Arte veicolazione oltre l’umano_ Hölderlin, Kafka, Celan, Burroughs. Contro George Steiner

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Non è questa la sede Arte veicolazione oltre l’umano: Hölderlin, Kafka, Celan, Burroughs. Contro George Steiner. George Steiner in Linguaggio e silenzio: “La crisi della letteratura, così come lo conosciamo, ebbe inizio nel tardo Ottocento. Essa scaturì dalla consapevolezza della frattura tra il nuovo senso della realtà psicologica e le vecchie forme dell’espressione retorica e poetica. Per articolare la consapevolezza aperta alla sensibilità moderna, alcuni scrittori cercarono di uscire dai confini tradizionali della sintassi e della definizione. [...] Speravano di ridare alla parola il potere dell’incanto – di evocare cose senza precedenti – che la scrittura possiede quando è ancora una forma di magia, usando la scrittura stessa in modi nuovi per passare dal reale al più reale. [...] A uno scrittore che avverta che la condizione del linguaggio è posta in discussione, che la parola può forse perdere qualcosa del proprio genio umano, si presentano due linee di azione fondamentali: può cercare di far sì che il proprio idioma si rappresentativo della crisi generale, di comunicare tramite esso la precarietà e la vulnerabilità dell’atto comunicativo; oppure può scegliere la retorica suicida del silenzio. Le fonti e lo sviluppo di entrambi questi atteggiamenti sono visibili con estrema chiarezza nella letteratura tedesca moderna, scrittà com’è nel linguaggio che ha più pienamente incarnato e subìto la grammatica del disumano.” George Steiner è un critico che, a mio parere, arriva molto spesso vicino a verità veramente presenti, ma si ferma a una certa idea delle questioni e non affonda il colpo in me: non mi concede, come accade ai maestri, un segnale, una direzione pratica da intraprendere, nemmeno una traiettoria meditabile. Le due riflessioni desunte daLinguaggio e silenzio sono sintomatiche di un tale processo: le questioni centrali risultano essere davvero quelle affrontate da Steiner, per ciò che riguarda me e solo me; e tuttavia sarebbe tutto da rifare, se io solo avessi un briciolo di fede nella critica – il che fortunatamente non è. E’ estinto ogni discorso su quello che si pensava essere il discorso della letteratura. La letteratura, per me e soltanto per me, non è discorso. La prima questione fondamentale posta da Steiner è la supposta perdita di intercettazione e di incantamento discussa dal critico francese. La concezione di un’età dell’oro della parola scritta come veicolatrice di incantamento è un derivato dalla tradizione interpretativa che si è eretta in Occidente sui paragrafi della Poetica di Aristotele. E’ un mito diffuso e lo è perché è reale: nel senso che è così sempre, quando la parola agisce per dire le storie con ritmi appropriati. Però una simile e ingenua preassunzione, in termini storici, di qualcosa che è metastorico, come spesso LUG 13

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Non è questa la sede

Arte veicolazione oltre l’umano:Hölderlin, Kafka, Celan, Burroughs.Contro George Steiner.

George Steiner in Linguaggio e silenzio:

“La crisi della letteratura, così come lo conosciamo, ebbe

inizio nel tardo Ottocento. Essa scaturì dalla consapevolezza

della frattura tra il nuovo senso della realtà psicologica e le

vecchie forme dell’espressione retorica e poetica. Per

articolare la consapevolezza aperta alla sensib ilità moderna,

alcuni scrittori cercarono di uscire dai confini tradizionali

della sintassi e della definizione. [...] Speravano di ridare alla

parola il potere dell’incanto – di evocare cose senza

precedenti – che la scrittura possiede quando è ancora una

forma di magia, usando la scrittura stessa in modi nuovi per

passare dal reale al più reale.

[...] A uno scrittore che avverta che la condizione del linguaggio è posta in discussione,

che la parola può forse perdere qualcosa del proprio genio umano, si presentano due

linee di azione fondamentali: può cercare di far sì che il proprio idioma si

rappresentativo della crisi generale, di comunicare tramite esso la precarietà e la

vulnerabilità dell’atto comunicativo; oppure può scegliere la retorica suicida del silenzio.

Le fonti e lo sviluppo di entrambi questi atteggiamenti sono visib ili con estrema

chiarezza nella letteratura tedesca moderna, scrittà com’è nel linguaggio che ha più

pienamente incarnato e subìto la grammatica del disumano.”

George Steiner è un critico che, a mio parere, arriva molto spesso vicino a verità veramente

presenti, ma si ferma a una certa idea delle questioni e non affonda il colpo in me: non mi

concede, come accade ai maestri, un segnale, una direzione pratica da intraprendere, nemmeno

una traiettoria meditabile. Le due riflessioni desunte daLinguaggio e silenzio sono sintomatiche di

un tale processo: le questioni centrali risultano essere davvero quelle affrontate da Steiner, per ciò

che riguarda me e solo me; e tuttavia sarebbe tutto da rifare, se io solo avessi un briciolo di fede

nella critica – il che fortunatamente non è. E’ estinto ogni discorso su quello che si pensava essere

il discorso della letteratura. La letteratura, per me e soltanto per me, non è discorso.

La prima questione fondamentale posta da Steiner è la supposta perdita di intercettazione e di

incantamento discussa dal critico francese. La concezione di un’età dell’oro della parola scritta

come veicolatrice di incantamento è un derivato dalla tradizione interpretativa che si è eretta in

Occidente sui paragrafi della Poetica di Aristotele. E’ un mito diffuso e lo è perché è reale: nel

senso che è così sempre, quando la parola agisce per dire le storie con ritmi appropriati. Però una

simile e ingenua preassunzione, in termini storici, di qualcosa che è metastorico, come spesso

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accade al discorso ideologico, rovescia la tranquillità, concessa dal fatto di avere alle spalle una

tradizione, in una profezia che non ha nemmeno l’energia per autoavverarsi. Nell’atto semplice di

scrittura e in quello di lettura avviene sempre l’incanto, istantaneamente nell’istante che non lo è

perché esce dal tempo (che tempo è quello in cui ho letto prima alcuni versi da Fuoco pallido di

Nabokov? E ora che sto trovando il mio pensiero nella scrittura, che momento è questo? E’ un qui

e ora continuo, non legato un qui e ora a un altro qui e ora da alcuna catena mnemonica in cui la

mia mente si identifica, sebbene io sia liberissimo di ricordare e di vedermi l’immagine del

faccione di Steiner… Sento incanto, non avverto discorso, inciampo nel pensiero, lo restituisco

senza accorgermi…).

La pratica magica è tale perché è umana e non è culturale. La magia è vera nell’inqualificabile

istante in cui esonda dall’apparato culturale magico. Questa disillusione contemporanea, che fa di

Leopardi un contemporaneo parecchio più profondo di Steiner, non prelude affatto a una crisi

suppostamente ontologica della scrittura: fare coincidere storia e ontologia è proprio la radice

dell’ideologia che contagia assai nella modernità, e da cui lo stesso Steiner non è immunizzato –

anzi, è uno dei più spettacolari (nell’avanspettacolo che costituisce perfino la grande critica oggi, e

figuriamoci quella piccina…) veicolatori patogeni.

Ciò, per asserire che non è nella disillusione rispetto alle possibilità della storia in assoluto che va

collocandosi il mito della crisi. Sarà piuttosto maggiormente vero di quanto sospetta Steiner

quanto accenna circa le retoriche. Le retoriche sono infatti configurazioni storiche e, in quanto tali,

transeunti. Poiché la tragedia configurata esprime una retorica, è fonte di disillusione storica

ritentare la forma incantatoria della tragedia configurata; è altresì incantevole il porsi nello stato

(nel punctum , che Hölderlin pone allo zero) del tragico, che non è la valva conformata della tragedia

o della forma espressiva con cui si vede il tragico stesso, attraverso appunto una determinata e

storica configurazione tragica. La scrittura, la narrazione, il romanzo, il poema – tutte configurazioni

di stati di coscienza umani che, quando la configurazione è libera da determinati impacci (circa i

quali non è qui la sede di argomentare), raggiungono la possibilità di fare trapassare l’umano al di

fuori dell’umano. “Al di fuori dell’umano” significa qui “all’interno dell’umano”, ovverosia nell’istante

puro che è nel tempo, nelpunctum continuo del tempo che scorre. E’ l’al di là del “confine” tracciato

da Kafka. A dispetto del recettore nervoso Steiner, questa possibilità di incanto, che corrisponde al

tragico in quanto passaggio da uno stato di coscienza qualificato a uno meno qualificato, ha le sue

immagini. Burroughs, per esempio, vede la possibilità e anzi la necessità che sia

“tempo di guardare oltre questo pianeta in esaurimento, radioattivo, percorso in lungo e

in largo da poliziotti”,

la quale è una precisa immagine che ha un recto e molti versum. Questa immagine di fuoriuscita

dalla totalità dell’ambiente umano è propriamente una visione dell’indentramento in un ulteriore

stato di coscienza, di cui suppongo non si sia consapevoli sia della grammatica sia ovviamente

della retorica che gli sono preposte. L’intera critica burroughsiana non comprende cosa Burroughs

stia dicendo, quando va preludendo, probabilmente, alla fine della fonazione esterna e a uno stato

coscienziale di fonazione interna, a cui dà forma con i continui riferimenti all’allucinazione collettiva

e condivisa, oppure alla telepatia.

Esiste un versum di questa immagine. Sta in Celan:

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“TUBINGA GENNAIO

A cecità con-

vinti occhi.

Il loro – ‘enigma

è un’origine pura’ -, il loro

ricordo di

torri Holderlin riflesse, tra

gabbiani sfreccianti.

Visite di falegnami affogati

con queste inabissanti

parole:

Venisse,

venisse un uomo,

venisse al mondo un uomo, oggi,

con la barba di luce che fu

dei patriarchi: potrebbe,

se parlasse di questo

tempo, solamente

bal- balbettare

conti-, conti-,

nuamente, mente.

(‘Pallaksch. Pallaksch’).”

L’ultimo verso incarna la soluzione a cui guarda Burroughs: è la mutazione dello stato di

coscienza. “Pallaksch” è infatti una parola che spesso, negli ultimi tempi prima di morire, Hölderlin

pronunciava, avendo essa il significato di “sì” o indifferentemente di “no” a seconda dell’intenzione

del pronunciante. Questa lingua neotenica è a sua volta il futuro del balbettio del supposto

patriarca che vede l’attuale tempo e può solo balbettare se vuole parlare all’interno di questo

tempo: e, poiché Celan stesso nella poesia balbetta, quel patriarca è lui: cioè “io”. La scena è tutta

“io” ed è a una trasformazione enigmatica di “io” che si allude.

E’ nella coscienza umana che si gioca la possibilità della magia trasformativa di un’arte che è

anche esoantropica: non schierata contro l’umano, ma disponibile a qualunque organismo in

grado di accedere allo stato di coscienza che attende il superamento completato delle retoriche e

delle poetiche fonatorie esterne.

Questa scena è il movimento del tragico.

La consapevolezza rende Padri, nel senso che si è in grado di parlare o indietro o in avanti, ma non

di parlare fonatoriamente “in questo tempo”, cioè adesso, nel qui e nell’ora. In questo movimento

disegnato da Celan, va all’aria la postura rigida che Steiner incarna: visto che è come se dicesse,

lo Steiner, che mancano i maestri, mentre i maestri ci sono sempre, solo che parlano una lingua

tesa a un “successivo” stato di coscienza, a cui l’arte veicola. E i presenti, i viventi del presente che

tentano di mantenere nel presente ciò che viene detto fuori dal tempo presente, percepiscono un

balbettio: non intendono.

Il confronto non è più dialettico: è tra storia ed enigma, ma non è più un confronto dialettico. La

citazione interna alla poesia di Celan è tratta da Hölderlin:

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“E’ un enigma ciò che puro sgorga”

e la purezza corrisponde proprio all’assenza di impacci, di cui qui non è la sede di trattare.

Un’origine ripetuta, priva di impacci, o, se si vuole, al punto-zero, è ciò a cui indefinitamente allude

la poetica e di Celan e di Burroughs e di Hölderlin, che è la medesima nonostante le differenze

retoriche misurate con il metro di un tempo in cui quei testi faticano a collocarsi e, al limite,

balbettano forzosamente, se proprio devono parlare nel tempo che non appartiene loro.

Da una simile prospettiva, è semplicemente insostenibile il bivio di soluzioni che Steiner propone

al punto di crisi: o il metadiscorso sulla crisi (cioè l’espressione della crisi stessa) oppure “la

retorica suicida del silenzio”. La prima soluzione è sociologica in questo senso: è tutta nella storia

vissuta ed etichettata, è condensata ideologicamente, è espressiva secondo le retoriche della crisi

stessa. Andrà bene per i manuali o i musei organizzati secondo la progressione desunta dallo

hegelismo. La seconda scelta è tutto tranne che una retorica suicida. Che sia una retorica da

essere scelta non v’è dubbio: finché si va in uno stato di coscienza qualificato, si ha a che fare con

forme, cioè con rapporti, e dunque con retoriche, che altro non sono che potenze di rapporto tra

oggetti incorporei inerenti qualunque àmbito formale (universi paralleli, regni di sogno, etc.).

Tuttavia il silenzio abolisce la retorica, non ha retorica. Non c’è rapporto nel silenzio: con cosa ci

sarebbe infatti distanza nel silenzio? L’indefinito attendere del pittore zen, che aspetta silenzioso

che la forma sia fatta ovverosia che essa si faccia, non esprime nessuna retorica; il segno sulla

tela esprime una plausibile retorica, che però è sempre allusiva al vuoto del silenzio in cui il pittore

zen era immerso mentre attendeva pulendosi dagli impacci, cioè unificandosi con se stesso,

poiché nel silenzio non c’è l’altro, essendoci l’altro al suo acme, che è il medesimo: l’essere in

comune viene denudato e si accede al medesimo che si è sotto le vesti individuali.

Qui ha ragione Steiner, quando osserva che in Kafka

“il prob lema del silenzio è posto nei termini più radicali”,

poiché, il 6 ottobre 1915, lo stesso Kafka descriveva questo processo mutatorio a spirale, questa

falsa tautologia che non produce l’espressione, ma permette di ricongiungersi all’inqualificato che

è il medesimo:

“Credo che il rumore non possa più disturbarmi. E’ vero che adesso non lavoro. Certo,

quanto più profonda si scava la fossa, tanto più silenzio si ottiene, quanto meno si

diventa timidi, tanto più silenzio si ottiene”,

laddove la metafora è letterale (poiché questo accade nell’allusione, nel movimento tragico che è il

passaggio da uno stato di coscienza fortemente qualificato a uno che prelude all’inqualificato: la

metafora si fa letterale), e l’essere “timido” è l’essere “in timore” e il timore allude letteralmente a

una separatezza, in quanto il medesimo non è separato da alcunché e dunque, estinguendo il

timore, si approda al medesimo stesso, che è silenzio.

Questo passaggio di stati di coscienza a gradi di qualificazioni (o di pesantezza) tanto differenti,

che è il movimento e la scena del tragico, non può venire compreso oggi, se l’atteggiamento è

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quello di George Steiner, il quale, proprio a proposito di Celan, ammette a chiare lettere (non è

un’ammissione intenzionale; sono io a leggerla come ammissione sintomatica):

“In se stesse, le parole sono di una nuda semplicità. E tuttavia non possono essere

elucidate da riferimenti pubblici. Allo stesso modo, la poesia nel suo insieme non

consentirà un’unica parafrasi. Non è chiaro se Celan cerchi di ‘essere capito’, se la

nostra comprensione abbia qualche peso sulla causa e la necessità della sua poesia.

Nel migliore dei casi, la poesia consente una sorta di orb ita o di grappolo di possib ili

reazioni, di letture tangenziali, di ‘echi scheggiati’. I significati dei versi di Celan sono

ambigui ed ermetici.”

E ambigui ed ermetici sono i significati delle frasi di Kafka o di quelle di Burroughs. L’ambiguità

altissima essendo propriamente una delle cifre percepibili della presenza del tragico. La letteralità

in sé e per sé, se riguardata attraverso le retoriche che, via via nel corso del regno umano sul

pianeta, vanno fossilizzandosi, è la massima ambiguità:

“Il Regno dei Cieli è dentro di voi.”

significa cosa? Come fa l’esterno superno per antonomasia (la quale antonomasia è una retorica)

a essere dentro di noi (il quale dentro è un’immagine e dunque una retorica)?

La letteralità è il veicolo per lo stato di coscienza che succede a questo, esaurito e radioattivo, in cui

ci parliamo.

La letteralità è il cerchio magico.

Il 6 ottobre 1983, William S. Burroughs rilasciò in quel di Minneapolis un’intervista a Nicholas

Zurbrugg, rimasta inedita fino al 2001 e attualmente intradotta in italiano. Vi si legge:

“E’ possib ile leggere il tuo lavoro attuale come una specie di sintesi e qualcosa di

lievemente più moderato dei tuoi scritti precedenti?

Direi di sì. Certamente è accessib ile. Chiunque può capirlo – o comprenderlo in parte,

in ogni modo. Tuttavia ritengo che molti lettori non realizzino che io intendo

precisamente ciò che dico.

Vuoi dire che il tuo lavoro va preso letteralmente?

Assolutamente sì.

E questo si applica anche alla nozione del nostro destino nello spazio cosmico?

Assolutamente sì – io intendo dire questa cosa secondo letteralità.”

La letteralità non è un mascheramento, perché non è un’allusione a un qualcosa che viene alluso.

E’ un’allusione a un vuoto che pare uno spazio abitabile prima di essere compreso che si è lo

spazio abitabile tutto. E’ un’allusione a uno stato di coscienza più pallidamente qualificato.

La letteralità è ambigua perché non nasconde nulla: è l’infinità espressa, il qui e ora in cui si è

consapevoli del qui e ora, la fonazione abolita, la mente dialettica trascesa per balzi quantici,

l’uscita dall’umano, cioè dall’io, laddove l’”io” sa di essere, senza essere “io”. Letteralmente:

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“Trascinato fino alla

terra

dall’infallib ile scia:

prato, diviso in due dallo scritto. Le pietre, b ianche,

con l’ombra di steli:

non leggere più – guarda!

non guardare più – va’!

Va’, la tua ora

non ha sorelle, tu sei -

sei ritornato a casa. Una ruota, a fatica,

gira da sé, i raggi

si arrampicano,

si arrampicano su un campo nerastro, la notte

non è priva di stelle, in nessun luogo

si domanda di te.”