Aspetti della politica economica italiana dalla crisi del ... · La crisi del 2008-09 è certamente...

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Giornata di studio in onore di Guido M. Rey L’economia italiana: modelli, misurazione e nodi strutturali Aspetti della politica economica italiana dalla crisi del 1992-93 a quella del 2008-09 Salvatore Rossi Direttore Centrale per l’Area Ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d’Italia Università Roma Tre Roma, 5 marzo 2010

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Giornata di studio in onore di Guido M. Rey

L’economia italiana: modelli, misurazione e nodi strutturali

Aspetti della politica economica italiana dalla crisi del 1992-93 a quella del 2008-09

Salvatore Rossi Direttore Centrale per l’Area Ricerca economica e relazioni internazionali

della Banca d’Italia

Università Roma Tre Roma, 5 marzo 2010

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1. Da una crisi endogena a una esogena1

La politica economica italiana di oggi è certamente il risultato di scelte contemporanee, ma è anche il culmine di un processo storico il cui svolgersi risale indietro nel tempo.

Quanto indietro? La scelta di un momento del passato da cui iniziare questo racconto di alcuni aspetti della politica economica italiana recente non può che essere altamente convenzionale. Un buon candidato è il biennio 1992-93, perché in quel periodo si determina una soluzione di continuità nel nostro paese, sia nel sistema politico sia in quello economico e finanziario. Per quest’ultimo la “rottura” più drammatica è la crisi valutaria e (quasi) finanziaria del settembre 1992; sul terreno politico, è la dissoluzione della Prima Repubblica, che si compie nella primavera del 1993.

Fino a poco fa il 1992 era ricordato da noi come l’anno della Grande Crisi. Nel 2008-09 è sopravvenuta una crisi mondiale di eccezionale gravità, prima finanziaria poi economica, che ci ha investiti insieme a tutti gli altri paesi avanzati, con una forza tale da far impallidire da noi il ricordo di quella del ’92 sotto il profilo dell’impatto macroeconomico.

I due eventi sono assai diversi nella genesi. La crisi del 1992-93 è “endogena”: si tratta del redde rationem di oltre due decenni di

politiche economiche figlie della temperie sociale e politica iniziata alla fine degli anni Sessanta e proseguita per tutto il decennio Settanta. Politiche volte a sedare l’inquietudine della società del tempo con la morfina dell’inflazione e con denari sottratti alle generazioni future. Dal momento in cui il debito pubblico che ne risulta inizia a essere collocato presso investitori stranieri, verso la metà degli anni Ottanta, parte un conto alla rovescia che si conclude, nel settembre del 1992, con il ritiro della fiducia da parte di questi ultimi, che dà la stura a facili scommesse speculative sul cambio della lira e a una traumatica svalutazione di questa. Il sistema politico detto della Prima Repubblica, ormai corroso dall’interno, implode rovinosamente pochi mesi dopo.

La crisi del 2008-09 è certamente “esogena”: è una crisi statunitense, figlia di errori politici protrattisi per molti anni in quel paese nel governo della moneta e nella regolazione della finanza, una crisi che contagia il resto del mondo con rapidità fulminea, traducendosi per tutti nella paralisi dei mercati monetari e, di conseguenza, in un irrigidimento dei circuiti finanziari. Le conseguenze sull’economia reale sono inevitabili e acute. Questa crisi colpisce l’economia italiana con forza minore di quanto accaduto ad altre, grazie alla relativa maggiore impermeabilità del nostro sistema finanziario alle degenerazioni osservate altrove. Tuttavia, le conseguenza macroeconomiche sono da noi più forti: nel biennio, la

1 Questa relazione è in parte basata, con le integrazioni e gli adattamenti del caso, su alcuni capitoli del mio libro La politica economica italiana 1968-2997 (Rossi, 2007). Ringrazio Francesca Lotti, Pietro Rizza, Paolo Sestito e Giordano Zevi per l’assistenza e i commenti su una versione precedente. Ogni residuo errore è mia responsabilità, così come le opinioni espresse, non attribuibili alla Istituzione a cui appartengo.

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perdita cumulata di PIL è di circa 3,5 punti maggiore di quella registrata in media nell’area OCSE. Come mai una infezione meno virulenta determina da noi una febbre più alta?

Una risposta può stare nel fatto che l’organismo dell’economia italiana è giunto all’appuntamento con questa crisi mondiale in condizioni strutturali più debilitate di quelle di altre economie avanzate. Il che ci riporta a ragionare intorno alle politiche economiche messe in atto nel quindicennio racchiuso tra le due crisi, ai loro moventi, ai loro effetti.

Nell’arco di tempo di cui ci occupiamo vi è stato nel nostro dibattito interno in materia di politiche economiche un netto spostamento d’enfasi dal macro al micro, causato dai mutamenti dello scenario esterno intervenuti in quegli anni: la creazione della moneta unica europea; la coppia “rivoluzione tecnologica/globalizzazione dei mercati”.

Dopo la nostra confluenza nell’area dell’euro la politica monetaria, che era in Italia prevalentemente una politica del cambio, ha cessato di essere protagonista del dibattito domestico; inoltre, i primi dieci anni di vita dell’euro hanno coinciso con un periodo di eccezionale moderazione dell’inflazione ovunque nel mondo e di tassi d’interesse prevalentemente bassi, riducendo il pathos che circondava le scelte di politica monetaria.

Anche il dibattito sulla politica di bilancio, intesa nel senso macroeconomico di politica del saldo di bilancio, ha perso una parte di senso (fino alla vigilia dell’ultima crisi), a causa dei vincoli, sostanziali, imposti dalla necessità di tenere sotto controllo la dinamica dell’alto debito pubblico accumulato e di quelli, formali, imposti dal patto fondativo della moneta comune.

Si è intensificata invece l’attenzione sulle politiche strutturali, per ragioni connesse con la risposta parziale e tardiva del nostro sistema alla coppia di trasformazioni dello scenario internazionale prima ricordati.

Dividerò allora le mie riflessioni in tre paragrafi. Inizierò con le politiche di ordine macroeconomico: la politica monetaria – che tratterò insieme a quella peculiarità tutta italiana che è la politica dei redditi; la politica di bilancio. Proseguirò con il grande coacervo delle politiche microeconomiche, o strutturali. Concluderò con alcune riflessioni sulle sfide dell’oggi.

Per quanto ovvio, preciso che tratterò, come il titolo stesso di questa relazione avverte, solo di alcuni aspetti della politica economica italiana nel periodo considerato. Né potrebbe essere altrimenti data la brevità di questo scritto. Ad esempio, non tocco le questioni, pure rilevantissime, concernenti il sistema finanziario, il governo societario, la regolazione. Su questi e su altri temi qui trascurati rinvio alle considerazioni svolte in Rossi (2009).

2. L’inflazione, la politica dei redditi, la politica monetaria

Fra il 1991 e il 1995 la lira perde quasi un terzo del suo valore esterno, cioè della sua quotazione media sui mercati dei cambi. Nello stesso periodo, il valore interno della lira,

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cioè il potere d’acquisto dei consumatori italiani, si riduce solo di un sesto. È, questo, un evento inusuale. In occasione dell’altro ciclo di acuta svalutazione del cambio della nostra moneta, dal 1972 al 1976, la relazione fra le due variazioni fu opposta: a una perdita di valore esterno di poco più di un terzo corrispose una perdita di valore interno molto maggiore, quasi pari alla metà.

Che cosa ha impedito, all’indomani della crisi valutaria del 1992, la trasmissione amplificata degli impulsi di svalutazione del cambio ai prezzi interni? Tre elementi: una profonda recessione della domanda interna, «da sfiducia»; il favore dei prezzi internazionali; la moderazione salariale, in particolare il tempestivo disinnesco delle indicizzazioni. Concentriamoci su quest’ultimo aspetto.

Nel quadriennio fra il 1991 e il 1995 le retribuzioni pro capite in termini reali diminuiscono del 3,3 per cento nel complesso dell’economia; restano immutate nell’industria, dove la produttività progredisce quasi dell’8 per cento. In termini nominali, il costo complessivo del lavoro per unità di prodotto nell’industria aumenta in quattro anni solo di poco più del 2 per cento. Vent’anni prima, nell’altro quadriennio di drammatico indebolimento del cambio della lira, dal 1972 al 1976, quella stessa variabile era cresciuta del 94 per cento!

A che si deve questa diversità di risposte? Il 23 luglio del 1993, dopo aver ottenuto l’approvazione dei lavoratori in un’apposita consultazione, le parti sociali e il governo ratificano lo schema d’intesa siglato venti giorni prima sul costo del lavoro e sul sistema di contrattazione. L’intesa completa una vera e propria fase costituente in materia di relazioni industriali, che si era aperta nel 1990, con la disdetta unilaterale della scala mobile da parte della Confindustria, ed era proseguita nel 1992 con l’accordo sulla cessazione definitiva del meccanismo di scala mobile. Si chiude così un lungo ciclo, idealmente iniziato con l’intesa Lama-Agnelli del gennaio 1975 sul punto unico di contingenza. Ci sono voluti quasi vent’anni per capovolgere, e rimettere con i piedi per terra, una bizzarra politica dei redditi “a rovescio” che aveva dato un non piccolo contributo a rendere gli anni Settanta così funesti per l’economia italiana. Le parti sociali riformeranno in parte quell’accordo solo quindici anni più tardi, peraltro con l’astensione del maggiore sindacato.

L’accordo del luglio 1993 non è un capolavoro, né di chiarezza né di logica economica. Stabilisce però un punto importante. I livelli minimi di retribuzione vengono contrattati sulla base del tasso «programmatico» dell’inflazione futura, quello ufficialmente indicato come obiettivo della politica macroeconomica, non sulla basa dell’inflazione pregressa. Alla scadenza del biennio contrattuale, qualora l’inflazione effettivamente osservata abbia ecceduto quella programmatica, sono esclusi recuperi automatici: le parti negozieranno l’ammontare del rimborso. Questo coprirà comunque, dell’eccesso di inflazione, solo la parte non dovuta a «perdite nella ragione di scambio» del paese, cioè a rialzi nei prezzi internazionali o a deprezzamento del cambio della lira (e anche, per logica estensione, ad aumenti delle imposte indirette): questi sono da considerare infatti eventi

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esogeni rispetto ai meccanismi di formazione dei prezzi interni. Il contratto aziendale non dovrà, sotto il profilo retributivo, sovrapporsi a quello nazionale se non per riconoscere eventuali sovrappiù di produttività specifici della singola azienda, a compenso dei quali vengono incoraggiate forme di partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.

Lo schema di politica dei redditi del 1993 dà un fondamentale contributo a sventare il rischio gravissimo che la forte svalutazione della lira del settembre 1992 poneva all’economia italiana: il ritorno dell’alta inflazione. Il resto lo fa la politica monetaria.

Negli anni Ottanta e fino alla crisi valutaria del 1992, la politica monetaria italiana

trovava nel rispetto del vincolo di cambio dato dall’appartenenza allo SME il suo principale obiettivo. Con il passaggio della lira a un regime di fluttuazione libera, la politica monetaria perde quest’àncora. Anche in risposta alla mutata situazione, il suo modus operandi deve evolvere verso un modello nuovo (Visco, 1999). Nella Relazione annuale della Banca d’Italia presentata il 31 maggio del 1993 inizia a delinearsi un riferimento diretto all’obiettivo finale della stabilità dei prezzi, mai prima d’allora dichiarato con chiarezza: «evitare il riaccendersi dell’inflazione è obiettivo primario della banca centrale», con il concorso di appropriate politiche di bilancio e dei redditi.

Dagli ultimi mesi del 1992, e fino a metà del 1994, la politica monetaria è alle prese con il compito di assecondare il ritorno alla normalità nei mercati monetario e finanziario dopo la crisi valutaria; muovendo dall’altissimo grado di restrizione raggiunto al culmine della crisi nel settembre 1992, e pur in mezzo a non dome turbolenze internazionali che portano, nell’estate 1993, a un sostanziale allentamento per tutti i paesi partecipanti degli accordi di cambio dello Sme, i tassi d’interesse discendono con continuità: sia nel comparto a breve termine, dove sono guidati da dodici successive riduzioni dei tassi ufficiali di sconto e di anticipazione in venti mesi, sia in quello a lungo termine, sia nei differenziali con gli altri principali paesi.

Nel frattempo, l’assetto istituzionale che regola l’operato della Banca d’Italia approda a un modello di completa autonomia dal governo, e di definitiva separazione funzionale fra le politiche monetaria e del bilancio pubblico. Le tappe decisive, segnate da apposite norme di legge, sono due. Nel febbraio del 1992 viene formalmente rimesso alla sola Banca d’Italia il potere di variare i tassi ufficiali d’interesse sulle operazioni di sconto e di anticipazione: questi tassi hanno ormai una limitata importanza operativa, ma hanno acquistato un rilevante valore segnaletico dell’orientamento della politica monetaria. Nel novembre del 1993, nel quadro degli adempimenti connessi con l’Unione europea, è abolito il finanziamento monetario del bilancio pubblico: in particolare, è vietato ogni scoperto sul conto corrente che il Tesoro intrattiene presso la Banca d’Italia; è contestualmente attribuita alla sola Banca d’Italia la competenza in materia di «riserva obbligatoria» delle banche.

Il lungo ciclo iniziato con il «divorzio» dal Tesoro del 1981 si è chiuso. La nuova costituzione monetaria invocata dal governatore Ciampi all’inizio del decennio Ottanta è per

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due terzi – autonomia della banca centrale, codice della contrattazione salariale – cosa fatta; manca ancora il “rafforzamento delle procedure di bilancio” (Ciampi, 1981).

Nella Relazione annuale del maggio 1994 il legame operativo fra andamenti dell’inflazione e reazione della politica monetaria diviene ancora più esplicito: «la Banca centrale [...] è attenta a prevenire pressioni sui costi e sui prezzi. Ove gli andamenti dell’economia violassero le condizioni per una ripresa non inflazionistica, la politica monetaria, di necessità, si volgerebbe all’obiettivo di frenare l’aumento dei prezzi, attraverso un ritorno a tassi d’interesse più elevati».

Il quadro di controllo della politica monetaria italiana si è effettivamente arricchito di una serie di indicatori concernenti la dinamica dei costi e dei prezzi, che ora affiancano quelli tradizionali di base monetaria, moneta, credito, attività finanziarie e tassi d’interesse sui mercati «a pronti». Con particolare attenzione vengono scrutinati: la crescita da un mese all’altro dei prezzi dei prodotti industriali e quella del costo della vita, opportunamente depurate dei fattori stagionali; gli esiti dei sondaggi sulle aspettative d’inflazione delle famiglie, delle imprese, degli opinion makers; i tassi d’interesse sui mercati «a termine», che riflettono le aspettative d’inflazione dei mercati finanziari. Anche lo strumentario della politica monetaria si arricchisce e si orienta verso i modelli più diffusi in Europa.

Il momento in cui il nuovo approccio che si va formulando è messo alla prova si presenta nell’estate del 1994. Da febbraio l’orientamento della politica monetaria americana si è fatto gradualmente più restrittivo, nell’intento di prevenire possibili rialzi dell’inflazione indotti dall’attività economica in espansione. La mossa è anticipata rispetto ad analoghi episodi del passato. Il rialzo dei tassi d’interesse a breve termine si trasmette a quelli a lungo termine, per le incertezze che agitano il mercato finanziario americano sulla capacità di controllo dell’inflazione nel lungo periodo da parte della banca centrale americana. L’integrazione ormai raggiunta fra i mercati finanziari delle principali economie e il peso che vi conserva il dollaro fanno sì che l’aumento dei tassi a più lungo termine subito contagi le altre valute, nonostante il ritardo delle rispettive economie nel riprendere slancio produttivo e l’orientamento ancora permissivo delle loro politiche monetarie.

La politica monetaria italiana viene colta da questi sviluppi internazionali mentre sta proseguendo il suo graduale allentamento: l’ultima riduzione dei tassi ufficiali d’interesse è ancora dei primi di maggio. L’inflazione, misurata dal tradizionale tasso di crescita del costo della vita sui dodici mesi precedenti, scende sotto il 4 per cento in giugno, il valore più basso da un quarto di secolo, e resta su quel livello in luglio e agosto. Ma in giugno divengono anche evidenti alcuni segni premonitori di un prossimo rialzo dell’inflazione al consumo, che sono visibili nell’andamento corrente dei prezzi alla produzione, ma soprattutto nelle aspettative degli operatori economici. Essi sfuggono al grosso dell’opinione pubblica e sono totalmente ignorati nel dibattito politico. Constatata l’insufficienza degli effetti di restrizione della domanda interna che provengono dalla

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politica di bilancio, in atto e in programma, la Banca d’Italia inverte la rotta, tornando prima a razionare la base monetaria, poi a innalzare, in agosto, i tassi ufficiali.

Quest’ultima decisione giunge inattesa sui mercati. Sulle prime, gli operatori ne fraintendono il significato e accrescono i loro dubbi sulla volontà e capacità della banca centrale italiana di mantenere una linea di fermezza antinflazionistica in presenza di uno squilibrio strutturale della finanza pubblica ancora grave. Di conseguenza, i tassi e i differenziali a lungo termine salgono quanto o più di quelli a breve e il cambio della lira seguita a deprezzarsi. Queste incertezze si attenuano solo nei mesi successivi. Quell’episodio insegna una lezione precisa ai responsabili della politica monetaria: è necessario disporre di attente strategie di comunicazione, che preparino il mercato a comprendere le decisioni di policy.

Nel febbraio del 1995, di riflesso alla crisi del Messico, la lira subisce un nuovo tracollo sul mercato dei cambi, di entità appena meno grande di quella sperimentata nel settembre del 1992, prefigurando di nuovo un pericolosissimo rischio di rialzo dell’inflazione, anche verso il 9-10 per cento secondo alcuni scenari simulati. La politica monetaria accentua fortemente il suo orientamento restrittivo.

Nella Relazione annuale del maggio 1995 si compie un passo decisivo: si fissa un obiettivo esplicito di riduzione del tasso medio annuo di inflazione al consumo nell’anno in corso e nel successivo; si delinea, pur non nel dettaglio quantitativo, un sentiero mensile che realisticamente può, oltre il breve periodo, portare a una decelerazione dei prezzi coerente con gli obiettivi annui; si connette il corso futuro della politica monetaria alla verifica che l’economia non si discosti da quel sentiero. Gli obiettivi medi annui indicati dalla Banca d’Italia sono molto vicini a quelli del governo, ma non esattamente coincidenti: se ne discostano leggermente verso l’alto per uno scrupolo di realismo.

Non si tratta di uno schema formale di inflation targeting. Questo presupporrebbe che la politica monetaria possa influenzare la variabile-obiettivo nella misura e nei tempi voluti, con i suoi soli strumenti. La Banca d’Italia non ritiene sia questo il caso dell’economia italiana, con il suo formidabile debito pubblico, che condiziona, attraverso le aspettative degli operatori finanziari sulla sua sostenibilità, il cambio della lira, a sua volta determinante nell’influenzare la dinamica dei prezzi. Tuttavia, essa si dice consapevole dell’efficacia, nel medio-lungo periodo, della politica monetaria nel piegare l’inflazione, imponendo i necessari costi all’economia reale; riconosce l’importanza delle aspettative nella determinazione dei comportamenti degli agenti economici, non solo di quelle sull’azione di riequilibrio del bilancio, ma anche di quelle sull’azione di politica monetaria. Queste ultime sono influenzate dalla reputazione che una banca centrale sa costruirsi nel tempo nella esplicitazione di obiettivi chiari e nella fermezza e indipendenza mostrate nel perseguirli.

Passata la «bolla messicana», l’inflazione in Italia torna a scendere, in linea con gli obiettivi della banca centrale, fissati nel maggio 1995 ed estesi, nel maggio 1996, all’anno 1997; vi concorre il contenimento della domanda aggregata esercitato da una politica fiscale

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che si fa via via più restrittiva (vedi oltre). Nello scorcio del decennio la dinamica dei prezzi al consumo si porta intorno al 2 per cento. Si conclude così la fase inflazionistica dell’economia italiana durata per quasi un trentennio. Ne trae forza lo stesso accordo di politica dei redditi del ’93, la cui tenuta sarebbe stata messa a repentaglio da un risorgere dell’inflazione.

La dinamica dei prezzi è uno dei cinque parametri di convergenza (inflazione, tasso d’interesse a lunga, tasso di cambio, disavanzo e debito pubblici) stabiliti dal Trattato di Maastricht come precondizioni per l’ingresso nella costituenda area dell’euro: esso è finalmente in linea. Ci si adopera a far rientrare nei limiti fissati anche gli altri (nel paragrafo successivo vedremo le incertezze e le difficoltà della relativa decisione politica e discuteremo dei due parametri di finanza pubblica).

Il tasso d’interesse a lungo termine sui titoli pubblici di nuova emissione rientra al di sotto della soglia massima già nel febbraio del 1997. Alla fine del 1997 supera di meno di 3 decimi di punto percentuale gli analoghi tassi tedesco e francese ed è in linea con il criterio di convergenza.

Il tasso di cambio della lira fluttua nei confronti delle valute aderenti agli accordi europei di cambio entro margini considerabili «normali», cioè quelli della vecchia «banda stretta» dello Sme (±2,25 per cento), fin dal giugno-luglio del 1996, ancor prima di tornare ad aderire formalmente, in novembre, a quegli accordi. È vero che nel maggio-giugno del 1996 è ancora al di fuori di quei margini, ma si rivaluta rapidamente. La stabilità del cambio, nei due anni successivi, non è interrotta da tensioni e non è ottenuta col sostegno di interventi sul mercato da parte della Banca d’Italia. Anche questo parametro è in linea.

Una volta acquisita come molto probabile, o addirittura come certa (dopo il 3 maggio del 1998), la partecipazione italiana all’euro dall’inizio del 1999, ne discende la facile previsione che almeno i tassi d’interesse a brevissimo termine debbano, alla partenza dell’euro, coincidere esattamente in tutti i paesi partecipanti. Infatti, a determinare le differenze fra rendimenti a breve gioca in misura proponderante l’incertezza sul corso futuro dei tassi di cambio fra le rispettive valute di denominazione. Se i cambi sono irrevocabilmente fissati, non vi è più alcuna ragione per rilevanti differenze. Queste ultime restano possibili fra i rendimenti di attività finanziarie a più lungo termine, i quali sono influenzati, oltre che dal «rischio di cambio», anche dal «rischio debitore». Dunque, ragiona il governo italiano, i tassi d’interesse a breve termine in lire devono scendere necessariamente entro la fine dell’anno. Prima scendono, maggiore sarà il risparmio per il bilancio pubblico in termini di minori pagamenti per interessi.

Alla fine del 1997, nonostante la riduzione dei tassi d’interesse ufficiali di tre quarti di punto decisa dalla Banca d’Italia nello scorcio dell’anno, il livello generale dei tassi d’interesse a breve resta in Italia decisamente più alto che in Germania. Ad esempio, il rendimento di un deposito interbancario a tre mesi è del 5,2 per cento sui depositi in lire, del 3,7 su quelli in marchi. Il rendimento di un titolo dello Stato a dieci anni è del 5,7 per cento

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per i Btp italiani e del 5,3 per i bund tedeschi. La Banca d’Italia ha il compito di regolare i tempi della discesa dei tassi d’interesse a breve termine. Nel farlo essa deve badare a che si consolidi sui mercati finanziari internazionali la prospettiva dell’ingresso italiano nell’area dell’euro. Anche dopo che la decisione dei governi è presa (maggio), la transizione dal vecchio al nuovo regime resta, sui mercati, delicatissima. Vi è soprattutto un fronte sul quale la partita resterà aperta fino all’ultimo giorno, presentando per l’Italia rischi non irrilevanti: quello dei tassi di cambio. I governi e le banche centrali dei paesi che daranno vita all’euro hanno annunciato a maggio su quali valori vogliono irrevocabilmente congelare i tassi di cambio fra le valute dell’area, ma nel frattempo i cambi li fa il mercato, ogni giorno, bilanciando domanda e offerta. Affinché il 31 dicembre del 1998 i cambi di mercato convergano verso i valori prefissati da governi e banche centrali è necessario che il mercato «creda» nella ineluttabilità della marcia verso l’euro, senza incertezza alcuna. Questa è la ratio della cautela mostrata dalla Banca d’Italia nel guidare la discesa dei tassi a breve verso il livello comune, cautela che le sarà peraltro da taluni rimproverata come derivante da un suo proprio scetticismo di fondo sulla costruzione della moneta unica.

Dall’inizio del 1999, con la partenza dell’euro, la politica monetaria e del tasso di cambio cessa di essere un affare interno, per disciogliersi in una responsabilità condivisa.

Nel 2002 l’euro inizia a circolare nei paesi dell’area anche in forma di banconote e monete metalliche, sostituendo definitivamente le valute nazionali dei paesi aderenti. Dai mesi iniziali di quell’anno, per coincidenza, il dollaro inizia a perdere valore sui mercati dei cambi; di riflesso, l’euro si apprezza, fin quasi a recuperare la quotazione in termini di dollari che ha nel momento della sua nascita. Non è difficile immaginare che, se per ipotesi la lira fosse stata fuori dell’euro, forti tensioni al ribasso l’avrebbero colpita, come è sempre accaduto in fasi di debolezza del dollaro, in ragione dell’alto debito pubblico che tuttora grava sull’economia italiana; le tensioni avrebbero alimentato l’inflazione e costretto le autorità monetarie a rialzare i tassi d’interesse, con successive pesanti ripercussioni sulla crescita economica.

Possiamo oggi dire con sguardo retrospettivo che, negli anni finora trascorsi nel regime di politica monetaria comune, l’area dell’euro e l’Italia hanno beneficiato di livelli dei tassi d’interesse, a breve e a medio termine, nominali e reali, bassi quali non si vedevano dagli anni Cinquanta. La forza e la stabilità della moneta comune hanno tolto al tema dell’inflazione la drammaticità che lo aveva caratterizzato per trent’anni.

3. La politica di bilancio

Nei decenni Settanta e Ottanta l’intera collettività italiana aveva voluto vivere al di sopra dei propri mezzi, accumulando debiti nei confronti delle generazioni future (Franco et al., 1994) e del resto del mondo. La classe politica aveva trovato il modo di accontentarla,

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ipotecando il reddito degli anni a venire. Nel frattempo, si era andata inaridendo la vena che rendeva disponibili, per coprire le occorrenze finanziarie del settore pubblico, ingenti quantità di risparmio delle famiglie italiane, a buon mercato e con scarsa concorrenza da parte di altri prenditori di fondi. Da un lato, il tasso di risparmio delle famiglie si andava abbassando. Dall’altro, i risparmiatori si facevano più audaci e potevano essere allettati da offerte di impiego finanziario provenienti dall’estero, a cui potevano legalmente accedere dopo la liberalizzazione dei movimenti di capitale.

Dopo la crisi del settembre 1992, si tenta di tradurre in pratica di governo l’idea che per il bilancio pubblico sia venuto il tempo del redde rationem. Una necessità si impone: far sì che l’enorme mole del debito pubblico che si è accumulato negli anni smetta di crescere in rapporto al reddito nazionale. Questo vuol dire, scontato che si debba continuare a onorare il debito pubblico preesistente corrispondendo tutti gli interessi che il mercato chiede, che occorre generare avanzi primari di bilancio; questi avanzi devono essere tanto più grandi quanto più alto è l’onere degli interessi.

Un primo surplus primario di qualche consistenza (quasi il 2 per cento del Pil) lo si ottiene proprio nel 1992. Quel risultato viene consolidato nel 1993 (2,6 per cento) e nel 1994 (2,3 per cento). Comunque, l’ordine di grandezza di questi avanzi è ancora insufficiente. Lo dimostra il rapporto debito pubblico/Pil, che continua a crescere impetuosamente, da poco meno del 100 per cento del Pil alla fine del 1991, a 105 un anno dopo, a 116 ancora un anno dopo, a oltre il 120 per cento alla fine del 1994. La ragione prevalente è che i pagamenti di interessi sono ormai ingentissimi, oltre il 12 per cento del Pil nel 1993, anche a causa del rialzo dei tassi di interesse connesso con i travagli della lira sul mercato dei cambi.

Solo nel 1995, in presenza di una nuova, insidiosa crisi di cambio della lira, l’avanzo primario viene portato a una dimensione tale (4,2 per cento del Pil) da consentire l’avvio della riduzione del rapporto debito/Pil. Nel 1996 lo sforzo di correzione del bilancio viene mantenuto: l’avanzo primario è pari al 4,6 per cento del Pil, ma la china discendente nel rapporto debito/Pil è ormai stata intrapresa.

Come si è passati da un saldo primario nullo nel 1991 a un surplus di oltre 4 punti e mezzo di Pil nel 1996? Con un aumento della pressione fiscale di 2,2 punti; con un aumento delle altre entrate, in parte una tantum, di 0,5 punti; con una riduzione delle spese primarie per i restanti 1,9 punti.

La spesa pubblica primaria è dominata dalla spesa sociale. Questa non è fuori linea rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, appare del tutto anomala la sua composizione. Quasi due terzi di essa sono assorbiti dalle esigenze di anziani e coniugi superstiti, contro una quota pari a meno della metà nel resto d’Europa. È invece molto minore la spesa destinata alla disoccupazione e all’occupazione, alla famiglia, alla casa, ai poveri. La composizione della spesa è anomala anche sotto un altro profilo: è orientata, molto più che nella media

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europea, a favorire i lavoratori autonomi e gli appartenenti, attuali o passati, al mercato «regolare» del lavoro dipendente, in particolare i lavoratori delle grandi imprese e del settore pubblico. Si tratta di cittadini che, per il livello di reddito o per l’età ancora giovane, possono essere in condizioni di disagio relativamente minore di altri, appartenenti a categorie non protette: i poveri di ogni età e in particolare i minori; i disoccupati di lunga durata o i mai occupati; i dipendenti di aziende piccole o «sommerse», esposte alla concorrenza internazionale; i precari.

Nel complesso, una tale struttura della spesa è socialmente iniqua; è avversa alle esigenze di competitività e di sviluppo del sistema produttivo; è finanziariamente perniciosa, perché contrasta con le tendenze demografiche di una società che invecchia. Il difficilissimo esercizio che la nuova politica italiana affronta è portare alla luce della coscienza collettiva queste tre verità, e di farne discendere, senza inutili drammi, le indifferibili correzioni. Un esercizio fragile, che schiude spiragli di consapevolezza per qualche anno, subito richiusi con l’allontanarsi delle emergenze valutarie. La crisi del 2008-09 sta riaprendo il problema.

Il 1996 si chiude con risultati poco incoraggianti dal punto di vista di una realistica prospettiva da parte dell’Italia di rispettare per tempo i criteri fissati a Maastricht concernenti la finanza pubblica.

Le due grandezze che esprimono lo stato di salute finanziaria delle amministrazioni pubbliche – il saldo annuo fra entrate e spese e la consistenza del debito accumulato – si rivelano molto distanti dalle soglie di Maastricht; le eccedono entrambe per più del doppio. Il bilancio registra un disavanzo pari al 7 per cento del prodotto interno lordo, contro una soglia del 3; esso è certo diminuito in modo «continuo e sostanziale» nei precedenti sette anni (come prescrive il Trattato), ma è ancora lontano dalla soglia. Il debito alla fine dell’anno è pari al 120,9 per cento del prodotto, contro una soglia del 60; sta diminuendo, ma da soli due anni. Nel confronto con gli altri partecipanti al palio europeo, l’Italia rimane visibilmente distaccata dal gruppo centrale.

Nel corso del 1996 il governo compie sul tema europeo una virata brusca. Ancora in giugno, nel documento di programmazione triennale, gli obiettivi ufficiali della politica di bilancio per il 1997 appaiono esplicitamente incompatibili con il rispetto dei criteri di Maastricht. Questo segnala il convincimento del governo italiano che nel gruppo di testa della pattuglia europea possano entrare, posto che non si assista a un rinvio dell’intera operazione, soltanto i pochi paesi del nucleo germanocentrico, e che programmare un’adesione dell’Italia ritardata di un anno o due, purché in compagnia di altri importanti paesi (come la Spagna), rappresenti una strategia equilibrata. Questo convincimento tradisce un difetto di informazione o di valutazione su quel che sta maturando nelle cancellerie europee; si rivela ben presto infondato.

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Il governo trova allora la determinazione per decidere che l’economia italiana debba gettare il cuore oltre l’ostacolo, pena l’isolamento in Europa. La legge finanziaria per il 1997, presentata in ottobre, prevede un forte inasprimento della restrizione di bilancio rispetto agli orientamenti di giugno, in modo da puntare senz’altro agli obiettivi del 3 per cento per il rapporto disavanzo pubblico/Pil, e di una significativa riduzione per il rapporto debito pubblico/Pil. La correzione delle tendenze del bilancio implicata dalla legge finanziaria è basata prevalentemente su aumenti di imposte, anche se per 1 punto di natura temporanea. Dal lato della spesa, risparmi consistenti sono attesi da un’azione capillare di razionamento delle erogazioni per cassa del Tesoro agli enti locali.

Questa politica di convergenza a tappe forzate ha successo. L’Italia si presenta nel 1998 alla verifica delle proprie credenziali di aspirante all’«euro subito» con risultati che superano le più favorevoli aspettative della vigilia, e la pongono nelle condizioni di difendere con solidi argomenti la propria candidatura.

L’economia italiana, cogliendo l’obiettivo della partecipazione all’euro nei tempi minimi previsti, compie un importante passo avanti nel riequilibrio macroeconomico. Negli anni successivi viene fatto un mezzo passo indietro. Il debito pubblico, in rapporto al PIL, resta fra i più alti del mondo e condiziona le politiche di bilancio, dovendosi costantemente rassicurare i detentori dei titoli pubblici italiani, metà dei quali sono stranieri, sulla solidità e affidabilità del debitore Italia. La strada maestra per abbattere il debito non può che essere il ridimensionamento della spesa pubblica primaria corrente, incluso il capitolo pensionistico, pur oggetto di importanti riforme negli anni ‘90 (Franco, 2002). Ma è una strada irta di difficoltà politiche, che frenano l’azione di tutti i governi da allora a oggi.

4. Le politiche strutturali

Come già accennato, durante il passato decennio l’interesse degli osservatori della realtà economica italiana, tradizionalmente rivolto alle politiche macroeconomiche, si è gradualmente spostato sulle politiche strutturali. Lo spiega il farsi strada dell’idea che l’economia italiana soffra di difetti, appunto, strutturali. Questi sarebbero alla base della quasi stagnazione in cui l’economia è caduta nel decennio, risultato del combinarsi di tendenze demografiche sfavorevoli, di un mercato del lavoro che non sollecita abbastanza l’occupazione delle risorse inutilizzate (nei processi formali di produzione) e di una dinamica declinante della produttività. Il quadro è aggravato da una differenziazione Nord-Sud che, lungi dal ridursi, tende ad aggravarsi.

Su tutti questi aspetti la politica economica può agire in vari modi. Questi sono inscrivibili in due grandi categorie di azione: normativo-regolatoria; erogatoria. La prima non implica, almeno per via diretta, un passaggio attraverso il bilancio pubblico, limitandosi

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a fissare le regole del gioco economico. La seconda implica un aumento della spesa pubblica o una riduzione di entrate, con un impatto ceteris paribus sul saldo di bilancio che va reso coerente con gli obiettivi macro di politica di bilancio.

Il sistema produttivo del nostro paese rivela, all’esordio del nuovo secolo, una carenza

strutturale di competitività nei confronti delle altre economie avanzate. La questione non è nuova, ma può balzare all’attenzione generale soltanto dopo che il gran polverone dell’emergenza macroeconomica degli anni Novanta si è posato, e ha consentito di guardare più in profondità al modo di funzionamento della macchina produttiva.

I sintomi più vistosi di debolezza si osservano nel tasso annuo di crescita del prodotto e in quello della produttività.

Nella prima metà del decennio passato la crescita annua in Italia è scesa molto al di sotto di quella media europea, già più bassa di quella americana. Nelle economie più dinamiche il prodotto aumenta grazie alla capacità di espandere sia l’occupazione sia la produttività.

Nel decennio Duemila il tasso di occupazione in Italia, pur salendo di oltre quattro punti, resta tuttavia al di sotto del 60 per cento della popolazione in età di lavoro, un livello fra i più bassi del mondo avanzato. L’aumento di occupazione si ottiene, oltre che per l’effetto statistico della regolarizzazione di lavoratori immigrati, soprattutto grazie alla immissione nel mercato del lavoro di neo-occupati con contratti a tempo determinato, resi possibili da norme (pacchetto Treu, legge Biagi) dichiaratamente volte a rendere il mercato più flessibile. La flessibilità viene però introdotta solo dal lato dell’ingresso nel mercato, mentre le norme sui licenziamenti e, soprattutto, le procedure di gestione giudiziaria del contenzioso non vengono toccate. Il risultato è che, per una impresa, licenziare un singolo lavoratore non più utile o adatto resta un’operazione dagli alti costi, soprattutto per la lunghezza e l’incertezza degli esiti giudiziari. Posti di fronte alla possibilità di assumere lavoratori automaticamente licenziabili alla scadenza (anche molto breve) del contratto le aziende, a cominciare dallo stesso settore pubblico, ne approfittano largamente. Questa situazione, anche a causa dei molteplici abusi resi possibili da un sistema di controlli carente, ha prodotto un duplice inconveniente: da un lato, un esercito di giovani dalla condizione lavorativa cronicamente precaria, tenuti ai margini del mercato del lavoro e, quindi, della società; dall’altro, datori di lavoro prigionieri del mito della libera licenziabilità e sfruttabilità dei precari, che non vedono il danno derivante alla propria azienda dall’impossibilità di fidelizzare e formare compiutamente il proprio personale.

Ma la questione cruciale è quella della produttività. Negli Stati Uniti, il frutto di un’ora

di lavoro si accresce in media del 3 per cento l’anno dalla metà degli anni Novanta, grazie all’uso di nuovi strumenti che ne velocizzano e facilitano lo svolgimento (ICT) e alla

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superiore capacità delle imprese americane di organizzare efficientemente l’attività di molte persone in strutture produttive complesse.

Il progresso della produttività nel nostro paese invece rallenta fino a fermarsi. Quali le cause? Esse risalgono indietro nel tempo e sono analizzabili sotto tre aspetti: chi produce, che cosa si produce, come si produce.

La struttura industriale italiana è fortemente frammentata. Essa continua a insistere – a differenza di quelle degli altri maggiori paesi europei – su una numerosissima congerie di piccole e piccolissime imprese, su poche grandi imprese e su una presenza ancora insufficiente di imprese di media dimensione. La piccola impresa italiana, agile e flessibile, è però refrattaria a crescere, e finisce così per condizionare la capacità di ricerca-innovazione e la presenza all’estero del sistema produttivo italiano, che rimangono deboli e sottodimensionate.

Questa struttura produttiva frammentata e poco dinamica pesa sull’efficienza del sistema. La stagnazione della produttività media del lavoro in Italia va attribuita in misura prevalente al deterioramento della cosiddetta produttività totale dei fattori, cioè della capacità di combinare in maniera efficiente la dotazione totale dei fattori produttivi, più che a una deficienza di investimenti o d’intensità di capitale. Tale deterioramento si riconnette al vistoso ritardo con cui le nuove tecnologie si vanno radicando nel sistema produttivo italiano.

A mantenere compressa la dimensione media d’impresa, arretrata la specializzazione produttiva e stagnante la produttività non sono soltanto comportamenti imprenditoriali ispirati alla protezione del controllo proprietario familiare. Concorrono alcuni fondamentali difetti del sistema-paese, riconducibili a scelte politiche, attive od omissive; fra gli altri: una cultura giuridico-amministrativa arcaica e ostile alle ragioni dell’efficienza e del mercato; un sistema nazionale di innovazione inadeguato, in cui la ricerca pubblica è complessivamente insufficiente nella qualità (al di là di lodevoli eccezioni), la ricerca privata nella quantità, entrambe lo sono nella capacità di dialogare e coordinarsi; un contesto normativo, fiscale e finanziario che non invoglia gli imprenditori piccolo-medi a compiere salti dimensionali aprendo il capitale delle loro imprese familiari al mercato; un difetto di concorrenza nei mercati dei beni e, soprattutto, dei servizi, a cominciare da quelli di pubblica utilità.

Taluni hanno affacciato negli anni scorsi l’ipotesi di un “declino” storico irreversibile dell’economia e della società italiane, un fenomeno effettivamente osservato più volte nella storia dei popoli e dei territori; altri ne hanno messo in dubbio il fondamento (Visco, 2002). La ripresa economica del 2006-2007 e alcuni segni premonitori di una ristrutturazione in atto in alcune parti del sistema più esposte alla concorrenza internazionale hanno rilanciato l’ipotesi che il sistema produttivo italiano abbia la capacità di riorganizzarsi per adeguarsi, pur tardivamente, ai due grandi mutamenti di contesto – la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica – prima ricordati.

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La crisi del 2008-09, con il crollo delle esportazioni e degli investimenti, con le tensioni finanziarie in cui molte imprese sono incappate, ha nuovamente messo in forse questo scenario. Ma sulla ristrutturazione del sistema si gioca il destino della nostra economia, dunque l’analisi e la proposta delle riforme necessarie a favorirla resta più che mai centrale.

I difetti strutturali del sistema economico italiano rappresentano altrettante difficili sfide per una politica economica che voglia rilanciare la produttività, la competitività e la crescita di lungo periodo. E’ in questo vasto e variegato campo delle politiche cosiddette “strutturali” che la capacità decisionale del sistema politico viene messa alla prova decisiva, un campo irto di difficoltà perché tecnicamente complesso e disseminato di agguerriti interessi di gruppi di pressione e corporazioni.

5. Le due rincorse

Nell’arco di tempo oggetto di queste riflessioni, dalla crisi “endogena” del 1992-93 a quella “esogena” del 2007-08, l’economia italiana ha tentato due rincorse: quella per entrare nel gruppo di testa dei fondatori dell’euro; quella per adeguarsi alla duplice rivoluzione (tecnologia/mercati) che ha cambiato il mondo nello scorcio del secolo scorso. La prima rincorsa – affannosa, come abbiamo ricordato sia pure per cenni – è riuscita. La seconda ancora no, o almeno non del tutto: è iniziata tardi, ha coinvolto solo parte del sistema, è una corsa ad handicap.

La rincorsa all’euro è stata perseguita con precisi atti di volontà politica, apparsi addirittura temerari tanta era la distanza da recuperare in pochissimo tempo. Si tratta pertanto di un successo indubbio della politica economica, che ha prodotto, come pure abbiamo ricordato, incalcolabili benefici in termini di sradicamento dell’inflazione, bassi tassi d’interesse, bassi costi di transazione soprattutto da incertezza, disintossicazione delle imprese dalla droga delle svalutazioni competitive. Quel successo è oscurato però da due ombre: la distanza che occorreva colmare per rientrare nei parametri di Maastricht, un vero baratro, si era aperta a causa delle scelte, invece assai colpevoli, che la politica economica aveva compiuto nel ventennio precedente; inoltre, i metodi sbrigativi con cui la rincorsa è stata fatta (essenzialmente, accentuando la pressione fiscale e facendo ampio ricorso a misure con effetti temporanei) ha finito col rappresentare uno degli handicap che hanno frenato la seconda rincorsa.

Adeguarsi alla rivoluzione tecnologica delle ICT e alla globalizzazione – la seconda rincorsa, appunto – non era e non è operazione facile, soprattutto con riguardo al cambio di paradigma tecnologico. Non è stato facile per nessuna economia avanzata, neanche per quella americana, in cui pure le nuove tecnologie sono state inventate e che per prima le ha introdotte estensivamente nei processi produttivi. Occorre cambiare l’organizzazione interna

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di ogni unità produttiva, riaddestrare la forza lavoro, consentire un’accelerazione della “distruzione creatrice” nel sistema, ridisegnare la mappa della specializzazione.

L’economia italiana ha tardato, faticato più di altre, pagando prezzi in termini di ristagno della produttività, di perdita di competitività internazionale, di bassa crescita del prodotto, di disarmonie sociali in un mercato del lavoro divenuto dualistico.

Mentre la prima rincorsa doveva necessariamente essere guidata dalla politica economica, la seconda era in prima battuta compito delle forze imprenditoriali. Su queste grava, fra le altre, una responsabilità particolare: quella di non rinunciare a concrete opportunità di crescita – nella scala produttiva, nell’intensità tecnologica del prodotto, nell’internazionalizzazione dell’impresa – solo per malintese preoccupazioni di controllo societario, in una parola per “familismo”. Non mancano casi in cui tale responsabilità non è stata avvertita. Ma gli imprenditori e le loro aziende non vivono nel vuoto pneumatico, sono immersi in un contesto sociale e amministrativo che ne condiziona fortemente le scelte. Tale contesto è a sua volta influenzato in misura decisiva dalle scelte della politica, segnatamente nei campi economico e sociale.

Ecco che la politica economica si riaffaccia sull’arena come protagonista anche della seconda rincorsa, che è ancora in corso e i cui esiti non sono affatto scontati. A metterli a repentaglio è appunto la crisi mondiale sopraggiunta nel 2008-09 (Draghi, 2009). Numerose imprese chiave nel sistema italiano (soprattutto di media dimensione e di media collocazione nella scala tecnologica) hanno effettivamente intrapreso, prima della crisi, il difficile cammino della ristrutturazione. Numerosi studi sul campo, fra cui quelli della Banca d’Italia (Brandolini, Bugamelli, 2009), lo documentano. Quelle imprese si sono indebitate per sostenere i necessari investimenti, vivono difficoltà interne di riorganizzazione, affrontano al tempo stesso mercati nuovi. La crisi, trasmessa attraverso il mercato del credito, le ha dapprima minacciate di “asfissia finanziaria”, poi ha causato un tracollo degli investimenti e del commercio internazionale, riverberandosi con più forza sulle imprese produttrici ed esportatrici di beni strumentali, assai diffuse in Italia.

Dopo i danni inflitti dalla crisi, di fronte al rischio concreto che il processo di ristrutturazione del sistema produttivo abortisca, il ruolo della politica economica nel sospingere la seconda rincorsa diviene assolutamente cruciale.

Le riforme necessarie appartengono tutte al grande capitolo degli atti di politica economica strutturale. Alcune di esse non hanno conseguenze per il saldo del bilancio pubblico, altre possono averlo e vanno pertanto accompagnare da misure compensative. Possono collocarsi nei seguenti ambiti:

1) Politiche per la concorrenza. In Italia è poco diffusa la consapevolezza di quanto il difetto di concorrenza in molti mercati abbassi il benessere, per via di una minore scelta per i consumatori e di prezzi più alti. Il problema alligna soprattutto nei servizi di pubblica utilità. Oltre che la generalità dei cittadini-consumatori, ne risentono le imprese utilizzatrici esposte alla concorrenza internazionale.

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2) Politiche per la sicurezza sociale. Occorre un ridisegno organico del sistema di welfare, che ne riequilibri la composizione, ancora oggi troppo sbilanciata a favore delle pensioni, che migliori il funzionamento del mercato del lavoro, che consenta il riposizionamento del sistema produttivo su imprese e settori nuovi.

3) Politiche per l’istruzione. Il sistema di istruzione è la “fabbrica” del capitale umano, dunque il luogo in cui si investe sul futuro della nazione (Visco, 2009). Uno sforzo riformatore è in corso, lungo direzioni in linea di massima condivisibili. Manca una riflessione approfondita sul valore legale dei titoli di studio, sul ruolo unico pubblico dei docenti universitari, sull’assenza quasi totale di centri di istruzione terziaria di alta specializzazione, paragonabili alle grandi graduate schools presenti in tutto mondo.

4) Politiche per la certezza del diritto. Uso questa denominazione, anziché quella più consueta di “politiche per l’amministrazione della giustizia”, perché la certezza del diritto è l’obiettivo più rilevante nei fatti dell’economia, ed è ciò di cui precisamente si sente la mancanza in Italia: una ragionevole certezza dei tempi di giudizio (che si vorrebbero, oltre che certi, il più possibile corti, compatibilmente con esigenze ragionevoli di accertamento dei fatti), una ragionevole certezza riguardo alla tenuta nel tempo delle norme e degli orientamenti giurisprudenziali.

5) Politiche per il riequilibrio territoriale. Ricerche recenti della Banca d’Italia (Cannari, Magnani, Pellegrini, 2010) hanno mostrato come l’apparato di politiche ad hoc per lo sviluppo del Mezzogiorno abbia spesso mancato i suoi obiettivi. Occorre un mutamento di ottica: non più incentivi diretti, ma modalità differenziate di applicazione sul territorio delle grandi politiche nazionali, per uniformarne i risultati, al momento più scadenti al Sud anche a parità di risorse.

6) Politiche per le grandi infrastrutture. Vi è un forte divario da colmare nei confronti degli altri paesi avanzati.

Nessuna di queste riforme può avere pieno successo se non si risolve un problema di

fondo, una specie di precondizione di metodo. Lo dimostra l’inanità degli sforzi riformatori che si sono succeduti per tutta l’età repubblicana, a opera di governanti di varia affiliazione politica. La precondizione è: rifondare le basi dell’ordinamento giuridico, ponendovi al centro il concetto di efficienza, cioè la commisurazione dei costi ai benefici, entrambi da valutare considerando l’amministrazione della giustizia, e più in generale della cosa pubblica, un “servizio” alla collettività (Rossi, 2009). Da una tale operazione culturale può nascere più agevolmente l’altra araba fenice del nostro paese: il dimagrimento e l’aumento di efficacia e di produttività delle istituzioni e amministrazioni pubbliche.

Come accennavo sopra, molte di queste riforme sono a costo zero per il bilancio pubblico; a frenarle è solo la resistenza delle corporazioni i cui interessi vengono toccati (spesso dotate di grande capacità di influenza sui legislatori) e l’ostacolo oggettivo posto

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dall’ordinamento e dal funzionamento della macchina giudiziaria e amministrativa. Ma a volte, come nel caso delle grandi opere infrastrutturali, il costo per l’erario non è zero, per quanto si possa fare ricorso a forme di finanziamento misto privato-pubblico. Inoltre, come si notava in precedenza, la pressione tributaria e contributiva sui cittadini compliant è da anni intollerabilmente alta. Oltre a un problema di livello medio ve ne è uno di distribuzione del carico fiscale e di selezione avversa: evasori, totali o parziali, ed elusori appartengono tipicamente a categorie professionali meno “utili” sotto il profilo del contributo allo sviluppo economico del Paese, che vengono invece de facto fiscalmente incentivati rispetto ad altri, come le medie e grandi imprese esposte alla concorrenza internazionale, le imprese e i lavoratori autonomi comunque onesti, dunque alimentatori del capitale sociale del Paese, i lavoratori dipendenti, ossatura del sistema produttivo. Questa situazione va corretta, è un formidabile freno alla crescita economica.

Ne discende una ineludibile riflessione conclusiva: la composizione del bilancio pubblico non potrà non essere radicalmente ripensata se si vorranno perseguire simultaneamente gli obiettivi indicati. Ampie parti di spesa pubblica improduttiva, o non più giustificata dal mutare dei tempi e delle condizioni demografiche e sociali, andranno ridimensionate. Non mi pare di intravedere altre strade per portare a compimento la “seconda rincorsa” e mantenere la nostra economia nell’area avanzata e moderna del mondo.

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Bibliografia

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162)

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Grafici

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Prodotto interno lordo (variazione percentuale sull'anno precedente)

Fonte: Ocse, Istat.

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Tasso di inflazione al consumo (valori percentuali)

Fonte: Ocse, Istat, Eurostat. Indice HICP per Italia e Germania; indice CPI per la media Ocse.

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Italia

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Saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (in percentuale del PIL)

Fonte: Banca d'Italia e Bundesbank.

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Italia Germania

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Produttività del lavoro nel settore manifatturiero (media mobile di 3 termini delle variazioni percentuali sul periodo precedente)

Fonte: elaborazioni su dati Commissione Europea.

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Italia Germania

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Produttività totale dei fattori nell’industria in senso stretto (Italia) ( tassi percentuali di variazione)

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1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.

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Tassi d'interesse a tre mesi

Fonte: Banca d'Italia; dal 1999 in poi BCE (panel di banche Euribor).

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Italia Germania Euribor

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Tassi d’interesse a 10 anni (rendimenti dei titoli benchmark)

Fonte: Banca d'Italia per Italia e Bloomberg per la Germania.

20082006200420022000199819961994199219902

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Italia Germania

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Tasso di cambio effettivo reale basato sui prezzi alla produzione dei beni manufatti

(indici 1989=100)

Fonte: Banca d’Italia.

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1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009

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Italia Germania

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Debito pubblico italiano (in % del PIL)

(*) Operazioni che lasciano invariata la ricchezza netta della PA

(e.g. privatizzazioni e variazioni dell'attivo presso la Banca d'Italia) Fonte: Banca d’Italia.

105,8

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Debito pubblico Debito pubblico al netto di operazioni straordinarie*

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Bilancio pubblico italiano: avanzo primario (in % del PIL)

Fonte: Banca d’Italia.

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Avanzo primario Avanzo primario strutturale

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Bilancio pubblico italiano: spese primarie correnti e pressione fiscale (in % del PIL)

Fonte: Banca d’Italia

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1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008

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Spese primarie correnti Pressione fiscale

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Incidenza della popolazione in età lavorativa (15-64) sul totale (valori percentuali)

Fonte: Eurostat

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1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009

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UE 15

Italia

Germania

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Tasso di occupazione (rapporto percentuale tra occupati e popolazione

di età compresa tra 15 e 64 anni)

Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle forze di lavoro

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1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

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Centro-nord

Totale

Mezzogiorno

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Tasso di occupazione nel 2008 (rapporto percentuale tra occupati e popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni)

Fonte: Eurostat

78,1 77,274,3 72,1 71,5 71,1 70,7 68,2 67,6 67,3 64,9 64,3 63,4 62,4 61,9

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Tasso di occupazione femminile nel 2008 (rapporto percentuale tra occupati e popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni)

Fonte: Eurostat

74,3 71,8 71,1 6965,8 65,8 65,4

62,5 60,4 60,4 60,256,2 55,1 54,9

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80

90

36

Quota di persone a rischio di povertà nel 2008 (valori percentuali)

Fonte: Eurostat

20 2019 19

18

16 1615 15

1413 13

12 12 1211

0

5

10

15

20

25

GR ES IT UK PT EU15

IE BE DE FI FR LU DK AT SE NL

0

5

10

15

20

25

37

Demografia di impresa e ciclo economico (valori percentuali)

Fonte: ISTAT

-0,5

0,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

3,5

4,0

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

2,0

2,5

3,0

3,5

4,0

4,5

5,0

5,5

6,0

6,5

7,0

Tasso di crescita del PIL (scala di sinistra)

Tasso di mortalità (scala di destra)

Tasso di natalità (scala di destra)

38

Spesa in R&S nel 1990 e nel 2008 (in percentuale del PIL)

Fonte: Eurostat.

0,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

3,5

4,0

SE FI DK AT DE FR EU15

BE UK NL LU PT IE ES IT

1990

2008