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APPUNTI PER GLI ESAMI DI IDONEITA’ ALLA CLASSE QUINTA MATERIA: METODOLOGIE OPERATIVE COMUNITA’ INFANTILI Asili nido L’istituzione degli asili nido risale in Italia al 1800, quando Asili infantili ed Asili nido per lattanti rappresentavano due entità diverse. Ferrante Aporti creò il primo asilo nido a Cremona nel 1827, seguito nel 1840 da quello di Parma. Il primo asilo nido per lattanti fu istituito a Milano nel 1850. L’OMNI ( opera nazionale maternità ed infanzia )ebbe il compito di organizzare l’attività, il numero, la distribuzione nel territorio italiano degli asili nido ( bambini 0 – 3 anni), la cui gestione è passata successivamente attraverso le Regioni ai Comuni e dal 1980 alle USL. L’USL agisce tramite il suo Servizio Materno Infantile che a sua volta opera nell’asilo fornendo indirizzi al pediatra e al Comitato di Gestione, costituito da rappresentanti dei genitori, del personale, delle circoscrizioni. Il pediatra non opera da solo, ma in collaborazione con l’economo dietista ed il personale addetto alla preparazione dei pasti e in genere con tutto il personale con diverse mansioni e funzioni, oltre che con un igienista, uno psicologo, un sociologo, un neuropsichiatra infantile, un logopedista). Asili nido e comunità sociale L’asilo nido deve essere integrato nei vari servizi sociali presenti in ciascun territorio, per cui si può parlare di “gestione sociale” del nido che a sua volta rappresenta un utile strumento per aiutare i genitori a vivere il nido come un’istituzione sociale ed educativa utile. Il nido è un’istituzione attraverso la quale la stessa comunità è consapevole di poter fornire soluzioni veramente valide sul piano pedagogico e su quello socio – culturale ai problemi che tutti i genitori di oggi incontrano.

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APPUNTI PER GLI ESAMI DI IDONEITA’ ALLA CLASSE QUINTA

MATERIA: METODOLOGIE OPERATIVE

COMUNITA’ INFANTILI

Asili nido L’istituzione degli asili nido risale in Italia al 1800, quando Asili infantili ed Asili

nido per lattanti rappresentavano due entità diverse. Ferrante Aporti creò il primo

asilo nido a Cremona nel 1827, seguito nel 1840 da quello di Parma.

Il primo asilo nido per lattanti fu istituito a Milano nel 1850. L’OMNI ( opera nazionale maternità ed infanzia )ebbe il compito di organizzare l’attività, il numero, la distribuzione nel territorio italiano degli asili nido ( bambini 0 – 3 anni), la cui gestione è passata successivamente attraverso le Regioni ai Comuni e dal 1980 alle USL. L’USL agisce tramite il suo Servizio Materno Infantile che a sua volta opera nell’asilo fornendo indirizzi al pediatra e al Comitato di Gestione, costituito da rappresentanti dei genitori, del personale, delle circoscrizioni. Il pediatra non opera da solo, ma in collaborazione con l’economo dietista ed il personale addetto alla preparazione dei pasti e in genere con tutto il personale con diverse mansioni e funzioni, oltre che con un igienista, uno psicologo, un sociologo, un neuropsichiatra infantile, un logopedista).

Asili nido e comunità sociale L’asilo nido deve essere integrato nei vari servizi sociali presenti in ciascun territorio, per cui si può parlare di “gestione sociale” del nido che a sua volta rappresenta un utile strumento per aiutare i genitori a vivere il nido come un’istituzione sociale ed educativa utile. Il nido è un’istituzione attraverso la quale la stessa comunità è consapevole di poter fornire soluzioni veramente valide sul piano pedagogico e su quello socio – culturale ai problemi che tutti i genitori di oggi incontrano.

Note tecniche

L’asilo nido prevede un’accoglienza di 10 – 20 bambini ogni 1000 abitanti. Un asilo medio può accogliere, quindi, fino a 100 bambini su una superficie di 12 –15 mq per bambino, per cui il rapporto spazio-abitanti è di 300-500 mq per 1000 abitanti.

Organico del personale (es.: asilo nido di 66 bambini divisi in 4 sezioni ) 1. Lattanti ( da 0 a 11 mesi ) 2. Piccoli divezzi ( da 111 a 15-18 mesi ) 3. Medi divezzi ( da 18 a 24-26 mesi ) 4. Grandi divezzi ( da 24 a 36 mesi ) In ogni sezione operano: 2 educatrici o assistenti d’infanzia che si alternano durante la giornata 1 cuoco per tutte le sezioni 5 ausiliari per tutte le sezioni Orario settimanale: Educatori: 34 ore di didattica + 2 ore di aggiornamento = 36 ore Ausiliari = 36 ore - L’educatore segue il bambino sul piano sociale, igienico mentale, analizzando le

diverse fasi evolutivo con l’aiuto del pediatra e l’assistente sociale. Tutto questo in continuo rapporto con la famiglia

- La figura della coordinatrice fa in modo che ci sia una certa uniformità dei processi educativi-pedagogici nei vari asili.

- Il personale ausiliario provvede alla pulizia del locali e alla loro asetticità - Il cuoco collabora con la famiglia nel preparare i menù per i grandi divezzi

affinchè il fabbisogno giornaliero alimentare – calorico si integri con il pasto che il bambino fa a casa.

Scuola Materna

Il regolamento generale del 1928 attribuiva alla scuola materna, il carattere di “grado preparatorio” dell’istruzione obbligatoria. In realtà il carattere prevalente era quello assistenziale per ragioni sociali. Confluendo bambini dalle zone urbane dove l’industrializzazione aveva portato il lavoro femminile, il servizio era un servizio educativo. Erano però in pieno sviluppo quelle esperienze pedagogiche che hanno fondato la pedagogia dell’infanzia, che solo agli inizi degli anni 70 diventerà realtà. Si ispirano al modello Agazziano ed a quello Montessoriano espressi rispettivamente dalla scuola materna (vedi sorelle Agazzi) e dalle case dei bambini ( vedi Montessori). L’anno 1968 è un anno di svolta. Si istituisce la scuola materna statale e si dà il via ad una razionale programmazione per lo sviluppo della rete per i servizi prescolastici statali. Con la legge 463 del 1978 viene creato il doppio organico per sezione. Si ottiene così un funzionamento di 8 ore giornaliere e l’eliminazione della figura dell’assistente.

Scuola materna e comunità

I due termini si compenetrano e interagiscono. La scuola materna per il suo clima, per il suo particolare stile, offre le condizioni necessarie per la vita e lo sviluppo del bambino. Essa va considerata nella molteplicità delle sue componenti: - di natura umana: bambini, insegnanti, genitori, coordinatori, inservienti, cuochi - di natura strutturale: l’edificio con gli spazi interni ed esterni, le attrezzature, il

materiale didattico - di natura funzionale: orari di apertura, calendario, turni degli insegnanti, menù,

trasporto ecc.; - di natura qualitativa: Indirizzi educativi, linee metodologiche, iniziative ed attività

di vario genere. Anche la comunità presenta una varietà di componenti: - di natura umana : i genitori, i cittadini, le forze sociali, i responsabili della vita

pubblica ecc. - di natura strutturale: servizi ed impianti pubblici, centri di ritrovo, spazi ed

attrezzature a disposizione dei bambini - di natura qualitativa: tradizioni e folklore locale, cultura , costume. Comunità, scuola, bambino vanno considerati nella loro interazione senza però confondere i ruoli; i primi due termini sono fattori di sviluppo e di orientamento umano, il bambino invece è il soggetto dell’educazione. Come persona va considerato nella sua natura di emotività, di fantasia, di curiosità, di affettività, di legame con gli altri. Come realtà poliedrica va considerato nella varietà delle sue dimensioni fisiche, emotive, sociali, intellettuali ecc. che devono crescere ed armonizzarsi. Come protagonista della sua vita e della sua stessa educazione va considerato nella sua dinamica artistica, nella sua originalità peculiare, in un processo continuo di crescita.

LA DISABILITA’

La disabilità è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale.

Il mondo della disabilità negli ultimi quarant'anni ha vissuto profonde trasformazioni e, a partire dagli anni '70, ha preso corpo un'azione di rinnovamento dei servizi e degli interventi a favore del disabile. Questa fase di mutamenti coincide con l'inizio di un progressivo decentramento delle competenze, che dallo Stato sono passate alle Regioni. Tanto che il cosiddetto processo d'inserimento dei portatori di handicap, oggetto delle politiche sociali di quegli anni è andato via via affinandosi, sino a diventare, oggi, un processo d'integrazione. In oltre, tra i due termini inclusione sociale ed integrazione sociale va fatta un'importante distinzione:l’inclusione sociale può essere definita come la situazione in cui in riferimento ad una serie di aspetti multidimensionali, che permettono agli individui di vivere secondo i propri valori, le proprie scelte, di migliorare le proprie condizioni e rendono le disparità tra le persone e i gruppi socialmente accettabili.

Con il termine integrazione sociale, si intende, invece, qualcosa di più profondo, come l’inserimento delle diverse identità in un unico contesto all’interno del quale non sia presente alcuna discriminazione. L’integrazione è intesa come il processo attraverso il quale il sistema acquista e soprattutto conserva un’unità strutturale e funzionale, quindi va concepita in termini di mantenimento dell’equilibrio interno del sistema attraverso processi di cooperazione sociale e di coordinamento tra i ruoli e le istituzioni. Quello di disabilità non è un concetto universale, ma molto spesso la sua definizione è legata al ricercatore e/o al tipo di ricerca che si sta effettuando. Non esiste attualmente, a livello internazionale, un'univoca definizione del termine, anche se il concetto di disabilità è stato dibattuto in occasione della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, redigendo un documento finale approvato dall'Assemblea generale il 25 agosto 2006.

La classificazione ICIDH

La classificazione ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps) del 1980 dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) distingueva tra:

• Menomazione intesa come perdita o anormalità a carico di una struttura o una funzione psicologica, fisiologica o anatomica e rappresenta l'estensione di uno stato patologico. Se tale disfunzione è congenita si parla di minorazione;

• disabilità, ovvero qualsiasi limitazione della capacità di agire, naturale conseguenza ad uno stato di minorazione/menomazione;

• handicap, svantaggio vissuto da una persona a seguito di disabilità o minorazione/menomazione.

Questo significa che mentre la disabilità viene intesa come lo svantaggio che la persona presenta a livello personale, l'handicap rappresenta lo svantaggio sociale della persona con disabilità.

L'ICIDH prevede la sequenza: Menomazione--->Disabilità--->Handicap, che, tuttavia, non è automatica, in quanto l'handicap può essere diretta conseguenza di una menomazione, senza la mediazione dello stato di disabilità. Le origini della parola “handicap” risalgono a descrivere una condizione di svantaggio fisico; questa parola descrive 2 dati di fatto che, dall’inglese possono fare scaturire un’immagine precisa di ciò che vuole descrivere. Scomponendo questa parola, si denota un significato che molti non sanno, perché è sempre stato dato per scontato il concetto vero e proprio di: "handicap". La parola handicap racchiude 2 parole: "hand" e "cap". Dall'inglese "hand" significa mano e "cap" significa cappello. Traducendo la parola intera, si deduce la seguente descrizione: “mano nel cappello”. Si parla di handicap per descrivere uno svantaggio fisico, senza tenere in considerazione la condizione che si crea, quando viene detta questa parola, che può manifestare nel disabile un senso di disagio e rabbia per la sua situazione. Per descrivere la situazione di una persona disabile molto spesso la tv usa il termine "handicap", senza contare a chi è disabile, la situazione di imbarazzo che si crea in lui.

Lo schema è il seguente:

Menomazione

1. Intellettive 2. Psicologiche 3. Linguistiche 4. Auricolari 5. Oculari 6. Viscerali 7. Scheletriche 8. Deturpanti 9. Sensoriali e altro

Disabilità

1. Disabilità comportamentale

2. Comunicativa 3. Nella cura personale 4. Disabilità locomotoria 5. Assetto corporeo 6. Destrezza 7. Circostanziale 8. In attitudini particolari 9. Altre limitazioni

Handicap

1. Orientamento 2. Indipendenza fisica 3. Mobilità 4. Occupazionale 5. Integrazione sociale 6. Autosufficienza

economica 7. Altri tipi di handicap

Tale classificazione negli anni ha mostrato una serie di limitazioni.

• Non considera che la disabilità è un concetto dinamico, in quanto può anche essere solo temporanea.

• È difficile stabilire un livello oltre il quale una persona può considerarsi disabile.

• La sequenza può essere interrotta, nel senso che una persona può essere menomata senza essere disabile.

• Nell'ICIDH si considerano solo i fattori patologici, mentre un ruolo determinante nella limitazione o facilitazione dell'autonomia del soggetto è giocato da quelli ambientali.

Negli anni 90, l'OMS ha commissionato a un gruppo di esperti di riformulare la classificazione tenendo conto di questi concetti. La nuova classificazione, detta ICF (International Classification of Functioning) o Classificazione dello stato di salute, definisce lo stato di salute delle persone piuttosto che le limitazioni, dichiarando che l'individuo "sano" si identifica come "individuo in stato di benessere psicofisico" ribaltando, di fatto la concezione di stato di salute. Introduce inoltre una classificazione dei fattori ambientali.

Il nuovo standard ICF

Il concetto di disabilità cambia e secondo la nuova classificazione (approvata da quasi tutte le nazioni afferenti all'ONU) e diventa un termine ombrello che identifica le difficoltà di funzionamento della persona sia a livello personale che nella partecipazione sociale. In questa classificazione i fattori biomedici e patologici non sono gli unici presi in considerazione, ma si considera anche l'interazione sociale: l'approccio, così, diventa multiprospettico: biologico, personale, sociale. La stessa terminologia usata è indice di questo cambiamento di prospettiva, in quanto ai termini di menomazione, disabilità ed handicap (che attestavano un approccio essenzialmente medicalista) si sostituiscono i termini di Strutture Corporee, Attività e Partecipazione. Di fatto lo standard diventa più complesso, in quanto si considerano anche i fattori sociali, e non più solo quelli organici.

LE DIVERSE TIPOLOGIE DI DIVERSITA’ Prima di esaminare nel dettaglio caratteristiche ed esigenze di ogni tipologia di persone con disabilità, è necessario tenere ben presente che due persone, che presentano le stesse caratteristiche di disabilità, possono avere possibilità molto diverse di compensare le proprie esigenze. Le diverse tipologie di disabilità possono essere così suddivise:

- Disabilità fisiche - Disabilità sensoriali - Disabilità mentali e psichiche - Altre forme di disabilità

Disabilità fisiche La disabilità fisica più comune è la ridotta mobilità. L’inabilità può essere temporanea o permanente, a seconda delle cause all’origine e del maggiore o minore livello di gravità. Le esigenze delle persone con disabilità motoria che sono in grado di camminare, lentamente o con difficoltà, riguardano, ad esempio: 1) poter seguire i propri tempi/ritmi

2) aver aiuto per superare gradini, dislivelli 3) evitare superfici troppo lisce e sdrucciolevoli 4) avere sostegni cui appoggiarsi lungo i percorsi 5) avere luoghi di sosta o di seduta lungo i percorsi

Le persone su sedia a ruote possono avere diversi gradi di autonomia ed esigenze. In alcune situazioni, la persona non è in grado di stare in piedi, mentre in altre può farlo per un tempo limitato e può compiere pochi passi. Alcuni fanno uso della sedia a ruote per una parte della giornata, altri permanentemente. Alcune persone possono avere una notevole forza negli arti superiori e possono muoversi e compiere molte azioni senza alcun aiuto, mentre altre possono presentare un grado di autonomia inferiore e hanno bisogno di un accompagnatore. Le esigenze delle persone con disabilità motoria che utilizzano la sedia a ruote, riguardano, ad esempio: a) assenza di ostacoli alla loro circolazione (gradini, dislivelli, strettoie, etc.) b) spazi di manovra sufficienti (larghezza porte, ampiezza ambienti, profondità) c) possibilità di superare dislivelli (rampe di pendenza adeguata, ascensori in cui poter entrare ed uscire, altri mezzi di sollevamento – montascale, servoscala, etc.) d) possibilità di utilizzare i servizi offerti (altezza banchi informazione, altezza pulsantiera ascensori, etc.) Disabilità sensoriali

Limitazioni visive Solo una ridotta percentuale delle persone con limitazioni visive è del tutto non vedente. Le tre maggiori difficoltà che le persone con limitazioni visive incontrano sono: la mobilità, l’orientamento e la comunicazione. Le persone con limitazioni visive gravi normalmente apprendono il Braille, anche se questo sistema di comunicazione è ben conosciuto solo dal 10/15% delle persone non vedenti. Le persone del tutto non vedenti possono utilizzare il bastone bianco o il cane-guida. Le esigenze delle persone con limitazioni visive riguardano, ad esempio:

1) presenza di illuminazione adeguata e di colori contrastanti (se ipovedenti) per facilitare l’orientamento. 2) materiale informativo a macrocaratteri e di carta opaca o in braille. 3) indicatori tattili o in braille (pulsanti ascensori, percorsi, etc.), mappe tattili che descrivono la planimetria della struttura. 4) indicatori e guide vocali. 5) contatto fisico con l’interlocutore. 6) spiegazioni chiare e dettagliate, con precisi riferimenti spaziali.

Limitazioni uditive La conseguenza più grave di una limitazione uditiva, che si sviluppa in giovane età, è il ritardo allo sviluppo del parlare e dell’uso del linguaggio. Molte persone con limitazioni uditive possono avere anche delle difficoltà a comprendere ed a controllare la parola. Una delle maggiori conseguenze per le persone con limitazioni

uditive è l’isolamento in relazione al mondo circostante. In alcuni casi, le persone con limitazioni uditive imparano la lettura labiale, che permette loro di comprendere il linguaggio parlato attraverso la lettura dei movimenti delle labbra del loro interlocutore. Le esigenze delle persone con limitazioni uditive riguardano, ad esempio:

1) informazioni ed indicazioni precise, dettagliate in forma scritta. 2) contatto visuale con il proprio interlocutore in condizioni di illuminazione ottimali (se il viso di chi le sta parlando è in ombra la persona non potrà leggere le labbra). 3) possibilità di disporre di ausili specifici che facilitano la comunicazione (DTS, computers, ecc.).

Persone sordocieche Se la limitazione visiva e uditiva sono combinate comportano problemi per lo svolgimento delle attività quotidiane, le relazioni sociali e l’accesso alle informazioni. Alcune persone sono totalmente sorde e cieche, altre hanno capacità visive ed uditive residue. Di conseguenza il senso tattile e il contatto fisico sono i più importanti mezzi di comunicazione. Su questa base sono stati elaborati dei linguaggi che si basano sull’uso delle mani. Le persone sordocieche, pur avendo in alcuni casi una buona autonomia, dipendono spesso dagli altri per l’accesso alle informazioni, la comunicazione e la mobilità. Usualmente si spostano con un proprio accompagnatore. Disabilità mentali e psichiche Riguardo alle esigenze delle persone con disabilità mentali e psichiche, verificare la preparazione all’accoglienza di questo tipo di cliente presso i fornitori di servizi (in particolare, per quanto riguarda la gestione dei rapporti e l’integrazione). Altre tipologie di disabilità Persone con problemi di orientamento e di comunicazione Alcune persone hanno difficoltà nelle modalità di comunicazione, sia nella fase di comprensione del linguaggio che di espressione. A seconda delle cause, a tali manifestazioni si possono associare problemi di orientamento, limitazioni motorie, affaticamento, rallentamento delle reazioni. Queste persone hanno bisogno di tempi più lunghi per compiere le ordinarie operazioni. Quando la disabilità diviene l’identità principale dell’individuo nel contesto umano in cui egli vive, lavora e cerca di divertirsi, allora la diversa abilità diviene handicap, cioè ostacolo frapposto dalla società alla libera fruizione della realtà e alla creativa espressione del percepito.

MORBO DI ALZHEIMER

Il morbo di Alzheimer è una demenza progressiva invalidante più frequente nel

soggetto anziano ma che può manifestarsi anche prima dei cinquant'anni.

Prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer.

La malattia o morbo di Alzheimer è oggi definito come quel «processo degenerativo

che distrugge progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco

l'individuo che ne è affetto incapace di una vita normale». In Italia ne soffrono circa

800 mila persone, nel mondo 26,6 milioni secondo uno studio della Johns Hopkins

Bloomberg School of Public Health di Baltimora, Usa, con una netta prevalenza di

donne. Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le

demenze essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le

demenze quella di Alzheimer è la più comune rappresentando, a seconda della

casistica l' 80-85% di tutti i casi di demenza. Le persone affette iniziano con deficit

di memoria quotidiana, dimenticandosi piccole cose, poi mano a mano il deficit

aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica

retrograda. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una decina di anni dopo

la diagnosi conclamata di malattia. Col progredire della malattia le persone non solo

presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali

mediate dalla corteccia associativa e possono pertanto presentare afasia, aprassia, fino

a presentare disturbi neurologici e poi internistici. Pertanto i pazienti necessitano di

continua assistenza personale. La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di

neuroni, causata principalmente dalla betamiloide, una proteina che depositandosi tra

i neuroni agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli

"neurofibrillari". La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina

nel cervello, sostanza fondamentale per la memoria ma anche per le altre facoltà

intellettive. La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l'impossibilità per il

neurone di trasmettere gli impulsi nervosi e quindi la morte.

Storia

Nel 1901, il dottor Alois Alzheimer, uno psichiatra tedesco, intervistò una sua

paziente, la signora Auguste D., di 51 anni. Le mostrò parecchi oggetti e

successivamente le chiese che cosa le era stato indicato. Lei non poteva però

ricordarsi. Inizialmente registrò il suo comportamento come "disordine da amnesia di

scrittura", ma la signor Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata la

malattia di Alzheimer.

Patogenesi

Dall'analisi post-mortem di tessuti cerebrali di pazienti affetti da Alzheimer, si è

potuto riscontrare un accumulo extracellulare di una proteina, chiamata Beta-

amiloide. Nei soggetti sani la beta-amiloide viene prodotta dalla APP (proteina

progenitrice dell'amiloide) in una reazione biologica catalizzata dall'alfa-secretasi che

produce una beta-amiloide costituita da 40 amminoacidi. Per motivi non totalmente

chiariti, nei soggetti malati l'enzima che interviene sull' APP non è l'alfa-secretasi ma

una sua variante, la beta-secretasi, che porta alla produzione di una beta-amiloide

anomala, costituita da 42 amminoacidi invece che 40. Tale beta amiloide non

presenta le caratteristiche biologiche della forma naturale, e tende a depositarsi in

aggregati extracellulari sulla membrana dei neuroni. Tali placche neuronali innescano

un processo infiammatorio che richiama macrofagi e neutrofili i quali produrranno

citochine, interleuchine e TNF alfa che danneggiano irreversibilmente i neuroni.

Ulteriori studi mettono in evidenza che nei malati di Alzheimer interviene un

ulteriore meccanismo patologico: all'interno dei neuroni, una proteina tau, fosforilata

in maniera anomala, si accumula in aggregati neurofibrillari o ammassi

neurofibrillari. I neuroni particolarmente colpiti dal processo patologico sono quelli

colinergici, ed in particolare le zone cerebrali più interessate sono le aree corticali,

sottocorticali e, tra queste ultime, le aree ippocampali. In particolare l'Ippocampo

interviene nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione; la distruzione dei

neuroni di queste zone è quindi la causa della perdita di memoria dei malati.

Terapia

Anche se al momento non esiste una terapia che permetta di curare l'Alzheimer, sono

state proposte diverse strategie terapeutiche per provare a gestire clinicamente il

morbo di Alzheimer; strategie, che puntano a modulare farmacologicamente diversi

dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. In primo luogo, basandosi sul fatto

che nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, l'idea è stata quella di

provare a ripristinarne i livelli fisiologici.

Un approccio alternativo alla patologia potrebbe essere l'uso di FANS (anti-

infiammatori non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una componente

infiammatoria che distrugge i neuroni. L'uso di antiinfiammatori potrebbe quindi

migliorare la condizione dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-

menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia,

facendo così presupporre un'azione protettiva degli estrogeni. I ricercatori hanno

messo in evidenza anche l'azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che

sembra prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal

processo infiammatorio. Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l'

eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acidi Glutammico ed Aspartico,

entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero

intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti

del glutammato e dell'aspartato, ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti

collaterali. Al momento sono presenti in commercio farmaci definiti Nootropi

("stimolanti del pensiero"), come il Piracetam e l'Aniracetam: questi farmaci

aumentano il rilascio di Acido Glutammico; anche se questo parrebbe in netta

contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale

neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di

apprendimento. Aumentandone la quantità, si migliora quindi la qualità della vita dei

pazienti. Ultimo approccio ipotizzato: l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina

(sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una

migliore ossigenazione cerebrale ed un conseguente miglioramento delle

performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko

biloba. Negli Stati Uniti è in sperimentazione anche una terapia genica, che prova ad

utilizzare l'ormone della crescita per la cura dell'Alzheimer. Le forme di trattamento

non-farmacologico consistono prevalentemente in misure comportamentali, di

supporto psicosociale e di training cognitivo. Tali misure sono solitamente integrate

in maniera complementare con il trattamento farmacologico. La cura dell'Alzheimer è

però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci che guariscano o

blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e

provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali.

Servizi per le tossicodipendenze (ed. SERT), Servizi per le tossicodipendenze (ed. SERT), già istituiti o da istituire a cura delle AUSL sono articolati in moduli organizzativi nel rispetto della disciplina contrattuale prevista per il personale del S.S.N e conformemente alle determinazioni delle Regioni e delle province autonome.

Le AUSL assicurano altresì il coordinamento stabile dei SERT con i consultori familiari, con le strutture per l'AIDS e per le patologie infettive, con i servizi medico-legali, con i laboratori di analisi di riferimento, anche convenzionati con gli altri SERT eventualmente istituiti nonché, ove esistenti, con altri servizi sanitari e sociali che comunque svolgono attività nel settore delle tossicodipendenze.

I SERT, in pratica, costituiscono le strutture di riferimento delle AUSL per i tossicodipendenti e per le loro famiglie e garantiscono agli interessati la riser- vatezza degli interventi e, ove richiesto, l'anonimato. I SERT devono assicurare in ogni caso la disponibilità dei principali trattamenti di carattere psicologico, socio-riabilitativo e medico-farmacologico. I relativi interventi nonché quelli di carattere preventivo, quando obiettive circostanze lo rendano opportuno, sono effettuati domiciliarmente o in altre idonee strutture. Tali organismi — fatte salve le ulteriori funzioni loro eventualmente attribuite dalle Regioni — provvedono a:

- attuare interventi di primo sostegno ed orientamento per i tossicodipendenti e le loro famiglie;

- attuare interventi di informazione e prevenzione particolarmente nei confronti delle fasce giovanili di popolazione;

- accertare lo stato di salute psicofisica del soggetto anche con riferimento alle condizioni sociali;

- certificare lo stato di tossicodipendenza ove richiesto dagli interessati o per le finalità previste dalla legge;

- definire i programmi terapeutici individuali compresi gli intereventi socio-riabilitativi;

- realizzare direttamente o in convenzione con le strutture di recupero sociale il programma terapeutico e socio-riabilitativo;

- attuare gli interventi di prevenzione della diffusione delle infezioni da HIV e delle altre patologie correlate alla tossicodipendenza, sia nei confronti dei soggetti in trattamento presso i SERT che nei confronti di quelli in trattamento presso le strutture convenzionate e presso altre strutture di riabilitazione;

- valutare periodicamente l'andamento e i risultati del trattamento e dei programmi di intervento sui singoli tossicodipendenti in riferimento agli aspetti di carattere clinico, psicologico, sociale, nonché in termini di cessazione di assunzione di so-stanze stupefacenti;

- rilevare i dati statistici ���ed epidemiologici relativi alla propria attività e al territorio di ���competenza.

Infine, avvalendosi anche delle strutture di recupero sociale, i SERT attuano pe-riodicamente sui tossicodipendenti in trattamento i seguenti interventi alla prevenzione delle infezioni da HIV e delle altre patologie correlate alla tos-sicodipendenza:

—individuazione dei comportamenti a rischio;

—informazione ed educazione sanitaria;

—visite mediche e interventi diagnostici;

—test di laboratorio per l'HIV, previo consenso, e con relativo supporto psicologico;

—test di gravidanza, previo consenso, e con gli adeguati interventi di consulenza.

LA METODOLOGIA DEL GIOCO

LE CARATTERISTICHE E LE REGOLE DEL GIOCO Le caratteristiche fondamentali delle attività di gioco sono: a) la spontaneità, cioè la mancanza di programmazione dettagliata del processo da svolgere; b) l’interesse, cioè la curiosità e l’impegno creato da una motivazione interiore; c) l’animazione, cioè la personalizzazione del gioco nel rispetto degli elementi più importanti e significativi; d) l’improvvisazione, cioè il seguire le esigenze momentanee, nate durante lo svolgimento del gioco, che consentono di scoprire e di inventare nuove regole. L’analisi delle caratteristiche del gioco consente un confronto con le caratteristiche del lavoro: a) mentre il gioco è un’attività spontanea, il lavoro è un’attività programmata per raggiungere un obiettivo prefissato. Il gioco è un piacere, il lavoro un dovere; b) mentre il gioco si basa su una motivazione interiore, il lavoro si basa su un riconoscimento sociale ed economico. Mentre il gioco si attua secondo un crescita personale, il lavoro si attua per realizzare capacità e competenze specifiche; c) gli avvenimenti più importanti mentre nel gioco avvengono durante l’esperienza stessa, nel lavoro avvengono nel raggiungimento del risultato finale; d) il gioco stimola alla ricerca, alla scoperta e alla sperimentazione creative; il lavoro privilegia il conseguimento di attività già consolidate e verificate. Queste considerazioni portano a concludere che le attività di gioco si attuano in situazioni armoniche, naturali e divertenti, mentre le attività di lavoro si attuano in situazioni programmate, artificiali e senza coinvolgimento emotivo. Le attività di gioco risultano quindi importanti: 1) in situazioni di apprendimento spontaneo, 2) oppure, al contrario, per rendere dinamici e motivanti gli ambienti educativi, strutturati scientificamente (ad esempio: insegnamenti scolastici, competizioni sportive, ecc..). Da quanto esposto si può dedurre che le regole fondamentali del gioco sono: a) la motivazione interiore, cioè le esigenze, gli interessi e le aspettative personali e momentanee; b) la personalizzazione, cioè la strutturazione del gioco secondo lo specifico ambiente, la quantità e le capacità dei partecipanti, le dinamiche emotivo-sociali; c) la costruttività evolutiva degli apprendimenti, cioè l’acquisizione di semplici abilità per una progressiva strutturazione e acquisizione di capacità sempre più complesse e complete; d) la creatività, cioè la libera espressione di ipotesi e di progetti che partono dalla realtà, per interagire e trasformare la realtà stessa.

IL CONCETTO DI COMPORTAMENTO COLLETTIVO

L’esistenza di ogni uomo è sempre il frutto di una relazione con l’ambiente che lo circonda e in particolar modo l’ambiente sociale in cui è inserito. L’indagine e la spiegazione del comportamento di un individuo, della sua personalità, delle sue idee passa necessariamente dal contesto sociale in cui ha vissuto e in cui è inserito. Gli individui con cui viene in rapporto influenzano e, a volte, condizionano pesantemente il suo agire e le sue idee sugli altri e sul mondo; questo, peraltro, può avvenire in tenerissima età, allorquando, a partire dai primi vagiti, si instaurano rapporti che innescano infinite variabili che risulteranno essere determinanti per la formazione della personalità futura. L’immenso lavoro degli psicologi dello sviluppo, che ha permesso nei decenni di conoscere degli aspetti infinitesimali dell’interazione bambino-mondo esterno, non ha evaso ad oggi la gran quantità di domande e di dubbi che la scienza si pone di fronte a comportamenti tanto affascinanti quanto complessi. È proprio l’impossibilità di controllare l’insieme delle variabili in gioco durante una semplice interazione madre-bambino che porta alla creazione di questo baratro gnoseologico che non consente di dire la parola fine all’esigenza di approfondimento e alla naturale spinta epistemologica presente in ognuno di noi. La psicologia sociale riconosce la natura sociale dell’uomo e si sforza di spiegare il comportamento e i processi psicologici degli individui ancorandoli a relazioni e posizioni che si originano all’interno delle organizzazioni e delle strutture sociali in genere. Lo psicologo che studia l’individuo e i gruppi tende ad elaborare modelli teorici con la finalità di spiegare la fenomenologia dei comportamenti che il soggetto emette in presenza di altri. Naturalmente, per far questo, il ricercatore si avventura nel sapere facendo leva sull’esame dei modelli teorici preesistenti e cercando di supportare il suo agire tecnico con strumenti e strategie di ricerca di comprovata efficacia che garantiscono validità ad ogni sua scoperta. Come si muove in senso scientifico lo psicologo sociale? Intanto occorre precisare che la scienza che noi accettiamo fa riferimento semplicemente all’uso metodico e sistematico del metodo sperimentale e si sostanzia essenzialmente in una serie di passi che conducono il ricercatore a verificare, attraverso l’uso di svariate procedure e strumentazioni, se delle ipotesi formulate su un determinato fenomeno sono vere o fallaci. Il criterio di demarcazione è costituito dalla ripetitività che ricalca il principio di falsificazione di Popper (1957). Cogliere le relazioni causali tra specifici fenomeni e sistematizzarle in una serie di enunciati conduce alla nascita di una disciplina scientifica. Ogni disciplina definisce la propria materia di studio e di conseguenza la natura dei dati di interesse per le ricerche, ma il procedimento rimane pressoché invariato per qualsiasi disciplina. Dunque anche nell’ambito della psicologia sociale è possibile utilizzare le medesime tecniche di studio scientifico delle varie fenomenologie rilevate nelle fasi di esplorazione e formulazione di ipotesi. La metodologia di ricerca, in generale, seguirà un modus operandi diverso; pensiamo, ad esempio, allo studio di una dinamica presente all’interno di un gruppo, qui sicuramente non sarà facile il controllo delle

variabili che entrano in campo, ma generazioni di studiosi hanno ampiamente dimostrato che anche nella psicologia sociale è possibile formulare teorie fondate epistemologicamente.

La folla è un tipico comportamento collettivo in cui le persone possono essere influenzate da altre persone e dalla società; non si può addivenire ad una sua definizione precisa, ma si possono certamente tracciare le direttrici lungo le quali è possibile identificare delle caratteristiche specifiche:

o ha solitamente un’esistenza breve;

o gli individui che la compongono si trovano in rapporto di stretta prossimità;

o è priva di un’organizzazione e di una struttura; o le interazioni al suo interno sono di tipo spontaneo. Va precisato che la folla, deve, a ragione essere considerata una tipologia di gruppo, dal momento che al suo interno sono rinvenibili le medesime fenomenologie del gruppo, che analizzeremo nei paragrafi successivi, anche se ad un livello di funzionamento qualitativamente diverso. Norme, ruoli e status si presentano in modo più indefinito rispetto ad un gruppo, formale o informale che sia, all’interno del quale confluiscono dinamiche registrabili che presentano caratteristiche stabili e relativamente costanti.

Blumer H. (1957) operò una distinzione tra diverse forme di folla iniziando dalla più semplice modalità di aggregazione che chiamò, “folla casuale”. Si tratta di un insieme di individui che non sentono alcun sentimento di unione con gli altri, ma che ne condividono momenti interattivi e di organizzazione rispetto ad un fine semplice o banale; un esempio tipico è quello di un gruppo di persone che attende alla fermata di un tram. L’autore annovera, inoltre, la “folla convenzionalizzata”, dove i presenti sentono il dettame di una tradizione che ha stabilito modalità interattive e di partecipazione; gli spettatori di una partita di calcio possono considerarsi un valido esempio di questo tipo di folla. Blumer, tuttavia, fu attratto da un tipo di folla che ebbe a definire “folla attiva”, questa, rispetto alle altre, possiede la caratteristica di avere uno scopo e di orientare l’azione nella direzione di questo. L’autore ha identificato le fasi in cui si articola il processo di “folla attiva” e che porta l’individuo a subirne gli effetti:

1. Evento eccitante che attira l’attenzione. Dapprima vi è il verificarsi di un evento eccitante che polarizza l’attenzione degli individui presenti. Lo scompiglio emotivo che ne sussegue ingenera la perdita del controllo e la predisposizione del passaggio all’azione.

2. Assiepamento. Le persone in contiguità spaziale indulgono in condotte con persone sconosciute che in altre circostanze non riuscirebbero a ripetere; il particolare stato emotivo 3. Affievolendo i freni inibitori provoca un inteso scambio di opinioni e soprattutto di emozioni che continuano ad accrescere il generale stato di eccitazione. In tale condizione. ognuno diviene sensibile e recettivo ai sentimenti degli altri. 4. L’emergere di un obiettivo comune. Lo scopo, un oggetto di comune attenzione fanno capolino e attraendo l’attenzione e l’interesse di tutti orientano l’azione; può trattarsi dell’originario evento eccitante o di una nuova situazione creatasi dopo le prime fasi.

5. Azione aggressiva verso l’obiettivo. La coesione generatasi nelle fasi precedenti conduce al compimento dell’azione animata dal comune proposito; qui è possibile assistere all’emergere di un capo che guida la folla verso lo scopo, che non è detto debba degenerare necessariamente in atto aggressivo vero e proprio, ma può rivelare solo una fermezza e un vigore per la perorazione di una causa. Dall’analisi di Blumer è possibile ricavare il carattere prettamente irrazionale della folla, la sua scarsa organizzazione, l’assenza di strutture di ruolo, norme e, infine, lo stato di suggestionabilità che comporta la perdita della normale capacità di analisi e di elaborazione dell’informazione che si riscontra nei componenti.

L’ETA’ ANZIANA

L’invecchiamento è un fenomeno che non può essere collegato solamente all’avanzare dell’età, poiché i fattori che lo determinano sono molteplici e di diverso ordine: psicologici, fisici e sociali, diventa quindi necessario analizzare il fenomeno caso per caso. I momenti più significativi in questo senso sono: L’accesso alla pensione, che può essere vissuto come senso di libertà o di vuoto a seconda della capacità di utilizzare il tempo a disposizione. Il decadimento psico-fisico, che determina la capacità di vivere in modo autosufficiente. La percezione relativa al sentirsi anziani, che non coincide con il superamento di una soglia anagrafica quanto piuttosto con l’entrare in istituzioni o essere debilitato fisicamente. L’autopercezione della qualità della vita, che dipende dal ruolo dell’affettività e del riconoscimento del valore dell’anziano all’interno del nucleo sociale in cui vive, il timore più grande per l’anziano è il rifiuto e l’abbandono da parte del suo nucleo familiare. Le modificazioni nello stato civile, come la sistemazione abitativa, il grado di istruzione e l’attività lavorativa che costituiscono componenti essenziali nel campo dell’invecchiamento. Cambiamenti fisici I primi cambiamenti significativi nell’efficienza fisica si riscontrano già nell’età adulta nella quale sono però più efficacemente compensati, i cambiamenti fisici che maggiormente interessano sono quelli da cui può derivare a lungo andare una situazione di disabilità. Apparato sensoriale: gli organi di senso risentono già nell’età adulta di deficit funzionali che si acuiscono con il progredire dell’età, l’utilizzo degli occhiali compensa abbastanza bene la presbiopia, per quanto riguarda la cataratta invece è necessaria la sostituzione del cristallino. Anche l’udito perde la parte della capacità funzionale soprattutto nella capacità di udire i suoni dalla frequenza molto bassa o molto alta. Quando la perdita dell’udito diviene consistente vi possono essere difficoltà nella comunicazione verbale, la discriminazione delle parole può essere confusa, l’anziano tende a parlare a voce alta, a fissare l’interlocutore per integrare il riconoscimento delle parole con la lettura delle labbra. Anche per quanto riguarda il gusto e l’olfatto la quantità di stimolazione deve essere superiore per poter essere recepita. Apparati cardiovascolare e respiratorio: le pareti vascolari sono meno elastiche e si verifica una diminuzione della portata cardiaca, vi sono frequenti sclerosi valvolari. L’apparato respiratorio ha un’efficienza ridotta e per questo si verifica una minor ossigenazione e ventilazione polmonare durante lo sforzo. Sistema muscolo scheletrico: le articolazioni si irrigidiscono a causa dell’osteoartrosi e con molta frequenza, soprattutto nelle donne, si verifica una riduzione della mineralizzazione ossea (osteoporosi). L’insieme dei fattori legati agli apparati cardio respiratorio e muscolo scheletrico possono agire sinergicamente, ad esempio un anziano con problemi articolari riduce la mobilità perché questa gli provoca dolori, la mancanza di esercizio fisico riduce l’ossigenazione del sangue e da un punto di vista psicologico l’inattività lo fa sentire malato. Sistema nervoso: è il sistema di controllo dell’intero corpo e le sue alterazioni non solo si manifestano sulla motricità, sull’efficienza corporea, ma soprattutto hanno dei risvolti importanti sul piano del comportamento, della capacità di elaborazione del pensiero.

Il numero dei neuroni si riduce progressivamente già dalla giovinezza, ma le conseguenze di questo fenomeno sono rilevabili solo nell’età anziana, dato l’elevatissimo numero di neuroni presenti, anche la perdita di densità dendritica è evidente e ciò comporta una diminuzione dei tempi di reazione. Cambiamenti cognitivi. L’attenzione: gli anziani dimostrano serie difficoltà nel momento in cui si devono affrontare compiti di attenzione distribuita (esempio prestare contemporaneamente attenzione a due diverse conversazioni), le ridotte capacità di attenzione influenzano negativamente prestazioni cognitive relative alla percezione, memoria, e alle elaborazioni che richiedono tali capacità. La percezione: presuppone la contemporanea attivazione degli organi di senso e di processi di elaborazione. La vecchiaia è caratterizzata da difficoltà sensoriali che influenzano la capacità di ricevere stimolazioni dall’esterno. La memoria: fra i dati più accettati vi è il riconoscimento che con l’aumentare dell’età vi è una modificazione della capacità di memoria, anche la capacità di rievocazione risente dell’età, vi è una maggior difficoltà nel consolidamento e quindi nel recupero di informazioni recenti, mentre le informazioni che riguardano il passato vengono facilmente riportate alla mente. Il pensiero e l‘intelligenza: l’ipotesi è quella di un massimo di intelligenza nel periodo adolescenziale, in relazione alla maturazione completa e allo sviluppo del substrato biologico cerebrale. Gli anziani hanno anche delle strategie cognitive diverse, che consentono loro di padroneggiare certe situazioni, (in cui conta l’esperienza) in modo più efficiente di un giovane. A livello di elaborazione del pensiero non si verificano differenze significative nel caso di elaborazione di conoscenze che sono già state immagazzinate e con cui si è avuto esperienza nel corso della vita, aspetti del pensiero collegati ad una intelligenza cristallizzata e che in età anziana rimane stabile, decresce invece la capacità di risolvere problemi logici, ragionare in termini astratti ecc.. aspetti che si fanno risalire all’intelligenza fluida, l’intelligenza cristallizzata rimane sostanzialmente stabile nel tempo perché è collegata ad aspetti socio-culturali e ambientali ed è influenzata da fattori educativi; l’intelligenza fluida sarebbe legata allo sviluppo neuronale e riguarda i processi base di trattamento delle informazioni e della soluzione dei problemi e si manifesta in prove che richiedono agilità mentale e velocità di organizzazione. Nelle prestazioni cognitive hanno notevole rilevanza sia i fattori biologici sia i fattori emotivo-affettivi. Affettività e personalità: il problema maggiore che si deve affrontare in età anziana è proprio quello legato ad una certa difficoltà di adattamento rispetto ai cambiamenti fisici, psicologici e sociali che intervengono in questa fase della vita. Come affermava E. Erikson la capacità di affrontare questa età è data dalla qualità della vita psichica precedente, vale a dire da come sono state vissute le altre fasi e da come sono stati superati i periodi di crisi. Gli anziani tendono a convincersi che il proprio benessere sia in relazione con l’abbandono delle aspirazioni e traguardi che si erano posti in età adulta e ad un rivolgersi verso la propria interiorità, questa teoria è conosciuta come “teoria del disimpegno”. Un’altra teoria ritiene invece che il morale della persona anziana si mantenga elevato nella misura in cui l’anziano riesce ad essere attivo malgrado la contrazione dei ruoli a cui va incontro, “teoria dell’impegno”. Un elemento sottolineato da molte ricerche empiriche è la tendenza al rivolgersi verso il proprio interno che si verifica nella vecchiaia e che appare in contrapposizione con le tendenze definite “centrifughe” tipiche della maturità, nella vecchiaia invece emergono tendenze “centripete” che

inducono l’individuo a diminuire progressivamente le energie mentali impegnate nelle relazioni sociali, nel mantenimento dei ruoli, nel rispettare le aspettative sociali per spostare l’ attenzione dal mondo esterno al proprio mondo interno. Spesso l’anziano cerca di colmare le proprie insicurezze con attaccamenti esclusivi a familiari, alla propria abitazione, a oggetti, a animali ecc.. come se questo attaccarsi alle cose fosse un segno dell’attaccamento alla vita quando si sente il declino ormai vicino. Altro atteggiamento che si può manifestare è l’eccessiva dipendenza da qualcun altro, affidando ad un’altra persona la risoluzione delle proprie difficoltà. Spesso la ricerca di allontanarsi dalla solitudine con una nuova convivenza o matrimonio deve scontrarsi con le opinioni dei figli (da cui spesso l’anziano dipende) e con stereotipi sociali che negano l’esistenza della sessualità nell’anziano. Il senso di solitudine, pur influenzato da fattori esterni come la presenza di altre persone, non è però dipendente da essi (molte volte ci si può sentire soli anche in compagnia). Spesso inoltre gli anziani devono confrontarsi con la malattia e spesso l’anziano ha più attenzione per le parti del corpo malate che per quelle sane e usa la malattia come elemento attorno al quale far ruotare le relazioni e le attività quotidiane. Cambiamenti sociali Molto spesso l’anziano deve confrontarsi con una serie di stereotipi negativi e pregiudizi sociali collegati alla vecchiaia e che incidono sul concetto di sé e sulla propria autostima. Tali stereotipi o pregiudizi incidono sulle possibilità dell’anziano di ricercare una nuova identità: se le persone che gli sono intorno gli rimandano un immagine di malato, incapace, brutto, egli tenderà ad adeguarsi ad essa. In età avanzata non mancano i cambiamenti a livello familiare conseguenti a perdite di ruolo all’interno della famiglia. I conflitti che emergono in famiglie composte da più membri di generazioni sono spesso espressione di una lotta per il potere, in questo senso è interessante notare come i rapporti familiari così come possono essere intimi, soddisfacenti e di sostegno possono anche rivelarsi difficoltosi e particolarmente stressanti. Fattori che incidono sul livello di soddisfazione personale: Il reddito (se elevato consente di vivere con meno preoccupazioni) Stato coniugale (il matrimonio è anche una forma di sostegno fisico e morale) Salute (le persone in salute si ritengono maggiormente soddisfatte) Personalità (le persone estroverse sono in grado di reagire meglio) Relazioni sociali (chi ha relazioni sociali varie e soddisfacenti è più soddisfatto di chi non ne ha) Religione (aderire ad una religione può significare trovare un senso alla propria esistenza) Storia personale (chi ha vissuto cambiamenti negativi es. ricoveri è meno soddisfatto della sua esistenza) Malattia nell’anziano: se l’adulto vive la malattia come un incidente di percorso e risponde attivando energie e risorse personali, l’anziano interpreta la malattia come un evento intrinseco all’invecchiamento e quindi inevitabile, si innesca così un atteggiamento di rinuncia rispetto alle possibilità di guarigione. Nell’anziano molto spesso si presentano contemporaneamente più patologie che possono interessare più

apparati, il problema principale è quello dell’autosufficienza spesso compromessa da queste patologie, inoltre i problemi fisici si intrecciano in modo inestricabile con quelli psicologici e sociali. La vecchiaia non deve essere un periodo in cui si attende la morte ma anzi l’anziano deve essere coinvolto in attività socialmente utili, attività ludiche e sociali per ritrovare o conservare il piacere di vivere.

L’ AUTISMO

Disturbo del neurosviluppo a origine multifattoriale, caratterizzato da deficit nell’interazione sociale e nella comunicazione, con manifestazioni quali comportamenti ripetitivi e stereotipati e un quadro ristretto di interessi. L’a. compare nei primi tre anni di vita e permane in età adulta.

Termine coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per designare la perdita del contatto con la realtà esterna con conseguente chiusura in un proprio mondo radicalmente irrelato agli altri e in opposizione al mondo esterno.

Il bambino autistico non riesce a comunicare, attraverso le parole o i gesti, con il mondo esterno, compresi i familiari. Per questo motivo tende a isolarsi in un mondo tutto suo. Spesso mostra anche un ritardo mentale e si comporta in un modo che appare bizzarro. È un bambino che ha bisogno di aiuto e comprensione.

Un mondo a parte

Il disturbo autistico, o autismo infantile, è una malattia che si manifesta entro i primi tre anni di vita. È in questo periodo che i bambini imparano a fare la maggior parte delle cose: muoversi, camminare, capire, parlare, giocare, lavarsi le mani e i denti, andare in bagno, dormire da soli, riconoscere le emozioni sul viso degli altri e mandare a loro volta messaggi attraverso espressioni facciali e gesti. Nei bambini autistici queste capacità sono utilizzate poco o in maniera alterata. In particolare sono compromesse l'area della comunicazione (sia il linguaggio parlato, sia la comunicazione non verbale), quella del comportamento e quella delle relazioni con gli altri. Inoltre, in circa il 75% dei casi è presente anche un ritardo mentale, più o meno grave. Quando l'intelligenza è integra, possono essere particolarmente sviluppate alcune capacità, come fare calcoli anche complessi, ricordare nomi o fare disegni.

La caratteristica fondamentale del disturbo autistico riguarda comunque la tendenza all'isolamento e l'incapacità di avere rapporti con gli altri. Tale disturbo colpisce da 2 a 5 bambini ogni 10.000 e il 75% di loro sono maschi. Qual è la causa di questa malattia? Ci sono molte teorie, ma nessuna è totalmente convincente. Comunque, in genere c'è accordo sul fatto che contribuiscono molti fattori, sia genetici (cioè ereditati dai genitori) sia ambientali (cioè legati allo sviluppo del feto nell'utero materno oppure a esperienze del bambino dopo la nascita).

I bambini autistici, fin dai primi mesi di vita, non sono in grado di entrare in rapporto con l'ambiente che li circonda. Tendono a isolarsi e a non reagire agli stimoli esterni, tanto che a volte il primo sospetto dei genitori è che il bambino sia sordo. La mimica, i gesti e la posizione del corpo non vengono utilizzati per esprimere i propri bisogni. Questi bambini non riescono cioè a dire che hanno fame, che vogliono un gioco o che hanno qualcosa che fa loro male e vogliono aiuto. Sembra quasi che non si rendano conto di poter chiedere aiuto agli altri: è come se vivessero in un mondo tutto loro, nel quale per gli altri è quasi impossibile entrare e da cui per loro è molto difficile uscire.

Anche il linguaggio verbale è fortemente compromesso: i bambini possono non parlare affatto o parlare in ritardo; inoltre, quando imparano a parlare, sono spesso ripetitivi, hanno un linguaggio immaturo, poco spontaneo o ripetono (senza capire) quello che ha detto un'altra persona, una pubblicità o una canzoncina. Possono parlare a voce particolarmente alta o bassa, o usare un tono bizzarro. Inoltre, difficilmente comprendono giochi di parole o concetti astratti (come le emozioni o i sentimenti), pertanto parlano quasi solo di cose concrete.

I bambini autistici svolgono solitamente attività molto ripetitive. Inoltre mostrano frequentemente un interesse particolare verso pochi oggetti o parti di essi (spesso qualcosa che gira, come le ruote delle macchinine, la lavatrice o le pale del ventilatore); fanno movimenti strani, tipo torcersi le mani o dondolare il corpo, apparentemente senza una ragione: tendono ad avere abitudini molto rigide e non sopportare che gli oggetti vengano spostati dalla loro posizione abituale.

In alcuni casi, infine, i bambini autistici hanno altri comportamenti bizzarri: la tendenza a farsi male da soli (per esempio sbattendo la testa o mordendosi); reazioni esagerate a tatto, suoni, luce o odori; una paura esagerata o nessuna paura; alterazioni del sonno o delle modalità di alimentazione; iperattività, goffaggine motoria o mantenimento di posizioni anomale.

Certamente hanno bisogno di molta comprensione da parte di familiari e insegnanti, e di particolari cure da parte di medici e operatori specializzati che li aiutino a utilizzare al meglio le proprie capacità.

ASSISTENZA DOMICILIARE INTEGRATA (ADI)

L'Assistenza Domiciliare Integrata è una forma di assistenza rivolta a soddisfare le esigenze quasi esclusivamente degli anziani, dei disabili e dei pazienti affetti da malattie cronico-degenerative in fase stabilizzata, parzialmente, totalmente, temporaneamente o permanentemente non autosufficienti, aventi necessità di un'assistenza continuativa, che può variare da interventi esclusivamente di tipo sociale (pulizia dell'appartamento, invio di pasti caldi, supporto psicologico, disbrigo di pratiche amministrative, ecc.) ad interventi socio-sanitari (attività riabilitative, assistenza infermieristica, interventi del podologo, ecc.). Il suo obiettivo é quello di erogare un servizio di buona qualità, lasciando al proprio domicilio l'ammalato, consentendogli di rimanere il più a lungo possibile all’interno del suo ambiente di vita domestico e diminuendo notevolmente, in questo modo, anche i costi dei ricoveri ospedalieri. L'ADI fornisce svariate prestazioni a contenuto sanitario, quali prestazioni mediche da parte dei medici di medicina generale, prestazioni infermieristiche, compresi prelievi ematici da parte di personale qualificato, prestazioni di medicina specialistica da parte degli specialisti dell'Azienda Sanitaria Locale dipendenti o in convenzione, prestazioni riabilitative e di recupero psico-fisico, erogate da terapisti della riabilitazione o logopedisti, supporto di tipo psicologico, purché finalizzato al recupero socio-sanitario. Le prestazioni di carattere socio-assistenziale offerte dall'ADI, perlopiù, nel caso in cui l'utente abbia un reddito minimo o comunque che sussistano le condizioni economiche disagiate, sono: igiene e cura della persona, aiuto domestico e preparazione dei pasti, disbrigo di pratiche burocratiche e altre commissioni esterne, rapporti con l'Azienda Sanitaria Locale e il medico curante, aiuto alla socializzazione, accompagnamento per commissioni esterne, aiuto economico. Generalmente si accede all’Assistenza Domiciliare Integrata attraverso una segnalazione al Centro di Assistenza Domiciliare dell'Azienda Sanitaria Locale di appartenenza, da parte del medico di base o del sanitario del reparto ospedaliero di dimissione del paziente, da parenti o amici, dalle associazioni di volontariato, dagli altri servizi dell'Azienda Sanitaria Locale. A seconda delle necessità, verranno stabiliti gli interventi domiciliari da garantire all'utente che si trova in stato di bisogno. Il servizio è gratuito e di solito, viene erogato per almeno 5 giorni la settimana. Le patologie che consentono l’avvio dell’Assistenza Domiciliare Integrata sono:

• Incidenti vascolari acuti; • Gravi fratture in anziani; • Riabilitazione di vasculopatici; • Malattie acute temporaneamente invalidanti nell’anziano (per esempio forme

acute respiratorie); • Dimissioni protette da strutture ospedaliere; • Piaghe da decubito o ulcere su base vascolare gravemente invalidanti

Per la parte sanitaria, le prestazioni erogate da parte dell'assistenza domiciliare integrata pubblica sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Per la parte sociale, le prestazioni sono gratuite per le persone con reddito inferiore ai limiti definiti nel luogo di residenza. Tuttavia, alcuni Comuni prevedono il pagamento di un ticket che varia a seconda del reddito del nucleo familiare per l'erogazione di questi servizi. Il medico di base resta il punto di riferimento primario per la copertura sanitaria domiciliare dell'anziano non autosufficiente ed a lui competono le decisioni in ordine agli interventi terapeutici a domicilio e nelle strutture residenziali per anziani autosufficienti o ad esigenze di ricovero ospedaliero e l'attuazione del programma consigliato dall'Unità Operativa Geriatrica e della sua componente valutativa, l’Unità Valutativa Geriatrica (UVG). Quest’ultima è composta da personale dell'Azienda Sanitaria Locale e del Comune e provvede a effettuare la valutazione a casa dell'utente, contattare il medico di base, elaborare un piano di intervento indicando le prestazioni tecnico-professionali necessarie, le modalità di accesso e il periodo di assistenza, valutare periodicamente le eventuali variazioni del piano, stabilire il termine dell’assistenza del paziente. E’ comunque sempre il medico di base ad avere la responsabilità unica e complessiva del paziente.

VOLONTARIATO

È un servizio gratuito svolto per la collettività dai cittadini, generalmente attraverso associazioni liberamente costituite, che operano senza scopo di lucro e si avvalgono in modo fondamentale e prevalente delle opere personali, volontarie e non retribuite dei propri aderenti che, animati da ideali laici o religiosi, si rendono operanti nel settore della solidarietà sociale, sviluppando pregevoli attività sociali e culturali sul territorio, cooperando spesso con altre realtà di volontariato e con le istituzioni locali, allo scopo di accrescere e potenziare la qualità dei servizi, spesso avvalendosi anche di équipe di esperti e professionisti.

Le associazioni di volontariato che si occupano della terza età, hanno come obiettivo predominante quello della difesa dei loro diritti, sia individuali che collettivi, oltre che di informazione sui servizi socio-sanitari, assistenza domiciliare, assistenza sociale, consulenza legale e previdenziale, cura e sostegno alla persona, attività culturali, turistiche e ricreative. Il servizio fornito dal volontariato è completamente gratuito per gli utenti.

Molte associazioni attivano al loro interno centri d’ascolto e servizi di segretariato sociale. Inoltre, cercano di mettere in luce le specifiche capacità e conoscenze dell’anziano, rendendolo protagonista attraverso attività sociali che ne esaltino le qualità. Per godere di questo servizio, o per offrire la propria disponibilità in qualità di volontario, è sufficiente recarsi direttamente alla sede dell'associazione prescelta e informarsi su ciò che è necessario fare per partecipare attivamente alle attività dell’associazione.

Per ogni associazione si paga annualmente una quota di iscrizione. Tale quota contribuisce al sostentamento finanziario dell’associazione stessa.