Aprile 2014- Se l'Occidente si tira indietro

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A pochi giorni dalle libere elezioni che dovrebbero decretare il futuro democratico dell’Afghanistan, le agenzie riportano le fredde cifre dei caduti negli scontri a fuoco tra Taliban e forze di sicurezza che hanno accompagnato le operazioni di voto. La stridente dicotomia tra libera espressione politica ed insicurezza è lo specchio di un Paese che affronta la più difficile delle transizioni, alla vigilia della dipartita statunitense dopo tredici anni di occupazione militare: brutale manifesto dell’inefficacia delle politiche messe in atto da Washington per esportare la democrazia e debellare la piaga del terrorismo e al tempo stesso della necessità di una presenza forte, a mantenere quel precario equilibrio faticosamente costruito e ancora non consolidato. Kabul è in buona compagnia se è vero che le bandiere di al-Qaeda tornano a sventolare sulle moschee di Falluja e Ramadi e in Libano gli attentati sembrano ripresi a ritmo serrato: giorno dopo giorno il complesso conflitto siriano si allarga ai due Paesi vicini, in quella che è ormai diventata una guerra di religione tra le due correnti dell’Islam, e di conseguenza tra le due principali potenze musulmane regionali, Iran e Arabia Saudita, con Teheran decisa a mantenere i preziosi alleati di Hezbollah e del regime siriano e Riyad impegnata ad arginare la rinnovata influenza dell’avversario sciita, alla luce delle importanti trattative sul nucleare avanzate con gli Stati Uniti. Washington sembra essere ben consapevole della situazione se anche il New York Times parla apertamente di “quindici anni di vuoto di potere” 1 , che si leggono come quindici anni di politica statunitense fallimentare. Il cuore nevralgico di al-Qaeda è stato tutt’altro che sconfitto con la morte di Bin Laden, come enfaticamente annunciato da Obama nel suo discorso all’Università per la difesa nazionale la scorsa estate, lasciando il posto a quello che nelle più realistiche analisi di Bruce Reidel, ex consigliere anti terrorismo di Obama e direttore dell’”Intelligence Project” del Brookings Istitution di Washington, è una “al-Qaeda 3.0” 2 : un arcipelago jihadista-qaedista 1 http://www.nytimes.com/2014/01/05/world/middleeast/power-vacuum-in-middle-east- lifts-militants.html?_r=0 2 http://www.brookings.edu/research/opinions/2013/08/06-new-terror-generation-al- qaeda-version-3-riedel SE L’OCCIDENTE SI TIRA INDIETRO. Di fronte ad un Medioriente sempre più diviso ed esposto alla deriva jihadista la maggior parte dei grandi attori internazionali sembra de-responsabilizzarsi. Tra isolazionismo americano ed irrilevanza europea, gli errori 1

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A pochi giorni dalle libere elezioni che dovrebbero decretare il futuro democratico dell’Afghanistan, le agenzie riportano le fredde cifre dei caduti negli scontri a fuoco tra Taliban e forze di sicurezza che hanno accompagnato le operazioni di voto. La stridente dicotomia tra libera espressione politica ed insicurezza è lo specchio di un Paese che affronta la più difficile delle transizioni, alla vigilia della dipartita statunitense dopo tredici anni di occupazione militare: brutale manifesto dell’inefficacia delle politiche messe in atto da Washington per esportare la democrazia e debellare la piaga del terrorismo e al tempo stesso della necessità di una presenza forte, a mantenere quel precario equilibrio faticosamente costruito e ancora non consolidato. Kabul è in buona compagnia se è vero che le bandiere di al-Qaeda tornano a sventolare sulle moschee di Falluja e Ramadi e in Libano gli attentati sembrano ripresi a ritmo serrato: giorno dopo giorno il complesso conflitto siriano si allarga ai due Paesi vicini, in quella che è ormai diventata una guerra di religione tra le due correnti dell’Islam, e di conseguenza tra le due principali potenze musulmane regionali, Iran e Arabia Saudita, con Teheran decisa a mantenere i preziosi alleati di Hezbollah e del regime siriano e Riyad impegnata ad arginare la rinnovata influenza dell’avversario sciita, alla luce delle importanti trattative sul nucleare avanzate con gli Stati Uniti.

Washington sembra essere ben consapevole della situazione se anche il New York Times parla apertamente di “quindici anni di vuoto di potere”1, che si leggono come quindici anni di politica statunitense fallimentare. Il cuore nevralgico di al-Qaeda è stato tutt’altro che sconfitto con la morte di Bin Laden, come enfaticamente annunciato da Obama nel suo discorso all’Università per la difesa nazionale la scorsa estate, lasciando il posto a quello che nelle più realistiche analisi di Bruce Reidel, ex consigliere anti terrorismo di Obama e direttore dell’”Intelligence Project” del Brookings Istitution di Washington, è una “al-Qaeda 3.0”2 : un arcipelago jihadista-qaedista che ha cambiato pelle, e che controlla complessivamente un territorio più ampio rispetto all’inizio della guerra al terrore. Rimpolpate nelle proprie fila dai delusi delle rivoluzioni e foraggiate dalle potenze regionali, le singole cellule di questa galassia islamista sono accorse da ogni latitudine per combattere la propria jihad, dando vita ad una nebulosa caotica di scontri che va dal “nemico lontano” al “nemico vicino”, financo alla guerra “fratricida” all’interno delle varie anime del sunnismo e alla più pragmatica lotta per il potere tra guerriglieri stessi (l’ultima spaccatura si è consumata tra vertici di al-Qaeda e fuoriuscito Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, il più radicale tra i movimenti jihadisti operanti in Iraq e Siria, già osteggiato dal qaedista Jabhat al-Nusra ).

Obama rifiuta le etichette di disimpegno, ma è evidente che la maggiore potenza mondiale si sia ripiegata in quello che è d’altronde un atteggiamento ciclicamente presente nella storia americana, in cui a fasi di espansione egemonica seguono fasi di isolazionismo più o meno marcato. Le motivazioni sono variegate e plausibili: dalla crisi economica, che giocoforza costringe Obama a concentrarsi sugli affari interni e fare qualche calcolo; alla traumatica esperienza delle guerre in Afghanistan ed Iran; dall’opinione pubblica, sempre più incline ad abbandonare gli interventi non indispensabili al proprio tornaconto nelle zone calde del mondo; alla rivoluzione dello shale-gas, che potrebbe in futuro esonerare Washington dalla “dipendenza energetica”; fino, ovviamente, al

1 http://www.nytimes.com/2014/01/05/world/middleeast/power-vacuum-in-middle-east-lifts-militants.html?_r=02 http://www.brookings.edu/research/opinions/2013/08/06-new-terror-generation-al-qaeda-version-3-riedel

SE L’OCCIDENTE SI TIRA INDIETRO.Di fronte ad un Medioriente sempre più diviso ed esposto alla deriva jihadista la maggior parte dei grandi attori internazionali sembra de-responsabilizzarsi. Tra

isolazionismo americano ed irrilevanza europea, gli errori e le scelte dell’Occidente contribuiscono ad un grande vuoto di potere. Colmato dal caos.

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calcolo strategico più puro figlio dei nuovi equilibri globali, con la Cina che diventa il vero grande avversario cui guardare, con buona pace degli alleati europei o mediorientali.

Sono molti gli alleati usa scontenti: Israele, che già mal sopporta i continui inviti della Casa Bianca al dialogo coi palestinesi e che si era risentita per l’atteggiamento statunitense nei confronti dei Fratelli Musulmani egiziani, è ora fisiologicamente spaventata dalle trattative sul nucleare con l’arcinemico iraniano; i rapporti col Pakistan che arma i Taliban sono tesi; l’Arabia Saudita teme il ritorno iraniano come e più di Tel Aviv e avrebbe auspicato un intervento statunitense contro Assad. Come se non bastasse, lo scandalo delle intercettazioni ha adirato le cancellerie europee, Germania in testa. Come sottolineato recentemente dal ministro degli esteri francese Laurent Fabius, non sono altro che le conseguenze del mondo “zeropolare”, in cui nessuna potenza “è in grado di imporre le sue soluzioni”3. Durante la Guerra Fredda Washington cercava di accontentare gli alleati, che a loro volta si sforzavano di accettare determinate incongruenze, ora l’imperativo è mantenere il passo cinese ed evitare la crisi economica, relegando in secondo piano qualsiasi intervento non strettamente inerente agli interessi a stelle e strisce. I tagli alla difesa (46 miliardi di dollari per il solo 2013 e 492 miliardi previsti per il prossimo decennio4) sono sintomatici del cambio di rotta dell’amministrazione Obama, la cui politica estera è più pragmatica e prudente e certamente meno ideologica rispetto al predecessore. Uno sguardo analitico alle vicende mediorientali ha prodotto soluzioni opposte nelle diverse crisi, dall’immobilismo siriano, al leading from behind in Libia, alla delega agli amici del Golfo nella gestione delle proteste sciite in Bahrein.

Oggi il Medioriente scopre che l’assenza di Washington è problematica quanto la sua onnipresenza, senza per questo voler nascondere le ovvie responsabilità della regione stessa per la sua atavica instabilità. E’ una regione altamente eterogenea, dove convivono sciiti, sunniti, curdi, cristiani, drusi e tribù d’ogni sorta che per secoli sono state tenute insieme dal pugno di ferro della potenza coloniale di riferimento, da re o dittatori, che hanno soffocato ogni pluralismo in nome di unità nazionali posticce, decadute sotto la spinta di nuove generazioni che non hanno tuttavia trovato soddisfazione alle proprie rivendicazioni in un’esperienza politica sufficientemente matura. Il vuoto di potere autoritario non è stato ancora riempito da un potere autorevole perché è anche vuoto di valori, valori che certamente non possono essere esportati, ma non possono nemmeno svilupparsi ed attecchire con la stessa rapidità di una protesta di piazza propagata dai moderni mezzi d’informazione. Al mondo arabo servono tempo e volontà per un pieno pluralismo, ma la negligenza occidentale nel momento in cui il controllo verticale è crollato ha acuito l’instabilità, lasciando campo allo scontro tra vecchi poteri forti e altrettanto pericolosi radicalismi, a discapito della società civile moderata.

La Siria è ovviamente l’esempio più emblematico della cecità occidentale. Con l’eccezione della Francia, americani ed europei si sono rifiutati di sostenere i ribelli, contribuendo alla loro sconfitta e lasciando strada libera ai militanti jihadisti, armati dai fondi delle monarchie del Golfo. Assad ha scientemente preso di mira democratici e laici, presentandosi come unica alternativa ad al-Qaeda, ed è così che gradualmente si è fatta largo la solita vecchia scelta del male minore, un regime dittatoriale, piuttosto che il caos jihadista5. Le diatribe interne aiutano a comprendere l’atteggiamento ondivago americano rispetto all’intervento armato contro Damasco. Da un lato il Dipartimento di Stato e la Cia già dal 2011 premevano per un intervento diretto, dall’altro la politica attendista che soppesa ogni mossa di Obama suggeriva un più minimalista appoggio logistico e di intelligence ad Arabia Saudita e Qatar, che già da mesi rifornivano gli insorti. Pur non essendo quello siriano uno scenario strategicamente importante, la caduta di Assad avrebbe potuto rappresentare un punto a favore USA nell’ottica dei 3 http://www.internazionale.it/opinioni/bernard-guetta/2013/11/14/il-mondo-zeropolare/4 http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/usa-americhe-sicurezza-mediterraneo-medio-oriente/la-diplomazia-usa-medio-oriente-2009-2013-background5 http://www.internazionale.it/opinioni/bernard-guetta/2013/12/17/la-siria-sullorlo-dellabisso/

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negoziati per il nucleare con l’Iran.6 L’inattesa esposizione del Presidente su una red-line legata all’uso delle armi chimiche e il grande bluff dell’attacco col sarin a Gūta del 21 agosto 2013, con tutta probabilità organizzato dagli stessi ribelli con l’appoggio di Ankara7, sembravano sul punto di trascinare gli USA nel conflitto che tanto Obama desiderava evitare quanto il Segretario di Stato Kerry considerava cruciale, proprio mentre Assad tornava a guadagnare posizioni. Ma il voto del Congresso e soprattutto la mossa diplomatica di Putin hanno lanciato un salvagente al Presidente, con la proposta di un disarmo chimico di Damasco che metteva d’accordo tutti, togliendo dall’imbarazzante impasse la cerchia obamiana. Il supporto occidentale all’opposizione siriana è stato insomma quasi immediato, ma anche ambiguo, e d’altronde con il paese leader della Nato intenzionato a non intervenire si lasciava giocoforza alle singole nazioni europee le eventuali iniziative umanitarie, purché queste non trascinassero gli Usa in un intervento diretto. Solo Gran Bretagna e Francia potevano avere qualche interesse nello scenario siriano ed hanno organizzato azioni coperte a favore dei ribelli tramite Iraq e Turchia, fornendo equipaggiamenti “non letali”, mezzi di comunicazione e rifornimenti. Non è detto che un eventuale intervento avrebbe facilitato la ricomposizione del conflitto, forse avrebbe persino ridotto le possibilità di una soluzione pacifica, ma Occidente da un lato, Russia dall’altro, anziché spingere verso la sospensione delle ostilità hanno alimentato, attraverso la fornitura di armi ai fondamentalisti e il sostegno al regime di Damasco, la convinzione di ambo le parti di poter prevalere militarmente nel conflitto.

Le iniziative diplomatiche, tardive e tutt’oggi tutt’altro che risolutive, mostrano la lenta e progressiva erosione del soft-power di Europa e Stati Uniti, che appaiono capaci di esercitare un ruolo soltanto ricorrendo allo strumento bellico, da cui per altro non sanno trarre vittorie politiche. L’Europa in particolare fa sentire la sua mancanza, forse con l’eccezione di Parigi, che ha svolto ruolo attivo nella legittimazione dei ribelli e nella loro inclusione al tavolo della pace. Durante il secondo atto ginevrino, alla querelle dei rispettivi interessi s’è aggiunta la variabile iraniana, con l’invito rivolto da Ban Ki-Moon a Teheran a sedersi al tavolo, nella speranza di concordare una transizione senza Assad. Invito ritirato e declinato al tempo stesso, non senza qualche imbarazzo per l’ONU.8 Il protrarsi dei negoziati senza risultati tangibili ha favorito le forze lealiste, Assad sta vincendo la guerra per logoramento e la sensazione è che Europa e Stati Uniti sperino nella pressioni di Mosca sull’alleato siriano, mentre non è ancora stata fissata una data per il prossimo incontro multilaterale.

L’Europa? Non è stata è in grado di mostrarsi unita nelle faccende di casa propria, e manca probabilmente di una visione d’insieme dello scenario mediorientale. Nonostante l’esistenza di un servizio d’azione esterna e di un Alto Rappresentante comune la voce europea non arriva univoca, o comunque non ha sufficiente peso, né sembra esserci volontà politica in questa direzione.

In generale l’Occidente sembra avere un doppio deficit, diplomatico ma forse anche cognitivo. Europa e Stati Uniti sono passati dalla legittimazione dei vecchi regimi allo sdoganamento dell’islam politico sulla scia dell’entusiasmo per le rivoluzioni, fino ad una altrettanto rapida accettazione acritica o comunque rassegnata della “restaurazione” a seguito del fallimento della Fratellanza Musulmana in Egitto e dell’infiltrazione jihadista in Siria. Quanto all’approccio agli affari internazionali, la morale sembra essere: se ogni cambiamento dello status quo può portare ad un peggioramento, meglio aspettare. In un mondo multipolare ed in tumulto forse non ce lo possiamo permettere.

6 Cfr. DARIO FABBRI, Il potere discreto degli Obamians, in “Limes”, 9/10/13, pp. 91-98.7 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Siria-furono-i-ribelli-ad-usare-il-gas-per-convincere-gli-Usa-ad-attaccare-2518df17-898d-4f14-96f3-d7e01057c74c.html?refresh_ce8 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-21/siria-iran-non-partecipera-conferenza-pace-ginevra-ii-ban-ki-moon-ha-ritirato-invito-090001.shtml?uuid=AB4ye7q

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