Attimi di vita
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Attimi di Vita.
L’orologio della Cattedrale segna le ore 12:15.
Non mi è possibile comprendere a pieno la causa primaria della mia visione, la ragione fondante
del mio osservarmi lì tra le macerie in un oceano di anime sperdute nello sguardo infinito della
morte. E continua intanto il rumore della pioggia incessante. Non mi è possibile comprendere a
pieno la spiegazione razionale degli eventi che la mia ragione si rifiuta di riconoscere, lasciando il
posto ad una giustificazione trascendente, una giustificazione che è al di là di ogni mia sensazione
empirica. Solo il mio spirito sa esattamente come legittimare ed accertare ciò che i miei occhi
hanno il terrore di osservare.
Sono le 7:15 : anche in questo uggioso giorno, in ritardo accanto alla camera dei miei bambini,
pronta ad aggredire verbalmente anche il più semplice granello di polvere, una lacrima sul timido
ma coraggioso sguardo della mia dolce Aurora risveglia sul mio volto un affettuoso e amabile
sorriso. Cinque anni lei e suo fratello tre. Guardandoli lì con i nasini arricciati, la fronte corrugata,
le braccia incrociate, l’uno alle spalle dell’altra, comprendo ancor meglio quanto sia invidiabile la
loro ingenuità. Li abbraccio e li bacio sulla fronte, nella fretta del mattino, nella fretta del destino.
Le lancette dell’orologio segnano le ore 8:05, dal finestrino del treno, incorniciato dalle gocce di
pioggia, il mio sguardo si disperde in un deserto di familiari campagne, familiari strade, familiari
edifici ingrigiti dal tempo o forse semplicemente dagli occhi della mia monotonia, dallo sguardo
della mia depressione. Il caro passaggio a livello: quanto amo osservare l’impazientirsi divertente,
al di là delle barriere, di adulti troppo presi dalla caoticità della vita, di bimbi allarmati per l’inizio
incombente delle lezioni. E passa anche questo, e si porta dietro la casa dal cancello rosso, la
scuola elementare e infine anche il palazzo dalle finestre blu. Il mio treno è fermo, ne sono quasi
certa, è il mondo che mi sfugge dallo sguardo, è la vita che mi sfugge dalle mani.
Ore 11:10. Mi chiedo come possano l’entusiasmo e la passione per un mestiere camuffare
sensazioni e negare riflessioni autentiche. Quindici anni fa, quelli che ora valuto come assordanti
rumori di una vecchia e malmessa fabbrica tessile, all’epoca mi erano quasi indifferenti, come se
fossero state semplici melodie; e ora, invece, ben quindici anni più tardi, seduta allo stesso
sgabello del mio primo giorno lavorativo, l’unica voce melodiosa che le mie orecchie hanno il
permesso di udire è quella del mio piccolo Filippo: <<Mamma!>>. Mi chiama per chiedermi l’orario
di rientro, mi chiama per esprimermi il suo bene, o meglio, per avere la conferma, la certezza del
mio bene per lui, mi chiama perché ogni mattina considera il nostro sfuggevole saluto un vero
tradimento, quasi un abbandono, mi chiama perché ha la necessità di chiamarmi, per sentirsi al
sicuro, perché io sono la sua mamma, perché lui vive di me, del suo punto di riferimento, del suo
modello, vive del mio amore e della mia protezione. La sua voce trema e ha il terrore di chiudere la
cornetta del telefono perché teme che chiudendola mi perderà di nuovo come la mattina, come
ogni mattina.
E di colpo le campane della Chiesa suonano a festa: Mezzogiorno! La pioggia continua imperterrita
ad abbattersi sul tetto e sulle pareti dell’edificio, e il vento fa scricchiolare le finestre, ormai troppo
esauste per difendersi dall’ira della natura, dalla forza del destino. Sento alcune lamentele
dall’altro capo della stanza, alcune mie colleghe hanno già spento da qualche minuto le loro
macchine. Come è giusto che sia oggi si chiude prima. Spengo anch’io la mia macchina da cucire e
mi alzo in piedi quasi con il sorriso sulle labbra: non può essere il vento ad angosciarmi, né la
pioggia a rattristarmi: ho una famiglia a casa che mi aspetta e la mia giornata lavorativa è appena
terminata; sento ancora nelle orecchie la voce insicura di Filippo e in mente ho ancora l’immagine
serena di Aurora, una bimba astuta, coraggiosa, ma ancora troppo piccola per affrontare il mondo.
L’orologio della Cattedrale segna le ore 12:15. Le luci della fabbrica si spengono, riesco a
distinguere in lontananza urla, sirene, qualcuno che piange. E io, invece, so di non potermi
muovere, so di non poter urlare, piangere o scappare, so di non poter tornare a casa, ormai ne ho
la certezza. Ma non ho paura. E d’un tratto mi rivedo lì tra le macerie di una fabbrica, tra le
macerie di una vita spezzata, ma neanche ora ho paura, non posso né devo aver paura.
Polvere.
C'è polvere d'amianto
negli occhi della morte,
polvere che offusca vite
e mai ricordi;
polvere negli occhi di una madre
che ricerca speranza,
negli occhi di un padre
che implora giustizia.
E' imprigionata la memoria
in carceri di cenere:
la nube nera continuerà in eterno
a soffocare anime innocenti,
perchè le vere vittime
son sempre i superstiti,
perchè il silenzio del lutto
uccide anche i vivi.
Inconsapevoli sono le coscienze,
straziate lentamente dal male invisibile,
protagoniste di un destino
scritto in anticipo,
in un mondo in cui
il fine giustifica sempre i mezzi,
e in cui chi tace è l'unico a salvarsi.
Il potere, divino sovrano,
è ormai manipolatore di esistenze.
E presuntuosa è l'indifferenza
nello sguardo dei colpevoli.
Benevolenza angelica
perdoni tali sguardi
ed accolga oneste preghiere.
Gloria Cuppone 5Av.o.
Liceo Classico P. Colonna-Galatina