Armonia di Pietragrigia

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Angelica E. Moranelli, fantasy, young adults Armonia ha quattordici anni, non ricorda nulla del suo passato e vive in un’oscura villa gotica assieme al “vampiresco” maggiordomo Milo e all’iperattiva governante Stella; è fissata con i libri, i pirati e le avventure, ma ha la sfortuna di abitare nella città più noiosa e meno magica del mondo: Prugnasecca. Così, quando scopre di essere in realtà nata a Pietragrigia, nel mitico regno di Flavoria, dove tutti la conoscono come la Fanciulla-Guerriero, Armonia è al settimo cielo! Ma a Flavoria non ci sono solo cose belle: Zanna Avvelenata, una bestia demoniaca, è sulle sue tracce, ed è sulle sue tracce anche il Grigio, l'inquietante ammiraglio della flotta di Oturia, il regno che sorge al di là dei Confini del Mondo, dove il sanguinario Imperatore-Fantasma diventa sempre più forte. Tra vascelli pirata volanti, chimere e nuovi e strambi amici, Armonia dovrà affrontare il nemico più grande: il suo oscuro passato.

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In uscita il 25/11/2014 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

2015 (6,99 euro)

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ANGELICA ELISA MORANELLI

ARMONIA DI PIETRAGRIGIA

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GLI ANGELI DEL BAR DI FRONTE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-811-4 Copertina: illustrazione di Romina Moranelli

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Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ai miei nonni, che raccontavano storie bellissime.

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Credo nella magia, nell’evocazione degli spiriti, anche se non so che cosa sono; credo nel potere di creare a occhi chiusi magiche illusioni nella mente e credo che i margini della mente siano mo-bili, che le menti possano fluire l’una nell’altra, così creando o svelando una mente o energia unica, poiché le nostre memorie

sono parti dell’unica memoria della natura. William Butler Yeats

Gentil Cavaliere, che di gioia porti una corona, Molte glorie illuminano la tua giovinezza.

Il mio canto, però, ti voglio dare, Ricco di magia, capace d’allegrezza, di lenitrice armonia.

John Keats

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Prologo Villa Vento non aveva nulla in comune con le altre case di Prugnasecca né con altre dimore nel raggio di chilometri: enorme e tetra, col suo intrigo di guglie e statue mostruose, era la sede ideale per comitive di spettri e da qualche strano atteggiamento sembrava anche vantarsene. Un bel giorno, era comparsa dal nulla in un punto della città dove prima c’era un banale parcheggio e aveva cominciato a farsi notare, soprattutto grazie all’Insegna Parlante che insultava chiunque si avvicinasse. Gli abitanti di Prugnasecca avevano provato a farsela amica, ma nessuno ne era uscito vittorioso, all’insegna andavano a genio pochissime persone e quelle poche non abitavano di certo nei dintorni: il direttore della banca era stato definito “barboso pipistrello”, la vecchia zitella del numero 53 “brutta strega” e infine il sindaco in persona era stato invitato a chiudere il becco e a dimagrire il grosso posteriore. La faccenda era stata, perciò, archiviata come un caso da manuale di “di-mora infestata”, anche se in effetti a Villa Vento non c’erano solo fantasmi, ma anche esseri umani, pur con abitudini alquanto bizzarre. Nonostante il parere di Milo, il funereo maggiordomo, che le aveva calda-mente sconsigliato di cercare di far amicizia con “quei babbei”, Stella, la governante, non riusciva a ignorare la lezione numero uno di sua nonna Amanda Bouquet: un cordiale rapporto di buon vicinato non può che ba-sarsi sulla consegna di decine e decine di crostate di mirtilli. Il fatto che il dolce emettesse strani versi e scoppiasse in lacrime se si provava a man-giarlo, sfortunatamente non era stato utile allo scopo. «Che siano maledetti gli gnomi!» urlò Stella un pomeriggio, rientrando in casa accompagnata dalle urla e dagli insulti di tutta la comunità. «Due chili di mirtilli stregati! Ma non era il caso di fare tante storie, volevo solo esse-re gentile, per i ravanelli!» «Hai perfettamente ragione, mia cara» disse Milo, pungolando con una for-chetta la crostata in modo da farla ululare di dolore. «A tal proposito, mi pareva di ricordare che Arkanus avesse detto di non dare nell’occhio e di non insospettire la padroncina che, oserei ricordarti, ha dimenticato tutto, quando ci siamo trasferiti qui. Ma effettivamente le parole di Arkanus fu-rono enigmatiche: fate che rimanga all’oscuro, che non sappia nulla e che

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viva felice… magari intendeva spiattellatele tutto nel peggiore dei modi e fatevi cacciare a pedate da quell’orrido paese.» «Abbassa la voce, stupido!» disse in un soffio la governante. «Se… se… lui non voleva che dessimo nell’occhio, per i cavoli dell’orto, non avrebbe dovuto permetterci di vivere in una casa con un’insegna indemoniata! Ora ci odiano tutti!» «Infatti la gente che vive qui è proprio ben disposta a trovarci simpatici. Conosco un paio di chimere che si divertirebbero un mondo in una di quel-le loro, come le chiamano? Riunioni di quartiere» commentò con tono di-sgustato Milo. Ora la crostata piangeva e la marmellata di mirtilli ribolliva. Stella la fissò nauseata. «Per le zucche di Messerino, è disgustosa!» brontolò rovesciando il dolce nell’immondizia e chiudendo il sacchetto con aria feroce. «La sentiranno» disse con calma Milo, indicando il sacchetto nel quale si dimenava la crostata. Stella vi saltò su con sguardo invasato, fino a che non l’ebbe zittita del tutto. «Ecco fatto» disse trionfante, il volto rotondo scar-latto per l’ira e lo sforzo. Milo alzò un sopracciglio. «Quando avrai finito di… cucinare, mia cara, credo dovresti andare di so-pra a chiedere alla padroncina se ha bisogno di qualcosa, poco prima ha suonato il campanello.» «Ci vado subito, per i cavoli del mio trisavolo!» disse Stella stringendo i piccoli pugni grassocci, «e tu torna in soffitta, scansafatiche, non ti avevo detto di riparare la finestra? Continua a cantare nel cuore della notte, scom-metto dieci casse del migliore melsucco stagionato di mio nonno che è uno scherzo di quello scemo di Pistillo! I folletti se lo portino! Se non stiamo attenti la padroncina si accorgerà di tutto!» Milo fissò ciò che rimaneva della crostata piangente e si limitò a scrollare le spalle, avviandosi su per le scale. Armonia aveva quattordici anni, occhi grigioverdi e un caschetto sotto il mento color ossidiana. Era magrissima e ai piedi aveva sempre grossi anfi-bi neri; indossava pantaloni strappati, due fermagli a forma di scarafaggio nei capelli, un grosso medaglione raffigurante un teschio nero che, come diceva sempre Stella, non aveva nulla di femminile e magliette tenute in-sieme solo dalla forza di volontà di qualche spilla da balia. Come tutte le ragazze della sua età, aveva molti desideri, di cui una buona parte era dav-vero strana.

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La lista dei desideri di Armonia era appesa alla parete della sua stanza e variava di giorno in giorno. Lista dei desideri: Conoscere il Benefattore. Ricordare qualcosa. Scappare. Arrivare alla fine della scuola. Assistere alla scomparsa definitiva della scuola. Il Benefattore era l’uomo al quale Armonia era stata affidata quando, molto piccola, aveva perso i suoi genitori in un incidente. Sfortunatamente era sempre in viaggio e le poche volte che tornava a casa rientrava e usciva sempre o troppo tardi o troppo presto e Armonia non era mai riuscita a ve-derlo una sola volta. Di lui ricordava vagamente uno strano e intenso pro-fumo che le faceva venire in mente un paese lontano. La seconda cosa che Armonia desiderava era ricordare. Non sapeva nulla del suo passato, le avevano detto che era stato l’incidente a provocarle la perdita della memoria, ma quella spiegazione non era bastata e Armonia aveva continuato a tempestare di domande sia Stella che Milo, alla ricerca di qualche indizio che potesse restituirle la memoria. Quando lo faceva, Milo si limitava a sollevare il sopracciglio e Stella veniva colta da un at-tacco improvviso di imbranataggine e rischiava ogni volta di distruggere la casa. Armonia si era, così, convinta che i suoi genitori erano stati dei criminali e aveva rinunciato a saperne di più, rassegnandosi a non ricordare né dov’era nata, né dov’era cresciuta, né dove abitava prima di Prugnasecca. La terza cosa che Armonia ardentemente desiderava era poter vivere qual-che folle avventura, di quelle di cui leggeva nei suoi libri o di cui scriveva nei romanzi che prima o poi avrebbe pubblicato: ma Prugnasecca, in meri-to, non faceva nulla per accontentarla e così, ogni sera, prima di addormen-tarsi, programmava la fuga nei minimi particolari, convinta che un giorno il piano le sarebbe tornato utile. Armonia, infine, desiderava una cosa perfettamente normale per una ragaz-za della sua età: non dover andare a scuola. Questo per varie ragioni: 1) La scuola aveva l’aspetto incoraggiante di un manicomio criminale. 2) Gli studenti erano stupidi e prepotenti o stupidi e basta.

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3) La Direttrice e sua sorella, la professoressa di Scienze, erano la prova vivente che le streghe non erano una leggenda. Come se non bastasse, e questo costituiva il punto 4), era costretta a studia-re materie come Galateo o Portamento, di cui era l’esatta negazione, o peggio ancora Storia e la storia di Prugnasecca era di una monotonia abis-sale visto che per anni non era accaduto altro che lo scivolone del terzo re di Prugnasecca su un lago ghiacciato che gli era costato due incisivi e il matrimonio di una vecchia regina pazza con un topo. Le ragazze avevano anche l’obbligo (punto 5) di frequentare le lezioni di economia domestica: imparare a rammendare un calzino, creare origami, innaffiare le piante, preparare biscotti alla vaniglia, discutere del tempo e di altri argomenti innocui, sorridere dissimulando il più orribile dei mal di pancia erano ritenuti elementi fondamentali per la formazione di una per-fetta signorina di buona famiglia. Armonia aveva qualche dubbio che quelle informazioni le sarebbero torna-te utili il giorno in cui avrebbe realizzato il sogno di imbarcarsi su una nave pirata, ma si guardava bene dall’inserirlo nella trimestrale scheda che la direttrice del Nuovo Organo Istruzione Aristocratica distribuiva ai suoi stu-denti e aveva preso l’abitudine di lasciare vuota la voce “prospettive di la-voro future”, al pari di quella “nome e professione dei genitori”, cosa che le aveva senz’altro attirato le antipatie di tutto il corpo docente. Altro motivo di malumore era l’antipatia che tutti sembravano provare nei confronti di Villa Vento: non riusciva proprio a capire perché, visto che in sua presenza la casa si comportava in modo irreprensibile; l’insegna era sempre gioviale e le faceva un mucchio di complimenti e quando Armonia era un po’ giù, andava a fare due chiacchiere con lei e subito il suo umore migliorava. Infine, non sapeva come, era diventata il bersaglio preferito dei dispetti dei suoi coetanei: i primi giorni di scuola la presenza della villa infestata e quella molto più inquietante del maggiordomo erano stati per gli altri stu-denti due ottimi motivi per tenerla alla larga. Ben presto però era iniziata a circolare la voce che il maggiordomo fosse deceduto; Milo, in effetti, non si era fatto vedere in giro spesso, il suo ultimo avvistamento c’era stato in occasione di un violento temporale: era stato l’unico abitante di tutta Pru-gnasecca a decidere di fare una passeggiata quel giorno e in molti sostene-vano che tornato a casa si era gravemente ammalato ed era morto, altri in-vece erano strasicuri che fosse stato incenerito da un fulmine e avesse fatto ritorno nel suo mondo, che per la maggior parte dei cittadini di Prugnasec-ca si trovava nel sottosuolo, non molto distante dall’inferno.

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Da quel momento, sicuri che non ci sarebbero state ritorsioni, i figli del sindaco Pompeo e Vanessa e le loro bande avevano iniziato a tormentarla. Armonia si era ormai abituata a quel trattamento e sgattaiolava via ogni volta che qualcuno provava a infastidirla: non era tipo da lasciarsi intimori-re e i figli del sindaco non le facevano certo paura, solo la annoiava terri-bilmente doverci avere a che fare.

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CAPITOLO I

L’ultimo giorno di scuola L’ultimo giorno di scuola arrivava sempre con una lentezza esasperante, perciò quella mattina Armonia si svegliò felice e in accordo con tutto il Creato: il momento tanto atteso infine era giunto; certo, si profilava un’intera estate a Prugnasecca, la Capitale della Noia Mortale, ma, in com-penso, avrebbe potuto leggere tutto il giorno, finire di scrivere il suo primo romanzo e ascoltare il suo gruppo punk preferito (le Pietre Morte, di cui aveva tutti i dischi, anche se nessun altro, oltre a lei, sembrava conoscerli); inoltre, cosa più importante, avrebbe potuto studiare lo strano fenomeno che si stava verificando da un po’ di tempo. Da qualche settimana, infatti, si sentiva piena di energie, il che non le ave-va procurato voti più alti in ginnastica, ma solo una dote bislacca: se, ad esempio, pensava “torta al cioccolato”, nove volte su dieci ne vedeva arri-vare una di gran carriera direttamente nella sua stanza. Questo e altri piccoli incidenti avevano convinto Armonia di essere afflitta da qualche strana malattia e solo l’estate e la chiusura della scuola le a-vrebbero dato la possibilità di occuparsi della sua salute. Quella mattina, come ogni mattina, Stella la passò in rassegna e, come ogni benedetta mattina, la governante storse il naso davanti al medaglione con il teschio che Armonia insisteva per indossare, tentando di applicarle una svolazzante spilla rosa a forma di farfalla sulla maglia. «Ecco» spiegò, «mia nonna Amanda Bouquet adorava le farfalle, questa apparteneva a lei.» «Anche mia nonna Felicia Defunta adorava gli insetti, aveva una spilla a forma di larva» sogghignò Milo alle loro spalle. «Milo De Notturnis!» urlò Stella con una smorfia d’impazienza. «Pensa agli affari tuoi e non osare paragonare quell’orribile donna alla mia cara nonnina!» «Dai, devo andare!» protestò Armonia, reprimendo un sorriso. «Sono di nuovo in ritardo e poi le farfalle rosa non mi piacciono.»

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Stella rimise in tasca la spilla con fare afflitto. «Infilate quell’orribile me-daglione dentro la maglia, padroncina, almeno nessuno lo vedrà! Questa gente è capace di uccidere per molto meno. E quei fermagli che vi ostinate a mettere fra i capelli» proseguì mostrando un lungo nastro di velluto color confetto, ornato di pizzo, «neanche questo volete mettere?» Ricevendone in cambio un’occhiata assassina, Milo commentò: «Neanche mia nonna avrebbe mai osato indossare un lombrico con i merletti.» Armonia sparì prontamente oltre la porta, fingendo di non aver sentito. La scuola incombeva minacciosa sulla piazza principale della città, proprio davanti al simbolo di Prugnasecca: una grande fontana coronata da un gruppo marmoreo che raffigurava dieci cavalieri con altrettante spade in-crociate verso l’alto e che rappresentavano, come le avevano a lungo spie-gato i professori, i “dieci paladini di Prugnasecca”, autori di grandi impre-se, talmente grandi che non era dato conoscerle, visto che non erano ricor-date in nessun libro. C’era solo Ottavio, il custode, ad attenderla davanti al cancello. Era un vec-chio, per dirla con le stesse parole che Armonia aveva usato nel suo diario, candido come un manoscritto appena estratto dalle fiamme, robusto come un fiore avvizzito e intelligente come un ceppo di legno. La testa pelata sembrava una prugna marcia, le mani remi sgraziati e i piedi grosse e no-dose radici. «Ancora in ritardo» mugugnò, agitando come un campanaccio il mazzo di chiavi che teneva sempre in mano, mentre Armonia lo dribblava senza ri-spondere. I corridoi erano vuoti, raggiunse la classe, spiò dentro e vide che la profes-soressa di scienze stava interrogando Isidoro. La scena era una delle solite: il ragazzo contorceva le mani come se stesse impastando una pizza invisi-bile, mentre la donna sembrava in preda a un attacco di gastrite. Le polve-rose mensole sulla sua testa ospitavano barattoli in cui erano conservati grossi vermi e insetti dall’aria famelica e in fondo alla classe, completa-mente indisturbato, Pompeo tirava palline di carta sulla nuca di una ragaz-za, mentre i suoi amici sghignazzavano. Sfidare l’ira della professoressa di scienze era al quarantesimo posto nella sua personale classifica delle CCFPM (“Cento Cose da non Fare Prima di Morire”), ma dopo aver giudicato inattuabile il proposito di darsela a gam-be levate, Armonia si fece coraggio ed entrò. Cercando di non dare nell’occhio, per quanto la cosa non fosse per nulla semplice con la classe in silenzio e la professoressa che la fissava affamata come se l’avesse scam-

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biata per un pollo allo spiedo, Armonia si diresse verso il proprio banco, in penultima fila, proprio davanti a quello di Pompeo. La ragazza-bersaglio tirò un sospiro di sollievo, vedendo arrivare la legittima martire. «Benvenuta fra noi umili mortali» disse minacciosa la professoressa. Ar-monia sedette senza rispondere e aprì lo zaino per tirarne fuori libri e qua-derni. «Spero non ti dia troppo fastidio se continuo la mia lezione» prose-guì la professoressa. «Oh, no, prego» rispose gentilmente Armonia. La battuta non piacque alla donna che divenne rossa come una teiera sul punto di esplodere. «Silenzio!» strillò. «E scrivi mille volte sul quaderno: sono un’inetta!» L’intera classe soffocò una risata. «Vecchia ciabatta puzzolente.» Il brusio si spense. «Chi… chi ha parlato?» chiese la donna, sgranando gli occhi incorniciati da piccole ciglia dritte, simili a due blatte opache. Armonia si guardò attorno disperata. Le era sembrato che la voce provenis-se dal suo medaglione a forma di teschio, ma era impossibile, perché il medaglione non aveva mai parlato, tanto meno imitando la sua voce. «È stata lei, professoressa» disse con voce melliflua Vanessa, indicando Armonia. «Non avevo dubbi» ringhiò la vecchia aggrappandosi con le unghia rapaci ai bordi della cattedra, con aria così spaventosa che Isidoro arretrò atterrito come se avesse visto un demone. «Vieni subito qua!» «Non sono stata…» iniziò Armonia. «Qui, subito!» urlò l’insegnante. Armonia si alzò riluttante, strinse i pugni e proseguì fino alla cattedra, fer-mandosi davanti alla professoressa. «Le mani!» intimò quella, alzando la bacchetta nera. Armonia fece per al-lungare le braccia, ma qualcosa dentro di lei si rifiutò. «No» disse la voce che, doveva ammetterlo, sembrava incredibilmente la sua. La professoressa assunse la stessa espressione vacua del verme che torreg-giava in un grosso barattolo sulla sua testa. «Come hai detto?» sibilò. Armonia si morse le labbra, maledicendo il medaglione e se stessa per non aver dato retta a Stella: un’innocua spilla rosa a forma di farfalla non sa-rebbe mai stata così avventata. «Ho detto no, vecchia ciabatta puzzolente!» La professoressa urlò e la bacchetta si abbassò con un fischio, Armonia strinse gli occhi aspettando il dolore bruciante, ma quando la bacchetta

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colpì la pelle con un sibilo secco, lei non sentì nulla. Aprendo gli occhi, percepì distintamente lo stupore degli studenti alle sue spalle. La professo-ressa si guardava la mano paralizzata, come se si fosse improvvisamente accorta di avere dei tentacoli al posto delle dita: sul viso aveva l’inconfondibile segno rosso della bacchettata che partiva dalla fronte e terminava sul mento, passandole tra gli occhi. Armonia abbozzò un sorriso. La vecchia urlò di nuovo istericamente, indirizzandole un’altra bacchettata, ma inspiegabilmente il braccio fece uno strano tragitto che terminò di nuo-vo sulla sua stessa faccia. Il colpo fu così violento che la donna cadde all’indietro, batté contro il muro e fece crollare le due mensole con i barat-toli su di lei. In quel momento la campanella suonò e poco dopo, fra lo sgomento e la sorpresa di bidelli e docenti, la professoressa fu portata in infermeria. La dottoressa accertò un violento calo di pressione dovuto allo stress e al cal-do e raccomandò un lungo periodo di riposo. Alla campanella lunga del pranzo, la scuola si riversò nei giardini sul retro. Armonia fece lo stesso, dirigendosi verso il suo rifugio personale, un gran-de salice piangente, in tutto simile a quello che sorgeva nel giardino di Vil-la Vento. I lunghi rami molli ricadevano in una cascata verde sull’erba, sotto la quale Armonia si rifugiava per leggere, scrivere e pranzare: la luce del sole fil-trava tra il fogliame, regalando allo spazio interno un tenue colore smeral-do che la riconciliava con il mondo. Armonia tirò fuori dallo zaino un con-tenitore di plastica avvolto in un fazzoletto di seta rosa, orlato da merletti bianchi, con incise le sue iniziali. Scartò l’involto e osservò il suo pranzo: Stella era riuscita nella temeraria impresa di riprodurre, per consistenza e odore, un piatto di vomito. Disgustata, Armonia richiuse in fretta il contenitore e frugò nello zaino alla ricerca di un pacchetto avvolto in un fazzoletto nero dall’aria consunta dal quale uscirono appetitosi tramezzini. Ringraziando mentalmente Milo, Armonia iniziò a mangiare e tirò fuori dallo zaino un grosso volume di pelle con borchie dorate e copertina nera, che aveva trovato durante uno dei suoi vagabondaggi per casa. Villa Vento era talmente grande che non era difficile né strano scoprire nuove stanze e quella volta aveva scoperto una nuova biblioteca, nera e spettrale, con l’aria di essere un luogo proibito, ma piena di libri meravigliosi. Sfortuna-

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tamente Armonia era a malapena riuscita a sgraffignarne uno, prima che Stella se ne accorgesse e corresse trafelata lungo la scala. Non era più riuscita a trovarla in seguito: la biblioteca era scomparsa. Ne aveva parlato con Milo e Stella e i due avevano reagito come al solito: Mi-lo sollevando un sopracciglio e Stella frantumando un intero servizio di porcellana. Armonia accarezzò con la mano le pagine ingiallite dal tempo e rilesse per l’ennesima volta lo strano titolo: “Manuale per viaggiare incolumi attraver-so le Terre Flavoriane” di Felice Viandante. «Miao» disse di colpo un gatto nero. Armonia sobbalzò. Forse stava impazzendo, non era sembrato un vero mia-golio, ma la voce di qualcuno che imitava un miagolio. Eppure, sotto le lunghe foglie verdi del salice c’erano solo lei e il gatto. Doveva essere un randagio che ne aveva passate parecchie, perché il pelo era opaco e spelac-chiato e aveva una grossa cicatrice a forma di stella tra gli occhi. «Chi sei?» chiese piena di compassione, allungando la mano. Il gatto le soffiò contro minaccioso, incurvando la schiena e assumendo un’espressione ma-lefica. L’improvviso rumore di passi veloci sull’erba catturò l’attenzione di Armonia e così, quando si voltò di nuovo, il gatto era scomparso. Attraverso la cascata verde del salice Armonia scorse un ragazzo grassoc-cio, dai corti capelli color miele, intrappolato contro la parete e circondato da Pompeo e dai suoi amici: era Isidoro che piagnucolava stringendosi al petto un libro. Uno dei due glielo strappò di mano e lesse sillabando: «I S… Segreti… della… della… Luce dei Morsi…» «Dei Morti…» lo corresse tremando Isidoro. Il ragazzo che aveva parlato digrignò i denti cavallini con aria minacciosa. «Ora ti ammazzo, grassone!» Pompeo lo spinse da parte. «Smettila, cretino! Fammi vedere» disse strap-pandogli il libro dalle mani. Era un volume di medie dimensioni dall’aria antica e con la copertina rigida, color cuoio. Pompeo lo rigirò da ogni lato, agitandolo come se non sapesse come farlo funzionare, poi lo porse all’amico. «Un libro» disse, avvicinandosi a Isidoro e mettendogli una ma-no sulla spalla, come sicuramente aveva visto fare ai gangster dei film che amava tanto suo padre, il sindaco. «Da dove viene?» «D-dalla biblioteca» balbettò in risposta Isidoro. «Sarebbe a dire che lo hai rubato?» sogghignò Pompeo stringendo la mano delle dimensioni di una vanga sulla spalla di Isidoro. «N-no» singhiozzò Isidoro.

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«È vietato entrare in Biblioteca, quindi lo hai rubato» disse l’altro ragazzo, mostrandogli i denti storti in un ghigno. Armonia non riuscì più a trattenersi. «Smettetela, imbecilli!» I tre e Isidoro si voltarono sconvolti. Armonia uscì dal nascondiglio e avanzò verso di loro. Questa volta era sta-ta lei a parlare e non il medaglione. O forse era stata lei con l’aiuto del me-daglione, perché sentiva di nuovo quella strana energia attraversarla dalla punta dei piedi alla cima dei capelli, ed era persino più potente del solito. Era sicura che se in quel momento avesse pensato a un barattolo di gelato al pistacchio, vi si sarebbe ritrovata immersa fino al collo. «Come ci hai chiamato, stracciona?» ringhiò l’amico di Pompeo, facendo un passo verso di lei. «Sei anche sordo oltre che scemo?» ripeté Armonia senza alcuna esitazio-ne, sentendo crescere la rabbia. Avrebbe voluto avere la forza di tappargli la bocca. «Ho capito, tu oggi vuoi morire, non è così strega?» disse Pompeo, susci-tando i mugugni eccitati dei due compari. Armonia non disse nulla. Avrebbe voluto rispondere sì, grazie, desidero ardentemente morire proprio l’ultimo giorno di scuola, ma inserì subito, fra le cento cose che non avrebbe voluto fare prima di morire, il tentativo di usare del sarcasmo con il figlio del sindaco. Pompeo rise forte, una di quel-le grasse risate tipiche dei cattivi dei cartoni animati. «Sei ancora più brutta quando hai paura, lo sai, strega?» «Sfortunatamente non sono una strega o ti trasformerei in una latrina. E comunque non ho paura» disse Armonia e non ne aveva davvero: si sentiva eccezionalmente forte. «Fratellino!» Nonostante non temesse nessuno, la voce melliflua di Vanes-sa era l’ultima cosa che Armonia avrebbe voluto sentire in quel frangente. La ragazza arrivò di gran carriera seguita dalle due amiche. «Che state fa-cendo?» Pompeo sogghignò e gettò a terra Isidoro con uno spintone. «Diamo una lezione a questi due!» Armonia vide il viso terrorizzato di Isidoro premuto sull’erba dal piede di Pompeo e la rabbia che provò fu così violenta e improvvisa che non seppe più controllarla. «Andate all’inferno!» urlò, battendo il piede per terra e di colpo il tempo si fermò: l’aria si fece calda e pesante e Armonia si sentì strana, come se po-tesse vedere la scena con gli occhi di un’altra persona. Il salice sollevò i

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rami e li fece girare come in una giostra, vorticosamente: sotto la corona di foglie Armonia scorse lo zaino, il libro aperto e i tramezzini. Poi la terra si aprì e inghiottì Pompeo, Vanessa e i loro amici con un semplice PUF! Armonia cadde sfiancata sulle ginocchia, con gli occhi che pulsavano di dolore. “PUF? Come PUF?” pensò con un brivido. Alzò la testa e vide che Isidoro era seduto fra l’erba e la fissava stralunato. «Dove sono… andati?» le chiese. Armonia si avvicinò con enorme sforzo e gli porse tremando il libro, ma quando i loro occhi s’incrociarono il viso di Isidoro si trasfigurò e una ma-schera di orrore rimpiazzò l’espressione sorpresa di un istante prima. Le strappò il libro dalle mani, si alzò e, inviandole una lunga occhiata atterrita, le urlò: «Stammi lontano, strega!» Isidoro corse via, incespicando e Armonia rimase lì, attonita, molto dopo che la campanella di fine pranzo aveva annunciato la ripresa delle lezioni.

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CAPITOLO II

La Direttrice Armonia sedette silenziosamente in classe, senza energie, sperando per la prima volta nella sua vita di veder comparire i figli del sindaco e le loro bande. Isidoro continuava a fissare la porta e a evitare il suo sguardo e quando per sbaglio lo incrociava, impallidiva, come se avesse davanti un’assassina. La professoressa di Letteratura entrò in classe, si fermò davanti alla catte-dra, inforcò gli occhiali, aggrottò le sopracciglia e domandò sbalordita do-ve fosse finita metà classe. Armonia si sentì avvampare. Fissò insistente-mente gli occhi sul libro e vide con la coda dell’occhio Isidoro sprofondare nel banco, come se qualcuno avesse tagliato di netto le gambe della sua se-dia. «Qualcuno può rispondere, per favore?» insisté la professoressa. Armonia iniziò a masticare il cappuccio della penna con fare disinvolto, ma stranamente tutti la stavano guardando. «I… in realtà…» balbettò Isidoro. Armonia lo fissò facendo scorrere il pollice sotto il mento, alla maniera dei tagliagole. Isidoro comprese l’invito e chiuse la bocca, come se temesse che la lingua potesse scappare via come una lucertola. Fu in quel momento che la porta si spalancò e comparve la Direttrice in persona: era una pingue donna dalla forte mandibola truccata in modo grot-tesco, con i capelli rossi racchiusi in una complicata acconciatura fuori moda da almeno due secoli e con un’espressione lugubre, che la rendeva simile a un grasso gufo. Nel silenzio generale avanzò impettita, con al seguito Pompeo, Vanessa e le rispettive bande. Armonia li osservò sconcertata uno per uno. Avevano l’aria di aver visitato ben più di un girone infernale: avevano i capelli ritti, gli abiti strappati, in-zaccherati e fradici, gli occhi fissi e sgranati e nessuno era in grado di par-lare, aprivano e chiudevano la bocca come merluzzi appena pescati. «In nome del Cielo, ma che è successo?» gridò la professoressa.

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«È successo» iniziò con tono solenne la Direttrice, «che qualcuno è entrato nella Biblioteca.» Un brusio d’orrore percorse la classe. Si sapeva che una delle primissime regole della scuola era quella che vietava l’accesso alla Biblioteca del se-minterrato, una specie di archivio dove erano conservati testi antichi e scar-toffie varie. Ufficialmente l’accesso era vietato a causa di lavori in corso, ma circolava la voce che uno studente vi fosse morto e che il suo fantasma si aggirasse ancora fra gli scaffali polverosi ingombri di libri dimenticati. Armonia notò che Isidoro tremava come una foglia. Il libro veniva dalla Biblioteca, come aveva confessato a Pompeo, anche se a giudicare da come tremava, le riusciva difficile credere che avesse osato sfidare il Fantasma della Biblioteca per procurarselo. «Qualcuno» e gli occhi della Direttrice si fermarono su Armonia, «li ha invitati con l’inganno ad andare in Biblioteca, Ottavio li ha trovati lì, in stato di shock, dopo che quel qualcuno» di nuovo gli occhi della Direttrice scrutarono Armonia, «li aveva chiusi dentro. Ora… pregherei costui… o costei» Armonia si fece piccola piccola, «di confessare e di restituire, inol-tre, la copia che sicuramente ha fatto della chiave. Il custode dice che la chiave della Biblioteca non gli è stata rubata, ma è evidente che ne esiste un’altra, poiché la porta non è stata forzata ed è stata accuratamente richiu-sa.» Seguì un momento di silenzio. «Vorrei inoltre dire alla colpevole» continuò la Direttrice, «che le conviene confessare subito per non aggravare ulteriormente la sua posizione.» In classe non si mosse una foglia. «Bene» disse la Direttrice guardandola dritto. «Ti aspetto dopo le lezioni.» Armonia sgranò gli occhi. «No, un momento! Perché io?» esclamò inorridita. Poteva essere accusata di aver mandato quegli idioti all’inferno, non in Biblioteca! «Perché sei stata tu!» ringhiò la Direttrice con aria famelica puntandole contro il dito grosso come una salsiccia. «Non sono stata io!» protestò Armonia, balzando in piedi. «Invece sì e dopo le lezioni ti presenterai nel mio ufficio, punto e basta!» Armonia strinse forte il medaglione, sperando che non si mettesse a parlare proprio in quel momento. Era nei guai fino al collo. L’orologio a pendolo batté quattro lunghissimi rintocchi. Da un pezzo, or-mai, era passato l’orario di uscita da scuola e Armonia tamburellava con le

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dita sui braccioli della sedia, aspettando che la Direttrice facesse il suo in-gresso nell’ufficio. Il primo giorno di vacanza era iniziato da alcune ore e lei era bloccata lì. “Che ingiustizia”, pensò avvilita. Milo e Stella si stavano sicuramente chie-dendo perché tardasse tanto. O forse no, perché spesso dopo scuola andava a leggere al parco e non tornava che per ora di cena. Finalmente la Direttrice entrò nella stanza, sedette alla scrivania con la gra-zia di un rinoceronte, aprì un cassetto e vi tuffò la mano suina. Quando rie-mersero, le dita tozze stringevano un plico di fogli che la donna posò con noncuranza sul tavolo. Armonia abbassò il viso, finse un’aria contrita e si preparò alla solita ra-manzina. «Ora» disse la donna con aria terribilmente severa, «la tua è da ritenersi una delle più gravi azioni mai commesse da uno studente di questa scuola. Come ti discolpi?» «Non ho chiuso nessuno in Biblioteca» disse semplicemente Armonia. «Bugiarda!» tuonò la Direttrice. «Guardami negli occhi: dov’è la chiave?» «Non ho nessuna chiave» disse Armonia lanciando un’occhiata vacua al pendolo, sperando che la paternale terminasse presto. «Dev’esserci una chiave! Non andrai via di qui, finché non l’avrai restitui-ta!» urlò la Direttrice, battendo le nocche sulla scrivania e facendo oscillare pericolosamente la pacchiana lampada dorata. «Non ho nessuna chiave, non so come ci siano finiti lì dentro!» «Bene» disse con calma la Direttrice, «la tua testardaggine mi vede costret-ta a…» esitò come se stesse per dire qualcosa di terribile e si sistemò gli occhiali sul naso con aria grave, «all’Estrema Risoluzione, ecco.» «L’Estrema Risoluzione?» chiese Armonia, con un brivido. «L’Estrema Risoluzione» ripeté la donna con voce tombale, togliendosi con solennità gli occhiali e posandoli sulla scrivania, «lo facciamo il meno possibile.» Il volto della Direttrice divenne lucido come una maschera di cera, le labbra cerchiate dalla matita color mattone si tesero in un ghigno diabolico. «È la punizione suprema per gli studenti indisciplinati» precisò, come se ci tenesse a far intendere la gravità della cosa. Armonia sorrise debolmente, stringendo le dita attorno ai braccioli della sedia. Mai come in quel momento la Direttrice era sembrata una feroce creatura infernale. In più tutta quell’energia usata per affrontare Pompeo e Vanessa l’aveva spossata e al momento si sentiva debole come un pulcino. «Il mio tutore…» abbozzò.

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«Al tuo tutore penseremo noi» sibilò la vecchia, «intanto resterai qui, per tutta l’estate.» Armonia strabuzzò gli occhi come se avesse inghiottito una polpetta roven-te. «Col cavolo!» disse, scattando in piedi e correndo verso la porta. La Direttrice la raggiunse con un balzo incredibilmente agile: era come se fosse volata sopra la scrivania, per poi planare direttamente davanti a lei. Armonia, senza neanche pensarci, le sferrò un calcio nello stinco. La Diret-trice ululò di dolore e Armonia ne approfittò per sorpassarla e avvicinarsi alla porta, ma prima che potesse fare qualcosa, questa si spalancò e com-parve la sagoma scheletrica di Ottavio. Come al solito indossava una lurida giacca color terra e un paio di pantaloni neri rattoppati più volte sulle gi-nocchia. In mano reggeva il grosso anello di ferro, cui erano attaccate vec-chie chiavi di svariate dimensioni. L’uomo sobbalzò alla vista di Armonia e istintivamente fece un passo in-dietro emettendo un grugnito di sorpresa. «PRENDILA, RIMBAMBITO!» urlò la Direttrice digrignando l’orribile bocca scarlatta. Ma Armonia fu più veloce e, con uno spintone, mandò il vecchio lungo e disteso per terra, quindi si diede alla fuga lungo il corrido-io. Non ricordava che la scuola fosse così buia, né che il corridoio fosse così lungo, aveva fatto così tante volte il giro dell’istituto da conoscerlo a me-moria e non era spiegabile quell’improvviso proliferare di stanze e corri-doi. Le grida selvagge della Direttrice le giungevano a sprazzi, come se continuasse ad allontanarsi e ad avvicinarsi al punto in cui la donna si tro-vava. Continuò a correre per un tempo che le parve lunghissimo, fino a quando non le sembrò che l’assetto della scuola stesse cambiando sotto i suoi occhi. Allora si fermò. Le pareti del corridoio si allargarono a una velocità spropositata, il soffitto si alzò con un sibilo asciutto, le pareti mutarono e al posto dell’intonaco bianco e delle mappe dei paesi del mondo, comparvero grossi blocchi di pietra color ferro e lugubri dipinti a olio. L’androne appena comparso era illuminato da torce che gettavano sul pavimento ombre inquietanti. Armonia si stava angosciosamente guardando attorno alla ricerca di una via di scampo, quando la voce della Direttrice rimbombò nell’ampio corri-doio, raggelandole il sangue. «Eccola! Eccola lì!» urlò la vecchia puntando la mano verso di lei. Armonia fece per balzare dalla parte opposta, ma le dita del custode si ser-rarono sulle sue spalle e gli occhi acquosi si posarono con un ghigno ottuso su di lei. La grassa stazza della donna emerse dalle ombre come un fanta-

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sma: era ancora più spaventosa ora che sul volto lucido e orrendamente truccato, era dipinto un sorriso folle e soddisfatto. Armonia, però, non ne voleva sapere di starsene buona mentre quei due pazzi cercavano di ucciderla. «Demone della Terra, ferma!» sibilò la Direttrice, raggelandola con i pic-coli occhi iniettati di sangue. «Ferma o ti rinchiudo per sempre nella Tor-re!» «Devo portarla al Dormitorio, padrona?» biascicò il vecchio, con la con-sueta inflessione ottusa. La Direttrice squadrò un istante Armonia, poi tese le labbra in un’espressione annoiata. «No, portala al cinema» cantilenò, poi cambiò to-talmente espressione, finendo per assomigliare a un orco che Armonia a-veva visto disegnato in un libro di favole, una volta. «È ovvio, idiota! E assicurati di chiudere bene a chiave la porta, non ho proprio bisogno di ri-trovarmela in giro per il castello!» Ottavio le diede uno strattone. «Non si muove» si lamentò, cercando di trascinare Armonia che aveva tut-ta l’intenzione di radicarsi a terra come una quercia. «Accidenti a voi!» strillò istericamente la Direttrice, mentre alzava le brac-cia grasse come prosciutti. Con uno schianto minaccioso, un lampo di luce violetta partì dalla punta delle dita; immediatamente dopo, Armonia sentì un colpo possente alla bocca dello stomaco, come se si fosse scontrata con-tro qualcosa di molto grosso. Il dolore si diffuse rapidamente in ogni ango-lo del suo corpo, poi l’androne si fece più scuro e vacillò, assieme al viso sempre più sfocato della Direttrice, mentre le dita segnate di sporco di Ot-tavio si serravano come tenaglie sulle sue spalle. L’ultimo pensiero che le attraversò la mente prima del buio fu una consapevolezza dolorosa e orripi-lante, qualcosa che il tipico abitante di Prugnasecca non avrebbe mai e poi mai ammesso. La Direttrice era davvero una strega.

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CAPITOLO III

Castelvelato Armonia sapeva di non essere sola nella stanza, ma ciò che vide per prima cosa aprendo gli occhi non fu il volto spettrale del Custode né il ghigno della Direttrice, bensì due paia di occhi, uno color cielo, l’altro color noc-ciola, entrambi incastonati in due pezzi di carbone a forma di viso. Scattando seduta con un urlo di paura, Armonia regalò un pugno sul naso a uno dei due (Occhi-Nocciola) e constatò, con sollievo, che le grida di dolo-re della creatura erano perfettamente umane. «Giusto Cielo, Martino, fai silenzio!» disse con tono impaurito l’altro esse-re, una ragazza, a giudicare dalla voce, che doveva appartenere a un’altra epoca, visto il linguaggio leggermente datato. Gli occhi di Armonia si po-sarono sui due: il ragazzo cui aveva dato un pugno, saltellava come una scimmia, con le mani sul viso, tentando di soffocare le urla di dolore. La ragazza, invece, s’inchinò con la grazia di una ballerina, pur essendo nera come un coleottero. «Sara, dodici anni. Piacere di fare la vostra conoscenza» recitò, scandendo bene ogni parola e sollevando la gonna mentre si inchinava. Armonia le tese debolmente la mano con un sorriso inebetito e la ritirò subito visto che la ragazza non accennava a volerla stringere. «Come vi chiamate, damigella?» disse la ragazzina, tremando nello sforzo di mantenere l’inchino. «Armonia… E p-puoi darmi del tu?» «Non ne ho, mi dispiace.» «Cosa?» «Del tu.» Armonia si lasciò sfuggire un lamento. Sara si raddrizzò e scoppiò a ridere, ma in maniera composta, portandosi una mano davanti alla bocca. «Scher-zavo, certo che ti darò del tu, anche se io adoro parlare come in un vecchio romanzo, è così elegante.» «È finita» borbottò per tutta risposta Armonia.

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Sara annuì vigorosamente, come se non ci fosse nulla di male. Poi indicò il ragazzo che aveva smesso di saltellare, ma aveva ancora le mani sul viso e la osservava con rancore. «Martino. Sedici anni. Dovrebbe dimagrire» dis-se compita, con un’aria soddisfatta. «Ho le ossa grandi, stupida!» protestò Martino, senza osare avvicinarsi. Man mano che Armonia li osservava, i due diventavano sempre più umani: Sara portava i capelli neri raccolti in due lunghe trecce disordinate; del vi-so, a parte gli occhi di un azzurro profondo e luminoso, non si scorgevano che i bianchissimi denti mentre parlava, tutto il resto era coperto da una spessa crosta di sporcizia che impediva di distinguerne i lineamenti. Marti-no era parecchio più alto di Sara e anche di Armonia e di stazza più che prosperosa e il suo viso era incrostato di sudiciume quanto quello dell’amica. I due indossavano abiti che una volta dovevano avere un qual-che tipo di tonalità, ma che ora erano completamente neri e non emanavano di certo un effluvio di fiori. «Ti ha fatto male? A me ha fatto male. Il Batticolpo, voglio dire!» disse precipitosamente Sara, poi si mise una mano davanti alla bocca come se avesse fatto qualcosa di spiacevole, quindi ripeté la frase più lentamente. «A volte mangio le parole, ma non è molto educato e nei miei romanzi pre-feriti non succede mai» si scusò. «M… mangiare?» balbettò Armonia nella confusione totale. «Il Batticol-po?» Martino sghignazzò. «Non sa niente. Il Batticolpo è quello che ti ha fatto la Direttrice… lo ricordi no? Un gran colpo, proprio qui!» mimò, tirandosi da solo un pugno nello stomaco, con tale impeto che strabuzzò gli occhi per il dolore. «Sono prigioniera da sei mesi!» esclamò vivacemente Sara, come se stesse augurando “Buon Natale”. «La Direttrice mi ha chiamato nel suo ufficio alla fine dell’anno e ha detto che all’orfanotrofio non mi volevano più. Ho provato a scappare, ma la Direttrice e sua sorella mi hanno intrappolato con un Batticolpo tremendo e quando mi sono risvegliata ero qui, sola. Mi hanno scambiata per qualcun altro, stanno cercando qualcuno da molto tempo, all’inizio pensavano fossi io, ma poi hanno capito di aver sbagliato e mi hanno tenuta qui, potrei servire per i loro esperimenti.» «Esperimenti? Ma dove siamo?» chiese Armonia guardandosi attorno. Le pareti gocciolanti di umidità s’innalzavano cupe verso la volta; le angu-ste finestre, coperte dalle grate, lasciavano trapelare la luce lunare, segno ch’era notte. La stanza era stretta e lunga e incredibilmente spoglia: due

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file di sudici letti erano state addossate alle pareti, in modo da lasciare un corridoio centrale libero per il passaggio. «A Castelvelato» rispose Sara con un sorriso che affiorò luminoso nel viso incrostato di sporcizia, «nella casa delle due streghe!» Nonostante non fos-se il tipo da aver paura, Armonia non poté evitare di rabbrividire, preoccu-pandosi subito di inserire la visita alla dimora di due streghe quasi in cima alla lista delle cose da non fare assolutamente prima di morire. O se non si vuole morire, concluse, anche se ormai era fatta. «E tu? Come ci sei finito qui?» disse poi rivolta a Martino. «Ha usato an-che con te i suoi poteri?» Il ragazzo assunse un’aria tronfia e fece per aprire bocca. «Martino si era perso» lo anticipò Sara. «Non mi ero perso!» esclamò offeso Martino e se il suo viso non fosse sta-to così sporco, Armonia era sicura che l’avrebbe visto arrossire fino alle orecchie. «Stavo andando in Biblioteca.» «Si era perso» lo interruppe Sara, scuotendo la testa con indulgenza. «La Direttrice gli ha offerto un panino, l’ha mangiato e si è ritrovato qui. C’era del sonnifero.» Armonia gemette, guardandosi attorno in cerca di una via di fuga. «Non starai pensando di scappare, vero?» si scandalizzò Martino. «Siamo prigionieri!» «Davvero?» replicò Armonia sarcasticamente. «Non è esattamente l’idea che avevo di trascorrere le vacanze estive, sai? Ma mi accontenterò.» «Beata te, io sono così triste per questa situazione» disse Sara. Armonia alzò gli occhi al cielo. «Ma ovvio che non mi accontenterò: vo-glio scappare!» Martino scosse la testa. «Ingenua» disse. «Non è mica così semplice.» «Potremmo far finta di star male» propose Armonia senza badargli. «Di-ciamo che non stiamo bene, devono per forza far venire un medico, non possono mica lasciarci morire qui, la legge non lo consente e mentre sono distratti noi scappiamo.» Sara abbassò il viso e sembrò soppesare l’idea. Poi alzò nuovamente lo sguardo. «Impossibile» disse con un gran sorriso. «Ma perché?» strepitò irritata Armonia. «Perché la legge non consente neanche il rapimento, eppure eccoci qui» disse Sara. «Non servirà a nulla far finta di star male e sicuramente non chiameranno nessun dottore.» «Ci farà punire, lo so!» disse Martino, ciondolando verso il suo letto, «e le punizioni della Direttrice sono… sono orribili!» I suoi occhi colmi di terro-

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re non mentivano. «La settimana scorsa mi ha trasformato le mani in sala-mi e ha minacciato di darle in pasto al suo iguanofonte…» «Iguanodonte. Dinosauro. Erbivoro. Estinto» disse sprezzante Armonia. Con uno sbuffo offeso Martino si mise a dormire borbottando qualcosa sui “saputelli”. Dopo una notte insonne a causa dell’agitazione, del tentativo (vano) di mettere a punto un piano di fuga e del russare di Martino, il Dormitorio fu invaso dal rumore rintronante delle chiavi e dal tono non certo amichevole della voce di Ottavio. Il Custode entrò nella sala con un mozzicone di can-dela che regalava al suo volto da avvoltoio spelacchiato, ombre ancora più inquietanti. «Giù dai letti!» esordì, scuotendo il mazzo di chiavi come un campanello. «Sveglia, ho detto, fannulloni!» Armonia non gli diede neanche il tempo di avanzare tra le file di letti, che già correva veloce verso la porta. Sulla soglia, però, si scontrò con un e-norme budino viola. «Hai ancora parecchie energie» disse feroce la Direttrice. Armonia la guardò con occhi pulsanti di odio. «Milo e Stella verranno a cercarmi e tu te ne pentirai!» disse. «Benissimo» ruggì la Direttrice agitando i pugni. «Nel frattempo spalerete letame e vedremo chi avrà ancora la forza di progettare fughe!» La scuola non poteva essere più definita tale dal momento che sale e corri-doi ricordavano adesso la struttura di un castello e non v’era un’anima in giro. Ma di tanto in tanto, come echi lontani, giungevano voci e risate, co-me se ci fosse ancora qualcuno in giro. Magari insegnanti e bidelli non e-rano ancora andati in vacanza e quella per Armonia era una speranza. «Le loro voci… sembrano imprigionate» osservò poggiando l’orecchio alla parete e costringendo anche Sara e Martino, che erano legati alla sua stessa corda, a fermarsi. «Te le do io le voci, ficcanaso!» esclamò inferocito il Custode, strattonan-doli. «Se ti fermi ancora, finisci in pasto alle Carnivore e ora muoviti, dritta come un fuso!» E tirò la corda per farli avanzare. Alla fine del lungo corri-doio c’era una grande apertura ovale, che dava sul giardino in cui cresce-vano selvaggiamente piante d’ogni tipo, alcune non proprio amichevoli d’aspetto. Non appena le piante li videro arrivare (o meglio, li sentirono arrivare, per-ché Armonia dubitava che vi fossero piante dotate di occhi), cominciarono a fremere e produrre uno strano rumore, come mascelle che si spalancava-

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no e chiudevano, impazienti di mangiare. Ottavio tirò fuori l’inseparabile mazzo di chiavi e, dopo averne scelta una piccola e dorata, la inserì nel vuoto, come se volesse aprire una serratura. Dopo un po’ sembrò trovare ciò che cercava, perché introdusse con più de-cisione la chiave e girò: davanti ai loro occhi comparve un lungo corridoio di vetro. Lo utilizzarono per attraversare il giardino e solo a metà cammino Armonia ne comprese l’efficacia: le piante si lanciavano voracemente ver-so di loro, trovando l’opposizione delle pareti trasparenti. Il Custode trovava molto divertenti gli sforzi dei vegetali. «Avete fame, schifosissime erbacce?» E scoppiava a ridere soddisfatto ogni volta che le Carnivore si allontanavano fischiando di frustrazione, poi si voltava verso Martino, il primo della cordata, e mimava col braccio scheletrico il ramo minaccioso, facendolo indietreggiare per l’orrore. «Cos’è? Non ti piace la verdura, ragazzino?» Quando ebbero attraversato la Serra Magica, Ottavio chiuse il corridoio con la stessa chiave: erano davanti alle stalle, oltre le quali si estendevano alberi a perdita d’occhio. «Ci siete mai stati voi, qui?» sussurrò Armonia. Sara e Martino negarono scuotendo la testa. Ottavio li liberò e consegnò a ognuno una pala. «Non provate a scappare, teste bacate» intimò col lungo dito piegato dall’artrosi. «Il bosco è incanta-to e non ho nessuna intenzione di andare in cerca di braccia e gambe.» Poi lanciò un sacco lurido su un cumulo di paglia. «Lì c’è da mangiare.» Li spinse dentro le stalle e andò via sghignazzando. Guardandosi attorno, Armonia provò un brivido di raccapriccio: animali di ogni tipo gironzolavano nelle enormi stalle e a ognuno mancava un pezzo. C’erano cani senza testa e altri che avevano solo la testa e le zampe davan-ti; uccelli senza ali che si sforzavano vanamente di prendere il volo e zam-pe di galline che bighellonavano senza il resto del corpo. Un cavallo dal pelo fulvo all’apparenza perfettamente normale brucava la sua biada, ma poco dopo si accorsero che era stato diviso in due parti nel senso della lunghezza. «Te l’avevo detto, fanno esperimenti» sussurrò Sara. «Ma non sempre rie-scono, in realtà mai.» Armonia lasciò cadere la pala per terra. Aveva preso la sua decisione. «Dobbiamo andarcene» disse. «Non importa quanto pericoloso possa esse-re il bosco, se restiamo qui moriremo di sicuro, quindi tanto vale provarci.»

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CAPITOLO IV

Il guardiano del pozzo Fuori dalle stalle si respirava un’aria tersa, che profumava di erba appena tagliata e pioggia. Armonia alzò gli occhi verso il cielo e si sentì invadere da uno strano calore, come se un azzurro così vivo non l’avesse mai visto prima. Nonostante la consapevolezza di essere prigioniera, assaporava una vaga sensazione di appartenenza, la stessa che avrebbe provato un viandan-te a rimettere piede nella sua piccola, confortevole casa. Seguirono un sentiero che costeggiava a destra le stalle e le aggirarono completamente. Dietro l’edificio iniziava il bosco, che a una prima occhiata non aveva nul-la di sinistro. “Scommetto che non c’è niente di pericoloso, lì dentro” si disse Armonia avanzando con la fiducia nel cuore. Il bosco era quieto e ac-cogliente, la luce del sole scendeva, nell’intreccio dei rami, in una cascata di pulviscolo color smeraldo e tutti i suoni sembravano echeggiare ovattati. «Che strano posto» osservò Armonia a voce alta. «Non fa paura» le fece eco Sara. Martino commentò con un sospiro atterrito. Dopo un po’, gli alberi iniziarono a diradare e il terreno si fece scosceso, come se stessero dirigendosi verso un avvallamento, poi, di colpo, si ritro-varono davanti a un enorme circolo di pietre squadrate, alto più di cinque metri, con un’apertura a volta proprio dove terminava il sentiero. «Che cos’è?» disse Martino, come se avesse adocchiato un demone. «Sembra… un pozzo. Uno di quei vecchi pozzi dove si entrava con gli asi-ni per prendere l’acqua» disse Sara. «Ne ho visto uno simile in un libro» aggiunse, davanti all’espressione dubbiosa di Martino. Armonia incrociò le braccia. «Non vedo asini in giro» “a parte Martino” pensò, «e neanche umani, è molto strano che ci sia un pozzo proprio qui. Scommetto che è l’uscita, me lo sento. Dobbiamo controllare.» «Controllare? Ma sei pazza!» esclamò Martino. «Io lì dentro non ci vado! E se… e se…» Dall’espressione si capiva che il ragazzo avrebbe voluto

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trovare qualcosa di abbastanza orribile da far rabbrividire sia Armonia che Sara, ma che non gli era passato nulla per la testa. «E se ci muovessimo?» cantilenò Armonia sopraffatta dallo sdegno: le paure di Martino iniziavano a trasmettersi anche a lei. Non era certamente fra le cento cose da fare prima di morire scendere nelle profondità della ter-ra senza alcuna sicurezza di riemergerne, ma sentiva che era la cosa giusta, che laggiù c’era qualcosa, forse la salvezza, così oltrepassò la soglia ed en-trò, seguita da Sara e dal riluttante Martino. Una piccola scaletta a chiocciola s’immergeva nell’oscurità umida del poz-zo. Ostentando coraggio, Armonia scese i primi scalini col cuore in gola. Svoltato il primo angolo, videro che la scalinata che sprofondava nell’oscurità del pozzo era ben più ampia della prima scaletta. Grandi finestre a punta si aprivano alla loro destra, per permettere alla luce di penetrare dentro e illuminare il passaggio. Armonia si affacciò a una delle prime aperture e guardò verso il basso, in fondo al pozzo si scorgeva uno specchio d’acqua azzurra sul quale naviga-vano, riflesse, le nubi. Nonostante la giornata fosse calda, l’aria dentro era gelida e i raggi del sole si assottigliavano, man mano che scendevano. Ar-monia era intimorita quasi quanto Martino, perciò se ne stavano tutti in re-ligioso silenzio, tutti tranne Sara, che aveva iniziato a canticchiare una ne-nia irritante con protagonista un topo curioso: «Che sarà quel buco nero» Disse il topo al suo compare «Di trovar tesori io spero, O un formaggio da pappare.» Ma rispose il suo parente: «Non nascondo il mio timore Che una bocca previdente Stia aspettando ormai da ore.» «Non ti ascolto, roditore Tu non hai nessun coraggio Ti abbandono iettatore, Vado verso il mio formaggio.» E la volpe gongolante Con la bocca spalancata,

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Il topino già esultante Divorò molto appagata. «Sara!» esclamò sfinita Armonia. «Ti dispiace?» Sara non se la prese e proseguì il suo cammino in silenzio. Scesero un centinaio di scalini prima di giungere alla pozza d’acqua, attra-versata da uno stretto ponte che conduceva a un’altra apertura, da dove si accedeva al condotto di ritorno. Al limitare della passerella, si fermarono a fissare l’acqua che frusciava sotto i loro piedi, come se aspettassero chissà quale segno. Infine Armonia si decise a muovere un passo verso il ponte. Fu in quel preciso momento che una creatura verdognola, alta poco meno di un metro, tra le più brutte che Armonia avesse mai osato immaginare, si fece avanti, uscendo dall’oscurità e piantandosi sull’estremità opposta del ponte. Aveva grosse orecchie a punta, con lobi lunghissimi e pesanti e un naso schiacciato che occupava quasi la metà del suo faccione quadrato; le sottili labbra nere erano piegate in una smorfia e gli occhi erano due sfere sporgenti color terriccio, sormontate da abbondanti sopracciglia dello stes-so colore. Martino si tappò la bocca come se stesse per vomitare, poi si voltò e fece per fuggire, ma fu come se avesse preso a testate un muro di gomma, rim-balzò nel vuoto e cadde col sedere per terra. «Non si esce da lì!» tuonò l’essere mostrando piccoli denti aguzzi e gialla-stri. «Si esce da qui, ma siccome non avete il permesso di entrare, non ave-te neanche il permesso di uscire!» La creatura avanzò minacciosamente di un passo e Martino, che si era ap-pena rialzato, cadde nuovamente per terra. L’essere si fermò a un passo da Armonia e la guardò fisso negli occhi, tor-cendo il piccolo collo nello sforzo di mostrarsi all’altezza, nonostante le arrivasse appena alla spalla. «Chi vi manda a disturbarmi, di grazia?» disse con tono affettato. Armonia osservò, non senza il dovuto disagio, che l’essere sembrava di-ventare via via più gentile mentre la esaminava. «Nessuno, noi… noi vogliamo solo andarcene!» rispose Armonia, voltan-dosi a guardare Sara e Martino come se potessero aiutarla; ma Martino era ancora sotto shock e Sara, inginocchiata accanto a lui, cercava di rianimar-lo. «Io sono il Guardiano del Pozzo, Lord Panaver il Bello, Principe degli Gnomi Muschiati e non ve ne andrete senza pagare il giusto!»

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«Ho delle caramelle, le ho rubate a Castelvelato…» disse d’un tratto Sara, estraendo dalle tasche del vestito lurido un sacchetto. Lo gnomo la fissò come se avesse davanti un insetto. «E tu cosa saresti, impiastro nero? La tua vista nausea il Principe dei Belli, pussa via!» Sara rimise il pacchetto in tasca senza fiatare e tornò a prendersi cura di Martino. «Tu invece sei una bestiola interessante» disse lo gnomo, squadrando Ar-monia con l’aria di chi sta acquistando un cavallo al mercato. «Non ne a-vevo mai viste di così ben fatte, se devo dirlo con sincerità, due braccia, due gambe, un viso abbastanza gradevole…» «Non sono una bestia!» protestò offesa Armonia. «Sono un essere umano.» «Sciocchezze!» replicò lo gnomo girandole attorno. «Gli esseri umani sono più alti.» «Beh mi dispiace!» replicò offesa Armonia che non amava essere bassa. «Va bene, va bene» concluse frettolosamente l’essere, «ti credo. Ma se è vero che sei un essere umano, allora voglio una cosa, c’è una leggenda su-gli esseri umani, credo di averlo sentito raccontare da un saltimbanco una volta, era qualcosa su una principessa addormentata…» «Tutto quello che vuoi!» s’affrettò a dire Martino. Sembrava essere mira-colosamente padrone di sé, ora. Armonia gli lanciò un’occhiata assassina. «Un bacio» disse lo gnomo. «Sono incatenato in questo pozzo e solo il ba-cio di una principessa può sciogliere il maleficio, a meno che tu non sappia azionare la Leva, laggiù in fondo.» Armonia sgranò gli occhi e balbettò qualcosa d’incomprensibile. «Un bac…?» Poi scoppiò in una risata così lunga che le pareti del pozzo sem-brarono vibrare all’unisono con la sua voce. Si piegò in due, senza riuscire a balbettare altro che delle scuse poco convincenti, mentre Martino e Sara la fissavano, uno terrorizzato, l’altra incuriosita. Quando ebbe finito, uno strano silenzio calò sul ponte. Armonia si asciugò gli occhi e, trattenendo le risate, si rivolse allo gnomo con un sorriso innocente. «Dunque, dicevamo?» «Un bacio» ripeté con candore lo gnomo. «O col cavolo che ti farò uscire!» Questa volta Armonia non rise. Fissò l’essere terrorizzata, poi si voltò ver-so Sara e Martino in cerca di aiuto. «Credevo peggio» disse Sara. «Bacialo tu, allora, io preferisco crepare!» ringhiò Armonia. «E creperai, piccola insolente!» gridò lo gnomo assumendo un’aria mali-gna. «Via, sciò!» E si fece da parte per farli passare.

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Armonia lo superò senza neanche guardarlo, si fermò alla fine del ponte, poi si voltò per invitare Sara e Martino a fare altrettanto. I due ragazzi la raggiunsero e insieme presero a salire le scale. «E non venite qui, quando vorranno usarvi!» lo udirono gridare, mentre si allontanavano. «Perché non vi dirò dov’è l’Uscita, questo è sicuro.»

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CAPITOLO V

Il Cigno e la Torre La mattina seguente i prigionieri di Castelvelato furono condotti in un’ampia stanza maleodorante di muffa, con il pavimento lesionato e i ten-daggi laceri e polverosi che Ottavio presentò come la Sala delle Udienze allo scopo di essere “scelti”. La giuria era composta da due sole persone: la Direttrice e sua sorella, la professoressa di scienze. «Tu!» esclamò Ottavio. «Un passo avanti! Veloce!» Armonia obbedì e per poco non inciampò in un gatto spelacchiato con una grossa cicatrice fra gli occhi: lo stesso che era comparso e scomparso all’improvviso sotto il salice, a scuola. L’animale le mostrò gli artigli affi-lati e sembrò quasi ghignare mentre si allontanava adagio, con aria solenne e annoiata. «Che magnifica cosa, la vendetta» disse la Direttrice. «Quanto ho atteso questo momento» le fece eco la professoressa di scien-ze, studiando Armonia con un sorriso maligno. «Mi ha sempre detestato e io lo stesso. Un passo indietro, non voglio sprecarti subito.» «Chi ti sembra il più adatto?» chiese la Direttrice. Il dito scheletrico della sorella puntò Martino. Il ragazzo emise un urlo strozzato e si diede alla fuga, ma un lampo violetto partì dalle dita della Di-rettrice e lo prese in pieno. Con un gemito, Martino si accasciò sul pavi-mento. «Lasciatelo stare!» urlò Armonia. Lo sguardo della Direttrice scattò su di lei, la donna alzò le braccia e una nuvola rossa la avvolse, allargandosi sempre di più fino a occupare l’intera sala, sempre più densa, sempre più frastornante. Quando tornò in sé, Armonia non era più nella Sala delle Udienze ma di-stesa su una lastra di pietra, con le mani e i piedi legati. Si sforzò di alzare la testa e vide che era in buona compagnia: Sara era nella sua stessa condi-zione. Dovevano trovarsi in una specie di laboratorio, a giudicare dalla se-rie di alambicchi, calderoni, ampolle e contenitori d’ogni tipo. Al centro

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della sala, in un grosso braciere, scoppiettava un fuoco vivace sul quale era posato un pentolone annerito. «Dove siamo?» chiese Armonia. «Nella Torre Nord» rispose Sara. «Dove sarà Martino?» «Non lo so.» Trascorse qualche attimo di silenzio. «Riesci a muoverti?» chiese Sara. «No. E tu?» «Neanche.» Ancora silenzio. L’angoscia cresceva a dismisura. «Ci uccideranno?» chiese Sara all’improvviso. «Povero Martino…» «Non è detto che sia già…» balbettò Armonia, sfiduciata. «Sento dei passi…» bisbigliò inorridita Sara. Una grossa gabbia entrò, sospinta da Ottavio. La gabbia conteneva un bel-lissimo cigno, più grande dei cigni normali, che se ne stava tristemente sti-pato nella sua cella, lanciando intorno lunghi sguardi di rassegnazione. Lasciata la gabbia in un angolo, il Custode si avvicinò ad Armonia. «Mi sa che alla fine vi usiamo» rise, poi le legò i polsi con una corda (non senza difficoltà, visto che Armonia non era disposta a rimanere ferma nel frattempo) e la trascinò verso Sara. Mentre Ottavio era impegnato a legare Sara, Armonia si rese conto che la corda era allacciata debolmente e sareb-be bastato unire le mani per riuscire a liberarsi. Attese con pazienza che il Custode legasse alla sua stessa corda Sara e che le conducesse fuori, l’una dietro l’altra, trascinandosele dietro come sacchi di patate. Ottavio si fermò sulla soglia della scala a chiocciola per assicurare l’immancabile mazzo di chiavi alla cintola. Allora, Armonia capì che era il momento giusto. Si liberò con un gesto dalla corda e con un calcio spinse l’uomo giù dalle scale. Il vecchio rimase in bilico sull’ultimo scalino, rote-ando le braccia nel vuoto per un tempo che parve infinito, poi con un urlo piombò in avanti a capofitto, rotolando e sparendo oltre la curva delle sca-le. Quando l’ultima eco della caduta si fu spenta in fondo alle scale, un silen-zio pieno di colpa rese l’atmosfera insopportabile. Armonia corse giù per le scale e si fermò solo quando vide i piedi di Otta-vio fare capolino. Rallentò, con un nodo in gola sempre più stretto. E se fosse stato tutto inutile e si fosse rialzato, senza un graffio? E se, peg-gio, l’avesse ucciso? Ammazzare un vecchio sadico lanciandolo dalle scale era al trentacinquesimo posto nella personale classifica delle cose che non le interessava fare prima di morire.

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Il Custode era steso per terra in una posizione grottesca, come un burattino a riposo. Con cautela, Armonia accostò il viso alla sua bocca e una zaffata di cipolla mista a effluvi alcolici quasi la uccise. L’uomo si mosse lamen-tandosi: era ancora vivo, nonostante il volo. Armonia raccolse il mazzo di chiavi e tornò di sopra, dove Sara la aspettava con un’espressione terrea in volto. «È mort… cioè… è passato a miglior vita?» chiese compostamente. «Respira… e il suo alito fa schifo» fu la risposta. «Dobbiamo muoverci se vogliamo salvare Martino… La Torre Sud, sai come arrivarci?» «Credo di sì» rispose Sara. «Dobbiamo scendere e poi… aspetta! Il cigno è ancora prigioniero e io sono iscritta al club degli amici degli animal…» «Al diavolo il club!» gridò Armonia. «La situazione è disperata, non ve-di?» «Ma non posso lasciarlo qui! Non me lo perdoneranno mai!» insisté Sara con le lacrime agli occhi. Armonia strinse i pugni, piena d’impazienza. «Va bene, va bene, andiamo a liberare il cigno!» esclamò, seguendo la ra-gazzina verso il laboratorio. Quando le vide arrivare, il cigno in gabbia spalancò i meravigliosi occhi verdi e poi iniziò ad agitarsi, preso dalla gioia e dall’impazienza. Tra le in-numerevoli chiavi di Ottavio, il cigno ne indicò col becco una piccola e ar-gentata, Sara fece scattare la serratura della gabbia e l’animale fu libero. «Andiamo!» esclamò Sara, voltandosi. L’animale non la seguì. «Su, vieni bello!» lo supplicò Armonia. «Penso che voglia indicarci qualcosa» disse Sara guardando il cigno come se si aspettasse da un istante all’altro che aprisse il becco e cominciasse a parlare. «Interessante, ma noi abbiamo fretta!» gemette Armonia. «Martino ha i minuti contati.» «Ha ragione!» gridò Sara, seguendo il volatile che trotterellò goffamente verso la finestra. Armonia si convinse che Sara fosse ammattita in seguito allo spavento, ma non poté fare altro che seguirla fino a una delle finestre. Il cigno allungò il collo elegante e aprì le immense ali. «Dice che dobbiamo andare lì…» mormorò Sara, indicando la Torre Sud, che si ergeva nera e minacciosa, davanti a loro. «Bella scoperta» disse Armonia seccata. «Vuole che gli montiamo in groppa!» gridò Sara. «Ovviamente faremo pri-ma!»

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«Ovviamente ci schianteremo a terra!» replicò Armonia, strabuzzando gli occhi, ma Sara era già salita in groppa. «È comodissimo.» Visto che non c’era apparentemente verso di convincere Sara che un cigno non poteva portarle in groppa, Armonia decise di seguirla, ma quando l’animale spiccò il volo, dovette ricredersi. In due giorni ne aveva viste di tutti i colori: streghe, gnomi e cigni giganti e ora volava. Per un istante dimenticò che stava andando verso due megere che volevano ucciderla e si sentì quasi felice. Ci vollero pochi minuti per raggiungere l’altra torre. Il cigno si accostò alla finestra. «È impossibile salvare Martino senza farci notare…» disse avvili-ta Armonia. «Io sono più piccola, potrei entrare e distrarre le streghe e tu potresti libera-re Martino» propose Sara. Armonia annuì. «È un’ottima idea» disse, «ma sarò io a distrarle e tu a li-berare Martino, non sono molto brava coi nodi.» «Dov’è quel buono a nulla di Ottavio?» esclamò la Direttrice guardando il grande pendolo. «È più di mezz’ora che è andato a prenderle e ancora non s’è visto.» «Arriverà, intanto perché non iniziamo con lui?» disse la professoressa di scienze, allungando una mano verso il viso inorridito di Martino. «No, Petunia» esclamò la Direttrice. «Sai bene che senza le ragazze non possiamo cominciare, se qualcosa va storto, abbiamo bisogno di un rim-piazzo, non sprecherò tutti i nostri animali. Resta col ragazzo, torno subi-to!» La professoressa si allontanò da Martino e sedette su una poltrona sbrindel-lata, dando le spalle alla finestra, mentre la Direttrice spariva oltre la porta. Passò qualche istante e Armonia pensò che fosse giunto il momento: con un salto fu dentro, seguita da Sara. Martino, a capo chino, non le aveva vi-ste entrare, ma quando furono abbastanza vicine, alzò di scatto la testa, trasse un bel respiro come se si preparasse a immergersi nelle profondità oceaniche e poi urlò con quanto fiato aveva in gola. La vecchia strega, che si era appisolata, saltò su come un pupazzo a molla, afferrò una boccetta da uno scaffale e la scaraventò a terra. L’ampolla andò in mille pezzi, trasformandosi in una massa di ragni pelosi che marciarono dritti verso Armonia e Sara. «Liberalo!» urlò Armonia a Sara, gettandosi di lato e rovesciando un pen-tolone pieno d’acqua sul pavimento. I ragni annegarono contorcendosi nell’acqua come se fosse acido.

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«Dannata mocciosa!» urlò la strega, scagliandole contro un’altra boccetta che, infrangendosi sul pavimento, si trasformò in uno sciame di calabroni inferociti. Armonia afferrò un vaso pieno di un liquido rosso, lo scagliò contro i cala-broni e questi caddero sfrigolando tra le fiamme. Non aveva idea di cosa avesse fatto, ma era servito. La strega afferrò un’altra ampolla: questa volta il risultato fu un lungo serpente che, come una saetta, si strinse attorno alle caviglie di Armonia facendola cadere per terra. La vecchia emise un ulula-to di trionfo e balzò su di lei, ma un enorme cigno furioso le sbarrò la stra-da, battendo le ali talmente forte che la vecchia stramazzò a terra, facendo un capitombolo all’indietro e battendo la testa contro la parete, dove si fermò a gambe all’aria, sfoggiando un orribile paio di mutandoni rossi. Le spire del serpente strinsero ancora, finché Armonia non sentì un sibilo e un’ascia si piantò nell’animale, tranciandogli il corpo in due. La bestia svanì com’era comparsa. Sara lasciò cadere l’arma con un tonfo. «I serpenti magici non rientrano fra gli amici del club degli animali…» si giustificò. «Andiamo!» urlò poi al cigno. L’animale le obbedì, volando verso la finestra. «Veloce, veloce!» esclamò Armonia impegnata nella titanica impresa di aiutare Martino a montare in groppa al cigno, dietro Sara. Le urla della Direttrice annunciarono il suo arrivo. Armonia provò a salire in groppa all’animale, ma era già troppo faticoso per lui portare sia Sara che Martino. «Prima voi due!» esclamò. «Porta giù loro, poi torna a prendere me!» «No!» disse Sara. «Sta arrivando!» «Siamo troppo pesanti per lui! Andate, veloci!» Il cigno spiccò il volo, ma non appena l’ebbe fatto la Direttrice e Ottavio piombarono nella stanza. Ottavio sembrava più rintronato del solito e ave-va una scia di sangue sulla fronte. La Direttrice era in piena congestione, come se avesse un grosso rospo bloccato in gola. Lanciò un’occhiata inorridita alla sorella svenuta, poi spalancò la bocca, infine lei e Ottavio si lanciarono verso Armonia con la furia di due demoni. In quel preciso istante accaddero molte cose, la maggior parte delle quali percepite da Armonia come un immenso, straordinario pasticcio. La prima delle cose incredibili fu che sentì un dolore terribile negli occhi, li chiuse forte e urlò, coprendosi con le braccia la testa. Negli ultimi tempi aveva sentito spesso gli occhi farle male, era accaduto anche a scuola, quando aveva mandato all’inferno Pompeo e gli altri, ma mai così.

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Seguì un intenso silenzio, allora aprì nuovamente gli occhi e vide che Ot-tavio doveva essere stato bloccato a metà del suo slancio da qualcosa che lo aveva scaraventato all’indietro e ora se ne stava immobile, disteso a ter-ra, occhi e bocca spalancati. Armonia non aveva idea di cosa fosse accaduto: era però consapevole che fosse stata lei a farla succedere. Poi accadde che la Direttrice provò a lan-ciare il Batticolpo, ma il raggio violetto si infranse su una barriera verde smeraldo venuta chissà da dove, che la difese. Si sentì sollevare, attirata da una forza misteriosa verso l’alto, poi la bolla color smeraldo si disintegrò in una serie di raggi violenti che fecero esplo-dere le mura della Torre Sud e scaraventarono Armonia fuori dalla finestra. Mentre cadeva, vide il viso della Direttrice diventare più pallido e spaven-tato, sempre più lontano… sempre più confuso, finché non sentì qualcosa di morbido e fresco sotto di lei. L’odore dell’erba era intenso, come un prato appena tagliato e sentiva l’umidità bagnarle la pelle e gli abiti: era fuori dalla torre, finalmente. Poi le venne in mente che non poteva aver volato per metri e metri ed essere illesa, perciò pensò che era morta e che era stato tutto un enorme, straordi-nario pasticcio. Alzò il viso per cercare gli altri e mormorare le sue ultime volontà (fra cui la richiesta di non essere seppellita nella schifosissima Prugnasecca), ma le forze la abbandonarono, il mondo collassò su di lei e tutto divenne buio e silenzioso.

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CAPITOLO VI

Il passaggio nel pozzo Era viva, perché altrimenti la voce di Sara e il borbottio lagnoso di Martino non avrebbero potuto essere così fastidiosi. Aprì gli occhi e, sollevandosi a sedere, apprese che non sentiva alcun dolore, che non aveva alcuna am-maccatura e che, in altre parole, non s’era fatta neanche un graffio. Solo un leggero dolore alla testa le ricordava quanto era avvenuto. Guardò su: dalla sommità sventrata della Torre usciva una pesante nuvola nera, come se vi fosse esplosa una bomba. «Che cosa è successo?» chiese alzandosi in piedi, senza alcuno sforzo. «Allora…» iniziò Sara precipitosamente, «prima le streghe ci hanno rapito, poi ci hanno fatto andare nelle stalle, siamo andati al Pozzo e lì…» «Intendevo negli ultimi cinque minuti… Lascia perdere» disse Armonia, continuando a tastarsi in cerca di eventuali fratture. «Andiamo dallo gno-mo» disse poi. «Ha detto che sa dov’è l’Uscita.» «Sì, ma…» esitò Martino, ancora aggrappato al cigno che scuoteva infasti-dito le ali, tentando invano di toglierselo dalla groppa. «È questione di vita o di morte!» esclamò Armonia. «Gli darò il bacio e la faremo finita! Su… ho le chiavi di Ottavio, possiamo attraversare la Serra Magica.» L’urlo della Direttrice irruppe dalla torre. Con un brivido d’orrore si volta-rono a guardare verso l’alto e li videro: neri e fumanti come demoni, con gli abiti a brandelli e i capelli ritti sulla testa, tutti sporchi di fuliggine ma con gli occhi fiammeggianti di odio. «PRENDILI!» urlò la Direttrice spingendo il Custode, come se pretendesse che l’uomo si lanciasse dalla torre per inseguirli. Ottavio barcollò pericolo-samente roteando entrambe le braccia per tenersi in equilibrio e quando in-fine vi riuscì, s’affrettò a sparire oltre la cortina di fumo, evidentemente diretto verso di loro. Le due streghe lo imitarono, lanciando un ultimo sguardo minaccioso ai fuggitivi.

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«Via!» urlò Armonia correndo verso la Serra Magica. Sara la seguì e il ci-gno, con un gemito, si sollevò trasportando Martino che non aveva alcuna intenzione di scendere e correre sulle sue gambe. Giunsero in prossimità della Serra e si fermarono col fiato mozzo. «La chiave!» urlò Armonia. «È piccola e dorata… eccola… eccola…» disse mentre trafficava per cercare la serratura. Dietro di loro si udivano le urla roche di Ottavio e quelle isteriche delle streghe. «Presto! Presto!» gridò istericamente Martino, sbatacchiando il collo dell’animale. Con un verso di stizza, il cigno lo disarcionò e Martino, proiettato in avan-ti, approdò con la faccia contro qualcosa di duro e trasparente. Era la serratura invisibile. «L’ha trovata!» urlò Sara raggiante, incurante delle pietose condizioni di Martino. «S… sì… l’ho trovata io…» balbettò di dolore il ragazzo, pulendosi il san-gue dal naso e cercando di darsi un contegno. Armonia infilò la chiave nella serratura e il corridoio magico comparve. Lo attraversarono correndo, con le Carnivore che si lanciavano su di loro an-cora più brutalmente. Martino arrancava talmente tanto che furono tutti costretti a rallentare per aspettarlo e questo permise agli inseguitori di raggiungerli. Armonia vide comparire prima il Custode, gli abiti laceri e il volto infiammato, poi le due Streghe, con le bocche contorte dalla rabbia e le facce annerite dal fumo. «Tornate indietro!» urlò la Direttrice. «Non dovete uscire!» Detto ciò, la vecchia strega scagliò contro di loro un Batticolpo che s’infranse pericolosamente vicino a Ottavio il quale, sobbalzando, si voltò verso la donna. «E non fissarmi come una blatta-matta, idiota!» ululò la professoressa di scienze, la crocchia sfatta e annerita che le pendeva su un lato. Una volta fuori dal corridoio, Armonia cercò con le mani tremanti la chia-ve dorata. Quando la trovò, la infilò nella serratura, ora ben visibile. Ottavio e le due streghe spalancarono gli occhi per il terrore. «NO! NO!» ringhiò il vecchio, ma con un capitombolo finì col muso per terra. «PEZZO DI IDIOT…» urlò la Direttrice inciampando nell’uomo. Sua so-rella fece lo stesso ed entrambe crollarono rovinosamente su di lui. Armonia girò la chiave nella toppa e il corridoio sparì, la Serra Magica si chiuse sul passaggio e i tre scomparvero alla vista.

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Lontano, nel profondo del vivaio, i ragazzi udirono i fischi voluttuosi delle Carnivore e le urla di Ottavio e delle due streghe. «Ne avranno per un po’» esclamò trionfante Armonia, precipitandosi in direzione del pozzo. Martino non sembrava molto convinto, ma non poté far altro che seguire Armonia e Sara. Faceva freddo, molto più freddo della prima volta che c’erano stati, forse perché la giornata era più cupa e non c’era neanche un raggio di sole a intiepidire l’aria. Armonia scese di corsa la lunga rampa di scale, ma a un certo punto dovet-te rallentare per aspettare gli altri. “Non può essere così male…” si disse, mentre attendeva seduta sul bordo di una delle finestre guardando giù. Sa-rebbe bastato chiudere gli occhi, ormai aveva quattordici anni e qualsiasi oca di scuola aveva dato il suo primo bacio a quattordici anni… Solo che era successo con un ragazzo, non con uno gnomo disgustoso e puzzolente. Sara sembrò comprendere le preoccupazioni di Armonia e le allungò quel-lo che doveva essere un pezzo della pagina di un settimanale per ragazze il cui titolo recitava più o meno: il primo bacio non si scorda mai: come ren-dere indimenticabile il vostro! Armonia la fissò inorridita e con una gran voglia di piangere, ma non riuscì neanche a insultarla. In un tempo che a tutti parve infinito, ma che Armonia giudicò, con terrore, brevissimo, giun-sero in fondo al Pozzo. Il cigno svolazzava sulla superficie dell’acqua, impaurito. «Cos’è questo rumore?» urlò una voce cavernosa dall’oscurità. «Che gene-re di creatura osa disturbare il grande Panaver, principe degli Gnomi Mu-schiati, bello tra i bell… Ah. Siete voi.» Martino diede uno spintone nervoso ad Armonia che per poco non finì tra le braccia dello gnomo il quale assunse di colpo un’aria altezzosa e offesa. «Vi avevo detto di non tornare» disse. «Oh, vi preghiamo, signore! Vi preghiamo!» sospirò Sara sgranando gli occhi limpidi. «Abbiamo tanto bisogno di voi.» «E tu, bestia curiosa? Anche tu hai bisogno di me?» chiese lo gnomo squa-drando il cigno con aria interessata. Armonia alzò gli occhi al cielo e s’impose di essere gentile. «È un cigno» spiegò ansiosa. «Ora, per favore… potresti aiutarci?» «Un cigno. Strana bestia» disse perplesso lo gnomo. «E dove l’avete pre-so?» «Ehi, gnomo!» esclamò spazientita Armonia. «Dov’è l’uscita? Le streghe stanno arrivando!» Lo gnomo spalancò così tanto gli occhi che divennero ancora più sporgenti e sembrarono occupare quasi tutta la faccia.

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«Le streghe?» balbettò. «Che vengono a fare qui le streghe? Chi cercano? Cercano me? Non ho rubato quel formaggio! L’ho trovato qui sul ponte! Sul ponte! È caduto a quell’idiota di custode e non è sceso a riprenderlo! Non mi sono mai mosso di qui in tutta la mia vita!» «Cercano noi, idiota!» gridò Armonia esasperata. «Dov’è l’uscita?» Lo gnomo si guardò attorno terrorizzato. «L’uscita? Che uscita?» «La porta per uscire da questo maledetto posto! Avevi detto che c’era un’uscita!» ruggì Armonia. «Ho mentito!» urlò lo gnomo con un’occhiata cattiva. «Non c’è un’uscita… c’è solo un’uscita, ma non si può… non si p…» «Maledetto!» abbaiò Armonia avventandosi contro di lui: ci fu una breve colluttazione poi l’essere finì a capofitto nell’acqua con uno scroscio. Se-guì un momento di orribile panico in cui nessuno parlò. Lontano echeggia-rono le urla delle streghe e dello gnomo s’era persa ogni traccia. Martino cominciò a lamentarsi per la sua precoce dipartita, quando im-provvisamente il cigno si gettò a capofitto nell’acqua. S’immerse per lun-ghi minuti, durante i quali Armonia, Sara e Martino rimasero in attesa di qualcosa. Poco dopo riemerse, trasportando lo gnomo che sputava acqua dalla bocca spalancata. «Idiota piumato!» urlò Armonia. «Ti sei gettato a capofitto solo per salvare questo ammasso di…» «È… qua… ggiù…» ansimò lo gnomo continuando a sputare acqua. «L’Uscita… è l’unica soluzione… l’unica… giù… bisogna tirare una le-va… ma io non so nuotar…» Prima che terminasse la frase Armonia si era gettata in acqua. Lo aveva fatto d’istinto, senza paura. Non ricordava d’aver mai imparato a nuotare, né d’esser stata al mare o in piscina, ma era possibile, visto che nuotava magnificamente e che lì sotto era a suo agio. L’acqua era fredda e torbida, ma individuò subito la porta su uno dei fianchi del pozzo. Era piuttosto grande, scura e accanto c’era una grossa leva. Provò ad abbassarla ma sembrava bloccata, perciò decise di tornare su a chiedere aiuto agli altri. Quando spuntò in superficie, la accolse il viso sconvolto di Sara, le urla lamentose di Martino, l’irrequietezza del cigno e la crisi di panico dello gnomo, che continuava ad andare su e giù gridando: «Aiuto, vostre signo-rie! Mi tengono prigioniero!» «Arrivano! Stanno scendendo le scale!» la informò Sara. «Buttatevi in acqua! Dobbiamo abbassare la leva!» disse Armonia.

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Sara strinse le mani contro la balaustra. «Non so nuotare…» mormorò. Poi i suoi occhi divennero stranamente scuri e decisi e, scavalcato il parapetto, si gettò in acqua. Armonia l’aiutò a riemergere e ad aggrapparsi al ponte. «Muovi i piedi» suggerì, «e quando andremo giù tieni gli occhi aperti e non respirare! Andrà benone, vedrai!» Sara annuì vigorosamente, sul suo viso spaventato l’acqua aveva iniziato a cancellare un po’ di sporcizia. «Avanti voi!» disse poi Armonia. «Martino, ti prego, dimmi che sai nuota-re!» Martino assunse un’aria minacciosa e smise per un istante di lamentarsi. «Certo che so nuotare!» disse gettandosi a capofitto nell’acqua con tale impeto che sembrò piuttosto volesse farla finita. Riemerse subito dopo boccheggiando, con l’acqua che gli usciva dal naso: uno spettacolo racca-pricciante, secondo, per bruttezza, solo al grugno terrorizzato e distorto dello gnomo, che piombava in acqua attaccato al collo del cigno. «Fermi!» urlò la voce della professoressa di scienze. «Quell’Uscita non si può usare!» Armonia ordinò a tutti di prendere una bella boccata d’aria. «Ora!» urlò e s’immerse. Ubbidiente, Sara la seguì e con immensa gioia, Armonia constatò che nuotava discretamente. Si voltò e alle sue spalle giungeva il cigno a una velocità incredibile, seguito da Martino, le mani infilate nella bocca e nel naso come se temesse di essere immerso nell’acido, mentre, a una distanza maggiore, rotolava, apparentemente sen-za vita, il corpo tozzo e verdognolo dello gnomo. Armonia arrivò davanti alla porta e, puntellandosi coi piedi sulla parete del pozzo, si aggrappò alla leva cercando, con tutte le sue forze, di abbassarla. Di colpo, sentì un formicolio nelle dita e avvertì il potere fluire in lei. La porta, lentamente, iniziò a sollevarsi e l’acqua a scorrere velocemente sotto di essa. Allo stesso tempo sulla sua testa udì il tonfo delle due streghe e del custode che piombavano in acqua: la Direttrice si dirigeva verso di loro con la grazia di un’orca assassina, gli altri due cercavano di nuotare disperatamente verso la superficie, evidentemente a corto di aria. La cor-rente si fece sempre più forte, fino a generare un gorgo che li risucchiò ver-so la porta spalancata, allora Armonia mollò la leva e si lasciò guidare dal-la corrente. Quando oltrepassò la porta, però, ebbe la netta consapevolezza che qualco-sa non era andato per il verso giusto. La prima sensazione fu di non avere nulla sotto i piedi. Il getto d’acqua fredda la portò in alto, poi ricadde verso il basso, cacciando istintivamente un grido di paura.

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Le nuvole sotto i suoi piedi lasciavano intuire a che razza di altezza doves-sero trovarsi, mentre dalla porta intagliata in una nuvola uscirono uno die-tro l’altro Sara (che, con aria trasognata, si limitò a fare ciao-ciao con la mano in direzione di Armonia), Martino (con ancora naso, bocca e occhi tappati) e lo gnomo svenuto, nuovamente approdato sulla schiena sicura del cigno, l’unico essere che sembrava a suo agio in quella assurda situa-zione. Non fece in tempo a veder sbucare dalla porta la Direttrice, sua so-rella e Ottavio, ma vide solo una minuscola macchia nera, perché di colpo finì in una specie di gorgo. Allora iniziò a cadere più velocemente: sentiva il vento ulularle nelle orecchie e lontano e vicino voci concitate, pianti, ri-sate e altri rumori. «Scusa… hai bisogno?» disse una voce alle sue spalle. Una bionda signora col casco, a bordo di una barca rosa shocking dalla li-nea aerodinamica, le si accostò con un sorriso. «Non hai l’aria di una che si diverte…» «In effetti non mi diverto affatto!» gemette Armonia saltando sulla barca, che sembrava fatta di caramelle gommose e profumava di fragole e vani-glia. La donna l’aiutò a mettersi seduta, poi azionò una leva sul quadro e un casco color acquamarina comparve sulla testa di Armonia che si tastò con aria trasognata. «Oplà… Nuova di qui? Immagino tu venga da Fuori.» Armonia era ancora troppo scossa per parlare, ansante e bagnata fradicia, si appoggiò allo schienale di peluche rosa e osservò affascinata il blu e il bianco del cielo e delle nuvole. Superarono una chiatta bianca con vela scarlatta sulla quale campeggiava un cuore pulsante e le parole “Oggi Spo-si”, quindi accelerarono perforando le nubi. «Sei bagnata fradicia, mia cara, prenderai un raffreddore» disse la donna, poi premette un pulsante sul quadro e Armonia fu investita da una violenta aria calda che le asciugò perfettamente abiti e capelli. «Ecco qua, tra un po’ saremo alla Torre-Nuvola, quale Uscita hai preso, cara?» Armonia balbettò qualcosa come: «Non lo so… Castelvelato?» «Accidenti!» esclamò la donna. «Sei stata fortunata che passassimo di qui, allora. Era da molto che non veniva usata, quell’uscita, a dire il vero crede-vo fosse stata chiusa per sempre, un tempo era sicura, ma adesso ci sono gorghi dappertutto e non sai mai dove ti ritrovi. Sei stata molto fortunata.» La donna insisteva talmente tanto su quel punto che Armonia iniziò a cre-dere decisamente il contrario. All’improvviso qualcosa che aveva l’aria di un porto, con centinaia di imbarcazioni grandi e piccole, comparve davanti ai suoi occhi.

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«Andremo a schiantarci!» gridò, aggrappandosi alla donna. «Oh, no… che seccatura! Un po’ di contegno, cara!» esclamò la donna as-sestandole una sonora gomitata nello stomaco. Armonia fu proiettata con la schiena sul sedile, dove una cintura di sicu-rezza la immobilizzò all’istante e rimase lì terrorizzata finché la barca si fermò di colpo. Allora osò aprire gli occhi e vide che erano sospesi a mezz’aria, a meno di un metro dal pontile. Dovette respirare profondamen-te per vincere i conati di vomito. Con un sibilo la cintura di sicurezza sparì. Armonia segnò mentalmente una nuova voce nella lista delle cose da non rifare prima di morire: viag-giare su una barca volante guidata da una pazza. «Arrivati» annunciò la donna. «Puoi scendere… Oplà» continuò frettolosa. Ancora tremante Armonia scese dalla barca e quando toccò terra con un PLOP! il casco si smaterializzò. Sì, sembrava un porto, ma nel quale anda-vano e venivano mezzi di trasporto di ogni tipo: c’erano piccole barche al-lungate e gommose, come quella da cui era appena scesa lei, chiatte a due posti e maestosi velieri carichi di passeggeri che lasciavano il molo. «Allora, tesoro, non vorrai metterci tutto il giorno, spero! Ho altre tre corse prima di staccare. Sono tre aquile d’argento.» Armonia ci mise un po’ prima di capire che la donna parlava di denaro. «Non… non ho aquile d’argento…» balbettò imbarazzata. La donna aggrottò la fronte, poi le rivolse un sorriso tisico. «Capisco… un diobolo d’oro? Ho il resto di sette aquile.» «N… no» sorrise Armonia. Dall’espressione, la donna sembrò improvvisamente colpita da un violento mal di denti. «Che intenzioni hai, bella mia? Volevi farti un giro gratis? Non hai letto qui?» disse puntando il dito avvolto nel guanto rosa su un la-to della barca. Taxi, lesse Armonia. «Giro gratis? Mi sono ritrovata tra le nuvol… Ecco, è che sono nuova e non ho soldi. Posso… ehm… dare qualcosa in pegno?» balbettò, chieden-dosi cosa mai avrebbe potuto darle, se la donna avesse risposto di sì. Ma invece rispose strillando istericamente di no e presto furono attorniati da diversi curiosi. «Che c’è? Che succede?» tuonò un controllore alto mezzo metro, vestito di azzurro e con un berretto a punta che gli dava un’aria da folletto. L’uomo si fece largo tra la folla e quando vide Armonia la squadrò come se avesse visto una creatura fantastica. «Santo Cielo, che abbiamo qui?»

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«Viene da Fuori» rispose acidamente la donna. Armonia constatò che era diventata incredibilmente antipatica ora. «Pensa di poter viaggiare gratui-tamente sulla mia barca…» «Io veramente non sapevo neanche…» provò a spiegare Armonia, ma il controllore la interruppe. «Da dove arrivi, giovinetta?» «È uscita dal Pozzo di Castelvelato, dice» rispose la donna, lanciandole uno sguardo di compatimento. «Di’ un po’, Bartulus, chi è che controlla Castelvelato?» «Castelvelato è chiusa da anni» rispose il controllore grattandosi sotto il cappello la testa pelata. «Chi mi paga la corsa, ora… eh?» sbottò la donna con aria inferocita. «Te la pago io» disse con un sospiro l’uomo. «Eccoti tre aquile d’argento e sii più comprensiva con chi viene da Fuori! Si vede che la signorina, qui, è una di… Loro, no?» La donna intascò il denaro e, gettato uno sguardo altezzoso ad Armonia, sfrecciò via. Il controllore intanto aveva badato a disperdere la folla, poi aveva preso da parte Armonia tutto sorridente. «Dove devi andare?» «Io… non ne ho idea…» balbettò Armonia. «Suppongo… suppongo di do-ver cercare i miei amici…» Il controllore spalancò i piccoli occhi neri avvicinandosi al viso della ra-gazzina. «Per le stelle e i pianeti! Che occhi…» «Che hanno i miei occhi?» sussurrò Armonia, scostandosi. «Sono strani…» rispose l’uomo scrutandola più da vicino. Poi si allontanò con un sorriso. «Molto belli, comunque! Dunque, vediamo: se i tuoi amici non sono qui, forse sono giù.» «Sì, ehm… ma qui dove siamo?» chiese Armonia guardandosi attorno. «Stazione Volante Sesto Cielo» recitò l’uomo come in uno spot pubblicita-rio. «A un solo piano dal Paradiso.» «Sì, ma io come faccio a…» «A scendere?» borbottò ridendo l’uomo. «Niente di più semplice! C’è l’Ascensore.» «E quanto… io non ho soldi… sono…» «Ma mia cara!» esclamò scandalizzato il controllore. «La Stazione Volante Sesto Cielo (dove tutto è angelico) offre un giro di prova sull’ascensore ai nuovi ospiti: garantisco io! Se ti piace poi potrai tornarci con tutta la fami-glia, d’accordo?»

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«C… certo» rispose Armonia tirando un sospiro di sollievo. Non sapeva dove conducesse l’ascensore, ma era sempre meglio che rimanere su una piattaforma sospesa nel cielo. «Bene, allora… dove…» «Ma certo, cara… seguimi pure. Ti divertirai.» Senza neanche osare replicare che non voleva affatto divertirsi ma sempli-cemente ritrovare i suoi amici, Armonia seguì l’uomo con una strana ap-prensione. FINE ANTEPRIMA.Continua...