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1 APPUNTI ESTESI DELLA CRP I. KANT 1 La rivoluzione copernicana Nella Critica della ragion pura Kant affronta il problema della conoscenza muovendo dall’esame delle soluzioni proposte dal razionalismo e dall’empirismo La Critica della ragion pura, la prima opera del periodo critico, è dedicata al problema della conoscenza. Kant la scrisse in soli quattro o cinque mesi, di getto, dopo una riflessione durata però dodici anni, senza curarsi della forma ma solo del contenuto. Dopo la prima edizione del 1781 Kant sentì quindi l’esigenza di affiancarle una versione più breve e più popolare dal titolo i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, uscita nel 1783. Poi nel 1787 apparve la seconda edizione della Critica della ragion pura con importanti rimaneggiamenti rispetto alla prima edizione. Già nel titolo traspare l’obiettivo di Kant: “criticare”, nel senso di giudicare la ragione nel momento in cui è “pura”, cioè non mescolata a nulla di empirico; la critica, dunque, sarà interamente condotta a priori, ovvero indipendentemente dall’esperienza. Scrive Kant: Sotto il nome di conoscenze a priori s’intendono quelle che sono indipendenti non da questa o da quella, ma da ogni esperienza. A esse si oppongono quelle a posteriori, che sono possibili solo per mezzo dell’esperienza. Delle conoscenze a priori diciamo pure quelle a cui non è misto nulla di empirico. Nella prefazione alla prima edizione dell’opera, Kant spiega così il motivo profondo da cui muove la sua indagine: La ragione umana ha particolare destino di venire assediata da questioni, che essa non può respingere, perché le sono assegnate dalla ragione stessa, ma alle quali non può dare neppure risposta, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. Detto altrimenti, la ragione tende a occuparsi anche di questioni non di sua competenza, che vanno cioè al di là delle sue possibilità. Ma se così è, tutte le nostre certezze vanno messe in discussione a incominciare da quelle riguardanti le discipline più teoriche, in quanto più distanti dall’esperienza da cui ogni conoscenza dovrebbe cominciare. Dopo queste considerazioni, nell’introduzione all’opera Kant dichiara di volere rispondere ai seguenti quattro quesiti: 1. “Com’è possibile la matematica pura?” 2. “Com’è possibile la fisica pura?” 3. “Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale?” 4. “Com’è possibile la metafisica come scienza?” Gli ultimi due quesiti vengono poi riassunti nei Prolegomeni in uno solo: “È possibile, in generale, la metafisica?”. L’obiettivo che dunque Kant si pone con la Critica della ragion pura è decisamente ambizioso: scoprire la natura della vera conoscenza, che coincide con la scienza, così da sconfiggere il dogmatismo, lo scetticismo e l’indifferentismo che a suo modo di vedere affliggono il dibattito culturale del suo tempo: • il dogmatismo di chi fa ricorso in modo dispotico a «principi che oltrepassano ogni possibile esperienza»; • lo scetticismo di chi opponendosi al dogmatismo nega ogni possibile conoscenza scientifica; • l’indifferentismo di chi finge di non essere interessato alla conoscenza scientifica, mentre «il suo oggetto non può mai essere indifferente alla natura umana». Nella teoria dei giudizi, Kant analizza le concezioni gnoseologiche dei razionalisti e degli empiristi: entrambe vengono ritenute inadeguate Alla risoluzione del problema della conoscenza è dedicata la teoria dei giudizi in cui Kant si sofferma sulle tendenze gnoseologiche tradizionali riassumibili nello scontro tra razionalismo ed empirismo. La conoscenza si esprime attraverso dei giudizi, così chiamati perché costituiti da un soggetto di cui si dice qualche cosa nel predicato: per esempio, “la Terra è rotonda”. I giudizi dei razionalisti e degli empiristi sono frutto di convinzioni opposte, entrambe però inaccettabili agli occhi di Kant. Secondo Kant, infatti, i razionalisti partono da un presupposto dogmatico: esistono le

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APPUNTI ESTESI DELLA CRP – I. KANT

1 La rivoluzione copernicana Nella Critica della ragion pura Kant affronta il problema della conoscenza muovendo

dall’esame delle soluzioni proposte dal razionalismo e dall’empirismo

La Critica della ragion pura, la prima opera del periodo critico, è dedicata al problema della

conoscenza. Kant la scrisse in soli quattro o cinque mesi, di getto, dopo una riflessione durata però

dodici anni, senza curarsi della forma ma solo del contenuto. Dopo la prima edizione del 1781 Kant

sentì quindi l’esigenza di affiancarle una versione più breve e più popolare dal titolo i Prolegomeni

ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, uscita nel 1783. Poi nel 1787 apparve

la seconda edizione della Critica della ragion pura con importanti rimaneggiamenti rispetto alla

prima edizione. Già nel titolo traspare l’obiettivo di Kant: “criticare”, nel senso di giudicare la

ragione nel momento in cui è “pura”, cioè non mescolata a nulla di empirico; la critica, dunque, sarà

interamente condotta a priori, ovvero indipendentemente dall’esperienza. Scrive Kant:

Sotto il nome di conoscenze a priori s’intendono quelle che sono indipendenti non da questa o da

quella, ma da ogni esperienza. A esse si oppongono quelle a posteriori, che sono possibili solo per

mezzo dell’esperienza. Delle conoscenze a priori diciamo pure quelle a cui non è misto nulla di

empirico.

Nella prefazione alla prima edizione dell’opera, Kant spiega così il motivo profondo da cui muove

la sua indagine:

La ragione umana ha particolare destino di venire assediata da questioni, che essa non può

respingere, perché le sono assegnate dalla ragione stessa, ma alle quali non può dare neppure

risposta, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana.

Detto altrimenti, la ragione tende a occuparsi anche di questioni non di sua competenza, che vanno

cioè al di là delle sue possibilità. Ma se così è, tutte le nostre certezze vanno messe in discussione a

incominciare da quelle riguardanti le discipline più teoriche, in quanto più distanti dall’esperienza

da cui ogni conoscenza dovrebbe cominciare. Dopo queste considerazioni, nell’introduzione

all’opera Kant dichiara di volere rispondere ai seguenti quattro quesiti:

1. “Com’è possibile la matematica pura?”

2. “Com’è possibile la fisica pura?”

3. “Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale?”

4. “Com’è possibile la metafisica come scienza?”

Gli ultimi due quesiti vengono poi riassunti nei Prolegomeni in uno solo: “È possibile, in generale,

la metafisica?”. L’obiettivo che dunque Kant si pone con la Critica della ragion pura è decisamente

ambizioso: scoprire la natura della vera conoscenza, che coincide con la scienza, così da

sconfiggere il dogmatismo, lo scetticismo e l’indifferentismo che a suo modo di vedere affliggono il

dibattito culturale del suo tempo:

• il dogmatismo di chi fa ricorso in modo dispotico a «principi che oltrepassano ogni possibile

esperienza»;

• lo scetticismo di chi opponendosi al dogmatismo nega ogni possibile conoscenza scientifica;

• l’indifferentismo di chi finge di non essere interessato alla conoscenza scientifica, mentre «il suo

oggetto non può mai essere indifferente alla natura umana».

Nella teoria dei giudizi, Kant analizza le concezioni gnoseologiche dei razionalisti e degli

empiristi: entrambe vengono ritenute inadeguate Alla risoluzione del problema della conoscenza è dedicata la teoria dei giudizi in cui Kant si

sofferma sulle tendenze gnoseologiche tradizionali riassumibili nello scontro tra razionalismo ed

empirismo. La conoscenza si esprime attraverso dei giudizi, così chiamati perché costituiti da un

soggetto di cui si dice qualche cosa nel predicato: per esempio, “la Terra è rotonda”. I giudizi dei

razionalisti e degli empiristi sono frutto di convinzioni opposte, entrambe però inaccettabili agli

occhi di Kant. Secondo Kant, infatti, i razionalisti partono da un presupposto dogmatico: esistono le

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idee innate, esiste cioè una struttura mentale a priori precedente e indipendente dall’esperienza

sensibile. Il processo conoscitivo dei razionalisti consiste dunque nel formulare giudizi analitici a

priori, frutto cioè di un’analisi che non dipende dall’esperienza, ma da un ragionamento fondato sul

principio di identità, cioè su di una tautologia. Per esempio, se affermo “i corpi sono estesi”, il

concetto di estensione presente nel predicato è un giudizio universale e necessario: non potrebbe

infatti essere diverso. Si tratta però di un giudizio infecondo in quanto non produce nuova

conoscenza: per definizione, infatti, tutti i corpi sono estesi. Per contro, gli empiristi sostengono che

la conoscenza possa solo essere frutto dell’esperienza: di conseguenza possa solo essere a

posteriori, successiva cioè al rapporto con il mondo esterno. I loro giudizi sono quindi sintetici, in

quanto sintesi dei dati dell’esperienza. Per esempio, se affermo “i corpi sono pesanti” il predicato

“pesante” aggiunge qualche cosa di nuovo alla mia conoscenza, in quanto si tratta di

un’affermazione che si può formulare solo dopo aver fatto esperienza di tanti corpi distinguendoli

da quelli che mi sembrano leggeri (mentre l’estensione è già insita nella definizione di corpo): si

tratta cioè di un giudizio fecondo in quanto produce una nuova conoscenza legata però soltanto

all’esperienza compiuta, e quindi non universale né necessaria. Inevitabilmente dunque l’approccio

conoscitivo degli empiristi porta allo scetticismo: non ci si può infatti fidare dei sensi che, per

esempio, ci fanno sembrare il sole piccolo. Dopo aver constato l’inadeguatezza delle concezioni

gnoseologiche tradizionali a Kant non rimane che cercare di trovare un modo alternativo di

giustificare la conoscenza.

Kant definisce la svolta gnoseologica da lui operata una “rivoluzione copernicana”: come infatti

Copernico aveva messo al centro dell’universo il Sole, e non la Terra, così Kant pone a fondamento

della conoscenza il soggetto che conosce e non l’oggetto conosciuto. Secondo Kant, infatti, non è la

nostra struttura mentale (Sole) che si adatta alla natura (Terra), ma è la natura (Terra) che si adatta

alla nostra struttura mentale (Sole). Ciò non significa che non esistano le cose reali al di fuori della

mente, ma che - come accadeva al re Mida che trasformava tutto in oro - quando la mente umana

entra in contatto con le cose le trasforma in qualcos’altro. Se noi dunque poniamo al centro del

rapporto conoscitivo il soggetto conoscente (Sole), e attorno a esso facciamo ruotare l’oggetto

conosciuto (Terra), diventa possibile giustificare la conoscenza senza cadere nel dogmatismo dei

razionalisti o nello scetticismo degli empiristi. Così facendo siamo infatti in grado di esprimere dei

giudizi che sono: sintetici (fecondi) a priori, universali e necessari. Si tratta di giudizi che unendo

gli aspetti positivi dei razionalisti e degli empiristi rappresentano la prima importante conclusione a

cui perviene la riflessione della Critica della ragion pura: per Kant infatti i giudizi sintetici a priori

sono i pilastri su cui si fonda la scienza. Il fondamento del nostro modo di conoscere gli oggetti è

dunque a priori, cioè nel soggetto stesso che sente e pensa. Questo tipo di conoscenza viene definita

da Kant “trascendentale”: termine che indica lo studio filosofico delle forme pure a priori presenti

nel soggetto e che rendono possibile la conoscenza. Trascendentale non è dunque qualcosa che

oltrepassa ogni esperienza, ma qualcosa che è a priori, che precede cioè ogni conoscenza e la rende

possibile (TESTO La rivoluzione copernicana). Detto altrimenti, per Kant la conoscenza ha

certamente origine dall’esperienza: non c’è dubbio alcuno infatti che la nostra conoscenza

incomincia con l’esperienza, perché in essa trova l’occasione del suo sorgere. Non per questo

tuttavia la conoscenza deriva tutta dall’esperienza, perché l’esperienza è preceduta dalle

caratteristiche della mente umana. Per comprendere dunque il significato della conoscenza bisogna

partire dall’uomo, e non dalle cose, poiché le cose per essere conosciute devono essere pensate in

un certo modo. È questo, in sintesi, il significato della rivoluzione copernicana.

Individuando i giudizi sintetici a priori Kant mostra che la conoscenza deriva dall’esperienza

ma che non può essere del tutto ridotta a essa

L’articolazione della Critica della ragion pura mira a distinguere le vere scienze, come ad

esempio la matematica e la fisica, dalla metafisica, che non era scienza Secondo Kant, «ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire alla

ragione». Tre sono dunque le facoltà conoscitive della ragione intesa in senso lato:

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• la sensibilità, cioè la facoltà che attraverso i sensi intuisce gli oggetti e li rappresenta attraverso

spazio e tempo;

• l’intelletto, cioè la facoltà con cui pensiamo gli oggetti;

• la ragione (in senso stretto), cioè la facoltà con cui tendiamo a spiegare globalmente la realtà

attraverso le idee di anima, mondo e Dio.

Da qui l’articolazione dell’opera a partire da due sezioni:

• la dottrina degli elementi che ha come obiettivo quello di individuare gli elementi formali della

conoscenza chiamati da Kant puri o a priori;

• la dottrina del metodo che si propone di individuare l’uso di questi elementi puri o a priori nel

processo conoscitivo.

La sezione dedicata alla dottrina degli elementi a sua volta si articola in tre principali parti:

1. l’estetica trascendentale, che studia la sensibilità nel momento in cui intuisce gli oggetti per

mezzo dell’esperienza;

2. la logica trascendentale, che studia la ragione nel momento in cui riflette sui dati dell’esperienza

e che a sua volta si articola in:

a. l’analitica trascendentale, che studia gli elementi (concetti e categorie) della conoscenza pura

dell’intelletto;

b. la dialettica trascendentale, che studia l’uso dei concetti e delle categorie nel momento in cui

danno luogo alle idee metafisiche.

Sui principi a priori della sensibilità e dell’intelletto si fondano la matematica e la fisica, mentre

l’applicazione di questi principi alle intuizioni sensibili rende possibile le scienze naturali. La

metafisica, invece, pretende di fare affermazioni su oggetti che non sono frutto di una qualche

intuizione sensibile (per esempio, l’esistenza dell’anima). Per questa ragione la metafisica non è

possibile come scienza, cioè come conoscenza oggettiva e fondata, anche se resta una naturale

disposizione dell’uomo.

2 L’estetica trascendentale Lo studio della sensibilità permette di giungere a una prima definizione di fenomeno,

all’interno del quale possiamo distinguere un elemento sensibile e uno a priori L’estetica trascendentale studia la sensibilità nel momento in cui costruisce il mondo

dell’esperienza attraverso le forme a priori di spazio e tempo. Il termine “estetica” non si riferisce

quindi alla conoscenza del bello, secondo il suo uso più comune, ma alla conoscenza sensibile.

Estetica deriva infatti dal greco aísthesis,“sensazione”, e con questo significato originario di teoria

della sensibilità viene usato da Kant. Secondo Kant, la sensibilità è la facoltà della mente di ricevere

le sensazioni, cioè tutte quelle modificazioni che gli oggetti producono nel soggetto (per esempio,

nel momento in cui il soggetto sente caldo o freddo oppure vede bianco o nero). La conoscenza

immediata degli oggetti viene chiamata da Kant intuizione: una forma di conoscenza in cui

l’oggetto conosciuto si presenta immediatamente al soggetto conoscente ed è quindi l’opposto della

conoscenza discorsiva, raggiunta tramite la mediazione del ragionamento. L’oggetto dell’intuizione

empirica è il fenomeno, “ciò che appare”. Nel fenomeno è possibile distinguere una materia e una

forma:

• la materia deriva dall’esperienza ed è data dalle singole sensazioni o modificazioni che il soggetto

subisce, ed è quindi a posteriori;

• la forma invece non è prodotta dalle sensazioni, cioè dall’esperienza, ma è posta dal soggetto

conoscente, il modo cioè, quindi a priori, con cui la sensibilità umana funziona.

Nel fenomeno io chiamo materia ciò che corrisponde a una sensazione; ciò per cui il molteplice del

fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti chiamo forma del fenomeno. Poiché quello

in cui soltanto le forme si ordinano non può essere di nuovo sensazione, così la materia di ogni

fenomeno deve essere bensì data a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi a priori nello spirito.

(Critica della ragion pratica)

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Poiché dunque la forma è il modo con cui la sensibilità umana funziona, l’intuizione si articola in:

• intuizioni empiriche riguardanti la conoscenza frutto delle sensazioni;

• intuizioni pure (o forme della sensibilità) che prescindono dalle sensazioni.

Il processo conoscitivo dell’uomo si avvale solo di due intuizioni pure: lo spazio e il tempo.

Spazio e tempo sono le forme a priori della sensibilità ossia le strutture mentali che

permettono di costruire il mondo dell’esperienza Secondo Kant, lo spazio è la forma del senso esterno, per mezzo della quale noi ci rappresentiamo

le cose come fuori di noi l’una accanto all’altra, mentre il tempo è la forma del senso interno, per

mezzo della quale ci rappresentiamo i nostri stati interiori l’uno dopo l’altro. Di conseguenza, lo

spazio e il tempo non possono essere due entità realmente esistenti, due contenitori vuoti in cui ogni

oggetto deve essere collocato, secondo la lezione di Newton. Spazio e tempo sono invece per Kant

le strutture mentali per mezzo delle quali costruiamo il mondo dell’esperienza. Come chi, per

esempio, vede il mondo tutto caratterizzato da sfumature rossastre perché porta degli occhiali con

delle lenti rosse, così noi costruiamo il mondo dell’esperienza in quanto qualunque esperienza

facciamo la collochiamo nello spazio e nel tempo. Non si può neppure sostenere che le nozioni di

spazio e tempo abbiano un’origine empirica o che siano concetti generali che esprimono i rapporti

tra i fenomeni, cioè l’ordine della successione e l’ordine della coesistenza. Lo spazio e il tempo

infatti non si ottengono a partire da molteplici spazi e tempi tra loro differenti, prescindendo dalle

proprietà che contraddistinguono ciascuno di essi per afferrare ciò che hanno in comune; al

contrario ci sono un solo spazio e un solo tempo, perfettamente uniformi e indifferenziati, e le

molteplici parti dello spazio e del tempo sono possibili solo come possibili delimitazioni dell’unico

spazio e dell’unico tempo. Spazio e tempo non sono, inoltre, concetti che esprimono le relazioni di

coesistenza e successione tra le cose, cioè non possono derivare dall’esperienza delle cose disposte

l’una accanto all’altra e l’una dopo l’altra. Un tale approccio si ridurrebbe infatti a un circolo

vizioso, dal momento che, per poter giudicare le cose come coesistenti e successive, esse devono

già essere disposte nello spazio e nel tempo; al contrario l’esperienza delle cose come coesistenti e

successive è possibile soltanto se esse sono già sempre collocate nello spazio e nel tempo.

Sullo spazio e sul tempo, intesi come intuizioni pure, si fonda la matematica pura (formata

dall’aritmetica e dalla geometria) A questo punto Kant è in grado di rispondere alla prima delle domande che si è posto

nell’introduzione alla Critica della ragion pura: “Come è possibile la matematica pura?” La

matematica pura, formata dall’aritmetica e dalla geometria, è possibile in quanto si fonda sulle

intuizioni pure a priori di spazio e tempo. L’aritmetica presuppone infatti l’idea di “successione

ordinata”, che si sviluppa quindi nel tempo, di numeri tra loro indistinguibili se considerati

separatamente: ciò che distingue per esempio l’1 dal 10 è soltanto la posizione che il numero

occupa all’interno della successione. Allo stesso modo è solo il nostro modo d’intendere lo spazio a

rendere possibile la geometria; la geometria sarebbe infatti impossibile se in qualsiasi punto dello

spazio non potessero essere fatte le medesime costruzioni e queste non presentassero sempre le

stesse proprietà. Colui che per primo dimostrò le proprietà del triangolo isoscele, si chiamasse

Talete o come si voglia, fu colpito da «una gran luce» - osserva Kant - quando si rese conto che

doveva costruire la figura (per esempio con riga e compasso) sulla base di un procedimento

generale che poteva essere ripetuto infinite volte per ottenere tutti i triangoli isosceli possibili,

specificando di volta in volta determinate costanti individuali (la lunghezza dei lati, l’ampiezza

degli angoli ecc.) per ottenere un singolo triangolo dato. Solo in questo modo Talete poteva essere

certo che ciò che è provato per una singola figura data deve essere valido per tutte le altre. Per

sapere con certezza qualche cosa a priori intorno al triangolo isoscele, Talete doveva dunque

definire la possibilità del triangolo isoscele in generale, ossia il procedimento con cui possono

essere costruiti tutti i singoli triangoli possibili, per ottenere a partire da esso i singoli casi.

La matematica pura è scienza in quanto è fondata su dei giudizi sintetici a priori Secondo Kant, la matematica pura non solo è possibile ma è anche una scienza in quanto i suoi

giudizi sono sintetici a priori, universali e necessari. In aritmetica la proposizione 7+5=12 non

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stabilisce infatti l’uguaglianza tra due concetti, ma che il numero 12 si trova 5 posizioni dopo il 7 ed

è per questo diverso da entrambi e anche dalla loro unione; nessuno di questi elementi ha cioè

qualcosa in comune con gli altri (come nel caso di concetti identici di un giudizio analitico).

Nonostante ciò i loro rapporti reciproci sono fissati in modo universale e necessario e dunque a

priori: la proposizione 7+5=12 non è quindi valida soltanto per 7 e 5 punti oppure 7 e 5 uomini, ma

è sempre e immancabilmente valida anche se le cose a cui si riferisce sono diverse. Analogamente,

in geometria la proposizione “la retta è la linea più breve tra due punti” è una proposizione sintetica,

perché il concetto di retta contiene solo la qualità (cioè la “linea retta”, la forma della figura), ma

non la quantità, “più breve”; il concetto di “più breve” è aggiunto a quello di “linea retta” e non è

contenuto in esso. La geometria connette cioè sinteticamente due concetti differenti in modo

universale e necessario, dunque a priori.

3 L’analitica trascendentale

L’analitica trascendentale è lo studio dei concetti, ossia il frutto dell’attività della mente che

pensa gli oggetti Nella seconda parte della Critica alla ragion pura, Kant passa a esaminare la Logica trascendentale

che si articola in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale. Nell’Analitica trascendentale

il termine logica non è inteso in modo tradizionale quale studio formale del discorso, ma nel senso

di indagine analitica delle forme a priori dell’intelletto. La prima parte dell’Analitica trascendentale

è dedicata ai concetti, e pertanto viene chiamata Analitica dei concetti. Che cosa sono i concetti?

Secondo Kant, ogni esperienza è costituita da un’intuizione e da un concetto:

• l’intuizione è la conoscenza immediata di un singolo oggetto - per esempio, “questo qui” - in

quanto scaturisce dalla sua percezione sensoriale;

• il concetto è una conoscenza mediata di più oggetti - per esempio, “questa casa qui” - in quanto

scaturisce dalla mediazione che si compie nel cogliere con il pensiero il tratto comune di più

oggetti, nell’esempio il concetto di casa nasce dall’aver preso in considerazione più case.

Se quindi le intuizioni sono “affezioni”, cioè qualche cosa che la mente passivamente subisce, i

concetti sono frutto dell’attività della mente, cioè funzioni con cui la mente ordina o unifica diverse

rappresentazioni in una rappresentazione comune. Dunque, per mezzo dell’intuizione gli oggetti

sono percepiti, per mezzo dei concetti sono pensati. Nessuna delle due facoltà può però stare senza

l’altra. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. Se infatti le

intuizioni non potessero essere riportate a concetti generali, non potremmo estendere la nostra

conoscenza al di là di quanto è direttamente presente ai sensi. I concetti, dunque, per non essere

semplici costruzioni arbitrarie devono trovare conferma nelle intuizioni. Tuttavia, la sensibilità,

come facoltà delle intuizioni, e l’intelletto, come facoltà dei concetti, per quanto non esistano

separatamente, non possono in alcun modo scambiarsi le funzioni: l’intelletto non può infatti intuire

nulla, né i sensi possono pensare nulla.

Individuando in primo luogo le fondamentali tipologie di giudizio, Kant risale ad altrettanti

concetti puri, detti categorie, con cui la mente organizza l’esperienza I concetti possono essere empirici, frutto cioè dell’esperienza, o puri, presenti cioè a priori

nell’intelletto. Sull’esempio di Aristotele, i concetti puri sono chiamati da Kant anche categorie che

sono i modi con cui la mente umana organizza l’esperienza. A differenza di Aristotele, però, le

categorie non hanno alcun valore ontologico (nel senso che non sono modi di essere dell’essere);

hanno soltanto un valore gnoseologico (nel senso che sono esclusivamente le forme, universali e

oggettive, della conoscenza). Inoltre, mentre Aristotele le aveva individuate in modo secondo Kant

casuale («rapsodicamente», gli rimprovera), le categorie kantiane sono ricavate da un principio che

possiamo così riassumere: poiché pensare equivale a giudicare, necessariamente le categorie devono

corrispondere alle tipologie di giudizio che la mente può esprimere. Quante sono allora queste

tipologie di giudizio? Rifacendosi alla logica tradizionale, secondo Kant sono quattro (quantità,

qualità, relazione, modalità): ognuna di esse, poi, al proprio interno contiene tre giudizi, per un

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totale di dodici giudizi. Ne scaturisce una tavola dei giudizi a cui Kant fa corrispondere una tavola

delle categorie. Pertanto, come i giudizi anche le categorie sono dodici. Tra queste, due sono quelle

fondamentali: la sostanza e la causalità.

• La sostanza è la capacità di cogliere con il pensiero la permanenza di qualche cosa nel tempo. Un

gesto per esempio, è un evento, ma non un oggetto dotato di sostanza, in quanto non permane nel

tempo. Mentre una sedia, un tavolo o una casa sono oggetti dotati di sostanza in quanto al di là del

loro aspetto contingente la mia mente coglie in essi qualche cosa che permane nel tempo. Se non

possedessimo dunque la categoria di sostanza per noi gli oggetti non esisterebbero.

• Anche la causa è un pensiero, e come tale non si trova nelle cose ma nella nostra mente. Si alza

per esempio il vento, e la nave si muove. Secondo gli empiristi, si tratta semplicemente di una

sequenza temporale che per abitudine mi porta a dire che il vento sia la causa del movimento delle

navi. Tuttavia ci può anche essere la circostanza in cui le vele sono rotte e il vento non fa muovere

la nave. Eppure io ho pensato al vento come causa, nonostante che la nave sia rimasta ferma. Ciò

significa che la categoria di causa precede l’esperienza e la rende possibile.

LA TAVOLA DEI GIUDIZI E DELLE CATEGORIE

Quantità GIUDIZI CATEGORIE

Universali Totalità

Particolari Pluralità

Singolari Unità

Qualità GIUDIZI CATEGORIE

Affermativi Realtà

Negativi Negazione

Infiniti Limitazione

Relazione GIUDIZI CATEGORIE

Categorici Sostanza e accidente

Ipotetici Causa ed effetto

Disgiuntivi Azione reciproca

Modalità GIUDIZI CATEGORIE

Problematici Possibilità/impossibilità

Assertori Esistenza/inesistenza

Apodittici Necessità/contingenza

Per mezzo della deduzione trascendentale Kant giustifica l’applicazione delle categorie al

mondo empirico e fonda su di essa la conoscenza scientifica La scoperta delle categorie consente a Kant di rispondere anche alla seconda domanda che si è

posto nell’introduzione alla Critica della ragion pura: “Com’è possibile la fisica pura?”. Secondo

Kant la fisica pura è una conoscenza sintetica a priori, dunque una scienza. Il principio di azione e

reazione, per esempio, secondo il quale “l’azione è sempre uguale alla reazione”, non esprime

infatti un’identità logica, ma connette elementi diversi (cioè le azioni reciproche, uguali ma dirette

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in senso opposto, di due corpi che si urtano) in modo universale e necessario, dunque a priori. Se

infatti l’esperienza smentisse tale principio ci si preoccuperebbe di verificare che i due corpi siano

perfettamente isolati dal resto dell’universo, piuttosto che rinunciarvi: l’osservazione dell’urto tra i

corpi è pertanto possibile a partire da quel principio e non ne è la conseguenza. Ciò è esattamente

quello che comprese Galilei quando si accorse che per formulare la legge della caduta dei gravi non

doveva limitarsi a osservazioni casuali, ma doveva fare un esperimento. Così fece rotolare su un

piano inclinato le sfere con un peso stabilito da lui stesso, scelse delle sfere indeformabili, un piano

perfettamente liscio ecc. Il singolo fatto concreto, osservato nell’esperimento, non gli apparve

dunque semplicemente come un evento isolato che non sarebbe più accaduto, ma come il risultato

di un procedimento generale a partire dal quale sarebbe stato possibile a chiunque riprodurre lo

stesso fenomeno infinite volte. In breve, secondo Kant occorre distinguere tra i giudizi d’esperienza

e i giudizi soggettivi:

• i giudizi d’esperienza - come “l’acqua bolle a 100 gradi” - sono scientifici, cioè sintetici a priori,

universali e necessari in quanto fondati su di un’esperienza organizzata dalle categorie;

• i giudizi soggettivi - come “il sole scotta” - non sono invece scientifici in quanto non sono in

relazione con le categorie.

Ma se la conoscenza scientifica è determinata dall’uso delle categorie, che cosa ci garantisce che le

categorie ci dicano qualcosa intorno agli oggetti della natura? Trattandosi infatti di concetti puri,

cioè a priori, come possono essere in contatto con il mondo dell’esperienza? Qual è dunque l’uso

legittimo delle categorie? La soluzione viene trovata al termine di una lunga riflessione chiamata

deduzione trascendentale in cui Kant utilizza lo stesso ragionamento che aveva portato a conferire

validità conoscitiva alle forme pure a priori di spazio e tempo.

Chiamo quindi deduzione trascendentale la spiegazione del modo in cui i concetti a priori si

possono riferire a oggetti. (Critica della ragion pura)

In sintesi, come le cose per essere intuite devono sottostare al modo con cui la sensibilità costruisce

il mondo dell’esperienza attraverso spazio e tempo, così le cose per essere pensate devono

sottostare al modo con cui l’intelletto riflette sul mondo dell’esperienza attraverso le categorie. È

dunque legittimo l’uso delle categorie soltanto se applicate al mondo dell’esperienza. Spiegata con

la deduzione trascendentale quando e perché è legittimo l’uso delle categorie, rimane però da

rispondere a un’altra domanda: dove ha sede questa attività della mente che intuisce il mondo

dell’esperienza attraverso spazio e tempi e riflette su di esso attraverso le categorie? Nell’Io penso,

risponde Kant.

4 L’Io penso, il fenomeno e il noumeno

L’Io penso è l’autocoscienza generale cui vengono ricondotte tutte le rappresentazioni del

soggetto Con l’espressione “Io penso” Kant non intende indicare:

• né una realtà psicologica, per esempio l’anima umana com’era nella tradizione dei razionalisti,

• né una realtà fisica, per esempio un “fascio di percezioni” com’era nella tradizione degli

empiristi.

Intende invece indicare l’autocoscienza o coscienza generale, cioè quella struttura mentale propria

del genere umano che rende possibile la conoscenza. Kant chiama l’Io penso anche appercezione

pura o trascendentale: il termine appercezione indica infatti la coscienza della percezione che

accompagna tutte le rappresentazioni umane: l’Io penso, nelle parole di Kant, «deve poter

accompagnare tutte le mie rappresentazioni». Senza la funzione dell’Io penso si avrebbe soltanto un

susseguirsi di rappresentazioni estranee le une alle altre, dalle quali non sorgerebbe mai un loro

collegamento costante. Le rappresentazioni devono invece essere connesse in una coscienza

generale, valida cioè per qualsiasi soggetto, che nelle stesse circostanze dovrà collegare le

rappresentazioni nello stesso modo. Il problema del rapporto tra soggetto e oggetto si traduce così in

quello del nesso tra le rappresentazioni, cioè nella validità oggettiva del giudizio. Non si tratta

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quindi più di spiegare come le rappresentazioni del soggetto possano afferrare l’oggetto come

qualcosa di estraneo a cui si devono conformare, dal momento che l’oggetto stesso si risolve

completamente nel valore universale e necessario del nesso di quelle rappresentazioni.

Soltanto da questa relazione nasce un giudizio, ossia una relazione oggettivamente valida, che si

distingue appunto dal rapporto delle medesime rappresentazioni in cui sussiste soltanto, secondo le

leggi dell’associazione, una validità unicamente soggettiva. In quest’ultimo caso io potrei dire

soltanto “se porto un corpo, sento un’impressione di peso”, non potrei dire invece “esso, il corpo, è

pesante”, il che equivale a dire che queste due rappresentazioni sono congiunte nell’oggetto, senza

cioè che facciano distinzione tra gli stati del soggetto, e non si trovano semplicemente accostate

nella percezione (per quanto spesso questa si ripeta). (Critica della ragion pura)

L’Io è il legislatore della natura: l’intelletto, infatti, non ricava le leggi dalla natura, bensì le

prescrive a essa. Da qui la distinzione tra fenomeno e noumeno o cosa in sé Per Kant la natura è l’insieme di tutte le cose che possono essere oggetto dell’esperienza.

L’intelletto però non ricava le leggi dalla natura, ma le prescrive a essa, dal momento che la natura è

conoscibile soltanto nella misura in cui obbedisce all’Io penso, anche perché i principi generali che

la regolano sono quelli della fisica pura. Di conseguenza possiamo affermare che l’Io penso è il

legislatore della natura. Il che non significa che la natura coincida esattamente con la descrizione

che ne fa l’Io penso. Il fatto è che la conoscenza umana è limitata, e il confine tra ciò che si può

conoscere e quello che non si può conoscere è tracciato dalla distinzione tra fenomeno e noumeno:

• il fenomeno è la cosa per me, così come mi appare, cioè l’unico possibile oggetto della

conoscenza umana in quanto frutto dei sensi e della costruzione del mondo dell’esperienza operata

dall’Io penso;

• il noumeno è la cosa in sé, così com’è veramente, una realtà cioè che può essere solo pensata ma

non conosciuta.

La cosa in sé, dunque, non costituisce il fondamento su cui poggia la nostra conoscenza empirica,

ma è un concetto-limite oltre il quale la conoscenza nega se stessa, sottraendosi alle condizioni che

la rendono possibile. Kant non intende cioè mettere in dubbio l’esistenza degli oggetti fuori di noi

sostenendo che siano un prodotto della nostra immaginazione (idealismo materiale), ma sostenere la

possibilità di affermare qualcosa intorno agli oggetti come sono “in sé” (idealismo trascendentale).

Non avrebbe infatti senso confrontare la nostra conoscenza con le cose in sé, per stabilire se essa è

oggettivamente valida oppure ingannevole; tutto ciò che conosciamo con sicurezza degli oggetti,

infatti, è soltanto l’aspetto fenomenico. In breve, noi non conosciamo il mondo come tale, ma solo

come appare, attraverso cioè la mediazione di spazio e tempo e poi attraverso le categorie.

9

5 Lo schematismo trascendentale

I singoli oggetti dati nell’esperienza si conformano ai concetti a priori attraverso la

mediazione costituita dallo schema Nella prima parte dell’analitica trascendentale, l’analitica dei concetti, Kant ha spiegato il

significato dei concetti e tra essi individuato dodici concetti puri, le categorie; attraverso poi la

deduzione trascendentale, ha mostrato la legittimità del loro uso. Ora, nell’analitica dei principi,

affronta il problema del modo in cui i concetti possano essere applicati ai singoli casi dati

nell’intuizione. Le due fonti della conoscenza, l’intelletto e la sensibilità sono, infatti,

completamente separate tra di loro. Occorre dunque ammettere una facoltà, l’immaginazione, in

grado di mediare tra sensibilità e intelletto: una facoltà capace di connettere tra loro intuizioni e

concetti, che sono del tutto eterogenei, tramite un terzo termine che sia omogeneo sia al concetto sia

all’intuizione (che sia cioè da un lato intellettuale e dall’altro sensibile). Questo terzo termine è

detto da Kant schema trascendentale, mentre il modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi è

detto schematismo. Lo schema è distinto tanto dal concetto astratto quanto dalla singola immagine

dell’oggetto presentata dall’immaginazione riproduttiva, ovvero dalla riproduzione di una singola

intuizione di cui abbiamo un ricordo. Lo schema è un prodotto dell’immaginazione produttiva,

intesa come la possibilità di determinare singole intuizioni, senza che l’oggetto sia immediatamente

presente, a partire da un concetto generale a priori. Al concetto di triangolo in generale, per

esempio, nessuna singola immagine di un triangolo disegnato sarebbe adeguata (anche a

prescindere dalle imprecisioni del disegno, sarebbe isoscele piuttosto che scaleno, con i lati di una

certa dimensione e non di un’altra ecc.); d’altra parte il concetto astratto di triangolo potrebbe essere

del tutto arbitrario, se non potessimo presentare nell’intuizione un singolo triangolo determinato:

Il concetto di una figura racchiusa in due linee rette - per esempio -, non contiene alcuna

contraddizione […], l’impossibilità non poggia sul concetto in se stesso, ma sulla sua costruzione

nello spazio. (Critica della ragion pura)

Allo stesso modo la proposizione “con tre linee rette è possibile una figura” è valida non

semplicemente perché non è contraddittoria, ma perché a partire da essa può effettivamente essere

costruita una singola figura. Lo schema del triangolo media dunque tra concetto e intuizione; esso

non risponde infatti alla domanda “che cosa” è un triangolo in generale, prescindendo dalle

caratteristiche che contraddistinguono singoli triangoli, ma alla domanda “in che modo” è possibile

costruire singoli triangoli nello spazio a partire dal concetto generale di triangolo. Lo schema non è

dunque né la singola immagine del triangolo materiale disegnata sulla carta, né il concetto astratto

di triangolo in generale, ma «una regola per la determinazione della nostra intuizione conforme a un

concetto generale», cioè la «rappresentazione di un metodo» con cui possono essere costruiti

un’infinità di triangoli diversi. L’individuo, in quanto risultato della costruzione, cioè in quanto

ottenuto a partire da un «procedimento generale» specificando certe costanti individuali (lunghezza

dei lati, ampiezza degli angoli ecc.), assume così un significato completamente nuovo che non vale

più come immagine particolare, ma come modello generale, perché in esso non si guarda al singolo

costrutto concluso, ma all’azione della costruzione. L’elemento singolo isolato assume così la forma

dell’esempio qualsiasi.

Lo schema trascendentale, che media tra intuizione e concetto, si fonda sull’intuizione pura

del tempo, che è la condizione a priori di tutti i fenomeni I concetti puri dell’intelletto, le categorie, possono essere applicati ai singoli esempi dati

nell’esperienza grazie alla mediazione degli schemi trascendentali, costruiti nell’intuizione pura e

precisamente nell’intuizione pura del tempo in quanto esso è la «condizione formale a priori di tutti

i fenomeni» (anche di quelli interni che non si trovano nello spazio). Lo schema, in quanto

«determinazione trascendentale del tempo secondo regole», è dunque omogeneo al concetto, in

quanto è generale e poggia su una regola a priori, ma è anche omogeneo all’intuizione, in quanto il

tempo è contenuto in ciascuna rappresentazione empirica. I singoli oggetti dati nell’esperienza,

dunque, si conformano ai concetti a priori attraverso la mediazione costituita dallo schema, che

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applica le categorie non direttamente agli oggetti empirici, ma al nostro modo di riceverli come

successivi o simultanei nel tempo. Gli schemi non sono i concetti generali di causa o sostanza che

potrebbero rappresentare anche cose in generale che non possono essere date in alcuna esperienza

(per esempio l’anima come sostanza o Dio come causa del mondo), ma non rappresentano neppure

singole sostanze o singole cause particolari direttamente presenti all’intuizione. Gli schemi sono

piuttosto regole che fissano i rapporti reciproci (per esempio permanenza, successione, coesistenza)

in cui devono necessariamente stare i fenomeni nel tempo per presentarsi come singoli esempi di

sostanze e accidenti, cause ed effetti, sostanze in azione reciproca ecc. Per esempio, lo schema del

concetto di causa è la successione nel tempo secondo una regola, quello del concetto di sostanza la

permanenza nel tempo ecc. Lo schema è dunque da una parte una determinazione empirica, in

quanto può essere dato in «una singola intuizione particolare», dall’altra, in quanto determinazione

a priori del tempo a partire da un concetto, può servire da modello generale per rappresentare il

modo con cui si presentano nell’esperienza i fenomeni che stanno in un determinato rapporto. Kant

deriva l’elenco degli schemi dalla tavola delle categorie: lo schema delle categorie di quantità è il

numero, quello delle categorie di qualità è il grado, quelli delle categorie di relazione sono la

permanenza (per la sostanza), la successione (per la causa) e la simultaneità (per l’azione reciproca),

infine quelli delle categorie di modalità sono l’esistenza in un tempo qualsiasi (per la possibilità),

l’esistenza in un determinato tempo (per la realtà) e l’esistenza in ogni tempo (per la necessità).

6 La dialettica trascendentale

La dialettica trascendentale affronta lo studio della metafisica nei suoi tre oggetti principali,

che Kant chiama idee Con l’Estetica e l’Analitica Kant si è occupato del sapere scientifico, individuandone il fondamento.

Con la Dialettica trascendentale intende invece rispondere alle domande che si è posto

nell’introduzione della Critica della ragion pura: “Com’è possibile la metafisica in quanto

disposizione naturale?”; “Com’è possibile la metafisica come scienza?”, poi sintetizzate nei

Prolegomeni in una sola domanda: “È possibile, in generale, la metafisica?”. Secondo Kant la

metafisica è un’invenzione della ragione. Il termine ragione è però utilizzato da Kant con due

significati:

• in senso ampio come l’insieme delle facoltà conoscitive dell’uomo;

• in senso stretto come una di queste facoltà, quella cioè che tende a una sistemazione assoluta del

sapere.

In senso ampio, dunque, la ragione comprende la sensibilità, l’intelletto e la ragione in senso stretto.

Nella Dialettica trascendentale Kant utilizza il termine ragione solo in senso stretto. L’intelletto cioè

diventa ragione in senso stretto nel momento in cui invece di limitare l’uso delle categorie al mondo

dell’esperienza sensibile tende ad applicarle anche alle idee trascendentali, ovvero a concetti a cui

non corrisponde alcun oggetto percepibile con i sensi. Tre sono le idee trascendentali che la ragione

trasforma in idee trascendenti (le pensa cioè come corrispondenti a realtà esistenti) applicando loro

la categoria di sostanza, mentre in realtà sono solo esigenze della mente:

• l’idea dell’anima, intesa come idea della totalità assoluta dei fenomeni interni, di cui si occupa la

psicologia razionale;

• l’idea del mondo, intesa come idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni, di cui si occupa la

cosmologia razionale;

• l’idea di Dio, intesa come idea della totalità assoluta di tutte le totalità esistenti, di cui si occupa la

teologia razionale.

In questo contesto, il termine dialettica assume in Kant il significato di “logica della parvenza” o di

“arte dell’illusione”: si tratta cioè «dell’arte sofisticata di dare alla propria ignoranza, anzi alle

proprie volute illusioni, l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato».

Mentre l’intelletto fa infatti uso delle categorie mantenendosi all’interno dei limiti dell’esperienza

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possibile, la ragione trascende questi limiti, pretendendo di fare affermazioni che seguono solo una

logica apparente, nel senso che non possono essere confermate o smentite da nessuna esperienza.

Esattamente in questo superamento dei limiti dell’esperienza possibile consiste la metafisica che

null’altro è se non una conoscenza illusoria sebbene inevitabile poiché la ragione per sua stessa

natura tenta di afferrare l’esperienza nella sua totalità: il tutto dell’esperienza però, a differenza

delle sue parti, non può essere oggetto dell’esperienza. In ogni caso, come può la metafisica

configurarsi come un sapere assoluto nel momento in cui l’uomo ha una natura finita? La metafisica

infatti crede di conferire valore assoluto alle idee trascendentali applicando loro le categorie, così

facendo però le priva di qualsiasi valore. È come se una colomba pensasse di volare meglio in un

ambiente in cui non incontri la resistenza dell’aria, mentre è proprio il limite dato dalla resistenza

dell’aria a consentirle di volare. Alla tradizionale metafisica dogmatica Kant contrappone dunque la

metafisica critica di cui fanno parte:

• sia la metafisica della natura (che si occupa dei principi a priori che rendono possibile la

conoscenza della natura);

• sia la metafisica dei costumi (che si occupa dei principi a priori che regolano la vita morale).

L’idea di anima è il risultato di un ragionamento fallace, che consiste nell’applicare la

categoria di sostanza all’Io penso Secondo Kant, la psicologia razionale è vittima di un paralogismo, cioè di un ragionamento fallace

che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’Io penso, trasformando in questo modo quella

che è l’attività unificatrice della mente in una realtà esistente chiamata anima. Non paga poi di

immaginarla come esistente, la ragione ritiene l’anima immutabile, immateriale, spirituale e così

via. In realtà l’Io penso è sì immutabile, ma soltanto in quanto è una relazione immutabile tra i

contenuti della coscienza, non come sostanza esistente; è sì immateriale, ma soltanto perché è

un’attività della mente; è sì spirituale, ma soltanto perché non è percepibile dai sensi e così via. La

psicologia razionale, dunque, sbaglia in quanto l’Io penso, essendo il soggetto che rende possibile

l’esperienza, non può essere oggetto di esperienza. Di conseguenza l’idea trascendente di anima,

come totalità assoluta dei fenomeni interni, è un’idea metafisica illusoria. Per cui la psicologia

razionale è un inganno.

Il mondo, inteso come totalità assoluta dei fenomeni esterni, non è oggetto d’esperienza e non

può quindi essere conosciuto, come dimostrano le antinomie, cioè le contraddizioni in cui cade

la ragione quando se ne occupa Secondo Kant, la cosmologia razionale pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la

totalità assoluta dei fenomeni esterni, distanziandosi cioè dalla natura intesa come il mondo così

come appare. Questa pretesa è destinata a fallire: così facendo infatti la ragione entra in conflitto

con se stessa in quanto, non potendo verificare le proprie ipotesi, giunge a formulare delle

antinomie insolubili, coppie cioè di proposizioni entrambe logicamente dimostrabili che si

contraddicono però tra loro e tra le quali non è possibile decidere. L’errore alla base della

cosmologia razionale, da cui dipende la strutturale insolubilità delle antinomie, risiede nel fatto che

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entrambe le affermazioni pretendono di riferirsi al mondo inteso come un tutto, come se questa

visione del tutto fosse frutto di una qualche esperienza. Ma il mondo, inteso come totalità, non può,

a differenza dei singoli fenomeni del mondo naturale, essere oggetto di nessuna esperienza. Le

antinomie dimostrano, quindi, l’illegittimità dell’idea di poter conoscere il mondo nella sua totalità.

Kant individua quattro antinomie, che rappresentano altrettanti tentativi di rispondere a quattro

domande che inevitabilmente l’uomo si pone ma che sono destinate a rimanere senza risposta:

1. Il mondo ha limiti nel tempo e nello spazio o è infinito?

2. Esiste o no qualcosa di assolutamente semplice?

3. È possibile la libertà o tutto è causalmente determinato?

4. Esiste o no una causa ultima e necessaria?

Nelle affermazioni della tesi (per esempio, “il mondo è limitato nel tempo e nello spazio”) trova

espressione il razionalismo: in quelle dell’antitesi (per esempio “il mondo è infinito nel tempo e

nello spazio”) l’empirismo. Le prime due antinomie, che considerano il mondo dal punto di vista

della quantità, sono dette “matematiche”; le ultime due, che riguardano il regresso

all’incondizionato, sono dette “dinamiche”. Come risolvere il problema delle antinomie? Secondo

Kant, di fronte alle antinomie matematiche la soluzione consiste nel considerare false sia la tesi sia

l’antitesi, in quanto entrambe le affermazioni non possono essere né confermate né smentite

dall’esperienza. La soluzione invece delle antinomie dinamiche consiste nel considerare vere sia la

tesi sia l’antitesi, a patto di riferire la tesi alla cosa in sé, cioè al mondo intelligibile, e l’antitesi al

fenomeno, cioè al mondo dell’esperienza. In particolare nella terza antinomia, la causalità secondo

le leggi della natura è la sola da cui possano essere derivati gli eventi del mondo, se questi sono

considerati come fenomeni, mentre se li si considera come cose in sé si può ammettere per la

spiegazione di essi anche una causalità attraverso la libertà: l’uomo in quanto oggetto

dell’esperienza sensibile non è libero, ma può essere considerato libero da un punto di vista diverso,

cioè in quanto membro del mondo intelligibile. Qui Kant si limita ad ammettere come non

contraddittoria l’idea della libertà, soltanto la filosofia pratica potrà poi conferire a essa realtà

oggettiva

LE ANTINOMIE DELLA RAGIONE

TESI ANTITESI

Prima

antinomia

Il mondo ha un’origine nel tempo

ed è limitato nello spazio.

Il mondo non ha origine nel tempo, né nello

spazio.

Seconda

antinomia

Nel mondo ogni sostanza consta di

parti semplici o atomi.

Nessuna sostanza composta consta di parti

semplici, ma tutto è divisibile all’infinito.

Terza

antinomia

Oltre alla causalità naturale vi è

anche una libera causalità.

Non vi è libertà, tutto accade secondo le leggi di

natura.

Quarta

antinomia

All’inizio delle cause agenti vi è

un essere necessario.

Non vi è alcun essere necessario, né nel mondo,

né fuori: tutto è contingente.

Il fallimento delle prove dell’esistenza di Dio elaborate dalla teologia razionale dimostra che

Dio, il quale non può essere oggetto di alcuna esperienza possibile, non è conoscibile per via

teoretica

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Kant respinge anche la pretesa della teologia razionale di dimostrare l’esistenza di Dio, inteso come

un essere singolo determinato da tutti i predicati positivi possibili e che esclude da sé ogni

negazione. Dio, infatti, se pure può essere pensato senza contraddizione, non può essere oggetto di

conoscenza teoretica, dal momento che la totalità assoluta, la totalità delle totalità, non può essere

oggetto di alcuna esperienza possibile. Kant riconduce le tradizionali prove dell’esistenza di Dio a

tre tipologie fondamentali: la prova ontologica, quella cosmologica e quella fisico-teleologica. La

prova ontologica afferma che Dio, possedendo tutte le perfezioni deve possedere anche quella

dell’esistenza. Secondo Kant però l’esistenza non è un predicato nel senso che l’esistenza non può

essere ricavata da un concetto, in questo caso la perfezione, ma deve essere percepita dai sensi, cioè

dimostrata dall’esperienza. Il ragionamento della prova ontologica è dunque tautologico: si finge

cioè di dimostrare l’esistenza di Dio quando in realtà la sua esistenza è già implicita nel soggetto.

Ecco la mia risposta: voi vi siete già contraddetti, allorché avete introdotto, in seno al concetto di

una cosa che vi proponete di pensare esclusivamente nella sua possibilità, il concetto della sua

esistenza, sia pure occultato sotto altro nome. Se vi si concede questo, avete apparentemente partita

vinta, ma in realtà avete detto nulla, poiché non avete dato luogo che a una tautologia. (Critica della

ragion pura)

Io posso per esempio fare un bel ragionamento fino a credere che esista l’idea cento talleri (la

moneta prussiana dell’epoca). Ma che cosa posso comperare con cento talleri pensati?

Assolutamente nulla. Un’idea è e rimane un’idea. L’errore della prova ontologica consiste dunque

nell’indebito passaggio dal piano logico al piano ontologico, cioè dal pensiero all’essere. La prova

cosmologica, invece, partendo dall’esperienza sostiene che poiché il mondo è caratterizzato da una

serie di concatenazioni causali ci deve necessariamente essere una causa prima, non causata, Dio.

Secondo Kant si tratta di una prova non valida in quanto fa un uso illegittimo della categoria di

causa. La categoria di causa trova infatti il suo legittimo ambito di applicazione solo nel mondo

fenomenico: una causa prima non causata può dunque essere pensata, ma non può mai essere

verificata come esistente. A ben vedere dunque la prova cosmologica nasconde la stessa logica della

prova ontologica: si tratta cioè di un ragionamento, mentre l’esistenza può solo essere accertata per

via empirica. La prova fisico-teleologica muove infine dalla constatazione che nel mondo vi sono

segni evidenti di un ordinamento attuato con grande sapienza: l’armonia e la bellezza del mondo

non possono infatti che dipendere da una mente ordinatrice, dal momento che la natura non avrebbe

potuto accordarsi per uno scopo finale se non fosse stata così organizzata da un creatore intelligente.

Questo ragionamento si basa sull’analogia tra i prodotti dell’arte e quelli della natura: come un

dipinto presuppone un pittore, così il mondo presuppone un ordinatore. In questo modo però si

riuscirebbe al massimo a dimostrare l’esistenza di un architetto del mondo ma non del suo creatore,

e per di più di un architetto cui potremmo attribuire perfezioni relative, proporzionate alle

perfezioni che incontriamo del mondo. Per dimostrare che questo essere è Dio, l’essere

perfettissimo, non rimane quindi che rifarsi alla prova ontologica della cui non validità però si è già

detto.

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Le idee non possono avere alcun uso costitutivo per la conoscenza ma possono però svolgere

una funzione regolativa, che consiste nel dare unità ai concetti dell’intelletto La dialettica trascendentale ha dimostrato che è illegittimo fare affermazioni a priori intorno a

oggetti che non possono essere dati in alcuna esperienza possibile. Pensare una sostanza semplice,

una causa libera o un ente perfettissimo è del tutto legittimo, perché tali concetti non sono

contraddittori. A essere illegittima è la pretesa di conoscere tali oggetti, cioè di provare che hanno

una realtà oggettiva e che non sono mere costruzioni fantastiche, perché ogni affermazione intorno

a tali oggetti non potrebbe essere né confermata né smentita da alcuna esperienza. Le idee non sono

però solo concetti di oggetti che non possiamo conoscere. Oltre a un significato negativo, che

consiste nel delimitare la conoscenza oggettiva alla sola esperienza, le idee hanno anche un

significato positivo e una certa validità oggettiva per quanto indeterminata: le idee svolgono infatti

anche una funzione regolativa necessaria a dare unità ai concetti dell’intelletto: come l’intelletto

infatti unifica il molteplice nell’intuizione mediante concetti, così la ragione unifica il molteplice

dei concetti per mezzo delle idee. È come se le linee direttive di tutte le regole dell’intelletto

convergessero tutte in un punto, un focus immaginario che dà all’immagine il senso della

profondità. L’intelletto, infatti, subordinando le singole percezioni a leggi sempre più generali,

procede dalle parti al tutto e non gli è possibile avere una conoscenza del tutto dell’esperienza. La

ragione invece, muovendo dai principi generali per ricavare il particolare, parte dal tutto per poi

procedere verso le parti, stabilendo la loro posizione e relazione reciproca. Se le parti sono a

fondamento della possibilità del tutto della conoscenza, questo si presenta come un mero aggregato

accidentale e non si ha alcuna garanzia che esso si costituisca come una totalità ordinata e coerente;

non si può infatti essere certi che ci siano effettivamente leggi più generali a cui quelle più

particolari possano essere subordinate. Se invece il tutto è il fondamento della possibilità delle parti,

esso può assumere la forma di un sistema in cui le conoscenze particolari possono essere derivate

ordinatamente a partire da un principio unitario, in cui dalle leggi più generali si può discendere a

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quelle particolari. L’intelletto raccoglie una molteplicità di leggi empiriche che regolano fenomeni

differenti, leggi che potrebbero essere così infinitamente varie e differenti che potrebbe essere

impossibile ricondurle ordinatamente sotto principi sempre più generali; la ragione, al contrario,

presuppone che tali leggi possano essere pensate come se derivassero effettivamente da quelle più

generali costituendo un sistema unitario e organico: anche se il tutto dell’esperienza non può essere

oggetto di un’esperienza possibile, la tensione verso la completezza assoluta dell’esperienza

conferisce comunque sistematicità alla conoscenza.

LESSICO

Trascendentale Kant riprende l’aggettivo dalla Scolastica che chiamava “trascendentali” tutti quei

caratteri che sono più generali perfino delle categorie aristoteliche (appunto le trascendono), come

l’“uno”, il “vero” e il “buono”. Kant però distingue tra trascendente e trascendentale: mentre per

trascendente intende ciò che va al di là dell’esperienza, l’aggettivo trascendentale fa riferimento allo

studio filosofico delle condizioni della conoscibilità, cioè alle forme pure a priori.

Scrive infatti Kant già nella prima edizione della Critica della ragion pura: «Chiamo trascendentale

ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti, quanto dei nostri concetti a priori

degli oggetti». E ribadisce con chiarezza nella seconda edizione: «Chiamo trascendentale ogni

conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli

oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori».

Forme pure a priori Le forme pure a priori sono le modalità attraverso le quali il soggetto

conoscente ordina il materiale empirico. In quanto a priori non derivano dall’esperienza ma la

precedono e la rendono possibile: nessun oggetto può essere conosciuto se non attraverso

l’applicazione delle forme pure ai dati sensibili che provengono dall’esperienza, che tramite esse

vengono recepiti e ordinati.

Le forme pure a priori, dunque, costruiscono, insieme alla materia ricavata dall’esperienza (quindi a

posteriori), il fenomeno, cioè l’unico possibile oggetto dell’umana conoscenza.

Tautologia Dal greco tautòs, “lo stesso”, e lógos, “discorso”. Il termine si usa per indicare un

ragionamento sostanzialmente inutile in quanto il predicato ripete quanto già implicito nel soggetto.

Intuizione L’intuizione (dal latino tardo intueri, “guardare dentro”) è un atto conoscitivo semplice,

istantaneo e immediato. Inoltre ha carattere passivo, nel senso che è una sorta di “affezione”,

qualche cosa cioè che si subisce, ed è propria della conoscenza sensibile, che si distingue dalla

conoscenza discorsiva (ottenuta tramite il ragionamento).

Concetto Il concetto (dal latino concipere, “concepire, afferrare con la mente, ideare”, e cum-

capere, “prendere insieme”) è secondo Kant una rappresentazione di carattere generale che contiene

ciò che è comune a più oggetti. A differenza dell’intuizione, il concetto è il risultato di un’attività,

cioè è il prodotto dell’operazione di unificazione del molteplice svolta dall’intelletto.

Deduzione trascendentale Il termine deduzione viene utilizzato da Kant nel significato che ha nel

linguaggio giuridico, dove indica la dimostrazione della legittimità di un diritto. I giuristi, quando

parlano di facoltà o pretese (per esempio della pretesa al possesso di un oggetto), distinguono infatti

ciò che attiene al fatto (quid facti, per esempio il fatto che io possegga un oggetto) da quel che è di

diritto (quid iuris, la legittimità della mia pretesa su quell’oggetto, che potrebbe per esempio essere

contestata da qualcuno che reclama di esserne il legittimo proprietario). La deduzione

trascendentale è un testo estremamente complesso che costò a Kant, come egli stesso dichiara, una

grande fatica, dimostrata del resto dalla sua completa rielaborazione nella seconda edizione della

Critica. Nella prima edizione Kant precedeva “dal basso verso l’alto”, cercando di seguire passo

dopo passo il percorso che dall’intuizione conduce al concetto, correndo il pericolo di dare troppo

rilievo alle condizioni psicologiche del conoscere. Nella seconda Kant procede invece “dall’alto

verso il basso” cercando di mettere in luce soprattutto il modo in cui i concetti rendono possibile

l’esperienza.

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Fenomeno Il fenomeno (dal greco phàinomai, “mi mostro, appaio”) è l’unico possibile oggetto

della conoscenza umana. Per la sua stessa esistenza, il fenomeno implica l’applicazione delle forme

pure a priori proprie del soggetto conoscente a un oggetto rendendo possibile l’esperienza.

Noumeno Il noumeno (dal greco noéo, “penso, concepisco con l’intelletto”) non può essere oggetto

dei sensi ma solo del pensiero. Di conseguenza non può essere conosciuto oggettivamente. Uno dei

grandi dibattiti che anima la filosofia post-kantiana consiste proprio nello stabilire la ragione per cui

Kant abbia ammesso qualcosa che non solo non può essere conosciuto oggettivamente, e di cui

dunque non si può neppure pretendere di affermare che esista, ma che lo abbia posto addirittura a

fondamento del fenomeno (come qualcosa di cui, come talvolta afferma, il fenomeno sarebbe la

manifestazione sensibile). Se non possiamo sapere nulla di oggettivamente valido intorno alle cose

in sé, quale valore possiamo infatti attribuire all’affermazione che le cose in sé esistono e ancor più

che esercitano un’affezione sui nostri sensi?

Idealismo materiale Dopo Kant, il dibattito filosofico si concentrò sull’Io penso, dando vita a una

corrente di pensiero chiamata idealismo, in quanto riduceva l’oggetto della conoscenza a idea. Nella

fase iniziale di questo dibattito, tuttavia, ebbe modo di inserirsi lo stesso Kant che definì idealismo

materiale la concezione che metteva in dubbio l’esistenza degli oggetti fuori di noi, come affermava

Cartesio, o negava la possibilità di dimostrarne l’esistenza come Berkeley.

Idealismo trascendentale Kant definì il proprio idealismo “trascendentale” in quanto era fondato

sulla consapevolezza dell’esistenza degli oggetti fuori di noi, sebbene la conoscenza di essi sia

limitata all’aspetto fenomenico. Come precisò nella seconda edizione della Critica della ragion

pura, Kant ritiene infatti che l’interiorità dell’io necessiti dell’esteriorità delle cose. «Dobbiamo

dunque guardarci da una vulgata - scrive Umberto Eco - che vede in Kant il campione di un

soggettivismo assoluto che vanifica la realtà esterna in favore dell’attività di un Io legislatore.

Questa vulgata è stata a tal punto diffusa che ancora nell’Ottocento tale padre Mattiussi scriveva un

libro, Il veleno kantiano, diventato fondamentale per tutti i sostenitori di un realismo che negasse

l’attività legislativa dell’intelletto umano. In verità Kant vuole stabilire e garantire le possibilità di

una conoscenza oggettiva e certa».

Immaginazione produttiva L’immaginazione è la facoltà di avere intuizioni di un oggetto anche

senza la sua presenza ed è in grado di mediare tra sensibilità e intelletto, cioè di connettere

intuizioni e concetti, che sono del tutto eterogenei. L’immaginazione è detta riproduttiva se è

fondata sulla legge empirica dell’associazione, studiata dalla psicologia empirica, per cui

rappresentazioni che si sono spesso presentate insieme nell’intuizione, alla fine si associano tra loro

nell’immagine di un oggetto; è detta invece produttiva se serve a presentare nell’intuizione certe

connessioni, dette schemi, determinate non dal ricordo di esperienze precedenti, ma

indipendentemente dall’esperienza. La prima è fondata sul ricordo e dunque sull’esperienza, mentre

nel secondo caso la connessione è determinata a priori come necessaria, prima di averne avuto

un’intuizione diretta.

Idee Il termine idea è stato introdotto da Platone per indicare una realtà metafisica, sovrasensibile,

perfetta, eterna e intelligibile. In età medievale le idee erano i modelli eterni, presenti nella mente di

Dio, delle realtà sensibili. In età moderna il termine viene utilizzato - con sfumature diverse - da

Cartesio, Spinoza, Locke e Hume. Kant usa il termine “idea” per indicare le idee della ragione che

si riferiscono solamente a delle esigenze della mente a cui non corrisponde alcun oggetto

percepibile con i sensi.

Dialettica In Platone è la scienza suprema delle idee, mentre per Aristotele indica semplicemente

un tipo di argomentazione che fornisce alla scienza i concetti su cui basarsi, nonché la scienza

dell’argomentazione discorsiva, non dissimile dalla retorica.

Per gli stoici era la scienza dei discorsi divisi, fondati su domande e risposte. Kant usa il termine

dialettica con una connotazione negativa, come “logica della parvenza” in quanto ha per contenuto

affermazioni che non possono essere né confermate, né smentite.

Parvenza Scrive Kant: «Cadrei in un grave errore se trasformassi in una semplice parvenza

(Schein) ciò che debbo invece considerare come un fenomeno». Il termine parvenza viene dunque

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usato per tradurre Schein che per Kant ha un significato negativo, in quanto si tratta di un’illusione.

Quando invece Kant fa riferimento all’apparenza fenomenica usa il termine Erscheinung che

traduciamo con “apparenza”.

Metafisica In riferimento alla metafisica tradizionale, il termine ha in Kant un significato negativo,

in quanto indica la pretesa della ragione di occuparsi di concetti di cui non potremo mai fare

esperienza. La metafisica dunque, pur configurandosi come una naturale tendenza dell’uomo, per

Kant non è scienza ma conoscenza fallace.

In un senso limitato e particolare, Kant usa però il termine anche con un significato positivo,

intendendo con metafisica la scienza dei principi a priori del conoscere e dell’agire. È questo il

senso del termine nelle espressioni “metafisica della natura” e “metafisica dei costumi”.

Paralogismo Dal greco para (prefisso che indica vicinanza ma anche alterazione, deviazione) e

logismós (ragionamento). È un ragionamento non valido ma che può apparire dotato di validità.

Antinomia Il termine deriva dal greco anti, contrapposizione, e nómos, legge. Alla lettera significa

quindi “conflitto di leggi”. Kant lo usa per indicare le insolubili contraddizioni a cui perviene la

ragione nel momento in cui pretende di fornire una spiegazione razionale riguardante il mondo

nella sua totalità.

Funzione regolativa La funzione regolativa delle idee consiste nella loro capacità di guidare la

conoscenza, orientandola verso la massima unità e la massima coerenza possibili.

Le idee, infatti, non possono essere usate per conoscere gli oggetti ai quali si riferiscono (uso

costitutivo), ma possono servire come utile stimolo per dare un’unità sempre maggiore ai concetti

dell’intelletto.