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Attimi di futuro

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Attimi di futuro

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

AA. VV.

ATTIMI DI FUTURO

Racconti di fantascienza

www.booksprintedizioni.it

Copyright © 2014 BookSprint Edizioni Tutti i diritti riservati

Autori:

Agostino Borriello Imelde Cassino Rosati

Gerardo Cesarano Giulia D’Aloia Joana D’Arc

Susy D’Esposito Pietro Damiano Dino De Angelis

Mauro Di Giorgio Francesca Fiumara

Giuseppe Florio Rossella Guglielmo

Pasquale Iorio Patrizia Ippolito

Giovanni Michele Locoro Maria Pace Marano

Nykolas Morgese Afra Pace

Renato Paternoster Marco Perna Jessica Rota

Martina Ruotolo Rosaria Sansone

Sara Sciore Daniela Silvestri

Pietro Spanò Eleonora Zaupa

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Introduzione Nessuno lo sapeva. Quando sono entrati in sala, quando hanno scelto circospetti il proprio posto, non avrebbero mai pensato che quegli esercizi sarebbero diventati un libro. Il loro libro. E invece eccolo qui, tra le tue mani. Non ci sono più cancellatu-re, ripensamenti, spazi bianchi; ma senza cancellature, ripen-samenti, spazi bianchi, tutto questo non sarebbe stato possibi-le.

È difficile raccontare cosa è successo in quei due giorni. Dentro quei fogli scritti in fretta, c’erano le idee, nascoste die-tro le paure e le ansie c’erano, limpide e lucenti, le idee. Non si doveva far altro che lasciarle venire fuori, dargli spazio e aria.

Non è stato semplice, perché scrivere non è una passeggiata. Perché scrivere una frase e leggerla davanti a tutti significa mettere a nudo la propria interiorità, superare le angosce, sve-lare le inquietudini. Anche se alla fine, dopo tutto, restano solo le parole, e non si è mai sicuri che sia abbastanza.

Ogni corsista ha scritto il suo racconto, seguendo un’unica

regola. Primo e solo comandamento: rispetta i “vincoli”. Stabilito il genere (Fantascienza), ogni elaborato doveva ave-

re le seguenti caratteristiche: − Un pagliaccio; − Una telefonata di almeno sei battute; − Un’esplosione.

Alla fantasia e alla bravura di ognuno rispettare le regole

senza lasciarsene intrappolare.

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Ogni autore ha dato il massimo, e ci ha messo il cuore per andare oltre. Ha portato a casa i fogli, ci ha lavorato, li ha tra-sformati in un racconto. E ora, quei racconti sono diventati un libro.

Sfogliando queste pagine conoscerai un gruppo di aspiranti scrittori che un giorno, nel bel mezzo dei boschi, ha comincia-to a scrivere una storia. Li vedrai uno per uno, scoprirai i loro nomi, i loro volti. Vedrai le parole, quelle che sono rimaste. Tutto il resto dovrai mettercelo tu.

Ogni racconto è un invito a risalire il torrente dei pensieri, a sfidare controcorrente le paure, per raggiungere la sorgente delle emozioni e lasciarsi andare a valle, dove correre veloce e libero.

Se stai leggendo queste righe, significa che hai raccolto l’invito, e ora tocca proprio a te.

Buona lettura, e buon viaggio.

Il fuoco di Prometeo di Rossella Guglielmo

Rossella Guglielmo, nata a Valsinni nel 1983, si è laureata e specializzata in lingue presso l’Università degli studi della Basi-licata. Ha insegnato in Francia lingua e letteratura italiana. At-tualmente vive a Potenza, scrive e si occupa di traduzioni lette-rarie dal francese.

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uanto tempo sprecato a raggiungere il sole Mentre la luce nel nostro spirito il cielo muove Ahi quanti anni impiegati alla ricerca di un raggio felice

Quando nel ventre covava la terribile danzatrice. Di mare e di nebbia il mondo sommerso Invero si bea di ciò che non vede. L’orba stella in splendore e gioia cede Mentre ognun si strugge in un cammin diverso. Così cantava il vecchio matto che vagava per le strade della cit-tà. Indossava un costume da pagliaccio, logoro e sporco, ed uno strano bastone sosteneva il suo gracile corpo.

Probabilmente lo aveva incrociato quella sera… quella sera in cui si accese la fiamma della speranza.

Di sicuro aveva indugiato diverse ore in quella casa ormai distrutta. Sapeva che la chiave di tutto era nascosta al suo in-terno: doveva solo cercare bene fra i resti di memorie andate in fumo.

Ciò che era appartenuto alla sua famiglia era polvere sepolta dalle macerie. Le pareti annerite da un vecchio incendio: nes-suna fotografia, nessun quadro, nulla che ricordasse la quoti-dianità dei proprietari.

L’ora del coprifuoco era passata già da un pezzo, e Giovanna non poteva farsi sorprendere a frugare in quel posto maledetto da Dio e dagli uomini.

Giovanna era cresciuta in un orfanotrofio di stato. I suoi ge-nitori erano morti a causa della terribile epidemia che molti aveva ucciso ed altri condannati a vivere fuori le mura delle città – prigionieri che espiavano il loro peccato in un luogo cir-coscritto e controllato da militari.

Lei non era stata contagiata. E nonostante il Male avesse po-sato la mano sulla sua famiglia, lo Stato decise comunque di salvarla inserendola in quel programma rieducativo noto come

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L’altra faccia della Luna di Imelde Cassino Rosati

Imelde Cassino Rosati è nata e vive a Moliterno, una ridente lo-calità climatica della provincia di Potenza.

Laureata in Lettere con una tesi su Carlo Levi, ha svolto la professione di docente e successivamente di Dirigente Scolasti-co, venendo a contatto con diverse realtà territoriali: Subiaco (ROMA), Barile (PZ), Brienza (PZ), Latronico (PZ), Lauria (PZ) ed infine la stessa Moliterno.

La scrittura è stata ed è la sua chiave espressiva privilegiata. Il suo primo romanzo “La casa dello specchio”, BookSprint 2012, ha ottenuto un prestigioso riconoscimento fuori concor-so alla XVI edizione del Premio Letterario Nazionale “Carlo Levi”. In procinto di pubblicare il secondo racconto del ciclo “Cronache dal Borgo della Mole Eterna”, è in preparazione il terzo lavoro a conclusione del trittico.

Si inserisce nella presente antologia con un esperimento che tutto sommato si può considerare riuscito e che prelude a ulte-riori sviluppi... Per chi ama scrivere c’è ancora e sempre tanta strada da fare!

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uella notte sulla Luna ci fu un’esplosione nel giacimento di energia atomica e un turbine di particelle scosse dall’interno il piccolo pianeta.

Un bagliore accecante accese per un attimo la ionosfera, mentre raffiche di venti stellari si abbatterono come una bom-ba sulla Terra.

E quella doveva essere solo una tranquilla notte estiva del 2319!

Che diavolo stava succedendo lassù? Su quel minuscolo sa-tellite d’argento?

Tutto il mondo sapeva che nel giorno appena trascorso la cittadella scientifica costruita sulla Luna era stata in festa, la festa di un importante anniversario; ricorrevano 250 anni dal primo atterraggio dell’Uomo sul satellite bianco. Moltissimi avevano seguito i notiziari e le trasmissioni in tempo reale sul web intergalattico e tanti, ma proprio tanti, avevano deciso quell’anno di trascorrere le ferie sulla Luna. Era un evento ec-cezionale e chiunque avrebbe fatto carte false pur di essere presente.

I Presidenti dei maggiori Stati del pianeta e persino il Papa avevano affrontato il viaggio per portare il loro augurio agli abitanti della cittadella che ormai sfioravano il milione. Erano ingegneri, geologi, fisici, chimici, e tutti con le loro famiglie, con bambini, ragazzi e anziani.

Naturalmente il privilegio fu di pochi, dei soliti magnati che avevano navette terra-luna di proprietà, con annesso equipag-gio e servizio alberghiero a bordo. Ma non mancarono viaggi organizzati da agenzie e finanche da parrocchie, ma si trattava di navicelle di seconda mano svendute dalla Nasa o da agenzie spaziali europee in difficoltà finanziarie.

Si stava bene lassù. Tanto più che adesso non mancava davvero nulla, c’erano

scuole o meglio luoghi virtuali di apprendimento, di cura della

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Spara alla cieca di Dino De Angelis

Dino De Angelis nasce e vive a Potenza, legge e scrive per pas-sione ed ha anche pubblicato un romanzo, dal titolo “Senza Occhi”. In realtà il suo “cassetto” è pieno di micro-racconti, addirittura vi è anche una sceneggiatura ambientata nella me-ravigliosa terra in cui vive, del resto gli basta vivere una qual-siasi esperienza un po’ fuori dal quotidiano per immaginare una storia. Non saprebbe definire il suo genere letterario prefe-rito, ma comunque avverte una certa predilezione per il “noir”, che crede lo influenzi anche nello scrivere.

Come professione “ufficiale” fa l’agente di viaggio, ma la sua curiosità nell’apprendere nuovi mestieri non si è ancora ferma-ta e non disdegna, ancora una volta, di scoprire qualche altro lavoro che gli possa regalare nuove gratificazioni. Amante dello sport, è allenatore di basket da un tempo così lungo da non sa-perlo più contare. Ma del resto, saperlo, cosa gli cambierebbe se è ancora oggi una delle cose che gli piacciono di più?

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pro gli occhi e mi trovo disteso sopra il dottore con gli occhi sbarrati, e non riesco a ricordarmi cosa ci faccio. Sono disgustato dall’odore del sangue tutto intorno, sen-

to un infernale dolore al collo con la bocca che sa di medicina e la testa che mi scoppia.

Invece di concentrarmi su cosa sia successo, la prima cosa che mi viene in mente è uno dei miei pensieri sul Tempo. Si dice che sia un galantuomo perché porta sempre le cose lì dove devono andare, che bisogna saper aspettare che arrivi il mo-mento giusto e che vivere più tempo ha più valore che vivere di meno. Tutte stronzate. Il tempo è un gran figlio di puttana. Non arriva mai quando deve, quando lo invochiamo, quando speriamo che qualcosa accada e invece, con una puntualità che non corrisponde a quella di nessuno, non arriva mai.

Per non parlare del tempo interiore. Quello che non si identi-fica con un orario o con una data. È il tempo della nostra co-scienza, della nostra vita, da cui a volte dobbiamo scansarci perché una cosa successa chissà quando ritorna come se fosse un boomerang e se non ti abbassi ti colpisce alla testa, facen-doti lo stesso male che ti aveva già fatto prima.

Come ogni volta che passo davanti alla biblioteca dove c’era Mehari, il giorno che avevamo un appuntamento. Mi disse:

«Papà, devo andare a fare delle ricerche, mi puoi accompa-gnare?»

Le avevo risposto che non ero sicuro di fare in tempo ad ar-rivare, e che se non mi avesse visto poteva pure entrare, l’avrei aspettata fuori.

Infatti non arrivai in tempo, così lei era entrata, in quel luo-go di silenzio e di pace, prima che si trasformasse in un’Apocalisse.

Non si trattava dell’Islam, come avevano fatto credere. Era una razza aliena ancora non ben specificata, che aveva final-mente preannunciato il suo progetto. Scacco matto agli umani in tre mosse, una ogni venti anni. Nel 2001 l’attentato alle Torri

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Amanda di Martina Ruotolo

Martina Ruotolo 18 anni, di origini napoletane, nasce il 6 gen-naio del 1995 a Ponticelli. Studentessa diplomata nel 2013 al liceo scientifico “Alfonso Maria De Liguori” di Acerra (NA), dove vive attualmente. Legge molto, per lo più romanzi e colti-va da sempre la passione per la scrittura e la musica. Sogna un giorno di poter diventare una scrittrice a tutti gli effetti.

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elle volte mi prende quella voglia matta di lasciare tut-to: di abbandonare tutto questo lavoro, di mandare a fare in culo anni ed anni di studi. In fondo non è colpa

mia, perché ora dovrei passare tutto il giorno sotto terra, in quel cazzo di laboratorio che ormai è diventata una prigione. Perché dovrei passare tutto il giorno lontano da mia moglie, tornare a casa esausto, non avere neanche la forza di fare l’amore con lei, e sentirla parlare sempre di volere un figlio. Ma lei non capisce, e fortunatamente non capirà mai. Sono io che ci convivo con questa cosa, sono io che vedo morire milioni di donne, anziani e bambini ogni giorno. Come potrei mettere al mondo una creatura e poi dover pregare tutte le sere un pre-sunto Dio perché lei non si ammali? Mia moglie è fiduciosa, ma è normale per lei: è cresciuta in chiesa. I suoi genitori han-no pensato bene di chiudere la sua mente in una stanza e la-sciare tutto il male del mondo fuori. Non sono mai stato un ti-po religioso, forse è anche a causa del mio lavoro. Ma lei no, lei crede davvero che Dio vegli su di noi, crede che il fatto che lei non si sia ancora ammalata sia opera di Dio. Cazzate! Lei non si è ancora ammalata perché ho fatto installare io stesso del Pro-Gi in ogni angolo di casa nostra, e le ho vietato di invitare gente in casa, persino i suoi genitori non sono più i benvenuti. Ha rifiutato il vaccino perché pensa che Dio sia con lei, e io spero con tutto il cuore che abbia ragione.

Passo tutto il giorno e tutti i giorni in questa merda di labo-ratorio, è enorme e tutto bianco che sembra un ospedale, e può anche sembrarlo ma è esattamente il contrario. È diviso in va-rie arie: in quella dove lavoro io ci sono altri tre scienziati e tutti e quattro insieme ci occupiamo di prelevare sangue e su-dore dagli ammalati che poi riportiamo in delle boccettine con appositi numeri di targa. Prima di tutto ciò, però, passiamo un’ora nella stanza per “la Pulitura”, dove un macchinario ci preleva una goccia di sangue dall’indice per vedere se siamo stati infettati e successivamente, se sei pulito, vieni cosparso di

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“1941” di Afra Pace

Afra, Chiara Pace è nata il 21 ottobre 1987. Il suo nome lette-ralmente significa “colei che arriva dall’Africa” e – seppur nasce in una cittadina di provincia del meridione italiano – nel suo nome è anticipato il suo destino e racchiuso l’amore quasi vi-scerale che anni dopo conoscerà per l’Africa, il Senegal in par-ticolare. Attualmente vive a Potenza, tenendo però sempre un piede altrove.

È la figlia primogenita di Vito e Giovanna, la sorella di Si-mone, una studentessa universitaria di lettere moderne da troppo tempo, che da grande vorrebbe lavorare nell’Editoria. Nel frattempo si cimenta nella gavetta giornalistica, alternan-dosi tra lo scrivere di boxe e gli eventi culturali.

È un’ingorda divoratrice di libri. Le piacciono le storie, ma detesta le bugie. È un personaggio alla buona, ironico, ruvido, curioso, testardo, incasinato e irrequieto. Insomma, 170 cm di incoerenza e contraddizioni. Esiste (e resiste) nel mondo, a modo suo.

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l professor Albert O’Neill gironzolava per il suo studio. Fi-schiettava seguendo la melodia diffusa dal suo vecchio gi-radischi. In fatto di apparecchiature, il navigato accademi-

co era fermo a decenni prima: non voleva proprio saperne di file musicali in versione mp3 o di apparecchiature con schermi touch, che considerava vere e proprie diavolerie inventate dal progresso per far spendere inutili soldi alla gente. A suo parere, i dischi in vinile erano l’unico supporto sonoro che rendeva al meglio l’essenza della musica.

Il telefono trillò, spezzando l’incanto di Blowin’ in the wind e il filo dei suoi pensieri.

Il professore, quasi stizzito, afferrò la cornetta: «Chi è?!» Dall’altra parte del ricevitore una voce zampillante, fresca.

Di giovane donna. «Salve, sono Aphra Battle. Collaboro come giornalista free-

lance per il quotidiano The Irish Times; ho tra le mani uno scoop che potrebbe rappresentare una delle più rilevanti recen-ti scoperte editoriali. Ma ho bisogno del suo aiuto!»

«E perché mai dovrei aiutarla?!» asserì l’uomo, tentato di chiudere bruscamente quella conversazione. «Io non sono co-me quei saputelli alla ricerca di notorietà, disposti a sparare quattro “bazzecole” pur di farsi fotografare e comparire in te-levisione!»

«Ehm, qui la faccenda è decisamente seria, mi creda…» la giovane giornalista stava sorridendo, quasi divertita da quell’atteggiamento burbero. «Pare che lei sia famoso per la sua eccellente preparazione nel ramo della letteratura irlande-se. E per il mio caso ho bisogno delle sue conoscenze riguardo James Joyce. Pare che abbia scritto una serie di racconti inediti qualche mese dopo la pubblicazione dell’Ulisse. E nessuno ne è mai stato a conoscenza.»

A quelle parole, il professore aveva rizzato le orecchie. «Mi dica tutto…» il suo tono si era leggermente raddolcito. «Ecco, vorrei avere una sua professionale opinione» ora la

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Il pagliaccio assassino di Pietro Spanò

Pietro Spanò quarantanove anni, calabrese, architetto, ha con-seguito due master, di cui uno in progettazione esecutiva, l’altro in project management ed organizzazione aziendale. Ha iniziato a lavorare in Calabria ma ha fatto esperienze anche a Londra e Milano.

Attualmente, per lavoro, si sposta in tutta Italia, entrando in contatto con differenti e peculiari situazioni di vari settori pro-duttivi ed in diversi contesti geografici e socioculturali.

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a marea umana si agitava in un clima di festa, in occa-sione del giorno della salvezza nazionale. La celebrazio-ne del decimo anniversario della conquista del potere, da

parte della rivoluzione popolare non poteva essere certamente l’occasione giusta per il verificarsi di ciò che gli uomini del presidente ogni giorno temevano.

Nel cielo vetrato della città, la formazione degli elicotteri su-personici sorvegliava il corteo imponente delle spedicar, che accompagnava il capo del popolo. Visto dall’alto, sembrava un grosso serpente che si muoveva tra le grandi vie e le piccole traverse, fino a raggiungere la meta, la Piazza della Conquista, denominata “Plaza”, nel cuore di Furonia. La luce artificiale dei potentissimi fari al led sostituiva il sole opaco che intanto si era inabissato, ultimo residuo nella memoria di un universo naturale ormai passato alla storia; anche la pioggia, mostrata attraverso i video o i vecchi film che documentavano il secondo millennio, era diventata oggetto di narrazione per i bambini o ricordo nostalgico per i più anziani, che da piccoli avevano as-sistito alla quasi distruzione del pianeta umano. Lo sfrutta-mento sfrenato del sottosuolo, l’estrazione di gas, petrolio, uranio, la produzione senza controllo di anidride carbonica, avevano modificato l’intero ecosistema.

Furonia era coperta da un’enorme semisfera di vetro tempe-rato. All’interno erano state ricreate tutte le condizioni per rendere possibili le funzioni vitali. Fuori, invece, c’era un terri-torio devastato, dove la temperatura era a cinquanta gradi sot-to lo zero e la pressione atmosferica rendeva impossibile ogni forma di vita.

L’enorme palco proporzionato all’enormità della piazza, le gigantografie posizionate sui lati e sul retro della scena, l’oceanica folla accorsa ad applaudire il suo presidente, rias-sumevano efficacemente tutta la teatralità delle memorabili manifestazioni dei grandi dittatori della storia. Anche il siste-ma di sicurezza non era da meno. La squadriglia di elicotteri

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Il sorriso di J. di Susy D’esposito

Susy D’esposito medico napoletano, da poco ha debuttato nel mondo della narrativa con il suo primo romanzo “Volevo solo amare”, edito da Booksprint. In precedenza aveva scritto brevi racconti e piccole raccolte di poesie, mai pubblicate. Nel cam-po musicale ha scritto alcune canzoni con partecipazioni an-che a importanti a Festival e manifestazioni a carattere nazio-nale, con buoni piazzamenti.

Ha ottenuto un buon successo di visualizzazioni Youtube, di recente, per l’Inno della squadra del Napoli “Per sempre sarà” di cui è autrice sia del testo che della musica.

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ono pronto!» «Sei sicuro?» «Sicurissimo. Ho terminato già da alcuni giorni. Ho

aspettato. Ho riflettuto. Ho rivisto tutti i programmi, tutte le fasi, tutti i passaggi. È tutto pronto. Io sono pronto.

«Parliamone ancora un po’. «Ne abbiamo parlato tante volte. Sono dieci anni che aspetto

questo momento. Tu sei l’unico a conoscere la verità. «Lo so, lo so, abbiamo discusso tanto. Anzi, devo anche rin-

graziarti per avermi dato tanta fiducia. «Sei il mio migliore amico. «Lo sarò sempre. «Ti ho sempre raccontato tutto, fin dall’inizio, solo tu cono-

sci la mia storia… Quelle ultime parole si persero man mano, il volume del

suono della sua voce dapprima si affievolì, poi scomparve del tutto, lasciando posto ad un groviglio di pensieri.

I ricordi iniziarono a prendere forma, diventando sempre più nitidi, più vivi che mai.

Quei dieci anni erano davvero passati così in fretta? Tutto iniziò con quell’esplosione. Quella maledetta esplosione di quel maledetto pomeriggio

d’inverno in montagna. Ci andava spesso in quel cottage, quella specie di rifugio na-

scosto tra boschi e montagne. L’avevano scoperto insieme, lui e Giulia, quando ancora non

erano sposati. Ci erano tornati poi dopo il matrimonio e, anco-ra dopo, con Martha J., quello splendido diavoletto nato dal lo-ro amore, tutta occhioni e riccioli neri.

Quella J puntata nel nome l’aveva voluta fortemente sua mo-glie. Stava per Jennifer, il nome della protagonista del roman-

«S

La verità nascosta di Francesca Fiumara

Francesca Fiumara romantica, sensibile, lunatica, estroversa, allegra, questa è Francesca, una donna come tante, sposata con un uomo meraviglioso e mamma di un figlio stupendo di sette anni.

Perché ha cominciato a scrivere? Un giorno senza perché, presa carta e penna, prova a gettare giù qualche storiella come quando faceva da bambina, la sua mente incomincia a vagare in posti meravigliosi, si sentiva abbastanza felice, voleva creare dei piccoli racconti scorrevoli che avessero un inizio e una fine, dei romanzi che parlavano d’amore, di sesso, di fantasia. Crede che tutto nasca dal nostro cuore, dalla voglia di creare qualco-sa che nasce dentro di sé giorno per giorno.

Non sa dove la porterà tutto questo, non sa se un giorno riu-scirà a pubblicare un libro ma di una cosa è certa… Non smet-terà mai e poi mai di scrivere.

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24 ottobre 2013

l telefono squillò in piena notte. Elisa si alzò dal letto, accese la luce della lampada sul

comodino e rispose. «Pronto!» «Mamma dove sei? Fa freddo qui.» «Ginevra!» esclamò Elisa. Un brivido le percorse lungo la schiena, come era possibile!

Ginevra era morta circa un mese prima. «Tesoro dove sei?» disse Elisa. Stava sognando, ne era sicu-

ra. «C’è stata un’esplosione mamma, non so dove mi trovo, ho

paura!» rispose singhiozzando Ginevra. «Stai calma tesoro, dimmi cosa vedi dove ti trovi! Vengo a

prenderti Ginevra.» «Ho paura mamma, tanta paura, non so dove mi trovo, da-

vanti a me e tutto buio, riesco a vedere a malapena una casa disastrata» disse la piccola scoppiando a piangere.

«Amore spiegati meglio» pronunciò Elisa attorcigliandosi nervosamente tra le dita il filo del telefono.

Tu tu… tu tu… «Ginevra! Rispondimi ti prego, non ora Gi-nevra!» dall’altra parte della linea ci fu solo silenzio. Elisa riag-ganciò il telefono, si vestì di corsa, scese le scale afferrando le chiavi della macchina e si diresse a tutta velocità alla stazione di polizia. No, non stava sognando, quella voce, si… “Ginevra è ancora viva” ne era sicura.

«Elisa ti senti bene?» le chiese Armando passandole un bic-chiere di acqua.

«Non sono matta, credimi, era proprio Ginevra al telefono.» Armando si sedette e la fissò «non dico che sei matta, ma

avrai fatto solo un brutto sogno Elisa» disse sbruffando «mi spiace essere crudo e duro con te, ma tutti noi abbiamo assisti-to alla sepoltura di Ginevra. Elisa, tua figlia e morta» continuò

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“2015” – Un salto nel vuoto di Jessica Rota

Jessica Rota nata nel 1985 a Bologna, inizia a scrivere all’età di 15 anni, ragazza molto creativa già dall’età adolescenziale, svi-luppa la sua passione dello scrivere con gli anni e l’esperienza; a vent’anni si trasferisce a Milano dove tra una serata da pub-blico, e una come comparsa diviene autrice di due programmi televisivi in onda su Sky “Contenuti Extra”, un giro fantastico nella vita dei personaggi televisivi che accompagnano le nostre giornate. Dopo alcuni anni come autrice, attrice cinetelevisiva e teatrale pubblica il suo primo libro, una raccolta di poesie “Anime - Il volto del destino”, avendo già catturato il clou del mondo dello spettacolo decide di rientrare a Bologna e spazia-re nel mondo del lavoro, pur conservando la passione innata della scrittura.

Nel 2009 pubblica il suo secondo libro, questa volta un rac-conto fantastico per ragazzi. New York 2013.

Nel 2013 frequenta un corso di scrittura creativa per amplia-re le sue conoscenze. A questo corso non solo fa tesoro degli insegnamenti ricevuti ma conosce e vive la familiarità della sua prossima casa editrice.

Ad oggi Jessica vive nella provincia di Bologna, si dedica a tempo pieno nell’attività di Commerciale rappresentate per l’Enoteca Molisana, con il progetto poi di andare con la stessa all’estero e visitare e vivere culture diverse dalle nostre, tutto questo lo fa sempre con il suo taccuino in mano e penna a se-guito.

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n altro giorno era pronto a sorgere a New York, erano le 6.00 della mattina del 30 Novembre 2015, e i primi raggi di sole iniziavano ad entrare nella finestra del la-

boratorio. La città era stranamente vuota, in un attimo quei pochi raggi di sole fecero spazio a un cielo grigio, il paesaggio si incupì, divenne più scuro e tenebroso. Nel laboratorio ap-parve un gatto nero, si vedeva chiaramente che portava un col-larino. Il gatto camminava abilmente tra le varie ampolle, poi ne fece rovesciare una bevendone il contenuto e di lì a pochi secondi svanì in una bolla d’aria. Erano le 6.00 della mattina a New York e tutto sembrava procedere regolarmente, il suono dei claxon dei taxi inferociti dal traffico non poté non svegliare Morty, il gatto nero che era solito dormire sulla sedia del labo-ratorio di Dorian. Quella mattina il telefono iniziò a suonare di buon’ora:

“Bip… segreteria telefonica di Dorian Ant, sono spiacente ma non ci sono, chiunque tu sia lascia un messaggio e se avrò voglia ti richiamerò”.

«Pronto??? Pronto? Ant ci sei? Questa volta sono settimane che sei sparito, sei sicuro che vada tutto bene? Se non mi ri-chiami vengo immediatamente lì! Cazzo, ma dove sei finito? Qua è successo qualcosa di strano, chiamami! Chant.»

Quella non era una mattina come le altre a New York: era appena scomparso un uomo. Starai sicuramente pensando che ogni giorno spariscono persone oppure muoiono: è vero, ma quest’uomo era svanito all’interno del suo piccolo laboratorio dove la porta era chiusa dall’interno e la chiave era ancora lì. Nessuna infrazione, nessun segno di lotta, niente sangue… Il ricercatore Dorian Ant era solito sparire per qualche giorno dalla circolazione, nessuno lo vedeva né lo sentiva, ma questa volta erano passate più di due settimane. Quella mattina, alle 7.00 irruppe in casa sua la polizia. Buttarono giù la porta, ma nessuna traccia di impronte digitali se non quelle di Dorian. Nel laboratorio, a parte la solita confusione, non vi erano segni

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Chiamata prima della fine del mondo di Sara Sciore

Sara Sciore nata il 20/04/1991, vive da sempre a Sulmona (AQ), città di Ovidio e dei confetti. Sin da piccola ha mostrato di ave-re buone capacità per la scrittura, tanto che la sua maestra di scuola elementare ha paragonato il suo modo di scrivere allo stile di Sepulveda.

Con uno stile semplice e delicato ha iniziato col comporre poesie per passare poi a brevi racconti che hanno visto come pubblico solo pochi amici e familiari. Nel 2004 ha iniziato a scrivere per passatempo il suo primo diario (ad oggi ne ha 19) fino a comprendere che non poteva più fare a meno della scrit-tura.

Dopo aver acquisito l’arte della cucina all’istituto professio-nale di Roccaraso, ha deciso di iscriversi alla facoltà di lettere moderne all’università “D’Annunzio” di Chieti, con l’intento di migliorare le sue capacità e conoscenze.

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nno XV327, avanti anni luce dalla preistoria del 2000. Quando i Maya raccontavano di una possibile fine del

mondo, nessuno avrebbe immaginato che la Terra sa-rebbe diventata un deserto. I ghiacciai si sono sciolti, l’acqua prosciugata, animali e piante si sono estinti e così come la sto-ria divina ci insegna, l’uomo è stato l’ultimo a nascere ed è l’ultimo a sopravvivere.

Negli anni del cambiamento gli scienziati hanno studiato un modo per salvare la nostra specie fino a scoprire, all’interno del sistema solare, un nuovo pianeta: simile alla Terra, Pluy permetteva di proseguire una nuova vita al di fuori della nostra orbita, per questo hanno progettato shuttle spaziali per tra-sportare i terrestri nel loro nuovo pianeta, ma con gli anni hanno scoperto che il clima lì è più rigido e quindi limita la re-spirazione autonoma e presto i primi inviati sarebbero morti assiderati.

Christian era uno dei pochi uomini rimasti sulla Terra, scienziato nel commando di spedizione di salvataggio. Si è in-teressato al caso dopo la morte di suo padre, capitato come ca-via nei primi esperimenti.

«Ho trovato il problema» disse un giorno al Capitano Asan in una telefonata d’urgenza.

«Parla» rispose interessato. «I nostri avi sono morti per il freddo, quindi dobbiamo di-

ventare di ghiaccio.» «Ti si è congelato il cervello? Sai benissimo che è impossibi-

le!» Asan non poteva credere a quello che aveva sentito. «No, signore! Si dà il caso che il trucco e il costume da pa-

gliaccio emanino un gas che, modificato geneticamente, rende la nostra pelle completamente di ghiaccio, conservando peren-nemente gli organi interni. Diventeremo praticamente immor-tali!»

Il Capitano era incredulo e del tutto convinto che lo scienzia-to Christian fosse impazzito, forse per il caldo o forse per il

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Meridia di Eleonora Zaupa

Eleonora Zaupa nata a Valdagno, in provincia di Vicenza, il 12/07/1994 e poi trasferita a Padova nel 2010. Ha frequentato il liceo artistico a Valdagno e un corso privato di dise-gno/fumetto-manga a Vicenza. Quando capita, lavora come promoter.

Ama leggere, scrivere, disegnare, guardare film e giocare con i videogame. A tredici anni legge il suo primo libro: “Il piccolo principe” e da qual momento non ha più smesso. Poco tempo dopo comincia a scrivere fantasy, genere che l’appassiona in ogni sua forma.

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utti lo sapevamo, ma nessuno aveva dato ascolto. E co-munque, perché ascoltare? Se ciò non ci porta alla distru-zione in questo preciso istante, perché dovremmo farlo?

Ma poi fu troppo tardi. Non c’erano ma. Non c’erano se. Il fumo delle fabbriche, il petrolio e tutto il resto, con gli anni, non ave-vano fatto altro che rendere l’aria irrespirabile. Ormai si rimane-va in casa e quando si usciva lo si faceva esclusivamente con delle mascherine d’ossigeno. Colorate, per renderle più sopporta-bili. Dell’inverno rimaneva solamente un ricordo di quarant’anni prima, e in estate non si poteva uscire: mai meno di cinquanta gradi. All’ombra. Almeno avevamo le nuove maglie rinfrescanti, anche se la loro carica non durava per molto. I laghi, i mari e i fiumi si erano quasi estinti, e ogni paese aveva un pozzo con ac-qua potabile. Alcuni dovevano fare kilometri per prenderne un po’, ma almeno i trasporti non erano difficili, grazie alle Flycar: dei gioiellini messi in commercio da poco. Non erano altro che auto e moto, funzionavano a luce solare e la carica poteva durare giorni. Non si può dire che volassero, però restavano sospese a mezzo metro da terra. Non me ne intendo molto, so solo che adoperavano lo stesso meccanismo degli aerei che si usavano in-torno agli anni duemila. Certo, cose ormai superate. Ma funzio-nano ancora molto bene. Quando arrivava la pioggia era una delle cose peggiori: non potevamo uscire per giorni e ogni piccola traccia di verde moriva. L’aria puzzava di acido e la pelle brucia-va. Finalmente arrivò una svolta, i sogni di tutti noi si avveraro-no! Un’equipe di scienziati, di nome “Meridia”, decise di usare l’ultima delle scoperte in campo scientifico: la “rielaborazione molecolare dei gas”. Crearono dei dispositivi che trasformavano tutto ciò che c’era di nocivo nell’aria e nell’acqua in qualcosa di sano per l’uomo, per gli animali e per le piante. Entusiasti dei primi risultati, scelsero di collocare ovunque i congegni chiamati Neolife, abbreviato N.L. Ventisette anni dopo, nel 2093, il pianeta era rinato. Le lande di terra vivibili erano ancora poche ma, gal-vanizzati dai risultati ottenuti, diedero loro nuovi nomi per

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Robotland di Mauro Di Giorgio

Mauro Di Giorgio nato a Roma il 25/5/56, Medico Chirurgo Specialista in Cardiologia e Medicina Interna, Dirigente Medi-co Presso L’Ospedale GB Grassi Ostia Lido. Da molti anni stu-dia Chitarra Classica e attualmente è iscritto al secondo bien-nio del Conservatorio di Musica di Latina.

Da un anno circa si dedica alla scrittura, a completamento di un percorso letterario cominciato 40 anni fa. Ha scritto un ro-manzo giallo nel quale compare il Commissario Marco de Mat-teis, Dirigente del Commissariato Prati, il suo vice Aniello Pa-lumbo ed Ernesto Guidi, un ladro non pentito amico d’infanzia di De Matteis. Il libro è in via di pubblicazione. È in via di completamento il secondo libro con gli stessi protagonisti.

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Roma 31 dicembre 2999

l suono della sveglia a ultrasuoni lo sorprese a metà di uno dei suoi vividi e inquieti sogni. Dalla finestra con gli infissi in titanio al trentesimo piano dell’UdR – Unità di Riposo

trentacinque, com’era definito tecnicamente il suo apparta-mento di quaranta metri quadri incastrato in quel grattacielo periferico, a oltre cinquanta chilometri dal centro cittadino, già filtrava il primo chiarore dell’alba. Le scie luminose delle na-vette, le popolari fly-tube, o metro-volanti, si riflettevano sui ve-tri, illuminando come flash la stanza da letto. Avevano preso servizio alle 4:30, pronte a trasportare migliaia di pendolari dalle lontane periferie ai posti di lavoro, a velocità elevate e si-lenziose grazie ai loro potenti propulsori ecologici a idrogeno, in grado di eliminare come gas di scarico ossigeno puro. Con-trollò l’ora, l’orologio digitale indicava le 5:30, era ora di muo-versi. Si stirò le membra, represse uno sbadiglio pensando a quell’orologio vintage eredità di suo nonno, che lui manteneva come una reliquia, invece di passare ai lettori di tempo, quelle infernali macchine che t’infilavano l’ora nel pensiero, riducen-do i sensi umani a puro optional. Quella era una giornata im-portante, e l’occhio scese alla borsa in tungsteno appoggiata ai piedi del letto ad acqua. Si alzò, si tolse l’auricolare con il rile-vatore di ultrasuoni, spinse il pulsante con l’immagine del caffè nel cubo di metallo multifunzione, e dopo cinque secondi rac-colse la tazzina con il caffè fumante, che bevve sorseggiando lentamente, mentre entrava in bagno. Dopo la doccia, avanti allo specchio, si osservò a lungo. In fondo quello che vedeva non gli dispiaceva. Non troppo alto, solo un metro e ottanta-cinque, in una società che aveva un’altezza media di un metro e novanta, capelli scuri, occhi verdi, nemmeno una ruga, un fi-sico atletico. Sì, non dimostrava le quasi quaranta primavere che aveva sulle spalle. Era un bell’uomo, divorziato, come qua-si tutti. I divorzi erano una delle eredità del millennio che stava

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Presagio di un nuovo inizio di Giulia D’Aloia

Giulia D’Aloia nasce nel 1983 in un paesino della provincia di Salerno. Dopo gli studi tecnici/commerciali da Ragioniere Pro-grammatore, si laurea con il massimo dei voti alla facoltà di Fi-losofia dell’Università di Salerno. Fondamentalmente eclettica, coltiva con passione l’amore per la letteratura, la fotografia, la salvaguardia dell’ambiente, i viaggi ed il bricolage, in cui spri-giona il forte spirito creativo che la contraddistingue.

Sposata e madre di un bellissimo bambino, vive a Sala Con-silina, dove lavora nell’azienda di famiglia. Alla soglia dei trent’anni si dice pronta ad affrontare sfide inedite anche nel campo letterario.

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na volta all’anno mostri la tua vera identità, pagliac-cio!» esclamò briosa Catwoman.

«Bello che almeno a Carnevale tu riesca ad essere spiritosa…» disse sorridendo il pagliaccio.

«Marta, non trovi che anche travestito così il mio Luca sia un tipo affascinante?» intervenne la ballerina.

«Oh certo Sara, deve averne di fascino il tuo Luca se da ben sette anni riesci a stargli accanto. Ma conoscendolo, non capi-sco come possano i suoi pazienti fidarsi di lui!»

«Marta... ma se sei la prima che quando sta male viene dal sottoscritto! Non è stato proprio ieri che ti ho dato quelle sup-postine…»

«Sciocco» ridacchiò lei «torniamo a ballare che è meglio!» Quella sera nella discoteca la musica era travolgente. Sghi-

gnazzi, confusione, trambusto, bicchieri stracolmi, tanta voglia di divertirsi: una festa in maschera davvero ben riuscita.

Poi lo scoppio. Una terribile esplosione. Ed il caos più terri-ficante.

Gente terrorizzata scappava dalle uscite di emergenza. Feriti giacevano a terra sanguinanti. Un fumo nero avvolgeva la sala mentre si udivano altri boati.

In quei pochi istanti il Martedì Grasso spalancò la porta dell’Inferno.

«Signorina, ha ripreso conoscenza, può entrare nella stan-

za.» Sara annuì entrando nella stanza. Accostandosi al letto di

Luca sussurrò dolcemente: «Amore, come ti senti?». «Un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza

di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli.

Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma de-

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Taras di Salentis 21 settembre 2178 di Nykolas Morgese

Nykolas Morgese nato a Taranto il 3 aprile 1969, da sempre ha avuto una grande passione per la lettura dei generi Fantasy, Fantascienza e Mitologia Greca. La sua città, Taranto, ha ori-gini antichissime e fu fondata dagli Spartani, poi resa una splendente città della Magna Grecia.

Il suo cuore tarantino, consapevole della sofferenza che i se-coli hanno inflitto alla città, con le guerre e le dominazioni, ol-tre all’attuale gravissima situazione ambientale ed economica, vorrebbe una Taranto libera da quello che sembra essere un vero e proprio “anatema” scagliato contro la città da qualche entità sconosciuta. Ha vissuto in varie località italiane ma an-che all’estero, soprattutto in Canada, quando ha avuto la fortu-na di poter essere impiegato presso l’Ambasciata d’Italia a Ot-tawa. Quello che ha potuto apprendere, visitando tante località italiane e straniere, è che Taranto ha grandi potenzialità, po-trebbe essere una città turistica e molto apprezzata dagli abi-tanti di tutto il pianeta.

Scrivere per lui è sempre stato un motivo di evasione dal mondo reale e questo piccolo racconto, che poi diventerà un libro, gli ha consentito e gli consentirà di tuffarsi in un sogno che spera si realizzi al più presto. Taranto Libera dal Male.

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aras, città della Regione indipendente Salentis, apparte-nente al Nuovo Trattato Mondiale.

«TARAS È LIBERA!!!» Alexyo, assorto nei pensieri e nei ricordi di quanto avvenuto,

osservava l’orizzonte e la grande palla di fuoco immergersi len-tamente nel mare anch’essa stanca di ciò che aveva visto in quei drammatici giorni precedenti.

I delfini nuotavano nelle acque del Mar Grande e si diressero verso di lui. Si fermarono davanti a lui nel tratto di mare anti-stante l’ingresso del Castello di Taras, un tempo chiamato Ca-stello Aragonese.

Alexyo li salutò con un cenno di vittoria, brandendo la sua “SW-Gun K69, un’arma utile allo scontro fisico e al tiro a fuoco grazie alla sua doppia funzione: − una lama forgiata con un elemento ricavato dalla fusione

di acciaio e titanio, capace di tagliare in due o più pezzi un es-sere umano anche con un colpo leggero; − una pistola dotata di un sistema di tiro a fuoco con proiet-

tili “intelligenti” al titanio, perforanti e capaci di colpire 8 uo-mini con un solo tiro. Un evoluto sistema di mira a traccia multipla memorizzata dal nanochip installato nel corpo della pistola e collegato a un mirino laser capace perfino di rilevare nemici a grande distanza.

Intanto, nella zona portuale teatro dell’ultima battaglia, i

Gabbiani volteggiavano sui resti del mercato del porto di Ta-ranto, ancora pieno di soldati vittoriosi e inneggianti.

TARAS!!! TARAS!!! TARAS!!! Il loro grido si alzava nell’aria forte e deciso, unendosi al

rumore della loro marcia e dei loro stivali anfibi calpestanti ciò che rimaneva sul terreno di guerra.

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Resistance di Joana D’Arc

Joana D’Arc dopo l’uscita del suo primo libro autobiografico “Rinascere si può”, BookSprint 2013, è decisa a non fermarsi più. Nata in Brasile quarantadue anni fa, da diciotto vive in Italia tra i colli Umbri.

Si considera il Camaleonte con la penna, per la sua capacità di creare racconti, romanzi e poesie di svariati stili. Datele tre elementi e lei li trasformerà in parole da divorare, portando ogni lettore a un viaggio dove l’unico bagaglio che vorrà por-tarsi sarà la voglia di non tornare indietro. Ma sa che questo è un dono di Dio.

Il suo prossimo romanzo sorprenderà il mondo.

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vevo sedici anni quando iniziò. La guerra. La terza che l’umanità dovette fronteggiare, circa un secolo dopo la seconda. In quegli anni l’era spaziale aveva raggiunto

quel che i media definivano “Il preludio all’età galattica”, con la scoperta di metodi di propulsione tanto avanzati da far schizzare un astro-scimmia fino a Plutone in pochi mesi. Ov-viamente, mentre i cervelloni si divertivano a contare le stelle e torturare primati, noi morivamo di fame. Queste nuove tecno-logie erano insostenibili per una popolazione già stremata per i cazzi suoi dalle recenti dittature mondiali. Figurarsi poi, in tempo di guerra… Ma a quel tempo riuscivo solo a pensare che il coprifuoco delle dieci di sera meritava tante bestemmie.

Nacque una resistenza. Pacifica. Tentò di capire il motivo di questa guerra, e inizialmente fu repressa con la fame. Poi, nel sangue. Fu allora che ci stancammo davvero. Mi chiamo Ge-rard, oggi ho ventidue anni, sono un capitano della Resistenza da quando ne avevo venti. Per chi combattiamo? Per nessuno. Per cosa resistiamo? Per la nostra terra ancora incontaminata, Freeland, dove noi gente non più succube del sistema ci siamo riuniti da tutto il mondo per mettere al sicuro la cosa più pre-ziosa del mondo: la libertà. Fu per cercare possibili reclute che la incontrai, colei che in futuro sarebbe diventata mia moglie…

*** Gerard si sedette al tavolo di un pub lungo la via. Copriva il suo capo con il cappuccio della felpa casual che indossava, da cui fuoriuscivano le sue rosse ciocche. Davanti a lui si sedette all’improvviso col boccale in mano e gli occhi bassi una ragaz-za. Aveva i capelli corti, era sulla ventina, indossava degli abiti scuri.

«Di solito si chiede il permesso» disse Gerard. «Inutile. So che avresti detto di si. Stai qui da solo tutte le

sere, non puoi rifiutare la compagnia di una bella ragazza!»

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Vi presento Galax di Maria Pace Marano

Maria Pace Marano nasce a Mugnano di Napoli il 3 giugno 1986, cresce e vive però a Giugliano in Campania, sempre in provincia di Napoli.

Sin da piccola ha sempre amato scrivere, ascoltare ed osser-vare. Di poche e semplici parole, non ha continuato gli studi, ha scelto di essere indipendente ed ha sempre lavorato per la conquista di un futuro migliore.

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a Nato americana da diversi anni provava nuove formule di sperimentazione per creare un nuovo robot: Galax, una macchina volante con un satellitare capace di trova-

re nuovi pianeti. Due scienziati, Jak e Garsia, questa volta erano certi di non

sbagliare e che le loro formule di sicuro avrebbero funzionato. «Amico Jak, è passata una vita da quando siamo rinchiusi in

questo orrendo posto, ricordi quella forte esplosione che fece decollare tutto l’edificio?»

«Certo, ricordo quel forte rumore devastante, le macerie, e tutte quelle formule sparse dappertutto, anni di lavoro buttati al vento. Garsia, mi sa che questa volta però non sbaglieremo nulla, andrà tutto per il meglio e saremo noi i nuovi inventori del grande Galax.»

Mancavano pochi giorni per il nuovo millennio: il tremila, dove si sarebbe festeggiato questo nuovo arrivo. Gli scienziati studiavano euforici l’ultima formula da inserire per portare al mondo la nuova macchina volante, un cielo offuscato di nuvole lasciava cadere una pioggia battente, e la corrente andò via per il forte temporale.

«Garsia? Ehi Garsia? Mi senti? Dove sono gli altri? Qui non sento più nessuno.»

«Tranquillo Jak, sono qui, gli altri per paura che si verificas-se un evento negativo, come anni fa, di sicuro saranno scappati fuori e si saranno rifugiati in qualche posto vicino.»

Jak aveva quaranta cinque anni, corporatura robusta, occhi castani, capelli bianchi, carnagione scura, alto 1,70. Era nato in una grande città italiana (Milano), all’età di venticinque anni si era trasferito in Galassia dove incontrò Paola, dal loro amore erano nati tre figli maschi, l’ultimo di appena tre mesi!

«Quindi noi due siamo gli unici a rimanere qui dentro?» Chiese.

«Si Jak, meglio non muoversi, quando ritornerà la corrente prima che ritornino gli altri metteremo la nostra formula nel

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Il filtro intrigante di Rosaria Sansone e Gerardo Cesarano

Rosaria Sansone nata a Napoli, laureata in biologia, lavora ne-gli uffici di Trenitalia. Gerardo Cesarano professore, insegna in un liceo del napoleta-no.

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va, biologa dai lunghi capelli ricci, castani, e grandi oc-chi verdi, abbigliamento sportivo con scarpe Hogan, ul-tima di quattro figli, vive a Napoli, ha molti pretendenti

che ignora per dedicarsi pienamente al suo lavoro di ricercatri-ce, decide di regalarsi un breve e meritato riposo prima che giunga il gran caldo dell’estate.

Si reca quindi nel grande e maestoso hotel “Relax” nel saler-nitano, del quale è assidua frequentatrice e dove ama immer-gersi e rilassarsi nella immensa piscina.

Data la bassa stagione, è unica ospite dell’hotel che si trova in una posizione ridente ed aperta, poggiata su una collina, da lì si innalza il massiccio degli Alburni, con la sua parete verde che, ad una certa altezza, cede il posto alla roccia che sale fino alla cresta che si staglia nell’azzurro; a destra si apre la pianura ampia a perdita di occhio e lunga sino al mare, che si intravede nelle giornate limpide e dal quale ogni giorno, alle undici, arri-va la brezza marina che d’estate rende vivibile l’arsura delle stoppie. Eva, in questo panorama idilliaco col sottofondo del cinguettio degli uccelli, si sta rilassando con gli occhi chiusi, nella piscina. Si sente felice e beata, ma la sua mente torna sempre al suo progetto: il grande esperimento della sua vita, a cui lavora da anni, ora è alla fine, un ultimo passo e diventerà famosa, farà la grande invenzione, la formula per l’agognato filtro, l’elisir di lunga vita!

Improvvisamente Eva abbandona la piscina come colta da un raptus, freme, deve ultimare il suo lavoro; va nel sottoscala che gentilmente l’hotel le ha messo a disposizione come sem-pre, è intenta a controllare le sue formule, a miscelare i vari reattivi in dosi diverse, ma d’un tratto si sente osservata, spiata, si gira a guardare indietro ma nulla! Esce allora velocemente sull’uscio e vede una sagoma allontanarsi di corsa, sembra un clown, pensa “ma cosa ci fa un clown in questi paraggi?”. Eva ritorna alla sua ricerca, al suo acido nitrico e solforico, aggiun-ge il composto da lei inventato, lo inietta alla cavia, si appunta

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Ultimo doppio scacco di Giovanni Michele Locoro

Giovanni Michele Locoro nasce a Rionero in Vulture il 12/04/1976 e si diploma nel 1994 presso l’Istituto Magistrale “Giustino Fortunato”. Scrive fin dall’età di sette anni, piccoli racconti che negli anni amplia a romanzi e dal 1990 al 1994 una raccolta di poesie, che solo nel 2013 ha inviato a vari con-corsi di poesia.

Dal 1999 lavora come operaio addetto alla catena di mon-taggio presso la FIAT SATA di Melfi. Si sposa nel 2001 e ha due figli, attualmente di 11 e 7 anni, ai quali sta trasmettendo la stessa passione per la lettura e la scrittura creativa. Nel 2011, pubblica il thriller horror “Amore Inevitabile”, arrivato semifi-nalista al concorso letterario nazionale, indetto dalla Rai, “La Giara” e con un buon riscontro di copie vendute, sia in Basili-cata che in Puglia. Attualmente risiede a Barile in provincia di Potenza.

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1 Settembre 2250, ore 18,50 di Washington, ora esatta della fine del mondo, o quasi. Un blocco diplomatico im-barazzante gela i rapporti tra le due super potenze. Esso

si focalizza su un gruppo di isolette del Pacifico, ancora auto-nome, nei cui fondali si nasconde un immenso giacimento di IOLO 731, una nuova fonte energetica capace di auto rigene-rarsi, che serve a poter dar vita ai TRIPEDI (macchine robotiz-zate di terra, simili a corazze erette in grado di raggiungere an-che i trecento chilometri orari). Quando i SUPERPRESIDENTI vengono informati da ottusi segretari del fallimento delle trat-tative, quasi ad unisono, come in un ultimo doppio scacco su un tavolo da gioco globale, premono il bottone rosso dell’ARMAGEDDON. Due esplosioni atomiche, milioni di volte superiori a quella di Hiroshima più di tre secoli prima, simul-tanee, scuotono l’intero pianeta, rendendolo una palla di fuoco incandescente. Gli oceani evaporano e l’aria si incendia. Degli otto miliardi di persone presenti sul pianeta, sei miliardi muoiono all’istante, mentre gran parte del resto perisce negli anni a venire per mancanza di viveri di sussistenza. I sistemi d’allarme per attacchi atomici hanno funzionato solo per i “grandi”, che ancora intontiti fissano quell’immane disastro provocato solamente da poco dialogo. Da trecento metri d’altezza, reclusi nei rispettivi uffici, contornati da bolle d’energia che li proteggono dalle onde d’urto e dalle violentis-sime radiazioni, tutti coloro che fanno parte dello staff diri-genziale e i famigliari più stretti sciamano da una parte all’altra dei finestroni che affacciano su quell’abisso infuocato ed apparentemente senza vita. Urla di sorpresa, giubilo ed on-nipotenza si trasformano in ovattati mugugni e deliri sempre più esagerati. Tutti, compresi i megapresidenti, si sentono eu-forici e danno il via a danze e sfrenate feste. Solo le due FIRST LADY, depositarie ancora di principi morali saldi, resistono a tutto quello scempio d’umanità perduta e, facendosi consiglia-re dai più anziani, rubano i potenti tripedi presidenziali, cari-

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Adattamento di Marco Perna

Marco Perna nasce a Napoli il 21 Luglio del 1991. Oggi vive a Portici, in provincia di Napoli. Già dalla tenera età si appassio-na alla scrittura in versi, scrivendo brevi poesie per bambini. Per gli studi liceali, ha frequentato il liceo scientifico tecnolo-gico “Carlo Levi” di Portici, diplomandosi nel 2010.

Nel Luglio del 2011 pubblica la sua prima raccolta di poesie con la BookSprint Edizioni, realizzando così uno dei suoi so-gni più grandi. Successivamente, ha partecipato a vari corsi di scrittura creativa, affinando sempre più la tecnica narrativa per la produzione di racconti. Attualmente, frequenta la facoltà di “Scienze del Turismo a Indirizzo Manageriale” alla Federico II di Napoli.

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ulian s’accese una Marlboro. Poi ci fu l’esplosione. Tre-menda. Il ragazzo si fermò, cercando di ascoltare meglio. Poi un’altra, più forte della precedente. Le persone corsero

nella direzione opposta all’origine della detonazione, come formiche impazzite. Centinaia di allarmi diversi suonarono all’unisono, acute urla di paura. Il fumo si elevò altissimo, con-fondendosi col cielo di Londra, e diffuse tutt’intorno una puzza di bruciato che iniziò lentamente a saturare l’aria. Julian con-tinuò a camminare in avanti incuriosito, tossendo e acceleran-do il passo. Percorse pochi metri e si rese conto della gravità della situazione. La punta della torre oraria più famosa al mondo, il Big Ben, aveva schiacciato la stazione metropolitana di Westminster, mentre il resto era riversato sul ponte, che aveva ceduto per metà. Taxi e auto erano sparpagliati sull’asfalto, alcuni in fiamme, alcuni ribaltati e altri ancora in acqua. Il parlamento era crollato su se stesso e, per una gran parte, affondava nel Tamigi. Gli cadde la sigaretta dalle labbra.

Julian aveva ventisei anni, un paio di occhi verdi e una mano sempre tra i capelli per tirare il ciuffo all’indietro. Ormai nes-suno più lo chiamava col suo vero nome, per tutti era Jude. Non era alto come la media inglese, né aveva i capelli biondi, ma di un nero corvino. Quella sera stava tornando da lavoro. Era cameriere al Globe Trotter, uno dei pub più squallidi in città. Del resto a cosa altro poteva aspirare? Diplomato per un pelo, ambizioni molto poche e, spesso e volentieri, squattrina-to.

Non fece in tempo a varcare la porta, la madre lo stritolò in un abbraccio colmo di ansia e felicità.

«Stai bene amore mio? Sei ferito? Ho pensato al peggio...» disse sua madre Allie, scoppiando in lacrime.

«Sto bene ma’» si limitò a rispondere lui, cercando di scivo-lare via dalla morsa.

«Vieni a... vedere il telegiornale» gli disse lei ancora in preda ai singhiozzi.

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Minotauro di Daniela Silvestri

Daniela Silvestri docente di filosofia, dottore di ricerca, esperto nel settore scolastico e accademico, saggista, giornalista. Vive a Roma.

Tra le sue principali opere: Professione Donna(1996); Bam-bini e Maestri nel Villaggio Globale (1999); Essere Genitori nel III Millennio(2000); Senso comune e didattica della filoso-fia(2011). Con il corso di scrittura creativa di BookSprint Edi-zioni e il racconto di fantascienza “Minotauro” desidera inizia-re un intenso percorso nella narrativa: scrivere mille storie, catturando figure e sensazioni e non fermarsi più.

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arlotto, il pagliaccio, cammina davanti a me. Non mi può vedere e colgo l’occasione per seguirlo

lentamente. Indosso le famose Slowshoes e non faccio per nulla rumore.

Mi chiedo come mai ci permettano di usarle, potremmo sor-prenderli. O forse vogliono giocare con noi, sapendo che co-munque riescono a leggerci nel pensiero se siamo a meno di 50 metri di distanza.

Qui non li vedo. Tuttavia potrebbero essere dietro quel mu-ro, in quella casa.

Spero che Karlotto si diriga verso i prati, così potremo riu-scire a parlare senza essere ascoltati.

È almeno un anno che provo a seguirlo, senza esiti positivi. Prima o poi qualcuno di loro appare all’improvviso e io cambio strada.

Non so come faccia Karlotto a sembrare pazzo. Io sono con-vinto che non lo sia. Che anzi sia molto intelligente. Eppure tutti ne hanno paura o al massimo lo compatiscono. Persino Arisa. Ma qualcosa non mi convince.

Il suo sguardo saetta vivace e ha profondità impensabili, quando pensa che nessuno lo guardi.

Vedremo. Intanto lo seguo. Il suo cappello a cono, con la punta a pennoncello girevole e

la danzatrice che sorregge una bandierina, mi sembra un sim-bolo di libertà.

Ma c’è di più. Per me che ho studiato fisica, tutto quel rame ha un senso preciso. Il suo cappello a cono con la brillante la-vorazione del rame a filo, creato come fantastico accessorio di scena, potrebbe essere semplicemente un’efficiente gabbia di Faraday. Magari doppia, per schermare il pensiero completa-mente.

Attenzione, però. Tra cento metri c’è la stazione di tecnologie innovative e di ricerca militare. Già si profila la sua porzione sommitale fortificata. Ecco che vedo l’antico stemma araldico

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La macchina lavapanni di Renato Paternoster

Renato Paternoster nasce a Barile (Potenza) nel 1958. Emigra a Saronno (Va) nel 1979, impiegandosi in Poste Italiane. Succes-sivamente, rientra a Bari nel 1985 e abita a Valenzano (Ba), cittadina del sud-est barese. Presso l’Università degli studi di Bari, nel 1999, consegue il diploma di laurea in materie lettera-rie con la tesi dal titolo: “Basilicata: una regione problema?”.

Appassionato di glottologia, pubblica nel 2008 col Comune di Barile l’opera: “L’arbëresh e l’italiano a Barile”, nell’ambito dello Sportello Linguistico Regionale con l’ausilio dell’Università degli Studi di Basilicata. Dal 1999 ha al suo at-tivo parecchie poesie e racconti brevi che l’hanno portato ad avere menzioni di merito e premi.

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nno 225 a.C., Archimede di Siracusa riesce ad approssi-mare la misura del π (pi-greco) in modo soddisfacente con 22/7, corrispondente al numero 3,14 considerato per

difetto. Tale misura è il rapporto costante che esiste tra la cir-conferenza e il proprio diametro, è un numero decimale illimi-tato e non periodico, quindi irrazionale. Fatto eccezionale per più di duemila anni fa e io ne rimango affascinato.

A cosa posso associare questo numero? A quale entità, mi chiedo! Tale incommensurabilità mi porta a pensare due cose: da un lato l’impossibilità di racchiudere questa misura in un fatto concreto e dall’altro la perfezione del cerchio, figura geometrica senza angoli e senza spigoli.

Ho già capito che mi sto catapultando in un problema anno-so e complesso, sono solito tuffarmi nei meandri dello scibile umano.

Siamo al 25 luglio del 2013. Marta, mia moglie, sta carican-do la lavatrice e sono le 12,00 ma, colpito dalla forma circolare del cestello, cerco di fermarla perché ho bisogno di pensare e le dico che tornerò per l’ora di pranzo. In verità mi introduco nel lavabiancheria e, dopo le iniziali roteate, non sento più il mio corpo ma la mia mente comincia a vagare in una storia fanta-stica.

Dopo aver sgombrato la vista dalle bolle al profumo di la-vanda, quel cestello si trasforma in un locale notturno; enor-me, pieno di tavoli, con bar e palcoscenico, veramente bello! L’insegna reca una scritta: “Il pagliaccio”. Quando mi accomo-do si avvicina una cameriera che mi chiede cosa desidero; le rispondo di portarmi un cocktail e poi una frittura di pesce e una birra. Le cameriere sono tutte carine e vestono con mini-gonna nera, camicetta bianca e scarpe nere col tacco. Nel frat-tempo qualche gruppo e alcune coppie cominciano ad entrare nel locale e immagino che sarà una bella serata in piena liber-tà. È da tempo che non mi capitava! Intanto rimango forte-mente impaurito quando vedo salire sul palco un gruppo che

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Selene di Pasquale Iorio

Pasquale Iorio (Sarno, 1980) Giornalista e scrittore, si occupa di cronaca per il quotidiano Il Mattino. Con il suo primo ro-manzo Una Scelta di Vita, con prefazione di Guido Bertolaso, ha vinto il Premio Scrittore dell’Anno nel 2009 e nel 2010.

La Penna d’Oro del Premio Pulcinella, il Premio Hemingway Costa d’Amalfi, il Premio Federico II, il Premio Eagles e il Premio Giovane Lettura (conferito, tra gli altri, anche a Fede-rico Moccia) sono alcuni degli importanti riconoscimenti che ha ricevuto negli anni. A marzo 2012 ha pubblicato, con la pre-fazione di Pino Scaccia del Tg1 Rai, il saggio Tutta colpa della Quadriglia. A settembre dello stesso anno, insieme ad Ivan de Giulio, ha dato alle stampe il testo Passeggiata alla Ferrovia. Di recente ha ricevuto l’encomio solenne del Consiglio Comunale di Palma Campania, città in cui vive, per «per l’alto valore della sua incessante attività di ricerca storica». È cultore di crimina-listica e tecniche investigative.

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i sveglio. Il sonno sembra essere durato un istante. Capita quando prendo quegli insopportabili farmaci contro l’insonnia. Quanto ho dormito? Un secondo.

Quello che segna il contatto delle ciglia. O forse dieci ore, chis-sà. Afferro il calepino accanto a me. Sfilo l’elastico e comincio a sfogliarlo. La scrittura non conosce punti, come se i pensieri fossero attaccati insieme dalla colla delle emozioni. Guardo af-fascinato come si scruta il buio senza fondo di un abisso, inca-pace di staccarmi dall’orlo del baratro. D’un tratto una mano mi afferra al petto e, in un baleno, mi ritrovo in un traffico al-lucinante. Auto, furgoni e moto sono così appiccicati che a stento si vede l’asfalto. Se qualcuno si sente male non può nemmeno scendere dalla macchina perché non c’è spazio per aprire la portiera. Tutto fermo. Il semaforo proietta luce fucsia. Sguardo a destra, sguardo a sinistra: la fermata del teletraspor-to, tre persone. Un pensionato con lo zaino, l’aria già stanca di primo mattino. È in anticipo o, forse, avrà saltato la lezione? Chissà cosa vorrà fare da grande. Un ragazzo appoggiato alla pensilina. Indossa giacca e cravatta. I jeans sdruciti. Sulla fac-cia sono impressi i suoi vent’anni. E non gli riesce di sembrare più vecchio. Sembra non avere nulla da fare. Più in là una donna smilza con i capelli turchini. Nemmeno il vento riesce a muoverli. Sembrano come inamidati. Un borsone enorme a tracolla, di quello che serve per stare fuori l’intera settimana. Anche lei ha l’aria affaticata. Pare una vecchia, ma forse ha la mia età. Avrà certamente una nonna sola ad aspettarla nella punta di un grattacielo. Scatta il marrone. Il mondo mette la prima. Mi ritrovo pedone. Svolto l’angolo. L’onda d’urto di una detonazione potentissima mi travolge. Una reazione chimica esplosiva partita dalla zona dell’innesco e corsa verso di me con una velocità di propagazione inaudita. Dentro le narici le esalazioni dei gas, nelle orecchie le urla strazianti di corpi di-laniati. Abbasso lentamente le mani dal volto. Apro gli occhi senza fretta. L’immagine che ho davanti stordisce come uno

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Ritorno a Brooklyn di Agostino Borriello

Agostino Borriello nasce a Cava de’ Tirreni il 10/07/1979. Lau-reato in giurisprudenza all’Università “Federico II” di Napoli, dopo la laurea, visto che già c’erano troppi avvocati a bazzicare i bar della città insieme ai vigili urbani, ha conseguito l’abilitazione alla professione di Consulente del Lavoro, iscri-vendosi all’albo provinciale di Salerno.

Nonostante, e forse grazie alla noia mortale dei suoi studi, la sua vita è ironia. Si definisce un maniaco ossessivo compulsivo del cinema. Non ha pubblicato nulla nella sua vita, una volta ha partecipato ad un concorso di poesia di amore indetto da “TV Sorrisi e Canzoni”, con quella che credeva essere la sua più bella poesia d’amore, ma il concorso lo vinse un tizio che parlava di come la sua fidanzata sovrappeso stesse bene con il pareo, da lì capì che l’editoria non faceva per lui.

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i chiamo Allen McCoy, capitano pluridecorato delle Nuove Nazioni Unite, ho guidato le truppe di esplora-zione “Discovery” alla ricerca di nuovi mondi da po-

ter colonizzare, ho combattuto e vinto la prima guerra inter-stellare tra gli ex-terrestri e i droni, baluardo per la conquista di Marte, ho gentilmente accompagnato fuori l’ultimo uomo sulla Terra, ed ora la mia vita o la mia morte dipendono dall’immagine di una donna che sta per essere sodomizzata da due energumeni di colore.

Ma procediamo con ordine. La telefonata interruppe forse le uniche ore di sonno che mi

concedevo da giorni. «Capitano McCoy» apparve sullo schermo la testona del co-

lonnello Morris. «Colonnello! Come mai questa telefonata? È finito di nuovo

il mondo?» «Il mondo finisce tutti i giorni Capitano» Vidi la mia imma-

gine riflessa sullo schermo fluttuante, avevo ancora un occhio chiuso, accennai un sorriso.

«Le voglio assegnare una missione.» «Sarei in congedo Colonnello.» «Una robetta tranquilla.» «Sarei in congedo Colonnello.» «Perlustrazione.» «Ho detto congedo, non pensione, la assegni a qualche reclu-

ta o qualche soldato a fine carriera.» «Sei mesi fa abbiamo riattivato alcuni satelliti in collega-

mento con la Terra, una settimana fa è stata rilevata presenza umana Capitano» mi si aprì anche l’altro occhio.

«Sono 25 anni che la terra è vuota Jim» obiettai. «Per questo ti ho chiamato, Allen» Sbuffai, mi alzai dal letto. «Tracce di droni alieni?»

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Ridi Pagliaccio di Patrizia Ippolito

Patrizia Ippolito nasce a Palermo il 29 Aprile del 1974. Cresce in una casa piena di libri e, fin da piccola, legge moltissimo at-tingendo a piene mani dalla vasta biblioteca dei suoi genitori. Dopo gli studi classici, trova lavoro presso una grande azienda come formatrice. Lascia il lavoro dopo la nascita del suo se-condo figlio e si dedica alla famiglia, senza mai perdere la pas-sione per la lettura e per la scrittura.

Attualmente vive a Mandela, con suo marito, i suoi due figli, otto cani, otto gatti e due tartarughe. Sta completando il suo primo romanzo Fantasy per ragazzi.

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19 Marzo 2061

a ragazza entra nell’appartamento buio «Chiudi porta» sussurra. Sente il fruscio dei pistoni di sicurezza. Non si volta.

Dal pavimento si diffonde una luminescenza opaca, lattigi-nosa, che riempie la stanza. Si dirige verso il bagno. Lascia sci-volare la tunica davanti all’enorme specchio, la osserva: pozza di petrolio su lastra salina. Alza gli occhi a fissare un paio di occhi identici. Freddi. Vuoti. Minuziosamente studia il riflesso del suo corpo: la pelle bianca, opalescente. I seni, più gonfi del giorno prima, il ventre arrotondato.

“Sono sola” pensa “Sola”.

STOP

“Sono Sola. Mia madre è morta”. «Ridi Pagliaccio. I Pagliacci. Pavarotti» aspetto qualche se-

condo e la casa attiva il sistema audio. La musica invade il vuoto. Della casa. Della mia testa. Recitar! Mentre preso dal de-lirio non so più quel che dico e quel che faccio!

È morta due ore fa. L’ho sentito. Mentre lavavo il pavimento del convento.

Ci eravamo salutate. Per telefono, dopo aver parlato del più e del meno. Informazioni futili, discorsi da caffè. Poi…

«Magenta.» «Mmm mmm?» «Sto morendo.» Ero rimasta in silenzio. A lungo. Poi avevo detto l’unica cosa

vera: «Lo so.» Era toccato a lei tacere. «Magenta… Ascolta…»

L

Fiv di Giuseppe Florio

Giuseppe Florio classe 1993, vive a Grazzanise (Ce) dove lavora come corrispondente per il quotidiano “Cronache di Caserta” e dove si occupo di sociale con l’associazione giovanile culturale “Teens’Park Grazzanise”. Si occupa anche di teatro, come auto-re e come attore, per la giovane compagnia “Teatro delle folli idee”. A questo accosta la passione di comporre poesie e scrive-re racconti.

Giornalista pubblicista e studente di filosofia, nel gennaio del 2013 ha pubblicato alcune sue poesie nell’edizione 87 della collana “I poeti contemporanei”.

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er Chris Fandango quello non sarebbe stato di certo un giorno memorabile. Era esattamente uno di quei giorni in cui non accade assolutamente nulla, uno di quelli che

non vale neppure la pena di raccontare. Eppure a tre o quattro anni luce più in là, su una di quelle sfere di roccia vaganti, quello sì che sarebbe stato un giorno memorabile. Se solo fosse rimasto qualcuno per ricordarlo e raccontarlo. Sì, perché senza un motivo apparente, quel giorno quel pianeta esplose. In un attimo il pianeta e tutto ciò che di vivo o di morto vi era fu ri-dotto in polvere, senza che a nessuno fosse dato neppure il tempo di capire cosa diavolo stesse accadendo. Tutto intorno, o per la solita indifferenza che caratterizza i viventi o molto più semplicemente perché non c’era nessuno, nessuno si ac-corse di nulla.

Dovettero passare tre o quattro anni perché, sulla Terra, si vedesse l’esplosione. Fu una frazione di secondo. Chris stava fumando l’ultima sigaretta della giornata, lottando contro le zanzare che lo avevano assalito sul terrazzo di casa sua appena lo avevano sentito uscire. Lo sguardo di Chris fu attratto da un improvviso e fulmineo bagliore che illuminò la volta del cielo, prima di ridare alla notte il predominio sulle cose. Eppure quella sera Chris avrebbe dovuto far finta di nulla. Era la legge. IR: Indifference Rules. Era questo lo slogan pubblicitario più in voga in quegli anni, nonostante quell’inglese che non tutti erano in grado di leggere e comprendere e che rimbalzava, tra letture e traduzioni maccheroniche, di bocca in bocca. In fon-do anche quel nome, Chris, che non era mai stato chiaro di co-sa fosse il diminutivo, era stato dato così, senza un apparente motivo. Ma forse IR stava anche per Indifference Regime, re-gime di indifferenza. La tv si ostinava a dire che quella era sta-ta la volontà dei cittadini. Certo, di quel 10 percento che quella volta, un paio di anni prima, era andato a votare. L’Irp, il “par-tito dell’Indifference rules”, si era portato a casa comunque il suo 60 percento di voti e quindi era andato al potere con tutti i

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Questo mondo non ha fame di Pietro Damiano

Pietro Damiano carbonara di Nola (NA) 1968

“Migrante”, la parola-chiave che meglio lo definisce. Da Car-bonara di Nola, suo amato paesello, incessantemente spicca il volo, con lo slancio di chi vuole misurarsi con nuovi angoli di cielo. E nei suoi voli, intesse relazioni, realizza collaborazioni artistiche che immancabilmente fa scivolare nelle sue storie che racchiudono lo slancio e il ritorno di ogni suo viaggio.

Ha pubblicato: 2007 – Diario di un Curato 1950-1958; 2009-Gennaro Rainone, parole d’amore; 2010 – Frammenti di vita (su teli di sacchi); 2010 – Atti del Bicentenario 1809-2009, coautore insieme a P. G. Santella; 2011 – Atti del 150° dell’Unità d’Italia, coautore insieme a P. G. Santella; 2012-Gocce. Nel 2003 ha fondato con Pietro Rainone “I Cantalocun-to” e pubblicato l’album musicale “Storie di Briganti”. Ha rea-lizzato in qualità di coautore con Pasquale Gerardo Santella il docufilm “Album del Risorgimento – Un percorso multimedia-le nel processo dell’Unità d’Italia dal 1799 al 1870” e “Nei luo-ghi dell’Utopia – Un viaggio geostorico all’interno della Rivolu-zione e della Repubblica napoletana del 1799”. Collabora con testate giornalistiche locali, compagnie teatrali, gruppi cultura-li ed Enti locali.

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l professor Testa lo prende con entrambe le mani e lo avvi-cina al volto del dottor Ianni.

«Cosa pensa che manchi?» gli chiede guardandolo negli occhi.

«Non so, non so proprio risponderle.» Ianni afferra i polsi del professore e lentamente avvicina le

mani alla sua faccia schiacciata, come quella di un pugile. Guarda attentamente scavando con gli occhi nella materia e nei colori. Annusa, cerca quasi di leccarlo ma senza riuscirci perché il professore è lesto a ritrarre le mani indietro di qual-che centimetro. Cerca inutilmente di capire cosa non va.

«Non so da dove iniziare, cosa aggiungere» borbotta il dottor Ianni sbuffando e lasciandosi cadere sulla sedia, mentre il pro-fessor Testa ripone nel piatto il McStar.

I due si guardano senza parlare, entrambi pensierosi, riflet-tono. Entrambi cercano di capire cosa non funzioni nell’abbinamento degli ingredienti. Un occhio al piatto, uno sguardo al laboratorio, uno alla finestra, poi di nuovo al piatto. Il grigio del laboratorio rende i loro volti ancora più cupi di quanto già lo fossero.

Il dottor Ianni ricomincia. «La carne la producono nell’area industriale di Marghera. La

migliore in assoluto, chimicamente perfetta. Le foglie di insala-ta grezza le tessono a Prato, e poi le trattano nelle tintorie in-dustriali di Solofra. I pomodori li producono a Torino, negli stabilimenti Lambs, la storia industriale del paese. Il pane… dove lo producono il pane? Non lo ricordo più.»

«In Puglia» risponde il professor Testa, quasi sussurrando. «Puglia?» chiede Ianni, alzandosi di colpo in piedi e sbatten-

do le mani sul tavolo. «Sì, lo producono in Puglia» ribadisce il professore. «Questi africani del cazzo! Ma si rende conto? Di sicuro uti-

lizzano fibre in carbonio di pessima qualità! Scriviamo nella relazione che la colpa è del pane, la colpa è del solito Sud in-

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