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1 Appunti per il corso di ONTOLOGIA (prof. A. Russo) PRELIMINARI A) Significato del termine Ontologia” è un termine di origine relativamente moderna per indicare una scienza molto più antica. Si trova per la prima volta in ossequio a quel vezzo barocco di adornare la lingua con parole di derivazione greca in un’opera del Calovius (1636); poi, associato al termine ontosophia nella “Metafisica” del Clauberg (1647). Ma è soprattutto a Christian WOLFF (1679-1754) che dobbiamo la sua definitiva introduzione nel linguaggio filosofico. Nell’opera intitolata “Philosophia prima sive ontologia” del 1730, Wolff concepisce l’ontologia come un’introduzione generale alla trattazione della cosmologia , della psicologia e della teologia razionale , così definendola : “Philosophia prima, methodo scientifico pertractata, qua omnia cognitionis humanae principia continentur”. Restando fedeli all’etimologia del termine, possiamo definire l’ ontologia come: “scienza dell’essere”. Precisando subito che essa non tratta tanto di questo o di quell’essere, e neppure dell’esistente in generale, quanto di tutto ciò che esiste proprio in quanto esiste (di tutti gli esseri in quanto “sono”). Oggetto formale dell’ontologia è perciò l’Essere in quanto tale. B) Problemi metodologici Affrontare, sia pure in modo schematico, una trattazione dell’ontologia , richiede la compresenza di due piani di discorso: quello teoretico e quello storico. Non mi sembra tuttavia didatticamente produttivo usare un metodo “misto”, perché si può correre facilmente il rischio di ingenerare confusione; perciò ricorrerò alla separazione dei due livelli di discorso (cadendo magari nel rischio dello schematismo), distinguendo una breve delineazione contenutistica del problema dell’Essere da una più articolata esposizione storica del problema ontologico (da Parmenide a S. Tommaso, con cenni a Kant, Hegel e Heiddeger). C) Bibliografia essenziale TRESMONTANT C., Le idee fondamentali della metafisica cristiana, Morcelliana, Brescia, 1963 GRENET P.B., Ontologia , Paideia, Brescia, 1967 VANNI ROVIGHI S., Ontologia , in Enciclopedia del Novecento (Ist. Treccani), vol. IV, pp. 926-936 (con bibliografia) CARLINI A., Ontologia , in Enciclopedia Filosofica (Sansoni, 1967), vol. IV, coll. 1166 1176 DI NAPOLI G., Essere , in Enciclopedia filosofica (id.), vol. II, coll. 1025-1043 VENTORINO F., Le grandi questioni , Edicooper, Palermo, 1986 GIUSTINIANI P., Ontologia , Piemme, Casale Monferrato, 1991 ALESSI A., Metafisica , LAS, Roma, 1992 REALE G., La ragione metafisica e il problema dell’intero, in Quale ragione? (Reale/Antiseri), Cortina, Milano, 2001, pp. 73-105

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Appunti per il corso di ONTOLOGIA (prof. A. Russo)

PRELIMINARI

A) Significato del termine

“Ontologia” è un termine di origine relativamente moderna per indicare una scienza

molto più antica. Si trova per la prima volta – in ossequio a quel vezzo barocco di

adornare la lingua con parole di derivazione greca – in un’opera del Calovius (1636);

poi, associato al termine ontosophia nella “Metafisica” del Clauberg (1647). Ma è

soprattutto a Christian WOLFF (1679-1754) che dobbiamo la sua definitiva

introduzione nel linguaggio filosofico. Nell’opera intitolata “Philosophia prima sive

ontologia” del 1730, Wolff concepisce l’ontologia come un’introduzione generale

alla trattazione della cosmologia, della psicologia e della teologia razionale, così

definendola : “Philosophia prima, methodo scientifico pertractata, qua omnia

cognitionis humanae principia continentur”.

Restando fedeli all’etimologia del termine, possiamo definire l’ontologia come:

“scienza dell’essere”. Precisando subito che essa non tratta tanto di questo o di

quell’essere, e neppure dell’esistente in generale, quanto di tutto ciò che esiste

proprio in quanto esiste (di tutti gli esseri in quanto “sono”).

Oggetto formale dell’ontologia è perciò l’Essere in quanto tale.

B) Problemi metodologici

Affrontare, sia pure in modo schematico, una trattazione dell’ontologia, richiede la

compresenza di due piani di discorso: quello teoretico e quello storico.

Non mi sembra tuttavia didatticamente produttivo usare un metodo “misto”, perché si

può correre facilmente il rischio di ingenerare confusione; perciò ricorrerò alla

separazione dei due livelli di discorso (cadendo magari nel rischio dello

schematismo), distinguendo una breve delineazione contenutistica del problema

dell’Essere da una più articolata esposizione storica del problema ontologico (da

Parmenide a S. Tommaso, con cenni a Kant, Hegel e Heiddeger).

C) Bibliografia essenziale

TRESMONTANT C., Le idee fondamentali della metafisica cristiana, Morcelliana,

Brescia, 1963

GRENET P.B., Ontologia, Paideia, Brescia, 1967

VANNI ROVIGHI S., Ontologia, in Enciclopedia del Novecento (Ist. Treccani), vol.

IV, pp. 926-936 (con bibliografia)

CARLINI A., Ontologia, in Enciclopedia Filosofica (Sansoni, 1967), vol. IV, coll.

1166 – 1176

DI NAPOLI G., Essere, in Enciclopedia filosofica (id.), vol. II, coll. 1025-1043

VENTORINO F., Le grandi questioni, Edicooper, Palermo, 1986

GIUSTINIANI P., Ontologia, Piemme, Casale Monferrato, 1991

ALESSI A., Metafisica, LAS, Roma, 1992

REALE G., La ragione metafisica e il problema dell’intero, in Quale ragione?

(Reale/Antiseri), Cortina, Milano, 2001, pp. 73-105

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PARTE PRIMA

L’Essere come oggetto formale dell’ontologia

L’ontologia in quanto scienza o dottrina dell’ESSERE coincide con la philosophia

prima di Aristotele, quella che fu poi chiamata METAFISICA.

In realtà l’ ontologia è solo la prima parte della Metafisica, e cioè “la dottrina

dell’ente come tale e di tutto ciò che gli appartiene essenzialmente ed

immediatamente”. La metafisica aristotelica, come è noto, sfocia infatti in una

teologia naturale, cioè in una indagine su “Dio e la sostanza soprasensibile”, in una

dottrina dell’Essere supremo ed increato.

Per Aristotele (e così pure per gli Scolastici) Ontologia e Teologia costituiscono

un’unica scienza: il problema di Dio non è altro che il problema della perfezione di

quell’essere che la nostra ragione è in grado di cogliere autonomamente con la

propria riflessione.

Si potrebbe anche dire che la teologia non fa altro che esplicitare e tematizzare il

problema di Dio come sostanza assoluta soprasensibile che è implicitamente

contenuto nelle idee di essere, di ente e di sostanza guadagnate con la riflessione

ontologica.

Va sottolineato però quanto è avvenuto nella riflessione filosofica a partire dalla

seconda metà del Seicento: la solidale connessione tra ontologia e teologia è venuta

via via allentandosi (e proprio in quel WOLFF che, per primo, ha trasformato

l’ontologia in una scienza autonoma va rintracciata l’originaria responsabilità di tale

distacco), indebolendo in modo irreparabile la profonda unità di tutta la conoscenza

metafisica. Su questa incrinatura è venuto ad innestarsi il criticismo kantiano, che ha

finito per rifiutarle entrambe: l’ontologia, dichiarando inconoscibile l’Essere e

ponendo come termine di riferimento ultimo la Coscienza, e la teologia, mostrando

l’infondatezza razionale di qualunque prova dell’esistenza di Dio e chiudendosi in

una posizione agnostica. Con il kantismo, la strada verso ogni possibile

giustificazione razionale della metafisica appare definitivamente sbarrata.

Ma su tutto ciò si tornerà in sede di discorso storico.

La nozione di essere

Nel bagaglio di idee, nozioni ed esperienze che costituiscono il nostro “vissuto” di

coscienza, l’ idea di essere ha un posto specialissimo. Prendiamo spunto da questo

pensiero di GRENET (op. cit. pp. 179-180):

“Né parola definitiva su tutto (per es. Parmenide), né balbettio senza valore (per es.

Positivismo), essa (cioè: l’idea di essere) ci appare come l’ ATTO FONDAMENTALE

CON IL QUALE IL NOSTRO SPIRITO SI METTE IN PRESENZA DI TUTTO IL

REALE, DATO O NO”.

Esplicitiamo le importanti affermazioni implicate in questa definizione.

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Intanto la “nozione di essere” non è una scienza assoluta e

onnicomprensiva, ma neppure una parola senza significato che mette capo a

qualcosa di indefinibile: essa è il frutto di un atto globale che risulta dal

mettersi in gioco di tutta la nostra personalità (quindi non solo l’intelletto)

nella sfida di comprensione della realtà, nel tentativo di dar ragione ultima a

quello “stupore” e a quell’ “attrattiva” che si prova nei confronti della

constatazione che noi esistiamo e che tutto ciò che ci attornia “esiste”.

IL NOSTRO SPIRITO. La conoscenza presuppone un soggetto, che ne sia

il portatore capace ed unico. E’ l’intuizione profonda di uno dei più antichi

pensatori della nostra tradizione filosofica d’Occidente, Eraclito di Efeso

(VI sec. a.C.), lo scopritore del logos (che è insieme ragione, parola e

discorso). Ecco una sua bellissima sentenza: “I confini dell’anima non li

potrai mai trovare per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo

logos”.Questa intuizione può essere sviluppata – ed in effetti così è

avvenuto nella millenaria vicenda filosofica dell’umanità – sul piano

psicologico (problema dell’anima ), su quello gnoseologico (l’intelligenza

che conosce il reale), su quello etico (la coscienza), su quello religioso (la

salvezza individuale)… A noi interessa qui la portata ontologica di questa

intuizione. Identificato da taluni (Idealismo) con la realtà totale, negato

recisamente da altri (Materialismo), ridotto a pura funzione psichica

(Psicologismo), o ancora assimilato ad una “somma di stati di coscienza” o

ad un principio di attività vitale (Intuizionismo), lo SPIRITO ci appare

invece come quell’essenza sostanziale del nostro IO che, nella sua unità e

semplicità, permane al di sotto del flusso vitale, del divenire temporale e del

susseguirsi degli stati d’animo e delle esperienze che facciamo. Non è uno

“stato”, un’ “attività”, una “funzione sintetica”; bensì un’entità

permanente e sussistente, nella quale l’Essere si manifesta, si rivela, si

esprime, si dà.

SI METTE IN PRESENZA. E’ nella luce dello spirito, nell’orizzonte

dell’ente, che l’Essere ci appare, la Realtà si presenta a noi. Anche questa è

un’intuizione antichissima: per Parmenide l’Essere e la sua “inconcussa

verità” si automanifestano all’intelligenza umana in maniera totale,

esauriente, evidente, indubitabile. L’ aletheia (etimologicamente: ciò che

non è nascosto) è autosvelamento dell’Essere al Pensiero dell’ente.

L’autopresentazione dell’Essere all’ente è invece mediata e riflessa,

condizionata in buona parte dai sensi, dall’esperienza della molteplicità

sensibile, dalla congenita difficoltà di ridurre ad unità il variegato mondo

dell’esistenza. La nozione dell’essere non è perciò una NOZIONE PURA,

nettamente separata dal contatto diretto con il mondo degli esseri reali e

dalla funzione della sensibilità. Il “mettersi in presenza della realtà da parte

del nostro spirito” non è un’operazione immediata ed intuitiva, facile e

diretta (critica dell’ontologismo, che crede ciò possibile per l’uomo); bensì

un cammino tormentato e difficile. Ciò non toglie, naturalmente, il carattere

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fondamentale e decisivo di tale operazione. (E’interessante, a tale proposito,

la controversia tra Hegel e Schelling sulla possibilità di una conoscenza

immediata ed intuitiva dell’Assoluto, perché mette a fuoco proprio la natura

di questo atteggiamento conoscitivo primario e fondamentale).

DI TUTTO IL REALE. L’apertura di uno spirito che cerca la verità è di

360°. Abbiamo detto che si tratta di un atteggiamento che si acquisisce con

fatica e con sforzo – e non di un’intuizione immediata ed esaustiva ; ma è

un atteggiamento che punta alla totalità. L’idea di essere che il nostro

spirito arriva a cogliere è proprio l’idea che l’Essere è una totalità

indivisibile, che si pone oltre e al di là delle sue connotazioni e delle sue

infinite sfaccettature. La conoscenza ontologica fondamentale non ha nulla

a che fare con una qualsiasi conoscenza particolare della realtà: essa si

appoggia sull’idea dell’Essere come un tutto

DATO O NO. Questa apertura a 360° del nostro spirito nell’atto ontologico

fondamentale non riguarda solo il modo sensibile, ma ogni possibile aspetto

del reale, e quindi ogni possibile conoscenza. La nostra intelligenza non è

fatta solo per scoprire e conoscere l’universo sensibile, ma per trascenderlo

e travalicarlo. Essa cerca la Perfezione, l’Assoluto, l’Infinito, il Tutto,

perciò non può appiattirsi sull’imperfetto, il finito, il particolare.

PARTE SECONDA

Il cammino storico dell’ontologia nel pensiero occidentale

E’ una profonda e suggestiva intuizione di Platone (Teeteto, 155 d), poi ripresa e

sviluppata da Aristotele (Metafisica, A, 2), l’idea che la filosofia sia nata dalla

“meraviglia”, dallo stupore dell’uomo di fronte sia alla molteplice varietà degli esseri

sia al loro ordine (il mondo, la natura, come kosmos anziché come kaos).

Rileggiamo insieme questi due passi, tanto celebri e tanto conosciuti, ma sempre

pieni di straordinarie vibrazioni.

Dal TEETETO di Platone:

“TEET. In verità, Socrate, io sono straordinariamente meravigliato di quel che siano

queste “apparenze”; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini.

SOCR. Amico mio… è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di

meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride

fu generata da Taumanto non sbagliò, mi sembra, nella genealogia”.

(N.B. Iride (simbolo della filosofia) è nella mitologia greca la messaggera degli dei

fra gli uomini ed ESIODO nella sua Teogonia la vuole figlia di Taumante, figlio di

Teti e “prodigio del mare”: in greco thauma significa appunto “prodigio,

meraviglia”).

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Dalla METAFISICA di Aristotele:

“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine (kài nun kài tò

pròton), a causa della meraviglia (dià tò thaumàzein): mentre da principio restavano

meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a

poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori, come i problemi riguardanti i

fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri e poi i problemi riguardanti

l’origine dell’ intero universo”.

Questi due passi testimoniano benissimo il radicamento profondo dell’atteggiamento

di ricerca filosofica nella coscienza spontanea dell’uomo e anche, se vogliamo,

l’origine “popolare” e non “colta” della filosofia, la sua stretta solidarietà con il senso

comune.

La filosofia (nonostante il suo successivo sviluppo spesso assuma l’aspetto di una

vera e propria controtestimonianza) non è, come qualcuno maliziosamente crede, il

prodotto di un’operazione colta e verticistica, fatta allo scopo di condurre l’uomo

lontano dalla realtà e dal comune sentire (magari per inconfessabili ragioni di potere

o di dominio). Essa scaturisce dall’approfondimento di domande sorgive, presenti

nella coscienza spontanea di ogni uomo, e rappresenta il tentativo umano più alto e

più nobile di rispondervi, elevando lo spirito dal pedestre asservimento al “concreto”

alle vette pure dell’ “astratto”.

(N.B. Nella capacità di “astrazione” della mente umana dobbiamo vedere il carattere

più nobilmente distintivo della nostra specie rispetto ad ogni altra condizione

animale. Excursus sulle caratteristiche della capacità astrattiva dell’intelligenza

umana).

La “meraviglia” – che per il Socrate del Teeteto platonico rappresenta il proprium

della filosofia - è la stessa meraviglia del bambino o del primitivo di fronte allo

“spettacolo del mondo”; ma il filosofo altro non fa se non trasformare questo

spontaneo ed ingenuo stupore in un rigoroso e strutturato metodo di indagine. La

meraviglia cessa così di essere un fatto episodico, una suggestione temporanea

confinata nella parte emozionale del nostro io, per diventare un habitus permanente,

una struttura stabile della nostra ricerca intellettuale. Comincia così quel cammino,

assai ben descritto in poche righe da Aristotele, che porta l’uomo-filosofo dal

particolare all’universale, dirigendolo verso la comprensione della totalità e verso

l’astrazione pura.

A) Dagli “esseri”concreti all’Essere degli “esseri”

Il primo “movimento filosofico” della mente è orientato verso la natura, percepita sì

– come è proprio della conoscenza sensibile – nella sua varietà, molteplicità e

mutevolezza; ma nello stesso tempo intesa anche come un “tutto unico”, un universus

(ad unum versus).Insomma come un kosmos (ordine/bellezza) e non come un kaos

(disordine/male).

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Nasce la domanda: “Che cos’è la natura? (tì estì fysis). Ma inizialmente l’interesse è

tutto centrato sul tì : si va alla ricerca dell’ archè, il principio costitutivo

fondamentale della realtà, che ne sia insieme anche la causa, il cominciamento primo.

Le prime risposte non esorbitano dall’orizzonte naturalistico: ad esempio l’archè è

individuata in uno degli elementi primordiali (Talete, Anassimene, Eraclito) o in tutti

e quattro (Empedocle) oppure in un’infinità di principi sostanziali (i “numeri” di

Pitagora o i “semi” di Anassagora). Naturalmente non mancano spiragli od

anticipazioni verso nuovi approfondimenti: per esempio l’ apeiron (indefinito, senza

confini) di Anassimandro, il panta rei (divenire) di Eraclito, il nous (mente) di

Anassagora.. Ma si rimane sempre nell’ ambito di spiegazioni di ordine cosmologico.

E’ soltanto con PARMENIDE (VI-V sec.) che la domanda originaria (tì estì fysis)

subisce una radicale trasformazione. Egli infatti concentra tutto il suo interesse sull’

estì della fysis, anziché sul tì . Si dice comunemente che Parmenide sia lo scopritore

dell’Essere. In realtà sarebbe molto più esatto affermare che Parmenide abbia

scoperto le condizioni di intelligibilità dell’Essere, o anche che abbia individuato per

primo l’Essere come oggetto formale del pensiero.

Per Parmenide c’è una sostanziale coincidenza tra “pensiero” ed “essere”:

- “Per la parola ed il pensiero bisogna che l’essere sia: solo esso infatti è

possibile che sia, e il nulla non è”.

- “La stessa cosa è pensare e il pensiero che è, che senza l’essere in cui è

espresso non troverai il pensiero: niente altro infatti è o sarà al di fuori

dell’essere, poiché di fatto la Moira lo vincola ad essere un tutto immobile;

perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che

fossero veri: divenire e perire, essere e non essere, e cambiare di luogo e

mutare lo splendente colore”..

L’evidente dato che i sensi ci forniscono – il molteplice divenire della natura – appare

a Parmenide (per effetto dello spostamento di interesse sull’estì) nient’altro che

ingannevole apparenza. Abbandonata perciò l’ingenua e passiva aderenza

“naturalistica” ai dati del reale, Parmenide si avventura sulla difficile via della pura

razionalità (il sentiero del Giorno), pervenendo ad una duplice scoperta:

1. L’univoca e assoluta esistenza dell’ESSERE;

2. La contraddittorietà dell’esistenza del NULLA.

Come abbiamo prima precisato, la dizione “scoperta dell’Essere” va intesa nel senso

di scoperta delle condizioni di pensabilità dell’Essere (o: scoperta dell’Essere come

oggetto formale del pensiero). Quali sono queste condizioni? La prima è la

coincidenza tra pensiero ed essere: per il pensiero è necessario che l’ Essere sia. La

seconda, strettamente intrecciata e conseguente, è l’impensabilità dell’esistenza del

Nulla: “il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo,

perciò è necessario che non sia”.

Siamo qui nel cuore profondo del modo di pensare dell’Occidente: la scoperta dei

capisaldi logici della nostra attività mentale (i principi di identità e di non

contraddizione), che sono anche il fondamento insostituibile della visione metafisica

della realtà.

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Parmenide è perciò il vero fondatore dell’ontologia, che è appunto la scienza che

pensa l’Essere. Sulla scia di questa “scoperta” – ancora balbettante nella sua

formulazione, ma pur tuttavia imprescindibile avvio di un nuovo cammino – si verrà

ad innestare l’intero processo di sviluppo logico, metafisico, gnoseologico e

linguistico della filosofia dell’ Occidente.

Ma: se è vero che in Parmenide assistiamo al primo e più importante tentativo

filosofico di passare dalla cosmologia all’ontologia, è altrettanto vero che in questa

appena abbozzata visione ontologica del reale permangono gravi residui naturalistici.

Infatti: l’essere parmenideo è connotato come un “tutto pieno”, come una massa

monolitica senza buchi, impenetrabile (piena e rotonda, ingenerata, immobile),

perennemente identica a se stessa, compiuta ed unica. L’univocità dell’essere

parmenideo conduce pertanto alla dissoluzione della molteplicità, all’impossibilità

del movimento, alla riduzione di tutti i fenomeni a pura apparenza.

Come è stato giustamente osservato (Giovanni REALE), Parmenide “salva l’Essere,

ma non i fenomeni”.

Infatti questa prima scoperta “astratta” della nozione di essere – proprio nella misura

in cui non è ancora completamente “astratta”, ma troppo legata al concreto, troppo

ancora naturalistica – finisce con l’entrare in un insanabile conflitto con la visione del

“senso comune”, saldamente ancorata alla realtà dei fenomeni, generando sconcerto e

rischiando il paradosso (cfr. appunto i celebri “paradossi” con i quali il discepolo

Zenone difese le tesi del maestro contro i detrattori).

Nello stesso tempo, però, questa magistrale teoria, essendo solidamente congiunta

alla scoperta dei primi due fondamentali principi della logica, costituisce una verità

profonda ed irrinunciabile, ponendosi come ineliminabile punto di riferimento per la

successiva speculazione.

Come sempre avviene nel corso della ricerca umana, sono tuttavia proprio le

“aporie”, cioè le difficoltà, gli errori o le incompletezze di una teoria, che

determinano il passaggio ad acquisizioni successive, più complete e mature.

Assistiamo a questo passaggio, come in una straordinaria esemplificazione, nella

ripresa platonica dell’intuizione parmenidea.

Platone non può sottrarsi alla suggestione del “venerando e terribile” predecessore

(venerando, per l’autorità imprescindibile della sua dottrina, ma terribile, per le

sconcertanti conseguenze cui perviene) ed affronta coraggiosamente tutti i nodi posti

dall’ Eleatismo: il rapporto tra Essere e Nulla, tra Uno e Molteplice, tra piano della

sensibilità e piano dell’intelligenza. I Dialoghi in cui Platone affronta questa tematica

(il Parmenide appunto ed il Sofista) sono tra i più complessi e di difficile

interpretazione dell’intero Corpus, per cui mi guardo bene dall’addentrarmi nella loro

problematica, limitandomi a sottolineare due evidenze conclusive:

1. L’ammissione del non-essere come semplice alterità. Il mondo delle Idee, che

per Platone rappresenta il mondo nella sua perfetta intelligibilità, è un mondo

pluralistico. Le Idee sono, è vero, finalizzate in modo gerarchico verso un

principio incondizionato e assoluto che Platone chiama BENE (n.b. Qui

bisognerebbe far cenno alla cosiddetta “dottrina non scritta” di Platone, che

aveva appunto come oggetto esclusivo la trattazione del Bene e veniva svolta

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in modo riservato soltanto con i più fidati discepoli), ma – essendo l’una

diversa e distinta dall’altra – sono appunto molteplici. Ciascuna Idea, quindi,

non essendo le altre, possiede in qualche modo l’attributo del non-essere.

2. La nozione di partecipazione (metessi/koinonia). Platone introduce

nell’Essere un doppio movimento: a) il dinamismo mediante il quale le Idee

sono in comunicazione fra di loro e, tutte insieme, con il Bene; b) il movimento

mediante il quale il mondo sensibile partecipa del mondo intelligibile.

Sarà soltanto con Aristotele che l’analisi dell’Essere si spingerà a profondità

definitive per la ricerca del mondo antico.

Aristotele comprende che la nozione di Essere non è né semplice né univoca. Con

Platone si era già fatto un notevole passo in avanti rispetto a Parmenide, concependo

il non-essere anche come “diversità” e non solo come un’entità assoluta, ma sia

l’esistenza del mondo sensibile sia l’intelligibilità completa del divenire erano

rimaste problematiche e comunque non pienamente giustificate da un punto di vista

strettamente razionale (cfr. il ricorso platonico al mito, soprattutto il mito della biga

alata e quello del Demiurgo).

Per Aristotele l’Essere ha una molteplicità di significati. C’è essere ed essere: l’essere

in quanto è, l’essere per cui si è, l’essere che si può essere (quest’uomo/ la grandezza

di quest’uomo/ l’architetto che quest’uomo grande può essere).

Allo stesso modo è per il Non-essere: vi è il non-essere puro e semplice (l’Assoluto

Nulla, che non c’ è); il non-essere relativo (il cane non è un uomo, ma è qualcosa); il

non-essere potenziale (il neonato non è ancora un adulto, ma può diventarlo).

In Aristotele rimane irrinunciabile l’acquisizione parmenidea del principio di non

contraddizione come legge fondamentale della conoscenza razionale, ma si dissolve

totalmente l’univocità dell’ontologia parmenidea che concludeva nella inconcepibilità

del divenire. Per Aristotele, il divenire è completamente intellegibile e giustificabile:

esso è un movimento dell’essere all’interno dell’Essere, non un passaggio –

impossibile – dall’Essere al Nulla e viceversa.

Tra tutti i possibili significati dell’essere spicca, nell’ontologia aristotelica, la coppia

Potenza (dynamis) – Atto (energheia/entelecheia): potenza è l’essere in quanto

“può” essere (il seme rispetto alla pianta/l’uomo ad occhi chiusi rispetto all’azione

del vedere); atto è l’essere nel suo stato di realizzazione finale, l’essere che “è”

realmente (la pianta che abbiamo di fronte/l’uomo che guarda).

Il divenire (kynesis)è il passaggio dalla potenza all’atto. Esso non è contraddittorio

per la nostra intelligenza, perché non è un passaggio dal puro non-essere (che non è,

perciò non diviene) all’essere; bensì il passaggio da un relativo non-essere (cioè

l’essere-in- potenza) ad un essere determinato (l’essere nell’atto di essere ciò che

appunto è).

Siamo arrivati qui ad un’intuizione fondamentale – che possiamo ritenere definitiva –

circa quel problema che abbiamo definito come una ricerca dell’Essere degli esseri a

partire dal dato concreto dell’esistenza della realtà (gli esseri), caratterizzata

dall’esperienza fin troppo ovvia e banale del mutamento delle cose e della vita stessa.

Da questo dato così evidente (e che perciò non può essere così facilmente eluso e

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messo tra parentesi, come sembra aver fatto Parmenide) il nostro spirito risale, con un

vertiginoso colpo di astrazione, al fondamento permanente ed immutabile del tutto

(appunto: l’Essere).

In fondo questo è il problema fondamentale della filosofia: il rapporto tra l’ Uno ed il

Molteplice. Come i molti (risultanza inconfutabile della nostra esperienza sensibile

del reale) sono in fondo uno (esigenza insopprimibile della nostra mente che vuole

attingere al “che cosa” della realtà)? Come può essere mantenuta l’assoluta identità

dell’Unico Essere senza sacrificare l’effettiva esistenza dei molti: o viceversa?

Abbiamo anche visto come in Aristotele questo problema “uno-molti”sia strettamente

connesso al tema del “divenire”. Non si tratta infatti solo di domandarsi come l’unico

essere possa fondare i molti senza perdere la propria identità, senza sparire od

annullarsi in essi; ma anche di chiedersi come questo unico essere possa far ciò senza

necessariamente dover essere definito come “immobile, immutabile, monolitico”

ecc…

B) Il problema ontologico in Aristotele

Aristotele ha individuato, nella sua ricerca, quattro fondamentali gruppi di significato

per il termine Essere:

1. L’essere categoriale

2. L’essere come potenza ed atto

3. L’essere come accidente

4. L’essere come verità

a)L’essere categoriale

Il problema di classificare i differenti generi di essere ha sempre preoccupato

Aristotele – come del resto aveva preoccupato i suoi predecessori (cfr. per esempio

le 10 coppie di contrari di Pitagora o i 5 generi del “Sofista” di Platone). Pertanto

egli si è preoccupato di redigere, sulla base della lingua greca e della comune

esperienza delle cose, una tavola delle principali proprietà che l’uomo accusa

(kategorein: il termine è preso dal linguaggio giuridico del tempo) in tutto ciò che

vede e di cui parla.

Nascono così i dieci predicati o attributi o generi dell’essere, noti appunto come

CATEGORIE: sostanza (ousia) – qualità ( poiòv) – quantità (posòn) – relazione

(pròs tì) – azione (poiein) – passione (paschein) – luogo (pou) – tempo (potè) –

avere (echein) – giacere (keisthai).

(N.B. Se si volesse leggere una simpatica e “leggera” esemplificazione di queste 10

categorie si veda: De Crescenzo L., Storia della filosofia greca da Socrate in poi,

Milano, Mondatori, 1986, pp. 125-26).

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La prima categoria – sostanza (ousia) – ha una priorità su tutte le altre ed è

fondamentale.

Sostanza è “ciò che è in quanto è”. Come più tardi dirà il filosofo Spinoza, sostanza

è “quod in se est et per se concipitur”. E’ fondamentale, perché tutti gli altri

predicamenti si riferiscono sempre alla sostanza come tale. Dirà San Tommaso:

“Substantia est fundamentum et basis omnium aliorum entium”.

Afferma Grenet (cit. in bibliografia, p. 156): “La sostanza è l’essere al quale spetta

di esistere in sé e non in un altro; l’accidente (ontologico) è l’essere al quale spetta

di esistere in un altro come nel proprio soggetto”.

Si potrebbe allora dire che tutte le altre categorie sono “accidentali”, naturalmente in

senso ontologico, e non in quello di “casualità fortuita” (cfr. n° 3 della tavola dei

significati dell’Essere secondo Aristotele) di cui parleremo più oltre.

L’Essere quindi, nel suo senso più forte, è ousia. Si capisce bene allora perché

Aristotele definisca la Metafisica anche come “teoria della sostanza”.

Quali sono i nodi principali di questa teoria della sostanza in Aristotele?

Essenzialmente due:

a) Che cosa è la “sostanza in generale”?

b) Ci sono sostanze soprasensibili, oltre a quelle sensibili che la comune

esperienza ci fa incontrare e conoscere?

Vediamo come Aristotele risponde alla prima questione. Scrive G. Reale nella sua

Storia della filosofia antica, vol. II:

“Che cos’è la sostanza in generale? 1) I Naturalisti indicano negli “elementi

naturali” il principio sostanziale; 2) i Platonici lo indicarono nella “forma”; 3) al

senso comune, invece, sembrerebbe essere sostanza l’individuo e la cosa concreta,

fatti ad un tempo di forma e materia. Chi ha ragione? Secondo Aristotele, hanno

ragione ad un tempo tutti e nessuno, nel senso che queste risposte, prese

singolarmente, sono parziali, ossia unilaterali; nel loro insieme ridanno invece la

verità”.

Perciò Aristotele articola il discorso sull’essere come sostanza su tre piani, distinti

ma anche profondamente connessi fra di loro:

MATERIA (hyle): è il “sostrato” di tutte le realtà sensibili, nel senso che

l’assenza di materia ne vanificherebbe l’esistenza. Scrive Aristotele nella

Fisica che la materia è “il sostrato primo di ogni cosa, dal quale, come

elemento essenziale intimamente costitutivo, deriva qualcosa non solo per

accidente”. Naturalmente qui non si parla della materia concreta di cui sono

fatti i corpi che noi vediamo e tocchiamo (per Aristotele questa è la “materia

seconda”, che è oggetto delle scienze naturali e non della metafisica), bensì

della “materia prima”, oggetto solo del pensiero, non identificabile con alcuna

sostanza corporea determinata, fondamento ontologico comune a tutti i corpi,

ma non essa stessa corpo od oggetto sensibile. In questo senso, la materia

prima è pura spazialità, potenzialità indeterminata, incapace di diventare

qualche cosa senza l’intervento determinante di una forma. E’ quindi esatto

definire la “materia prima” come “sostanza”, ma non in senso univoco ed

assoluto.

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FORMA (morphè): è il principio determinativo che attualizza la materia e si

pone come il “che cos’è” (quod quid est degli Scolastici) di ciascuna cosa.

Anche se Aristotele usa spesso il termine eìdos (proprio di Platone), la sua

forma non è trascendente, ma si pone come costitutivo intrinseco dell’essere,

diventando addirittura la principale “causa” dell’esistenza di un quid. La

forma aristotelica è una forma sostanziale, fondamento essenziale interno di

ciascun ente reale, principio proprio dell’essere specifico di ciascuna realtà e

causa prima di quel dinamismo che spinge verso l’autorealizzazione ogni

esistenza potenziale. La forma è dunque per Aristotele l’essere nel suo senso

più pieno, la sostanza nel suo significato più proprio, l’essenza vera di ogni

realtà.

COMPOSTO DI MATERIA E DI FORMA (synolos): tutto ciò che esiste

appare “composto” (questa sarà la traduzione scolastica del termine “sinolo”,

che letteralmente significa “tutt’uno”) di materia e di forma. E’ la risultanza

della sostanziale coesistenza e coincidenza di principio materiale e principio

formale. La sinolicità è dunque il vero modo di essere della sostanza, la

sostanza in modo pieno e assoluto.

Ma allora – se il senso vero della parola sostanza è la “sinolicità” – esisterebbero solo

sostanze composte di materia e di forma, di atto e potenza: insomma soltanto

sostanze sensibili. Esistono sostanze di altro tipo? Per esempio soprasensibili (del

tipo, per intenderci, delle idee platoniche)?

Vediamo come Aristotele risponde alla seconda questione.

Aristotele arriva a sostenere l’esistenza di sostanze soprasensibili partendo dal

movimento (kynesis) e postulando come causa prima di questo un principio assoluto

eternamente immobile ed immutabile. Su questa via la sua metafisica sfocia in una

vera e propria “teologia naturale” (è il significato ultimo della sua ricerca, che finisce

con il ricomprendere al suo interno le altre tre definizioni che egli dà della sua opera:

indagine sulle cause/indagine sull’essere/indagine sulla sostanza: eziologia,

ontologia, ousiologia). Ma seguiamo brevemente il suo ragionamento.

La fisica ci mostra in modo inoppugnabile che quidquid movetur ab alio movetur; ma

è altrettanto inoppugnabile che un’infinita catena causale senza un cominciamento

primo è impensabile secondo la logica aristotelica, perché ci introduce in un orizzonte

indeterminato, inconoscibile in quanto non riconducibile al principio conoscitivo

dello “scire per causas” (Aristotele non accetta la visione mistica e panteistica dell’

eterna catena degli esseri).

Deve esistere perciò un “primum movens”, un motore che sia non a sua volta effetto

di un movimento prodotto da un’altra realtà, ma causa prima, eterna ed immutabile di

ogni movimento. Inoltre, tale primo motore, in quanto immobile, deve essere

assolutamente privo di qualsivoglia potenzialità (perché la potenzialità implica un

intervento formale per potersi attualizzare, quindi un movimento): insomma, un

ATTO PURO. Ora: poiché la potenza si identifica con la materia e l’atto con la forma, ne consegue

che l’ atto puro è pura forma. L’atto puro è dunque una sostanza soprasensibile,

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immateriale, che può essere oggetto solamente di conoscenza intellettuale e non di

esperienza sensibile.

E’ così dimostrata – attraverso la via naturale del ragionamento che parte dall’analisi

del movimento, delle sue leggi e delle sue cause – l’esistenza (anzi: la necessità

dell’esistenza) della sostanza soprasensibile.

Su questa solida premessa Aristotele continua rigorosamente a dipanare la sua catena

di deduzioni, venendo a riconoscere a questa sostanza soprasensibile i seguenti

attributi:

La perfezione : la vita e la natura di questo atto puro, privo di ogni potenzialità

e totalmente realizzato, sono perfette. L’ entelechia prima è intrinsecamente

compiuta, da sempre realizzata, immodificabile : appunto perfetta, e quindi

divina.

La noeticità : l’Atto puro, Dio, è “pensiero di pensiero” (nous noesetos).

L’intelligenza perfetta non può avere altro oggetto se non la propria stessa

perfezione. Se pensasse ad “altro da sé” non sarebbe perfetta. Dio non può

interessarsi o preoccuparsi di ciò che è “meno” di Sé stesso.

L’ unità : è chiaro, in Aristotele, che Dio è una totalità semplice ed assoluta,

indivisibile e senza parti. Rimane invece tutt’altro che chiarito il tema

dell’unicità, perché non essendo il suo Atto Puro un “creatore” nel senso

biblico del termine (per Aristotele la creatività divina sarebbe una

diminuzione, un difetto, in contrasto con il concetto di perfezione assoluta)

rimane come sospeso, non spiegato, irrisolto, il nodo dei rapporti tra Dio e le

altre sostanze intelligenti ed eterne (le 55 intelligenze motrici che presiedono al

movimento delle sfere celesti; l’anima, nel caso che si sciolgano in modo

positivo le ambiguità circa l’immortalità dell’anima contenute nella

Psicologia), come con la materia sensibile ed il mondo dei sinoli.

Il finalismo : Dio, con la sua compiuta perfezione, attrae a sé tutto, ma non in

maniera attiva ed intenzionale. Si parla di finalismo passivo, perché il Dio

aristotelico può essere solo oggetto di amore, non soggetto che ama (l’amore,

come già aveva detto Platone, implica una mancanza, un desiderio di

perfettibilità, quindi si tratta di un sentimento incongruo per una divinità come

quella aristotelica, perfetta ed assorta nella propria autocontemplazione).

b) L’essere come potenzialità ed attualità

Riprendiamo qui le osservazioni già fatte, a proposito del divenire, sulla distinzione

aristotelica tra atto e potenza, collegandole a quelle altre, sempre già svolte nel

paragrafo precedente, su materia e forma. E’ evidente la stretta aderenza di queste

coppie di termini e di concetti:

La Materia è Potenza, nel senso che la sua caratteristica fondamentale è

la “recettività”, il poter diventare, grazie all’intervento della forma,

“questo” o “quello”.

La Forma è Atto, nel senso che solo la forma dà una determinata

attuazione all’essere potenziale, conferendogli quel quid (essenza) che lo

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fa essere ciò che in effetti è. La forma è il logos della cosa (ratio rei).

Come diranno gli Scolastici: id quo res est id quod est, non aliud. O

ancora: id secundum quod alicui competit esse.

L’atto rappresenta la perfezione della sostanza: questa è tale solo nell’atto di essere

(actus essendi). L’atto ha perciò una priorità assoluta sulla potenza, anche se quest’

ultima – intesa come materia – è il presupposto dell’atto. Ma la materia è conoscibile

come tale ( in senso proprio, non nel senso puramente astratto di “materia prima”)

solo in relazione all’atto che la informa ed, informandola, le conferisce l’esistenza

attuale. Si deve perciò dire che l’atto (entelechia) precede ontologicamente la

potenza (dynamis), mentre quest’ ultima precede cronologicamente l’atto.

Classici esempi come quello dell’ uovo e della gallina, o del seme e della pianta,

possono validamente dimostrare questo assunto.

Ai concetti di potenza ed atto si connette anche l’altro concetto aristotelico di

privazione (stéresis). Essa significa la mancanza – che può essere temporanea o

definitiva (quindi: non esistenza di) – di condizioni o proprietà che fanno parte dell’

essere-in-potenza e ne vengono ad impedire la perfezione o la realizzazione (es. la

cecità).

La privazione non è dunque puro non-essere (negazione dell’essere), ma semplice

limitazione o impedimento dell’ actus essendi. In termini morali essa viene a

coincidere con il male (che, per esempio, S. Agostino definisce come defectus boni).

In Aristotele non c’ è tuttavia alcuna connotazione morale, per cui la “privazione” è

anche la condizione che consente la modificazione della materia, quindi la possibilità

dinamica per un ente di raggiungere la propria realizzazione.

c) L’essere come “puro accidente”

Questo concetto non ha alcuna rilevanza ontologica e non va confuso con i nove

ordini “accidentali” della sostanza (le altre nove categorie). Aristotele ne parla come

di un semplice accadimento fortuito e casuale, che non entra mai nella definizione

sostanziale di un termine. L’accidente ( tò sunbebekòs) è non sempre né per lo più

(mentre la scienza si occupa solo di ciò che è sempre o per lo più). L’accidente si

riferisce perciò ad una condizione del tutto provvisoria e fortuita del sinolo (per

esempio il fatto che ora io possa essere accaldato o pallido). La rilevanza di tale

definizione non può interessare il piano ontologico dell’essere, ma caso mai quello

storico, empirico o fenomenologico.

d) L’essere come “verità”

Questo modo dell’essere è studiato dalla logica. La “verità/falsità” di un ente risulta

solo da una “corrispondenza/non corrispondenza” dell’oggetto reale con le

proposizioni logiche fondamentali (adaequatio rei et intellectus, diranno poi gli

Scolastici). C’è una situazione di verità quando la nostra mente pensa le cose

(l’essere) come sono in realtà; c’è una situazione di falsità (almeno potenziale)

quando il nostro pensare è privo di ogni corrispondenza con il reale. E’ chiara quindi

la precedenza dell’ ontologia sulla logica: è l’ontologia che descrive la struttura

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profonda della realtà, l’essere delle cose nella loro permanente consistenza; la logica

mette questa realtà ontologicamente percepita in relazione con i criteri e le regole di

verità/falsità stabilite dalla nostra ragione.

C) Il problema dell’essere in san Tommaso

L’affronto del problema dell’essere in san Tommaso (1221-1274) richiederebbe una

rigorosa premessa di carattere storico-culturale per chiarire quale sia stato il

sostanziale mutamento delle condizioni in cui si esercita il pensiero (in generale, ma

in particolare quello filosofico) verificatosi con l’irruzione del Cristianesimo

nell’occidente greco-romano e con la progressiva, crescente ed infine vittoriosa

sostituzione della cultura cristiana alla cultura pagana.

Una messa a punto così rigorosa non possiamo ovviamente farla in questa sede,

anche perché ciò significherebbe fare – sia pure a grandi linee – la storia della

penetrazione del Cristianesimo nel tessuto profondo della società occidentale, del

formarsi della nuova società medievale e delle sue istituzioni storico-culturali e – da

un punto di vista strettamente filosofico – la storia della Patristica greca e latina e

della Scolastica.

Ci limitiamo pertanto ad accennare – a mo’ di premessa generale allo studio

dell’ontologia tomista – a tre importanti questioni. Due sono di carattere storico-

culturale (la nascita dell’ Università e la riscoperta dell’ opera aristotelica), la terza di

ordine filosofico (il rapporto fede-ragione nella filosofia cristiana medievale).

Il carattere “pubblico, aperto e laico” dell’Università medievale.

L’Università, prestigiosa ed insostituibile istituzione scolastica superiore

dell’Occidente, nasce alla fine del XII secolo (lo Statuto della prima università,

quella di Bologna, risale al 1158, ma la sua origine è più antica: 1088). Prima

di allora – fatta eccezione per la famosa schola palatina di Carlo Magno

dell’VIII secolo, esperienza per altro assai circoscritta nello spazio e nel tempo

– erano esistite solo scuole monastiche (annesse ai monasteri per formare i

novizi alla lectio divina), episcopali (annesse alle cattedrali per formare il

personale addetto ai servizi amministrativi) e in qualche caso molto limitato

anche parrocchiali. Con l’Università assistiamo alla nascita di un’ istituzione

pubblica (sia nel senso che di essa si fanno carico i pubblici poteri, laici e/o

ecclesiastici, sia nel senso che la frequenza non è riservata ai soli ecclesiastici e

che essa è dotata di un preciso iter formativo, di un piano sistematico di studi e

di un collegio di docenti qualificato e in grado di fornire – cosa assolutamente

nuova e straordinaria – un titolo di studio legale, non solo ufficialmente

riconosciuto ma anche prestigioso ed assai apprezzato); aperta (naturalmente in

relazione ai tempi, i docenti godono di un’ampia autonomia di ricerca e di

didattica, continuamente e gelosamente difesa contro le pretese e l’ingerenza

dei poteri costituiti); e infine laica (nel senso che, pur se il corpo docente è

prevalentemente formato da religiosi, il suo compito non è quello di formare

degli ecclesiastici, bensì di avviare a professioni “civili”). E’ facile dedurre da

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queste premesse storico-culturali il carattere “scientifico e sistematico” che

assumerà la filosofia scolastica (appunto: la filosofia insegnata nelle

università).

La riscoperta e la diffusione dell’opera aristotelica. Attraverso la

mediazione della cultura araba, la conoscenza delle opere di Aristotele (e della

Metafisica in particolare) si diffonde nelle università. E’ un’ autentica

“rivoluzione”. Le opere di Aristotele introducono sia nuovi strumenti formali

(il metodo della logica preposizionale) sia nuovi contenuti di ordine

ontologico, antropologico, etico e cosmologico. La filosofia cristiana, sin qui

abituata a mutuare i contenuti dalla Rivelazione e tutt’al più da alcune opere

platoniche e neoplatoniche, si trova improvvisamente di fronte ad un organico

sistema filosofico, ad un’armonica e coerente spiegazione razionale dell’uomo

e dell’universo del tutto indipendente dalla verità rivelata del Cristianesimo. E’

un vero e proprio choc : o si rigetta in blocco questo imponente sistema di

“verità” (e ciò appare francamente inammissibile per degli onesti ed

appassionati ricercatori del vero quali sono i filosofi scolastici) oppure si cerca

di “cristianizzarlo”, nel senso buono del termine: cioè si va alla ricerca delle

concordanze, ripensando poi tutto il sistema aristotelico all’interno del

patrimonio di verità costituito dalla Rivelazione cristiana. Sarà questa la via

scelta dal grande Alberto Magno (1206-1280) e dal suo illustre discepolo San

Tommaso d’Aquino (1221-1274).

Ragione e fede. Il rapporto ratio/fides (o anche: scienza/rivelazione; filosofia/

teologia) è il problema fondamentale di tutta la filosofia cristiana medievale (e

non solo medievale: si veda l’enciclica Fides et ratio del 1998 nel suo

complesso, ma per esempio in IV, 42: “la fede chiede che il suo oggetto venga

compreso con l’aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca,

ammette come necessario ciò che la fede presenta”). Impostato dalla Patristica

(a partire da san Giustino), inquadrato con grande equilibrio da Sant’Agostino

(suo è il famoso credo ut intelligam/intelligo ut credam) e da Sant’Anselmo di

Aosta (fides quarens intellectum), il problema acquista una nuova e

drammatica attualità al tempo della diffusione dell’aristotelismo. C’è

autonomia della ratio? A chi spetta la priorità nell’atto conoscitivo? Ragione e

fede si escludono a vicenda (razionalismo / fideismo) oppure sono

complementari? Quale il ruolo dell’una e dell’altra? Fino a dove può giungere

la ricerca razionale senza l’apporto della verità rivelata? Quale è insomma

l’ambito della filosofia?...

1) Ragione e fede in San Tommaso

La soluzione tomista del problema del rapporto “ratio/fides” sta tutta nel concetto di

filosofia come preambulum fidei e come ancilla theologiae.

San Tommaso è assolutamente convinto dell’autonomia e della specificità della

ricerca razionale ( e la recente riscoperta del pensiero di Aristotele ne costituiva

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un’ulteriore formidabile conferma). La ragione – e quindi la filosofia – ha un proprio

metodo, una propria specifica configurazione che le consente di inoltrarsi verso la

conoscenza, anche delle cose “ultime”, senza dover ricorrere ad apporti esterni o

chiedere umilianti “pass”. Ancora una volta il sistema aristotelico ne è la prova

convincente: Aristotele ha saputo indagare correttamente non soltanto sull’uomo e sul

mondo, ma anche su Dio e sulle cose soprasensibili. Su Dio, pur in assenza di una

rivelazione e facendo esclusivamente appello alla ragione, ha raggiunto conclusioni

assolutamente rispettabili, rigorose, totalmente condivisibili dal punto di vista logico

e non incompatibili col punto di vista della fede.

La filosofia, insomma, si appoggia esclusivamente sull’evidenza razionale, sulla

forza dei suoi principi e sul rigore delle proprie argomentazioni: a null’altro si devono

le sue conclusioni. Ma ciò che è sorprendente è che tali conclusioni non entrino in

conflitto con la verità rivelata. Commenta il Papa a questo proposito : “La luce della

ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli (cioè: Tommaso, ndr)

argomentava: perciò non possono contraddirsi tra di loro” (Fides et ratio,IV, 43).

Fatta salva questa autonomia e questa specificità della ratio, va comunque aggiunto

che la filosofia non ci può dare una verità assoluta e definitiva. Non soltanto perché

essa non esaurisce tutto ciò che l’uomo può conoscere e dire, ma soprattutto perché

l’oggetto ultimo vive nella dimensione del mistero. La filosofia ci “introduce” alla

verità totale, ma non è capace di farcela attingere.

Da qui deriva la definizione di preambulum fidei (lett. “anticamera della fede”): la

ragione ci conduce in prossimità del vero, nelle immediate vicinanze del mistero

divino, ma non ha il potere di svelarcelo in tutto il suo splendore.

N.B. Il termine preambulum non ha qui il significato prevalentemente negativo con

cui oggi solitamente lo si contrassegna (per esempio di un “cappello” inutile e

superfluo ad un discorso, che può essere tranquillamente eliminato senza pregiudizio

per la comprensione del testo; in questo senso si dice, per esempio, bando ai

preamboli, quando si vuole entrare direttamente nel vivo di un discorso). Esso

significa invece, in senso letterale, “ingresso/anticamera”. Se si pensa alla casa

romana, nella quale un solo ingresso dà accesso a tutti gli ambienti interni, ogni

significato di inutile superfluità si dissolve per lasciare invece spazio ad un senso

forte di introduzione necessaria, obbligatoria, vincolante per poter entrare nella “casa

della verità”.

Così pure il termine ancilla dell’espressione “ancilla Theologiae” (anch’essa usata

come metafora del rapporto filosofia/teologia) non va inteso nel senso dispregiativo

che oggi noi attribuiamo ad esso: se la filosofia fosse soltanto “schiava” della

teologia, allora si configurerebbe un inaccettabile ruolo subalterno della ricerca

razionale, ridotta a poco più di una sterile esercitazione in vista della produzione del

vero sapere, che è quello teologico. Come l’ancilla rende la domina tale (cioè: grande

e superiore), così la teologia è il luogo dell’inveramento, del completamento, del

definitivo realizzarsi ed esprimersi della tensione conoscitiva della ratio. La “domina”

senza “ancilla” non sarebbe più tale: così la teologia, senza l’indispensabile aiuto

della filosofia, non sarebbe altro che vano sproloquio.

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Per San Tommaso, come del resto per ogni pensatore medievale, il fine di ogni atto

conoscitivo è la conoscenza di Dio, perciò filosofia e teologia, fede e scienza non

possono avere due oggetti diversi di conoscenza, ma uno solo: distinti sono caso mai i

campi ed i metodi, ma c’è comunque un rapporto organico, ordinato e gerarchico fra

le due modalità. Non è dunque possibile fare teologia senza una corretta impostazione

filosofica, ma una filosofia che non si traguardi e non si completi nella ricerca

teologica tradisce la sua natura e si preclude il raggiungimento della sua finalità

ultima, che è la ricerca della verità.

Come afferma il Papa all’inizio della sua enciclica: ” La fede e la ragione sono come

le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della

verità”.

Viene in mente a questo punto quello stupendo passo del Fedone di Platone, in

cui il grande filosofo greco riconosce l’insuperabile limite di una ricerca

puramente razionale ed accenna, con desiderio e nostalgia, ad una possibile

rivelazione che sciolga ogni dubbio: “Perché, insomma, trattandosi di tali

argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da

altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile,

accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore ed il

meno confutabile e, lasciandosi trasportare da questo come da una zattera,

attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in

grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida

barca, affidandosi ad una divina rivelazione” (cap. XXXV).

2) La nozione di essere in san Tommaso

Alla radice dell’ontologia tomista sta la distinzione ed il chiarimento concettuale e

terminologico di ESSENZA, ENTE, ESISTENZA. Con questo fondamentale

chiarimento san Tommaso, fin dalla sua prima opera giovanile – il De ente et essentia

che risale al periodo del suo insegnamento parigino (1252-1259) – pone le solide basi

del suo futuro edificio metafisico e teologico.

ESISTENZA: questa è semplicemente e nient’ altro che la comune realtà di

cui tutti abbiamo esperienza. Di essa non può darsi una definizione

concettuale, ma solo una descrizione, con l’ausilio dei dati che il nostro

apparato sensoriale ci fornisce di volta in volta. L’esistenza è un aliquid che

esiste extra mentem, extra causas, extra nihilum. Essa è la risposta positiva alla

domanda: “c’è qualcosa” ? (an sit); ma non ancora alla domanda: “che cos’è”?

(quid sit).

ENTE: è ciò che esiste nella forma determinata di un quid, è un “qualche

cosa”. L’esistenza dell’Ente può essere di due tipi: a) logica (cioè solo mentale,

concettuale, in mente); b) reale (realmente esistente, extra mentem).

L’ente logico è tutto ciò che può essere pensato, ma non necessariamente

esiste al di fuori della nostra mente. Esso è frutto della nostra capacità di

astrazione, ma non necessariamente esiste nel modo stesso in cui è pensato (per

esempio: la cecità è un ente logico, ma di esistente ci sono soltanto i ciechi).

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L’ente reale invece è tutto ciò che esiste fuori della nostra mente e di cui noi

perciò predichiamo l’esistenza.

ESSENZA: è l’ ousia in senso aristotelico (il quod quid erat esse degli

Scolastici), l’insieme delle note fondamentali, delle caratteristiche sostanziali

per cui un ente si distingue da ogni altro. Essa è la risposta positiva alla

domanda: “che cos’è”? (quid sit).

Fondamento dell’ontologia tomista è la distinzione reale tra essenza ed

esistenza. In tutte le creature finite, gli enti reali (entia quae sunt), distinguiamo l’

essenza (quid sit, cioè l’ousia: pura potenza, attitudine ad esistere, ma non

necessità di esistenza), dall’ esistenza (actus essendi, cioè il vero e proprio atto di

essere, che chiamiamo semplicemente l’ “esserci “ di fatto). L’essere è perciò un

atto, che rende concreta e reale, veramente esistente, un’ essenza che di per sé è

puro “poter essere”. La metafisica tomista è pertanto, in senso forte, una

metafisica dell’essere, e non una metafisica delle essenze. Anche il Papa, nella

enciclica più volte citata, sottolinea questo aspetto: “La sua è veramente la

filosofia dell’essere e non del semplice apparire” (IV, 44).

Distinzione però non significa separazione. Essere ed essenza non sono pensabili

separatamente, ma stanno in relazione organica e dinamica come la potenza e

l’atto della metafisica aristotelica. L’ontologia tomista è perciò una dottrina del

concreto e non una filosofia dell’astratto.

2) La perfezione come “actus essendi”

Scrive Battista MONDIN, nella sua interessante opera su san Tommaso (Il sistema

filosofico di Tommaso d’Aquino, Milano, Massimo, 1985): “L’aspetto più

interessante ed originale della concezione tomistica della verità riguarda l’attenzione

che vi viene riservata all’essere. E questo è in perfetta sintonia con la sua filosofia

che è eminentemente filosofia dell’essere. L’essere è infatti per Tommaso la

perfezione suprema, fondamentale, massima, quella che permea tutte le cose

conferendo loro consistenza e realtà; per cui ogni cosa è tale in forza della sua

partecipazione all’essere ed una cosa è tanto più perfetta quanto maggiore è il suo

grado di partecipazione all’essere” (op. cit., pp. 47-48).

San Tommaso collega quindi la nozione di perfezione con quella di actus essendi. La

potenza è imperfezione, solo l’atto è perfetto. Ciascun ente realizza la propria

perfezione anzitutto esistendo: perciò l’ente reale è infinitamente più perfetto

dell’ente logico perché è “in atto”, cioè esiste. L’essere è inter omnia

perfectissimum. C’è naturalmente una gerarchia di perfezione, legata al grado di

attualità/potenzialità presente in ciascun ente.

Siamo ancora, se si vuole, all’interno del ragionamento aristotelico che, attraverso la

concatenazione di potenza ed atto, aveva guadagnato il concetto di “entelechia

prima”, di Atto Puro. Ma San Tommaso non si limita a relegare l’idea di perfezione

in questa astratta nozione di atto puro. Scrive ancora Mondin, strenuo difensore della

originalità del pensiero tomista, che San Tommaso non è “un semplice ripetitore e

neppure solo un continuatore di Aristotele, bensì l’iniziatore di un nuovo sistema

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filosofico, fondato su una base assolutamente nuova, sconosciuta allo stesso

Aristotele, la base costituita dalla perfezione dell’essere, perfezione assoluta, radicale,

nucleo e fondamento di ogni altra perfezione” (p. 21). E ancora: “Tommaso è un

pensatore originale, che ha fatto la grande e originale scoperta che, a livello

ontologico, la perfezione massima è la perfezione dell’essere e che qualsiasi altra

perfezione è dotata di realtà soltanto nella misura in cui è partecipe della perfezione

dell’essere” (p. 21).

Su questa base – la perfezione dell’essere in quanto tale – san Tommaso (riprendo

liberamente dal testo di Mondin a pag. 62) innalza il suo possente edificio metafisico,

le cui strutture portanti sono i concetti di “essenza ed esistenza”, che in tutte le cose

osservabili sono nettamente distinti l’uno dall’altro. Essenza ed esistenza convergono

però necessariamente verso un punto d’incontro, nel quale si identificano. Questo

punto d’incontro, “pinnacolo dell’edificio”, per il credente Tommaso è l’essere stesso

(Esse ipsum”), cioè Dio. Continua Mondin: “In Lui risiede la pienezza della

perfezione dell’essere e con essa la pienezza di ogni altra perfezione. Da Lui discende

ogni sostanza, ogni virtù e ogni azione. Dio, causa prima e totale di ogni ente,

comunica ai suoi effetti realtà, verità, bontà, bellezza, valore; conferisce sostanza,

causalità e attività; li fa simili a se stesso e infonde nel loro intimo un’ansia di far

ritorno alla sorgente da cui sono usciti” (p. 62).

Citiamo qualche espressione di Tommaso:

“Esiste un essere massimale, e lo chiamiamo Dio”

“Nel modo più vero e prima di tutto chiamiamo ente Colui il cui essere non è

ricevuto, ma sussiste di per sé”

“Di tutti i nomi che si attribuiscono a Dio il primo è COLUI CHE E’, perché

comprendendo tutto in se stesso possiede l’essere medesimo, come una specie

di oceano infinito e senza limite”.

Insomma: laddove Aristotele direbbe che tutto ciò che è e che noi chiamiamo ente

esiste ed è intelligibile per il suo rapporto con la propria ousia, la sostanza; san

Tommaso invece afferma che tutto ciò che è esiste per il suo rapporto di dipendenza

dall’ Esse ipsum, Dio.

Ecco un altro fondamentale tocco di originalità: il rapporto ente-Essere non è più un

semplice rapporto di inerenza (come quello dell’accidente alla sostanza cui si

riferisce), bensì un rapporto di dipendenza causale, per il quale ogni ente (potenziale)

riceve l’essere reale da un Creatore che glielo conferisce.

Diciamo perciò: Dio dà l’essere, l’ente lo riceve; DIO E’ L’ ESSERE, L’ ENTE

HA L’ESSERE. In Dio essenza ed esistenza coincidono, nell’ente mai. L’esistenza

dell’ente è caratterizzata dalla non-necessità (Contingenza), quella di Dio dalla

necessità (Sussistenza).

Ma facendo questi discorsi abbiamo messo in pratica (senza nominarlo e definirlo) il

nucleo metodologico più importante della metafisica tomista: il principio dell’

ANALOGIA.

3) La dottrina dell’ Analogia

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Prendendo a prestito una parola greca – appunto ANALOGIA, che significa

“somiglianza di rapporti” – San Tommaso formula la sua originale dottrina

dell’intellegibilità dell’Essere.

Dunque: se l’ente ha l’essere, mentre Dio è l’Essere stesso, non si può parlare di

identità tra Dio e le creature, tra l’essere di Dio e l’essere delle cose del mondo. Il

significato del termine essere non può quindi esser univoco. Dice Tommaso:

“Impossibile est aliquid univoce praedicari de creatura et de Deo”.

N.B. : osserviamo per inciso come quest’affermazione si collochi agli antipodi di

quella parmenidea, per cui l’essere è UNICO, in perfetta identità con tutto ciò che

esiste.

Ma, tornando a Tommaso, se è vero che non c’è perfetta identità tra l’essere di Dio e

quello delle creature, è altrettanto vero che non si può parlare di equivocità del

termine, cioè di significati completamente diversi per i due termini. Infatti, come

insegna la Rivelazione, le creature (appunto in quanto “create”, cioè fatte esistere dal

Nulla) portano in sé l’impronta del Creatore (cfr. l’idea dell’uomo fatto a “immagine

e somiglianza” di Dio).

Ma allora come si configura questo rapporto, che non è né univoco, né equivoco?

Appunto come un rapporto di Analogia, cioè un rapporto di somiglianza e

dissomiglianza insieme, di corretta proporzionalità tra termini che, pur essendo tra di

loro diversi, hanno in comune appunto l’essere. Ciò che si predica delle creature può

quindi essere predicato anche di Dio, e viceversa, purchè si facciano, come si dice nel

linguaggio popolare le “debite proporzioni”.

Qui filosofia e teologia, fides e ratio, vengono ad incrociarsi ed insieme possono

contribuire alla ricerca della verità su Dio, l’uomo e il mondo. Quello che attraverso

la ragione naturale (e quindi la filosofia e tutte le altre scienze) veniamo man mano a

scoprire circa l’uomo e la realtà possiamo, in un certo senso ed in maniera analogica,

predicarlo anche per Dio; e viceversa, quello che attraverso la fede (e quindi

l’intelligenza della fede esercitata dalla teologia) conosciamo di Dio Padre e

Creatore, Essere Supremo e divino, possiamo utilizzarlo ai fini di una più

approfondita conoscenza della vera natura e del significato dell’uomo e del mondo.

4) La nozione di partecipazione

Abbiamo già visto come la nozione di “partecipazione” fosse un caposaldo della

dottrina platonica delle idee: le idee comunicano tra di loro e, tutte insieme, con la

suprema idea di Bene; inoltre il mondo sensibile partecipa del mondo ideale, in

quanto le cose, la natura, sono “copie” delle idee. E’ probabilmente attraverso la

mediazione del Neoplatonismo e dell’ Agostinismo che la nozione di partecipazione

perviene a san Tommaso, il quale la fonde con i motivi aristotelici dandole un nuovo

ed originale rilievo.

Si tratta, ancora una volta, di rispondere al problema fondamentale della metafisica: il

rapporto UNO-MOLTI. Ma san Tommaso, a differenza dei suoi predecessori greci,

dispone di un formidabile concetto metafisico fornitogli dalla Rivelazione: l’idea di

creazione.

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Per san Tommaso, tutto ciò che esiste è fondato, radicato in Dio, Essere

Autosussistente, Assoluto ed Infinito, che reca in sé, unitariamente e

simultaneamente, tutto ciò che appare diversificato e distinto nel grande panorama

del creato. E’l’intuizione resa vertigine poetica dal genio di Dante:

Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che

per l’universo si squaderna / sustanzia ed accidente, e lor costume / tutti con

flati insieme per tal modo / che ciò ch’io dico è un semplice lume.

( PARADISO, XXXIII, 85-90)

Nella visione cristiana gli enti finiti non si rapportano al loro fondamento assoluto nè

secondo le modalità del panteismo, comune a molte dottrine filosofiche e religiose (i

molti sono semplici “modi” di esistenza dell’ Uno, sue particolari ma sostanzialmente

indistinte determinazioni), né secondo quelle dell’emanazionismo, dottrina propria

della filosofia neoplatonica (i molti fuoriescono dall’Uno eternamente, in un flusso

continuo senza finalità e senza rapporti di dipendenza, come acqua che sgorga da una

sorgente o luce da una fonte luminosa), bensì secondo il rapporto Creatore/creatura.

Tale rapporto può configurarsi come il rapporto potenza/atto: la creatura riceve

l’esistenza (materiale e spirituale) dallo stesso Essere (che è Causa incausata e primo

motore), e rimane in stretto rapporto con lo stesso, partecipando delle sue

caratteristiche in modo proporzionale al suo grado di perfezione.

In sintesi: solo Dio, Atto puro ed infinito, Ente che è l’Essere, è autosussitente.

Attraverso un’iniziativa libera e gratuita, che rimane per noi misteriosa ed

inattingibile, Dio pone contemporaneamente in ogni ente la potenza di essere

(materia) e l’attualità che gli compete (forma), determinandone l’esistenza e la

fuoriuscita dal nulla. Ogni ente poi non rimane “tagliato fuori”, estraneo ed

indipendente dalla vita di Dio, ma permane innestato in essa con un rapporto di

autentica comunione (figliolanza/fraternità).

5) I TRASCENDENTALI: uno, vero, bene

Partecipare all’essere significa anche partecipare – s’intende sempre in forma

analogica, proporzionale – dei connotati fondamentali, delle determinazioni profonde

dell’Essere stesso. Nel linguaggio aristotelico-scolastico queste connotazioni si

chiamano: i trascendentali. Il termine sta ad indicare qualche cosa che accompagna

inseparabilmente una certa essenza, “trascendendo” ogni particolarità. Secondo la

maggior parte degli autori i trascendentali in san Tommaso sono 3 (unità / verità /

bontà), ma altri vi aggiungono anche la realtà e la bellezza.

UNITA’ (omne ens est unum). L’unità è la prima e più importante proprietà

essenziale dell’essere. Dire che l’essere è uno, significa dire che non è diviso

(unità reale) e non è contraddittorio (unità logica), ma è intrinsecamente se

stesso. L’unità dipende dal grado di essere che si possiede, nel senso che

quanto maggiore è il grado di essere che si possiede, tanto maggiore è l’unità.

Naturalmente è vero anche il contrario: ma la filosofia tomista rimane una

filosofia dell’Essere, in cui l’unità è una proprietà essenziale, ma non il

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fondamento ultimo (nel Neoplatonismo, invece, il divino è l’Uno, mentre

l’essere è un grado ipostatico dell’Uno) che è l’esse ipsum. L’unità di Dio è

assoluta, semplice, totale, in quanto piena coincidenza di essenza ed esistenza;

mentre l’unità dell’ente è sempre un’unità composta (essenza+esistenza). Va

precisato che questa unità trascendentale ha un significato esclusivamente

metafisico e non numerico (aspetto quantitativo che si riferisce esclusivamente

agli enti corporei): perciò il Dio dei cristiani può essere tranquillamente e non

contraddittoriamente “Uno e Trino”.

VERITA’ (omne ens est verum). Ogni ente in quanto tale è intellegibile, e può

essere oggetto della nostra conoscenza razionale, in quanto possiede,

proporzionalmente al proprio essere , un certo grado di oggettiva verità. L’esse

ipsum è la Verità assoluta e totale, perciò costituisce l’oggetto più adeguato

della nostra capacità conoscitiva, che cerca appunto la verità di ogni cosa. Se il

vero è una proprietà dell’essere, la ricerca della verità non può essere una

questione solo logica (come in Aristotele), ma diventa ontologica. Ciò vuol

dire che il problema della verità non riguarda soltanto il rapporto tra il nostro

intelletto e la realtà (adaequatio intellectus nostri ad rem), ma anche il modo in

cui quest’ultima si riferisce oggettivamente all’essere divino (adaequatio rei

ad intellectum Dei). Scrive GRENET : “Poiché il pensiero ha come oggetto

formale l’essere, ed ogni essere è, in quanto essere, oggetto di pensiero, il

VERO è detto dalla mente solo in base al suo rapporto con l’essere, e

dell’essere solo in quanto la mente ha rapporto con l’essere” (op.cit., p. 246).

Insomma: anche la verità (come già l’unità ontologica) dipende dal grado di

essere che ciascun ente possiede. Dio, che è Sommo Essere, è perciò somma

verità, sia in senso ontologico che logico. Tutti gli altri enti sono più o meno

razionali e più o meno intrinsecamente veri (corrispondenti al modello divino)

a seconda del grado di partecipazione all’essere.

BONTA’ (omne ens est bonum). Scrive Tommaso : “ Dio ama tutti gli esseri

esistenti, perché tutto ciò che esiste in quanto esiste è buono ; infatti l’essere di

ciascuna cosa è un bene, come è un bene del resto ogni sua perfezione. Ora la

volontà di Dio è causa di tutte le cose e per conseguenza ogni ente ha tanto di

essere e di bene nella misura che è oggetto della volontà di Dio. Dunque ad

ogni essere esistente Dio vuole bene. Perciò, siccome amare vuol dire volere

ad uno del bene, è evidente che Dio ama tutte le cose esistenti. Dio, però, non

ama come noi. La nostra volontà infatti non causa il bene che si trova nelle

cose; al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto; e quindi il nostro

amore con il quale noi vogliamo del bene a qualcuno, non è causa della bontà

di costui, chè anzi la di lui bontà, vera o supposta, provoca l’amore che ci

spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che

non ha, e ci adoperiamo a tale scopo. L’ amore di Dio invece infonde e crea la

bontà delle cose” (S. theolog., I, 20, 2).

Il bene è l’essere visto nella sua proporzionalità al desiderio, cioè alla tendenza

alla propria perfezione che è insita in ogni ente. Bene ed essere coincidono:

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infatti se la perfezione per un ente è il suo “actus essendi”, la sua entelechia,

sarà proprio questo actus essendi, in quanto télos dell’ente, il suo bene. Ogni

cosa è buona, insomma, in quanto è; ed è tanto più o tanto meno buona in

proporzione al suo grado di essere. Ma – in più rispetto alla semplice idea di

essere – l’idea di bene esprime e sottolinea il tema del “desiderio”, della

“appetibilità”, della tensione di ogni creatura verso la propria perfezione.

Dio è Sommo Bene, Assoluta Bontà. Solo Dio è “essenzialmente” buono; e

solo Dio è causa prima, efficiente e finale di ogni bontà. Tutte le creature,

esistendo, partecipano di questa divina bontà: tutto ciò che esiste, dunque, in se

stesso e nell’insieme, è buono, perché possiede, in proporzione al proprio

essere, un certo grado di perfezione e di bene, in analogia con la bontà somma

di Dio. La metafisica tomista è una metafisica OTTIMISTICA. E non solo

perché tutte le cose partecipano della divina bontà per il solo fatto che esistono;

ma anche perché il desiderio di perfezione che è insito in ogni creatura non è

un appello vano ed inutile, una tensione velleitaria ed illusoria: Dio, somma

perfezione, comunica la propria bontà e si pone come il bene supremo e finale

per ogni ente.

La ragionevole speranza di perfezione da parte dell’uomo s’incontra – nel

mistero della partecipazione alla vita divina – con la bontà liberamente e

gratuitamente effusa da Dio. Il Dio cristiano, a differenza di quello aristotelico,

è un Dio che ama, che ha creato tutto per amore, che crea le cose amando e,

amandole, le fa esistere ed essere buone.

L’uomo si affeziona agli altri enti e li desidera in quanto buoni, ma, amandoli,

trascende se stesso e tutte le cose, collocandosi all’interno stesso del mistero

dell’ amore divino. San Tommaso afferma, nel suo De veritate : “Tutti gli

esseri conoscenti conoscono implicitamente Dio in ogni cosa conosciuta”. Noi

potremmo aggiungere anche che, amando in modo giusto ed onesto tutte le

cose, si ama implicitamente Dio.

6) La questione del “bello”

Abbiamo detto che alcuni autori includono tra i trascendentali di Tommaso anche la

bellezza. In realtà Tommaso non ne parla, ma la scelta degli interpreti di cui sopra

non è del tutto arbitraria. Basta intendersi! Tommaso infatti non elenca il bello tra gli

altri trascendentali per la semplice ragione che per lui (come del resto per tutta la

cultura medievale) il bello si identifica con il bene: la bellezza è un elemento

intrinseco della perfezione, un costitutivo della forma.

La perfezione dell’ actus essendi include sostanzialmente la bellezza, ma questa

risulta e risplende solo nell’atto conoscitivo. La forma di un essere, in quanto

realizzata nella sua perfezione attuale , è il bene di un ente; in quanto riconosciuta ed

apprezzata dal soggetto conoscente è il bello di un ente. Dice Tommaso: “Il bello

riguarda la facoltà conoscitiva: belle sono infatti quelle cose che viste destano

piacere (pulchra sunt quae visa placent)”.

Il bello è dunque come il manifestarsi della interiore unità della forma di un ente

(livello ontologico) nella esteriorità sensibile (livello fenomenologico). Questa

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manifestazione, secondo Tommaso, esige tre condizioni: “Per la bellezza si

richiedono tre doti. In primo luogo integrità e perfezione: poiché le cose incomplete,

proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi si richiede debita proporzione o

armonia tra le parti. Finalmente chiarezza e splendore: difatti diciamo belle le cose

dai colori nitidi e splendenti” (S. theolog., I, 39, 8, c).

Integrità e perfezione – debita proporzione fra le parti – chiarezza e splendore:

queste sono le caratteristiche dell’esperienza estetica secondo Tommaso. Si tratta,

come si vede, di un ideale estetico ancora legato alla visione classica del bello: la

bellezza è una proprietà oggettiva dell’essere, che scaturisce sì nell’esperienza

sensibile e nel giudizio particolare del soggetto conoscente, ma non ha la sua radice

nel bisogno soggettivo del singolo. Secondo la celebre definizione del maestro di

Tommaso, Alberto Magno, la bellezza è: Splendor Formae. Il bello è ontologico, è

proprietà fondamentale dell’essere, è un trascendentale che si accompagna

inseparabilmente all’ actus essendi, secondo le gradazioni e le sfumature proprie della

gerarchia dell’essere.

N.B. Facciamo qui un piccolo accenno all’estetica kantiana per avere almeno un’idea

sommaria del procedimento che ha portato l’estetica moderna a rifiutare ogni

fondamento ontologico per radicarsi esclusivamente nella coscienza soggettiva.

Per Kant il bello non è una proprietà ontologica del reale, ma un “giudizio” che

scaturisce dal rapporto tra il soggetto e l’oggetto. In particolare, il giudizio estetico

(che è un giudizio riflettente e non un giudizio determinante; quindi privo di ogni

valore conoscitivo) avrebbe l’effetto di produrre una sorta di armonia tra natura e

libertà (termini tra loro antitetici), tra la conoscenza e la volontà, al solo fine di un

piacere soggettivo, di una delectatio. L’estetica kantiana non ha una finalità etica, ma

si propone esclusivamente di garantire al soggetto un godimento spirituale ed

un’interiore elevazione. E’ una sorta di gioco elegante, nobile e raffinato, che non ha

tuttavia tra i suoi fini quello di introdurci più a fondo nella realtà e di farci conoscere

la verità ultima delle cose (e quindi l’Esse ipsum che le fonda).

7) Le principali obiezioni dei contemporanei ai trascendentali

Raccogliamo in rapidissima sintesi il contenuto delle principali obiezioni che il

pensiero moderno e contemporaneo ha indirizzato alla dottrina ontologica dei

trascendentali dell’essere.

La negazione dell’unità ontologica. L’essere non è Uno – non solo

logicamente, come vuole per esempio la dialettica hegeliana degli opposti, ma

anche storicamente, come afferma per esempio la dialettica marxiana – ma è

frammentato in una pluralità di esseri, che sono “differenti” ed irriducibili tra

di loro. Così è per esempio per l’ esistenzialismo, per il quale esistono soltanto

i molti soggetti, i diversi “io”, ciascuno a sé stante, incomunicabili fra di loro;

oppure esistono come delle “zone” assolutamente eterogenee di essere (cfr.

Sartre, che oppone irriducibilmente un in-sè materiale ad un per-sè

coscienziale, rinunciando definitivamente ad ogni sintesi del tipo di quella

hegeliana). Fa eccezione Heiddeger, per il quale c’è una sorta di riapparizione

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dell’essere come orizzonte comune di tutti gli enti, ma il senso di questa

riapparizione è subito limitato dal concetto di differenza ontologica, con cui si

stabilisce “il non tra ente ed essere” e si sancisce l’impossibilità per ogni ente

di attingere l’essere.

La negazione della verità ontologica. Si parte dagli estremi dell’assurdismo

(Sartre/Camus) e dello scetticismo (Rensi) per arrivare alla verità intesa solo

come proposizione scientifica verificabile (positivismo/neopositivismo) o

come utilità personale e/o sociale (pragmatismo/utilitarismo).

La negazione del bene ontologico. Si identifica il bene con l’utile

(utilitarismo), con ciò che è “conveniente” in una determinata situazione

(relativismo/situazionismo). Comunque si afferma che il bene non è proprio

dell’essere ma della capacità valutativa della coscienza. Nel migliore dei casi

rimane un ideale, una tensione continua ed un’aspirazione irrealizzabile della

volontà dell’io o del collettivo sociale.

La negazione del bello ontologico. Già nella breve esemplificazione

sull’estetica kantiana abbiamo visto la riduzione del bello ontologico ad attività

armonizzatrice della coscienza soggettiva. Il bello non è più una proprietà

oggettiva dell’essere, ma una condizione soggettiva. Se anche si sfugge alla

arbitrarietà più bieca (bello è ciò che piace), si rimane comunque nell’ambito di

una criteriologia che ha sede nella coscienza e non nell’essere. L’estetica

crociana ha il doppio merito di restituire all’estetica un valore conoscitivo e di

tentarne una fondazione oggettiva, pur in una piena autonomia dalle altre

attività spirituali: ma si pone contro ogni radicamento ontologico dell’idea di

bello e ne esclude ogni valenza di tipo etico.

CONCLUSIONI

I limiti propri del corso mi costringono a mettere qui la parola fine. Mi limito perciò a

segnalare molto succintamente almeno tre tornanti fondamentali che un’eventuale

ricerca di approfondimento del tema trattato dovrebbe assolutamente prendere in

considerazione.

La crisi della metafisica in Kant. Kant sancisce l’impossibilità di una

conoscenza scientifico-razionale dell’essere e afferma la conseguente riduzione

della metafisica ad aspirazione interiore del soggetto. La trascendentalità non è

una proprietà dell’essere, ma una struttura formale del soggetto conoscente.

Hegel: il confinamento dell’ontologia nella logica. L’idea di essere è l’idea

più elementare e più povera di determinazioni che la nostra mente possa

concepire. L’ontologia è dunque il principio della logica, ma in quest’ultima

l’ontologia subito si dissolve, perché l’essere pensato nella sua completa

astrattezza, privo di ogni determinazione particolare, è identico al nulla, e

perciò svanisce subito, lasciando tutto lo spazio al divenire, che è sintesi di

essere e non essere. Il concetto assoluto non è la Realtà, ma la Ragione: quella

che noi chiamiamo comunemente realtà non è altro che un momento transeunte

del cammino di autorealizzazione della ragione come Spirito Assoluto.

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L’esistenzialismo fenomenologico. L’essere è presente alla coscienza come suo

oggetto intenzionale (Husserl), oppure si rivela nel Dasein, l’esser-ci

(Heiddeger), o ancora appare in entrambi (Hartmann): ma resta comunque al di

là sia del pensiero, sia dell’ente. Heiddeger introduce il concetto di differenza

ontologica per sostenere che l’essere non è definibile con le categorie proprie

del pensiero razionale, perché manca degli elementi che costituiscono la

possibilità stessa della definizione (genere prossimo/differenza specifica),

ponendosi come puro trascendimento; non è neppure riconducibile ad “ente”

(neppure al più alto della possibile scala di enti) perché non gli si possono

attribuire i “predicati ontici” che permettono l’individuazione dell’ente.

Perchè si rifiuta la metafisica? Le principali ragioni del rifiuto.

Nel bel libro di Adriano Alessi, Metafisica (LAS, Roma, 1992) si trova una

eccellente esposizione sintetica delle principali obiezioni nei confronti della validità

della metafisica (pg.15 e segg.).

- Anzitutto se ne contesta la validità teoretica. Paradigmatica, per la sua radicalità, è

la posizione di Nietzsche, che accusa la metafisica di essere nient’altro che una

“menzogna” (come per altro la religione e la morale). Si tratta di nient’altro che di un

“lunghissimo errore”, imperniato sul dualismo essere-divenire, verità-menzogna,

mondo vero-mondo delle apparenze e sull’astratta e dogmatica asserzione che un solo

elemento di questa polarità (il vero, il bene, il fondamento, la cosa in sé) è vero,

valido e reale. In verità “l’essere è una vuota finzione. Il mondo “apparente” è l’unico

mondo; il “vero mondo” è solo un’aggiunta mendace” (Crepuscolo degli idoli. Cfr.

anche, nella stessa opera, l’aforisma intitolato: Come il “mondo vero” finì per

diventare favola).

- Altre posizioni contestano la portata esistenziale del pensiero metafisico, accusato

di disumanità e di violenza. Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ad esempio, i

sostenitori del cosiddetto “pensiero debole”, criticano la metafisica come “ideologia

legata all’insicurezza e al dominio che da essa deriva” , ricordando che “il pensiero

della verità non è il pensiero che “fonda”, come pensa la metafisica, anche nella sua

versione kantiana; bensì quello che, esibendo la caducità e la mortalità proprio come

ciò che fa l’essere, opera uno sfondamento”. E continuano affermando che “oggi non

è più tempo di principi superiori, di fini ultimi, di verità definitive”; che “l’idea di

sistema e anche solo quella di “definizione” diventano impraticabili, non

convenienti”, concludendo che “non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare

come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il

serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di

essa” (cfr. Il pensiero debole, a cura di G.Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano,

1983).

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- C’è infine una critica che proviene da ambienti fideistici che mette in discussione la

valenza religiosa del pensiero metafisico. Sulla scia di Lutero, ad esempio, il teologo

Karl Barth sostiene che ogni ricerca che pretenda di fondare razionalmente i

preambula fidei è palesemente empia, in quanto pretende di far dipendere la scelta di

fede da qualcosa di diverso dalla semplice accoglienza della parola di Dio.

Ma – in modo ancora più articolato – è possibile raggruppare le obiezioni alla

metafisica secondo questo quadruplice schema.

A) Obiezioni che nascono dal carattere illusorio o problematico del conoscere.

A questo gruppo appartengono sia le antiche posizioni della sofistica e dello

scetticismo, che ritengono impossibile pervenire ad una qualunque forma di certezza

o di verità razionale, sia le più aggiornate posizioni del relativismo e del

problematicismo. Il primo proclama l’impossibilità di pervenire a verità assolute,

universalmente valide, in quanto ogni conoscenza sarebbe inesorabilmente legata a

condizionamenti di ordine culturale, spaziale e temporale ed ogni affermazione

teoretica è solo espressione di una cultura determinata e storicamente definita.

Insomma: ciò che ieri appariva assolutamente certo, oggi risulta inevitabilmente

insufficiente ed aleatorio; ciò che alcuni ammettono come assoluta verità è negato da

altri come illusorio od ipotetico. Quanto al problematicismo, esso afferma che il

contenuto del sapere e della ricerca non è un vero, ma un problema. Il pensiero non

può pertanto rimanere vincolato all’oggettività del reale, ma deve esprimersi come

infinita libertà, scevro da ogni predeterminazione o preconcetto, costruendo semmai

una sistematica aperta e progressiva del sapere ( Banfi). La filosofia non sarebbe

altro che una continua ed insoddisfatta “aspirazione alla filosofia” (Spirito).

B) Obiezioni in nome del valore e della natura dell’esperienza.

L’esperienza umana è, per sua natura, limitata, particolare, confinata

irrimediabilmente al campo della realtà sensibile. I nostri sensi sono invalicabili: non

possiamo perciò avere alcuna conoscenza di ciò che starebbe oltre o al di sopra di

essi. Questo è il nocciolo della tesi empirista, che ha i suoi campioni in Bacone,

Hobbes, Locke, Hume, Stuart Mill. Il positivismo, iniziato da August Comte e

continuato da Spencer in Inghilterra, da Ardigò in Italia e da Haeckel in Germania,

ribadisce questi principi e riconosce validità ai soli dati verificabili (appunto ciò che è

“posto”, positivum). L’unica forma di conoscenza valida è perciò la scienza, che si

attiene solo ai fatti, ne studia le cause e ne prevede gli sviluppi.La metafisica è

assurda ed insostenibile, sapere fittizio ed illusorio.

Anche per il neopositivismo (Carnap, Russell, Neurath, Schlick, Ayer) solo la

scienza ha valore conoscitivo, mentre la metafisica è semplicemente “insensata”, in

quanto costituita da proposizioni non verificabili. “Né Iddio né alcun diavolo

potranno mai darci una metafisica” (Carnap). “La metafisica è poesia in concetti”

(Hans Reichenbach). “La maggior parte delle questioni filosofiche sono prive di

senso” (Wittgenstein).

C) Obiezioni fatte in nome del primato del soggetto

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Da Cartesio in poi si accentua la consapevolezza che non si dà conoscenza

dell’oggetto se non nella misura e secondo le condizioni stabilite dal soggetto. Come

si può pretendere di conoscere la realtà in se stessa, il suo nucleo ultimo ed

essenziale, se tutto ci è dato solo attraverso la mediazione imprescindibile del

soggetto?

Il fenomenismo kantiano nega la validità conoscitiva della metafisica (declassandola

a semplice aspirazione, sia pure irrinunciabile, della coscienza, a puro ideale della

ragione) perché si può conoscere solo attraverso una interazione di “forme a priori”

dell’intelletto e di “dati di fatto” della esperienza sensibile. La realtà in sé rimane

inattingibile : si può solo pensarla esistente (noumeno), ma non conoscerla

scientificamente alla stregua dei fenomeni.

Con l’assolutizzazione idealistica del soggetto la realtà diventa un momento

dialettico del processo storico di autocostruzione dell’Io (il “non-io” di Fichte, la

“preistoria della coscienza” di Schelling, la “natura” di Hegel : in una parola

l’objectum che si oppone al subjectum, l’antitesi che si oppone alla tesi). La

metafisica è, per Hegel, un “vecchio modo di vedere”, una “mera veduta

intellettualistica degli oggetti della ragione”, divenuta infine un puro “dogmatismo”

per la sua pretesa che “mediante la riflessione si conosca la verità e si acquisti la

coscienza di ciò che gli oggetti veramente sono” e che “di due affermazioni opposte

l’una dovesse essere vera e l’altra falsa” (cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche in

compendio, 1817, §§ 26-36).

Per l’esistenzialismo, l’interesse si sposta dall’essere al singolo. Solo quest’ultimo

conta, solo ciò che lo riguarda è conoscibile, solo ciò che a lui risulta esiste. La

metafisica è soltanto astrattezza e generalità, mentre il singolo è concreto e

particolare. Kierkegaard inoltre accusa la metafisica di essere la principale

responsabile della “confusione” che domina i tempi moderni, confusione che consiste

“nell’aver abolito l’abisso immenso della differenza qualitativa fra Dio e l’uomo”

(cfr. Diario, n° 1293). Le categorie della metafisica sono astratte; non solo, ma anche

sostanzialmente irreligiose. Mentre “il Singolo è la categoria attraverso la quale

devono passare – dal punto di vista religioso – il tempo, la storia, l’umanità… Con

questa categoria sta e cade la causa del Cristianesimo, dopo che lo sviluppo del

mondo ha raggiunto il grado attuale di riflessione” (ib. N° 1348).

Per J.P. Sartre poi, poiché “l’esistenza precede l’essenza” (cfr. L’esistenzialismo è un

umanismo, 1946) vengono a cadere e a dissolversi tutte quelle forme di conoscenza e

di comprensione del reale che pretendono di attingere all’universale e al necessario.

Nello stesso Heiddegger, in cui si manifesta una forte volontà di riattingere l’essere,

in realtà tutto si concentra sull’esserci (Dasein), sulle sue caratteristiche

imprescindibili di finitezza e storicità, per cui risulta impossibile parlare in senso

proprio di metafisica. Si rimane nel campo dell’antropologia filosofica.

D) Obiezioni che partono dal primato della prassi.

La cultura occidentale è stata da sempre contrassegnata dal dominio della teoria sulla

prassi. Per molti pensatori s’impone perciò l’istanza di un capovolgimento. Capofila

di questa “rivoluzione culturale” è Karl Marx, di cui ricordiamo un famoso detto: “I

filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di

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trasformarlo” (Tesi su Feuerbach, n° 11, 1845). E ne L’ideologia tedesca (1846)

scrive: “La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo

luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli

uomini…Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli

uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle

loro forze produttive.. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni

altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non

conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno

sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro

relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero

e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che

determina la coscienza” (I, A). Il criterio della prassi come criterio di verità è

chiaramente affermato nella seconda delle Tesi su Feuerbach: “Il problema se il

pensiero umano abbia una verità oggettiva non è un problema teorico, ma pratico.

Nella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza, la

concretezza del suo pensiero”. Questo è un caposaldo fondamentale di tutta la

filosofia marxista. Basti, a conferma di ciò, questa breve citazione da Lenin: “Il punto

di vista della vita, della pratica, deve essere il punto di vista primo e fondamentale

della teoria della conoscenza” (Materialismo ed empiriocriticismo, 1908).

Anche per il pragmatismo americano (Peirce, James, Dewey) il criterio della verità

consiste esclusivamente nella sua utilità in relazione alle esigenze vitali degli

individui. Il conoscere non è altro che un momento propedeutico alla “pratica

manipolativa”, il cui criterio di legittimità è l’utilità, l’efficacia. Come scrive Peirce,

“la verità di una concezione poggia esclusivamente sulle sue relazioni con la condotta

della vita” (Che cos’è il pragmatismo). La metafisica come ricerca disinteressata di

una sapienza prima ed ultima, finalizzata al solo bisogno di conoscere la verità e

priva di conseguenze pratiche immediate (non di solo pane vive l’uomo), non è una

forma di conoscenza legittima e sostenibile.

Anche in una certa parte della riflessione teologica (la etichettiamo sbrigativamente

con l’espressione teologia della liberazione) la prassi viene prima della teoria. La

filosofia, la metafisica, la stessa teologia non darebbero altro che “universi

fantomatici di occultamento della realtà” (H. Assmann). Non esiste alcuna verità

oggettiva, ontologica, che preceda la prassi: la verità della verità è la prassi. Scrive

padre E. Schillebeeckx: “La Chiesa per secoli si è occupata principalmente di

formulare delle verità, mentre non faceva quasi nulla perché si costruisse un mondo

migliore. In altre parole, si limitò all’ortodossia e si ridusse a lasciare l’ ortoprassi

nelle mani di chi era fuori della Chiesa e dei non credenti” (I cattolici olandesi,

1970). Quindi anche nella Chiesa, nella teologia, il primato spetta all’ortoprassi.

L’aiuto che può venire dalla riflessione metafisica è insignificante – se non

addirittura fuorviante . “Il terreno del non empirico è sdrucciolevole” (Paul Van

Buren), perciò meglio puntare tutto sulla presenza dei cristiani nella società, sui

processi di liberazione dalle varie dipendenze, sull’agire sociale e politico del popolo

di Dio.