remediation: a literary perspective on intermediality, in: Eadem, Intermédialités: histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: history and theory of the arts, literature and Technologies, n. 6, 2995, pp. 43-64. Anche consultabile online : http://www.erudit.org/revue/im/2005/v/n6/1005505ar.pdf (ultima verifica 31-07-2013). 57 Ivi, p. 47.

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paradigmi teorici in cui gli studi rientrano58. Per quanto riguarda la teoria personale di Rajewski, può

essere utilmente introdotta un’ulteriore divisione in tre sottocategorie. La prima categoria è quella

della trasposizione mediale, di cui fa parte l’adattamento sopraccennato, e segue una logica

genetica: una ‘fonte’ viene trasposta in un ‘prodotto’. La seconda categoria si verifica nella

combinazione di due media; in questo caso almeno due forme mediatiche devono presentarsi allo

stesso momento. La terza ed ultima categoria è quella dei riferimenti intermediali, ovvero strategie

tramite le quali certi procedimenti tecnici tipici dell’un medium vengono evocati nell’altro.

L’esempio più chiaro di quest’ultima categoria è l’uso del montaggio o dello zoom nella letteratura, il

che illustra di nuovo il rapporto bidirezionale tra cinema e letteratura.

58 Ivi, pp. 46-49.

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Capitolo 2 Il creatore dell’opera letteraria

Finora abbiamo sempre rivolto lo sguardo all’autore o agli autori di un’opera cinematografica. Il

termine ‘autore’ sollecita tuttavia l’associazione spontanea con il creatore di testi scritti: prosa,

poesia, per estensione anche saggistica e teatro, ma brevemente: letteratura. Nel capitolo

precedente si è esplorato in quale modo e su quali piani il cinema e la letteratura (o anche il cinema

e altri media) possono intersecarsi, e perciò, con queste conoscenze, nel presente capitolo si può

procedere ad una breve analisi dell’autore-scrittore. Continuando sulle conclusioni raggiunte dai

sostenitori dell’unità delle arti, un tale passaggio ci pare utile e stimolante, , perché l’autore-cineasta

e l’autore-scrittore non si situano in due sfere interamente sconnesse. Il crocevia delle due arti, e

specie degli autori attivi nei due ambiti mediatici, entra di nuovo nella questione nel capitolo terzo,

intitolato ‘Letterati prestati al cinema’.

La problematica centrale del concetto di autorialità nel cinema è l’assegnazione del ruolo a un

collaboratore specifico nel processo creativo. Abbiamo visto che l’autorità delle diverse professioni

cambia a secondo del tempo, o più specificamente, a secondo del paradigma culturale in vigore. Dato

che la stesura di un’opera letteraria di regola non coinvolge diversi autori (cfr. supra), i quesiti

concernenti l’autore-scrittore si collocano su altri campi. La sostanza del dibattito verte sulla

posizione centrale o piuttosto periferico dell’autore dell’opera letteraria, riguardo

all’interpretazione critica del testo; anziché sulla possibile assegnazione dello status di autore a

diversi incarichi. Il punto di partenza della critica cinematografica è dunque molto diverso da quello

della critica letteraria. Si può comunque anche riscontrare un punto di convergenza tra le due

discipline: elementi comuni sono non solo il grande divario tra le concezioni dei diversi teorici

all’interno del medesimo settore, ma anche la posizione centrale accordato alla problematica

autoriale in ogni teoria.

2.1. L’intenzione autoriale

Per verificare l’importanza accordata all’autore in una certa teoria letteraria, è sempre utile

ricorrere a The mirror and the lamp di M.H. Abrams (1953). I quattro gruppi in cui suddivide le

poetiche (le teorie mimetiche, pragmatiche, espressive ed oggettive) aiutano a strutturare il campo,

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secondo l’attenzione prestata ai quattro componenti della comunicazione letteraria:

rispettivamente alla realtà, al pubblico, all’autore o al testo stesso59. Ciascuno dei quattro elementi è

presente in un certo grado in ogni testo letterario, ma è evidente che nelle poetiche espressive la

creatività spontanea e l’originalità siano le nozioni più legate all’autore, mentre, per esempio, nella

poetica autonoma (oggettiva) l’immagine connessa all’autore del testo è piuttosto quella del poeta

faber.

Il periodo per eccellenza in cui l’autore viene celebrato come poeta vates è ovviamente il

romanticismo, e di conseguenza ‘romantica’ è diventata l’epiteto della poetica espressiva. Il

medesimo periodo romantico forma anche lo spunto per le ricerche dei new critics Wimsatt &

Beardsley sulla questione dell’autorialità. La corrente della New Criticism60 è nata negli anni Venti in

Gran Bretagna, ma il periodo più fecondo del movimento critico-poetica si situa negli anni della

seconda guerra mondiale e del dopoguerra, negli Stati Uniti (ossia contemporaneamente al

neorealismo cinematografico in Italia). Durante il quarto e il quinto decennio del Novecento, i critici

americani elaborano il metodo della close reading, ovvero della lettura ravvicinata, diffuso nel mondo

grazie all’affermazione del New Criticism nelle università. L’innovazione di questo modo di lettura sta

nell’analisi attenta del testo, e nient’altro del testo: il testo viene visto come un’entità ‘chiusa’, che

può esser spiegata compiutamente senza ricorrere al contesto politico dell’epoca, alle informazioni

biografiche dell’autore, eccetera61.

Quest’ultimo ragionamento ha portato alla denuncia, dalla parte dei critici di questo movimento, di

quattro ‘fallacie’: genetic fallacy, intentional fallacy, affective fallacy e fallacy of communication62. Ognuna

delle fallacie denuncia il ricorso della critica a un elemento extratestuale specifico. In questa sede

trattiamo solo di quelle intenzionale, perché contiene una presa di distanza dall’autore visto come

istanza autorevole nella lettura di un testo. Wimsatt & Beardsley, due critici più marginali nel

movimento americano, analizzano nel saggio The intentional fallacy (1946) il significato

dell’intenzione autoriale e il suo apporto alla critica letteraria63.

59 M.H. Abrams, The mirror and the lamp. Romantic theory and the critical tradition, cit. 60 Movimento critico, il cui nucleo si situa nei paesi anglosassoni tra gli anni 1920 e gli anni 1960, elaborato da critici ( e autori) come T.S. Eliot, I.A. Richards, William Empson (nel Regno Unito) e John Crowe Ransom, Allen Tate, Robert Penn Warren, Cleanth Brooks. 61 Marc Jankovich, The cultural politics of the New Criticism, Cambridge, Cambridge University Press, 1993. 62 Anne Marie Musschoot (con la collaborazione di Jürgen Pieters), Algemene literatuurwetenshchap II, Theoretische literatuurwetenschap, Gent, Universiteit Gent (Docunet), 2012. 63 William K. Wimsatt & Monroe C. Beardsley, The intentional fallacy (1946), in: William K. Wimsatt, The verbal icon. Studies in the meaning of poetry, Lexington, University of Kentucky Press, 1954, pp. 3-18.

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La definizione dell’intenzione (autoriale) proposta dai due critici, corrisponde a “ciò che l’autore ha

inteso”. In una circoscrizione più precisa di questo termine assai vago, aggiungono che l’intenzione

è il progetto nella mente dell’autore, il quale è affine all’attitudine e alle emozioni vissute rispetto al

suo lavoro64. La volontà di ricostruire l’intenzione autoriale è già a priori una domanda vana, secondo

Wimsatt & Beardsley, ma anche secondo persone con un grado di auctoritas più alta. Un esempio di

un tale pensatore, citato dai New Critics, è Socrate, nei dialoghi platonici. Platone scrive che, dopo

aver chiesto a tutti i tipi di poeti il significato dei loro propri lavori, Socrate conclude:

[T]here is hardly a person present who would not have talked better about their poetry than they did themselves. Then I knew that non by wisdom do poets write poetry, but by a sort of genius and inspiration65.

Da questa citazione possiamo dedurre l’immagine dell’autore come poeta vates come spiegazione per

l’incapacità dello scrittore di interpretare la sua opera posteriormente.

Se uno volesse comunque rievocare l’intenzione dello scrittore, sorge un secondo quesito: come si

può scoprire l’ambizione dell’autore? La posizione centrale del testo (e quella periferica della

mimesi, dell’autore e del pubblico) riemerge dalla risposta fornita da Wimsatt & Beardsley: se

l’autore è riuscito a portare l’opera all’esito previsto, sarebbe il testo stesso l’unica possibile

esternazione della sua intenzione. La mira del creatore deve dunque esser cercato nell’atto creativo

stesso66. Legato a questa domanda preliminare è il caso dell’allusione poetica, il quale pare ai due

critici l’illustrazione più importante dell’intenzione autoriale nel senso più astratto. Si discutono

due modi di analizzare l’allusione: in primo luogo ci si potrebbe rivolgere all’autore stesso. Questo

approccio è definito “l’inchiesta biografica o genetica”, ma procura parecchi problemi: è possibile

che l’autore non fornisca una risposta chiarificatore. Nel caso la risposta dell’autore sia

soddisfacente, questa dichiarazione non possiede ancora nessun valore critico o oggettivo (sempre

secondo i New Critics).

Un secondo metodo di studio è “l’analisi o l’esegesi poetica”. Può darsi che neanche questo secondo

approccio rende una risposta decisiva, ma anche se non si raggiunge una conclusione sull’allusione

testuale, si può almeno essere sicuri dell’obiettività e dell’attendibilità dell’analisi. Dalla lettura del

saggio The intonational fallacy di Wimsatt & Beardsley risulta chiaro perché chiamino l’intenzione

autoriale una fallacia: il proposito dello scrittore rimane spesso oscuro, e in caso contrario non

64 William K. Wimsatt & Monroe C. Beardsley, The intentional fallacy, cit., p. 4. 65 Benjamin Jowett (a cura di), Apology, in: Platone, The dialogues of Plato, con un’introduzione di Erich Segal, New York, Bantam Dell, 2006, p. 8. 66 William K. Wimsatt & Monroe C. Beardsley, The intentional fallacy, cit., p.4.

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fornisce una base utilizzabile dalla critica, visto che non è obiettivo, né contiene tanta informazione

quanta è contenuta nel testo stesso.

2.2. La morte dell’autore?

Anche se Wimsatt & Beardsley riducono l’autorevolezza dell’autore su piani specifici, non negano la

sua presenza nel testo: non negano che ci sia un’intenzione autoriale, ma negano la sua rilevanza

per la critica letteraria. Il passo successivo che stiamo annunciando, è ovviamente quello compiuto

da Roland Barthes, nel saggio omonimo al titolo di questa sezione: La morte dell’autore, pubblicato nel

1968. L’attività critica di Barthes è indispensabile per un’analisi dell’autorialità in letteratura, per

varie ragioni: riportiamone due.

Il primo motivo si situa a livello micro, legato al contenuto della presente tesi: invece di proporre e

di confrontare i diversi ruoli capaci di investire il ruolo d’autore, e radicalizza l’attacco all’autore che

era già incominciato in modo limitato da critici come Wimsatt & Beardsley. La presenza dell’autore

non viene soltanto limitato, ma persino annullato, e ciò non accade tramite operazioni di Barthes (o

più in generale: del critico), ma dall’autore e dal testo stessi. Un secondo argomento per il rilievo

accordato a questo saggio, con cui passiamo a livello macro, è che la demolizione del concetto di

autore non ha provocato la sparizione dell’autore nelle poetiche, ma, al contrario, ha dato lo spunto

fondamentale allo sviluppo di un’interpretazione interamente nuova della figura dell’autore, la

quale è quindi sempre rimasta ineludibile.

La domanda capitale posta ne La morte dell’autore è: chi parla? Barthes non apporta una risposta

inequivoca, anzi, la domanda gli porta a ulteriori interrogativi. Il saggista (post)strutturalista opera

una distinzione importante fra l’autore letterario per un verso, e la persona provveduta di una

propria biografia, per l’altro verso (in questo caso fra le due funzioni di Balzac. La domanda

fondamentale non può che rimanere senza risposta, visto che

writing is the destruction of every voice, of every point of origin. Writing is that neutral, composite, oblique space where our subject slips away, the negative where all identity is lost, starting with the very identity of the body writing67.

Nell’attività dello scrivere scompaiono dunque l’identità del lettore nonché dello scrittore. Tuttavia

Barthes non nega i fattori sociologici che sono sempre presenti: afferma che l’écriture è determinata 67 Roland Barthes, The death of the author, in: Idem, Image, music, text, Farrar, Straus & Giroux, 1978. Anche consultabile online: http://www.mediafire.com/view/olerseasbob9lxu/Barthes-+Death+of+the+Author.pdf (ultima verifica 4-08-2013), p. 1.

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sia dalla storia sia dalla sociologia, e una parte notevole della sua attività critica è dedicata ai

paralleli tra le diverse ideologie ed i rispettivi tipi di scrittura68. È dunque solo nel testo stesso che

l’autore distrugge la propria origine: “the author enters his own death, writing begins”69.

Il vacuo restante dopo l’annullamento dell’autore deve essere riempito fino a un certo punto:

elaborando l’esempio della poetica di Mallermé, Barthes asserisce che è la lingua che parla e che la

lingua racchiude sempre un numero di significati molto maggiore rispetto al parlante che la

realizza70. L’attribuzione concreta del testo a un autore impone, stando a Barthes, un limite al testo:

l’opera letteraria diventa chiusa. L’intertestualità, ovvero il “tissue of quotations drawn from the

innumerable centres of culture”71 costituisce comunque una delle nozioni chiave del

poststrutturalismo: l’assegnazione dell’autore e le idee di questa corrente teorica risultano

incompatibili.

La determinazione dell’autore provoca dunque di nuovo problemi che ricoprono una posizione

centrale nella riflessione critica, non solo nel cinema ma anche nella letteratura, benché le

conseguenze sono molto diverse da quelli trattate nella parte 1, capitolo 2. I citati “innumerevoli

centri di cultura”, coinvolti nell’intertestualità, uniscono nuovamente la letteratura e il

cinematografo. Barthes semiologo supera lo scontato testo letterario, allargando la prospettiva ai

diversi ambiti mediatici, analogamente ai critici citati nella sezione 1.2.2 della seconda parte. Si

notano dunque parecchi paralleli – parziali – fra la problematica autoriale studiata da Barthes e

quella esaminata dai critici cinematografici, quantunque le motivazioni inducenti allo studio sono

discorde, o persino antitetiche.

Mentre da un canto i saggi, gli articoli ecc. sul cinema mirano alla precisa identificazione dell’autore

o degli autori, allo scopo di ottenere riconoscimento artistico, dall’altro canto è appunto questa

autorità che viene messa a repentaglio nella riflessione di Barthes. Questa differenza è

probabilmente dovuta al divario storico tra lo status del cinema e quello della letteratura: le

difficoltà per il medium cinematografico, e di conseguenza anche per gli autori cinematografici, di

esser riconosciuto come appartenente ai canoni artistici72. Infine le due impostazioni diverse

costituiscono plausibilmente anche il motivo per cui nella cinematografia il dibattito si concentra

principalmente sulle professioni coinvolte nel processo di creazione; laddove nella critica letteraria

68 Anne Marie Musschoot (con la collaborazione di Jürgen Pieters), Algemene literatuurwetenshchap II, Theoretische literatuurwetenschap, cit. 69 Roland Barthes , The death of the author, cit., p. 1. 70 Ibidem. 71 Ivi, p. 3. 72 Si veda, a questo proposito, la citazione di Giovanna Cosenza riportata nell’introduzione al primo capitolo della seconda parte.

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si osserva piuttosto un confronto (o persino uno scontro) tra un unico autore e la realtà, il pubblico e

il testo – ovvero le quattro dimensioni individuate da M.H. Abrams (cfr. supra).

Ne La morte dell’autore Barthes attesta – e contribuisce a – una trasformazione nella concezione

dell’autore. Lo scrittore moderno nasce contemporaneamente al testo, mentre l’Autore, nel senso

tradizionale, è interpretato come un’entità che precede e “nutrisce” il libro73. Il lavoro di Séan

Burke, teorico e romanziere irlandese, è anche contrassegnato di una prospettiva diacronica, il che

gli permette di scomporre la nozione ‘autore’ persino fino alle radici etimologiche (cfr.

introduzione). Reconstructing the author, il saggio introduttivo al suo volume intitolato Authorship74

fornisce allo stesso tempo una buona sintesi dell’evoluzione del concetto, nonché una riflessione

critica e individuale di Burke. Sempre riguardo alla mutevolezza delle interpretazioni, osserva che le

connotazioni di originalità, di paternità artistica e addirittura di intenzione, sono infatti accordati

all’autore quasi inavvertitamente nel corso degli anni.

Le due concezioni più vecchie sono categorizzabili in due classi: quelle attinenti al modello imitativo

e quelle legate al discorso ispirazionale75. Risulta già chiaro dalle due parole chiave che nessuna delle

due tipologie è incentrata sull’invenzione propria dalla parte da un autore creativo: anzi, partono

rispettivamente da un autore che riceve la sua ispirazione letteraria da una fonte, da un “potere”

trascendente, e in secondo luogo da uno scrittore che copia (ed elabora) la realtà. Se applicassimo di

nuovo le quattro poetiche di Abrams76, potremmo associare la prima concezione con le teorie

mimetiche e la seconda con quelle espressive. La coppia di scriptor e Auctor (in cui quest’ultimo si

riferisce di solito a dio77) determina il panorama classico e medievale, ma col tempo le due figure si

congiungono in uno solo: uno scrittore dotato di intenzione autoriale.

Quaranta anni dopo il saggio di Wimsatt & Beardsley (1954), Burke solleva dunque di nuovo la

problematica dell’intenzione, questa volta mediante argomenti storici invece di testuali. Un tale

ritorno al medesimo argomento dimostra che nell’evoluzione della critica autoriale emergono pure

delle costanti, anche se lo strutturalismo e la nouvelle critique costituiscono il retroterra della nuova

generazione di critici.

73 Roland Barthes, The death of the author, cit., p. 2. 74 Séan Burke, Authorship. From Plato to the Post modern. A reader, cit. 75 Ivi, p. 5. 76 M.H. Abrams, The mirror and the lamp, cit. 77 Ivi, p. XVII.

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Capitolo 3 I letterati prestati al cinema

Nel primo capitolo della seconda parte abbiamo trattato dell’adattamento cinematografico, perché è

l’esempio per eccellenza del legame intenso esistente fra cinema e letteratura. La sceneggiatura

stessa, lo si è detto, è da natura già una struttura (o un processo, cfr. Pasolini) dinamica, perché

esprime una “volontà […] a essere un’altra [forma]”78. Per dar conto della pluridimensionalità del

fenomeno aggiungiamo, in questo capitolo, un campo diverso dove si realizza l’interazione tra le due

arti. L’adattamento e la sceneggiatura si situano, nel senso stretto, sul piano testuale, mentre adesso

rivolgiamo lo sguardo a un livello superiore dove i due ambiti si intersecano anche nel mondo reale.

Con “letterati che si sono prestati al cinema” intendiamo più specificamente degli autori letterari

che hanno anche collaborato alla scrittura di soggetti e/o di sceneggiature o che si sono rivolti alla

regia. Analizzando la riflessione teorica di questa categoria di cineasti particolare, si raggiunge

infatti un metalivello, visto che sia nella loro vita professionale sia nella loro saggistica si verifica

una continua interazione tra cinema e letteratura. Dopo qualche cenno introduttivo, procediamo

all’analisi concreta delle considerazioni di Pier Paolo Pasolini e di Alberto Moravia sulla

sceneggiatura, sulla regia e sulle differenze tra l’autore-scrittore e l’autore-cineasta.

Il primo film italiano con soggetto italiano risale al 1907: Il fornaretto di Venezia, una pellicola diretta

da Mario Caserini e basata sul dramma storico Il fornetto, di Francesco Dall’Ongaro, pubblicato nel

184679. Il dramma è poi stato trasposto almeno altre cinque volte80. Dal saggio Cinema e letteratura

(2011) di Giorgio Tinazzi possiamo dedurre che dopo questo primo travaso le strade del cinema e

della letteratura non ci sono mai più separate. Il reclutamento è ovviamente nato da un interesse dei

cineasti nell’apporto dei letterati famosi, per avere delle garanzie non solo sul piano creativo, ma

anche su quelle finanziario: grandi nomi procurano grandi pubblici (cfr. supra). A un certo punto, il

rapporto unilaterale è diventato bilaterale, e la circolazione di testi ha dato luogo a un “fenomeno

generale di osmosi, in cui […] il dare e l’avere si confondevano”81. Anche durante il periodo del

neorealismo cinematografico il clima viene definito “una temperie comune”, analogamente agli

epiteti della “totalità culturale” e della “totalità mediologica” introdotti dal gruppo Cinegramma82.

78 Pier Paolo Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, cit., p. 5. 79 Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, in: Paolo Bertetto (Centro Sperimentale di Cinematografia) (a cura di), Storia del cinema italiano. Uno sguardo d’insieme, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 301-326. 80 Alan Goble (a cura di), The complete index to literary sources in film, East Grinstead, Bowker-Saur, 1999. 81 Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, cit., p. 308. 82 Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, cit., p. 193.

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La costanza degli scambi tra le due arti non implica comunque un atteggiamento esclusivamente

positivo riguardo alla collaborazione. Sia i critici sia i letterati stessi assumono una posizione

ambivalente rispetto alla redazione di sceneggiature. Mentre i critici pronunciano persino

condiscenza, causata da una presunta mancanza di originalità (cfr. supra), dagli autori prestati al

cinema si riscontra piuttosto un “complesso di colpa”, dovuta al sentimento di una vocazione

originaria mancata83. Un altro svantaggio percepito dagli scrittori letterari è la frustrazione per la

parzialità del lavoro, perché a causa dalla natura collettiva della creazione cinematografica non si

può quasi mai partecipare all’intero processo produttivo, dall’inizio alla fin fine. Un terzo ed ultimo

elemento negativo è la nostalgia per un’écriture meno contaminata dai meccanismi produttivi. La

sorta di scrittura in questione, la sceneggiatura, viene definita un “genere ibrido” da Tinazzi, ma

non perché si troverebbe alla metà tra letteratura e cinema. La vera ragione per questo carattere

ibrido ci riconduce al saggio anticipato La sceneggiatura come “struttura che vuol’essere altra struttura

(1972) di Pier Paolo Pasolini.

3.1 Pier Paolo Pasolini

Nella sezione 1.1. della seconda parte abbiamo già accennato a Teorema, il romanzo e la pellicola

usciti contemporaneamente nel 1968. Questa iniziativa porta alla conclusione che nella poetica di

Pasolini film e letteratura ricoprono una posizione ugualmente importante. Stando a Marcus questa

simultaneità esprime l’idea poeticale di Pasolini che un’ “idea narrativa” precede una concreta

manifestazione artistica84. In quest’affermazione riconosciamo naturalmente la distinzione tra storia

e discorso, elaborata nella medesima sezione. Nel caso di Accattone (1961), l’esordio di Pasolini nel

ruolo di regista, egli pubblica contemporaneamente la sceneggiatura del film85. Inoltre sono

rintracciabili parecchi elementi dalle sua poesia, prosa, teatro e saggistica usciti prima. Questi due

fattori illustrano l’attenzione per il pareggiamento dei diversi media, già sette anni prima dell’uscita

di Teorema.

L’interazione tra cinema e letteratura diventa un elemento fondamentale non solo per la sua

riflessione teorica, ma anche per l’elaborazione stilistica dei suoi testi (letterari, cinematografici,…).

La bidirezionalità del rapporto si evidenzia nel ciclo delle Poesie mondane, scritte da Pasolini sul set

83 Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, cit., p. 305. 84 Millicent Marcus, Filmmaking by the book. Italian cinema and literary adaptation, cit., p. 11. 85 Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, cit., p. 320.

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cinematografico86. Le influenze del cinema si situano chiaramente sia sul livello contenutistico, sia

su quello stilistico. Sebbene nel suo lavoro individuale i rapporti tra i due ambiti artistici e mediatici

siano talmente stretti, tuttavia Pasolini osserva una situazione molto diversa nella cultura italiana

coeva:

L’informazione letteraria e quella cinematografica sono come due fiumi che scorrono paralleli, che non confluiscono mai, quasi che in Italia ci fossero due culture, due storie. E la critica comparata, se c’è, è tutta di carattere giornalistico, informativo. Il ricambio tra letteratura e cinema, questi due mezzi espressivi diversi di una stessa cultura, di una stessa storia, avviene nel più puro e casuale disordine, senza mai una luce interpretativa87.

La lacuna nelle critica su questo argomento viene parzialmente sanata dal saggio sulla struttura

delle sceneggiatura, con cui abbiamo introdotto la presente sezione. Pasolini afferma che la

sceneggiatura non è un mero testo letterario, poiché la caratteristica tipica di questa struttura è

“l’allusione continua a un’opera cinematografica da farsi”88. Nelle sceneggiatura si verifica dunque

un paradosso sostanziale: da un lato la sceneggiatura è un prodotto autonomo, ma dall’altro lato

possiede questa allusione, questa “volontà” di passare ad un'altra forma, cioè al film. Lo stesso

paradosso si estende ai segni che compongono lo sceno-testo: questi segni esprimono significati di

una “struttura in movimento”89. Il termine “movimento”, spesso adoperato nel saggio, fa quindi

riferimento a un “dinamismo” o una “tensione” intrinsecamente presenti nella sceneggiatura: visto

che il vero passaggio non si verifica ancora in questo testo stesso, si tratta infatti di – altro paradosso

– una struttura diacronica in nel sistema sincronico del sceno-testo90.

La singolarità di questa forma di scrittura ha naturalmente delle ripercussioni per il ruolo

dell’autore. Pasolini accorda all’autore una “volontà rivoluzionaria”, per il suo desiderio di

trasformare la struttura91. Ma a quale ruolo nel processo creativo corrisponde questo “autore”? Più

avanti nel testo egli introduce separatamente le nozioni “autore di sceno-testi” e “regista”. Riguardo

allo scrittore di sceneggiature Pasolini riferisce che nella sua opera deve già essere presente un

sistema stilistico, mentre il sistema linguistico proprio del medium cinematografico rimane ancora

oscuro.

86 Ibidem. Le poesie sono pubblicate in: Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964. 87 Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, Tullio Kezich (a cura di), Parma, Guanda, 1996, p. 50. Citato in Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, cit., pp. 319-320. 88 Pier Paolo Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, cit. ,p. 1. 89 Ivi, p. 5. 90 Ivi, pp. 5-6. 91 Ivi, p. 6.

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Per quanto riguarda il regista, quello viene immediatamente connotato auteur, analogamente alla

poetica della nouvelle vague. Perciò non è neanche una coincidenza che l’esempio di un regista citato

nel saggio sia Jean-Luc Godard. Parlando di un regista che “distrugge la ‘grammatica’

cinematografica […] perché ogni sistema stilistico personale urta più o meno violentemente contro i

sistemi istituzionali”92, Pasolini accorda chiaramente un marchio d’autore e un specifico potere

artistico al regista.

3.2 Alberto Moravia

Un altro autore frequentemente citato negli elenchi di “letterati prestati al cinema”, è

indubbiamente Alberto Moravia. La sua attività pluridisciplinare è comunque meno ampia di quella

di Pasolini: Moravia è stato giornalista, romanziere e collaboratore a soggetti o a sceneggiature di un

numero limitato di opere cinematografiche, e si è dedicato ancora più sporadicamente alla

professione di regista. Lui stesso motiva il suo passaggio al (e la sua passione per il) cinema: “il

cinema è in sostanza narrazione, e perciò rispondeva ad un enorme mio bisogno interiore”93; ovvero:

egli vuole raccontare storie. Anche Moravia fonda quindi la sua poetica sulle affinità di (anziché

sulle differenze tra) letteratura e cinema, in quell’asserzione che possiamo di nuovo associare alla

coppia storia - discorso. In Moravia i due ambiti, cinema e letteratura, vengono ancora congiunti in

un terzo settore: quello del giornalismo. Le recensioni e interventi moraviani sono apparsi su vari

giornali e riviste autorevoli, ma sono anche raccolti nel volume citato a piè di pagina.

Molto dettagliatamente il critico, nato Pincherle, si è pronunciato sulle professioni di scrittore, di

sceneggiatore e di regista. Laddove la maggioranza dei critici riscontra delle difficoltà

nell’assegnazione di paternità artistica a uno sceneggiatore o a un regista che elabora un

adattamento cinematografico, Moravia riferisce persino che “quello dello scrittore è prima di tutto

un mestiere”94. I significati romantico-espressivi, come l’ispirazione quasi divina o il talento

straordinario, sono del tutto assenti nelle sue descrizioni dell’autore-scrittore. Anche lo

sceneggiatore viene circoscritto “mestierante”95 , mentre lo sceno-testo è considerato uno schema

92 Ibidem. 93 Giorgio Tinazzi, Cinema e letteratura, cit., pp. 307-308. 94 Alberto Moravia, Autobiografia in breve, in: Oreste Del Buono, Moravia, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 11. 95 Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, Alberto Pezzotta e Anna Gilardelli (a cura di), Milano, Bompiani, 2010.

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senza valore letterario, invece della struttura articolata, dinamica e specifica approfondita da

Pasolini.

Moravia conclude che il regista è l’unico a firmare il film, perché è soltanto il regista che ha il

controllo di ogni parte, mentre uno sceneggiatore non può mai avere il sentimento di essersi

veramente espresso nel film96. In quest’ultima osservazione echeggia una delle tre frustrazioni

tipiche degli sceneggiatori, citati e spiegati nel presente capitolo. L’unica professione, implicata nel

processo di realizzazione di un’opera cinematografica, che possiede un alto grado di autorialità è il

regista: “è l’artista che crea la poesia, i rapporti strutturali, il colore, l’atmosfera, tutto”97. La

personalità dell’autore-regista è caratterizzata, secondo Moravia, dalla sua natura indipendente è

infatti anche contraria: il vero opus di un regista si stacca dal cinema commerciale, dal cinema di

genere e dai film costruiti sull’attore.

Oltre a Pasolini, che viene giudicato “più di un regista”, sono Fellini e Antonioni che per Moravia

incarnano l’ideale citato dell’autore. In La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”

anche Pasolini riflette sul regista accordandogli delle caratteristiche simili, incentrati

sull’autonomia creativa di questo auteur, ma questo ruolo incita Moravia a pronunciare un giudizio

risolutamente negativo sulle altre professioni, in Pasolini il regista e lo sceneggiatore possono

coesistere, entrambi dotati di un certo grado di autorialità.

96 Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, cit. 97 Alberto Moravia, Un’arte fra narrativa e pittura, Mino Monicelli (a cura di), in: Cinema italiano. Ma cos’è questa crisi, “I Giornalibri”, 1, Bari, Laterza, 1979, citato in Idem, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, cit., p. 1549.

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Conclusioni

Nella presente tesi abbiamo discusso il fenomeno dell’autorialità nel cinema e nella letteratura,

attraverso la riflessione teorica dei critici e degli autori stessi, durante il periodo tra gli anni Trenta

e gli anni Settanta del ventesimo secolo. La prima parte era incentrata sulle diverse fasi di creazione

di un’opera cinematografica e le rispettive professioni coinvolti. Dopo qualche precisazione e

delimitazione terminologiche, siamo passati all’analisi concreta dell’appropriatezza della funzione

di “autore” attribuita al soggettista, allo sceneggiatore, e al regista. A questo quadro abbiamo

comunque anche aggiunto il produttore e gli attori, perché sono anche loro “collaboratori” al lavoro

d’équipe che contraddistingue la creazione cinematografica. Tutta questa parte iniziale viene

studiata alla stregua dell’evoluzione del neorealismo cinematografico italiano, i suoi presagi e le sue

conseguenze (tra cui la nouvelle vague).

Nella seconda parte spostato lo sguardo al contesto più ampio del rapporto tra cinema e letteratura,

per vedere se sia legittimo estendere la dinamicità e la reciprocità, esistente tra i testi letterari e

cinematografici, al livello degli autori. A questo proposito le teorie di De Santis & Alicata e di

Rajewski sono stati molto utili a documentare la relazione stretta tra le due arti. Inoltre la proposta

teorica della distinzione fra storia e discorso, elaborato fra l’altro da Marcus, permetteva di re-

interpretare le posizione dei critici propugnatori dell’autonomia dei due media. I saggi di Wimsatt &

Beardsley hanno rilevato le stesse problematiche presenti nello studio della paternità artistica nel

cinema, comunque con delle disuguaglianze inevitabilmente legate alla differenza preliminare del

contesto creativo-produttivo di opere cinematografiche rispetto a opere letterarie. Nel capitolo

finale anche Pasolini e Moravia hanno rilevato dei paralleli tra il marchio d’autore in letteratura e

quello presente, secondo loro, dagli registi auteur.

Per concludere questa tesi ritorniamo ancora una volta al contesto storico-culturale del neorealismo

cinematografico italiano, e citiamo un’asserzione di Cesare Zavattini:

Il neorealismo – come lo intendo io – richiede che ognuno sia autore di se stesso1.

1 Cesare Zavattini, Cinema. Diario cinematografico, Neorealismo ecc., cit., p. 733.

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Terra madre (1931), regia di Alessandro Blasetti, sceneggiatura di Gian Bistolfi e Alessandro Blasetti.

Quattro passi fra le nuvole (1942), regia di Alessandro Blasetti, sceneggiatura di Aldo De Benedetti,

Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti e Piero Tellini.

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I bambini ci guardano (1943), regia di Vittorio De Sica, sceneggiatura di Vittorio De Sica, Cesare

Zavattini, Cesare Giulio Viola, Margherita Maglione, Adolfo Franci e Gherardo Gherardi.

Ossessione (1943), regia di Luchino Visconti, sceneggiatura di Luchino Visconti, Mario Alicata,

Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Alberto Moravia e Antonio Pietrangeli.

Paisà (1946), regia di Roberto Rossellini, sceneggiatura di Sergio Amidei, Roberto Rossellini e

Federico Fellini.

La terra trema (1948), regia di Luchino Visconti, sceneggiatura di Antonio Pietrangeli e Luchino

Visconti.

Accattone (1961), regia di Pier Paolo Pasolini, sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini (con la

collaborazione di Sergio Citti).

Teorema (1968), regia di Pier Paolo Pasolini, sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini.