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ARISTOTELE LA VITA Aristotele nasce a Stagira, una piccola città della costa orientale della penisola calcidica, nel 384 a.C. Suo padre, Nicomaco, lavora come medico presso la corte di Macedonia, retta allora da re Filippo. E così la sua prima formazione è di carattere scientifico: il giovane Aristotele passa infatti molto tempo a fianco del padre. A diciassette anni si reca ad Atene per iscriversi all’Accademia di Platone. Vi rimarrà per vent’anni. Nel 345 l’esercito macedone occupa Olinto, polis alleata di Atene. Subito il partito antimacedone ateniese insorge e nel giro di un anno conquista la guida della città. Aristotele, di cui è nota la vicinanza alla corte di Macedonia, spaventato si vede costretto ad abbandonare Atene. E tuttavia sulle reali ragioni di tale abbandono ancora oggi gli storici non sono concordi. Un’altra ipotesi è quella che vede il filosofo di Stagira abbandonare la città in seguito alla delusione per non essere stato scelto come successore di Platone alla guida dell’Accademia, dopo la morte del suo fondatore avvenuta proprio nel 347. Il maestro aveva alla fine deciso di lasciarla ad un suo nipote, Speusippo, decisamente meno brillante di Aristotele. Comunque siano andate le cose, Aristotele si trasferisce prima ad Asso, inAsia Minore, ospite di un certo Ermia, anche lui ex studente dell’Accademia, e quindi sull’isola di Lesbo, dove conosce Teofrasto. Con quest’ultimo stabilisce un fecondo se duraturo sodalizio (sarà lui a dirigere il Liceo dopo la morte del maestro di Stagira). Nel 342 Aristotele viene chiamato a corte da Filippo come precettore del figlio Alessandro. Aristotele lo forma secondo i canoni della cultura greca. Nel 338 gli giunge la notizia della morte di Speusippo. Per la seconda volta il filosofo coltiva la speranza di mettersi alla guida dell’Accademia e per la seconda volta rimarrà deluso. La scelta ricade su Senocrate. Ma ormai la stella di Atene non brilla più. Si fa ogni giorno più pesante la pressione dell’esercito macedone. Nel 336 re Filippo viene assassinato e la corona passa nelle mani di Alessandro, che, in poco tempo, sconfiggerà tutte le armate greche, divenendo il padrone assoluto della penisola ellenica. Termina così la scolare libertà delle poleis greche: la Grecia si trasforma in una provincia della Macedonia, senza alcuna sostanziale autonomia. Da cittadini a sudditi: un durissimo colpo per chi — la cultura greca in generale e quella ateniese in particolare — ha identificato la libertà con la cittadinanza e la sudditanza con la schiavitù. Ma questo significa anche che il partito antimacedone ha perso. Per Aristotele, dunque, è una bella notizia e in poco tempo torna in città forte dello stretto rapporto con il nuovo imperatore macedone: Alessandro Magno. Ma il suo obiettivo non è più la guida dell’Accademia. Egli è deciso, al contrario, a sfidare la scuola che fu di Platone sul suo stesso terreno. E così fonda il Liceo, chiamato anche“peripato”, vale a dire “passeggiata”, per indicare un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli saranno soliti camminare mentre discutono (e “peripatetici” verranno chiamati, d’ora in poi, tutti gli aristotelici, anche dopo la morte del maestro). Il Liceo si presenta con caratteristiche ben diverse dall’Accademia platonica. Se quest’ultima ruotava tutto attorno alla figura del suo fondatore, il Liceo si presenta invece come un centro studi dove si insegnano le più disparate discipline e dove sono presenti numerosi laboratori. Insomma, la scuola aristotelica si avvicina molto più di quella platonica alle moderne agenzie formative: un grande edificio con aule e laboratori, con docenti ai quali viene adato l’insegnamento di una specifica disciplina e soprattutto di quelle scientifiche e pratiche. Grande importanza assume per Aristotele la biologia. D’altro canto, nei giardini del Liceo sono presenti numerosissime piante, frutti ed alberi provenienti dai quattro angoli del mondo allora conosciuto, regali del suo ex studente Alessandro. Aristotele insegnerà nel suo Liceo per 12 anni, conducendo una vita tutto sommato tranquilla, anche se sempre da meteco, con al fianco la moglie Pizia e i figli Pizia (chiamata come la moglie) e Nicomaco (come il padre). Dopodiché il clima torna a farsi molto caldo, soprattutto dopo la morte di Alessandro, avvenuta nel 323. Il partito antimacedone torna all’oensiva e Aristotele teme per la sua vita. E così si rifugia a Calcide, dove vi rimarrà però solo un anno. Nel 322 muore. 1

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ARISTOTELE

LA VITA Aristotele nasce a Stagira, una piccola città della costa orientale della penisola calcidica, nel 384 a.C. Suo padre, Nicomaco, lavora come medico presso la corte di Macedonia, retta allora da re Filippo. E così la sua prima formazione è di carattere scientifico: il giovane Aristotele passa infatti molto tempo a fianco del padre. A diciassette anni si reca ad Atene per iscriversi all’Accademia di Platone. Vi rimarrà per vent’anni. Nel 345 l’esercito macedone occupa Olinto, polis alleata di Atene. Subito il partito antimacedone ateniese insorge e nel giro di un anno conquista la guida della città. Aristotele, di cui è nota la vicinanza alla corte di Macedonia, spaventato si vede costretto ad abbandonare Atene. E tuttavia sulle reali ragioni di tale abbandono ancora oggi gli storici non sono concordi. Un’altra ipotesi è quella che vede il filosofo di Stagira abbandonare la città in seguito alla delusione per non essere stato scelto come successore di Platone alla guida dell’Accademia, dopo la morte del suo fondatore avvenuta proprio nel 347. Il maestro aveva alla fine deciso di lasciarla ad un suo nipote, Speusippo, decisamente meno brillante di Aristotele. Comunque siano andate le cose, Aristotele si trasferisce prima ad Asso, inAsia Minore, ospite di un certo Ermia, anche lui ex studente dell’Accademia, e quindi sull’isola di Lesbo, dove conosce Teofrasto. Con quest’ultimo stabilisce un fecondo se duraturo sodalizio (sarà lui a dirigere il Liceo dopo la morte del maestro di Stagira). Nel 342 Aristotele viene chiamato a corte da Filippo come precettore del figlio Alessandro. Aristotele lo forma secondo i canoni della cultura greca. Nel 338 gli giunge la notizia della morte di Speusippo. Per la seconda volta il filosofo coltiva la speranza di mettersi alla guida dell’Accademia e per la seconda volta rimarrà deluso. La scelta ricade su Senocrate. Ma ormai la stella di Atene non brilla più. Si fa ogni giorno più pesante la pressione dell’esercito macedone. Nel 336 re Filippo viene assassinato e la corona passa nelle mani di Alessandro, che, in poco tempo, sconfiggerà tutte le armate greche, divenendo il padrone assoluto della penisola ellenica. Termina così la scolare libertà delle poleis greche: la Grecia si trasforma in una provincia della Macedonia, senza alcuna sostanziale autonomia. Da cittadini a sudditi: un durissimo colpo per chi — la cultura greca in generale e quella ateniese in particolare — ha identificato la libertà con la cittadinanza e la sudditanza con la schiavitù. Ma questo significa anche che il partito antimacedone ha perso. Per Aristotele, dunque, è una bella notizia e in poco tempo torna in città forte dello stretto rapporto con il nuovo imperatore macedone: Alessandro Magno. Ma il suo obiettivo non è più la guida dell’Accademia. Egli è deciso, al contrario, a sfidare la scuola che fu di Platone sul suo stesso terreno. E così fonda il Liceo, chiamato anche“peripato”, vale a dire “passeggiata”, per indicare un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli saranno soliti camminare mentre discutono (e “peripatetici” verranno chiamati, d’ora in poi, tutti gli aristotelici, anche dopo la morte del maestro). Il Liceo si presenta con caratteristiche ben diverse dall’Accademia platonica. Se quest’ultima ruotava tutto attorno alla figura del suo fondatore, il Liceo si presenta invece come un centro studi dove si insegnano le più disparate discipline e dove sono presenti numerosi laboratori. Insomma, la scuola aristotelica si avvicina molto più di quella platonica alle moderne agenzie formative: un grande edificio con aule e laboratori, con docenti ai quali viene affidato l’insegnamento di una specifica disciplina e soprattutto di quelle scientifiche e pratiche. Grande importanza assume per Aristotele la biologia. D’altro canto, nei giardini del Liceo sono presenti numerosissime piante, frutti ed alberi provenienti dai quattro angoli del mondo allora conosciuto, regali del suo ex studente Alessandro. Aristotele insegnerà nel suo Liceo per 12 anni, conducendo una vita tutto sommato tranquilla, anche se sempre da meteco, con al fianco la moglie Pizia e i figli Pizia (chiamata come la moglie) e Nicomaco (come il padre). Dopodiché il clima torna a farsi molto caldo, soprattutto dopo la morte di Alessandro, avvenuta nel 323. Il partito antimacedone torna all’offensiva e Aristotele teme per la sua vita. E così si rifugia a Calcide, dove vi rimarrà però solo un anno. Nel 322 muore.

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LE OPERE

La produzione letteraria di Aristotele è sterminata, sebbene non tutta sia giunta fino ai giorni nostri. Di alcune opere si hanno solo vaghe notizie, mentre di altre ci sono pervenuti solo alcuni frammenti. E tuttavia, quelle che si sono conservate sono più che sufficienti per ricostruire in maniera esaustiva il pensiero dell’autore. Gli scritti aristotelici possono essere divisi in due grandi filoni: il primo è rappresentato da quelle destinate alla pubblicazione, e chiamate essoteriche (dal greco éxo, che significa “fuori”), composte in gran parte da dialoghi, come Sulla Filosofia, Eudemo, Sulla Retorica, nonché da scritti del genere esortatorio, come il Protrettico, o consolatorio; il secondo, da quelle destinate agli studenti, dei veri e propri manuali, rimaste inedite fino a quando Aristotele era ancora in vita, e chiamate esoteriche (dal greco eso, che significa “dentro”). Ebbene, la stragrande maggioranza degli scritti in nostro possesso appartiene proprio a queste ultime, che sono anche le più complesse, perché riservate ad un pubblico di specialisti e non curate al fine di una diffusa pubblicazione. Di qui le difficoltà che non solo gli studenti ma anche gli studiosi incontrano nella lettura e l’interpretazione di Aristotele. Nel I secolo d.C., il filosofo Andronico di Rodi ordinerà gli scritti aristotelici nel modo seguente:

1. Scritti di Logica (o Analitica) 2. Scritti di Fisica 3. Scritti di Metafisica (o Filosofia Prima) 4. Scritti di Morale e Politica

Una suddivisione ancora oggi accettata dai critici del filosofo di Stagira e che permette un approccio meno problematico al suo pensiero.

ARISTOTELE E PLATONE

Aristotele studia, anzi vive per vent’anni nell’Accademia di Atene, a strettissimo contatto con quello che allora era il più grande filosofo di tutti i tempi: Platone. L’Accademia è la scuola filosofica più nota e prestigiosa della città, in grado di attrarre ogni anno centinaia di giovani, soprattutto grazie al grande carisma del suo fondatore. Aristotele è tra questi. E tuttavia la sua formazione non è quella della maggioranza dei discepoli di Platone. Egli ha infatti vissuto con il padre medico e tale rapporto ha stimolato in lui un forte interesse per le cose concrete di questo mondo e per le scienze pratiche. Forse è proprio tale formazione ha portarlo presto in rotta di collisione (filosoficamente parlando) con il maestro. Già nell’Eudemo, scritta proprio quando frequenta l’Accademia, Aristotele non nasconde le critiche al sistema filosofico platonico. E con il passare degli anni, questa distanza si farà incolmabile. Di qui le critiche, anche serrate, che pioveranno sullo Stagirita soprattutto da parte degli amici di Platone. Critiche alle quali Aristotele risponderà sempre con queste parole: “L’amicizia e la verità sono entrambe care ma è cosa santa onorare ancora di più la verità”. Una rottura che sembra dare ragione e chi sostiene che Platone abbia deciso di affidare ad un suo nipote la guida dell’Accademia dopo la sua morte e non ad Aristotele, sicuramente più dotato, costringendo quest’ultimo ad abbandonare la scuola e la città di Atene. Forse le cose sono andate effettivamente così. E tuttavia bisogna ricordare che Platone, pur dotato di un eccezionale carisma, non è certo un filosofo avverso al confronto con chi non la pensa come lui. Aristotele tornerà ad Atene parecchi anni dopo, cioè dopo essersi fatto le ossa presso la corte di Filippo di Macedonia come precettore del futuro imperatore Alessandro. E una volta in città, decide di sfidare l’Accademia fondando una propria scuola, il Liceo. Platone e Aristotele: due straordinari filosofi, ma anche due visioni del mondo, almeno in apparenza, inconciliabili. Si spiega così la nascita di due veri e propri “partiti”, quello platonico e

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quello aristotelico, appunto, che caratterizzeranno l’intera storia della filosofia, praticamente fino ai nostri giorni. Il grande Raffaello, grazie al suo ineguagliabile genio artistico, è riuscito a cogliere il senso della distanza che separa i due filosofi nell’opera La Scuola di Atene. In quel quadro ci sono tutti: Eraclito, Socrate, Pitagora … Ma il centro della scena è occupato proprio da Platone e Aristotele,

che avanzano in tutta la loro indiscussa autorevolezza, quasi facendosi quasi largo tra gli altri filosofi. I due stanno discutendo guardandosi negli occhi. Platone, raffigurato in età piuttosto avanzata, indica con un dito il cielo, mentre lo Stagirita, che pare molto giovane di lui, indica con la mano la terra. Sta qui la netta differenza tra i due: Platone pensa che la verità non sia di questo mondo, ma di una dimensione che sta al di là dei cieli (l’Iperuranio), mentre per Aristotele non esiste altro mondo all’infuori di quello in cui viviamo.

Dati questi presupposti, non deve stupire che le rispettive filosofie appaiano così diverse. Per Platone la conoscenza non è di questo mondo, sebbene l’uomo abbia la fortuna di portare con sé (letteralmente ingabbiata in un corpo) un’anima che appartiene proprio a quel lontano mondo. Per Aristotele, al contrario, la conoscenza è di questo mondo e le anime sono soggette a corruzione come i corpi (sebbene su questo punto la questione rimanga ancora oggi aperta). D’altro canto, Platone e Aristotele sono figli di tempi diversi. Platone viene pesantemente segnato dalla condanna a morte di Socrate e matura una profonda avversione per la democrazia. E tuttavia ha la fortuna di vivere in una città — che è poi la città in cui è nato — ancora libera e indipendente. Aristotele non è ateniese e sin da giovanissimo entra in contatto proprio con quel regno che sconfiggerà Atene e tutte le poleis greche: la Macedonia. Platone è un cittadino ateniese, anche se molto critico; Aristotele fonda una scuola ad Atene, ma rimarrà per gli ateniesi sempre un meteco. Platone scrive sempre con la mente rivolta al suo maestro e tutti suoi libri vertono, di fatto, nella ricerca di un mondo giusto dove un martirio come quello di Socrate non sia più possibile. Aristotele ha altri interessi, più squisitamente scientifici, che gli derivano dalla vicinanza al lavoro del padre, che era un medico e non un filosofo. Ma questo non significa che tra i due non vi siano dei punti in comune. In particolare, entrambi sono radicalmente ostili alla Sofistica e al suo relativismo. Sia per Platone sia per Aristotele, non

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sussistono dubbi circa l’esistenza di verità incontrovertibili: per il primo si tratta di rammentare quanto le anime hanno appreso durante il loro soggiorno nell’Iperuranio, mentre per il secondo di scovarle nelle cose concrete di questo mondo. Li unisce anche l’interesse per la politica, che verrà poi meno proprio con la morte di Aristotele e il sorgere di una nuova cultura: l’Ellenismo.

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I LA LOGICA

Seguendo lo schema di Andronico di Rodi, il punto di partenza della filosofia di Aristotele è rappresentato dalla Logica. Attenzione però: il termine “logica” non è aristotelico bensì stoico, una scuola filosofica successiva. Sarebbe più appropriato il termine “organon”, vale a dire “strumento”, sebbene nemmeno questo sia il termine che l’autore utilizza nelle sue opere. Egli parla infatti di “Analitica”, cioè di una disciplina che studia il corretto funzionamento del nostro pensiero e che, come tale, non può che trovarsi alla base di tutte le altre scienze. L’Analitica si compone di sei libri: Categorie, De Interpretazione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Confutazioni sofistiche.

- Le Categorie Lo studio del linguaggio è molto importante per Aristotele, in quanto il linguaggio esprime ciò che la nostra mente pensa. Studiando le dinamiche del linguaggio, dunque, è possibile risalire a quelli della mente. Il primo passo da compiere è chiarire quali sono i rapporti di predicazione vale a dire ciò che può essere predicato di un determinato soggetto. Per esempio, la proposizione “questo banco è bianco” esprime un rapporto di predicazione in cui il predicato “bianco” viene attribuito al soggetto “questo banco”. Oppure, nella proposizione “uomo corre”, si ritrova una correlazione tra i termini “uomo” e “corre”. Per comprendere meglio il meccanismo della conoscenza che si esprime attraverso la nostra lingua, Aristotele introduce le Categorie, vale a dire quei predicati, quei termini che rispondono a tutte le possibili domande che ci poniamo riguardo a qualsiasi ente:

1. Sostanza: risponde alla domanda “che cosa è?” 2. Quantità: risponde alla domanda “quanto è?” 3. Qualità: risponde ala domanda “come è”? 4. Relazione: risponde alla domanda “che relazione ha con le altre cose?” 5. Luogo: risponde alla domanda “dove è?” 6. Tempo: risponde alla domanda “quando è?” 7. Giacere: risponde alla domanda “come si trova?” 8. Avere/Possedere: risponde alla domanda “Cosa ha o possiede?” 9. Agire: risponde alla domanda “cosa fa?” 10. Patire: risponde alla domanda “cosa subisce?”

Dunque, ogni ente, per essere conosciuto nella sua interezza, deve rispondere a queste domande. Ma è evidente che la prima le presuppone tutte. Senza la risposta alla domanda “che cos’è” non si può rispondere alle altre nove. Le categorie esprimono molteplici significati dell’essere. Al contrario di quanto sosteneva Parmenide, l’essere per Aristotele non è affatto singolo e compatto, con un solo significato, ma qualcosa di predicabile, che comprende una molteplicità di significati. E tali significati sono irriducibili tra loro, cioè non possono essere riportati ad una sola classe superiore, come invece sosteneva Platone, il quale riportava il molteplice all’unità, i singoli individui (esseri), in quanto copie, al loro modello presente nell’Iperuranio. Per Aristotele esistono solo e solamente i singoli individui, dunque la molteplicità di questo unico mondo.

- Sostanze Prime e Sostanze Seconde Le Categorie non sono tutte sullo stesso piano: la Sostanza (Ousia) le presuppone tutte. E’ la sostanza a fare di un determinato ente quello che effettivamente è e nient’altro che quello. Se si elimina la sostanza, infatti, quell’ente cessa di esistere oppure si trasforma in un’altra cosa. Ecco perché le altre categorie risultano per così dire secondarie. E infatti Aristotele le chiama anche Accidenti.

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Si prenda ad esempio una delle più note definizioni di Aristotele: “l’uomo è un animale razionale”. Se si elimina la razionalità, l’uomo cessa di essere uomo e retrocede allo status di un qualsiasi animale. Dunque, la razionalità rappresenta la sostanza dell’uomo, la sua essenza. E tuttavia, non esiste una sola sostanza. Ci sono termini all’interno di quella categoria che possono fungere sia da soggetto sia da predicato, come per esempio “uomo”. Nella proposizione “l’uomo è animale”, tale termine è soggetto, ma nella proposizione “Socrate è un uomo” diventa predicato. Altri termini, invece, non possono assolutamente fungere da predicato, ma solamente da soggetto, come per esempio “Socrate”. Nella proposizione “Socrate è uomo”, esso è soggetto; ma lo è anche nella proposizione “Uomo è Socrate”. Esistono dunque due tipi di sostanze: le Sostanze Prime, vale a dire gli individui concreti, come Socrate, e le Sostanze Seconde, cioè i concetti universali, che permettono di collocare gli individui concreti in classi comuni più o meno ampie, in modo da definirli come generi e specie. Di conseguenza, l’individuo concreto “Socrate” è la sostanza prima, mentre gli attributi “uomo” o “animale” saranno le sostanze seconde, che tuttavia serviranno a definire meglio la prima. A loro volta, il termine “animale” rappresenterà il genere, mentre il termine “uomo” la specie. Dunque, le sostanze prime sono il fondamento delle sostanze seconde, che rappresentano i concetti universali. In altri termini, non potremmo mai avere il concetto di “uomo” senza l’esistenza di individui concreti come “Socrate”, “Platone” e via dicendo e non potremmo avere il concetto di “animale” se accanto agli individui umani concreti non esistessero altrettanto singoli animali concreti. In questo modo è possibile dunque pervenire ad una classificazione precisa di ogni ente, attraverso una concatenazione di generi e specie. Anche in questo caso Aristotele segna il distacco da Platone. Quest’ultimo, infatti, sosteneva che l’universale, collocato per altro al di fuori degli individui medesimi e del mondo in cui vivono (l’Iperuranio) rappresentasse il fondamento degli individui e non questi ultimi il fondamento degli universali, collocati negli individui medesimi come ousia. Per esempio, il fondamento di tutti gli esseri umani è l’Umanità, un idea che sta, appunto, nell’Iperuranio. Per Aristotele, al contrario, non esiste alcuna “Umanità” al di fuori del genere umano che vive in questo mondo: l’umanità sta in ogni singolo essere umano. Inoltre, l’Umanità appartiene a sua volta a quella massa ancora più grande di esseri viventi appartenente al genere “animale”. Si avanza in questo modo per differenziazione specifica, fino a quando non giungeremo ad un individuo concreto, per esempio quello specifico uomo chiamato “Socrate”. E’ evidente l’influenza delle scienze naturali nella visione filosofica di Aristotele (come anche l’influenza che Aristotele eserciterà su quelle scienze).

Esseri Viventi - Esseri non viventi Esseri dotati di movimento - Esseri privi di movimento Esseri dotati di razionalità - Esseri privi di razionalità Esseri maschili - Esseri femminili ……………………………………………. Socrate

- De Interpretatione Se le Categorie si occupano di termini senza connessione (i semplici esempi visti nel paragrafo precedente), il De interpretazione si occupa invece dei termini connessi in una proposizione. Le parole sono per Aristotele simboli delle affezioni o modificazioni dell’anima, cioè concetti che, a loro volta, sono “immagini delle cose esterne” (realismo aristotelico contro il relativismo della sofistica più radicale, come quella di Gorgia). Il rapporto tra le affezioni dell’anima e le cose è per Aristotele naturale: in presenza delle stesse cose, tutti gli uomini si formano naturalmente i medesimi concetti (anche in questo caso si supera il radicalismo sofistico). Ma il rapporto tra i concetti e le parole è, al contrario, convenzionale e storico (e qui invece l’influenza della Sofistica è evidente): per indicare la stessa cosa, per esempio un “uomo”, i greci utilizzano il termine

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anthropos, i latini il termine homo. L’importante è, comunque, che greci e latini convengano sul fatto che entrambi i termini si riferiscano ad un medesimo ente. Solamente quando le parole sono connesse tra loro in proposizioni, cioè si collocano a livello di un discorso, ha senso porsi il problema della loro verità o della loro falsità. Ma ciò non avviene per tutti i discorsi, ma solamente per quelli apofantici, cioè dichiarativi, enunciativi, che descrivono stati di cose. Ci sono infatti proposizioni, come i comandi o le preghiere, che di per sé non sono né veri né falsi: l’enunciato “Socrate corre” può essere sia vero sia falso, ma l’enunciato “Socrate, corri!” (comando) oppure “Dio ti prego!” (preghiera), non è né l’una né l’altra. Il discorso apofantico è dato proprio dalla connessione tra un soggetto e un predicato: “Socrate corre” oppure “Socrate sta correndo”. Se Socrate effettivamente corre o sta correndo, allora la proposizione sarà vera, altrimenti risulterà falsa. Qualitativamente, esisteranno due tipi di proposizione, quelle che affermano qualche cosa e quelle che negano qualche cosa. Esisterà cioè una proposizione affermativa ed una negativa. E tuttavia le proposizioni differiscono anche a livello qualitativo. Vi sono infatti proposizioni universali, come “tutti gli uomini sono razionali”, e proposizioni particolari, come “qualche uomo è bianco”. Riassumendo, esistono proposizioni universali e proposizioni particolari, le quali, a loro volta, possono essere negative o affermative. Per semplificare meglio la questione, i logici medievali hanno creato il cosiddetto Quadrato degli Opposti:

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Universali Affermative

UA

Universali Negative

UN

Particolari Affermative

PA

Particolari Negative

PN

RAPPORTO DI CONTRARIETA’:possono essere entrambe false

non possono essere entrambe vere

RAPPORTO DI CONTRARIETA’:possono essere entrambe vere

non possono essere entrambe false

SUBORDINAZIONE

SUBORDINAZIONE

RAPPORTO DI CONTRADDITORIETA’:se UA è falsa, allora PN è vera (e viceversa) se UN è falsa, allora PA è vera (e viceversa)

Esempi:

UA (universale affermativa: “tutti gli uomini sono mortali” UA (universale negativa): “tutti gli uomini non sono mortali” PA (particolare affermativa: “qualche uomo è mortale” PN (particolare negativa: “qualche uomo non è mortale”

Dunque, esistono quattro tipologie di proposizioni, le quali daranno vita a tre possibili rapporti:

a. RAPPORTO DI CONTRATIERTA’ E’ il rapporto che lega le due tipologie Universali: Affermative e Negative. In tale rapporto o solamente una delle due proposizioni risulterà vera oppure entrambe saranno false. Per esempio, tra l’universale “tutti gli uomini sono mortali” e l’universale “tutti gli uomini non sono morali” bisognerà fare una scelta. Non possono, infatti, essere entrambe vere (l’una esclude necessariamente l’altra). E tuttavia è anche possibile che siano entrambe false: è possibile cioè che gli uomini non siano né mortali né immortali, potendo, infatti, anche non esistere proprio. Il Rapporto di Contrarietà lega anche le due Particolari e con le medesime regole valide per le Universali.

b. RAPPORTO DI SUBORDINAZIONE E’ il rapporto che lega l’Universale alla corrispettiva Particolare, vale a dire l’Universale Affermativa alla Particolare Affermativa e l’Universale Negativa alla Particolare Negativa. Quando si afferma per esempio che “tutti gli uomini sono mortali”, tale affermazione contiene già quella particolare, “qualche uomo è mortale”, e la stessa accade naturalmente anche nelle negative. Per questo motivo, le Particolari risultano subordinate alle Universali

c. RAPPORTO DI CONTRADDITTORIETA’ E’ il rapporto che scaturisce tra le Universale e le Particolari opposte, vale a dire tra la Universale Affermativa e la Particolare Negativa e tra l’Universale Negativa e la Particolare Affermativa. Se si afferma per esempio che “tutti gli uomini sono mortali”, allora non si può nel contempo affermare che “qualche uomo non è mortale” (e viceversa); se si afferma che “tutti gli uomini non sono mortali”, allora non si può nel contempo affermare che “qualche uomo non è mortale” (e viceversa). Insomma, in un rapporto di contrarietà, se una proposizione è vera, l’altra risulterà necessariamente falsa-

Non sono previste nel Quadrato degli Opposti le Proposizioni Singolari Affermative, come per esempio “Socrate è un uomo”, né Proposizioni Singolari Negative, come “Socrate non è un uomo”. Naturalmente non è possibile affermare nel contempo l’una e l’altra. Dunque anche in questo caso vale il rapporto di contraddittorietà. Aristotele ha evitato di analizzare questo tipo di proposizioni . 1

Si deve dunque ad Aristotele il cosiddetto Principio di identità e di non contraddizione. Scrive il filosofo: “È 1

impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”.

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Per semplificare la questione è possibile ricorrere anche agli insiemi matematici:

UA: “tutti gli A sono B” UN: “nessun A è B”

PA: “qualche A è B” PN: “qualche A non è B”

Un sistema molto utile per potere comprendere (e realizzare) i noti sillogismi aristotelici.

- Gli Analitici Primi: i Sillogismi Esistono dunque termini che possono essere connessi tra loro per formare proposizioni. Ma anche le proposizioni possono essere connesse tra loro per dare vita a ragionamenti conclusivi, vale a dire a Sillogismi. Un sillogismo è un discorso in cui, posti alcuni dati, ne risulta di necessità qualcosa di diverso da essi. Il sillogismo è un ragionamento di tipo deduttivo (chiamata anche inferenza). Un sillogismo, nella sua forma tipica, si compone di due proposizioni che fungono da premesse e di una terza che rappresenta la conclusione e che scaturisce dalle premesse stesse. Sia le premesse sia la conclusione sono costituite da due termini che fungono l’una da soggetto e l’altra da predicato. Il meccanismo deduttivo, cioè il modo in cui si perviene dalle premesse alla conclusione, è piuttosto semplice, grazie alla presenza di un termine che compare in entrambe le premesse ma non nella conclusione e che permette di collegare le prime alla conclusione: il termine medio.

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B

AB

A

B A BA

a. Premessa Maggiore b. Premessa Minore ——————————— c. Conclusione

Esempio:

a. Tutti gli uomini sono mortali b. Tutti i greci sono uomini —————————————— c. Tutti i greci sono mortali

In questo caso si sono utilizzate, nelle premesse, due Universali Affermative, per rendere più semplice la comprensione del meccanismo. Il termine medio, quello cioè che consente di passare dalle premesse alla conclusione è “uomini”. La formula di questo semplice sillogismo è:

a. Tutti i B sono A b. Tutti i C sono B ——————————- c. Tutti i C sono A

Graficamente:

a. Tutti i B sono A Tutti i C sono B Tutti i C sono A

E’ stato Aristotele a utilizzare le lettere dell’alfabeto (sebbene di quello greco) per indicare in generale i termini che compaiono nei sillogismi, dando inizio in tal modo alla Logica Formale, nella quale ciò che conta è la forma degli enunciati e non il loro contenuto. I sillogismi si diversificano tra loro in base alla posizione e alla funzione che il termine medio assume nelle premesse. L’esempio precedente è il sillogismo di Prima Figura, quello in cui il termine medio funge da soggetto nella premessa maggiore (a) e da predicato in quella minore (b). Nella Seconda Figura, invece, il termine medio funge da predicato in entrambe le premesse:

a. Tutti gli A sono B b. Tutti i C sono B —————————————- c. Tutti gli A sono C

Nella Terza Figura, infine, il termine medio funge da soggetto in entrambe le premesse:

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A

B

C

B

A

C

a. Tutti i B sono A b. Tutti i B sono C ———————————————- c. Tutti gli A sono C

In seguito i logici introdurranno i sillogismi di Quarta Figura, vale a dire quelli in cui il termine medio funge da predicato nella premessa maggiore e da soggetto in quella minore:

a. Tutti gli A sono B b. Tutti i B sono C ———————————- c. Tutti i C sono A

Va detto tuttavia che per Aristotele sono soprattutto i sillogismi di prima figura quelli veramente perfetti, in quanto sono quelli che permettono nel modo più immediato di comprenderne il senso.

La validità di un sillogismo non va confusa con la verità fattuale, come emerge da questo semplice sillogismo:

a. Mio nonno fuma b. Il camino fuma c. Mio nonno è un camino

oppure:

a. Tutti gli asini hanno le ali b. Pierino è un asino c. Pierino ha le ali

La validità di un sillogismo si riferisce al fatto che l’inferenza, cioè la deduzione, è corretta e negli esempi precedenti, in linea teorica, non vi sono errori. La verità della conclusione, invece, dipende dalla verità delle premesse: a premesse false o poco chiare corrisponderà sempre un risultato falso o poco chiaro (anche se corretto dal punto di vista logico-formale). Non spetta alla logica vagliare la validità delle premessa, avendo essa il compito di mostrare quali sono le condizioni valide di inferenza che possono essere utilizzate in qualsiasi dimostrazione scientifica. La Logica è un “organon”, vale a dire uno strumento a disposizione della scienza, ma spetta proprio a quest’ultima appurare la validità delle sue premesse.

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- Esempi

Come è possibile descrivere graficamente un sillogismo, così è possibile partire da una figura per risalire ad un sillogismo:

Questa figura corrisponde al seguente sillogismo:

Tutti i C sono B Tutti i B sono A Tutti i C sono B

ovvero, per esempio:

Tutti i liguri sono italiani Tutti gli italiani sono europei Tutti i liguri sono europei

Fino ad ora si sono considerati solamente i sillogismi con Universali Affermative, che rendono la comprensione delle deduzioni aristoteliche decisamente più semplici. E tuttavia i sillogismi utilizzano tutte le proposizioni, come nell’esempio che segue:

a) Nessun essere umano è immortale b) Tutti gli italiani sono esseri umani c) Nessun italiano è immortale

Qui si riscontra una novità: la presenza di una Universale Negativa nella premessa maggiore, la quale rende necessariamente negativa anche la conclusione (come avviene per la moltiplicazione in matematica, dove “meno-per-più” darà sempre un risultato negativo). La formula del sillogismo precedente è la seguente

a. Nessun A è B b. Tutti i C sono A c. Nessun C è B

Ed anche in questo caso è possibile tradurla graficamente:

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A

B

C

a. Nessun A è B b. Tutti i C sono A c. Nessun C è B

- Gli Analitici Secondi Se gli Analitici Primi si occupano dei sillogismi in generale, gli Analitici Secondi si concentrano in particolare sul sillogismo scientifico (dimostrazione in senso stretto). In questo caso, il problema è quello di definire le premesse, le quali

1. Devono sempre essere vere 2. Devono essere prime e immediate, cioè non devono essere a loro volta oggetto di

dimostrazione 3. Devono essere anteriori alla conclusione e più note di esse 4. Devono essere la causa della conclusione (come accade in modo particolare nel sillogismi di

prima figura)

Ogni dimostrazione, ogni sillogismo scientifico, deve partire da Principi Primi, vale a dire da premesse prime e immediate. Esistono tuttavia due tipi di principi:

1. gli Assiomi: principi primi ed indimostrabili che sono comuni a tutte le scienze o almeno a più scienze, come il principio di non contraddizione, secondo il quale A non può essere nel contempo anche B

2. i Principi propri di ogni scienza, cioè le premesse che riguardano l’ambito determinato su cui ciascuna scienza verte. Tali principi si dividono a loro volta in ipotesi, le premesse relative all’esistenza di qualcosa, e in definizioni. In altri termini, ogni scienza deve presupporre l’esistenza di ciò intorno a cui essa verte, il suo “soggetto”, e le definizioni di tutti i termini che in essa figurano. Insomma, Aristotele difende l’autonomia dei diversi saperi, contro l’ipotesi platonica di un unico sapere generale: ciascuna scienza muove dai principi propri.

Dunque, ogni scienza si regge su un preciso equilibrio tra ciò che deve essere presupposto e ciò che deve essere dimostrato: devono essere presupposti l’esistenza del soggetto, i principi comuni della dimostrazione e le definizioni dei termini; devono essere dimostrate le proprietà (le cosiddette affezioni) che appartengono al soggetto. In sintesi, in ogni scienza si devono considerare soprattutto tre aspetti:

a. Ciò intorno a cui ogni scienza verte (il soggetto), la cui esistenza deve essere presupposta e non dimostrata all’interno della scienza stessa, altrimenti si cadrebbe in un circolo vizioso.

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A B A

C

A

C

B

Dunque, ogni scienza o assume l’esistenza del proprio soggetto come evidente o la ricava da un’altra scienza in cui può essere dimostrata;

b. Ciò in base a cui si può procedere nella dimostrazione ovvero gli assiomi comuni a tutte le scienze o comunque a più scienze

c. Ciò che deve essere dimostrato ovvero tutte le proprietà che appartengono al soggetto di una scienza

- La conoscenza dei principi: il Nùs Se i principi costituiscono il punto di partenza delle dimostrazioni, ma non possono essere dimostrati, si pone il problema di stabilire come si possa pervenire alla loro conoscenza. È un problema non secondario, che Aristotele risolve postulando un ambito conoscitivo, cioè una vera e propria disposizione conoscitiva, che che chiama Nùs, o anche Intellezione. Dunque, i principi della conoscenza scientifica non potranno essere dimostrati dalla scienza stessa, per non incorrere in un circolo vizioso. Essi verranno colti dal Nùs, un qualcosa che dunque precede la scienza stessa. Si potrebbe definire tale Nùs come una sorta di intuizione, cosa che per altro alcuni studiosi hanno sostenuto. E tuttavia Aristotele non ne parla mai. Per lo Stagirita il nùs è tutt’al più un procedimento induttivo-astratto, che muove verso l’universale a partire dall’osservazione dei casi particolari (l’induzione appunto), spogliando gradualmente quel che viene percepito dalle sue caratteristiche individuali e/o accidentali. Si tratta cioè di un processo di astrazione, di una vera e propria espoliazione dell’ente dai suoi accidenti, per pervenire alla sostanza. Se questo è vero, se cioè alla base della scienza, anzi prima della scienza vi è un processo induttivo, il sillogismo, che è un processo deduttivo, dovrà la sua validità proprio all’induzione. Dunque Aristotele è un filosofo intuittivista? Non proprio. Secondo il filosofo, infatti, i sensi colgono solamente le realtà individuali, ma spetta alla nostra mente eliminare tutte le caratteristiche individuali e materiali e cogliere i tratti universali comuni, che altro non sono che i principi primi che fungono da premesse per i sillogismi. Per esempio: i nostri sensi fanno quotidianamente esperienza di una miriade di singoli enti: i più svariati esseri viventi, come esseri umani, animali, piante, nonché una quantità pressoché infinita di oggetti inanimati e situazioni. Ebbene, se non esistesse il nostro intelletto a “sintetizzare” ogni singolo essere, oggetto o evento, dandogli cioè un significato più generale, letteralmente “etichettandoli”, si dovrebbe ogni volta ripartire dal punto zero e la conoscenza sarebbe impossibile. L’intelletto, invece, una volta colto un singolo individuo, lo cataloga e lo immagazzina, consentendoci di non ripetere ogni volta il medesimo procedimento. Di qui l’importanza che Aristotele affida al “ricordo”, vale a dire alla capacità della nostra mente di “trattenere” le singolarità e di raggrupparle secondo caratteristiche comuni. Oggi giorno incontro centinaia di diversi esseri umani? Magari non li avrò conosciuti tutti in maniera approfondita, ma potrò dire di avere compreso che cosa li accomuna e dunque in che cosa consiste un “essere umano”. E il foglio bianco su cui sto scrivendo? Ora è per me una operazione quasi meccanica, non mi chiedo cioè i meccanismi attraverso i quali ho associato un oggetto (il foglio bianco) alla sua funzione specifica (scriverci sopra). Ma in origine ci fu una esperienza, che vide coinvolto un foglio non più esistente. Capii allora (o mi fu detto) la sua funzione. Cambiano i fogli e cambia anche il contenuto da scrivere, ma non la funzione del foglio associata alla scrittura. Questo passaggio graduale dal particolare all’universale viene paragonato dall’autore alla “riorganizzazione di un esercito in rotta” (una immagine particolarmente efficace) che si ottiene cioè facendo fermare l’uno dopo l’altro i singoli soldati in ritirata (vale a dire i particolari colti dai sensi e trattenuti nella memoria), fino a ripristinare lo schieramento complessivo originario (vale a dire l’universale). Concludendo, si può dire che per Aristotele la scienza abbia un carattere deduttivo (il sillogismo), ma affinché possa procedere senza errori occorre il contributo della deduzione.

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- La Dialettica e le “fallacie argomentative” (Topici e Confutazioni sofistiche) Nei Topici Aristotele accenna anche ad un altro tipo di sillogismo: il sillogismo dialettico, che giunge alla conclusione a partire da “opinioni generalmente ammesse” (le premesse). Non si tratta dunque di un sillogismo scientifico ma non per questo meno importante, in quanto la dialettica consente di esprimere meglio le proprie opinioni e di imporsi nelle discussioni pubbliche. Queste “opinioni generalmente ammesse” che costituiscono le premesse del sillogismo dialettico l’autore li chiama Endoxa: “principi fondati sull’opinione, che appaiono accettabili a tutti oppure alla grande maggioranza oppure ai sapienti e tra questi o a tutti o alla grande maggioranza o a quelli oltremodo noti o illustri”. Non si tratta, dunque, di una semplice doxa, bensì di una opinione — per così dire — garantita da un lato dalla sua capacità di imporsi sul grande pubblico e dall’altro dal parere degli esperti. Rispetto al sillogismo scientifico, la differenza è evidente: quello, infatti, partiva da principi primi, propri delle scienze, mentre nel sillogismo dialettico tali premesse sono rappresentate dagli endoxa. Di conseguenza, da simili premesse non si avranno mai conclusioni necessarie e universali, ma solamente plausibili, perché plausibili risultano le premesse. Ora, la dialettica secondo Aristotele può servire in generale per esercitarsi o per sostenere una conversazione. Nell’ambito più specifico della speculazione filosofica, la dialettica è utile per esaminare i pro e i contro di una determinata questione. Sebbene in termini più complessi, Aristotele dunque sembra rivalutare l’opinione comune, a differenza di Platone, secondo il quale invece la doxa — qualsiasi doxa — non ha alcun fondamento di verità. Per contro, mentre per Platone la dialettica si identifica con la filosofia stessa, per Aristotele non è una scienza in senso stretto bensì un metodo che insegna a ben argomentare (dunque, al limite, uno strumento della scienza). Si potrebbe anche dire che la dialettica fornisce un utile strumento per pervenire a premesse sillogistiche più salde. La dialettica, pur non elevata al rango di sapere supremo, assume dunque un ruolo decisivo nella filosofia di Aristotele, in quanto si configura come un sapere trasversale, utile a tutte le scienze.

Nelle Confutazioni sofistiche Aristotele si pone l’obiettivo di smascherare quelle che chiama “fallacie argomentative”, vale a dire gli errori logici presenti negli argomenti con cui i filosofi (i sofisti in particolare) usavano confutare le posizioni dei loro interlocutori. Qui di seguito se ne riportano le più importanti:

a. Ambiguità semantiche o Equivocazione: consiste nell’attribuzione di differenti significati ad un medesimo termine, come quando affermiamo che:

Tutto ciò che corre ha i piedi il tempo corre, il tempo ha i piedi

Il problema — come sempre per Aristotele — sta nelle premesse. E’ evidente, infatti, l’errata attribuzione del termine “corsa” sia al tempo (che il tempo corra è solo un modo di dire) sia ai piedi, perché non è necessariamente vero (e le premesse devono sempre essere necessariamente vere) che per correre occorre avere i piedi (lo si può fare, per esempio, anche con un automobile o un treno o alcuni animali anche con le pinne, la coda o le ali).

b. Ambiguità sintattica o Anfibolia: riguarda non un solo termine, ma un’intera proposizione, come nell’esempio seguente:

Desidero la prigione dei miei nemici

L’espressione appare “ambigua”, appunto, in quanto non si capisce se il soggetto desideri la prigione per i suoi nemici oppure per se stesso.

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c. Vaghezza: un termine è vago quando non sono chiari i confini circa il suo effettivo significato. Nella vita quotidiana si incontrano spesso situazioni di questo tipo, come quando, per esempio, si usano termini come “ricco” e “povero” oppure come “caldo” e “freddo”. Che cosa significa caldo e che cosa freddo? I due termini non sono affatto universali né necessari (e le premesse, invece, devono esserlo sempre), in quanto il caldo e il freddo sono “sensazioni” che variano da soggetto a soggetto. Stessa cosa per la ricchezza e la povertà. Si è ricchi o poveri rispetto a qualcosa e il problema è ancora oggi quello di definire questo qualcosa. Non è un caso che la scienza rifiuti tali termini, appunto per la loro “vaghezza”.

d. Accenti o Enfasi: si tratta di sottolineare, di evidenziare o anche di occultare un termine o parte di esso, suggerendo una interpretazione dell’intera proposizione diversa dal suo significato letterale. Quando per esempio si esclama:

Professore, io questa volta ho studiato!

ponendo cioè l’accento sul soggetto, non è la stessa cosa che dire:

Professore, io questa volta ho studiato.

Passiamo ora gli argomenti razionalmente irrilevanti. Si tratta di argomenti che non vengono dimostrati più o meno logicamente, ma attraverso procedure che dovrebbero stimolare una risposta emotiva da parte dell’interlocutore. Insomma, in questo caso si fa leva sui sentimenti, ricorrendo ad argomenti che nulla hanno a che fare con il nostro intelletto.

a. Argomentum ad verecundias (Appello all’autorità): si fa appello al timore reverenziale (verecundiam) nei confronti di una autorità. Di per sé potrebbe essere anche un procedimento non del tutto sbagliato, in quanto il parere delle autorità rientra in quella “endoxa” che per Aristotele è uno strumento per giungere a premesse quanto meno condivise. L’errore consiste semmai nel tirare in ballo una autorità in maniera impropria, cioè che non è tale, quanto meno non nell’argomento che si vuole dimostrare. Si tratta di un errore molto comune:

La televisione dice che la criminalità è in costante aumento La televisione dice anche che l’immigrazione è in costante aumento Dunque l’aumento della criminalità dipende dall’aumento della immigrazione

L’errore consiste nell’attribuire alla televisione una autorità che non gli appartiene, quanto meno non in questo ambito, che è di competenza del Ministero degli Interni, delle forze di polizia o di qualche istituto statistico certificato. Prendiamo il caso dell’Italia (ma vale un po’ per tutti i paesi occidentali). E’ un dato di fatto che l’immigrazione sia più o meno in crescita (nel senso che aumenta ovunque, ma, per esempio, in Italia la percentuale della popolazione migrante sul totale di quella locale è decisamente inferiore a quanto si riscontra in Francia, in Germania o in Inghilterra), ma non che lo sia anche la criminalità. Anzi, a partire dagli anni Ottanta e in maniera più marcata nei due decenni successivi, la criminalità è letteralmente crollata nel nostro paese. I dati relativi ai furti, agli omicidi, alle rapine, ai sequestri di persona sono ai minimi storici nel nostro paese, mentre rimangono quelli relativi, per esempio, alle violenze sulle donne e sui minori, per altro ascrivibili a persone vicine alle vittime. E tuttavia — come mostrano tutte le indagini sociologiche degli ultimi venti anni — la percezione da parte della maggioranza della

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popolazione italiana (e non solo) è opposta: la criminalità è in aumento. E siccome in aumento è anche l’immigrazione, se ne “deduce”, del tutto impropriamente, che i due fenomeni siano strettamente collegati. Dunque questo argomento è per Aristotele non solo errato, ma anche molto pericoloso, in quanto si tende a distorcere la realtà.

b. Argomentum ad populum (Appello alla maggioranza): anche questo è un argomento assai diffuso oggi, per affermare o rafforzare la validità di una determinata posizione, ancor più oggi, in una società massificata. E’ quella che il filosofo tedesco Martin Heidegger chiamerà (nel XX secolo) dittatura del “si dice”:

Se così tanta gente dice che A è uguale a B … allora qualcosa di vero ci dovrà essere

Siamo di fronte ad un argomento che — come nel caso precedente — di logico non ha nulla. L’appello è ad una sorta di autorità, la maggioranza, che tuttavia non lo è affatto. La forza del numero, tuttavia, tende a rendere più credibile un argomento. Gli esempi nella società contemporanea sono innumerevoli. “Si dice”, “tutti dicono”, “si sente dire”, “si sente parlare” e via dicendo, sono tutte espressioni tirate in ballo in maniera assolutamente impropria. Il problema è che quella medesima maggioranza tende a non tenere ferme le proprie posizioni nel tempo e può dunque sostenere posizioni radicalmente differenti in altri contesti spazio/temporali. Lo sanno molto bene i milioni di migranti italiani sparsi nei cinque continenti, i quali, ancora oggi, devono fare quotidianamente i conti con espressioni del tipo:

Si dice che gli italiani rubino … dunque qualcosa di vero ci sarà sicuramente

E sebbene questo riguardi un altro argomento che si vedrà in seguito, da tali considerazioni si può tranquillamente pervenire a inferenze come questa:

Tutti dicono che gli italiani sono mafiosi Tu sei italiano Tu sei un mafioso

Che è poi la formula:

Tutti dicono che gli A sono B Tu sei A Tu sei B

Il fattore emotivo è qui determinante (come anche nell’argomento precedente): lo straniero o il diverso si prestano sempre a fare da capro espiatorio, soprattutto in momenti di difficoltà, come nelle crisi economiche o le guerre. E un tale argomento ha sempre fatto la fortuna di ben determinate forze sociali e politiche e più in generale di chi detiene le redini del potere, perché in questo modo si devia l’attenzione della opinione pubblica non solo dai reali problemi che l’attanagliano, ma anche dagli effettivi responsabili. Il ricorso alla Maggioranza come anche quello all’Autorità rappresentano entrambi l’humus sulla quale fioriscono una miriade di “etichettamenti” individuali e collettivi e di pregiudizi. Tale argomento finisce per incidere anche sulle decisioni politiche, e non solo, riguardo a gruppi sociali più o meno estranei alla maggioranza della popolazione ospitante. Prendiamo il caso della pena di morte. Per anni negli Usa si è sostenuto la sua efficacia per il semplice — e drammatico — motivo che la maggioranza degli Stati la prevedesse. Anche in questo caso si fa ricorso alla maggioranza, quella degli Stati che l’adottano nello

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specifico, dimenticando tuttavia di analizzare i dati reali, i quali indicano come proprio negli Stati dove esiste la pena di morte (o dove questa viene sistematicamente applicata) sono anche quelli in cui i reati sono anche più gravi ed efferati, forse anche per il motivo che il criminale sa di non avere nulla da perdere.

c. Argumentum ad baculum (Ricorso alla paura): la paura è uno degli strumenti che ogni società o aggregato sociale utilizza per mantenere l’unità interna. Baculum sifgnifica letteralmente “bastone” e spesso è proprio il bastone quello che si brandisce di fronte ai nostri interlocutori, con il solo fine di rafforzare la nostra posizione o di intimorirli:

Hai visto cosa succede a chi la pensa come te?

Si tratta di un argomento piuttosto noto, che ricorre spesso, per esempio, nei dialoghi (serrati) tra genitori e figli. Si punta il dito contro persone vicine all’interlocutore presentandoli come modelli negativi, con l’obiettivo di screditarne le posizioni. Un argomento che sottintende la poca fiducia che si ha nei confronti del nostro interlocutore, considerandolo incapace di fare diversamente dal gruppo sociale al quale si presume che appartenga. Ma il “Ricorso alla paura” viene utilizzato anche in ambiti più complessi:

Bisogna credere all’esistenza di Dio e obbedire alle leggi della Chiesa, altrimenti ci sarebbe il caos morale nella nostra società

Anche questa affermazione è piuttosto ricorrente: di fronte ai mutamenti che intervengono nella vita degli uomini, il ricorso alla tradizione e in particolare a quella religiosa e alle sue rigide regole appare come il rifugio supremo per molti esseri umani. È stato così in un passato più o meno remoto. I processi di secolarizzazione e soprattutto i movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta lo hanno messo radicalmente in discussione. Ma di fronte alla crisi degli ultimi anni, ai processi di disgregazione sociale, esso è tornato prepotentemente in auge. Naturalmente non vi è alcun nesso tra la fede religiosa o l’appartenenza a una determinata confessione e l’ordine sociale e morale, come dimostra tutta la storia dell’umanità, che racconta di guerre spaventose e di sangue versato in nome di questo o quel dio. Un argomento utilizzato oggi (almeno in Italia) di fronte a nuove forme di aggregazione famigliare:

Se riconosciamo le coppie di fatto, dove andremo a finire? Nessuno avrà più voglia di fare figli e così la nostra civiltà scomparirà

Anche in questo caso si fa ricorso alla paura, si agita il bastone della scomparsa della nostra civiltà per dissuadere quei nuclei famigliari non tradizionali che ormai, soprattutto nelle grandi città, costituiscono la maggioranza dei casi. Naturalmente non vi è alcun nesso tra la tipologia famigliare e il numero dei figli: che si sia sposati o meno, tale numero è il medesimo. Semmai, il problema deriva da un lato dalle condizioni economiche dei soggetti interessati e, in Italia, dalla mancanza del riconoscimento legale delle cosiddette “coppie di fatto”, che impedisce ai più di allargare il proprio nucleo familiare. Il Ricorso alla paura vale naturalmente anche in aggregati più piccoli, per esempio nei gruppi dei pari. In questo caso le posizioni più forti, quelle maggioritarie o proprie dei leader, debbono essere accettate acriticamente da chi ne fa parte. Non è possibile alcuna trasgressione, pena l’esclusione dal gruppo medesimo o quanto meno l’isolamento.

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d. Argumentum ad hominem (Argomento contro la persona): per attaccare la posizione altrui, si tende a svalutare anche la persona che se ne fa portatrice. Si tratta di una vera e propria violenza, in quanto si passa da un piano “ideale” o argomentato ad un piano “personale”:

Non ha alcun senso parlare con te della guerra, sei un pacifista sfegatato!

Oppure

Non ha alcun senso parlare con te della guerra, sei un guerrafondaio sfegatato!

Con tali argomentazioni il dialogo si chiude. Non si entra mai nel merito della questione, ma si scredita la persona che sostiene una determinata tesi. Trattasi in sintesi di un vero e proprio atteggiamento “pregiudiziale”, che è sempre un ostacolo al dialogo tra le persone.

e. Tu quoqe (Proprio tu!): si tratta anche in questo caso di un argomento contro la persona, ma molto più sottile del precedente. Si tende cioè a svalutare la posizione del nostro interlocutore sottolineandone la sua incoerenza personale:

Il mio medico sostiene che devo smettere di fumare … Parla proprio lui che è un fumatore incallito!

Un medico può anche essere un fumatore incallito — e una sua scelta — ma non per questo cessa di essere un medico. Egli sa — anche per esperienza personale — che il fumo fa male e come medico ha il dovere di mettere in guardia i suoi pazienti sui rischi che corrono se si avviano su quella strada.

I miei genitori non vogliono che torni tardi la sera. Proprio loro … che quando erano giovani sono scappati di casa!

I genitori rimangono genitori, a prescindere di cosa erano soliti fare quando non lo erano, e come tali hanno il dovere di educare i propri figli nella maniera che ritengono più opportuna, sempre nel rispetto della dignità e delle leggi, a prescindere o forse anche sulla scorta delle esperienze fatte da giovani.

Passiamo ora ai cosiddetti argomenti logicamente scorretti, i quali, pur non facendo appello a fattori emozionali, presentano qualche “errore” che è bene evitare nella formulazione di un discorso.

a. Petitio Principii: consiste nell’assumere già nelle premesse, in maniera implicita o esplicita, la tesi che si intende dimostrare.

Dio esiste perché lo dice la Bibbia La Bibbia non può mentire perché è stata scritta da Dio, che essendo buono non mente mai Dunque Dio esiste

Non si tratta di un ricorso all’autorità e nemmeno alla maggioranza. Qui vi è una spiegazione. E tuttavia si parte da premesse che sono già contenute nella conclusione, vale a dire che “Dio esiste.”. Si tratta di un vero e proprio circolo, che nel volersi presentare

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come virtuoso si trasforma in vizioso. Tutto ruota intorno a due termini: Dio e Bibbia e non si capisce quale sia il termine medio. Nella prima premessa L’esistenza di Dio viene giustificata per tramite della Bibbia; nella seconda premessa la credibilità della Bibbia viene garantita da Dio. Un argomento già blindato, con una soluzione scontata e dunque, di fatto, assolutamente inutile.

Per Marta, io sono la sua migliore amica Una amica non mentirebbe mai Dunque, Marta non mente quando dice che sono la sua migliore amica

Per quanto contorto, questo argomento risulta viziato dal medesimo circolo vizioso del precedente esempio. In questo caso tutto ruota sui termini “amicizia” e “mentire”. Dato che l’amicizia implica la sincerità, se ne deduce, nella conclusione, quanto è implicito nelle premesse.

b. Ignoratio elenchi: si perviene ad un risultato che non c’entra nulla con le premesse (letteralmente si “ignorano” le premesse), ad un “risultato non pertinente”:

I calciatori italiani sono i migliori al mondo, come dimostra il fatto che sono i più pagati

Che nesso sussiste tra la bravura dei giocatori e il loro ingaggio? La storia passata e presente di questo sport dimostra come, semmai, spesso sia vero proprio il contrario di quanto si afferma in quella proposizione e cioè che è verissimo che i giocatori italiani siano i più pagati al mondo (anche se oggi non è più così) ma che la maggioranza di loro siano dei brocchi.

c. Uomo di paglia: accade quando si tenta di distorcere in ogni modo l’argomento dell’interlocutore, rendendola di fatto assurda e perciò indifendibile anche ai suoi stessi occhi.

Tu di dici di volere ridurre le spese militari. Ma ti rendi conto? Verremmo invasi in ventiquattro ore!

La confutazione di una tale affermazione è semplice: la storia è piena di casi di Stati che hanno speso una fortuna per armarsi ma che non per questo sono riusciti a difendersi dalle invasioni. Anzi, si può dire che più si spende per le armi più si rischia di andare in rovina, come dimostra il caso dell’Unione Sovietica.

c. Argumentum ad ignorantiam: si tratta di una delle fallacie più comuni e consiste nel sostenere una tesi con forza perché nessuno, fino ad ora, è mai riuscito a provare il contrario. Il più noto e comune di questi argomenti è quello relativo ancora una volta all’esistenza di Dio:

Dio esiste, come dimostra il fatto che nessuno è mai riuscito a dimostrare il contrario

In realtà, dovrebbe essere chi afferma l’esistenza di qualche cosa a fornirne le prove in merito e non chi non vi crede a smentire l’esistenza di qualcosa in cui altri credono. Un altro esempio:

Quel politico è onesto. Certo, ha ricevuto non pochi inviti a comparire davanti alle corti di giustizia, ma non è stato ancora condannato

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Il fatto di venire convocati a rispondere di qualche reato non è certo una prova della sua colpevolezza e dunque di una sua disonestà, questo è verissimo. Ma è anche vero che spesso i processi sono lunghi e che, almeno in Italia, esistono ben tre gradi di giudizio e occorre aspettare l’ultimo per potere affermare se una persona è colpevole o meno. E tuttavia una persona può anche avere una fedina penale pulitissima e non essere però del tutto onesto. Soprattutto in Italia, esistono numerosi casi di persone disoneste che riescono a farla franca in modo lecito o illecito.

e. Falsa disgiunzione o falso dilemma: anche questa fallacia è piuttosto ricorrente. Si presentano all’interlocutore due alternative, costringendolo a sceglierne una. Si tratta dunque di una scelta obbligata, che tuttavia nega l’esistenza di altre alternative che invece sono possibili.

Non abbiamo scelta: o diminuiamo le spese per la scuola e la sanità o il deficit pubblico manderà in rovina il paese

Ma questo non è vero. Altre scelte sono effettivamente possibili. Per esempio, si possono diminuire le spese militari o magari fare pagare le tasse a tutti i cittadini, visto che, quanto meno in Italia, il peso dell’evasione fiscale è pari a quasi cinque finanziarie l’anno.

f. Composizione: è la fallacia che, in qualche modo, accoglie tutte quelle viste fino ad ora. Nello specifico, si tende ad attribuire ad un gruppo di persone delle specifiche caratteristiche rilevate solo in alcune singole persone appartenenti a quel gruppo oppure derivanti da miti o pregiudizi diffusi relativi a quel gruppo. In Italia un noto argomento di Composizione è il seguente:

È noto che i Rom rubano. Dunque i Rom sono un popolo di ladri

Ma se ci si sposta, per esempio, in Germania, il soggetto cambia:

È noto che gli Italiani rubano. Dunque gli Italiani sono un popolo di ladri

Per meglio comprendere la fallacia di tale argomento facciamo un esempio non collegato all’attualità:

Tutti i pezzi di legno di questa chitarra sono di ottima qualità. Di conseguenza, questa chitarra è di ottima qualità.

Oppure:

Tutti i pezzi di legno di questa chitarra sono di scarsa qualità. Di conseguenza, questa chitarra è di scarsa qualità

Questi due argomenti sono la traduzione, neutra, degli esempi precedenti: si tende a generalizzare le caratteristiche che sono proprie di alcune pari. La qualità di una chitarra, infatti, è solo in parte frutto della qualità delle sue parti. Indispensabile, in questo caso, è il lavoro del liutaio. Un pessimo liutaio, infatti, non potrà che creare una pessima chitarra, anche in presenza di ottimo legno; e un ottimo liutaio sarà in grado di realizzare quanto meno una buona chitarra, pur con legno di scarsa qualità.

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g. Divisione: è un argomento speculare rispetto al precedente. Le proprietà che appartengono al tutto vengono applicati ai singoli che lo compongono.

Gli Indiani d’America stanno scomparendo. Tu sei un indiano. Tu stai scomparendo

Il fatto che un gruppo etnico stia scomparendo non implica che tu, come persona fisica, stia scomparendo. Continuerai a vivere, anche se, probabilmente, in un contesto differente da quello in cui sei nato o da quello dal quale hai avuto origine. Un altro esempio, piuttosto diffuso nel mondo:

Gli italiani sono un popolo di mafiosi Tu sei italiano Quindi sei un mafioso

- Regole di massima del sillogismo

Tutte le fallacie e gli errori argomentativi visti fino ad ora sono, naturalmente, da evitare in un corretto sillogismo, pena la invalidazione del medesimo. Le premesse, dunque, devono essere corrette, altrimenti le conclusioni saranno errate o assurde. Per la costruzione di un corretto sillogismo occorre tenere a mente queste poche regole:

1) Devono essere presenti solamente tre termini: una premessa maggiore, una premessa minore ed una conclusione, altrimenti si cade in quella che la logica aristotelica chiama “fallacia del quaternio terminorum”. Attenzione, perché il terzo o quarto o quinto eccetera termine può essere sempre il medesimo ma utilizzato con significati diversi. Ad esempio: “Ogni pesce nuota”; “Qualche costellazione è pesce”; “Qualche costellazione nuota”. Oppure: “Il camino fuma”; “Mio nonno fuma”; “Mio nonno è un camino”.

2) Il termine minore e il termine maggiore devono essere distribuiti in modo uguale nelle premesse e nella conclusione. Se così non fosse, il termine presente nelle premesse sarebbe inteso in senso diverso dal termine presente nella conclusione e si cadrebbe o nella cosiddetta “fallacia del trattamento illecito del temine maggiore” o nella “fallacia del trattamento illecito del termine minore”. Entrambi tali fallacie rientrano tuttavia anch’esse nel “quaternio terminorum”, in quanto il termine delle premesse e il termine della conclusione non sarebbe più il medesimo e quindi si avranno quattro termini. Esempio: “Tutti gli uomini sono animali”; “Nessun cavallo è uomo”; “Nessun cavallo è animale”. In questo caso nella premessa maggiore il termine “animale” non è distribuito mentre lo è nella conclusione.

3) Il termine medio non deve mai essere presente nella conclusione, altrimenti si cade nella fallacia del “medio incluso”. Esempio: “Platone è greco”; “Platone è un filosofo”; “?”

4) Il termine medio deve essere distribuito in almeno una delle premesse. Se così non fosse, si cadrebbe nella fallacia del “medio non distribuito”, poiché tale termine non collegherebbe più i due termini ed essi potrebbero essere connessi a sottoclassi diversi dalla classe designata dal termine medio. Esempio: “Tutti gli elefanti sono mammiferi”; “Tutti i topi sono mammiferi”; “?”. La classe degli “elefanti” e la classe dei “topi” sono infatti sottoclassi disgiunte della medesima classe dei “mammiferi” e quindi il termine medio, ovvero “mammifero”, non svolge la sua funzione di correlazione fra il termine maggiore, “elefante”, e il termine minore, “topo”. Anche in questo caso si può parlare della fallacia del “quaternio terminorum” in quanto 'mammiferi' viene usato in due modi diversi e quindi vi sono due termini “mammifero”. Un esempio valido è invece il seguente: "Tutti gli elefanti sono mammiferi”; "Nessun rettile è un mammifero”; "Nessun rettile è un elefante". In questo caso il termine medio “mammifero” è distribuito nella premessa minore e quindi il sillogismo è valido.

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5) Da due premesse negative non segue alcuna conclusione. Il fatto che due cose siano diversa da una terza non comporta necessariamente che abbiano a che fare tra loro. Si tratta della fallacia delle “premesse negative”. Esempio: “Nessun pesce è un mammifero”; “Nessun rettile è un pesce”; “?”

6) Da due premesse affermative segue una conclusione affermativa. Se due cose sono connesse positivamente allo stesso termine medio, devono anche essere connesse positivamente nella conclusione.

7) Da due premesse particolari non segue alcuna conclusione, altrimenti si cade nella fallacia delle “premesse particolari”. Esempio: ”Qualche mammifero vive nell’acqua"; "Qualche volatile è un mammifero”; "Qualche volatile vive nell’acqua"

8) La conclusione contiene sempre la parte peggiorativa delle premesse, vale a dire che: se una premessa è negativa, allora la conclusione dovrà essere negativa; se una premessa è particolare, allora la conclusione sarà particolare, altrimenti si cade nella fallacia del “peggiorativo”. Esempio: "Tutti i cani abbaiano”; "Qualche cane è un animale domestico”; "Tutti gli animali domestici abbaiano".

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II LA FISICA

Secondo Aristotele esistono tre tipi di scienza:

1. Scienze teoretiche o speculative, in cui la conoscenza è perseguita per se stessa e non in vista di altro (è disinteressata) 2. Scienze pratiche, in cui la conoscenza è finalizzata all’azione 3. Scienze poietiche o produttive, in cui la conoscenza è orientata alla produzione di qualcosa

Tra le scienze poietiche o produttive possono essere annoverate la medicina (che, per così dire, “produce” salute), la scultura, l’architettura, nonché anche la poetica e la retorica (che mirano a produrre testi tragici o discorsi efficaci); tra le scienze pratiche, ci sono l’etica e la politica; le scienze teoretiche, invece, si dividono a loro volta in Fisica o Filosofia Naturale, Matematica e Filosofia Prima o Scienza Divina (cioè la Metafisica, nella terminologia di Andronico di Rodi). La logica non rientra in tale tripartizione perché ha un valore principalmente strumentale, propedeutica a tutte le scienze: insomma è il fondamento di tutti i saperi. Secondo Aristotele, nella conoscenza è sempre necessario partire da ciò che “è primo per noi”, cioè dai dati sensibili (quelli attestati dalla doxa per intendersi), per indirizzarsi verso ciò che è “primo in natura”, vale a dire gli universali. Ecco spiegato perché la Fisica deve precedere la Filosofia Prima (ed è proprio quello che ha fatto Andronico). Ebbene, la Fisica si occupa di ciò che è in movimento o mutamento e cioè dell’ente in quanto mobile o in quanto mutevole. Aristotele dunque non mette in dubbio l’esistenza del mutamento, come invece avevano fatto Parmenide e Zenone: che il divenire esista è un dato di fatto. E tuttavia si devono trovare i principi che possano spiegare perché gli enti si muovano o mutino. Secondo lo Stagirita, tali principi sono la materia o sostrato, la privazione e la forma. Questi tre elementi forniscono la griglia concettuale entro i quali è possibile comprendere qualsiasi processo di mutamento. In ogni mutamento si devono poter distinguere:

a) Un sostrato che non muta e che possa accogliere i contrari, cioè la materia b) Uno stato iniziale in cui non è ancora presente la forma che verrà acquisita durante il processo e che corrisponde alla privazione di tale forma c) Uno stato finale in cui la forma prima non ancora presente risulta acquisita.

- Atto e Potenza

Il rapporto tra Atto e Potenza è un punto fondamentale per comprendere il divenire aristotelico, che riesce finalmente a porre fine alla lunga diatriba tra i sostenitori di Eraclito e quelli di Parmenide. Ebbene, secondo Aristotele la sostanza di un ente non muta mai. A mutare saranno i cosiddetti accidenti. Un uomo, per quanto possa mutare nel corso degli anni, non cesserà mai di essere “razionale”, altrimenti cesserebbe di essere un uomo. Il divenire aristotelico ruota attorno a due concetti fondamentali: l’Atto e la Potenza. Il divenire, infatti, è una lunga concatenazione di atti e di potenze nell’ambito di un medesimo essere, che mantiene immutata la propria sostanza. Prendiamo per esempio un blocco di marmo. Esso, come tale, è marmo in atto, ma è anche, in potenza, di divenire una statua. Ebbene, il sostrato che non muta mai sarà sempre il marmo, la materia, la quale rappresenta lo stato iniziale in cui non è ancora presenta la forma che verrà acquisita durante il processo, la statua, e che dunque corrisponde alla privazione della forma. Tutti gli enti passano da uno stato potenziale all’altro e per la precisione da una potenza (dynamis) all’atto (energheia). Dunque non vi è mai un passaggio diretto dal nulla assoluto all’essere, bensì dal non-essere-ancora un determinato ente (potenza) al realizzarsi di quel determinato ente (atto). Potenza ed atto sono dunque in stretto rapporto: è grazie ad essi che Aristotele risolve il problema del divenire. Il divenire è infatti un passaggio tra

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stati diversi del medesimo essere, dall’essere in potenza all’essere in atto. Ed è per questo motivo che ogni cambiamento presuppone un sostrato, poiché ogni processo non comporta la creazione dal nulla di qualcosa di nuovo, ma la trasformazione di qualcosa che prima esisteva sotto un’altra forma. Ecco anche perché l’atto precede sempre la potenza, in quanto tutto ciò che è in potenza è in potenza di essere altro, cioè qualcosa in atto sotto altra forma. La visione aristotelica è fortemente determinista: certo, un blocco di marmo può anche non diventare necessariamente una statua, ma una colonna, una lastra per un pavimento, una vasca da bagno. E tuttavia — questo è certo — un blocco di marmo non potrà mai diventare un aquilone, una nave, un uomo. Da un uovo di gallina, insomma, nascerà sempre una gallina, perché la gallina è già in potenza nell’uovo, come suo successivo atto. E visto che l’atto precede sempre la potenza, alla fatidica domanda “è nato prima l’uovo o la gallina?”, Aristotele avrebbe risposto: “la gallina!”. Sembra piuttosto scontato e condivisibile, ma la scienza moderna ha dimostrato che non è così. L’uomo non è stato sempre lo stesso, anzi tutti gli esseri viventi nascono da una serie di evoluzioni sempre più complesse e determinate dall’ambiente. Ma che cos’ è un uomo per Aristotele: un “animale razionale”. Per quanto si possa mutare nel fisico e per quanto l’apparenza faccia di ogni essere umano qualcosa di straordinariamente dissimile da altri esseri umani, egli rimarrà sempre un essere razionale, altrimenti cesserebbe di essere un essere umano. Ed è tale razionalità che determina tutta una serie di potenzialità. Un uomo non compie, come tutti gli altri esseri viventi, solamente il ciclo nascita-vita-morte. Egli, in potenza, può diventare un medico, un insegnante, un impiegato, un viaggiatore spaziale e via dicendo. Non può certo mettersi a volare con le sole braccia o vivere sott’acqua senza bombole di ossigeno.

- Le quattro cause

Strettamente legate all’atto e alla potenza e quindi anche alla spiegazione del divenire da parte di Aristotele sono le quattro cause. Torniamo all’esempio precedente, quello del marmo. Esso è in potenza di divenire una statua. Ma questo mutamento non può attuarsi da solo. Accanto ai principi intriseci a ogni processo, materia, forma e privazione, sarà perciò necessario considerare anche le cause estrinseche. Ecco allora il quadro di tutte le possibili cause individuate da Aristotele:

1. Causa materiale (di quale materia un ente è costituito) 2. Causa formale (quale è l’essenza dell’ente) 3. Causa efficiente ( relativa a chi o a che cosa abbia prodotto l’ente) 4. Causa finale (quale sia lo scopo dell’esistenza di un ente)

La causa materiale e quella formale potrebbero rappresentare le cause intrinseche mentre la causa agente e la causa finale quelle estrinseche. Ma la questione non è così semplice. In tutti gli enti di natura, infatti, il fine coincide di fatto con l’acquisizione della forma (il fine di una pianta è quella di essere una pianta, a partire dal seme) mentre l’idea di causa finale estrinseca vale soprattutto per gli enti artificiali (un artigiano trasforma un pezzo di legno in sedia affinché ci si possa sedere). In linea di massima, le quattro cause corrispondono dunque alla griglia degli aspetti che occorre prendere in considerazione per comprendere un qualsiasi processo. Rispetto a un qualunque mutamento o processo, infatti, si dovrà considerare qualcosa che funge da sostrato del cambiamento (la materia), qualcosa che funge da forma, l’agente che rende possibile la sostituzione delle forme e il mutamento stesso, e il fine in vista del quale il cambiamento stesso accade. Per Aristotele un ente è sempre composto di forma e materia e si chiama sinolo. Sono sinoli un uomo, una pianta, un animale e persino una statua:

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“intendo indicare, per esempio, come materia il bronzo, come forma la figura rappresentata, come composto di entrambe la statua, cioè il sinolo”

Dunque, mentre per Platone gli enti individuali sono copie di modelli che stanno oltre questo mondo, anzi oltre il cielo, per Aristotele i sinoli, vivono solo in questo mondo e sono soggetti a processi di mutamento e movimento. I mutamenti tuttavia non sono tutti dello stesso tipo, perché si differenziano a seconda delle categorie. Si potranno in tal modo distinguere:

a) Un mutamento secondo la sostanza: i processi di generazione e di corruzione in cui le forme che cambiano sono le forme che conferiscono un determinato essere sostanziale alle cose b) Un mutamento secondo la quantità: i processi di alterazione, quando la forma che cambia non è quella sostanziale, ma solamente accidentale c) Un mutamento secondo il luogo o movimento locale. Questo è il tipo di mutamento principale e più esteso, intanto perché sembra essere implicato in tutti gli altri (tutti i processi di mutamento sembrano implicare uno spostamento locale, anche minimo) e poi perché si ritrova in tutti gli enti fisici, cioè in tutto ciò che è mobile. I corpi celesti, per esempio, stando alla visione di Aristotele, non sono soggetti al mutamento sostanziale né a quello di accrescimento e diminuzione né a quello di alterazione, e tuttavia si muovono.

- Lo Spazio e il Tempo

Per capire che cos’è un movimento locale, occorre chiarire che cosa significa luogo (topos). Che il luogo esista è per Aristotele provato proprio dal movimento, che non può che verificarsi che nel luogo. È tra l’altro evidente che ci sono corpi che si muovono scambiandosi di posto (un fenomeno che Aristotele chiama antiperistasi). Se per esempio verso dell’acqua in un vaso, essa occupa il luogo prima occupato dall’aria. Dunque, in questo caso il luogo è lo stesso mentre i corpi in esso contenuti sono cambiati. Di conseguenza, il luogo è qualcosa di indipendente rispetto ai corpi che esso contiene e si rapporta ad essi come una specie di contenitore. Ma di che tipo di contenitore si tratta? Si può escludere che il luogo si qualcosa di puramente intelligibile, cioè un qualcosa di completamente immateriale, perché possiede dimensioni determinate (è basso, è alto e via dicendo). Ma non può trattarsi nemmeno di un corpo, perché altrimenti in uno stesso luogo ci sarebbero due corpi, il luogo stesso e il corpo che si trova in esso, il che è impossibile. Il luogo dunque è ciò che contiene un corpo in movimento non in senso materiale, ma delimitando la sua posizione. Ecco perché Aristotele lo definisce come primo limite immobile del contenente, cioè del corpo in movimento. Ritorniamo all’esempio del vaso che contiene l’acqua. Il luogo non coincide con il vaso in quanto corpo (il vaso e l’acqua sono infatti entrambi dei corpi e dove esiste l’uno non può esserci l’altro), ma con il primo limite interno del vaso, che delimita l’acqua che si versa in esso. Il luogo del vaso, a sua volta, è il limite del corpo che contiene il vaso stesso, e cioè dell’aria che lo circonda. Dunque, per Aristotele tutto deve trovarsi in un ben preciso luogo, ad eccezione dell’Universo intero, perché non si dà alcun corpo al di fuori dell’Universo che possa contenere l’Universo stesso e dove non c’è un corpo contenente non ci può neppure essere un suo limite. Questo non vuol dire però che per lo Stagirita esista un vuoto cosmico. In realtà il vuoto non esiste: non esiste all’interno dell’Universo, perché tutto è pieno (l’aria è un corpo) né al di fuori di esso, perché l’Universo è finito. Ma insieme al vuoto, Aristotele nega l’infinito in atto, cioè l’esistenza effettiva, attuale di qualcosa di infinito. L’infinito non è una cosa, una realtà, ma solamente un processo, che può essere di accrescimento o di divisione. Dunque, l’infinito esiste sempre e solo in potenza.

Passiamo al tempo. Il movimento è una quantità continua, dunque infinitamente divisibile, perché ha luogo su una estensione continua. Anche il tempo è una quantità continua, come

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dimostra il fatto che, in momenti diversi, il mobile si trovi in posizioni diverse e cioè prima in una posizione e poi in un’altra. E tuttavia il tempo rappresenta una realtà più complessa, perché la sua esistenza dipende non solo dal movimento ma anche dall’anima che misura il movimento. In effetti, se il movimento o il mutamento non fosse percepito e misurato dall’anima, non verrebbe percepito neppure il tempo. Questo è il motivo per cui al risveglio da un lungo sonno non siamo per esempio in grado di percepire il tempo effettivamente trascorso. Aristotele definisce il tempo come il numero del movimento secondo il prima e il poi. Ciò che viene numerato o misurato è appunto il movimento, ciò che numera o misura è invece l’anima. Il tempo è dunque delimitato da un prima ed un poi nella continuità del movimento. Solo così la successione spaziale del movimento (il fatto cioè che un corpo mobile si trovi in punti diversi) diventa anche una successione temporale (il fatto che un corpo mobile si trovi in punti temporali diversi). Pertanto, senza l’anima il tempo esisterebbe solamente in potenza e coinciderebbe con il movimento stesso. Tra tutti i movimenti che possono essere numerati e misurati, un posto particolare occupa il cielo, o per usare la terminologia aristotelica, “l’ultima delle sfere celesti”, quella più esterna, perché si tratta del moto circolare più veloce, uniforme e perfetto. Il tempo di questo movimento, può così servire da misura per tutti gli altri movimenti.

- La Teoria dei luoghi naturali

Per Aristotele esiste un solo universo, quello in cui si colloca il nostro pianeta: la Terra. E tuttavia sussiste una divisione qualitativa tra il mondo in cui viviamo e quello che sta al di là della Luna, vale a dire tra “mondo sublunare” e “mondo sopralunare”. Nel nostro mondo esistono i quattro elementi che già Empedocle aveva individuato: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. E tuttavia per il filosofo di Stagira non si tratta di elementi primi, in quanto presuppongono un sostrato comune, la materia prima. Questo naturalmente per rimanere fedele alla sua dottrina del divenire, la quale presuppone che qualsiasi processo di mutamento lasci inalterato il sostrato. E tuttavia, se la materia prima funge da sostrato, occorre indicare qualcosa che si unisca ad essa, differenziandola e dando vita ai quattro elementi. Questa funzione è svolta da alcune qualità fondamentali, come il caldo, il freddo, il secco e l’umido, che si combinano in coppie diverse. E così, quando la materia prima è unita alle qualità del caldo e del secco si ha il fuoco, quando è unita al caldo e all’umido si ha l’aria, quando è unita al freddo e all’umido si ha l’acqua, quando è unita al freddo e al secco si ha la terra. Secondo Aristotele, gli elementi si muovono di moto rettilineo verso il loro “luogo naturale”. L’aria e ancora di più il fuoco tendono ad andare verso l’alto, mentre l’acqua e ancora di più la terra puntano verso il basso. Dunque, la loro collocazione nel nostro mondo è dovuta al peso. Ma come si fa a stabilire quale sia il più pesante e quale il più leggero? Con dei semplici esperimenti, che chiunque di noi può realizzare. Per esempio, se vogliamo stabilire quale tra l’acqua e la terra sia l’elemento più pesante, basterà lanciare un pezzo di terra in un laghetto d’acqua. La terra affonderà nell’acqua fino a collocarsi nel fondo. Dunque la terra è più pesante dell’acqua. E tra l’acqua e l’aria? Soffieremo con una cannuccia nel laghetto e vedremo delle bollicine risalire fino alla superficie dell’acqua, segno che l’aria è più leggera. E tra l’aria e il fuoco? Accenderemo un fuoco e vedremo le fiamme puntare verso l’alto (bruciando l’aria), segno che è più pesante dell’aria. Ecco allora stabilita la gerarchia:

1. Terra 2. Acqua 3. Aria 4. Fuoco

Una gerarchia che corrisponde alla realtà. Non poggiano forse gli oceani sulla terra? E sopra gli oceani non esiste forse uno strato d’aria che noi chiamiamo atmosfera? E il fuoco? Certo, non

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esiste alcun luogo infuocato a segnare i confini tra il mondo sublunare e quello sopralunare. E tuttavia — come verrà scoperto parecchi secoli dopo — la temperatura, che tende a diminuire con l’altitudine per migliaia di chilometri, ad un certo punto inverte la tendenza. Insomma, non ci sarà il fuoco ai confini della Terra, ma sicuramente qualcosa di diverso dall’elemento contenuto nell’atmosfera. Gli elementi individuati da Aristotele si dispongono dunque in base al loro peso, secondo quattro sfere concentriche. E tuttavia gli elementi non risultano rigidamente separati tra loro, come dimostrano — per esempio — i fenomeni di evaporazione e di condensazione: l’acqua, evaporando, si trasforma in aria, la quale, raffreddandosi, torna al suo luogo naturale sotto forma di pioggia. Tutti gli elementi di questo mondo sono soggetti a divenire, come dimostrano proprio i loro movimenti, che sono di tipo verticale: hanno cioè un principio e una fine. Ma che cosa accade nel mondo sopralunare? Qui è tutto più semplice: esiste infatti un solo elemento, l’Etere, il quale si presenta con una caratteristica molto particolare: si muove di moto circolare. E un moto circolare non cessa mai, in quanto non ha punti di partenza né punti di approdo, dunque sarà eterno. Ecco allora che il mondo sublunare si presenta con tratti completamente differenti rispetto al nostro mondo: se lì l’unico movimento esistente è quello circolare, tutto ruoterà allo stesso modo. E se il moto circolare è infinito, tutti gli enti di quel mondo saranno eterni. Insomma, nel mondo sublunare non vi è corruzione, non esiste il divenire. Sono i presupposti della Teoria Geocentrica, che lo scienziato Tolomeo renderà ancora più esplicita nei secoli a venire e che sarà nota anche come ipotesi “aristotelico-tolemaica”: la Terra (con tutti i suoi elementi) si colloca al centro di un universo finito e attorno ad essa ruotano tutti gli altri enti, compreso il Sole. Una visione che resisterà fino al Cinquecento, quando dovrà cedere il passo all’ipotesi opposta, quella Eliocentrica, fatta propria da Copernico. Le ragioni di un tale successo risiedono soprattutto nella sua capacità di sposarsi con i nostri sensi, i quali effettivamente non colgono alcun movimento terrestre, ma solamente quelli celesti, al punto che ancora oggi si è soliti dire che “il Sole sorge ad Est e tramonta ad Ovest”. Inoltre, anche la Bibbia afferma che la Terra è ferma al centro dell’universo e questo consente alla teoria aristotelica-tolemaica di resistere, anzi di rafforzarsi con l’affermarsi del cristianesimo in Europa. L’universo aristotelico (e tolemaico) risulta composto da una serie di sfere concentriche, tutte ruotanti attorno ad un unico centro rappresentata dalla Terra, che appare anch’essa di forma sferica e a sua volta composto da un nucleo di terra su cui poggiano gli oceani, sopra ai quali vi è uno strato d’aria e infine una sottile linea di fuoco. Ma il numero di queste sfere non corrisponde al numero dei corpi celesti visibili ad occhio nudo, vale a dire: Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e il cosiddetto “cielo delle stelle fisse” (cioè tutti gli altri corpi non identificabili come pianeti). La necessità di inserire altre sfere, ciascuna dotata di un proprio movimento, sempre circolare, risponde all’intento di spiegare le apparenti irregolarità dei movimenti celesti, che lo stesso Aristotele individua. In effetti, i corpi celesti dovrebbero muoversi di moto perfettamente circolare e uniforme intorno alla Terra, secondo lo Stagirita, ma non lo fanno. I pianeti, cioè, sembrano procedere ora più velocemente, ora più lentamente e talvolta addirittura procedere a ritroso. Il fenomeno verrà scoperto in seguito: i pianeti compiono il loro moto di rivoluzione non intorno alla Terra, bensì intorno al Sole e non disegnando cerchi perfetti, bensì secondo orbite ellittiche, che non hanno un unico centro, ma due fuochi. Per ovviare agli inconvenienti, per salvare cioè il geocentrismo e il moto circolare perfetto dei pianeti, Aristotele si avvale del modello elaborato da due accademici, dunque di due scienziati della scuola di Platone: Eudosso e Calippo. I movimenti a noi visibili risultano in questo modello dalla combinazione di più movimenti e più sfere che girano a velocità e in direzioni diverse. Esisteranno, dunque, tante sfere quanti sono i movimenti che è necessario introdurre per spigare le anomalie dei moti di rivoluzione dei singoli corpi celesti. Poiché per noi queste sfere rimangono invisibili, il loro calcolo è frutto delle congetture matematiche legate alla interpretazione dei moti necessari per spiegare l’apparente irregolarità dei moti osservati. E visto

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che non si tratta di qualcosa che possiamo osservare, non è nei libri di Fisica bensì in quelli di Metafisica che Aristotele parlerà di tali moti universali, il cui numero varia dai 47 ai 55. Al di là di questo non indifferente problema (che, se ben studiato, avrebbe decisamente accelerato i progressi della scienza), l’universo aristotelico si struttura, grosso modo, nel modo seguente:

Ai confini più esterni di questo universo sferico e chiuso (dunque finito, perché anche per Aristotele come per la maggioranza dei greci l’infinito è sinonimo di incompletezza e dunque di imperfezione) c’è l’Empireo, il luogo in cui risiedono gli dei. Quindi ci sono le stelle fisse e infine tutti i pianeti (compreso il Sole, che pianeta non è) che ruotano attorno alla Terra, ben salda al centro dell’universo . 2

Il sistema aristotelico a partire dalla Terra: Terra, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno e 2

Firmamento (o stelle fisse)�29

- Il De Anima

Aristotele è sempre stato attratto da tutti gli esseri viventi e non solo dall’uomo. Si può anche dire che è con lui che nasce la moderna biologia. D’altro canto, suo padre era un medico. Lo Stagirita è convinto che le specie viventi presentino la medesima struttura che caratterizza l’intero universo, con la differenza che in esse è presenta l’anima. Occorre precisare che in Aristotele (come nella gran parte dei pensatori greci), tale termine non assume quel significato divenuto pressoché consueto nella nostra civiltà. L’Anima è infatti per Aristotele un principio di vita:“l’atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza”. Insomma, concepire un’anima distaccata dal corpo, come sostiene l’ebraismo, ma anche Platone e le scuole pitagoriche, per Aristotele è pura follia. Di conseguenza, poiché l’anima è l’atto di un corpo e vive in funzione di esso, l’anima non sopravvive alla morte del corpo dell’essere vivente. Dunque, per il filosofo non esiste alcun viaggio di ritorno verso un presunto luogo naturale dell’anima, l’Iperuranio di Platone, e, di conseguenza, non esiste nessuna possibilità di reincarnazione. Non esiste nemmeno la tripartizione dell’anima di stampo platonico (anima razionale, irascibile e concupiscibile), ma solamente tre distinte facoltà:

1. Vegetativa 2. Sensitiva 3. Intellettiva

L’anima vegetativa presiede alle funzioni della nutrizione, della crescita e della riproduzione ed presente sia nei vegetali, sia negli animali, sia negli esseri umani. L’anima sensitiva presiede alle sensazioni e alle funzioni appetitive ed è presente negli animali e negli esseri umani ma non nei vegetali. L’anima intellettiva presiede alle funzioni dell’intelletto ed è presente solamente negli uomini. Di qui la nota definizione aristotelica dell’uomo come “animale razionale”. L’anima intellettiva ammette a sua volta due funzioni: esiste innanzitutto un intelletto potenziale, che può “diventare tutte le cose”. Per poter diventare tutte le cose, cioè per potere accogliere le varie forme intelligibili delle cose, deve essere in sé vuoto, come una tavoletta di cera su cui non è ancora scritto nulla (tabula rasa, come la definiranno i filosofi i latini). In quanto tale, non può essere corporeo, altrimenti condizionerebbe con le proprie qualità sensibili la ricezione degli intelligibili. Ma per altri versi tale intelletto può essere descritto come simile alla materia, perché appunto è in potenza a diventare tutte le cose. E in effetti il processo della conoscenza intellettuale è descritto da Aristotele in analogia a quello della sensazione: come l’organo di senso passa dalla potenza all’atto quando è informato dalla forma della cosa sensibile, identificandosi con essa, così l’intelletto potenziale passa dalla potenza all’atto quando riceve la forma intelligibile, e si identifica intenzionalmente con essa. Questo intelletto potenziale è propriamente quello con cui l’uomo pensa ed è un intelletto corruttibile, mortale, come mostra proprio la sua dipendenza dalle sensazioni e dunque dal corpo. In assenza di dati trasmessi dai sensi, non potrebbe pensare proprio nulla. Dunque, l’intelletto potenziale cessa di esistere alla morte del corpo. Ma accanto a questo intelletto ne esiste un altro, che può produrre tutte le cose e non solo diventare tutte le cose: l’intelletto produttivo o agente o attivo la cui azione viene paragonata al ruolo della luce nella vista. Per vedere qualcosa ci vogliono tre elementi: l’organo di senso (la vista), delle cose colorate (gli oggetti propri della vista) e qualcosa che illumini i colori perché questi possano essere percepiti. È dunque la luce che fa sì che ciò che è visibile solo in potenza (i colori) diventi visibile in atto (ai nostri occhi). Applicando questa analogia all’intelletto, dovremmo dire che, affinché si dia un processo intellettivo, ci vuole una facoltà in grado di pensare (intelletto potenziale), dei contenuti da pensare (le forme intelligibili ricavate dalle immagini sensibili) e qualcosa che permette a queste ultime di imprimersi o di essere ricevute dall’intelletto stesso, facendo sì che le immagini ricavate dai sensi (intelligibili in potenza) diventino intelligibili in atto. Questa è appunto la funzione dell’intelletto agente, che è pertanto la condizione della conoscenza intellettuale. Questo intelletto, per potere produrre tutti gli

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intelligibili, deve possederli tutti e non è che possa talvolta pensarli e talvolta no. Deve pensarli sempre in atto. Da qui la convinzione, che questo intelletto non sia nostro, ma una sorta di sostanza separata. L’intelletto attivo è infatti descritto come immortale, eterno, separato, impassibile, caratteristiche non adatte alla descrizione aristotelica dell’uomo. E tuttavia di questo intelletto lo Stagirita ci parla quando descrive le facoltà cognitive dell’uomo. Di che cosa si tratta dunque? Difficile stabilirlo. Un enigma che si è trascinato nei secoli, dando luogo ad una miriade di interpretazioni, soprattutto nella Scolastica medievale e nella filosofia araba.

Riguardo alla parte dell’anima con cui essa conosce e pensa (sia questa parte separabile, sia non separabile secondo la grandezza, ma soltanto logicamente) si deve ricercare quale sia la sua caratteristica specifica ed in qual modo il pensiero si produca. Ora se il pensare è analogo al percepire, consisterà in un subire l’azione dell’intelligibile o in qualcos’altro di simile. Questa parte dell’anima deve dunque essere impassibile, ma ricettiva della forma, e dev’essere in potenza tale qual è la forma, ma non identica ad essa; e nello stesso rapporto in cui la facoltà sensitiva si trova rispetto agli oggetti sensibili, l’intelletto si trova rispetto agli intelligibili. È necessario dunque, poiché l’intelletto pensa tutte le cose, che sia non mescolato, come dice Anassagora, e ciò perché domini, ossia perché conosca (l’intrusione, infatti, di qualcosa di estraneo lo ostacola e interferisce con lui). Di conseguenza la sua natura non è altro che questa: di essere in potenza. Dunque il cosiddetto intelletto che appartiene all’anima (chiamo intelletto ciò con cui l’anima pensa e apprende) non è in atto nessuno degli enti prima di pensarli. Perciò non è ragionevole ammettere che sia mescolato al corpo, perché assumerebbe una data qualità, e sarebbe freddo o caldo, ed anche avrebbe un organo come la facoltà sensitiva, mentre non ne ha alcuno. Quindi si esprimono bene coloro i quali affermano che affermano che l’anima è il luogo delle forme, solo che tale non è l’intera anima, ma quella intellettiva, ed essa non è in atto, ma in potenza le forme. Che poi l’impassibilità della facoltà sensitiva e quella della facoltà intellettiva non siano la stessa risulta evidente se si considerano gli organi sensori e il senso. In effetti il senso non è in grado di percepire dopo l’azione di un sensibile troppo intenso (...). Invece l’intelletto, quando ha pensato qualcosa di molto intelligibile, non è meno, ma anzi più capace di pensare gli intelligibili inferiori, giacché la facoltà sensitiva non è indipendente dal corpo, mentre l’intelletto è separato. Quando poi l’intelletto è divenuto ciascuno dei suoi oggetti, (...) anche allora è in certo modo in potenza, ma non come prima di avere appreso o trovato; ed allora può pensare se stesso. Poiché sono diverse la grandezza e l’essenza della grandezza, come l’acqua e l’essenza dell’acqua (...), il soggetto giudica l’essenza della carne e la carne o con qualcosa di diverso o con qualcosa che si trova nella stessa condizione. Infatti la carne non esiste senza la materia, ma, come il camuso, è una determinata forma in una determinata materia. Pertanto con la facoltà sensitiva il soggetto distingue il caldo, il freddo e le altre qualità di cui la carne costituisce una data proporzione; e con un’altra facoltà – o separata da quella o in relazione ad essa al modo in cui la linea spezzata sta a se stessa, quand’è estesa – distingue l’essenza dalla carne. Inoltre, nel caso degli enti ottenuti per astrazione, la retta è analoga al camuso (perché unita al continuo), mentre la sua essenza, se l’essenza della retta è diversa dalla retta, è qualcosa di differente, e potrebbe essere la diade. Il soggetto perciò distingue tale essenza o con qualcosa di diverso o con qualcosa che si trova in una diversa condizione. In generale, dunque, come gli oggetti sono separati dalla materia, così viene a trovarsi l’intelletto. Si potrebbe porre una questione: qualora l’intelletto sia semplice o impassibile, e non abbia nulla in comune con alcunché, come afferma Anassagora, in che modo penserà, se il pensare è una specie di subire? (...) Inoltre l’intelletto è esso stesso intelligibile? (...) Ora riguardo al subire in virtù di un elemento in comune si è discusso precedentemente, e ciò consente di affermare che intelletto è in certo modo potenzialmente gli intelligibili, ma in atto non è nessuno di essi prima di pensarli. Diciamo “potenzialmente” allo stesso modo di una tavoletta per scrivere, sulla quale non ci sia attualmente nulla di scritto. È precisamente questo il caso dell’intelletto. inoltre è esso stesso intelligibile come lo sono gli oggetti intelligibili. Infatti, nel caso degli oggetti senza materia, il soggetto pensante e l’oggetto pensato sono la stessa cosa, poiché la scienza teoretica e il suo oggetto si identificano (...). Invece negli oggetti che hanno materia ciascuno degli intelligibili è presente potenzialmente. Di conseguenza gli enti materiali non saranno dotati di intelletto (giacché l’intelletto è la facoltà di conoscere tali enti senza la loro materia), mentre esso possederà l’intelligibile. Poiché, come nell’intera natura c’è qualcosa che costituisce la materia per

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ciascun genere di cose (e ciò è potenzialmente tutte quelle cose), e qualcos’altro che è la causa e il principio produttivo, perché le produce tutte, allo stesso modo che la tecnica si rapporta alla materia, necessariamente queste differenze si trovano anche nell’anima. E c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in un certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, ed il principio è superiore alla materia. Ora la conoscenza in atto è identica all’oggetto, mentre quella in potenza è anteriore per il tempo all’individuo, ma da un punto di vista generale, non è anteriore neppure per il tempo; e non è che questo intelletto talora pensi e talora non pensi. Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (...), e senza questo non c’è nulla che pensi. (Aristotele, De Anima)

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III LA METAFISICA

Sotto il titolo di tà metà tà physikà, “le cose dopo le cose di fisica”, neutro plurale in greco ma trasformatosi successivamente nel femminile singolare nella lingua latina, metaphysica, Andronico di Rodi raccoglie un insieme di trattati aristotelici la cui unità originaria tuttavia è tutt’altro che scontata. Andronico di Rodi vi colloca ben 14 opere, collocandole, appunto, dopo i libri di Fisica. Si tratta di argomenti inerenti alla “Filosofia Prima” ed è questo il nome che compare nelle opere aristoteliche. Ma di che cosa si tratta? Il I Libro, chiamato Alpha, si apre con la più celebre delle affermazioni aristoteliche: “tutti gli uomini tendono per natura al sapere”. L’uomo, in quanto “animale razionale”, non può fare a meno di pensare. Posizione ribadita in un altro scritto di Filosofia Prima, il Protrettico: “si deve filosofare o non si deve filosofare: ma per decidere di non filosofare è pur sempre necessario filosofare: dunque in ogni caso filosofare è necessario”. Nei primi libri di metafisica, la filosofia prima viene descritta come un sapere direttivo di tipo “architettonico”, in grado cioè di partire dalle basi della conoscenza ed edificare un sapere sempre più alto. Insomma, la filosofia prima è la conoscenza delle cause e dei principi primi. Nel IV libro, il Gamma, l’autore parla invece della filosofia come della scienza dell’ente in quanto ente. L’ente – come si è visto nelle Categorie – possiede molteplici significati, si dice in tanti modi e tuttavia sempre in riferimento ad una unità e ad una natura determinata, che è la sostanza. Dunque, la Filosofia Prima si occupa soprattutto dello studio di questa categoria, la sostanza, senza la quale non avrebbero senso le altre categorie. Come logica conseguenza, la filosofia è dunque la base di tutte le altre scienze. Ma questo non significa che esiste un solo sapere, come sosteneva Platone. Conoscere la sostanza è sicuramente indispensabile, senza la risposta alla fatidica domanda “che cos’è?” non si potrebbe procedere. E tuttavia è solamente un punto di partenza per rispondere a tutte le altre domande, per completare il processo cognitivo. La filosofia prima ha come oggetto anche qualcosa di molto più elevato: il divino. Dunque, la filosofia prima è anche Teologia, vale a dire studio del divino. Ma la Teologia aristotelica è qualcosa di molto diverso da quella cristiana dei secoli successive: non si tratta di una sorta di “scienza religiosa”, bensì di una scienza a tutti gli effetti, di una ricerca volta a scoprire quale sia la causa prima (o causa ultima) di tutte le cose che esistono. D’altro canto, Aristotele ha lasciato aperto un problema di non poco conto, quello relativo alla natura dei moti astrali. L’autore, coerentemente con la sua visione cosmica, ha affermato che “ogni cosa viene sempre mossa da altro”. Insomma, il moto è una “forza” esterna agli enti. Dunque, chi la applica? Non potendo risalire all’infinito nella ricerca della causa originaria, è necessario ammettere che esista un Primo Motore Immobile che muova tutto senza essere mosso da altro. Il Primo Motore immobile è ciò che possiamo definire Dio, sempre che non si sconfini in un discorso, appunto, religiose. Il Primo Motore Immobile è atto puro, in quanto se avesse ancora delle potenzialità da attualizzare non sarebbe in grado di svolgere il suo lavoro a dovere. Ma non è un creatore: la materia è di fatto preesistente. Egli si limita ad imprimere il moto all’intero universo. E in quanto atto puro, non può che trovarsi, oltre che all’inizio, anche alla fine del mondo, quando cioè non ha più niente da attualizzare. Dunque, il moto che egli imprime all’universo è da intendersi non tanto come una sorta di colpo o calcio dato alla materia bensì come una forte forza di attrazione che esercita su tutte le cose. Tutto tende verso il Primo Motore Immobile, che si presenta quasi come una gigantesca e potentissima calamita. Ma di che cosa è fatto questo motore? Trattandosi di un puro ente filosofico e non materiale e nemmeno religioso, esso non è altro che puro pensiero, anzi pensiero di pensiero: noèsis noèseos. Insomma, il Primo Motore Immobile rappresenta la perfezione più assoluta. Gli enti non perfetti, come l’uomo, pensano sempre qualcosa, qualcosa di cui mancano. Il Primo Motore, essendo perfetto, non può che pensare a se stesso, beandosi del proprio pensiero. Ed essendo il perfetto modello della sapienza, attrae a sé l’universo intero.

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IV L’ETICA

Sono tre le opere di etica attribuite ad Aristotele: Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande etica. Su quest’ultima opera permangono a tutt’oggi forti dubbi. Da più parti, infatti, si ritiene che si tratti di uno scritto composto da qualche suo seguace in epoca successiva. Le altre due opere, invece, sono da attribuire allo Stagirita, ma devono il loro nome a chi ne curò la pubblicazione:, vale a dire a Nicomaco, il figlio maschio di Aristotele, ed Eudemo di Rodi, un suo discepolo. La trattazione più completa ed esaustiva è senza dubbio quella contenuta in Etica Nicomachea. Anche in questo campo emerge la volontà da parte dell’autore di smarcarsi da Platone, affermando a chiare lettere che l’etica non si fonda su una sola idea oggettiva, assoluta e universale, l’Idea del Bene. Questo tuttavia non significa che non possa esistere un fine ultimo verso il quale l’uomo debba orientarsi. Insomma, valgono per l’etica le stesse regole viste pre le categorie: l’ente si dice in molti modi, ma sempre in riferimento ad un unica sostanza. Ebbene, secondo l’autore, esiste un’unica sostanza dell’etica. Secondo Aristotele, dunque, ogni singola azione si compie in vista di altro, ma poiché non si può andare all’infinito nella serie delle cause, tutte le azioni umane dovranno convergere verso un fine ultime, che è la felicità. Di conseguenza, l’etica peripatetica non sarà prescrittiva come quella platonica, bensì descrittiva: tende cioè a elencare i vari comportamenti possibili nella vita concreta di un individuo per raggiungere il fine ultimo della felicità. Ma che cos’è la felicità? Anche in questo caso non esiste un modello predefinito. D’altro canto ogni uomo ha una propria visione della felicità. C’è chi pensa che essa sia raggiungibile attraverso il piacere, chi attraverso lo studio, chi attraverso la creazione di un nucleo famigliare e via dicendo. C’è naturalmente anche chi pensa che la felicità consista nel possesso di qualche bene, una visione fortemente criticata da Aristotele in quanto il possesso è un atto passivo e quando si è passivi “è come se si stesse dormendo nel sonno” e quando si dorme, “non si può dire di essere né felici né infelici”. Ma allora in che cosa consiste la felicità? Secondo Aristotele essa non è altro che “l’attività dell’anima secondo la virtù”. Il discorso, dunque, si sposta sul significato di virtù (aretè). Platone nella Repubblica aveva scritto che la virtù coincide con la giustizia, vale a dire l’eccellenza nello svolgere una ben determinata mansione. La virtù di un suonatore di cetra, per esempio, sarà quella di sapere suonare bene il suo strumento, come quella di un velocista di correre in modo eccellente. Insomma, per Platone la virtù era sempre riferita a qualcosa di specifico, a quella specifica attività che si intende intraprendere: la virtù è sempre virtù di qualcosa. E tuttavia le virtù non possono essere tutte sullo stesso piano, altrimenti una formica in grado di svolgere in maniera virtuosa un ben determinato lavoro sarebbe al pari di uomo in grado di fare la stessa cosa nel suo specifico campo. Ma, come sappiamo, l’uomo è “animale razionale”, di conseguenza le sue virtù principali non saranno da ricercare solamente nella vita pratica, ma anche in quella teoretica. Dunque, la felicità dell’uomo sta nell’esercitare nel modo più eccellente l’attività che gli è più propria: pensare. Il pensare è per Aristotele l’attività più “divina” dell’uomo, quella che gli consente di stare un gradino sopra tutti gli altri animali. L’autore individua due gruppi di virtù proprie dell’uomo e solamente dell’uomo:

1. Virtù dianoetiche: quelle che appartengono all’anima razionale nel senso più stretto (diànoia indica la ragione)

2. Virtù etiche: quelle che appartengono alla parte appetitiva dell’anima. Si riferiscono indirettamente all’anima razionale perché la parte appetitiva segue ciò che la ragione le indica

Per quanto concerne le virtù etiche, Aristotele ritiene che siano sempre frutto delle abitudini e dell’educazione. È infatti la ripetizione abituale di determinati atti a creare quella data disposizione che è appunto la virtù. Di conseguenza, la virtù etica è una disposizione stabile del carattere. Ogni virtù etica, secondo l’autore, presuppone una medietà, collocandosi cioè sempre

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tra l’eccesso e il difetto. Una tesi destinata ad avere molto successo e che ancora oggi viene condensata nell’adagio latino: in medio stat virtus. Tuttavia, si tratta di una radicale semplificazione di una posizione che appare ben più articolata. Aristotele, infatti, non intende affatto affermare che la virtù etica si collochi sempre e necessariamente tra due vizi opposti, ma semplicemente che non esistono modelli assoluti di virtù. Di conseguenza, ogni azione va sempre valutata in base alle circostanze effettive. Per esempio, tra l’avarizia e la prodigalità, la medietà consisterà nell’assumere un atteggiamento “generoso”. E tuttavia, questo non significa, per esempio, che tra l’atteggiamento avaro di non dare nulla e quello estremamente prodigo di dare tutto, debba necessariamente assumere quello per cui devo donare l’esatta metà di quanto effettivamente possiedo. Questa non è etica, ma un mero e freddo calcolo matematico. D’altro canto, una medesima azione può essere etica in un determinato contesto e non etica in un altro. Ritirarsi da una battaglia, dunque fuggire, può essere un’azione vile come anche una scelta saggia, dipende appunto dalle circostanze. Sarà un atto sicuramente vile se la mia presenza è determinante ai fini della vittoria finale, se posso salvare la vita dei miei compagni, se posso farli fuggire con me, ma sarà una scelta saggia se non c’è più nulla da fare, potendo offrire il mio aiuto in altre battaglie future. Dunque è sempre tenendo ben presente queste premesse che è possibile elencare le virtù etiche di Aristotele, cioè considerandole come una sorta di vademecum da applicare non rigidamente, bensì in maniera elastica, valutando con attenzione le circostanze. Aristotele ne elenca alcune:

• Coraggio (il giusto mezzo tra viltà e temerarietà) • Temperanza (il giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità) • Generosità (il giusto mezzo fra viltà e temerarietà) • Magnificenza (il giusto mezzo tra vanità ed umiltà) • Mitezza (il giusto mezzo tra l’iracondia e l’eccessiva flemma) • Amabilità (il giusto mezzo tra misantropia e compiacenza) • Sincerità (il giusto mezzo tra ironia e vanità) • Arguzia (il giusto mezzo tra la buffoneria e la rusticità)

Ma la più importante delle virtù etiche è senza dubbio la Giustizia. Dunque Aristotele la pensa grosso modo come Platone? Non proprio. Egli, infatti, pensa che sia la virtù più efficace e non l’unica virtù e nemmeno che questa coincida con la giusta collocazione in un aggregazione sociale che a sua volta si modella sulla nostra anima. La Giustizia è per Aristotele “meravigliosa”, anche perché “chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso”. Esistono due tipi di giustizia:

• Giustizia distributiva, cui compete il compito di dispensare onori o altri beni agli appartenenti alla medesima comunità

• Giustizia correttiva, il cui compito è di pareggiare i vantaggi e gli svantaggi nei contratti tra gli uomini

Un capitolo a sé merita la trattazione di un’altra virtù, dell’Amicizia, che assume un ruolo fondamentale per l’etica aristotelica. L’autore afferma che “nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se possedesse tutti i beni”. Insomma, un amico è per tutta la vita, nella giovinezza come nella vecchiaia, nel momento del bisogno come in quelli di prosperità, nella vita privata come in quella pubblica. D’altro canto, l’uomo, in quanto “animale sociale” — di questo Aristotele ne è convinto — è portato a stringere rapporti affettivi con gli altri uomini. Naturalmente possono esistere diversi tipi di amicizia. Esiste sicuramente una amicizia fondata sul piacere o sulla utilità, ma questa risulterà piuttosto fragile e destinata a scomparire nel momento in cui cessa l’utilità o il piacere che l’ha determinata. L’amicizia perfetta è quella che si instaura tra persone virtuose. In questo caso l’amicizia sarà stabile. Un amico non si perde mai:

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che sia un vicino di casa, un compagno di lavoro o che abiti a distanze siderali. L’amore può finire, non l’amicizia. Ma perché questa superiorità dell’amicizia su quell’amore da Platone tanto celebrato? Perché l’amicizia è disinteressata. Un amico, se è tale, non sarà mai geloso dei tuoi successi, mai invidioso dei tuoi averi. Ed è proprio per questa sua caratteristica, gli amici si contano sulle punta delle dita di una mano (al contrario delle amicizie fondate sull’utilità e il piacere, le quali, a ben vedere, non sono affatto amicizie). Di conseguenza, chi afferma di essere “amico di tutti”, sta mentendo, sapendo di mentire. L’amicizia è un rapporto affettivo molto profondo che non è possibile distribuire a tutti. Ma quando finisce l’amicizia? Quando uno dei due tradisce lo spirito dell’amicizia stessa, per esempio quando diventa invidioso e geloso dell’amico. E perché accade questo? Perché gli uomini non sono tutti uguali e sebbene l’amicizia si instauri tra due persone virtuose, accade che qualcuno, nel corso della propria esistenza, ad un certo punto si fermi mentre l’altro progredisce. Insomma, tra persone il cui grado di virtù è diverso non è possibile alcuna amicizia. Questa strettissima connessione tra le virtù e l’amicizia viene ribadita da Aristotele allorquando afferma che “l’uomo virtuoso è amico anche di se stesso”. Ecco perché le persone poco virtuose cercano in tutti i modi di trascorrere il proprio tempi in compagnie di altre persone (i finti amici): cercano di sfuggire alla loro pochezza esistenziale. Un uomo virtuoso si ritaglia spazi di riflessione solitaria; un uomo non virtuoso cerca in tutti i modi di non rimanere mai da solo. Ma le virtù etiche non sono le sole, anzi, in linea generale, rappresentano il grado, per così dire, più basso dell’etica. Decisamente più importanti sono infatti quelle dianoetiche. Aristotele ne elenca cinque, dalla più bassa alla più alta:

• Scienza: la disposizione che dirige la dimostrazione • Arte: la disposizione accompagnata dal ragionamento vero che dirige il produrre • Saggezza: abito pratico razionale che concerne ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo • Intelligenza: abito razionale che ha la facoltà di intuire i principi primi delle scienze nonché i

termini ultimi • Sapienza: è l’insieme di scienza ed intelligenza delle cose più alte ed elevate per natura

La cosa più interessante è la distinzione tra Saggezza (phrònesis) e la Sapienza (sophia). Quest’ultima — secondo Aristotele — ha a che fare con una conoscenza disinteressata, mentre la saggezza è un sapere non del tutto disinteressato. Il sapiente, tuttavia, è anche un saggio, perché sarebbe assurdo raggiungere il top della vita virtuosa senza dotarsi di un “abito pratico razionale” che gli consenta di muoversi in maniera egregia in tutte le situazioni. E tuttavia il sapiente non è un uomo pratico. Anche in questo caso la differenza con Platone è notevole. Se volessimo fare riferimento al mito della Caverna della Repubblica, potremmo dire che lo schiavo che si libera delle catene e che esce dalla caverna è il sapiente di Aristotele. Uscito da quel luogo buio, osserva con stupore il mondo reale beandosi della sua scoperta e lì si ferma. Il saggio invece è colui che non si accontenta di tutto ciò e torna indietro per mettere al corrente della propria scoperta gli altri uomini. Insomma, il saggio è un politico: sente di avere una missione da compiere per sé e per tutta l’umanità: è questo il suo interesse. Il sapiente non lo è affatto. Dunque, la visione di Aristotele risulta molto meno impegnata di quella platonica, quanto meno per il ruolo dell’intellettuale. La vetta della virtù è il raggiungimento di una felicità assolutamente individuale e non collettiva. Questo naturalmente non significa che Aristotele non si occupi di Politica.

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V LA POLITICA

La politica è una parte molto importante nella produzione filosofica di Aristotele. Se è vero che la visione dello Stagirita non è organica e che, dunque, egli lasci maggiori ambiti di manovra e di libertà agli individui, è anche vero che l’uomo non può vivere isolato dai suoi simili e dunque necessità di aggregazioni complesse, come, appunto, lo Stato. Aristotele tuttavia non vede quest’ultimo come l’inevitabile conseguenza del fatto che l’uomo non basti a se stesso, come per Platone. La visione di Aristotele è decisamente meno pessimista: “l’uomo è un animale sociale” e come tale portato ad aggregarsi ai suoi simili:

lo Stato non è una semplice comunanza di luogo per difendersi vicendevolmente dai pericolo e per promuovere i commerci. Queste cose devono essere necessariamente presenti perché lo Stato esista. Ma la loro presenza non fa sì che lo Stato esista. Piuttosto, uno Stato è una comunità di stirpi e di famiglie nel vivere bene, per condurre una vita pienamente realizzata e indipendente.

E ancora:

Ciò che è peculiare all’uomo rispetto agli altri animali, è che lui solo sa percepire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, e il resto – ed è la comunanza di queste cose che fa una famiglia o uno Stato

Di indole socievole, l’uomo si associa con i suoi simili e dà vita ad aggregazioni sempre più complesse, come lo Stato. Quest’ultimo è dunque qualcosa di naturale, che scaturisce proprio dalla natura sociale dell’uomo. E secondo Aristotele esso si fonda su quella prima forma di aggregazione umana che è la famiglia. Parafrasando Platone, si potrebbe dire che lo Stato è per lo Stagirita la famiglia scritta in grande. Ancora una volta Aristotele ribadisce la sua distanza da Platone: per quest’ultimo, infatti, la famiglia non rappresenta certo la base dello Stato, anzi essa viene vietata per legge per i custodi del medesimo. Naturalmente la famiglia di Aristotele è qualcosa di diverso da quella attuale. Si tratta di una oikìa, di una famiglia allargata, composta cioè da tutti coloro che a vario titolo abitano lo stesso tetto: genitori e figli in primo luogo, nonché nonni, zii e persino schiavi. E infatti lo Stato di Aristotele prevede gli schiavi. Ma Aristotele si rende conto che una famiglia troppo numerosa sarà difficilmente governabile:

uno Stato non può essere costituito da dieci uomini, ma se lo è di centomila non è più uno Stato

Insomma, Aristotele ribadisce la virtù del giusto mezzo, per cui lo Stato migliore non è né troppo grande né troppo piccolo. Non si tratta di uno stato ideale o utopico: quello a cui il filosofo fa riferimento non è altri che la polis greca e in special modo quella ateniese. Anche in questo caso la distanza da Platone è ben evidente. Per il filosofo ateniese, infatti, l’allargamento dei confini è quasi una necessità dettata dall’indole umana, che moltiplica all’infinito i propri desideri. Per Aristotele, invece, uno Stato troppo grande rischierebbe di essere ingovernabile. Altra grossa differenza riguarda il ruolo delle donne: per Aristotele non hanno alcun diritto politico e quindi non possono guidare lo Stato. Logica conseguenza della trasposizione delle gerarchie famigliari sulle quali poggia lo Stato. Nella famiglia greca le donne non hanno alcun ruolo dirigenziale e questo vale per tutte le poleis greche del tempo. A rendere meno abissali le differenze tra Aristotele e Plaone è la classificazione delle forme di governo o costituzioni. Per Aristotele esistono sei costituzioni, divise in tre coppie, a seconda del numero di coloro che esercitano il potere: uno, pochi, molti. Ogni coppia è poi costituita da una forma corretta, in cui il potere viene esercitato per il bene comune, e da una forma degenerata, in cui il potere è esercitato nell’interesse di chi lo detiene:

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Per Aristotele è tra queste forme di governo che bisogna scegliere: non esistono infatti modelli ideali. Insomma, uno Stato è tutt’al più migliorabile nel tempo, ma non sarà mai perfetto. Naturalmente se si vuole puntare al bene della comunità, la scelta andrà effettuata tra le forme di governo corrette. Pur propendendo per una forma di governo aristocratico, nel senso di governo dei migliori e non dei più ricchi, realisticamente il filosofo opta per la “politèia”, vale a dire la forma corretta e legittima di democrazia (l’altra, quella degenerata, che l’autore chiama “democrazia” non è altro che caos e anarchia). La politèia è per Aristotele l’unica forma di governo in grado di dare a tutti la possibilità di partecipare alla guida dello Stato, sempre che mostrino tali capacità:

l’opinione che la moltitudine piuttosto che pochi uomini debba essere sovrana sembra che si possa sostenere. Perché, anche se non ogni membro della moltitudine è un uomo buono, è tuttavia possibile che, quando si riuniscano assieme, debbano essere migliori, non come singoli, ma collettivamente, proprio come i pranzi in comune sono migliori di quelli offerti da una singola persona.

Uno Stato né troppo grande né troppo piccolo, sostanzialmente democratico (nel senso della forma non corrotta di democrazia, cioè la Politeia). Ma non basta. Uno Stato è fatto di cittadini, di esseri umani e questi non sono tutti uguali. I popoli del Nord (dell’allora mondo conosciuto) sono per Aristotele troppo freddi, mentre quelli del Sud (idem) troppo caldi. I migliori sono quelli che vivono in aree temperate, vale a dire i greci. E se Platone faceva poggiare il suo Stato sulla classe dei contadini, in quanto il mondo agricolo rappresentava per lui una garanzia di stabilità, Aristotele punta invece sulla classe dinamica per eccellenza: il ceto medio. D’altro canto, è più facile governare uno Stato dove non vi siano né troppi ricchi né troppi poveri, ma dove ognuno possa vivere del proprio lavoro. E in quale città la borghesia rappresenta l’ossatura dello Stato? Ad Atene. Dunque, mentre l’ateniese Platone delinea uno Stato che assomiglia alla nemica Sparta, il filosofo di Stagira, il professore di Alessandro Magno, che cancellerà le libertà greche e in primo luogo quella ateniese, propone un’ideale di Stato che sembra la copia della polis ateniese prima della perdita dell’indipendenza, vale a dire di quella città dalla quale è costretto a scappare per ben due volte per paura di essere ucciso.

FORMA DI GOVERNO CORRETTA

FORMA DI GOVERNO DEGENERATA

Governo di uno solo Monarchia Tirannia

Governo di pochi Aristocrazia Oligarchia

Governo di molti Politeia Democrazia

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VI LE SCIENZE POIETICHE

Le scienze poetiche sono quelle che si occupano della produzione di oggetti sensibili (poìesis significa infatti “produzione”). Dal titolo di una delle opere più famose di Aristotele, Perì poietìkos deriva anche il termine “poetica” nonché la parola “poesia”. Aristotele muove dai medesimi presupposti di Platone, ovvero che scopo dell’arte sia sostanzialmente la mimesis, vale a dire l’imitazione della realtà. E tuttavia per Aristotele la realtà non è una copia di un mondo situato oltre i cieli, ma l’unico mondo possibile. Di conseguenza, la verità delle cose, la loro essenza, in una parola gli universali sono situati proprio negli oggetti sensibili e non in un altro mondo. E l’arte può coglierli, almeno nei loro tratti più generali. Dunque, per Aristotele l’arte è uno strumento di conoscenza. Prendiamo come esempio la tragedia, vale a dire una delle espressioni artistiche più criticate da Platone. Essa non narra storie vere, ma nemmeno false. Le storie narrate nella tragedia sono verosimili. Vale a dire che quanto viene rappresentato non sarà mai la realtà, ma nemmeno qualcosa di completamente irreale. Il verosimile consente anche di evitare quella irrazionalità che invece è presente nella vita reale. Insomma, l’arte è meglio della realtà che in qualche modo rappresenta, in quanto frutto della mente razionale dell’uomo. Un bel salto rispetto a Platone, che la vedeva come due volte lontana dalla realtà. Ma l’arte ha anche un’altra funzione, quella catartica, purificatrice, in grado cioè di migliorare gli uomini. Prendiamo ad esempio un personaggio come Edipo. Egli può anche non essere reale (e infatti non lo è), ma rappresenta un simbolo di una condizione che può appartenere a qualsiasi essere umano (dunque è universale). Ecco allora che lo spettatore può identificarsi con esso. In realtà la stessa cosa pensa anche Platone, solo che per il filosofo di Atene questo è un pericolo in quanto tali modelli possono risultare negativi per gli spettatori. Per Aristotele invece accade proprio il contrario:

Alcuni di quelli che sono dominati dalla pietà, dal timore o dall'entusiasmo, quando odono canti orgiastici come quelli religiosi, si calmano come per effetto di una medicina e di una catarsi. È necessario perciò che siano sottoposti a tale azione coloro che vanno soggetti alla pietà, al timore e in generale alle passioni, in modo conveniente a ciascuno, sicché in tutti si generi una catarsi e un alleggerimento piacevole

Questo significa che l’arte non è solamente uno strumento di conoscenza, ma si presenta anche come uno straordinario strumento pedagogico. Attraverso la rappresentazione di personaggi verosimili, l’uomo impara a vivere meglio, purificandosi dalle passioni più sfrenate. Apprende dagli attori che le mettono in scena che la viltà, la corruzione, l’invidia, l’omicidio e via dicendo sono atteggiamenti errati e lo può fare perché i personaggi, pur non essendo reali, si comportano in un modo che facilita l’identificazione con il pubblico degli spettatori. Scene di vita reali che non sono reali, ma la cui verosimiglianza con la vita reale rende possibile tale identificazione. Aristotele è noto anche per la tripartizione della tragedia, una sorta di regole per una corretta narrazione che rimarrà valida per secoli. Si tratta della Teoria dei tre atti, secondo cui ogni forma di narrazione deve avere: 1) un inizio, in cui si presenta la vicenda e in cui accade un incidente o un fatto importante dal quale scaturisce la narrazione; 2) un mezzo, in cui si traggono le conseguenze di quanto mostrato nel primo atto; 3) una conclusione o climax, in cui la vicenda viene risolta. Ma attenzione: per Aristotele tale tripartizione impone una unità di tempo, di luogo e di atto, cioè che tutta la narrazione si svolga in un solo giorno, in un unico luogo e tramite un unica trama. Insomma, sono severamente proibiti i cosiddetti flashback o le disgressioni.

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