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Arte sacra e Arte profana “La conoscenza (...)è il bene sommo cui l’uomo può tendere sulla terra contro l’ignoranza - madre di tutti i vizi - che lo vincola alla tirannia del corpo e delle passioni”, scrive Valeria Schiavone nell’introduzione al Corpus Hermeticum da lei tradotto. Ermete Trismegisto, autore di tanto sapere, fondò una scuola - chiamata Ermetica - per iniziare alle Arti, alle Scienze e alla Filosofia coloro che si facevano ricettivi a quel linguaggio. “Seminai in loro i ragionamenti della sapienza ed essi furono nutriti con acqua d’ambrosia”, scriverà Toth-Ermete riferendosi a quel ristretto numero di discepoli che, divenuti i tenutari di tale conoscenza, seppero poi esprimersi nel campo delle arti, delle scienze e delle lettere con ineguagliabile maestria. Il suo insegnamento era aperto a tutti ma, per combattere ignoranza, incredulità e scetticismo, fu chiesto ai discepoli di utilizzare il silenzio come potente arma difensiva e di custodire nel cuore quelle conoscenze. Nacque così la necessità di velare dietro a frasi emblematiche, a personaggi mitologici ed a simboli, delle verità che l’uomo “naturale” o “profano” - così definito da San Paolo nella sua lettera ai Corinzi (6:16) - non sarebbe mai stato capace di intendere e giudicare. Il termine “profano” deriva dal latino “pro” che vuol dire “fuori” e da “fanum” che significa “santuario”, “tempio.” Quindi si parla di un “luogo sacro” e di coloro invece che ne stanno “al di fuori” perché non hanno la mentalità giusta per accedervi e per capire. Entrare dentro al Tempio vuol dire accogliere con la massima attenzione la parola del Maestro; nel caso contrario, come afferma Ermete Trismegisto nel suo Trattato, quella stessa parola “volerà via alta, fluirà altrove, anzi rifluirà su se stessa e si confonderà con l’acqua della sua fonte”. 1

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! ! ! Arte sacra e Arte profana

“La conoscenza (...)è il bene sommo cui l’uomo può tendere sulla terra contro l’ignoranza - madre di tutti i vizi - che lo vincola alla tirannia del corpo e delle passioni”, scrive Valeria Schiavone nell’introduzione al Corpus Hermeticum da lei tradotto.Ermete Trismegisto, autore di tanto sapere, fondò una scuola - chiamata Ermetica - per iniziare alle Arti, alle Scienze e alla Filosofia coloro che si facevano ricettivi a quel linguaggio. “Seminai in loro i ragionamenti della sapienza ed essi furono nutriti con acqua d ’ambros ia” , s c r iverà Toth-Er mete riferendosi a quel ristretto numero di discepoli che, divenuti i tenutari di tale conoscenza, seppero poi esprimersi nel campo delle arti, delle scienze e delle lettere con ineguagliabile maestria.Il suo insegnamento era aperto a tutti ma, per combattere ignoranza, incredulità e scetticismo, fu chiesto ai discepoli di utilizzare il silenzio come potente arma difensiva e di custodire nel cuore quelle conoscenze.Nacque così la necessità di velare dietro a frasi emblematiche, a personaggi mitologici ed a simboli, delle verità che l’uomo “naturale” o “profano” - così definito da San Paolo nella sua lettera ai Corinzi (6:16) - non sarebbe mai

stato capace di intendere e giudicare.Il termine “profano” deriva dal latino “pro” che vuol dire “fuori” e da “fanum” che significa “santuario”, “tempio.” Quindi si parla di un “luogo sacro” e di coloro invece che ne stanno “al di fuori” perché non hanno la mentalità giusta per accedervi e per capire.Entrare dentro al Tempio vuol dire accogliere con la massima attenzione la parola del Maestro; nel caso contrario, come afferma Ermete Trismegisto nel suo

Trattato, quella stessa parola “volerà via alta, fluirà altrove, anzi rifluirà su se stessa e si confonderà con l’acqua della sua fonte”.

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Quando entriamo in una Cattedrale gotica con una certa preparazione dottrinale, ci accorgiamo che la sua struttura architettonica, le sue statue, le decorazioni absidali, le forme geometriche del pavimento e delle pareti, hanno un loro linguaggio: tutto è stato volutamente improntato al simbolismo, per preservare quel “tempio” dalle forze arcane disgregatrici che avrebbero potuto intaccare la purezza sacrale del luogo.Stessa cosa quando entriamo in un giardino alchemico. Per molti può sembrare solo una passeggiata tra bei viali, statue e fontane, ma quando sappiamo che lì vi era un labirinto e un percorso preciso da seguire, capiamo che anche l’entrata in un giardino può nascondere un antico messaggio sapienziale.L’Arte, quella vera, si è quindi sempre avvalsa di simboli chiari, per chi sapeva decifrarli, e molto oscuri per chi, per ignoranza o malafede, era portato a trascurarli, banalizzarli o addirittura occultarli. “Le arti nacquero dalla religione. Fu per ornare i templi e i sacri recinti che la scultura e la pittura fecero le loro prime prove(...)Nei più antichi monumenti dell’India e dell’Egitto, come in quelli del Medioevo,

l’architettura, la statuaria e la pittura sono le espressioni materiali del pensiero religioso”, afferma lo storico Frédéric Portal nel suo libro “Sul simbolismo dei colori, nell’Antichità, nel Medioevo e nell’Età moderna”. L’arte è uno dei mezzi più potenti per portare un messaggio di perfezione e bellezza, ma prima di tutto bisogna avere chiaro cosa s’intende per “bellezza” e a quali canoni precisi questa parola si riferisce. Ottorino Pianigiani, cultore di linguistica, avvicina l’aggettivo “bellus”, “bello” al termine “bonus”, “buono” ed a “benus”, “bene”.Bellezza e bontà, come Ermete Trismegisto ci ricorda, sono due attributi divini che si rifanno a precise qualità spirituali e che l’artista in

qualche maniera deve arrivare ad assimilare.

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Ecco perché nella sua scuola, l’artista veniva prima Iniziato allo studio della Dottrina Ermetica, poi poteva esprimersi in ogni forma d’arte che il suo estro gli consentiva.Nell’Antico Egitto la crescita artistica del pittore e dello scultore avveniva all’interno di severe scuole specializzate. L’esempio da imitare era un modello ideale divino e la tecnica adottata si basava, oltre che su un insieme di norme codificate che dovevano dare la proporzione alla figura, anche sulla conoscenza del colore e del suo simbolismo.Mettendo in pratica l’assioma ermetico “com’è in alto, così è in basso”, la pittura seguiva un ordine geometrico raffigurativo che trovava nette risonanze con un preciso ordine divino. Il pittore sapeva bene che ogni pigmento che proveniva dai tre regni

(animale, vegetale e minerale) era vivo ed aveva un’anima e che era la sua mano a caricarlo di una buona o cattiva energia; ecco perché in Egitto il promettente artista veniva cresciuto fin da piccolo con una cultura religiosa dai precisi significati simbolici.Quindi, per arte allora si intendeva solo Arte Sacra, quella che si insegnava dentro al Tempio e che si esprimeva in pitture, sculture ed architetture che ancor oggi sbalordiscono per la loro originalità ed intramontabile bellezza.Prendendo come esempio l’inestimabile tesoro

artistico che gli Egizi ci hanno lasciato, possiamo ben capire che avvicinarsi ad un modello unico ed immutabile, quindi “divino”, e a p p ro fo n d i r n e l e c o n o s c e n ze simbolico-religiose, non vuol certo dire limitare il proprio slancio di libertà creativa, ma al contrario entrare in un mondo di relazioni e risonanze che può condurre ad ineguagliabili risultati.L’espressione artistica deve essere libera, ma non anarchica.

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“Sbaglia e induce in errore l’artista che con il pretesto dell’arte ci offre tutto ciò che in lui affiora quando è preso dalla sua ispirazione” afferma Pavel Florenskij ne “Le Porte Regali”.

Secondo il teologo russo, che nella prima metà del XX secolo dedicò gran parte dei suoi studi a profonde riflessioni sulla pittura iconografica, l’arte é un’attività della coscienza ed è strettamente legata alla mistica.I canoni de l la p i t tura i conog rafica rispecchiano fedelmente quelli pittorici dell’arte egizia, ma in questo caso il modello da imitare è Gesù Cristo, e subito dopo la Vergine Maria ed i Santi che hanno seguito i suoi insegnamenti.L’ascesi spirituale è fortemente influenzata dai colori ed è per questa ragione che gli artisti iconografi cristiani stabilirono dei canoni precisi da seguire secondo uno studio accurato sulla “morale dei colori” e sulla giusta combinazione tra loro.

Secondo Pavel Florenskij “i pittori di icone non sono gente ordinaria” ed aggiunge che la prima qualità che devono acquisire è l’umiltà. Inoltre ricorda quanto è importante una serietà di comportamento: non essere ciarlieri, litigiosi o invidiosi e il saper mantenere la purezza del corpo e dell’anima. Un’icona - afferma il grande teologo - non si dipinge come capita o con i mezzi che capitano: niente è casuale. A seconda del materiale che si utilizza, della tecnica adoperata, della scelta cromatica giusta e della forza interiore che il pittore iconografo vi ha saputo trasmettere, una comune “tavola dipinta”, può diventare - come afferma Florenskij - uno strumento di conoscenza soprannaturale, “l’immagine o il riflesso del mondo degli archetipi, delle essenze supreme sovracelesti”.Portal fa una netta distinzione tra arte sacra e arte profana. Egli ribadisce che il linguaggio sacro prende origine nei Santuari, e che è questa sacralità a dettare le regole del simbolismo nell’architettura, nella scultura e nella pittura. Parole molto dure invece riserva al linguaggio artistico “profano” che, non tenendo conto dell’importanza del simbolismo, ha ridotto l’arte a

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“cibo per bestie” imprigionando l’umanità nella materializzazione più completa.“Man mano che una religione si allontana dal suo principio - si degrada e si materializza - dimentica il significato dei colori” e tutto pian piano si perde.In effetti basta guardarsi intorno per capire a quale livello di “tossicità” questo allontanamento da Dio ci ha portato e ci sta portando.Sembra che adesso siano rimasti solo gli “organizzatori pubblicitari” a ricordare che esiste un simbolismo del colore. I pubblicitari indicono statistiche, fanno sondaggi per capire se uno è più ricettivo ad un colore o ad un altro, e questo non certo per far evolvere spiritualmente l’umanità, ma solo per meglio vendere il loro prodotto: hanno capito che utilizzando certi gruppi di colori il compratore è indotto a quell’acquisto.Questa perdita dell’intima conoscenza di un simbolo e del suo significato cromatico, non lo avvertiamo solo oggi, ma è stato il risultato, come afferma il Portal, di una lento allontanamento dal modello cristico e di una caduta nell’anarchia, nell’istintività, passionalità ed irrequietezza.Se andiamo a leggere la vita di grandi artisti del passato, capiamo che molti di loro erano mossi da un travaglio emotivo che li portava a sperimentare tecniche nuove in uno slancio di creatività che però li allontanava sempre di

più dai canoni antichi e da un’intima ricerca spirituale.Un esempio chiaro di quello che stiamo affermando lo troviamo nella vita di Vincent Van Gogh, geniale pittore olandese, che ha lasciato impresso sulle sue tele gli effetti di quella sofferenza. Vincent fu veramente un personaggio singolare, mosso da una grande sensibilità artistica. I suoi studi improntati alla teologia lo avevano portato a ritirarsi negli eremi ed al tempo stesso a far conoscere la parola del Vangelo all’interno delle miniere, ma il suo travaglio mistico era pieno di crisi e di incertezze.

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Van Gogh, non conoscendo la potenza che si nasconde dietro ad un colore, andava a sperimentare tonalità cromatiche che aumentavano sempre più la sua nevrosi. Note sono le lettere che scriveva al fratello in cui si poteva leggere tutta la sua irrequietezza ed ansietà: “Non seguo alcun s i s tema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali. Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là, angol i tota lmente incompiut i , ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, per non fare la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica...”.Anche per quanto riguarda il colore la sua ricerca era disordinata. Quando descrive al fratello le tonalità cromatiche che ha messo nel quadro della sua camera da letto ad Arles, è lui stesso a definirle “piatte, date grossolanamente

senza sciogliere il colore”, denotando un’impazienza espressiva sempre più violenta che pian piano poi lo porterà a compiere gesti sconsiderati che lo condurranno al suicidio.Se lui avesse conosciuto il simbolismo dei colori ed a quali malattie può condurre la scelta di un colore grossolano e piatto, sicuramente la sua vita sarebbe trascorsa diversamente.Ad esempio il giallo - che Van Gogh amava molto - quando è nella sua

tonalità dorata è sintomo di alta intellettualità, franchezza, coraggio e volontà; se poi è un giallo chiaro brillante, luminoso, la predisposizione è verso finalità altruistiche elevate. Ben differente è invece l’utilizzo di un giallo cupo, materiale o giallo pallido: in questo caso la predisposizione è per un intelletto orientato verso il basso, verso scopi egoistici che comportano vizi terribili come tradimento, gelosia ed invidia.Anche la vita ed i quadri del Caravaggio, uno degli artisti più innovativi del suo tempo, fanno riflettere.Siamo alla fine del XVI secolo quando ancora la Dottrina Ermetica era il “mare magnum” della conoscenza, eppure anche in questo periodo, nel

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campo della pittura, non mancano esempi di pittori che pur seguendo quella sana corrente artistico-culturale, si allontanano dal vero sapere e vanno a

produrre opere di valore per l’originalità e la maestria, ma che non rispondono più ai canoni sacri insegnati dalla Dottrina Ermetica.Il cardinale Francesco del Monte, ambasciatore dei Medici a Roma, nel 1597 commissionò al Caravaggio il soffitto della distilleria nella quale spesso si ritirava per dedicarsi ai suoi studi di Alchimia. In quel dipinto murale, che raffigura “Giove, Nettuno e Plutone”, pur essendovi chiari riferimenti ad una buona conoscenza ermetica, si capisce che il pittore era ben lontano da averla assimilata. L’atteggiamento concitato di quelle figure e l’utilizzo di tonalità di luci ed ombre così forti e contrastanti, caricano la scena di una drammaticità che poco invita ad un pensiero di elevazione interiore, quale avrebbe dovuto essere.Il Caravaggio, pur essendo grandioso per le luci e la precisione della sua pennellata, denota un temperamento irrequieto e pieno di contrasti che sfocia in un naturalismo eccessivo e spesso grossolano

e quindi profano.Anche quando ritrae San Pietro, lo raffigura in maniera fin troppo reale: un pescatore dalle mani callose e le braccia nerborute, che non ha niente a che vedere con il “pescatore d’anime”che Gesù aveva scelto.Il colore che il Caravaggio sembra prediligere è il rosso, ma anche questa tinta se non viene utilizzata nella tonalità giusta, conduce nella direzione sbagliata.Il rosso è il colore dell’amore spirituale, inteso anche come fuoco d’amore che purifica; se poi vira al cremisi, è indice di manifestazione d’amore ad alti livelli. Quando invece il rosso si accompagna al nero e va a fondersi in un rosso livido-sanguigno, è facile cadere in basse vibrazioni, s inonimi di sensualità, collera, irritabilità, avarizia: vizi che imprigionano l’anima.

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Purtroppo dobbiamo constatare che, nonostante i grandi artisti che la nostra terra di Toscana e d’Italia ci ha dato, c’è stata una progressiva discesa verso un’espressione artistica sempre più materiale.“Quanto più l’artista vive la religione, tanto meglio è preparato a parlare il

linguaggio dell’arte, ad intenderne l’armonia, a comunicare i fremiti”. Queste parole, pronunciate da Pio XII, sono veritiere, ma bisogna capire meglio a che tipo di religiosità si voleva riferire. Non è una religiosità comune, tiepida o bigotta quella che porta l’artista a diventare lui stesso il tramite tra Cielo e Terra e compiere opere che abbiano il potere di innalzare l’animo al Divino: ci vuole molto di più. Vedremo che la storia dell’arte è

ricca di pittori che hanno operato all’interno della Chiesa producendo opere che tutto il mondo ci invidia, ma solo pochissimi hanno saputo mantenere gli antichi canoni sacrali. Con Giotto, agli inizi del Trecento, l’arte cominciò a perdere la finalità di perfezione morale e a cadere nel profano: la ricerca sempre più approfondita del particolare e l’eccessiva umanità delle scene, portarono a dimenticare il linguaggio sacro dei simboli e dei colori. Con la scuola di Giotto, la Vergine Maria scese dal suo trono regale e si mescolò alla vita quotidiana in attitudini di estrema semplicità. Anche Ambrogio Lorenzetti e il Cimabue, pur tenendo conto degli antichi schemi pittorici, seguiranno quella stessa tendenza. Il Cimabue ed il Beato Angelico, attingeranno dai mistici cristiani bizantini l’arte del simbolismo del colore, ma solo in parte poi riusciranno a metterla in pratica.Nel primo Rinascimento la Vergine Maria perderà ancora di più il suo rango di Madre Divina e verrà ritratta in atteggiamenti familiari mentre cuce, fila, scrive o prega. Questo voler continuamente abbassare la sua figura ad un

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ruolo puramente umano, porterà un allontanamento dai principi teologici dell’Arte Sacra e ad una lenta demolizione anche dei canoni tradizionali dell’arte pittorica iconografica.E’ il cardinale Celso Costantini che nel suo libro “L’istruzione del S.Offizio sull’Arte Sacra”, edito a Roma nel 1952, r iporta queste dolorose constatazioni ed allarga il suo grido di allarme anche per l’arte bizantina: “L’arte bizantina, a man mano, diventa un’industria, e ripete con stanchezza lungo i secoli del medioevo gli antichi modelli: l ’anima non palpita più in queste figure stereotipate”. L’arte iconografica russa per diversi secoli ha

resistito a questo deleterio “contagio” e fino XVI secolo ha saputo conservare quella varietà nutrita di colori, con il loro simbolico significato, capace di trasformare un comune pittore in un vero “artista”. Lo storico Nikolai Sergeyevich Trubetzkoy, nel suo “Studio sulle icone” ricorda che i grandi pittori iconografi erano profondi osservatori e che il loro sguardo andava al di là di questo mondo materiale per spalancarsi sui colori di un “cielo ultraterreno” che contemplavano con gli occhi della mente e che viveva nell’intimo del loro cuore: gli stessi colori-luce che i santi della nostra cristianità avevano a loro volta sperimentato.Il prototipo di pittore a cui accennava Pavel Florenskij, non era certo lontano da queste mistiche esperienze e viveva, studiava e pregava per poter entrare in comunione con quei colori-luce.Anche se arrivare a cogliere l’essenza di quei colori non è un’ esperienza per tutti, è importante intanto cominciare a conoscere il significato di quelli che sono sotto i nostri occhi. L’artista deve essere libero di creare, ma al tempo stesso deve educarsi, non può dipingere ignorando la forza e le proprietà che i colori hanno sulla coscienza umana e i loro effetti quando vengono combinati. Si può dipingere un oggetto qualsiasi, ma l’importante è che sia inserito in una scena pittorica che rispecchi un ideale, un messaggio cristico da portare

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all’Umanità e soprattutto che la scelta dei colori cada su quelli che possono produrre un effetto spirituale, trasformante, anche su chi li osserva.Nel campo dell’arte la storia del genere umano ha visto avvicendarsi una varietà infinita di artisti, da quelli che sono rimasti pietre miliari per la risonanza delle loro opere, a quelli meno conosciuti che però lo stesso hanno lasciato un segno. Stili, tecniche, mode, percorsi artistici differenti che poi hanno condotto nel XX secolo alla pittura metafisica, all’astrattismo, al cubismo ed al surrealismo in uno sforzo spasmodico, irrequieto di ricerca dei

segreti della scienza pittorica.Di Giorgio de Chirico, uno dei massimi esponenti della metafisica, sappiamo che stava giorni e giorni a ricercare, come un alchimista nel suo laboratorio, “quella materia che, mescolata ai colori, avrebbe creato il corpo della pittura”.Anche il grande Pablo Picasso, non trovò posa nella sua arte. Da periodi artistici in cui utilizzava colori freddi che tendevano all’azzurro cupo-turchese, poi passò a policromie come gli “arlecchini”, ma sempre creando atmosfere malinconiche che nemmeno quelle tonalità più accese riuscivano a temperare. Con il cubismo arrivò a scomporre l’immagine visibile,

frantumandola e ricomponendola in vari modi, rifacendosi a quel procedimento ermetico di “soluzione e coagulazione”, che gli alchimisti ben conoscevano, ma la gamma cromatica era quella dei grigi e delle ocre scure.Vite travagliate e irrequiete di artisti che non si accontentavano solo di apporre la loro firma in fondo al quadro: avevano capito che esiste una Scienza pittorica, che sfuggiva loro, ed in qualche maniera la stavano ricercando.Nell’arte iconografica, tutto questo non succede. Il pittore iconografo non firma mai le sue opere, ma infonde in queste qualcosa che a guardarle induce all’introspezione, al silenzio e all’armonia. Pavel Florenskij, nel suo ultimo libro “Non dimenticatemi”, lettere scritte dal gulag staliniano nel quale trovò la morte l’8 dicembre 1937, seppe portare

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fino in fondo le sue idee sulla sacralità dell’Arte, aprendosi anche alla speranza che certe antiche conoscenze prima o poi sarebbero riemerse.Ecco le sue ultime parole: “Niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo”.Oggi esistono testi interessanti che avviano allo studio del simbolismo

tradizionale cromatico, come quello già menzionato di Frédéric Portal, scritto verso la fine del XIX secolo in un momento in cui stava per scomparire quel Sapere, ed uno più recente: “L’Icona, i Colori e l’Ascesi Artistica” di Tommaso Palamidessi che introduce nel mondo pittorico dell’icona vissuta come esperienza di Ascesi artistica.In un’icona ogni materiale utilizzato, a cominciare dal legno e dai pigmenti, ha una sua vitalità ed ogni colore ha il suo linguaggio, la sua forza e il suo significato. Studiando questa sapienza cromatica possiamo arrivare a capire come mai Andrej Rublëv, maestro iconografo russo del XV secolo, utilizzasse dell’azzurro chiaro luminoso all’interno delle

ali dorate di San Michele Arcangelo. Niente veniva messo a caso perché ogni particolare doveva servire per aprire il cuore anche a chi l’osservava. L’icona poteva essere di somma o di scarsa maestria, ma la cosa importante era che la sua vista servisse a suscitare amore Divino e amore per il prossimo.Per Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi, l’“artefice di un’icona” è da equiparare ad un ministro di culto perché “l’opera che ne sorte, più che un’opera d’arte, è un tramite concreto fra l’uomo e il divino”. Andando a visitare la Collezione di Icone Russe, allestita in questo periodo negli ambienti delle Poste Reali a Firenze, l’impressione che se ne trae - come conferma il Natali - è di essere difronte ad un’Arte Sacra eterna ed incorruttibile: un tramite prezioso “veicolo per il trascendente”.Pavel Florenskij spiega con queste parole la sua mistica esperienza: “Nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì senza immagini si nutre della

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contemplazione dell’esistenza del mondo celeste(...)e, impregnata, carica di conoscenze, ritorna al mondo terreno”.L’artista prima di tutto deve diventare un “cercatore di Dio” ed in questa ricerca dovrà unire alla fede e all’ascetica anche la scienza, per saper utilizzare le tecniche ed i colori conformi a questo tipo di cammino. Dovrà farsi un “creatore d’arte” antico e nuovo per far capire alle genti, attraverso la sacralità dei soggetti riprodotti ed i colori sapientemente scelti, la via sicura da percorrere per liberarsi dalla mediocrità umana ed innalzarsi verso Dio.

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! ! ! San Luca, pittore iconografo

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