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Articolo 3 CEDU - Proibizione della tortura (di Luigi Prosperi) Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. 1. Cenni storici: l’approccio degli organismi sovranazionali 2. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura 3. La nozione di tortura e il ruolo interpretativo della Corte 4. La ricerca dei criteri interpretativi 5. L’onere probatorio 6. La distinzione tra tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti: - la linea di demarcazione tra tortura e trattamenti inumani - la condizione dei soggetti privati della libertà - i trattamenti e le pene degradanti - la pena di morte, grimaldello per l’estensione dell’ambito di applicazione dell’articolo 3 (divieto di espulsione ed estradizione) 7. Gli obblighi positivi a carico degli Stati membri 8. Il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano (click sul titolo per visualizzare il paragrafo) Unilink – www.unilink.it/cedu - Diritti e libertà – Luigi Prosperi -1/1

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Articolo 3 CEDU - Proibizione della tortura (di Luigi Prosperi)

“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani

o degradanti”.

1. Cenni storici: l’approccio degli organismi sovranazionali

2. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura

3. La nozione di tortura e il ruolo interpretativo della Corte

4. La ricerca dei criteri interpretativi

5. L’onere probatorio

6. La distinzione tra tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti:

- la linea di demarcazione tra tortura e trattamenti inumani

- la condizione dei soggetti privati della libertà

- i trattamenti e le pene degradanti

- la pena di morte, grimaldello per l’estensione dell’ambito di

applicazione dell’articolo 3 (divieto di espulsione ed estradizione)

7. Gli obblighi positivi a carico degli Stati membri

8. Il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano

(click sul titolo per visualizzare il paragrafo)

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1. Cenni storici: l’approccio degli organismi sovranazionali

La tortura ha fatto parte per secoli dello strumentario a disposizione dei

soggetti deputati alla punizione dei crimini. Da un lato mezzo di ricerca della

prova, utilizzato per ottenere confessione, abolito solo tra la seconda metà del

‘700 e l’inizio dell’ ‘800 nei maggiori ordinamenti giuridici europei. Dall’altro vera

e propria punizione legale dei criminali (fino alla fine del ‘700 le pene corporali

erano comminate con frequenza, e tra quelle le esecuzioni pubbliche), avente lo

scopo ulteriore di ammonire la generalità dei consociati e così prevenire la

commissione dei reati, messa in discussione nel corso del XVIII secolo dagli

illuministi in genere e da Cesare Beccaria in particolare, il quale nella seconda

metà del ‘700 scriveva: “non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che,

in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa1”.

Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’ ‘800, come si accennava, nella redazione dei

Codici penali i legislatori dei Paesi europei più avanzati decidevano infine di

abbracciare i principi di gradualità, certezza ed uniformità della pena, e la

detenzione come strumento. Con l’effetto di spostare la questione del rispetto

della dignità dell’individuo al momento dell’esecuzione della punizione.

Nel corso del XX secolo il diritto a non essere sottoposti a tortura o a

trattamenti inumani o degradanti è stato universalmente riconosciuto: incluso

nelle Costituzioni di molti Paesi, sancito dall’articolo 5 della Dichiarazione

Universale dei Diritti dell’Uomo del 19482 e dall’articolo 7 del Patto internazionale

sui diritti civili e politici del 19663, è oggi considerato parte dello jus cogens. Ciò

che non garantisce tuttavia che non vi siano state nel recente passato (e non vi

1 Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, 1764, Capitolo XXVIII. 2 “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. 3 “Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”.

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siano tuttora) delle violazioni generalizzate, o la tolleranza di queste, da parte di

organi statali: è fondamentale, rispetto a tali condotte, il ruolo preventivo (ma

troppo spesso solo punitivo) delle istanze internazionali.

L’importanza di questi organismi è spiegata anche dalla loro moltiplicazione:

ad oggi, hanno competenza giudiziaria in materia la Corte interamericana dei

diritti dell’uomo e la Corte europea dei diritti dell’uomo (organismi regionali con

poteri incisivi rispetto agli ordinamenti nazionali), e competenza “politica” il

Comitato per i diritti civili e politici delle Nazioni Unite, il Comitato delle Nazioni

Unite contro la tortura (istituito mediante l’articolo 17 della Convenzione

internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e

degradanti del 1984) e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e

delle pene o trattamenti inumani e degradanti (istituito, in seno al Consiglio

d’Europa, con l’articolo 1 della Convenzione europea per la prevenzione della

tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 1987), nonché la

Corte Penale Internazionale, rispetto a violazioni massicce (di solito essendo

ricompresi la tortura e i trattamenti inumani e degradanti tra i comportamenti

posti in essere allo scopo di soppressione di un gruppo etnico o comunque

nell’ambito di conflitti)4.

2. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura

Con l’adozione, il 26 giugno 1987, della Convenzione europea per la

prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti,

sembrerebbe essersi realizzata una duplicazione della tutela in materia, in sede

di Consiglio d’Europa.

4 Corte Penale Internazionale che si distingue rispetto alle altre istanze perchè innanzi ad essa sono convenuti gli individui personalmente, e non gli Stati contraenti ai quali sia attribuita la responsabilità dei loro comportamenti.

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In realtà è l’articolo 1 della Convenzione in parola a spiegare la finalità

dell’adozione dell’atto (e dell’istituzione del Comitato), laddove nella seconda

parte si spiega che “il Comitato esamina, per mezzo di sopralluoghi, il

trattamento delle persone private di libertà allo scopo di rafforzare, se

necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani e

degradanti”.

Un meccanismo con finalità preventiva e che ha per beneficiari coloro i quali

siano già stati privati della libertà, e come soggetti passivi del controllo gli Stati

contraenti. In sintesi, si è voluto dotare il Consiglio d’Europa di un organismo di

pressione politica, che abbia lo scopo di prevenire quelle violazioni che, laddove

si dovessero ugualmente verificare, sarebbero invocabili dinanzi alla Corte

Europea di Strasburgo da parte dei singoli individui.

Il Comitato così istituito è composto da esperti indipendenti (uno per Stato

contraente) ed ha il compito (o meglio, il diritto) di effettuare visite presso i

luoghi in cui siano costrette le persone private della libertà da parte di un’autorità

pubblica (salvo i luoghi soggetti a “costante ed effettivo” monitoraggio ad opera

del Comitato internazionale della Croce Rossa). Prima di compiere il sopralluogo,

il Comitato deve darne avviso allo Stato nel cui territorio si voglia recare, affinché

appresti le misure necessarie al corretto svolgimento delle funzioni dell’organo

sovranazionale. Lo Stato può sollevare obiezioni, dalle quali nasce un

procedimento basato sulle consultazioni e volto a raggiungere un accordo che

consenta comunque di porre in essere il controllo, nelle forme più appropriate.

Al termine dei sopralluoghi, il Comitato redige un rapporto ed eventualmente

formula raccomandazioni allo scopo di migliorare le condizioni dei detenuti (o

meglio, per proteggerli dalla tortura e dai trattamenti inumani o degradanti). Il

rapporto ed ogni altra attività di informazione avente come destinatario lo Stato

contraente sono soggetti ad un regime di stretta riservatezza, con l’unica

eccezione del rapporto annuale trasmesso al Comitato dei Ministri e quindi

all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, in cui si da conto delle attività

svolte, in maniera sintetica e piuttosto generica. Tale riservatezza può essere

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derogata su espressa richiesta dello Stato, che può chiedere la pubblicazione del

rapporto, ovvero qualora lo decida il Comitato stesso, votando a maggioranza

qualificata di due terzi dei membri, come sanzione per la mancata collaborazione

o il rifiuto da parte delle autorità nazionali di dare seguito alle raccomandazioni

espresse: in questo caso, non si addiverrà alla pubblicazione del rapporto ma

verrà effettuata una dichiarazione pubblica sulla mancata adozione delle misure

prescritte.

Il nostro Paese è stato fatto oggetto di 4 visite, rientranti nel programma di

ispezioni periodiche: 1992, 1995, 1996 e 2000. In ognuna di queste circostanze,

il Comitato ha lamentato il rischio di subire maltrattamenti nella fase antecedente

ai trasferimenti in carcere, ma soprattutto la condizione dei detenuti all’interno di

queste ultime strutture, il sovraffollamento delle quali, tale da non permettere

alcuna circolazione interna, è stato indicato come maggiore problema da

risolvere. In aggiunta, è stata talvolta lamentata una scarsa collaborazione delle

autorità. Ciò che ad esempio si evince dal ritardo con cui il nostro Paese ha

accordato la possibilità di pubblicare i Rapporti – quello del 1996 è stato

pubblicato solo nel 2003.

Quella di ritardare la pubblicazione dei rapporti è una facoltà attribuita agli

Stati contraenti, avente natura politica e scopo di mitigare le conseguenze dei

rilievi del Comitato, in special modo rispetto all’opinione pubblica. Facoltà che

può spingersi sino ad un totale diniego, ammesso laddove vi sia una sufficiente

collaborazione de facto.

Tuttavia in alcuni casi limite si è giunti alla dichiarazione “d’ufficio”, ossia con i

2/3 dei voti favorevoli del Comitato, con cui sono state denunciate le più gravi

carenze nella collaborazione delle autorità pubbliche statali, che talora sono

arrivate a fornire false informazioni: gli unici due Paesi fatti oggetto di questa

procedura, ad oggi, sono la Russia (nel 2001 e nel 2003, con riferimento alla

situazione cecena) e, in periodo precedente, la Turchia (nel 1992 e nel 1996).

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3. La nozione di tortura e il ruolo interpretativo della Corte

Se la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite si apre con una

definizione di “tortura”, in sede di redazione della CEDU (circa 40 anni prima) si

scelse una strada diversa, quella dell’interpretazione caso per caso.

Dal punto di vista politico, sembra utile riportare la dichiarazione di M. Cocks,

delegato del Regno Unito all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, il

quale in sede di lavori preparatori esortava i relatori della Convenzione in questi

termini: “[L’Assemblea Parlamentare] crede che questo divieto debba essere

assoluto e che la tortura non possa essere ammessa per alcuno scopo, né per

reperire prove, né per salvaguardare la vita ovvero la sicurezza di uno Stato”.

Scopo nobilissimo, rispetto al quale tuttavia mancavano all’epoca le pertinenti

misure di attuazione. Soccorre dunque la costante giurisprudenza della Corte di

Strasburgo.

In una delle prime decisioni in materia, l’organismo giurisdizionale circa la

portata della norma affermava innanzitutto che “la Convenzione proibisce in

termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, quali che

siano i comportamenti della vittima. L’articolo 3 non permette limitazioni, in ciò

differisce dalla maggior parte delle disposizioni normative della Convenzione e

dei Protocolli n. 1 e 4 e, secondo l’articolo 15 paragrafo 2, non è soggetto a

deroga neppure in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione5”.

A chiarire la ratio della disposizione, sottolineava più di recente che

“[l’]articolo 3 non prevede nessuna eccezione e l’articolo 15 non consente di

derogarvi in tempo di guerra o di altro pericolo nazionale. Tale proibizione

assoluta da parte della Convenzione, della tortura e delle pene o trattamenti

inumani o degradanti dimostra che l’articolo 3 consacra uno dei valori

5 Così per la prima volta la Corte sul caso Irlanda c. Regno Unito, sentenza 18.1.1978, Serie A n. 25, paragrafo 163.

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fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. La si

rinviene in termini analoghi in altri strumenti internazionali (...); è di solito

considerata una norma internazionalmente accettata6”.

E in una recente sentenza (peraltro a carico dell’Italia), con la quale si “copre”

un terzo decennio di giudizi, si legge: “anche nelle circostanze più difficili, quali la

lotta al terrorismo o al crimine organizzato, la Convenzione proibisce in termini

assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti7”.

Tutto quanto premesso, si evince come permanga una grande lacuna, ossia la

mancata individuazione delle fattispecie vietate: ruolo della Corte è stato (e

continuerà ad essere) quello di colmarla, rinvenendo per mezzo dell’esame del

caso concreto dei criteri interpretativi applicabili a tutti, sufficientemente elastici

da garantire al contempo la vitalità della norma convenzionale e soprattutto il

permanere del legame con i valori fondamentali delle società democratiche che

formano il Consiglio d’Europa, o più semplicemente con il comune sentire.

Essendo l’elasticità delle definizioni mai come in questo contesto (e come meglio

vedremo nel prosieguo dell’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza)

funzionale al ruolo stesso della Corte: nell’applicazione della disposizione in

parola, ha infatti creato la tecnica di tutela c.d. par ricochet, adottando un

criterio inclusivo allo scopo di integrare la lettera della Convenzione.

6 Così la Corte sul caso Soering c. Regno Unito, sentenza 7.7.1989, Serie A n. 161, par. 88. 7 Corte, caso Labita c. Italia, sentenza 6.4.2000, Report of Judgements and Decisions 2000-IV, par. 119.

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4. La ricerca dei criteri interpretativi

In assenza di definizioni mediante cui circoscrivere i confini tra comportamenti

leciti e illeciti e tra le diverse fattispecie vietate, il giudice europeo ha in un primo

periodo improntato la sua attività alla ricerca di criteri interpretativi che fossero

universalmente applicabili.

Detto che non era in contestazione la distinzione, essenzialmente logica, tra

“trattamento” e “pena”, essendo ristretto l’ambito di quest’ultima a quelle misure

subite da un individuo in esecuzione di una condanna e ricadendo invece

nell’altro tutti quei comportamenti ascrivibili a soggetti che esplichino una

funzione pubblica (di cui diremo meglio più avanti, rispetto alla ripartizione

dell’onere probatorio), ciò che non trova risposta nella formulazione dell’articolo

3 è la questione dell’individuazione di una netta e riconoscibile linea di

demarcazione tra “tortura” e “pena o trattamento inumano o degradante”.

La dottrina ha riscontrato, nelle prime decisioni della Corte in materia, un

costante riferimento alla c.d. “soglia di gravità”, operante come criterio valido sia

per separare la sfera degli illeciti da quella delle pratiche legali e legittime, sia

per distinguere “tortura” e “pena o trattamento inumano o degradante”. Al punto

che appare più corretto parlare di “soglie di gravità”, cioè un limite esterno, con

funzione di filtro, e quei limiti interni mediante cui distinguere tra loro le condotte

vietate. La Corte ha affermato e spesso ribadito che “[p]er rientrare nell’articolo

3 un trattamento deve raggiungere un minimo di gravità8”.

Nello specifico, allo scopo di delimitare le singole fattispecie, sin dai suoi primi

interventi la Commissione ha sottolineato innanzitutto che “ogni tortura non può

non essere anche trattamento inumano e degradante e che ogni trattamento

inumano non può non essere anche degradante9”. Ha quindi spiegato che la

8 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 162. 9 Così la Commissione nel Rapporto del 18.11.1969 sul c.d. “caso Greco” (rapporto nato da un ricorso interstatale presentato congiuntamente dai Paesi scandinavi e dall’Olanda), in cui si esaminavano le massicce violazioni dei

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distinzione tra trattamento inumano o degradante e tortura “(...) consegue

principalmente da una differenza delle sofferenze inflitte. (...) Se da un lato

esistono violenze che, benché condannabili secondo la morale e, in linea

generale, anche dal diritto interno degli Stati contraenti, non rientrano tuttavia

nell’articolo 3 della Convenzione, è evidente, d’altra parte, che quest’ultimo,

distinguendo la <tortura> dai <trattamenti inumani o degradanti> ha voluto con

il primo di tali termini marchiare di particolare infamia trattamenti inumani

deliberati che provocano sofferenze molto gravi e crudeli10”. Infine, rispetto alla

distinzione tra (pena o) trattamento inumano e (pena o) trattamento

degradante, ha stabilito da un lato che “(...)una misura che scredita una persona

nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua reputazione, può essere

considerata un <trattamento degradante> ai sensi dell’articolo 3 solo se

raggiunge una certa soglia di gravità11”, e dall’altro che “[l]a sofferenza causata

deve collocarsi ad un livello particolare affinché si possa qualificare come pena

<inumana> ai sensi dell’articolo 312”.

Così delimitato l’ambito applicativo della norma, tuttavia, ben si comprende

come l’accertamento del superamento delle soglie di gravità non potesse

prescindere dalla contestualizzazione della valutazione, che tenesse conto,

insieme alle circostanze oggettive del fatto materiale, anche delle qualità

soggettive della vittima: ancora una volta, si evidenzia come la disposizione in

questione necessiti di un’interpretazione “viva”, influenzata dall’evoluzione

politico-sociale e più propriamente da quella del diritto penale.

diritti umani commesse nella Grecia del c.d. “regime dei Colonnelli” (a seguito del rapporto, per sfuggire a ben più gravi conseguenze - nello specifico, la sospensione - il Paese ellenico decideva di uscire spontaneamente dal Consiglio d’Europa). 10 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 11 Commissione, parere sul caso Asiatici dell’Africa Orientale c. Regno Unito, 1.12.1973, par. 189. 12 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.4.1978, Serie A n. 26, par. 29.

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Le qualità soggettive, o “parametri interni”, si riferirebbero alla natura, al

contesto e alla modalità di esecuzione e durata del trattamento o della pena, ma

anche ad elementi individualizzanti quali effetti fisici e mentali provocati, ovvero

età, sesso e stato di salute della vittima. Ciò che ci induce ad escludere

l’utilizzabilità di tali parametri a fini classificatori (seppur riconoscendo la loro

influenza sulle decisioni adottate) è la rielaborazione di un’osservazione risalente

addirittura all’inizio del XVIII secolo: scriveva infatti Christian Thomasius che la

tortura non è un valido e sicuro mezzo di accertamento della verità perchè può

portare tanto ad una falsa confessione, e quindi alla condanna di un innocente,

quanto all’assoluzione del colpevole che abbia resistito ai supplizi13. A contrario, e

quasi applicando una “legge del contrappasso” di dantesca memoria, si

perverrebbe alla condanna di uno Stato sulla base dell’<impressionabilità> o

della <sensibilità> del ricorrente, potendo la stessa condotta essere qualificata

“trattamento degradante” ovvero comportamento legittimo, a seconda delle

caratteristiche psico-fisiche della vittima.

Altrettanto pericolose sarebbero le conseguenze dell’adozione dei c.d.

“parametri esterni”, ossia il principio di proporzionalità che si tradurrebbe in

ricerca della mediazione tra i diritti dell’individuo e la difesa della società

democratica, essendo pertanto giustificate determinate condotte, altrimenti

riconosciute illegittime, qualora sia legittimo l’obiettivo perseguito. Con l’effetto

di applicare di fatto, nonostante l’esclusione espressa contenuta nell’articolo 15

CEDU, una deroga generale all’articolo 3. Risultato, questo, che in nessun caso

può considerarsi legittimo ai sensi della Convenzione, preferendosi piuttosto

un’utilizzazione dei “parametri esterni” ai fini della valutazione sul grado di

violazione della disposizione, così come accaduto nel già citato caso Irlanda c.

Regno Unito. In quella circostanza, infatti, la Commissione e la Corte venivano

chiamate a giudicare sui fatti avvenuti negli anni ’70 nel territorio dell’Irlanda del

Nord (sotto la giurisdizione del Regno Unito), laddove a seguito degli scontri tra

13 Christian Thomasius, De tortura ex foris Christianorum proscribenda, 1705.

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cattolici e protestanti le autorità britanniche avevano deciso di introdurre misure

extragiudiziali di detenzione ed internamento, pensate solo come risposta alle

violenze dell’I.R.A. (Irish Republican Army, considerata una “minaccia effettiva

alla legge e all’ordine”), ma trasformatesi in rimedi generalizzati, se si tiene

presente che nel primo giorno di applicazione furono arrestate 452 persone, delle

quali ben 350 internate senza alcun controllo da parte di un giudice. Erano stati

predisposti, al fine di accogliere gli arrestati, tre centri regionali, nei quali costoro

sarebbero stati interrogati nelle 48 ore successive al fermo, prima di addivenire

all’esame della loro posizione, ovvero alla loro liberazione. Scopo ultimo era

quello di ottenere informazioni, e a tal fine la polizia si serviva di metodi di

interrogatorio aventi talvolta pesanti conseguenze, anche fisiche, sugli arrestati.

Nel 1978 Amnesty International decideva di raccogliere in un rapporto dettagliato

le lamentele nei confronti delle forze dell’ordine britanniche, sottolineando come

l’effetto della graduale soppressione dell’internamento senza processo (attuata

nel 1975) fosse stato un incremento degli interrogatori, e di conseguenza delle

presunte violenze. Tra il 1975 e il 1978 i casi denunciati erano più di mille, su

poco più di 8 mila interrogatori accertati. A seguito della pubblicazione del

rapporto di Amnesty, il Parlamento inglese decideva di creare una commissione

d’inchiesta, presieduta dal giudice H. C. Bennet, allo scopo di verificare le

procedure utilizzate dalla polizia e definire eventuali responsabilità (private o

pubbliche). Nel 1979 la commissione presentava il c.d. Rapporto Bennet, nel

quale si sottolineava innanzitutto come il ricorso ai normali metodi di detenzione

fosse stato escluso dalla particolare situazione politica dell’Ulster, caratterizzata

dall’uso di violenze ad opera di gruppi paramilitari, contro civili e contro le forze

dell’ordine, e si sottolineava poi che le accuse avevano lo scopo di giustificare le

violenze o di ottenere l’assoluzione dinanzi alla corte giudicante. Si concludeva

quindi affermando che alcuni individui si sarebbero auto-inflitti le ferite, che i casi

di accertati maltrattamenti erano isolati e imputabili alla condotta di singoli

agenti di polizia, e ribadendo l’utilità degli strumenti, che avevano finalmente

consentito di combattere il terrorismo (tra il 75% e l’80% delle condanne per

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reati politici si erano infatti basate quasi esclusivamente su confessioni così

ottenute)14.

Ciononostante l’Irlanda aveva deciso nel frattempo di inoltrare presso la

Commissione Europea di Strasburgo un ricorso interstatale in cui si accusavano

le autorità inglesi di violazioni dell’articolo 3 CEDU, attuate in particolar modo

mediante le c.d. “cinque tecniche di privazione sensoriale”, consistenti

nell’incappucciamento, nell’obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di

tempo, nell’assoggettamento a continuo rumore, nella privazione del sonno e

nella negazione di cibo e bevande.

La Commissione concludeva il proprio rapporto, presentato il 9.2.1976, nel

senso che tali comportamenti andassero ricondotti agli “atti di tortura”; ebbene,

senza dubbio alla base del giudizio con cui la Corte avrebbe in seguito modificato

tale valutazione, riconducendo le violazioni nell’ambito dei “trattamenti inumani”,

si può oggi riscontrare, accanto all’attenzione per i “parametri interni” (e che

analizzeremo nel dettaglio), una sorta di riconoscimento della necessarietà delle

misure in esame. Laddove probabilmente oggi un atto della portata del Rapporto

Bennet, e in particolare l’affermazione secondo cui la gran parte delle condanne

fossero basate su confessioni estorte con metodi piuttosto violenti, sarebbero

utilizzati come prova a carico dello Stato convenuto, infatti, si evidenzia come in

quel particolare momento storico, in cui l’emergenza terroristica colpiva anche

altri influenti Paesi in seno al Consiglio d’Europa, l’opinione pubblica e il “senso

comune” lo abbiano utilizzato o comunque letto in funzione di elemento a

discarico. Pur sottolineando come il risultato sia stato comunque una pronuncia

di condanna, seppure ammorbidita, e come dunque i “parametri esterni” siano

stati utilizzati solo allo scopo di valutare il grado della violazione.

Il risultato era dunque una sentenza di carattere soprattutto politico, di

condanna ma in forma edulcorata, e che però avrebbe fatto da preludio ad un

14 Per una dettagliata analisi, si rinvia al documento reperibile al seguente indirizzo internet: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=irlanda2.

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cambiamento di rotta, che si sarebbe sostanziato innanzitutto nella graduale

scomparsa del criterio di “soglia di gravità” come limite esterno all’articolo 3

(mentre fondamentalmente veniva mantenuto in funzione dei limiti interni, linea

di demarcazione tra le condotte vietate), e in secondo luogo nel ricorso a

presunzioni di ordine probatorio, allo scopo di tutelare in modo finalmente pieno i

diritti degli individui nel momento della privazione della libertà, anche ove fosse

una situazione temporanea (presunzioni che avrebbero condotto ad una

pronuncia di portata ben diversa e più severa, nel caso poc’anzi esaminato).

5. L’onere probatorio

Abbandonato il criterio della soglia di gravità intesa come limite esterno

all’articolo 3, la Corte necessitava tuttavia di individuare elementi, il più possibile

oggettivi, sulla cui base valutare i comportamenti. Al contrario, da lì in avanti i

giudizi si sarebbero incentrati sull’analisi delle condizioni del ricorrente, sugli

effetti delle condotte piuttosto che su queste ultime di per sé. Nel corso degli

anni ’90, e in particolare nei testi delle sentenze sui casi Tomasi (del 1992),

Ribitsch (1995) e Selmouni (1999), si evidenziava una crescente attenzione per

le circostanze in cui si sarebbe addivenuti alle presunte violazioni. Nello specifico,

riguardando quei casi delle condotte poste in essere in seguito alla privazione

della libertà dei ricorrenti, si stabiliva che “nei confronti di una persona privata

della libertà, l’impiego della forza fisica, quando non sia strettamente necessitata

dal suo comportamento, viola la dignità umana e costituisce, in linea di principio,

una violazione del diritto garantito dall’articolo 315”.

Si propendeva quindi per una maggiore contestualizzazione dei

maltrattamenti, poiché valutazione logicamente antecedente alle altre, ritagliate

sulla personalità e l’individualità della presunta vittima. Operazione che ben si

15 Corte, caso Ribitsch c. Austria, sentenza 4.12.1995, Serie A n. 336, par. 38.

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evince dalla ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice nella decisione sul

caso Tomasi, laddove prima si rigettava l’eccezione del Governo francese,

secondo cui non era stato raggiunto il minimum di gravità richiesto dalla

precedente giurisprudenza europea, quindi si stabiliva per la prima volta, come

effetto della contestualizzazione di cui sopra (che però rimaneva implicita, poiché

non vi erano affermazioni dello stesso tenore di quelle sopra riportate, e che

risalgono alla sentenza Ribitsch, di 3 anni successiva), che “quando un individuo

afferma di aver subito nel corso di un fermo sevizie che gli abbiano causato

ferite, spetta al Governo fornire una spiegazione completa e sufficiente della loro

origine16”. In sostanza, si operava una presunzione di responsabilità a carico

dello Stato fondata sulle circostanze in cui gli eventi erano maturati.

Presunzione che si innestava su un quadro estremamente complesso dal

punto di vista dei ricorrenti: essendo generalmente numerosi i ricorsi fondati su

presunte violazioni dell’articolo 3, la Corte Europea aveva infatti preso a

richiedere una rigorosa dimostrazione della colpevolezza delle autorità statali,

con l’effetto che molto spesso si addiveniva a dichiarazioni di irricevibilità per

manifesta infondatezza. Al contempo, l’instaurare un procedimento in una

materia simile presenta di per sé difficoltà spesso insormontabili, quali

l’eventualità che il ricorrente sia unico testimone della violazione, che ben può

essere avvenuta in ambienti “privati”, o comunque chiusi, ad opera di soggetti

esercenti un’attività legata ad un pubblico potere, e che quindi siano quasi

“coperti” dall’autorità pubblica, beneficiando di una presunzione di innocenza più

estesa di quella concessa ai normali cittadini (si pensi ad esempio che nel diritto

italiano la dichiarazione di un pubblico ufficiale fa fede fino a querela di falso).

A tal proposito, spiegava la Commissione che “(...) le affermazioni di tortura o

di maltrattamenti che costituiscono violazione dell’articolo 3 della Convenzione

devono essere provate al di là di ogni ragionevole dubbio. Un dubbio ragionevole

16 Così la Corte sul caso Tomasi c. Francia, sentenza 27.8.1992, Serie A n. 214/A, parr. da 108 a 111, e in seguito sul caso Ribitsch, cit., par. 34, e in diverse successive sentenze.

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non è un dubbio fondato su una possibilità meramente teorica od artata per

evitare una conclusione sgradevole; è un dubbio le cui ragioni possono essere

dedotte dai fatti esposti. (...) Provare le affermazioni di tortura o di

maltrattamenti presenta difficoltà per il soggetto. In primo luogo, una vittima o

un testimone in grado di supportare la sua storia può esitare a descrivere o a

rivelare tutto ciò che sa per timore di rappresaglie contro di lui o la sua famiglia.

In secondo luogo, gli atti di tortura o di maltrattamenti commessi da agenti dei

servizi di polizia o dell’esercito sono compiuti, per quanto possibile, senza

testimoni e probabilmente all’insaputa dell’autorità superiore. In terzo luogo,

quando sono formulate affermazioni di tortura o di maltrattamenti, le autorità –

sia che si tratti del servizio di polizia o dell’esercito o dei ministeri interessati –

hanno inevitabilmente la sensazione di dover difendere una reputazione

collettiva, sensazione che sarà tanto più forte quando le autorità non siano a

conoscenza delle attività degli agenti contro i quali sono presentate le

denunce17”. La Commissione poneva attenzione a quanto appena esposto già nel

1969, nel rapporto sul c.d. “caso Greco”: come si può agevolmente notare, vi si

rinviene una sorta di anticipazione delle presunzioni che saranno utilizzate a

distanza di più di 20 anni, se non altro nel senso di anticipazione della ratio alla

base di quelle, laddove si sottolineano le difficoltà per le vittime, sia nell’inoltrare

un ricorso, sia (e tanto più) nel dover dimostrare la veridicità di quanto sostenuto

in esso.

Il risultato dell’evoluzione giurisprudenziale europea è in conclusione

un’attenuazione del rigore probatorio, quasi bilanciata dall’abbandono di altri

criteri, e in funzione della ricerca di maggiore contestualizzazione e di minor

“soggettivizzazione” delle indagini: si arriva così a stabilire, in via generalizzata,

che l’articolo 3 sia applicato ogni qual volta manchi una spiegazione plausibile

che collochi la causa delle lesioni (da verificare tramite esami medici) al di fuori

del luogo di detenzione. Spetta allo Stato convenuto dimostrare che le lesioni

17 Commissione Europea, “caso Greco”, cit., par. 26.

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riscontrate siano pregresse rispetto alla privazione di libertà, o procurate dalla

stessa presunta vittima, o giustificate sulla base del comportamento di questa,

essendo di per sé la condizione della detenzione e l’esistenza di danni fisici indizi

sufficientemente precisi, gravi, concordanti per affermare la responsabilità ai

sensi della Convenzione.

6. La distinzione tra tortura e trattamenti o pene inumani e

degradanti

La scelta che abbiamo effettuato, in ordine all’abbandono della ricerca a

posteriori di un criterio che funga da limite esterno all’articolo 3, da spartiacque

dunque tra liceità ed illiceità di una condotta, comporta una conseguenza sul

piano dell’interpretazione delle fattispecie vietate: la necessità di individuare

delle sentenze cardine, all’interno delle quali rinvenire definizioni vincolanti. Una

premessa necessaria: per merito della formulazione piuttosto generica, come si è

già detto, la disposizione in parola è tra quelle con maggiore capacità di

adattamento ai mutamenti politici, giuridici e sociali; come effetto, il c.d. limite

esterno della norma si sposterà in avanti o indietro a seconda del contesto

storico di riferimento.

- La linea di demarcazione tra tortura e trattamento inumano

La nostra rassegna della giurisprudenza della Corte in materia non può che

prendere le mosse dal caso “Irlanda c. Regno Unito”. Avendo già descritto la

vicenda in cui il ricorso trovava fondamento (si rinvia al paragrafo 4, pag. 6), ci

limitiamo a ricordare che il giudice di Strasburgo, nell’emettere la sentenza,

rigettava in parte il parere della Commissione, la quale aveva ravvisato nelle

condotte contestate gli estremi della tortura. Ci concentreremo invece

sull’affermazione secondo cui, consistendo il criterio per distinguere la tortura dal

trattamento inumano e degradante nella “differenza nell’intensità della

sofferenza inflitta”, e quindi rimandando i limiti interni dell’articolo 3 alla <soglia

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di gravità> di cui si è ampiamente detto nei paragrafi precedenti, ne consegue

che un trattamento inumano deve consistere “almeno [in] un’intensa sofferenza

fisica e mentale, se non anche in una vera e propria violenza sul corpo della

persona18”. Ciò che lo distingue per l’appunto dalla tortura, “trattamento

inumano o degradante che causa sofferenze più intense”, qualificate a loro volta

come “gravi e crudeli”. Il caso in parola soprattutto riveste importanza decisiva

perché denota una differenza fondamentale nell’interpretazione della CEDU

rispetto alla Convenzione ONU del 1984, che all’articolo 1 definisce la tortura

come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitte ad una

persona dolore o sofferenze, fisiche o mentali, con l’intenzione di ottenere dalla

persona stessa o da un terzo una confessione o un’informazione, di punirla per

un atto che lei o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver

commesso, di intimorire o costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro

motivo fondato su qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o

sofferenza siano inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che

agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o

tacito“.

Ove il giudice di Strasburgo avesse accolto il criterio della finalità per

distinguere tra le condotte vietate, non si vede come avrebbe potuto non

considerare “torture” le sofferenze inflitte nell’Irlanda del Nord a quegli individui

da cui si volevano ottenere informazioni, tenendo presente per di più che

secondo il Rapporto Bennet tra il 75 e l’80% delle condanne pronunciate in quel

contesto si erano basate su confessioni a loro volta ottenute con i metodi su cui

la Corte veniva chiamata a giudicare. Si restringeve quindi il confine della

tortura, rigettando l’opinione della Commissione, la quale nel parere sul “caso

Greco”, di quasi 10 anni più vecchio, aveva ritenuto che “(...) il termine tortura è

spesso usato per descrivere un trattamento inumano che ha l’obiettivo di

ottenere informazioni o confessioni, oppure d’infliggere una punizione ed è

18 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167.

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generalmente una forma aggravata di trattamento inumano o degradante19”.

Nella sentenza di condanna del Regno Unito, si stabilisce invece che “sebbene le

cinque tecniche, combinate insieme, siano dei trattamenti inumani e degradanti,

sebbene il loro obiettivo fosse ottenere delle confessioni, informazioni e fare

nomi, e sebbene furono usate sistematicamente, esse non causarono sofferenze

di particolari intensità e crudeltà da considerarsi tortura20”.

Soccorre infine, ai fini dell’individuazione della definizione di tortura, la

sentenza sul caso Aydin contro Turchia, datata 1997. La ricorrente, all’epoca dei

fatti 17enne, era stata tratta in arresto dalle forze dell’ordine assieme alla sua

famiglia, quindi tenuta in isolamento per tre giorni, bendata, picchiata, costretta

a spogliarsi e infine stuprata. La Commissione, nel suo parere, sottolineava che

lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce integrità fisica e

morale della vittima, risultava in quelle circostanze aggravato perchè commesso

da persona dotata di autorità a danno di una maggiormente vulnerabile

(detenuta e per di più minorenne)21. La Corte, accogliendo questa impostazione,

ribadiva che “l’accumulo di atti di violenza fisica e mentale (...) e in particolare la

crudeltà dello stupro, cui era stata sottoposta, sono atti di tortura”; quanto allo

scopo, la situazione della zona poneva le forze dell’ordine nella condizione di

dover reperire informazioni, di tal ché “le sofferenze inflitte alla ricorrente devono

essere considerate come soggiacenti agli stessi obiettivi22”. Quest’ultimo rilievo è

decisivo, perchè ci permette finalmente di individuare un principio generalmente

applicabile: non solo il grado di sofferenza inflitta, ma anche la natura dell’atto e

lo scopo a cui soggiace conducono a qualificarlo “atto di tortura”. Un’azione di

per sé particolarmente crudele può essere tale senza il bisogno di indagare gli

altri elementi, i quali piuttosto possono qualificarsi, a fini di semplificazione (e

19 Commissione, caso Greco, cit. 20 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 21 Commissione, caso Aydin c. Turchia, parere 17.4.1997, paragrafi 214-215. 22 Corte, caso Aydin c. Turchia, sentenza 25.9.1997, par. 86.

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usando categorie giuridiche più vicine alla scienza giuridica italiana), come

<circostanze aggravanti>, esterne alla fattispecie. In conclusione, nessun atto

obiettivamente “inumano” potrà essere qualificato come “tortura” perchè

finalizzato ad esempio ad ottenere una confessione, mentre l’indagine sulle

circostanze sarà fondamentale in quei casi di condotte che si pongano al confine

tra le due fattispecie.

Si evince da quanto fin qui osservato che quella di “trattamento inumano” è

una definizione primaria. La Corte ha ad essa attribuito, accanto al valore

intrinseco, una funzione per così dire classificatoria: in due coeve sentenze si

stabilisce infatti che, da un lato, “[l’]articolo 3 della Convenzione (...),

distinguendo la <tortura> dai <trattamenti inumani o degradanti> ha voluto con

il primo di tali termini marchiare di particolare infamia trattamenti inumani

deliberati che provocano sofferenze molto gravi e crudeli23”; dall’altro, che “[l]a

sofferenza provocata deve situarsi ad un livello particolare perchè si possa

qualificare (...) inumana24”. Come conseguenza prima, si assume quale criterio

cui fare affidamento la “soglia di gravità”, utilizzata in funzione di limite interno

tra le fattispecie vietate dalla norma. In aggiunta, si impone (soprattutto nelle

sentenze emesse a partire dagli anni ’90) un dovere assoluto di rispettare

l’integrità fisica: ne troviamo un’anticipazione in un passaggio che già abbiamo

citato, in cui la Corte escludeva che i comportamenti oggetto di valutazione

potessero essere ricondotti alla tortura perchè quest’ultima è “un trattamento

inumano deliberato, che causa una sofferenza inumana e crudele25”; ebbene, a

partire da questa risalente decisione si è via via affermata la convinzione che

affinchè si possa ricondurre una condotta alla tortura devono ricorrere

circostanze tali da <qualificare> un trattamento inumano: la violenza deve

generare sofferenze fisiche particolarmente crudeli, o essere finalizzata ad

23 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 24 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, cit., par. 29. 25 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167.

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ottenere una qualche confessione, o ancora essere perpetrata mediante atti per

loro natura intollerabili (come lo stupro commesso ai danni di minorenne in stato

di custodia26). In assenza di tali elementi caratterizzanti, ogni violenza grave sarà

ricondotta ad un trattamento inumano. L’accoglimento del metodo della

contestualizzazione dei comportamenti da valutare ha infine condotto alla nascita

di una sorta di fattispecie autonoma, con riferimento ai comportamenti posti in

essere ai danni di soggetti privati della libertà, rispetto ai quali è stato di fatto

spostato il confine tra tortura e trattamento o pena inumani e degradanti.

- La condizione dei soggetti privati della libertà

Ove si riduca il criterio interpretativo alla pedissequa applicazione della

norma, la lettera dell’articolo 3 CEDU non sarebbe di per sé garanzia di tutela nei

confronti di persone detenute. A differenza dell’articolo 10, paragrafo 1 del Patto

sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 196627 e dell’articolo 5, paragrafo

2 della Convenzione Americana sui diritti umani del 196928, infatti, la

Convenzione Europea non contiene alcun riferimento specifico. Consapevoli della

lacuna normativa, gli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa si sono presto

dedicati alla individuazione di un criterio interpretativo tale da giustificare

un’estensione della protezione. In un parere del 1968, la Commissione stabiliva

pertanto che la detenzione “non priva il detenuto della garanzia dei diritti e delle

libertà protetti dalla Convenzione29”. Più specificamente sanciva, un decennio più

tardi, che “una pena regolarmente inflitta può sollevare un problema rispetto

all’articolo 3 per il modo in cui è realizzata30”.

26 Corte, caso Aydin c. Turchia, cit. 27 “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana”. 28 “Nessuno sarà sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Tutti coloro che siano privati della libertà saranno trattati con il rispetto dovuto alla dignità inerente alla persona umana”. 29 Commissione, caso Ilse Koch c. Austria, parere 8.3.1968, in Annuaire 5, pag. 127. 30 Commissione, caso Kotalla c. Paesi Bassi, parere 6.5.1978, D.R. 14, pag. 243.

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Solo a partire dagli anni ’90, tuttavia, si rinvengono nelle sentenze delle

osservazioni tali da permettere di ricostruire la reale portata delle affermazioni di

principio di cui si è in precedenza dato conto. Prima questione concerneva

l’individuazione del momento a partire dal quale concretamente si possa ritenere

un individuo “privato della libertà” ai sensi dell’articolo 3 (e quindi maggiormente

tutelato). Attraverso l’analisi di tre decisioni emesse nei primi anni ’90 si può

ricostruire l’iter logico seguito dalla Corte, ed indicare dei principi utilizzabili per

valutare le singole situazioni soggettive.

Primo in ordine cronologico è il già citato caso Tomasi. Il ricorrente,

sospettato di aver preso parte ad un attentato terroristico in Corsica, era stato

fermato dalla polizia e sottoposto ad interrogatorio. Proprio in quest’ultima

circostanza avrebbe subito maltrattamenti che andavano da vere e proprie

violenze fisiche alle minacce con armi, all’assenza prolungata di cibo e all’obbligo

di rimanere a lungo in piedi, ammanettato e nudo, davanti ad una finestra. Nella

sentenza la Corte, qualificando le condotte come “trattamenti inumani e

degradanti” e condannando la Francia ad un sostanzioso risarcimento,

sottolineava che “le innegabili difficoltà della lotta contro la criminalità, anche in

materia di terrorismo, non possono limitare la protezione dovuta all’integrità

fisica delle persone31”. Come detto, introduceva inoltre delle presunzioni di

colpevolezza e invertiva l’onere della prova, essendovi dei riscontri in ordine al

fatto che lo stato di salute del sig. Tomasi al momento dell’arresto fosse buono.

Nel caso Klaas invece la ricorrente, cittadina tedesca, lamentava di aver

subito maltrattamenti (che le avrebbero causato peraltro uno svenimento) in

occasione di un arresto che aveva subito in quanto colpevole di aver causato un

incidente automobilistico, guidando in stato di ebbrezza. Secondo la

Commissione, rileverebbe il fatto stesso di essere sotto la giurisdizione delle

31 Corte, Tomasi c. Francia, cit, par. 115.

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forze di polizia32. La Corte, al contrario, operò una distinzione rispetto al caso

Tomasi, poiché l’uso della forza ben poteva essere stato causato dalla resistenza

all’arresto, e le violenze in questo caso non sarebbero state sproporzionate33.

Infine nel caso Hurtado contro Svizzera la stessa Commissione si trovava a

cambiare orientamento rispetto al parere da ultimo citato: il ricorrente lamentava

di aver subito violenze durante l’arresto, ma l’organo giurisdizionale si limitò a

stabilire che vi fosse stata violazione dell’articolo 3 solo a causa della mancata

sottoposizione del fermato a visite mediche. Testualmente affermava che

“l’assenza di cure mediche adeguate in una simile situazione deve essere

qualificata trattamento inumano34”.

Ci sentiamo di poter affermare, sulla base dei principi appena presentati, che

l’arresto si differenzia dalla custodia perchè non esclude a priori il ricorso alla

forza, ma piuttosto lo sottopone ad una valutazione sulla proporzionalità rispetto

alla situazione (valutazione che sarà “ex ante”, avente ad oggetto cioè le

circostanze nelle quali effettivamente avevano operato la polizia o le altre forze

di sicurezza, così come apparivano in quel momento). Qualora un individuo

venga sottoposto a pena detentiva (anche solo di natura cautelare o comunque

preventiva), invece, lo Stato contraente si assume piena responsabilità per il

trattamento a quello riservato, e si pone come garante della incolumità fisica

(con l’eccezione di quelle offese causate direttamente dal comportamento del

detenuto). Diverse sentenze sono state emesse con riferimento alle condizioni

della detenzione: tra queste, ve ne sono due, piuttosto recenti, riguardanti il

nostro Paese.

32 Commissione, caso Klaas c. Germania, parere 21.5.1992, parr. 103-104. 33 Corte, caso Klaas c. Germania, sentenza 22.9.1993, Serie A n. 269, parr. 29-30. 34 Commissione, caso Hurtado c. Svizzera, parere 8.7.1993, par. 79.

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Il signor Benedetto Labita, arrestato perchè sospettato di essere membro di

un’organizzazione mafiosa, nel 1992 veniva trasferito nel carcere di Pianosa per

essere sottoposto al regime “41bis”, dall’articolo della Legge n. 354 del 1975 che

lo aveva introdotto nell’ordinamento penitenziario. Prima di essere assolto in

secondo grado dalla Corte d’Appello di Palermo nel dicembre 1995, il ricorrente

sarebbe stato vittima di una vasta gamma di violazioni della Convenzione:

denunciò infatti condotte contrarie agli articoli 3, 5, 6, 8, nonché all’articolo 2 del

Protocollo n. 4 e all’articolo 3 del Protocollo n. 1. Per quanto qui ci interessa, egli

riteneva che le misure d’isolamento (notturno e diurno), le violenze, le

perquisizioni corporali e le intimidazioni subite (causa di traumi sia psichici che

fisici) rappresentassero “trattamenti inumani e degradanti” ai sensi dell’articolo

3. La Commissione aveva peraltro accolto tale conclusione. Con sentenza presa a

strettissima maggioranza (9 voti contro 8), la Corte assolveva al contrario l’Italia

per mancanza di prove inconfutabili circa la gravità dei trattamenti, così

accogliendo l’opinione del Governo italiano, che da parte sua riconosceva le

condotte e al contempo le ridimensionava35. Identici iter ed esito avrebbe avuto,

di lì a poco, il ricorso del sig. Indelicato36, che come il suo predecessore

lamentava di aver subito trattamenti in violazione dell’articolo 3 nello stesso

carcere di Pianosa, ove era stato detenuto e sottoposto anch’egli al “regime

41bis” fino al settembre 1997, quando era stato prosciolto dalle accuse e

rilasciato. Rinviamo un ulteriore approfondimento delle due pronunce per quanto

riguarda dei diversi profili dell’applicazione dell’articolo 3.

In una serie di decisioni è stato invece stabilito che una detenzione in

condizioni tali da danneggiare la salute dei detenuti costituisce un trattamento

inumano e degradante.

Con riferimento all’isolamento, la Corte ha da un lato affermato che quello

totale può distruggere la personalità del detenuto e pertanto costituisce

35 Corte, caso Labita c. Italia, sentenza 4.6.2000, Reports of Judgements and Decisions, 2000-IV. 36 Corte, caso Indelicato c. Italia, sentenza 18.10.2001.

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trattamento inumano e che non si giustifica con esigenze di sicurezza, e dall’altro

non ha mai emesso sentenze di condanna in materia37, essendo in ogni caso

legittimo comminare la sanzione in parola nel rispetto di particolari condizioni. In

un altro caso (concluso con il rigetto del ricorso) si osservava che “deve aversi

riguardo alle circostanze (...), incluse la severità della misura, la sua durata, lo

scopo perseguito e gli effetti sulla persona38”, e si sottolinea che sicuramente

rappresenterebbe un trattamento proibito l’isolamento sensoriale del detenuto,

che tuttavia in quell’occasione non si era verificato. Talvolta si è inoltre fatto

riferimento ad un requisito ulteriore, quello della volontà di umiliare l’individuo39.

Altro elemento di cui la Corte ha tenuto conto nel valutare le condotte dei

soggetti responsabili della custodia dei detenuti è la prontezza con cui questi

ultimi, in caso di danni in qualsiasi modo prodotti, siano stati sottoposti a visita

medica. Alla base di questo principio si pone l’obbligo di garantire l’integrità fisica

degli individui, tenendo presente tuttavia che si deve intendere nel senso di

“aggravante”, circostanza da valutare insieme alle altre, di modo che deve essere

provata la sottoposizione a violenze o a trattamenti proibiti dall’articolo 3. A titolo

esemplificativo, nel caso Ilhan40 si è giunti ad una condanna per aver sottoposto

il ricorrente ad “atti di tortura”: la vittima aveva riportato danni di natura

permanente, e non era stata prontamente trasferita in una struttura ospedaliera.

Senza indagare su un eventuale peggioramento delle sue condizioni psico-fisiche

a causa del mancato intervento dei medici per un lasso temporale di almeno 36

ore, il giudice europeo utilizzava l’elemento oggettivo del ritardo nel

37 Nel caso Peers c. Grecia, deciso con sentenza del 19.4.2001, veniva dichiarata la violazione dell’articolo 3 con riferimento alle condizioni della detenzione, ma la Corte espressamente le riconduceva “solamente” ad un trattamento degradante. 38 Corte, caso Ensslin, Baader e Raspe c. Germania, sentenza 8.7.1978. 39 Così la Commissione sul caso Mac Feely del 1980, in cui affermava che la causa dell’aggravamento delle condizioni psico-fisiche erano gli stessi detenuti, accusati di atti di terrorismo in Irlanda del Nord, e dichiarava la non colpevolezza del Regno Unito. 40 Corte, caso Ilhan c. Turchia, sentenza 27.6.2000.

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trasferimento allo scopo di qualificare le condotte, assieme alle altre circostanze

in causa41.

Secondo gli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa, infine, anche i

soggetti internati negli ospedali psichiatrici, se sottoposti a trattamenti medici

contro la propria volontà (e tali da peggiorarne la condizione psico-fisica), ad

alimentazione forzata e all’isolamento, il tutto per un periodo prolungato,

possono essere riconosciuti vittime di violazioni dell’articolo 3 in quanto detenuti

sottoposti a trattamento inumano o degradante. Nel caso specifico, la

Commissione aveva ritenuto non strettamente necessarie le misure mediche e

perciò riscontrato una violazione dell’articolo 3 CEDU. Ribaltando ancora una

volta le conclusioni di quest’ultima e dichiarando la non violazione della norma, la

Corte stabiliva che “[l]a situazione di inferiorità e di impotenza che caratterizza i

pazienti internati negli ospedali psichiatrici richiede una maggiore vigilanza nel

controllo del rispetto della Convenzione. Benché spetti alle autorità sanitarie

decidere (...) i rimedi terapeutici da utilizzare, se del caso coattivamente, per

tutelare la salute psico-fisica dei pazienti totalmente incapaci di autodeterminarsi

e dei quali essi hanno perciò la responsabilità, questi ultimi non sono meno

protetti dall’articolo 3(...). Certamente la prassi medica consolidata è, in via di

principio, decisiva in un caso del genere: non può, in generale, essere

considerata inumana o degradante quella misura che sia dettata da una

necessità terapeutica. Spetta dunque alla Corte assicurarsi che quest’ultima sia

stata provata in modo convincente42”. Dunque una doppia valutazione: la prima

sui trattamenti, la seconda, eventuale, sulla loro inevitabilità, intesa come

assenza di cure alternative.

41 Anche nel caso Hurtado c. Svizzera si faceva riferimento all’obbligo di sottoporre prontamente il detenuto a visite mediche, come effetto di un generale obbligo positivo degli Stati, rispetto al quale rinviamo la trattazione al paragrafo seguente. 42 Così la Corte sul caso Herczegfalvy c. Austria, sentenza 24.9.1993, Serie A n. 241-B, par. 82.

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- I trattamenti e le pene degradanti

Restano dunque da analizzare le categorie dei trattamenti e delle pene

degradanti.

Per quanto concerne i primi, appare totalmente esaustiva (e tuttora attuale)

la definizione contenuta in un risalente parere emesso dalla Commissione nel

1973. Il ricorso era stato inoltrato da 31 cittadini residenti in Uganda e in Kenya,

ma originari di varie zone dell’Asia, con passaporto britannico (provenendo tutti

da Paesi all’epoca protettorati o colonie inglesi) ovvero in alcuni casi con speciale

protezione da parte di quest’ultimo governo: il c.d. “caso degli Asiatici dell’Africa

Orientale”. La domanda trovava fondamento nel rigetto della loro richiesta di

trasferirsi nel Regno Unito (inoltrata a causa delle difficoltà riscontrate sempre

più spesso nei Paesi di residenza), motivata sulla base di alcuni articoli del

Commonwealth Immigrants Act del 1968, e contestata ai sensi degli articoli 8

(inteso come diritto al ricongiungimento familiare, per quegli individui che

avessero dei membri della famiglia nel Regno Unito), 14 (divieto di

discriminazione, per essere trattati diversamente da altri cittadini dello stesso

Stato) e 3 CEDU. Riguardo quest’ultimo, il rigetto della richiesta di trasferimento

avrebbe costituito “trattamento degradante” perchè avrebbe di fatto trasformato

i ricorrenti in apolidi, con intento discriminatorio rispetto ai cittadini dei Paesi

“bianchi” del Commonwealth. La Commissione forniva innanzitutto una

definizione generale: “[l’]espressione <trattamenti degradanti> mette in

evidenza che tale disposizione tende in generale ad impedire lesioni

particolarmente gravi della dignità umana. Di conseguenza, una misura che

scredita una persona nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua

reputazione, può essere considerata un <trattamento degradante> (...) solo se

raggiunge una certa soglia di gravità. (...) La Commissione ricorda (...) che è

generalmente riconosciuto il principio in base al quale deve essere accordata

un’importanza particolare alla discriminazione fondata sulla razza; che il fatto di

imporre pubblicamente ad un gruppo di persone un regime particolare fondato

sulla razza può, in talune circostanze, costituire una particolare forma di lesione

della dignità umana; e che il regime particolare imposto a un gruppo di persone

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per motivi razziali potrebbe costituire un trattamento degradante laddove una

distinzione fondata su un altro elemento non solleverebbe tali questioni43”.

Invero il riconoscimento del carattere di “trattamento degradante” del

comportamento discriminatorio rappresenta ad oggi un caso quasi isolato44; più

interessante appare l’analisi della giurisprudenza avente ad oggetto le pene

degradanti.

Vero e proprio caposaldo in materia è la sentenza sul caso Tyrer45,

riguardante una condanna alla pena corporale della fustigazione emessa nell’isola

di Man, territorio britannico agli effetti della Convenzione, sebbene dotato di un

diverso sistema giuridico. Il ricorrente, all’epoca dei fatti minorenne, aveva

peraltro espresso la volontà di desistere dall’azione giudiziaria (nel frattempo la

condanna era stata eseguita e il signor Tyrer era divenuto maggiorenne); la

Commissione aveva rigettato la richiesta ai sensi dell’articolo 43 del suo

Regolamento, perchè il caso sollevava gravi problemi di carattere generale (in

futuro si sarebbero in ogni caso potute registrare violazioni di uguale natura,

vigente la medesima legislazione). La Corte, accolto questo orientamento,

passava a giudicare sul merito: escludeva innanzitutto che vi fosse la prova in

ordine al superamento delle soglie di gravità interne con riferimento alle

categorie di “tortura” e “pena inumana”, lasciando in vita solo le lamentele circa

la sussistenza di una “pena degradante”. Premesso che “un individuo può essere

umiliato per il solo fatto di essere stato condannato penalmente”, sottolineava

che “sarebbe assurdo sostenere che ogni pena giudiziaria (...) abbia carattere

<degradante> ai sensi dell’articolo 3”; occorreva perciò un criterio cui sottendere

la distinzione. Che veniva puntualmente rintracciato, laddove si stabiliva che

“(...) affinché una pena sia <degradante> (...), l’umiliazione e lo sconforto da cui

43 Commissione, caso Asiatici dell’Africa Orientale c. Regno Unito, parere 1.12.1973, paragrafi 189 e 207. 44 Altra sentenza di condanna è stata pronunciata recentemente: cfr. Corte, caso Moldovan e altri (n. 2) c. Romania, sentenza 12.7.2005, paragrafi da 102 a 114. 45 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.4.1978, Serie A n. 26.

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è accompagnata devono collocarsi ad un livello particolare”: è necessario quindi

effettuare una valutazione dipendente “dal complesso delle circostanze in causa

e, in particolare, dalla natura dal contesto e dalle modalità di esecuzione della

pena46”. Esclusa la rilevanza, ai fini della valutazione in parola, dell’opinione

pubblica, la Corte sottolineava quindi che “(...) una pena non perde il suo

carattere degradante per il solo fatto di essere considerata costituire o di

costituire effettivamente un efficace strumento di dissuasione ovvero di lotta alla

criminalità47”. Rigettata del pari l’argomentazione governativa secondo cui

l’assenza di pubblicità impedirebbe ad una pena di ricadere nella categoria in

parola e che le garanzie circa le modalità esecutive fossero a tal fine ugualmente

rilevanti48, si giungeva alla dichiarazione di condanna sulla base del

fondamentale rilievo che “le pene giudiziarie corporali implicano, per natura, che

un essere umano si lasci andare a violenze fisiche su un suo simile. Inoltre, si

tratta di violenze istituzionalizzate, nel caso specifico autorizzate dalla legge,

disposte dagli organi giudiziari dello Stato ed irrogate dalla sua polizia. Così,

sebbene il ricorrente non abbia subito lesioni gravi o permanenti, la sua

punizione consistente nel trattarlo come un oggetto nelle mani della pubblica

autorità ha leso quanto della protezione figura precisamente tra gli scopi

fondamentali dell’articolo 3: la dignità e l’integrità fisica della persona. Non si può

nemmeno escludere che la pena abbia comportato pregiudizievoli ripercussioni

psicologiche49”.

La decisione veniva quindi accompagnata dalla Risoluzione DH 78(39) del

Comitato dei Ministri (datata 13.10.1978), nel cui allegato si rilevava, tra le

informazioni fornite dal Governo del Regno Unito, che tutti gli organismi giudiziari

dell’isola di Man, competenti per la pronuncia di condanne alla pena corporale,

46 Caso Tyrer, cit., paragrafo 30. 47 Caso Tyrer, cit., paragrafo 31. 48 Caso Tyrer, cit., paragrafo 32. 49 Caso Tyrer, cit., paragrafo 33.

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erano stati ufficialmente avvertiti che “in conseguenza di tale sentenza, la

punizione giudiziaria corporale, d’ora in avanti, deve essere ritenuta contraria

alla Convenzione”.

Altra sentenza, di pochi anni successiva, interveniva a sciogliere un dubbio di

natura interpretativa: se cioè il rischio del verificarsi di comportamenti proibiti ai

sensi dell’articolo 3 potesse costituire una violazione della norma, in particolare

nel caso in cui quei comportamenti fossero codificati. I ricorrenti, le signore

Campbell e Cosans, erano cittadine scozzesi e madri di due ragazzi minorenni,

frequentanti la scuola dell’obbligo. Nell’istituto in questione, ai sensi della

legislazione nazionale (vigente in tutto il Regno Unito), era utilizzato come

strumento di correzione un sistema di punizioni corporali. Il figlio della signora

Cosans, essendosi rifiutato di sottoporvisi, era stato sospeso; i genitori, informati

del provvedimento, decidevano di appoggiare la sua decisione, e il Preside della

scuola, per tutta risposta, comunicava loro ufficialmente che la sospensione

sarebbe stata prolungata finché non avessero accettato le regole, essendo il loro

rifiuto un elemento ostativo alla partecipazione del figlio alle lezioni

(effettivamente Jeffrey Cosans non sarebbe più tornato a frequentare

quell’istituto, poiché dopo quasi un intero anno di sospensione aveva compiuto

16 anni e deciso di abbandonare il suo percorso formativo). Il figlio della signora

Campbell, invece, non era mai stato minacciato di un tale comportamento;

ciononostante, avendo chiesto i genitori rassicurazioni circa il fatto che non

sarebbe mai stato sottoposto a quel genere di punizioni, avevano ricevuto

risposta negativa, e per questo si erano decisi ad inoltrare ricorso presso le

istanze sovranazionali.

Gli organi giurisdizionali di Strasburgo venivano quindi aditi allo scopo di

pronunciarsi su delle norme, anziché su condotte. La Commissione dichiarava che

non vi era stata violazione dell’articolo 3; la Corte accoglieva tale opinione,

spiegando che, se è vero che “un semplice rischio di comportamenti proibiti

dall’articolo 3 può contrastare, di per sé, con tale norma se è sufficientemente

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reale ed immediato50”, pur tuttavia “la situazione nella quale si trovavano i figli

delle ricorrenti non costituiva né una <tortura> né un <trattamento inumano>

(...) [perchè] nulla dimostra che abbiano subito sofferenze del livello implicato da

tali nozioni51”. Mutuando quindi la nozione di <trattamento degradante> dalla

sopra citata sentenza Tyrer, e specificato che oggetto d’indagine in casi del

genere devono essere la prostrazione e l’umiliazione eventualmente provate dalla

vittima, affermava che “(...) non risulta provato che gli allievi di una scuola dove

si ricorre a tali punizioni siano, a causa del semplice rischio di subirne una,

umiliati o sviliti agli occhi altrui (...) ad un qualsiasi livello52”. Poiché inoltre “(...)

un individuo di straordinaria sensibilità potrebbe rimanere profondamente

segnato da una minaccia [di un comportamento] che solo l’erronea

interpretazione del comune significato del termine potrebbe far qualificare

degradante53”, occorre considerare ai fini della valutazione esclusivamente le

prove di carattere obiettivo (nel caso in esame, non vi erano neanche certificati

medici sulla cui base riconoscere che i due ragazzi avessero subito ripercussioni

quantomeno psicologiche).

L’assenza di condanne fondate su comportamenti qualificati come “pene

inumane” (e la progressiva scomparsa, del pari, di quelle derivanti da “pene

degradanti”) ci conduce ad affermare che nell’attuale momento storico la

legislazione penale degli Stati membri del Consiglio d’Europa ha raggiunto uno

standard tale da garantire quanto meno il rispetto dell’articolo 3 (in via di

principio, ossia avendo come obiettivo solo le norme scritte). Avendo più volte

sottolineato la peculiare “vitalità” di questa disposizione, ci sembra più utile

indagare la linea direttrice su cui si muove (e si muoverà nel futuro prossimo) la

Corte Europea. E’ infatti in atto un’estensione dell’ambito applicativo dell’articolo

50 Corte, caso Campbell e Cosans c. Regno Unito, sentenza 25.2.1982, Serie A n. 48, paragrafo 26. 51 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 27. 52 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 29. 53 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 30.

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3, sia mediante ridefinizione dei confini interni, sia attraverso la tutela di

situazioni che potremmo definire “violazioni indirette”. Se di queste ultime

rinviamo la trattazione al paragrafo seguente, della prima operazione ci sembra

un chiaro esempio la sentenza sul caso Selmouni contro Francia del 1999. La

Corte in quell’occasione ha sostenuto che “condotte altre volte qualificate

trattamenti inumani e degradanti e non tortura potrenno ricevere una diversa

qualificazione in futuro perchè il maggior livello di protezione dei diritti umani

(...) oggi richiesto implica, inevitabilmente, maggiore fermezza nella valutazione

delle violazioni54” e qualificato quindi le condotte contestate (poste in essere da

funzionari di polizia in seguito ad un fermo) come atti di tortura.

Una ridefinizione dei confini della norma, in conclusione, che potrebbe

riflettersi anche su quelli che abbiamo catalogato come “esterni”, ossia sulla

distinzione tra atti legittimi e “trattamenti degradanti”.

- La pena di morte, grimaldello per l’estensione dell’ambito di

applicazione dell’articolo 3 (divieto di espulsione ed estradizione)

L’estensione dell’ambito applicativo dell’articolo 3 mediante inclusione di

quelle che abbiamo definito “violazioni indirette” ha una genesi, un momento

iniziale facilmente riconoscibile: la sentenza sul caso Soering c. Regno Unito,

emessa nel 198955.

Il ricorrente, Jens Soering, era un cittadino tedesco con problemi mentali che

nel 1985, nello Stato della Virginia (USA), aveva ucciso assieme alla fidanzata

Elizabeth Haysom (di nazionalità canadese) i genitori di quest’ultima. In seguito

al duplice omicidio, i due erano fuggiti nel Regno Unito, ove venivano arrestati

per truffa nell’aprile del 1986. Interrogato dalla polizia, il signor Soering

confessava in quell’occasione la propria responsabilità nel reato di cui sopra. Gli

Stati Uniti inoltravano quindi richiesta di estradizione di entrambi gli indagati

verso la Virginia, ove peraltro vigeva la pena di morte, sanzione che il ricorrente

54 Corte, caso Selmouni c. Francia, sentenza 28.7.1999, paragrafo 101. 55 Corte, caso Soering c. Regno Unito, sentenza 7.7.1989, Serie A n. 161.

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presumibilmente rischiava di vedersi comminata. La signorina Haysom, poiché

canadese, veniva estradata senza ritardo. Jens Soering, per il quale nel

frattempo era pervenuta medesima richiesta dalla Germania, suo paese natale (e

di cui era cittadino), presentava ricorso presso gli organi di Strasburgo allo scopo

di bloccare il procedimento, poiché nel frattempo le autorità britanniche avevano

ritenuto sufficienti le garanzie fornite dal Procuratore Federale dello Stato

americano in ordine alla non esecuzione della pena di morte, anche ove fosse

stata irrogata dal tribunale competente (sulla base del trattato anglo-americano

di estradizione del 1972, non si poteva concedere estradizione di un soggetto che

presumibilmente sarebbe poi stato mandato a morte – ove non già condannato).

La sentenza della Corte Europea presenta diversi profili d’interesse.

In primo luogo si sottolinea che “l’articolo 1 (...) fissa un limite, specialmente

territoriale, all’ambito di applicazione della Convenzione. In particolare, l’impegno

degli Stati si limita a garantire alle persone sottoposte alla loro giurisdizione i

diritti e le libertà enumerati. Inoltre, la Convenzione non disciplina gli atti di uno

Stato terzo, né pretende che le Parti contraenti impongano le sue norme a tale

Stato. L’articolo 1 non può essere interpretato nel senso di porre un principio

generale in base al quale uno Stato contraente, nonostante i suoi obblighi in

materia di estradizione, non possa consegnare un individuo senza accertarsi che

le disposizioni vigenti nel Paese di destinazione siano completamente conformi a

tutte le garanzie approntate dalla Convenzione. Tali considerazioni non possono

tuttavia esimere gli Stati contraenti dalle loro responsabilità, riguardo l’articolo 3,

per tutte o alcune delle conseguenze prevedibili che un’estradizione al di fuori

della loro giurisdizione comporti56”.

Si passa poi ad esaminare specificamente l’articolo 3, dopo aver premesso

che occorre interpretare ed applicare le disposizioni della Convenzione in modo

da assicurarne l’effettività e da non tradire lo spirito generale del Trattato.

56 Caso Soering, cit., paragrafo 86.

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Testualmente: “l’articolo 3 non prevede alcuna eccezione e l’articolo 15 non

acconsente a deroghe nemmeno in tempo di guerra o in caso di pericolo per la

sicurezza nazionale. Questo divieto assoluto (...) posto dalla Convenzione

dimostra che l’articolo 3 consacra uno dei valori fondamentali delle società

democratiche che costituiscono il Consiglio d’Europa. (...) Uno Stato contraente

agirebbe in modo incompatibile con i valori sottostanti alla Convenzione (...) se

consegnasse consapevolmente un latitante ad uno Stato terzo in cui esistano seri

motivi di ritenere che l’interessato sia minacciato dal pericolo di subire una

tortura [o un altro trattamento proibito]. Nonostante l’assenza di indicazione

letterale nel testo breve e generico dell’articolo 3, tale estradizione sarebbe in

manifesto contrasto con lo spirito della norma (...). In conclusione, la decisione

di estradare un latitante può sollevare un problema rispetto all’articolo 3, e

perciò impegnare la responsabilità di uno Stato contraente sulla base della

Convenzione, quando vi siano seri e accertati motivi di ritenere che l’interessato,

se consegnato al Paese richiedente, correrà un concreto rischio di essere ivi

sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti. Per provare

tale responsabilità occorre valutare la situazione nel luogo di destinazione alla

luce degli standard richiesti dall’articolo 3. (...) [N]on si tratta di (...) stabilire la

responsabilità del Paese di destinazione, sia essa ai sensi dei principi del diritto

internazionale, della Convenzione o di altri atti. Nella misura in cui una

responsabilità è o può essere impegnata ai sensi della Convenzione, è quella

dello Stato contraente che concede estradizione, per aver posto in essere un atto

che ha come diretta conseguenza la sottoposizione di qualcuno a trattamenti

proibiti57”.

Ciò detto, per quanto concerne la pena di morte vanno presi in considerazione

gli ulteriori sviluppi politici. In via preliminare, si osserva che “gli autori della

Convenzione non possono certo avere inteso includere nell’articolo 3 il divieto

generale della pena di morte”. In aggiunta, “una pratica successiva in materia di

57 Caso Soering, cit., paragrafi 88 e 91.

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politica penale nazionale, sotto forma di abolizione universale della pena di

morte, potrebbe testimoniare l’accordo raggiunto tra gli Stati contraenti in ordine

all’abrogazione dell’eccezione prevista dal paragrafo 1 dell’articolo 2 e quindi alla

rimozione di un limite esplicito alle prospettive di interpretazione evolutiva

dell’articolo 3. Tuttavia il Protocollo n. 6 alla Convenzione, essendo accordo

scritto successivo, dimostra che l’intenzione delle Parti contraenti, espressa

recentemente nel 1983, era quella di adottare un normale metodo di

emendamento allo scopo di introdurre una nuova obbligazione di abolire la pena

di morte in tempo di pace e, ciò che più rileva, di farlo mediante strumento

facoltativo che lasci libero ogni Stato di scegliere il momento più opportuno per

assumere questo impegno. In queste condizioni (...) l’articolo 3 non potrebbe

essere interpretato come una proibizione generalizzata della pena di morte58”.

Tutto quanto premesso, la Corte conclude nel senso che “non ne deriva che le

circostanze relative ad una condanna a pena capitale non possano mai sollevare

una questione ai sensi dell’articolo 3. Il modo in cui è stata comminata o

applicata, la personalità del condannato e una sproporzione rispetto alla gravità

del reato, nonché le condizioni della dentenzione da subire in attesa

dell’esecuzione sono esempi di fattori che possono far ricadere il trattamento o la

pena cui il condannato sia sottoposto nell’ambito applicativo dell’articolo 3.

L’atteggiamento attuale degli Stati contraenti rispetto alla pena capitale rileva ai

fini della valutazione circa il superamento della soglia di tollerabilità della

sofferenza o dell’umiliazione59”. Presi in esame dati quali lo stato di salute del

Soering, l’età, le condizioni del regime di sorveglianza nel corridoio della morte

(affermando tra l’altro che la “sindrome del braccio della morte” costituiva

trattamento o pena inumana o degradante), la durata prolungata della

permanenza in quel luogo e la possibilità di estradare il ricorrente verso la

Germania, la Corte ha condannato il Regno Unito poiché l’insieme di tali

circostanze avrebbe determinato violazione dell’articolo 3.

58 Caso Soering, cit., paragrafo 103. 59 Caso Soering, cit., paragrafo 104.

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La sentenza Soering introduceva nella valutazione dei singoli casi un criterio

nuovo, mediante cui il principio della responsabilità dello Stato contraente per

“concorso” nella violazione commessa da uno Stato non membro sarebbe stato

applicato anche a fatti diversi: il giudizio probabilistico sul verificarsi della

condotta proibita dalla Convenzione. Ciò in cui consisteva il riferimento ai “seri ed

accertati motivi di credere che, se estradato, l’interessato andrebbe incontro ad

un reale rischio di essere sottoposto (...)60” ad un trattamento proibito. Laddove

il ricorrente presenti elementi obiettivi che inducano a ritenere reale il rischio,

spetterà allo Stato convenuto dimostrare che la violazione della Convenzione

(nello Stato terzo) sia improbabile. Conseguenza ulteriore dell’estensione della

tutela sarebbe stata l’applicazione dei suddetti criteri valutativi anche ai

provvedimenti di espulsione di uno straniero. Qualora vi siano i seri e fondati

motivi di cui sopra, ha più volte ribadito la Corte, “[l’articolo 3] comporta

l’obbligo di non espellere la persona in questione61”, sebbene sia pacifico che gli

Stati contraenti “(...) hanno il diritto di controllare, in base ad un principio di

diritto internazionale ben consolidato e senza pregiudizio per gli impegni

derivanti dai trattati (...), l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non

cittadini62”. Per quanto riguarda gli elementi di prova, il giudice di Strasburgo ha

talvolta affermato che “occorre fare riferimento preliminarmente alle circostanze

che lo Stato convenuto conosceva o avrebbe dovuto conoscere al momento

dell’espulsione, ma ciò non impedisce alla Corte di prendere in considerazione

informazioni successive”, che “possono servire a confermare o a delegittimare il

modo in cui la Parte contraente interessata abbia valutato la fondatezza dei

timori di un ricorrente63”.

60 Caso Soering, cit., paragrafo 90. 61 Tra le altre, così la Corte sul caso Ahmed, sentenza 17.12.1996, paragrafo 39. 62 Così ad esempio la Corte sul caso Vilarajah ed altri c. Regno Unito (in cui i ricorrenti erano stati espulsi in seguito al diniego della concessione di asilo politico), sentenza 30.10.1991, Serie A n. 215, paragrafo 102. 63 Caso Vilarajah e altri c. Regno Unito, cit., paragrafo 107.

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Il signor Ahmed, cittadino somalo, era giunto in Austria nel 1990 ed in quel

Paese aveva ottenuto lo status di rifugiato in quanto membro di un partito

dell’opposizione, sottoposto ad una persecuzione (due membri della sua famiglia

erano già stati uccisi). Nel 1994, in seguito alla condanna a 2 anni e mezzo di

reclusione per tentata rapina, l’Ufficio Federale per i Rifugiati austriaco ordinava

di revocare lo status di rifugiato, mentre la Polizia Federale di Graz emetteva

ordine di espulsione dal territorio nazionale. A seguito di una serie di

procedimenti d’appello rispetto alle due misure, in ultima istanza il ricorrente

otteneva la sospensione annuale (a partire dal 22 novembre 1995) - ma

rinnovabile di anno in anno, in base all’evoluzione della situazione politica somala

- dell’ordine di espulsione. Nel frattempo, il signor Ahmed aveva inoltrato ricorso

presso gli organi del Consiglio d’Europa.

La Corte ha stabilito, nella sentenza con cui ha condannato l’Austria, che

“l’articolo 3 (...) non prevede eccezioni e non è suscettibile di deroghe ai sensi

dell’articolo 15 neanche in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della

nazione (...). Tale principio è valido anche quando l’articolo 3 sia oggetto di

esame in casi di espulsioni. Di conseguenza, le attività dell’individuo in questione,

per quanto inaccettabili o pericolose, non possono essere prese in

considerazione64”. Da cui deriva che la “(...) protezione assicurata dall’articolo 3

è pertanto più ampia di quella prevista dall’articolo 33 della Convenzione ONU

sullo status dei rifugiati del 195165”. Effetto diretto della condanna è stato

l’accoglimento dell’interpretazione della Corte da parte dei tribunali austriaci. Il 9

luglio 2002, in aggiunta, il Parlamento ha adottato un emendamento all’articolo

64 Caso Ahmed, cit., paragrafi 40 e 41. 65 Caso Ahmed, cit., paragrafo 41. L’articolo 33 della Convenzione ONU prevede infatti che: “1 Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere in nessun modo un rifugiato verso le frontiere dei

luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.

2 Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”.

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57 della legge sugli stranieri del 1997; la disposizione, nel nuovo testo, prevede

che “l’espulsione o il respingimento di uno straniero in un altro Stato sono illegali

se tali misure conducono ad una violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione

Europea dei Diritti dell’Uomo o del suo Protocollo n. 6 sull’abolizione della pena di

morte”.

Questa costruzione giurisprudenziale, complessivamente considerata, risulta

(finalmente) armonizzata con l’articolo 3, paragrafo 1 della Convenzione delle

Nazioni Unite contro la tortura del 1984, norma in base alla quale “nessuno Stato

contraente espellerà, rimpatrierà o estraderà una persona verso un altro Stato

ove vi siano dei seri motivi di credere che rischi di essere sottoposto a tortura”.

Diversa la questione affrontata nella sentenza sul caso D. contro Regno

Unito66.

Il ricorrente, un trafficante di stupefacenti, cittadino del piccolo arcipelago di

Saint Kitts e Nevis, era entrato illegalmente in territorio inglese ed arrestato

all’aeroporto di Londra – Gatwick perchè trovato in possesso di una grossa

quantità di cocaina. Sottoposto a regolare processo, era stato condannato a

scontare una pena detentiva di 3 anni in un carcere britannico. Dopo circa un

anno e mezzo dall’imprigionamento, gli era stata diagnosticata la sindrome da

immunodeficienza acquisita (AIDS), per la quale veniva sottoposto a tutte le cure

del caso. Scontata la pena, veniva rilasciato e immediatamente raggiunto da un

provvedimento di espulsione delle autorità britanniche, contro il quale si

appellava inutilmente presso il tribunale nazionale competente prima di ricorrere

agli organi di Strasburgo. Nell’atto introduttivo di quest’ultima procedura

sosteneva di essere vittima di una violazione dell’articolo 3 CEDU poiché nel suo

Paese d’origine non avrebbe potuto ricevere le cure del caso, né essere in alcun

modo assistito, essendo privo di parenti o amici (mentre al momento era seguito

da alcune associazioni di volontariato). Come prova del rischio, adduceva inoltre i

66 Corte, caso D. c. Regno Unito, sentenza 2.5.1997, Raccolta 1997.

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rilievi dell’Alto Commissariato per gli Stati Caraibici Orientali e della Croce Rossa,

che avevano messo in evidenza le gravi carenze del sistema sanitario di Saint

Kitts e Nevis. La Corte, pur osservando che “[g]li stranieri che hanno scontato la

pena della reclusione e temono un provvedimento di espulsione non possono, in

via di principio, rivendicare il diritto a restare sul territorio di uno Stato

contraente al fine di continuare a beneficiare dell’assistenza medica, sociale o di

altra natura, assicurata durante il loro soggiorno in carcere (...)67”, affermava

che a causa dell’importanza fondamentale dell’articolo 3 nel sistema di

protezione convenzionale occorreva “(...) riservarsi un’elasticità particolare

nell’applicare quella norma in situazioni diverse (...)”, con l’effetto che “non le è

(...) impedito di esaminare la doglianza di un ricorrente (...) qualora il rischio che

questi subisca trattamenti vietati nel Paese di destinazione non provenga da

circostanze che possano implicare (...) la responsabilità delle autorità pubbliche

di tale Paese o che, autonomamente considerati, non violino la disposizione in

parola68”.

La Corte, tutto ciò considerato, ha condannato il Regno Unito e attribuito al

ricorrente il diritto a continuare a risiedervi (sebbene gli rimanessero di fatto

pochi mesi di vita).

Sembra potersi affermare che nell’interpretazione e applicazione dell’articolo

3 la Corte abbia improntato le proprie decisioni, e quindi la “vitalità” della norma,

ad un carattere umanitario. In seconda battuta l’orientamento espresso dagli

organi giurisdizionali di Strasburgo ha influenzato le decisioni politiche interne di

taluni Stati membri. Il risultato è stato l’adozione di atti normativi quali la

proposta di legge italiana per l’introduzione del reato di tortura, che analizzeremo

più avanti nel dettaglio, ovvero la modifica di atti pregressi quali lo Human Rights

Act inglese del 1998, più volte rivisto, prima in un’ottica punitiva – a seguito del

concretizzarsi della minaccia terroristica – poi in una prospettiva “garantista”.

67 Caso D., cit., paragrafo 54. 68 Caso D., cit., paragrafo 49.

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Proprio quest’ultimo intervento del legislatore britannico (giunto tra l’altro a

seguito di condanne emesse dalla Corte di Strasburgo e da altri organismi di

tutela dei diritti umani) ha rappresentato la base giuridica su cui si è poggiata

una recente e molto discussa decisione degli organi giudiziari di quel Paese.

Nel febbraio del 2000 un commando di 9 uomini di nazionalità afgana, in fuga

dal regime dei Talebani (poi salito tristemente alla ribalta delle cronache di tutto

il mondo), dirottavano un Boeing 727, costringendo l’equipaggio ad atterrare

presso l’aeroporto di Stansted (non molto distante da Londra). Arrestati,

venivano condannato in primo grado (nel 2001) per dirottamento e rapimento.

Nel 2003 la Corte d’Appello annullava le condanne, e nel 2004 un Comitato

Arbitrale stabiliva che il rimpatrio in Afghanistan avrebbe costituito violazione dei

diritti umani degli imputati. Si decideva pertanto di concedere loro un permesso

di soggiorno temporaneo, mediante cui non avrebbero in ogni caso potuto

allontanarsi né peraltro ottenere un impiego, e venivano quindi trasferiti in una

residenza messa a loro disposizione dal Governo britannico. Nel 2006, infine, una

decisione della Corte Suprema ha stabilito che i permessi di soggiorno

temporaneo limitavano illegittimamente il diritto di un individuo di rimanere nel

Regno Unito e ordinava di modificare quei provvedimenti. La Corte d’Appello, in

data 4 agosto 2006, ha infine rigettato l’ultimo ricorso inoltrato contro questa

decisione.

Come risultato, i dirottatori sono stati di fatto “riabilitati” e addirittura

mantenuti a spese del Governo (e quindi dei contribuenti). Ciò che ha generato

reazioni veementi dell’opinione pubblica, e la critica trasversale delle istituzioni

politiche, compresa quella del Primo Ministro Tony Blair.

Il caso qui presentato costituisce un precedente che da più parti viene

considerato pericoloso, dal momento che sembra siano d’ora in avanti autorizzati

comportamenti normalmente considerati reati, se commessi per sfuggire a

massicce violazioni dei diritti fondamentali. Senza addentrarci in valutazioni di

merito o di opportunità, ci limitiamo ad osservare che mai alcuna sentenza della

Corte Europea ha fornito la base giuridica per la giustificazione di comportamenti

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del genere di quelli posti in essere dai 9 cittadini afgani. Ben diversa essendo la

portata dell’affermazione secondo cui non può essere espulso chi, pur avendo

commesso azioni riprovevoli, realmente rischi di subire trattamenti proibiti

dall’articolo 3, una volta giunto nel Paese di destinazione. Da un lato essendo

sufficiente una garanzia in ordine alla portata di quei trattamenti, dall’altro non

essendo mai stata valutata la posizione di chi abbia commesso gravi reati per

entrare nel territorio dello Stato convenuto, al precipuo scopo di porsi sotto la

giurisdizione di questo. Circostanza su cui appare opportuno concentrare

adeguata riflessione, affinché non si generino situazioni di abuso del diritto

(umanitario, più che umano).

7. Gli obblighi positivi a carico degli Stati membri

Col tempo, la Corte ha preso ad accompagnare la valutazione sui singoli casi

con dichiarazioni di principio aventi ad oggetto i comportamenti che lo Stato

avrebbe dovuto porre in essere per non incorrere in una condanna. Alla base

della creazione di un generale dovere di tutelare gli individui che si trovino sotto

la custodia delle autorità vi è la volontà di rendere effettiva la garanzia

dell’articolo 3 CEDU. Per la prima volta, agli inizi degli anni ’90, la Commissione

ha affermato che “(...) in una situazione (...) conseguente al ricorso alla forza da

parte della polizia, le autorità dello Stato devono, in base all’articolo 3 della

Convenzione, adottare misure volte a garantire l’integrità fisica della persona che

si trova sotto la responsabilità delle autorità (...). Uno specifico obbligo positivo

grava sugli Stati (...) al fine di proteggere l’integrità fisica delle persone private

della libertà69”.

La Corte ha poi sottolineato, in aggiunta a tutto ciò, che l’articolo 3 va letto in

combinato disposto con l’articolo 1, cosicché il “dovere generale imposto agli

69 Corte, caso Hurtado c. Svizzera, cit., par. 79. Lo Stato convenuto veniva quindi condannato sulla base del rilievo che “l’assenza di cure mediche adeguate in una simile situazione deve essere qualificata trattamento inumano”.

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Stati (...) di riconoscere ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti

e le libertà definiti richiede l’esistenza di un’adeguata inchiesta ufficiale70” sulle

condotte di cui ci si dolga. La giurisprudenza più recente si è dedicata

all’individuazione dei requisiti dell’inchiesta: premesso che questa è <adeguata>

quando “conduce all’identificazione ed alla punizione dei responsabili71”, si è in

seguito specificato che deve essere anche approfondita ed effettiva, e condotta

con diligenza e rapidità72. Ciò che più va sottolineato, l’obbligo così circoscritto ha

assunto portata autonoma: ogni qual volta una persona lamenti di aver subito

maltrattamenti nelle more di una custodia, occorre porre in essere l’inchiesta nei

termini di cui sopra, pena il riconoscimento di responsabilità per violazione

dell’articolo 3, come avvenuto ad esempio nei due recenti casi (sopra esaminati)

in cui era convenuto il nostro Paese. I signori Labita e Indelicato lamentavano di

aver subito violazioni del diritto in parola nel carcere di Pianosa; ebbene, in

presenza di riscontri quali le critiche mosse dal magistrato di Livorno e

dall’ispettorato delle carceri della Regione Toscana, la Procura di Livorno aveva

effettivamente aperto un procedimento penale nei confronti di due guardie

carcerarie, ma la Corte d’Appello di Firenze, nella sentenza emessa circa 8 anni

dopo la presentazione della denuncia, aveva derubricato il reato. La Corte di

Strasburgo, nel condannare l’Italia per non essersi conformata l’inchiesta ai

requisiti europei, sottolineava la lentezza del procedimento tanto per ciò che

concerneva le indagini quanto per i due processi, e la negligenza

nell’identificazione dei presunti responsabili.

Un’ultima, ulteriore estensione dell’ambito applicativo dell’articolo 3, con

riferimento ai c.d. obblighi positivi degli Stati contraenti, ha come effetto la

condanna dello Stato convenuto qualora non abbia garantito una prevenzione

efficace delle violazioni commesse dai privati. Il primo caso in materia riguardava

70 Corte, caso Aksoy c. Turchia, sentenza 18.12.1996, Raccolta 1996-VI, par. 96. 71 Caso Aksoy, cit., par. 96. 72 Da ultimo, così la Corte sul caso Selmouni c. Francia, sentenza 28.7.1999, Raccolta 1999.

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un ricorso presentato per violazione degli articoli 3 e 8 mediante trattamento

violento, subito da un allievo da parte del direttore di un istituto scolastico

privato. Innanzitutto è interessante sottolineare che la Corte, accogliendo

l’opinione della Commissione, affermava che in via teorica l’articolo 8 può fornire

una maggiore tutela rispetto all’articolo 3 per ciò che concerne le misure

disciplinari, sebbene nel caso in questione l’interferenza nella vita privata fosse

accettabile perchè non si erano prodotte conseguenze psico-fisiche rilevanti73. Ciò

che più ci interessa, tuttavia, era il riconoscimento, ancora in accordo con il

parere della Commissione, e sebbene solo in via teorica (essendo seguito da una

dichiarazione di non violazione dell’articolo 3 nel caso specifico), di una

responsabilità statale per le violazioni che provengano da soggetti non

direttamente riconducibili alle autorità74, non potendo delegare una così

importante obbligazione a questi ultimi: con l’effetto di applicare la Convenzione,

di fatto, anche nei rapporti tra privati.

Nel caso più recente, il ricorrente era accusato di maltrattamenti nei confronti

di un minore. Il tribunale nazionale, avendo ravvisato nella condotta gli estremi

per qualificarla come “ragionevole mezzo di correzione”, aveva prosciolto

l’imputato. Il giudice europeo, al contrario, aveva ritenuto che la stessa esistenza

di una simile causa di esclusione della responsabilità penale non assicurasse

un‘adeguata protezione dei soggetti sottoposti alla giurisdizione statale, e

pertanto condannava lo Stato per violazione dell’articolo 3, effettuando questa

volta una valutazione sul sistema legislativo vigente75.

73 Corte, caso Costello-Roberts c. Regno Unito, sentenza 25.3.1993, Serie A n. 247-C, par. 36. 74 Caso Costello-Roberts, cit., par. 27. 75 Corte, caso A. c. Regno Unito, sentenza 22.9.1998, Raccolta 1998.

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8. Il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano

La vicenda riguardante l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico (ossia,

nello specifico, nel codice penale) del reato di “tortura” sembra oggi, dopo anni di

discussioni e tentativi, in via di definizione.

La Costituzione Italiana non contiene il divieto espresso di tortura, quanto

norme a protezione dell’integrità fisica delle persone private della libertà, quali il

4° comma dell’articolo 13, che stabilisce che “è punita ogni violenza fisica e

morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” e ne fa

derivare un obbligo di incriminazione rispetto ai comportamenti proibiti. Obbligo

che ha trovato attuazione parziale, poiché nell’attuale codice penale sono

previste fattispecie come l’abuso di autorità, la violenza privata, la minaccia, che

coprono solo una parte dei comportamenti che potrebbero generare la violazione

della Costituzione. Anche rispetto alla definizione di tortura, il codice penale può

servire a rinvenire solo frammenti di questa, sparsi ad esempio nelle fattispecie

di percosse, lesioni, arresto illegale, indebita limitazione della libertà personale.

Una prima forma di pressione sul nostro Paese veniva esercitata dal Comitato

sui diritti umani istituito dal Patto sui diritti civili e politici del 1966, il quale

nell'esame dei due rapporti periodici sull'Italia sottolineava come fosse

necessario supplire a tale lacuna normativa (in adempimento del dovere di

adattare l’ordinamento nazionale all’articolo 7 del Patto).

La Convenzione ONU approvata dall'Assemblea generale il 10 dicembre 1984

e ratificata dall'Italia ai sensi della legge 3 novembre 1988, n. 498, fin qui più

volte citata, all'articolo 1 definisce il crimine della tortura come «qualsiasi atto

mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o

sofferenze, fisiche o mentali, con l'intenzione di ottenere dalla persona stessa o

da un terzo una confessione o un'informazione, di punirla per un atto che lei o

un'altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorire o

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costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro motivo fondato su

qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenza siano

inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale,

o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito». All'articolo 4 si

prevede che ogni Stato parte vigili affinchè tutti gli atti di tortura vengano

considerati quali trasgressioni nei confronti del proprio diritto penale. Lo stesso

vale per il tentativo di praticare la tortura. In aggiunta, l’articolo 16 sancisce che

“ogni Stato parte si impegna a vietare su tutto il territorio sottoposto alla propria

giurisdizione ogni altro atto costitutivo di pene o trattamenti crudeli, inumani o

degradanti, che non rientrino nella nozione di tortura definita dall’articolo 1

qualora tali atti siano commessi da un pubblico ufficiale o da qualsiasi altra

persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso

espresso o tacito (...)”. Ne deriva dunque un obbligo giuridico internazionale, che

all’epoca il nostro Paese non aveva adempiuto, fin lì essendo stato sottoposto

solo alla Convenzione Europea del 1950, che utilizzava, come più volte

sottolineato, dei termini molto meno precisi. Per di più, fin lì né la Corte di

Strasburgo né il Comitato dei Ministri avevano mai ufficialmente biasimato la

mancata introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura.

Nel 1987 l’Italia avrebbe poi ratificato (con legge 2 gennaio, n. 7) la

Convenzione europea per la prevenzione della tortura, sottoponendosi al

controllo ulteriore del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o

trattamenti inumani o degradanti.

Ciononostante, fino ai primi anni del nuovo secolo non si registravano

iniziative legislative di un certo rilievo. Il primo disegno di legge che sia stato

portato in Commissioni parlamentari era il n. 582/2001, che prevedeva

all’articolo 1 che “Nel Capo I del Titolo XII del Libro II del codice penale, dopo

l'articolo 593, è inserito il seguente:

«Art. 593-bis. - (Tortura) - Il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico

servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, dolore o sofferenze,

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fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza

persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza

persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far

pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato

su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. È raddoppiata se ne

deriva la morte.

Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio

che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente

all'impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente»”.

Una fattispecie espressa, dunque, in cui si individuava anche un soggetto

attivo particolare, ossia “il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”.

Occorre sottolineare tuttavia come ci siano voluti 3 anni prima che si iniziasse

una discussione parlamentare sull’argomento, e che negli ultimi due si sono

seguite diverse iniziative, e per ognuna di queste si sono registrate modifiche del

testo. Ad oggi, la Camera ha approvato un disegno di legge che all’articolo 1

prevede:

“Nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III, del codice penale, dopo

l’articolo 613 sono aggiunti i seguenti:

«Art. 613-bis. - (Tortura). – È punito con la pena della reclusione da tre a

dodici anni chiunque, con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti

sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti,

allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni

su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di

avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa

stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero

per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.

La pena è aumentata se le condotte di cui al primo comma sono poste in

essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.

La pena è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; è

raddoppiata se ne deriva la morte.

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Non può essere assicurata l’immunità diplomatica per il delitto di tortura ai

cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati da una autorità

giudiziaria straniera o da un tribunale internazionale. In tali casi lo straniero è

estradato verso lo Stato nel quale è in corso il procedimento penale o è stata

pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, nel caso di

procedimento davanti a un tribunale internazionale, verso lo Stato individuato ai

sensi della normativa internazionale vigente in materia”.

Sospendiamo il giudizio sulla questione, soprattutto in funzione del fatto che

al momento non si riscontra una volontà politica univoca, se è vero che il

dibattito verte ancora oggi sulla scelta circa l’individuazione, più o meno precisa,

del soggetto attivo del reato.

Quanto possiamo affermare con decisione, è fondamentale che in breve

tempo si pervenga all’approvazione di un testo di legge, non essendo più

rinviabile l’introduzione della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, anche

per il forte connotato simbolico che ha assunto la vicenda.

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