Attacco all’Europa che non c’è

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delle Libertà P R I M O P I A N O S O L A A P A G I N A 3 Sangue e terrore nel cuore del Vecchio Continente P R I M O P I A N O C A P O N E A P A G I N A 3 La guerra dei Vent’anni che ci cambierà come europei E S T E R I L E T I Z I A A P A G I N A 5 Comprendere il Kurdistan per combattere l’Isis E S T E R I M A M O U A P A G I N A 5 Francia e Jihad: la “contaminazione” delle forze dell’ordine C U L T U R A D A L E S S A N D R I A P A G I N A 7 Race: il film su Owens tra ori olimpici e discriminazione La risposta dell’Europa è solo più Europa G li attentati di Bruxelles sono un atto di guerra non contro il Bel- gio ma contro l’intera Europa. L’os- servazione è scontata se non banale. Ma serve per porre una questione che non è affatto scontata o banale. La guerra all’Europa è nei fatti ma esiste una Europa che dopo aver su- bito l’aggressione sia in grado di rea- gire adeguatamente? La violenza terroristica di Bruxel- les pone in maniera brutalmente e tragicamente concreta il problema dell’esistenza politica dell’Unione europea. Un problema che non si ri- solve con un’ennesima raffica di ver- tici assolutamente inutili in cui ogni Premier dell’Ue si esibisce ad uso e consumo dell’elettorato del proprio Paese, ma solo affrontando in ma- niera concreta il problema dei pro- fughi ed avviando in tempi brevissimi la formazione di Forze Armate Europee in grado di dare ri- forma, peso e concretezza a qualsiasi strategia politica venga assunta dal vertice della Ue. La questione dei profughi non si risolve con la chiu- sura delle frontiere ad opera dei sin- goli Stati e con lo stanziamento di qualche miliardo di euro a beneficio della Turchia per creare giganteschi campi profughi a ridosso della fron- tiera con la Siria. Attacco all’Europa che non c’è L’Europa, se vuole dare un segno di esistenza e di lungimiranza, è obbli- gata a predisporre un grande piano di sostegno e di sviluppo di tutti i Paesi del Medio Oriente, della costa meri- dionale del Mediterraneo e dell’Africa interna disposti ad accettare interventi militari internazionali di pacificazione per poter avviare processi di ricostru- zione ed assicurare, con la speranza di un futuro dignitoso, la permanenza nei rispettivi territori di chi fugge la fame, la guerra e la miseria. Serve, in sostanza, un Piano Mar- shall e serve una forza miliare capace di combattere adeguatamente il terro- rismo in tutte le forme in cui si mani- festa, anche e soprattutto quella statuale del Califfato islamico. La tra- gedia di Bruxelles può essere lo sti- molo per incominciare a perseguire questi due obiettivi. Il sacrificio delle vittime può non essere vano!

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Page 1: Attacco all’Europa che non c’è

delle Libertà

PRIMO PIANO

SOLA A PAGINA 3

Sangue e terrorenel cuore

del Vecchio Continente

PRIMO PIANO

CAPONE A PAGINA 3

La guerra dei Vent’anniche ci cambierà come europei

ESTERI

LETIZIA A PAGINA 5

Comprendere il Kurdistan

per combattere l’Isis

ESTERI

MAMOU A PAGINA 5

Francia e Jihad: la “contaminazione”delle forze dell’ordine

CULTURA

D’ALESSANDRI A PAGINA 7

Race: il film su Owenstra ori olimpici

e discriminazione

La risposta dell’Europa è solo più Europa

Gli attentati di Bruxelles sono unatto di guerra non contro il Bel-

gio ma contro l’intera Europa. L’os-servazione è scontata se non banale.Ma serve per porre una questioneche non è affatto scontata o banale.La guerra all’Europa è nei fatti maesiste una Europa che dopo aver su-bito l’aggressione sia in grado di rea-gire adeguatamente?

La violenza terroristica di Bruxel-les pone in maniera brutalmente etragicamente concreta il problemadell’esistenza politica dell’Unioneeuropea. Un problema che non si ri-solve con un’ennesima raffica di ver-

tici assolutamente inutili in cui ogniPremier dell’Ue si esibisce ad uso econsumo dell’elettorato del proprioPaese, ma solo affrontando in ma-niera concreta il problema dei pro-fughi ed avviando in tempibrevissimi la formazione di ForzeArmate Europee in grado di dare ri-forma, peso e concretezza a qualsiasistrategia politica venga assunta dalvertice della Ue. La questione deiprofughi non si risolve con la chiu-sura delle frontiere ad opera dei sin-goli Stati e con lo stanziamento diqualche miliardo di euro a beneficiodella Turchia per creare giganteschicampi profughi a ridosso della fron-tiera con la Siria.

Attacco all’Europa che non c’è

L’Europa, se vuole dare un segno diesistenza e di lungimiranza, è obbli-gata a predisporre un grande piano disostegno e di sviluppo di tutti i Paesidel Medio Oriente, della costa meri-dionale del Mediterraneo e dell’Africainterna disposti ad accettare interventimilitari internazionali di pacificazioneper poter avviare processi di ricostru-zione ed assicurare, con la speranza diun futuro dignitoso, la permanenzanei rispettivi territori di chi fugge lafame, la guerra e la miseria.

Serve, in sostanza, un Piano Mar-shall e serve una forza miliare capacedi combattere adeguatamente il terro-rismo in tutte le forme in cui si mani-festa, anche e soprattutto quellastatuale del Califfato islamico. La tra-gedia di Bruxelles può essere lo sti-molo per incominciare a perseguirequesti due obiettivi. Il sacrificio dellevittime può non essere vano!

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Sono sempre più note le storie che riguar-dano cittadini italiani costretti allo sfratto a

causa dell’impossibilità di saldare le rate deimutui. Donne, madri e padri di famiglia co-stretti ad abbandonare la propria abitazioneprima dell’atto di sfratto. Si tratta di uno deicapitoli più dolorosi di questa fase di crisi eco-nomica che il Paese vive da ormai troppi anni.Ma se sulle soluzioni si tarda ad intervenire,sembra che le tribune televisive abbiano inveceindividuato il responsabile di questi miserabilieventi: l’istituto bancario.

Ebbene sì, la banca, rea di prestare denaro edi rivolerlo indietro, con o senza interessi.Un’azione spregiudicata se non fosse che si

tratta pur sempre di un contratto tra le parti; ilmutuo, per l’appunto. E quindi, se un ente pri-vato che concede il credito in cambio dellastessa restituzione avanza il rispetto delle clau-sole, è lui il vero mostro. Una teoria populisticama che fa breccia nei cuori di molti, dagli espo-nenti politici a quelli del giornalismo, nessunosembra voler ricordare una cosa: le banche nonsono ammortizzatori sociali.

Ci sono due temi principali, su cui è giustosoffermarsi. Innanzitutto esiste il tema dell’op-portunità economica: nessun ente privato, ascopo di lucro, ha la volontà o l’incentivo diindebitarsi “per filantropia”, mettendo in diffi-coltà milioni di correntisti, investitori, soci. Epoi c’è il tema del welfare state. In un Paese incui la pressione fiscale sfiora il 70 per cento,

qualsiasi interlocutore intellettualmente onestoarriverebbe alla conclusione che debba essere

lo Stato ad occuparsi del-l’allocazione di servizi mi-nimi, quali la casa per chi sitrova senza un tetto, e tu-tele per chi è in difficoltà, enon certo un’azienda pri-vata.

Il nostro welfare state èsussidiato da tasse altis-sime, da dazi e gabelle checi posizionano nelle ultimeposizioni di qualsiasi classi-fica che riguardi la fiscalitàinternazionale. E nono-stante questo riusciamo agarantire a contribuenti ecittadini dei Servizi socialida Terzo o Quarto Mondo.Ingiusti, iniqui, inefficienti,ma profumatamente pa-gati.

La vera sfida sarà accet-tare che è lo Stato a dovercambiare, a dover rispettareil suo patto con il contri-buente e iniziare, final-mente, a restituire qualcosa

a cittadini tartassati e, purtroppo, sempre piùpoveri.

@elisaserafini

Se è vero, come ripetono a memo-ria nelle interviste tutti gli scola-

retti del Partito Democratico, che ildisastro in Italia sia colpa del cen-trodestra per i tanti anni di Governo,allora è altrettanto vero che il disa-stro di Roma non può che esserecolpa del centrosinistra. La Capitale,infatti, tranne che per l’infelice espe-rienza Alemanno, da tutta la vita èamministrata dal centrosinistra e daisuoi uomini. Va da sé che undici mi-liardi di euro a debito, lo scandalodelle case in affitto, Atac,Ama, municipalizzate cola-brodo, centri di malaffare,assunzioni clientelari, li-cenze edilizie incredibili,strapotere delle coopera-tive e sfascio del decoro enelle manutenzioni, nonpossono essere frutto ecolpa di cinque anni dimalgoverno. Il disastro diRoma si è compiuto indecenni di sbagli, favori-tismi elettorali, conni-venze disoneste, spesepazze, trascuratezze eomissioni di giunte sugiunte. E se davvero il co-perchio delle vergogneromane fosse scoper-chiato fino all’ultimosugli accadimenti degliultimi trent’anni, ci sa-rebbe davvero materiaper una rivolta popolare.

Dunque, assodato chei mali di Roma non pos-sono essere messi tutti incapo a Alemanno, cer-chiamo di essere sinceri eguardare in faccia la re-altà per quella che è. E sismetta anche di dare perintero la colpa ai romani,che pure non sono esentida disaffezione e scarsosenso di educazione ci-vica. I cittadini, infatti,

non solo nel tempo hanno sbagliatoa fidarsi delle chiacchiere di questo oquel politico, ma piano piano si sonoadattati ad un comportamento disciatteria che ha messo il carico daundici sui disastri in corso.

In verità va detto che sulla Capi-tale e nella Capitale girano e vivonoquotidianamente centinaia di mi-gliaia di persone, che romane non

sono e non ci riferiamo solamente al-l’invasione di extracomunitari. Ènoto a tutti, infatti, che a Roma esi-stono quartieri interi di stranieri, im-migrati e di non residenti. Come senon bastasse, la presenza dei centridi potere politico, delle sedi diplo-matiche, delle direzioni della mac-china di Stato, dello Stato Vaticano,fanno convergere nella città ogni

giorno fiumi di presenze. Da ultimo,non si può trascurare il fatto che nonpassa settimana che a Roma non cisia qualche manifestazione, spessooceanica, di questa o quella sigla, diquesto o quel movimento, di questao quella rappresentanza. Tanto do-vrebbe bastare a capire il livello, di-remmo tecnico, di usura del calpestiourbano e di tutto ciò che fa parte del

territorio, per non parlare dell’inqui-namento, del traffico e delle diffi-coltà del trasporto urbano.

Insomma, Roma da sempre è sot-toposta all’uso e purtroppo all’abusonon solo dei romani, ma di un vero eproprio mezzo mondo. Per questo laCapitale è un fatto nazionale, unproblema che non può risolversisenza un programma specifico di re-cupero che parta da una legge adhoc, poteri ad hoc, disponibilità adhoc, partecipazione ad hoc. Oltre-tutto, sarebbe ridicolo pensare chebasti una sindacatura e cioè cinque

anni per rimetterla in or-dine, uno sfascio del ge-nere si risolve in moltopiù tempo, con la parteci-pazione consapevole e ci-vile e attiva di tutti, conun impegno grande e co-rale che spinga a iniziareda una parte per arrivarebene e pazientemente dal-l’altra. Ecco perché servel’intervento del Governo,serve un vero e propriotrattato di cittadinanza ecollaborazione civica,serve una squadra di as-sessori capaci, onesti esgobboni, serve un sin-daco che, a partire dalleperiferie, stia in campo atempo pieno.

Solo così e solo daquesto si potrà ricomin-ciare, dicendo la veritàsullo stato delle cose, sultempo e sul denaro ne-cessario per rimetterle aposto. Tutto si può fare,basta avere idee chiare,coraggio, onestà e lealtàverso i cittadini, esclusi-vamente così e passodopo passo Roma potràtornare alla normalità,alla vivibilità ed a quellabellezza universale che damillenni l’ha resa unica almondo.

Politica

Le banche non sono ammortizzatori sociali

Roma merita rispetto

Page 3: Attacco all’Europa che non c’è

L’Europa si sta dimostrando unflaccido corpo deforme. Braccia

e gambe rachitiche, ed un enormecapo brachicefalo, in grado di pen-sare unicamente a strategie finanzia-rie e politica bancaria. Questomostro ha comunque la forza d’im-porre le proprie regole, di commi-nare multe e condanne in grado dimettere in mutande gli ex Stati so-vrani. Questi ultimi, ormai mutilatinelle scelte di politica nazionale, re-stano inviluppati in questo abbrac-cio. Una sorta di danza macabra,tristemente nota come politicaunica.

I risultati sono sotto occhi ditutti: povertà diffusa, ascensore so-ciale bloccato, Stati non in grado dipiegare cittadini e imprese alle bi-slacche normative Ue, invasione diextracomunitari senza precedenti e,dulcis in fundo, cittadini esposti agliattentati terroristici. In tutto questomarasma il Belpaese può definirsifortunato: per un verso è schiacciatoda un iperbolico debito pubblico acui si sommano multe Ue per im-porti stratosferici (sarebbe meglio ri-derci sopra e non pagarne nemmenouna), dall’altro la sua situazione po-litica lo pone al riparo da qualsivo-glia appetito terroristico. Infattil’obiettivo degli attentatori può es-sere solo il Paese ricco, cuore ne-vralgico delle strategie europee,appunto il Belgio. Quest’ultimo, col-pito anche come reazione all’arrestodi Salah Abdeslam: reazione logica escontata, per un’entità terroristicavigono comunque quelle regole sem-plificate che gli Stati democratici emoderni del Vecchio Continentehanno archiviato con il tramontodegli Imperi centrali. Per l’entitàeversiva ad ogni azione corrispondeuna reazione, diversamente un Stato

democratico prima di aprire una bel-ligeranza scatena armi diplomatiche,minaccia embarghi e contingenta-menti di risorse economiche.

Quindi la reazione dell’Isis all’ar-resto di Salah era prevedibile. Comeprevedibile che uno Stato come ilBelgio non possa riuscire a fronteg-giare la guerra che si sta combat-tendo sul proprio territorio. Del

resto lo Stato democratico modernoed europeo ha le mani legate sull’usodelle metodiche interne atte a scon-figgere un nemico dalle regole ferree,semplificate e primitive. Guerrapersa? Per molti aspetti è così. Per-ché questa belligeranza occuperà, esecondo non pochi osservatori, iprossimi vent’anni della nostra esi-stenza, riducendo la Vecchia Europa

alle stesse condizioni sociali in cuiebbe a sospingerla la guerra deiTrent’anni.

Le similitudini ci sono tutte, laguerra dei Trent’anni generava laserie di conflitti armati che dilania-rono l’Europa centrale tra il 1618 eil 1648. Una delle guerre più lunghee distruttive della storia europea. Ini-ziata anch’essa, come la moderna

strategia dell’Isis, per motivi reli-giosi: soltanto che all’epoca vennegiocata tra Stati protestanti e catto-lici, sulla scia di un ancor non con-cluso conflitto tra le variecomponenti del vecchio Sacro Ro-mano Impero. Progressivamente sisviluppò in un conflitto più generaleche coinvolse la maggior parte dellegrandi potenze europee, perdendosempre di più la connotazione reli-giosa e inquadrandosi meglio nellacontinuazione della rivalità franco-asburgica per l’egemonia sulla scenaeuropea.

Oggi l’egemonia occidentale vienemessa in discussione da molti. Alpunto che gli Usa si dissociano daparecchi aspetti della politica Ue.L’Europa ha un formidabile noccioloeconomico (i suoi Stati centrali) eduna periferia debole economica-mente e permeabile alle invasioni: lavicenda delle migrazioni è l’esempioimmediato.

Di fatto l’attentato in Belgio staaccelerando la blindatura degli Statiricchi, che tra loro manterranno il li-bero scambio di uomini e mercicome previsto da Schengen. Mentreper le zone povere dell’Europa orien-tale e mediterranea torneranno abreve non poche restrizioni: ovvia-mente si dirà che si tratta di “politi-che momentanee” atte a contenerel’emergenza eversiva. Nei fatti l’Ueche abbiamo sognato, sperato, as-saggiato, non esiste più. Viene archi-viata quella parentesi che tra il 1990ed il 2000 ha permesso a molti di mi-grare e realizzarsi professionalmente.

Rimane l’Europa del rigore neiconti, delle banche, e ad essa s’asso-cia quella dell’esclusione sociale,della diffidenza. Un povero italianoed un migrante siriano ormai parisono, entrambi devono obtorto colloaccettare supinamente un percorsod’esclusione sociale.

Primo Piano

La guerra dei Vent’anni che ci cambierà come europei

Bruxelles, capitale d’Europa, èsotto attacco. Intorno alle 8,00

della mattina due potenti esplosionihanno provocato una strage all’ae-roporto di Zaventem nei settori ac-coglienza-passeggieri, in prossimitàdei banchi della Brussels Airlines edell’American Airlines. Al momentonel quale scriviamo la contabilitàdelle vittime è ferma a 14 morti ac-certati e 81 feriti gravi, ma si trattadi un bilancio provvisorio. Dopo ap-pena un’ora dal primo attentato iterroristi hanno colpito le stazioni diMaalbeek e di Schuman della me-tropolitana, a pochi passi dai palazzidelle istituzioni europee. In questaseconda azione sono cadute 20 per-sone ed è stato riscontrato un nu-mero ancora imprecisato di feriti,tra i quali almeno 5 nostri conna-zionali.

L’autorità giudiziaria belga ha con-fermato la modalità suicida delle ag-gressioni compiute. Sui siti on-linevicini all’Is, che ha rivendicato gli at-tentati, si festeggia per il successo dellamissione. Bruxelles resta in stato dimassima allerta perché gli inquirenti

non sono in grado didire se gli attacchisiano terminati o se, in-vece, bisogna aspettar-sene altri. In un’oratanto dolorosa il senti-mento che prevale èquello della rabbia cheaccompagna la pietàper l’orribile sorte ditanti innocenti. Sì, rab-bia! Perché questastrage non l’ha man-data il cielo, ma è l’ov-via conseguenza di unacolpevole sottovaluta-zione della effettiva na-

tura dello scontro in atto. Siamo oltre l’ipotesi terroristica fi-

glia di un disperante estremismo po-litico: siamo alla guerra di civiltà. Inemici in campo sono i soldati del-l’Islam integralista con il quale nes-sun dialogo è possibile. Tutti coloroche in nome di una folle ideologiamulticulturalista si sono illusi dipoter proporre a quell’universo rove-sciato valori condivisibili, oggi de-vono prendere atto della realtà. Unsimile madornale errore di giudizio cicostringe, per il nostro stesso bene, ariscrivere una nuova equazione nelrapporto tra libertà individuali e si-curezza. Con una presenza ostile così

diffusa all’interno delle nostre comu-nità, la vita quotidiana non può es-sere più quella del tempo di pace.Come le cronache attestano, i targetscelti, di volta in volta, dai nostri ne-mici trovano comune denominatorenella volontà di paralizzare il fluireordinato della civiltà occidentale. InFrancia lo scorso anno sono stati col-piti i luoghi del tempo libero e, primaancora, quelli della cultura e dell’in-formazione; oggi, a Bruxelles, ven-gono presi di mira i punti di snododel sistema della mobilità, aerea e ter-restre. E domani, dove attacche-ranno? Non sono stupidi questispietati assassini: essi studiano conattenzione gli obiettivi delle loro pro-ditorie incursioni. Non manca dicerto, in questa agghiacciante mecca-nica dell’orrore, la ricerca dei simbolida colpire. Anzi, la scelta dell’ele-mento simbolico è parte fondamen-tale della strategia jihadista. Lebombe rappresentano guanti di sfidasbattuti in faccia al nemico. Perquanto la nostra risposta in passatosia stata debole, inadeguata, fram-mentata è giunto il momento chetutta l’Unione europea s’interroghisul proprio destino, se intenda esserela nazione compatta che finora non èstata o se, invece, pensi di contentarsinel fare da cane da guardia ai contipubblici e alle regole del commercio.

Con un’Europa siffatta che scopredi non battere con un solo cuore, dinon avere la stessa anima, di non riu-scire a stringersi come fratelli e so-relle di un’unica grande famigliaintorno alle bare dei fiori recisi, ieril’altro, sulla strada di Tarragona, si fi-nirà con l’andare fuori strada al pros-simo tornante che la storia porrà sulsuo cammino. Prima si comprenderàche è in corso una guerra da combat-tere uniti, si metterà da parte ognicondiscendenza verso i nemici, si at-tuerà la rappresaglia più spietatacontro di essi ovunque si trovino, eprima la nostra bella e sacra Europasi trarrà fuori dai guai.

Ancora voi, maledetti assassini!

Page 4: Attacco all’Europa che non c’è

Economia

Non c’è nulla di necessario in unanorma sulla donazione di ecce-

denze alimentari e medicinali. Il no-stro Paese è ricco di associazionimeritorie, alcune delle quali proprioquesto fanno. Ma davvero la prassidi non sprecare il cibo deve essere di-sciplinata per poter essere praticata?O, peggio, prima della benedizionedel legislatore, non siamo disponibilia riconoscere alcun valore ai motidell’animo di persone e gruppi?

Norme sulla sicurezzaalimentare, l’aspetto piùcritico della cessione dicibo invenduto, esistonogià, in via generale, a li-vello europeo e nazio-nale, così come esiste unalegge sulla distribuzionegratuita di prodotti ali-mentari agli indigenti.Quello che non eraancora messo nerosu bianco, mache ora èprevistoin un progetto di legge appro-

vato alla Camera, era ladonazione nelle fasi dellafiliera alimentare di pro-duzione e trasformazione.Ma davvero serviva, no-tate il paradosso, unalegge specifica per “sempli-ficare la cessione gratuita

di alimenti ai fini di solidarietà so-ciale”? Se non bastano, per i profilidi sicurezza e responsabilità, lenorme generali già esistenti, significache gli italiani non hanno quel mi-nimo spazio di libertà per mettere inpratica i buoni propositi e compor-tamenti quotidiani, nemmeno quellodi portarsi a casa in una vaschetta di

alluminio il cibo non consumato alristorante. La legge prevede infattiche il ministero dell’Ambiente e le Re-gioni intervengano a promuoverel’uso di contenitori riutilizzabili perl’asporto degli avanzi. La legge nonprevede sanzioni e obblighi. Ciò nonsignifica che sia solo inchiostro sufogli di carta. Sarà con tutta probabi-lità infatti nell’incentivare prassi lo-devoli, dal momento che questerispondono alla coscienza di ognunodi noi, e non dei nostri rappresentanti.

Ma può rivelarsi utilissima perdue obiettivi. Il primo è quello di ri-cordarci, se l’avessimo dimenticato,che il principio “tutto ciò che non èvietato è consentito” è stato sosti-tuito dal suo esatto contrario. Il se-condo è quello di distribuire risorsepubbliche e funzioni. La Rai dovràprevedere un numero adeguato diore per l’informazione e la sensibiliz-zazione degli italiani contro gli spre-chi. Il Governo dovrà, tramite iministeri coinvolti, promuovere cam-pagne nazionali di comunicazione,progetti e studi finalizzati alla limita-zione degli sprechi alimentari. Il soloministero delle Politiche agricole eforestali avrà ogni anno un milionedi euro per finanziare “progetti in-novativi” contro gli sprechi.

Di ogni tipo, c’è da intendere,tranne quelli di denaro pubblico.

(*) Editoriale tratto dall’Istituto Bruno Leoni

Sprechi alimentari: bastano le buone intenzioni

a fare le buone leggi?

Emmanuele Massagli ha 33 anni, èpresidente di Adapt, il centro di

ricerca sui temi del lavoro fondato daMarco Biagi. Qualche giorno fa, inun incontro al Senato, ha ricordato(insieme a Maurizio Sacconi, MicheleTiraboschi, Giuliano Poletti e Tom-maso Nannicini) la figura del giusla-vorista scomparso ormai 14 anni fa.Emmanuele non ha conosciuto per-sonalmente Biagi: quando il profes-sore è stato assassinato in viaValdonica, Massagli frequentava laquinta liceo. Le valutazioni che haespresso durante il convegno “MarcoBiagi: la persistente attualità di unavisione e di un metodo” sono, però,talmente azzeccate da rendere banalequalsiasi altro tentativo di ricordo.

È giusto raccontare Marco Biagi.

È giusto farlo per chi c’era e per chinon ha avuto la fortuna di conoscerequel professore mite e capace, graziealla sua visione, di determinare sceltedi politica pubblica senza cui oggil’Italia sarebbe un Paese nettamentepeggiore.

Ma oltre il disegno sul futuro, loslancio al lungo termine e oltre lasemplice tecnica legislativa c’è quelmetodo, così attuale e così moderno,che Massagli ha evocato come lavera eredità di Marco Biagi. L’ideache un mercato del lavoro miglioresi possa costruire non tanto facendobuone leggi o imponendo buoni mo-delli, ma anche e soprattutto lavo-rando con le persone e per le

persone. Biagi sapeva bene, e perquesto venne isolato da molta partedei “professori” universitari, che ilmercato del lavoro del futuro non sicostruisce neanche con gli articolisulle riviste scientifiche ma provandoa incarnare il cambiamento di cuitanto, troppo si è scritto e parlato.Uso l’esempio di Emmanuele: percambiare le relazioni industriali nonè necessario scrivere da fuori checosa non va, ma lavorare per cam-biare chi vivrà le relazioni industriali.Discutendo un po’ meno, magari, macostruendo insieme percorsi destinatia durare nel tempo perché, anchecon punti di partenza diversi, fondatisu solide basi comuni.

Il metodo Biagi è stato anche e so-prattutto l’attenzione alla sostanza,quel rifiuto del formalismo, giuridicoe politico, più volte ricordato daMaurizio Sacconi. Oltre ogni legge eogni norma, oggi accettiamo la re-altà di un mondo che cambia e inquel cambiamento ricerchiamo con-dizioni migliori per i lavoratori. Non

era così solo qualche anno fa quandola difesa dello status quo apparival’ultima frontiera cui aggrapparsi pernon aprirsi al rischio di un mondonuovo. Biagi ha disegnato quelmondo nuovo prima di molti altri,insegnando, non solo ai suoi allievi,come costruire un mercato del la-voro capace di valorizzare percorsilavorativi e non di difendere unica-mente posti di lavoro; di alternareformazione e pratica, scuola e la-voro, apprendimento e applicazione.Con l’obiettivo non ideologico mapragmatico di costruire un Paese piùgiusto. Anche quando la sua visionesarà completamente realizzata – e c’èmolta strada ancora da fare – laforza modernizzatrice del suo me-todo continuerà ad avere un impattogrande almeno quanto il vuoto cheha lasciato.

In ricordo di Marco Biagi

Page 5: Attacco all’Europa che non c’è

Secondo una nota confidenziale(gennaio 2016) dell’Unità di coor-

dinamento della lotta antiterroristadel ministero degli Interni transal-pino, la Francia conta già 8.250 isla-misti radicali (registrando unaumento del 50 per cento in unanno). Alcuni di questi islamisti sonoandati in Siria per unirsi allo StatoIslamico (Is); altri si sono infiltrati intutti i livelli della società, a cominciaredalla polizia e dalle forze armate.

Una nota confidenziale della Pre-fettura di polizia di Parigi, che è tra-pelata e finita sulle pagine di “LeParisien”, fornisce informazioni det-tagliate in merito a 17 casi di poli-ziotti che si sono radicalizzati tra il2012 e il 2015. In particolare, sonostati sottolineati i casi degli agenti cheascoltavano e diffondevano canti isla-mici mentre erano di pattuglia. Alcunidi questi poliziotti si sono aperta-mente rifiutati di proteggere le sina-goghe o di osservare un minuto disilenzio per commemorare le vittimedegli attacchi terroristici. Inoltre, èstato segnalato il caso di una poli-ziotta che su Facebook incitava acompiere atti terroristici e definiva lasua uniforme “uno straccio luridodella Repubblica” mentre si puliva lemani su di essa. Nel gennaio del2015, subito dopo gli attacchi allasede di Charlie Hebdo e al supermer-cato kosher Hyper Cacher di Porte deVincennes, in cui sono morte 17 per-sone, la poliziotta ha scritto sulla suapagina Facebook: “Attacco masche-rato lanciato da vigliacchi sionisti (...)Occorre ucciderli”.

Il fatto che gli agenti di polizia sianoarmati e abbiano accesso alle banchedati non fa che aumentare l’ansia e lapreoccupazione. Anche se la Prefetturadi polizia di Parigi afferma che questicasi sono rari, ha però preso la deci-sione di rivedere, su base settimanale,ogni comportamento che violi il prin-cipio di laicità, di separazione assolutadello Stato dalla religione, come quellodei poliziotti musulmani che sembranoinclini alla radicalizzazione. Patrice La-tron, capo di gabinetto del prefetto dipolizia di Parigi, ha dichiarato a “LeParisien” che questo fenomeno è“molto marginale”.

La polizia non è la sola a esserepreoccupata. Lo è anche l’esercitofrancese. Non esistono statistiche sulnumero di soldati musulmani presentinelle forze armate francesi, ma si pre-sume che siano parecchi e che sianovulnerabili all’influenza dell’estremi-smo islamico, visto che la Francia èimpegnata militarmente in Africacontro Al Qaeda nel Maghreb isla-mico (Aqmi) e contro lo Stato isla-mico in Medio Oriente. Ma dopol’attentato a Charlie Hebdo del gen-naio 2015, la più vasta operazionemilitare è stata quella lanciata sulsuolo nazionale: in tutto il territoriofrancese sono stati dispiegati 10milamilitari per proteggere sinagoghe,scuole ebraiche, stazioni ferroviarie edella metropolitana, e anche alcunemoschee, per mostrare ai musulmaniche la Repubblica francese non li con-sidera nemici. La loro missione non èpiù quella di essere una forza com-plementare, ma – come ha spiegatoLe Figaro – “condurre su base per-manente operazioni militari interne”.

Già a partire dal 2013, durante ilquinto Incontro parlamentare sulla si-curezza nazionale, il colonnello PascalRolez, coadiuvando il vicedirettoredell’Unità di controspionaggio internodella Direzione della Protezione edella Sicurezza della Difesa (Dpsd),aveva dichiarato: “Stiamo assistendoad un aumento della radicalizzazionetra i militari francesi, soprattutto dopola vicenda Merah”. Va ricordato cheMohammed Merah, un giovane mu-sulmano francese, uccise nel 2012 aTolosa e Montauban tre soldati fran-

cesi e fu l’autore della strage in unascuola ebraica di Tolosa che costò lavita a quattro persone. Per identificarei membri delle forze armate a rischioradicalizzazione, il Dpsd tiene contodei cambiamenti nel modo di vestirsi,delle ricorrenti assenze per malattia,dei viaggi o del furto di forniture omateriale. Dopo gli attentati a Char-lie Hebdo e al supermercato kosher diParigi, i media hanno rilevato diversiindizi di radicalizzazione in seno al-l’esercito francese.

Il 21 gennaio del 2015, l’emittenteradiofonica Rfi ha dato notizia checirca il 10 per cento dei militari fran-cesi ha disertato per unirsi alla lottajihadista in Iraq e Siria. Jean-Yves LeDrian, ministro della Difesa, lo haconfermato, avvertendo però che sitratta di casi “molto rari”. Uno diquesti militari ricopre la posizione di“emiro” nella provincia siriana diDeir el-Zor ed è alla guida di ungruppo composto da una decina dicombattenti francesi che ha adde-strato lui stesso. Gli altri disertorifrancesi sono esperti in esplosivi e pa-racadutisti; qualcuno proviene daunità speciali o dalla Legione stra-niera.

Sempre nel gennaio 2015, dopo gliattentati di Parigi, la polizia scopreche la gendarme (la Gendarmerie èuna forza di polizia a statuto militareche dipende dal ministero della Di-fesa) “Emmanuelle C.”, di 35 anni,che si era convertita all’Islam nel2011; aveva una relazione sentimen-tale con Amar Ramdani, ricercato pertraffico di armi e droga. Ramdani era

uno dei complici di Amedy Coulibaly,l’autore della sparatoria di Mon-trouge e dell’attacco al supermercatoHyper Cacher di Parigi. Lo stessoRamdani è stato visto dalla Direzionedi intelligence della Prefettura di poli-zia (Drpp) nella zona “pubblica” delforte di Rosny-sous-Bois (Seine-Saint-Denis). Questo forte è la sede opera-tiva degli esperti della scientificadell’Istituto di ricerche criminali dellaGendarmeria nazionale. Per quantoriguarda Emmanuele C., l’agente èstata accusata di aver commesso piùdi 60 violazioni della sicurezza con-sultando i file delle persone ricercate(Fpr) contenuti nel computer dellaGendarmeria.

Nel luglio del 2015, la stampa di-vulga la notizia che circa 180 detona-tori e una decina di panetti diesplosivo al plastico sono stati trafu-gati da un deposito dell’esercito neipressi di Marsiglia. Naturalmente gliinvestigatori hanno ipotizzato unapossibile complicità interna, poiché iladri sembravano bene informati. Leindagini sono ancora in corso e si se-guono due piste: quella del terrorismoislamico o della criminalità organiz-zata.

Il 16 luglio del 2015, il presidenteFrançois Hollande rende noto che èstato sventato un attacco a una basemilitare francese. Tre giorni prima,quattro uomini, di cui un veteranodella Marina, erano stati arrestati.Essi hanno confessato che intende-vano introdursi in una base della Ma-rina nel sud della Francia, sequestrare

un alto ufficiale, decapitarlo e poi dif-fondere le foto della decapitazione suisocial media.

Il 6 marzo del 2016, un ex militare“radicalizzato”, Manuel Broustail, èstato arrestato in Marocco appenasbarcato da un aereo. Secondo il quo-tidiano francese Presse Ocean, nel suobagaglio sono stati rinvenuti un ma-chete, quattro coltelli da cucina, duecoltellini, un manganello, un passa-montagna nero e una bomboletta digas. Ex militare francese e convertitoall’Islam, Broustail era stato sottopo-sto agli arresti domiciliari ad Angers(Maine-et-Loire), giorni dopo i terri-bili attacchi di Parigi, in cui sonomorte 130 persone. Espulso dall’eser-cito nel 2014, era sorvegliato dai ser-vizi di sicurezza francesi. I mediasembrano preoccupati del fatto cheuna persona che trasporta armi comelui riesca a passare indisturbata i con-trolli di sicurezza in aeroporto, si im-barchi su un aereo e lasci il Paese.

Secondo Thibault de Montbrial,uno specialista di terrorismo e presi-dente del Centro Studi per la Sicu-rezza interna, il rischio è quello di“avere agenti delle forze di sicurezzache attaccano i loro colleghi. Qual-cuno in uniforme che attacca un’altrapersona che indossa la stessa uni-forme. In Francia uno scenario del ge-nere non è impossibile. Le forze disicurezza devono tenere conto di que-sto possibile rischio”.

(*) Yves Mamou vive e lavora in Francia,da vent’anni è giornalista di “Le Monde”

L’Isis continua a colpire. La cittàsimbolo dell’Europa è sotto at-

tacco: morte, tragedie e panico sonole parole all’ordine del giorno sia neidibattiti politici che nell’informa-zione pubblica. Anche in Turchia lasituazione è drammatica, un Paese di-viso tra repressione interna del re-gime di Erdogan e la violenza degliattentanti terroristici, come denunciada mesi Mariano Giustino, corri-spondente di Radio Radicale da An-kara.

Nel corso di questi ultimi mesi, set-timane e giorni molto si è detto sullefondamenta politiche, sociali e antro-pologiche dello Stato Islamico, dellasua nascita e della sua diffusione. Unapproccio geopolitico non può igno-rare ciò che sta avvenendo nella re-gione curda, in particolare tra Iran eTurchia. Nello scacchiere mondiale,una situazione particolarmente degnadi attenzione è la regione curda ira-chena, dove si sta svolgendo unacomplessa “competizione” politica.Gli analisti europei tendono a soffer-mare l’oggetto di analisi sugli stru-menti e le strategie da intraprendereper sconfiggere lo Stato Islamico. Macome potremmo stabilizzare la situa-zione dopo la sconfitta dell’Isis?

Per comprendere i delicati e com-plessi fenomeni della regione do-vremmo tentare di allargare la nostralettura, tenendo presenti anche altri

fattori che non siano quelli legati alogiche puramente militari. Le Ongpresenti nel Kurdistan denuncianol’approccio occidentale e militaristache tralascia l’aspetto di coesistenzae diplomazia da poter intraprendere

nella regione. Si tratterebbe di soffer-mare l’analisi sui conflitti interni e tri-bali nella zona del Kurdistaniracheno. Prima della comparsa e del-l’affermazione dell’Isis, nella regionevenivano registrate azioni e dimo-

strazioni da parte della popolazionecontro la corruzione delle autoritàstatuali irachene. In tale contesto re-gionale vi sono numerose organizza-zioni e realtà sociali, religiose e laicheche potrebbero prevenire il recluta-mento nell’esercito dello Stato Isla-mico se solo interrogate e inserite inuna progettualità volta alla coesi-stenza pacifica e finalizzata alla sta-bilizzazione della regione. Unadisamina che sofferma l’attenzionesolo sull’aspetto militare non riesce afar percepire le divisioni interne del-l’attuale comunità del Kurdistan el’attuale conflitto tra i curdi e i curdidella parte irachena.

A partire dal 2015, il governo re-gionale del Kurdistan è attraversatoda una profonda crisi economica el’attività parlamentare ha cessato lapropria operosità legislativa. Il go-verno regionale curdo è sostanzial-mente diviso in più fazioni. Qualisono le conseguenze sul piano poli-tico? A causa del conflitto tra le variefazioni, la possibilità di intervenirecon strumenti giurisdizionali e civiliè diminuita ma sono in molti che nella

regione chiedono un intervento pro-gettuale, ideato per la diffusione deiprincìpi della democrazia e dello statodi diritto. Il lavoro transnazionale delPartito Radicale per “la transizionedalla ragion di stato allo stato di di-ritto” potrebbe sviluppare un labora-torio proprio nel Kurdistan attraversol’instaurazione di meccanismi demo-cratici da intraprendere per unificareil governo regionale curdo.

Non dimentichiamo che a breve laregione sarà interessata dalle elezioniparlamentari e le varie formazionipolitiche potrebbero essere interes-sate a tentativi di democratizzazioneda diffondere sul territorio. Se l’obiet-tivo è fermare l’esercito islamico e in-nescare un reale processo didemocratizzazione, vi sono alcunifattori da considerare. Una situazioneconflittuale è quella esistente tra il go-verno regionale curdo e le istituzionidi Baghdad. Una proposta transna-zionale verso lo stato di diritto do-vrebbe vedere le autorità europeeimpegnate in un meccanismo di me-diazione tra le istituzioni del Kurdi-stan e Baghdad per tentare dirisolvere al meglio la conflittualitàesistente. L’affermazione dei princìpidemocratici, federalisti e rispettosi deidiritti umani resta l’unica concretaproposta per sollevare il Kurdistan earginare lo Stato Islamico.

(*) Consiglio direttivo di “Nessuno tocchi Caino”

Esteri

Comprendere il Kurdistan per combattere lo Stato Islamico

Francia: lo jihad contamina l’esercito e la polizia

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Cultura

Nell’America della Grande de-pressione, un atleta afroameri-

cano poco più che ventenne, grazie alsuo coraggio e alla sua voglia di ri-

scatto, lascerà un segno tangibilenella storia dell’umanità.

Sono i primi anni Trenta del secoloscorso: James Cleveland Owens,detto Jesse (interpretato dal giovaneStephan James), è un ragazzo nato in

Alabama e cresciuto in Ohio. Figliodi un mezzadro e nipote di unoschiavo, ancora adolescente si fa no-tare per i successi conseguiti incampo atletico.

Iscritto all’Ohio State University,luogo tutt’altro che tollerante versochi ha un colore di pelle diverso, di-viene l’atleta di punta per il coach, exvelocista lui stesso, Larry Snyder, chesi impegna ad ottenere la sua ammis-sione alle Olimpiadi di Berlino del1936.

Nonostante il Comitato OlimpicoAmericano fosse risoluto a boicottarele competizioni tedesche, volute dalFührer Adolf Hitler con il chiaro in-tento di dimostrare al mondo la su-premazia della razza ariana, lamediazione di Avery Brundage (ma-gistralmente interpretato da JeremyIrons) farà sì che l’America decida diinviare i propri atleti a competere (acondizione che vengano ammessitutti gli americani, inclusi neri edebrei).

Jesse, dopo numerosi dubbi, instil-lati anche dalla comunità nera del-l’epoca, che cerca di scoraggiarne lapartecipazione, decide di partire peril Vecchio Continente. A Berlino il ve-locista, grazie alla sua ferrea deter-minazione, si aggiudicherà 4 oriolimpici nei 100 metri, 200 metripiani, salto in lungo e staffetta, difatto sfidando la Germania nazista ele sue convinzioni, riuscendo a bat-tere la loro punta di diamante,l’ariano Carl “Luz” Long, con ilquale Owens costruirà un rapportodi amicizia che verrà mantenuto finoalla morte del tedesco avvenuta du-rante il Secondo conflitto mondiale.

L’incredibile avventura di JesseOwens raccontata da “Race - Il Co-lore della Vittoria”, diretto da Ste-

phen Hopkins, che arriverà in sala inItalia, distribuito da Eagle Pictures,giovedì 31 marzo, non è soltanto ilracconto delle imprese sportive di unindimenticato atleta. La storia diOwens è una storia di coraggio, di ri-scatto. Non a caso il titolo “race”gioca proprio sul duplice significatodel termine che indica sia razza checorsa. Quella di Jesse è infatti unacorsa contro la discriminazione. Ilsuo coach Larry, che diventerà la sua“guida”, un giorno gli dice chequando si trova in pista non esistonodifferenze. Ed è proprio questo mes-saggio che Owens tenterà di portareanche nel mondo esterno alla terrabattuta della pista. Ma, nonostante isuoi successi olimpici, che faranno dilui un’icona per milioni di americani,Jesse continuerà a subire in patria lemedesime discriminazioni razziali cuiera sottoposto quando era ancora unragazzo come tanti, a partire daldover entrare nei locali pubblici dallaporta di servizio.

Passeranno decenni prima cheOwens venga “riconosciuto” anche

dal governo americano. Bisognerà in-fatti attendere il 1976, quando il pre-sidente degli Stati Uniti Gerald Fordgli conferirà la “Medaglia presiden-ziale della Libertà”, massimo titolocivile americano. Successivamente,nel 1979, verrà insignito anche del“Living Legend Award”.

Nel 1990 Owens verrà insignitodella Medaglia d’oro del Congressocome eroe olimpico e americano, ri-conoscimento però postumo; l’atletamorì infatti 10 anni prima a causa diun tumore ai polmoni. Una storia delgenere vuole far riflettere sull’insen-satezza del razzismo e sull’impor-tanza dello sport per superare ognidifferenza. Un messaggio importantein un momento storico in cui pur-troppo si assiste al riaffiorare, semprepiù diffuso, di focolai di razzismo ediscriminazione, del riemergere di po-pulismo e governi di chiaro stampoautoritario. Scelte, queste, riteniamodettate in buona parte, e ancora unavolta, dalla “paura del diverso” cheinevitabilmente viene aggettivatocome nemico da combattere.

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Race, una corsa contro la discriminazione

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