Attorno a noi di Matteo Scordino

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In una classe dell’istituto d’arte arriva un nuovo ragazzo: bello, silenzioso, sicuro di sé: il suo nome è Martin. Di tutti i compagni, solamente una ragazza (Irene) riuscirà ad avvicinarlo e stringere con lui un’amicizia; ma un giorno, lei scopre l’enorme segreto che custodisce e la sua vita non sarà più la stessa.

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MATTEO SCORDINO

Attorno a noi

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni

Attorno a noi di Matteo Scordino Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978-88-97277-84-2 Collana SILVER http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

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Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore. BIOGRAFIA DELL’AUTORE Matteo Scordino nasce a Pisa il 12 febbraio 1984. Frequenta l’Istituto tecnico commerciale “Pacinotti”, conseguendo il diploma in ragioneria. Fin dall’infanzia manifesta particolare interesse per la scrittura. Nel corso degli anni ha composto canzoni, poesie e racconti di vario genere.

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A tutti coloro i quali, nonostante le difficoltà, vanno avanti ogni giorno con onestà,

interrogandosi e rifiutando il conformismo; ma provando a migliorare se stessi.

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1. MARTIN

La campanella risuonò, ancora una volta, e i

ragazzi, passando per i lunghi corridoi, raggiunsero le classi in attesa che la prima ora di lezione cominciasse.

L’istituto d’arte contava trecento ragazzi, ragazzo più, ragazzo meno. Era stato ristrutturato da poco, e nel complesso si presentava bene. Ma agli occhi degli studenti, e di tutti coloro i quali erano impiegati al suo interno: dal preside, fino alle donne delle pulizie, passando per i docenti, l’intera struttura era una sorta di prigione che occupava quotidianamente gran parte del loro tempo e che, in qualche modo, per qualche ragione, avevano imparato a disprezzare.

Chiacchiere rumorose si udivano nel corridoio, provenienti da una delle classi. Il professore di matematica tardava ad arrivare e gli alunni approfittavano, augurandosi che l’insegnante quel giorno fosse assente.

Pochi istanti ed ecco l’uomo varcare la porta e gli studenti, oramai rassegnati e delusi, ricomporsi e sedere ognuno al proprio banco. Seguì uno strano silenzio che sarebbe saltato subito agli occhi di chi aveva avuto la disgrazia di fare lezione a quella classe scalmanata. Ciò che rendeva tanto silenziosi i ragazzi non era certo il professor Baroncini che, sebbene autoritario e severo, non vantava la stima degli alunni ed era disprezzato. Il motivo di tanta improvvisa

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quiete era dovuto all’ingombrante figura alla sinistra del professore stesso.

La curiosità si impossessò di ognuno, e l’attesa di avere spiegazioni fu molta.

«Ragazzi, questo è Martin» esordì il docente, rivolgendosi alla classe.

Il giovane era imponente, statuario. Sul suo viso, dalla pelle perfetta, trapelava una certa fierezza, di chi è consapevole della sua bellezza e superiorità. Manteneva lo sguardo innanzi a sé, il mento un poco sollevato. Gli occhi erano persi nel vuoto, quasi si trovasse da tutt’altra parte e non si stesse parlando di lui. Il petto, robusto e scolpito, mantenuto in fuori, le spalle larghe parevano fare da cornice a quel quadro vivente e dagli occhi, grandi e neri, una luce risplendeva.

«Martin è il vostro nuovo compagno; è americano. Da quale città provieni?»

«Dal Texas, signore». «Bene. Sono rimasto molto colpito dai voti

conseguiti alla tua scuola, soprattutto in matematica» «Grazie, signore». L’espressione di Martin non

mutò; non ci fu alcuna volontà di sorridere, né di apparire affabile. Una statua di marmo che dal suo piedistallo osserva immobile con freddezza e distacco il mondo intorno a sé.

Di quel comportamento, così deciso e innaturale, i ragazzi rimasero profondamente colpiti. Il professore non ci fece caso, preso a sfogliare alcune pagine tenute sulla cattedra riguardanti il nuovo alunno.

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«Qui sopra c’è scritto che ti sei trasferito in Italia per via di tuo padre… ».

«Esatto, mio padre è stato mandato qui in Toscana a causa del lavoro». La curiosità del professore pareva stuzzicata.

«Per lavoro? Se non sono troppo indiscreto, quale lavoro fa tuo padre?»

«Mio padre compie alcune ricerche» rispose il ragazzo vago e senza enfasi e il professore, con un sorriso di circostanza, si fece bastare quell’informazione.

«La prossima settimana la classe andrà in gita. Anche se il preavviso è poco, nel caso ti voglia unire, non ci sarà alcun problema».

Martin rispose che sarebbe andato volentieri; il professor Baroncini gli porse il foglio nel quale era spiegato ogni cosa in dettaglio.

«Okay, Martin Smith. Benvenuto in questa classe. Spero che ti troverai bene. Puoi andare a sedere nel banco libero in terza fila, accanto a Matilda».

Martin si allontanò dalla cattedra per raggiungere il banco assegnatogli. I ragazzi lo fissavano, in attesa che mostrasse un minimo di considerazione verso di loro che sarebbero diventati i suoi nuovi compagni; ma non degnò nessuno di uno sguardo né si scompose. Matilda lo vide avanzare verso di lei, con passo sicuro e maestoso. Ebbe un sussulto, o così le parve. L’emozione improvvisa era tale che seguitò a lanciargli sguardi furtivi, finché lui raggiunse la meta, scostò con delicatezza la sedia e sedette, posando accanto a sé la borsa a tracolla. Qualcuno lanciò

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un’occhiata alla compagna, visibilmente a disagio, cercando di indovinare cosa pensasse del fatto di avere accanto a sé Martin, quel ragazzo così misterioso, ma lei teneva gli occhi bassi.

Il professore fece l’appello e cominciò la lezione. Molti studenti faticarono a seguire, con la mente ancora impegnata a pensare al nuovo arrivato; soprattutto Matilda. Non che quella sagoma sulla destra, appena intravista con la coda dell’occhio dispiacesse alla giovane, al contrario, ma in qualche modo riusciva a mettere in agitazione, quasi in soggezione, pure lei, generalmente a proprio agio con i ragazzi. L'esile Matilda cercò di apparire disinvolta, ma la consapevolezza di non riuscirci la rendeva maggiormente impacciata. Indossava indumenti attillati che la facevano sembrare più magra di quanto già fosse. I suoi capelli erano di un biondo chiaro, artificiali, quasi bianchi, pettinati in modo impeccabile, come impeccabile era la maschera di trucco che le ricopriva il viso. Alla fine, decise di affrontare l’imbarazzo provato presentandosi, assecondando così quella curiosa sensazione che l’affascinava.

«Ciao, io sono Matilda». «Ciao, Matilda» rispose con l’aria di chi ne avrebbe

fatto volentieri a meno dei convenevoli. Improvvisamente, qualcuno bussò alla porta. Entrò

un ragazzo alto, con il viso coperto di brufoli, in parte nascosti dai capelli spettinati; l’atteggiamento era goffo ma deciso. Il professore nel vederlo si tolse gli occhiali da lettura che portava.

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«Sei in ritardo; sei stato segnato assente». Il ragazzo non disse nulla, non provò neppure a

giustificarsi. Rimaneva in silenzio, soffocando una sbuffata, annoiato e attendendo di sapere se poteva entrare oppure sarebbe dovuto rimanere fuori della classe fino al suono della campanella.

«Vai a sedere, ma cerca di arrivare puntuale la prossima volta». Il ragazzo ubbidì.

«Si chiama Tonio» disse Matilda, e nel voltarsi verso il nuovo compagno, l’odore fine di sigaretta di cui erano impregnati gli abiti arrivò fino a Martin. «Lo sentirai chiamare spesso con il soprannome che la classe gli ha dato: Manero». Martin la fissava, senza dire nulla.

«Adesso che è arrivato lui, la nostra cara Irene si sentirà sollevata» e aggiungendo quelle parole, Matilda indicò una ragazza seduta qualche metro più in là nella loro stessa fila. Seguendo l’indice, Martin identificò la ragazza di cui Matilda stava parlando, la quale, come avesse sentito pronunciare il suo nome, si voltò verso di loro e per la prima volta lo sguardo di Martin incrociò quello di Irene. Lui restò a studiarla con gli occhi qualche istante, come colpito da un particolare, quasi avesse intravisto qualcosa di familiare in lei; pareva stesse per dire qualcosa. Lei lo guardò distrattamente, assorta nei suoi pensieri, poi annoiata tornò a fissare un punto impreciso nell’aria.

La ragazza non pareva molto interessata alla lezione; sul banco teneva un diario che scarabocchiava con la penna e un cellulare che afferrava in continuazione in modo convulso. Il viso

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giovane e di bell’aspetto era chino verso il banco; i capelli castani e lisci lo coprivano in parte, preservandolo da occhi indiscreti.

«Irene ha una cotta per Tonio, ma Manero non la fila affatto, anzi, a lui piaccio io» e così dicendo Matilda sorrise, fiera di se stessa.

«Come mai Tonio viene chiamato Manero?» domandò Martin più per una sorta di riflesso che per autentica curiosità.

«Perché è molto bravo a ballare; proprio come il personaggio del film “La febbre del sabato sera”. La scorsa settimana, per la Festa della Donna, Tonio ha regalato un mazzo di mimosa sia a lei che a me. Povera Irene! Deve avere visto in quel gesto chissà che, con la testa matta che si ritrova».

«Dove andremo in gita?» interruppe Martin in modo secco, corrugando la fronte e visibilmente annoiato dai discorsi di Matilda. Lei rimase un attimo sconcertata dal suo comportamento superficiale e arrogante.

«Andremo in un paesino della Garfagnana. È un bellissimo posto, sono sicura che ti piacerà».

«Sei già stata lì?» «Ma certo!» esplose lei, ridendo. «Ogni anno il

professore di disegno, il signor Cristaudo, ci porta i ragazzi. Parli molto bene l’italiano per non essere di queste parti».

«A dire il vero, mia madre era italiana. Il professore di disegno sarà l’unico a venire?»

«Magari! Per nostra sfortuna viene anche lui» Matilda fece cenno verso il professor Baroncini.

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«Come mai dici così?» La ragazza sgranò gli occhi. «Tu ancora non lo conosci! Sei stato accolto bene da

lui, e già questo è strano, ma è il professore più antipatico della nostra sezione. Aspetta a conoscerlo e te ne accorgerai. Comunque, in verità lo scopo della gita è fare un disegno; per questo andiamo là, per disegnare. Certo, lontano dai genitori ci divertiremo, ma prima che la gita sia finita, dovremo aver completato il lavoro. Sai, è bello perché scegli tu fra le cose che ti piacciono del paesaggio».

Parlando con la compagna di banco, la prima ora passò molto velocemente e le quattro successive, dettero la possibilità al ragazzo di conoscere meglio il nuovo ambiente.

Si concluse così il primo giorno di scuola e in Martin il sentimento di noia provato per l’intera mattina, lasciò il posto all’interrogativo di come avrebbe potuto terminare l’anno scolastico in quella classe la cui impressione era stata tutt’altro che buona. Soprattutto, trovava alcuni compagni troppo invadenti, e questo non si conciliava con il carattere riservato che lo distingueva. Salì sulla sua coupé e si avviò verso la grande casa di campagna in cui viveva con il padre; almeno lì, nella tranquillità circostante e lontano dalla città, avrebbe potuto trovare sollievo, isolato da tutto il resto.

I giorni passarono, uno dopo l’altro, una polka da sagra del cotechino dove vige lo stordimento del vino e del roteare e le note dell’orchestra sono gli unici

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suoni udibili. La gita era l’unico argomento delle ricreazioni.

Mancavano tre giorni alla partenza e nessuno riusciva più a concentrarsi sulle lezioni. L’idea della gita li aveva fecondato i cervelli di avventure e libertà o almeno era questo ciò che Martin percepì quella mattina, soprattutto dalla sua momentanea compagna di banco. Irene, scambiatasi il posto con Matilda per chissà quali ragioni, continuava a pigiare i tasti del telefonino rispondendo ai messaggini come fosse un’impiegata dello smistamento informazioni tramite Short Message Service. Di tanto in tanto bisbigliava qualcosa sulla suoneria che non metteva mai come se fosse un vizio del quale non ne era responsabile e quindi non avrebbe potuto cambiare o forse convinta che i destinatari delle sue parole avrebbero potuto udire la sua scusa. Martin la scrutò per un istante senza lasciar trasparire alcuna emozione o pensiero.

Nell’aula, invece, la scontentezza si respirava densa: interrogazioni, l’incubo ciclico di alcuni studenti. A qualcuno quei momenti parevano una sorta di roulette russa; la tensione saliva, saliva, fino a raggiungere l’apice. I nervi erano tesi, il respiro lento e breve, almeno fino a quando si era certi di essersela cavata ancora una volta e sicuri di non essere le vittime della valutazione scolastica.

«Bene, oggi interroghiamo». La professoressa si chinò un poco; con un dito cominciò a scorrere indecisa il registro di classe, non sapendo chi chiamare. Poi, quasi avesse avuto un’illuminazione e sicura di sé, alzò la testa, cercando con lo sguardo

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smarrito la persona designata. Finalmente, sorrise compiaciuta come se avesse risolto un grande dilemma.

«Smith. Tu sei nuovo e quindi non ti ho mai sentito». L’insegnante rimase un attimo in silenzio per dare modo al ragazzo di parlare o magari inventarsi una scusa, ma lui non disse nulla.

La professoressa non sapeva come interpretare quel gesto. Il silenzio era quasi religioso. Tutti puntavano i loro occhi sul ragazzo.

«Cosa hai intenzione di fare?». Per la prima volta sul viso di Martin ci fu un attimo

di smarrimento. Si guardò attorno, poi, confuso schiuse le labbra.

«Mi scusi, ma non capisco. Cosa intende dire?». «Intendo dire: hai studiato oppure no? Hai

intenzione di farti interrogare?». «Certo, mi chieda ciò che vuole». La donna cominciò a fare le domande al ragazzo, il

quale, con la massima naturalezza e nel modo più esaustivo possibile, rispose.

Alla fine dell’interrogazione, l’insegnante si complimentò con Martin valutandolo con il massimo voto, poi, decise di interrompere le interrogazioni per andare avanti con il programma.

Irene si avvicinò a Martin. «Sei molto bravo» disse Irene con una punta di

imbarazzo sotto forma di guance più rosa di qualche istante prima.

Martin fece un gesto di cortesia, abbozzando un sorriso.

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«Toglimi una curiosità: ma quanto hai studiato storia questi giorni per conoscere tutto così bene? Immagino che ieri tu abbia passato il pomeriggio sui libri» aggiunse prendendo coraggio.

Martin la fissò un istante, distogliendo lo sguardo dalla professoressa che seguitava con la lezione.

«Non ho studiato ieri; avevo di meglio da fare. A essere più precisi, non studio mai a casa». Irene trattenne una risata, trovando assurda quella affermazione e pensando che stesse scherzando. Ma Martin era serio e aggiunse con sufficienza: «Non ti preoccupare. Non mi aspetto che certe cose tu le comprenda».

A sentire quelle parole, Irene si sentì intimamente offesa e il tono della voce cambiò radicalmente vincendo qualsiasi tipo di imbarazzo potesse provare nel parlare a quel nuovo compagno di classe, presuntuoso e arrogante.

«Mi stai dando forse della stupida?». Martin non ebbe tempo di rispondere. La

professoressa, disturbata da quel continuo vociferare in sottofondo, interruppe la lezione e con tono alterato si rivolse a Irene.

«Posso sapere quale è il motivo di tante chiacchiere durante la lezione?».

La ragazza non ebbe la forza di rispondere e si ammutolì, distogliendo lo sguardo dalla professoressa che la fissava grave. Pochi istanti e, dopo aver sospirato pesantemente, la donna riprese a parlare. Irene, viola dalla rabbia, lanciò un’occhiataccia a Martin e aprì la bocca, pronta per dire l’ultima cosa

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sull’argomento. Ma Martin la fulminò con un gesto della mano e un’espressione decisa e arrogante; indicò la professoressa e fece capire che durante la lezione bisogna rimanere in silenzio. L’antipatia che Irene provò in quel momento per lui fu enorme. Mai e poi mai avrebbe voluto più avere qualcosa a che fare con Martin. Per quanto la riguardava, lui sarebbe potuto tornare da dove era venuto e sparire per sempre. I conti con la vita, però, si fanno solo a cose fatte e Irene sembrava avesse dimenticato questa verità empirica.

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2. LA GITA

Alla fine, arrivò il giorno tanto atteso. Dopo le

lezioni, mentre i raggi del sole scaldavano tiepidi i volti dei ragazzi, un grande brusio animava il parcheggio dell’istituto.

Il pulmino era fermo in un angolo con i portelloni aperti. Nel caos generale, il professore di disegno, il signor Cristaudo, controllava che ogni cosa si stesse svolgendo correttamente e, sfogliando le carte che teneva confusamente in una mano, si preparava a fare l’appello.

I genitori degli alunni si raccomandavano con i propri figli, mostrando premura e apprensione. A vedere alcuni di loro, si sarebbe potuto scambiare la partenza della gita per una di guerra. I ragazzi erano eccitati; per molti di loro, infatti, era la prima volta che andavano in una gita scolastica, rimanendo fuori casa per così tanti giorni.

Quando Irene arrivò davanti alla scuola vide quella confusione; i compagni di classe erano già lì. Matilda stava silenziosa accanto ai genitori, recitando la parte della figlia tranquilla e per bene. Approfittando delle migliori condizioni climatiche, indossava una maglietta leggera a maniche corte che le lasciava il ventre scoperto, così che fosse visibile il piccolo cuore tatuato con la scritta “love” vicino all’ombelico. In bocca teneva una sigaretta accesa; i suoi genitori conoscevano da tempo quel vizio e si erano rassegnati ad accettarlo. Tonio non si trovava lì; probabilmente

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era già salito sul pulmino con altri ragazzi per scegliere il posto che gli piaceva, o meglio il più lontano possibile da quello dei professori.

Irene si avvicinò; il padre e la madre la seguivano qualche metro più indietro. Vedendola arrivare, Matilda le andò incontro abbracciandola. Nel frattempo, l’autista, un uomo ciccione di mezza età, si era avvicinato ai due professori, in attesa della partenza.

Dato che la maggioranza dei ragazzi si trovava già dentro il pulmino, il professore di disegno decise di fare lì l’appello. Irene dette un ultimo saluto ai suoi, e poi attese in fila di salire. La prima cosa che notò una volta a bordo, fu Martin, seduto in un angolo in fondo.

Strano, pensò lei, che avesse trovato libero quel posto; era molto desiderato, soprattutto dagli altri maschi, quindi, concluse Irene, lui doveva essere stato uno dei primi ad arrivare per aggiudicarselo. Lo sguardo cercò un sedile che le piacesse e non fosse già stato preso. Ancora in piedi, indecisa, perse lievemente l’equilibrio quando l’autista mise in moto e il pulmino diede un colpo appena percettibile come spinto dalla voglia di partire della scolaresca.

I due professori furono gli ultimi a salire; quello di matematica si affrettò a sgranchirsi le gambe. Il signor Cristaudo richiamò l’attenzione dei ragazzi e fece l’appello.

Dopo avere controllato che tutti fossero presenti, il pulmino partì. Irene si voltò, alla ricerca disperata del viso di Tonio. Lui se ne stava laggiù in fondo, a chiacchierare con altri compagni e pareva divertirsi.

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Cosa avrebbe dato per essere lì accanto a lui; approfittare di una sua distrazione per toccarlo, aggrapparsi alle braccia grandi e muscolose e sentire il suo profumo.

Doveva assolutamente avvicinarsi con una qualche scusa. Sentiva il bisogno di farsi vedere, che Tonio le rivolgesse la parola. Sara era a pochi passi da lui, così, a Irene venne l’idea di andare da lei con il pretesto di chiedere una gomma da masticare, sperando che in quel modo Tonio la notasse. Rimase a riflettere qualche istante, cercando di trovare le forze necessarie a compiere quel gesto. Il cuore cominciò a battere più veloce. Finalmente si decise: si alzò in piedi, provando ad apparire disinvolta; evitò di incrociare gli sguardi degli altri e quando raggiunse Sara, domandò se per caso avesse una gomma. L’amica fece cenno con il capo, si chinò per prendere lo zaino e Irene approfittò di quell’attimo per lanciare una occhiata a Tonio. Sara le porse un pacchetto di gomme, lei lo aprì, ne prese una e, dopo averlo chiuso, lo rese all’amica. Irene si voltò sorridente verso Tonio.

«Ciao, Tonio». Il ragazzo ricambiò il saluto, poi tornò a parlare con un amico. Ancora sorridente, lo sguardo di Irene cadde su Martin, seduto accanto a Tonio, vicino al finestrino. Martin la stava fissando; Irene, accortasi del sorriso rimasto sul suo volto, cambiò espressione immediatamente, si fece seria, distolse lo sguardo e si voltò per tornare al suo posto.

In fondo al pulmino, un gruppo di studenti stava discutendo animatamente. Dalla parte opposta, i due professori si accorsero del fatto ed erano in allerta,

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pronti a intervenire e soffocare quella conversazione prima che potesse tramutarsi in baccano.

«Chi di voi sa dirmi quale è la capitale della Finlandia?» chiese una ragazza. Tonio e gli altri nelle sue vicinanze si guardarono, interrogandosi a vicenda non tanto per scovare l’informazione quanto per la domanda ritenuta fuori luogo. Nessuno tentava di dare la risposta. Nessuno era in grado.

Nel silenzio più totale, una voce fievole fuori dal coro disse: «Helsinki».

I ragazzi si voltarono, seguendo la voce per vedere chi avesse parlato. Martin stava guardando fuori dal finestrino, la testa poggiata verso la spalla destra.

«Scusa, cosa hai detto?» chiese qualcuno, non avendo capito.

«Helsinki è la capitale della Finlandia» ripeté Martin.

«E quella della Thailandia?» chiese ancora la solita ragazza, rivolta al gruppo di ascoltatori. Tonio aprì la bocca, quasi volesse dare la risposta, ma poi soffocò ogni suono.

«Bangkok» disse Martin. «Già, è vero! Lo sapevo» commentò qualcuno, quasi

per giustificarsi entrato all’improvviso a far parte di quel quiz a risposta aperta.

Le voci degli studenti, poco a poco si fecero più forti soffocando l’improvvisata Jerry Scotti.

Inutili furono gli inviti da parte dei professori ad abbassare la voce e comportarsi in maniera più civile. Dopo alcuni istanti di riverente ubbidienza, ritornava

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il caos, come se non avessero mai trattato l'argomento.

Tonio, approfittando dell’occasione, prese delicatamente lo zaino che aveva con sé e lo aprì.

«Guarda un po’ qui dentro» disse a un ragazzo lì vicino che si accostò e dette un’occhiata.

«Wow! grande Manero, queste sere sapremo cosa fare» disse entusiasta.

E non aveva tutti i torti a entusiasmarsi. Nello zaino, come un bottino di guerra, c'erano alcune bottiglie di superalcolici, acquistate e depositate con devozione da Tonio che non smentì se stesso nemmeno in quest'occasione. Un'onda d'allegria si alzò sopra le teste dei ragazzi che, spinti dalla curiosità di conoscere l'ultima bravata di Manero, si avvicinavano come se lì vi fossero contenute le reliquie di un santo.

Martin fu l’unico a non mostrare alcun interesse per ciò che stava succedendo: rimase tranquillo al suo posto e non rivolse la parola a nessuno, assorto nei pensieri.

Anche se si trovava dal lato opposto e stava chiacchierando con il collega di matematica, il professore di disegno era di vista lunga e, quando voltandosi verso gli studenti vide tanti nasi allungarsi fino allo zaino di Tonio, capì che qualcosa di sospetto stava succedendo. Con passo deciso e felpato, percorse lo spazio che lo divideva dai ragazzi, i quali si accorsero troppo tardi del pericolo e inutilmente si ritrassero.

«Tonio, cosa contiene il tuo zaino?»

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Lo studente ebbe un impercettibile sussulto; sapeva di essere nei guai, bastava guardarlo nel viso, divenuto pallido e, una delle rare volte, serio.

«Niente, prof. Stavo facendo vedere ai ragazzi alcune cose».

«Benissimo» proruppe lui, con un sorriso malizioso. «Le fai vedere a loro, e a me no?».

Tonio non sapeva cosa dire; era però a conoscenza di quanti soldi avesse speso per acquistare quelle bottiglie e della figuraccia che avrebbe fatto di fronte ai compagni se fosse rimasto senza di esse.

«Tonio, dammi lo zaino» intimò alla fine il professore serio, non lasciando spazio a ipotetici accordi o trattative. Il ragazzo capì che non c’era più nulla da fare; si alzò con lo zaino in mano avvicinandosi all’uomo.

«Ecco, prof. Come vede sono solo delle bottiglie che avevo comprato, tutto qua».

Il signor Cristaudo esaminò le bottiglie e sorrise, forse ricordandosi che un tempo pure lui si era concesso bravate simili. Disse che le avrebbe sequestrate fino alla fine della gita. Tonio mise nervosamente le mani in tasca e serrò le labbra, quasi a voler trattenere dentro la bocca alcune parole di cui sapeva si sarebbe amaramente pentito. Aggrottò le ciglia e lanciò una rapida occhiata al suolo prima di alzare il mento e inspirare profondamente. L’aria che assunse fu di superiorità, e con sufficienza guardò il professore, facendo cenno con il capo.

«Cerchiamo di non fare sciocchezze questi giorni, ragazzi» disse il professore, rivolgendosi agli studenti.

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«Tonio, perché non segui l’esempio di Martin e ti dai una calmata? Guardalo: sta buono e in silenzio da una parte, senza dare noia a nessuno».

Tonio lanciò un’occhiata al nuovo compagno seduto accanto; pareva provasse pena per lui e disse con disprezzo:

«Ti immagini che divertimento». Al sentire quel commento, Martin distolse lo

sguardo dal finestrino e si voltò verso Tonio; lo fissò per un attimo, ma lui guardava altrove e non se ne accorse.

Il viaggio durò un paio di ore. Quando arrivarono a destinazione, prima ancora che il pulmino si fermasse, i ragazzi si erano alzati tutti in piedi, formando una gran confusione; ognuno teneva in mano la propria borsa e vari oggetti. Non appena si aprirono i portelloni, uscirono di fretta, in modo confuso. Martin fu l’ultimo a scendere; fece qualche passo verso il gruppo, poi gettò uno sguardo dintorno. Uno stormo di uccelli passò in quel momento nel cielo, in parte coperto da soffici nuvole, per svanire in un attimo oltre gli alberi. Una folata di vento fresco si alzò all’improvviso, quasi per accogliere i forestieri e chiedendo il rispetto di quei luoghi; giunse delicato sul viso di Martin come un bacio. Il sole si preparava a cedere il posto alla luna e il cielo era un misto di tonalità di colori confusi, e belli da vedere. Ma nessuno dei ragazzi, oltre a Martin, notò le tinte paradisiache, con le menti occupate, mai sgombere dai pensieri, pure in tale situazione, anche se lontani dalla giungla di asfalto e cemento dove erano costretti

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a vivere. Abituati a tanto trambusto, divenuti incapaci di cogliere la profonda calma che quel luogo riusciva a suscitare.

L’albergo che li avrebbe ospitati, non particolarmente grande, era in stile rustico. Costruita interamente in pietra, la facciata, mostrava fin da subito in modo chiaro e inequivocabile la diversità che quei luoghi potevano offrire ai forestieri rispetto a quanto erano abituati a vedere; staccionate di legno delimitavano il terreno circostante, continuando in quella fertile vallata naturale racchiusa, quasi custodita e contesa, fra le Alpi e l’Appennino Tosco-Emiliano. Poco più in là, imponenti alberi di abete e castagno si raggruppavano a perdita d’occhio e davano vita a misteriosi boschi. A Martin piacque subito quel luogo e in quel momento, pensò a quanto aveva detto Matilda e fu d’accordo: non sarebbero certo mancate occasioni per addentrarsi là attorno e divertirsi.

I professori passarono in cima alla fila di studenti che si era formata e fecero strada fin dentro l’albergo.

L’insegnante di matematica lasciava che il collega lo precedesse, dato che per lui quella zona era sconosciuta.

Il silenzio che aveva regnato fino a quel momento all’interno della struttura, fu rotto improvvisamente dallo sciame di voci.

Bastò un solo sguardo al signor Cristaudo per riconoscere la ragazza alla reception che da anni oramai lavorava lì.

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L’uomo si avvicinò con passo deciso come un’ospite regolare.

Quando ogni cosa fu sbrigata, vennero date istruzioni sulla disposizione delle camere, i ragazzi ricevettero le chiavi e ognuno si avviò nelle stanze al piano di sopra. Salirono in branco le scale di legno che, quasi a voler mostrare disappunto, si misero a scricchiolare per tale furia, e, per qualche lungo istante, si udirono passi pesanti e schiamazzi, i quali non tardarono a svanire dopo che pure l’ultimo gradino fu raggiunto.

Max e Nicolas aprirono la porta della stanza assegnatali. Anche Matilda li raggiunse, seguita da Sara e Irene, ritrovandosi tutti e cinque fermi nel corridoio.

«Che bello! Siamo vicini di stanza» «Siete solo voi due in camera?» «A quanto pare sì» rispose Nicolas. La stanza era ben curata, sebbene di piccole

dimensioni. Sopra un mobiletto c’era un vecchio televisore, di quelli a tubo catodico, non più in vendita. I letti erano tre: due a castello, uno isolato.

«Tu quale vuoi?» chiese Max. «Uhm! Preferisco quello più vicino al bagno». I ragazzi, esausti, posarono in maniera disordinata

ciascuno il proprio bagaglio sul pavimento. Nicolas si lasciò cadere su uno dei letti, sicuro che sarebbe svenuto di lì a breve se non lo avesse fatto subito; stremato, aveva le labbra secche e sentiva la necessità di bere, ma il bisogno di riposo era maggiore. Avvicinò il braccio per vedere che ora fosse, poi tornò