Appunti di Chimica III-Parte - Unife

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100 Appunti di Chimica Adriano Duatti Parte III 5. Reazioni di ossido-riduzione 6. Gli stati della materia 7. Le soluzioni 8. La chimica dell’acqua Università di Ferrara

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Appunti di Chimica

Adriano Duatti

Parte III

5. Reazioni di ossido-riduzione

6. Gli stati della materia

7. Le soluzioni

8. La chimica dell’acqua

Università di Ferrara

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Appunti di Chimica 5. Le Reazioni di Ossido-Riduzione 5.1. Ossidi, idruri, acidi e basi Prima di addentrarsi nello studio delle reazioni di ossido-riduzione, è conveniente soffermarsi sulla descrizione di alcune categorie di composti degli elementi che, almeno per gli elementi più comuni, sono i precursori di quasi tutte le altre sostanze chimiche. La prima importante categoria di composti naturali è quella formata dagli ossidi degli elementi. Poiché il nostro pianeta è ricco di ossigeno, è abbastanza facile comprendere perché la quasi totalità degli elementi forma composti con l’ossigeno. Questi composti sono detti binari perché contengono solamente l’ossigeno e l’elemento considerato (indicato genericamente con il simbolo X), e sono descritti da formule del tipo XnOm. Uno stesso elemento può formare molteplici composti con l’ossigeno cui, necessariamente, corrispondono formule binarie diverse, ma sempre dello stesso tipo. A questo punto, è conveniente introdurre un’utile suddivisione fra gli elementi nella Tabella Periodica, distinguendo fra quelli che appartengono ai primi due gruppi (chiamati metalli alcalini e alcalino-terrosi) e quelli che appartengono ai gruppi successivi, 3−7 (genericamente chiamati non-metalli). Il gruppo 8 contiene gli elementi noti come gas nobili che, in generale, non formano composti con l’ossigeno, ma anche con quasi tutti gli altri elementi naturali (si tratta di elementi chimicamente inerti). In questa trattazione elementare, non saranno trattati gli elementi che fanno parte delle serie intermedie come i metalli di transizione, i lantanidi e gli attinidi). Gli elementi dei primi due gruppi formano normalmente un solo tipo di ossido che può essere descritto dalla formula X2O per gli elementi del primo gruppo (metalli alcalini), e XO per gli elementi del secondo gruppo (metalli alcalino-terrosi). Gli elementi degli altri gruppi possono, invece, formare molti composti con l’ossigeno che, quindi, non sono riassumibili in un’unica formula. E’ interessante osservare che anche se, nella nomenclatura moderna, questi ultimi composti sono tutti classificati come ossidi, nella nomenclatura tradizionale essi erano indicati come anidridi (ad esempio, il composto CO2 prende il nome di biossido di carbonio, ma in passato era indicato come anidride carbonica). Un’altra categoria di composti binari è quella fra gli elementi e l’idrogeno. Questi composti sono rappresentati dalla formula generale XHn. Ancora una volta, gli elementi dei primi due gruppi formano composti semplici che sono rappresentati dalle formule XH e XH2 per gli elementi del primo e secondo gruppo, rispettivamente. Gli elementi dei gruppi successivi (non-metalli) formano composti binari con l’idrogeno più complessi che non possono essere riassunti in un'unica formula. Esempi di composti binari di questi elementi sono CH4, C2H6, NH3, N2H4, H2O, HF, HCl, H2S, PH3, B2H6. Una reazione molto importante è quella fra gli ossidi degli elementi e l’acqua (non è necessario ricordare che l’acqua è uno dei composti più abbondanti nell’universo). Gli ossidi degli elementi reagiscono con l’acqua per dare nuovi composti che contengono l’elemento

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considerato, l’idrogeno e l’ossigeno e rappresentabili con la formula XnOmHl. Esempi di queste reazioni sono illustrati in basso:

Na2O + H2O ® 2NaOH

Cl2O + H2O ® 2ClOH

SO3 + H2O ® SO4H2

CO2 + H2O ® CO3H2

CaO + H2O ® CaO2H2 Occorre notare che i composti ClOH, SO4H2, CO3H2 e CaO2H2 sono convenzionalmente scritti come HClO, H2SO4, H2CO3 e Ca(OH)2, ma quest’argomento sarà trattato nel seguito. 5.2. Lo stato di ossidazione Allo scopo di classificare le varie sostanze chimiche, agli elementi nei composti è, di solito, attribuito un numero positivo o negativo, che prende il nome di stato di ossidazione (o anche, numero di ossidazione). La storia del concetto di stato di ossidazione è stata assai lunga e travagliata e, molto spesso, esso è ancora confuso con quello di valenza. In realtà, le due definizioni sono completamente separate. In particolare, lo stato di ossidazione non possiede alcun significato fisico. Si tratta, semplicemente, di un numero arbitrario (cioè calcolato seguendo regole formali e non leggi naturali) che fornisce una specie di ‘etichetta’ agli elementi all’interno dei composti. Le regole formali per attribuire gli stati di ossidazione agli elementi nei loro composti sono assai semplici. La regola principale è la seguente: la somma degli stati di ossidazione di tutti gli elementi che compongono la molecola deve essere uguale alla carica elettrica totale della molecola stessa. In seguito, si attribuiscono arbitrariamente all’ossigeno e all’idrogeno i seguenti stati di ossidazione:

O ® −2 H ® +1

A questo punto, utilizzando le formule molecolari degli ossidi degli elementi, e la regola descritta sopra, è possibile dedurre gli stati di ossidazione di tutti gli elementi. Naturalmente, invece di utilizzare le formule degli ossidi, si potrebbero utilizzare quelle dei composti binari con l’idrogeno. Tuttavia, in questo caso, l’applicazione delle regole citate conduce a un conflitto nell’attribuzione degli stati di ossidazione per i metalli alcalini e alcalino-terrosi. Infatti, se si considerano gli ossidi di questi elementi, rappresentati dalle formule X2O e XO, i valori degli stati di ossidazione risultanti sono +1 per gli elementi del primo gruppo e +2 per quelli del secondo gruppo, rispettivamente. Gli stessi elementi formano anche composti binari con l’idrogeno che sono descritti dalle formule molecolari XH e XH2. Il calcolo degli stati di ossidazione produce, in questo caso, i valori −1 e −2, che sono opposti a quelli ottenuti con gli ossidi.

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Come risolvere questo dilemma? Poiché lo stato di ossidazione è un concetto puramente formale, sono possibili molte soluzioni. Ad esempio, si potrebbe accettare che i metalli alcalini e alcalino-terrosi posseggano entrambi gli stati di ossidazione positivi e negativi. Però, si potrebbe fare la stessa cosa con l’idrogeno ammettendo che questo elemento possa assumere gli stati di ossidazione +1 e −1 e mantenendo solo gli stati di ossidazione positivi per i metalli. Allora, si dovrebbe aggiungere la regola che, nei composti binari XH2 e XH (X = metallo alcalino o alcalino-terroso), l’idrogeno assume lo stato di ossidazione −1 e, quindi, costituisce un’eccezione alla regola iniziale introdotta in precedenza. Poiché, quest’ambiguità nell’attribuzione degli stati di ossidazione si può presentare anche in molti altre situazioni, è stato necessario elaborare una nuova regola che fornisse un metodo meno arbitrario nella scelta degli stati di ossidazione. La regola è la seguente: quando occorre fare una scelta nell’attribuzione degli stati di ossidazione agli elementi in un composto, gli stati di ossidazione negativi devono sempre essere attribuiti agli elementi più elettronegativi. Con questa regola, la scelta a quale elemento attribuire lo stato di ossidazione negativo nei composti XH2 e XH (X = metallo alcalino o alcalino-terroso) cade necessariamente sull’idrogeno poiché questo elemento ha un’elettronegatività molto più elevata rispetto ai metalli alcalini e alcalino-terrosi. Per questo motivo, i composti XH2 e XH sono chiamati idruri dei metalli e si riporta la nozione che, negli idruri metallici, l’idrogeno ha stato di ossidazione −1. Al contrario, poiché la gran parte degli elementi non-metallici appartenenti ai primi periodi mostra valori dell’elettronegatività superiori a quello dell’idrogeno, nei composti binari idrogenati, questi elementi hanno stati di ossidazione negativi, mentre l’idrogeno rispetta la regola iniziale e assume lo stato di ossidazione +1. E’ già stato ricordato che gli elementi non-metallici formano diversi composti binari sia con l’ossigeno, sia con l’idrogeno. Ne consegue che questi elementi sono caratterizzati da una varietà di stati di ossidazione positivi e negativi. Esistono altre situazioni particolari nelle quali è necessario aggiustare le regole per l’attribuzione degli stati di ossidazione. Infatti, se una molecola contiene un unico tipo di atomo (ad esempio, O2, N2, P4, S8), poiché non è possibile attribuire numeri di ossidazione diversi ad atomi perfettamente uguali, ne consegue che a essi si deve attribuire lo stesso stato di ossidazione. Allora, è evidente che, se la carica totale della molecola è zero, occorre attribuire lo stato di ossidazione 0 a tutti gli atomi presenti. Al contrario, se la specie chimica, formata dallo stesso tipo di atomo, possiede una carica elettrica totale, essa deve essere suddivisa in parti uguali fra gli atomi presenti. Ad esempio, nello ione perossido O2

2-, la doppia carica negativa deve essere suddivisa fra i due atomi di ossigeno che, quindi, assumeranno lo stato di ossidazione -1. Ne deriva che i composti che contengono il gruppo perossido (ad esempio, l’acqua ossigenata H2O2) costituiscono un’eccezione alla regola che assegna lo stato di ossidazione -2 all’ossigeno nei composti. Infine, un caso assai semplice è quello di capire come attribuire lo stato di ossidazione di uno ione monoatomico come, ad esempio, Cu2+, F-, K+, Al3+. La risposta può essere trovata applicando semplicemente la regola che la somma degli stati di ossidazione deve essere uguale alla carica totale della specie chimica in esame. Poiché si tratta di uno ione monoatomico, ne discende necessariamente che la carica ionica deve essere esattamente uguale allo stato di ossidazione dell’elemento costituente. 5.3. Bilanciamento delle reazioni di ossido-riduzione Per reazione di ossido-riduzione s’intende un processo chimico in cui la trasformazione dei reagenti nei prodotti provoca sempre la variazione negli stati di ossidazione di almeno due elementi coinvolti nella reazione. In particolare, nel corso della reazione, deve essere presente almeno un

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elemento che diminuisce il proprio stato di ossidazione. Si afferma che quest’elemento si riduce, e la corrispondente trasformazione è chiamata reazione di riduzione. Nella stessa reazione, deve essere anche presente almeno un elemento che, durante la trasformazione, aumenta il proprio stato di ossidazione. Si dice che quest’elemento si ossida, e la corrispondente trasformazione è chiamata reazione di ossidazione. La possibilità di identificare le specie che si ossidano e quelle che si riducono nel corso di una reazione di ossido-riduzione, offre uno strumento molto vantaggioso per ottenere facilmente il bilanciamento della reazione utilizzando una semplice procedura. Questo metodo appare particolarmente conveniente nel bilanciamento delle reazioni di ossido-riduzione che avvengono quando le sostanze reagenti sono sciolte nell’acqua (che costituisce la categoria più importante di reazioni di ossido-riduzione). Il metodo è basato su due principi fondamentali della natura che sono il principio di conservazione della massa (si ricorda che nel linguaggio della teoria atomica è anche chiamato principio di conservazione del numero di atomi) e il principio di conservazione della carica elettrica. La procedura che ne deriva è formata dai seguenti passaggi. � Identificazione delle specie che contengono gli elementi che si ossidano e di quelle che

contengono gli elementi che si riducono. � Scrittura della semi-reazione di riduzione (che contiene solo le specie chimiche reagenti in cui

si trovano gli elementi che si riducono) e della semi-reazione di ossidazione (che contiene solo le specie chimiche reagenti in cui si trovano gli elementi che si ossidano).

� Bilanciamento della massa di ciascuna semi-reazione (in soluzione acquosa si possono usare anche le specie H2O, H+ e OH- per il portare a termine il bilanciamento).

� Bilanciamento della carica di ciascuna semi-reazione utilizzando l’aggiunta di elettroni. � Normalizzazione del numero di elettroni in entrambe le reazioni. � Somma delle due semi-reazioni e semplificazione dei termini simili.

Alcuni esempi, possono contribuire a chiarire meglio la procedura. Sia data la seguente reazione non bilanciata, che avviene in soluzione acquosa:

H2S + HClO3 ® H2SO4 + HCl Si tratta di una reazione di ossido-riduzione poiché l’atomo di zolfo (S) passa dallo stato di ossidazione −2 nella specie H2S allo stato di ossidazione +6 nella specie H2SO4, mentre l’atomo di cloro (Cl) passa dallo stato di ossidazione +5 nella specie HClO3 allo stato di ossidazione −1 nella specie HCl. Ne consegue che S si ossida e Cl si riduce. Le semi-reazioni di riduzione (Å) e ossidazione (y) sono:

y H2S ® H2SO4 Å HClO3 ® HCl

Poiché la reazione avviene alla presenza d’acqua, si possono utilizzare le specie H+ e H2O per eseguire il bilancio di massa delle due semi-reazioni come descritto nel seguito:

y 4H2O + H2S ® H2SO4 + 8H+ Å 6H+ + HClO3 ® HCl + 3H2O

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A questo punto, occorre bilanciare la carica elettrica in entrambe le semi-reazioni. Questo risultato si può ottenere aggiungendo elettroni (e-) che, per la loro massa trascurabile, non modificano il bilancio di massa:

y 4H2O + H2S ® H2SO4 + 8H+ + 8e- Å 6e- + 6H+ + HClO3 ® HCl + 3H2O

Il numero di elettroni deve essere reso uguale in entrambe le semi-reazioni e, per far questo, basta moltiplicare ciascuna semi-reazione per un numero intero adatto. In questo caso, è facile verificare che basta moltiplicare la reazione di riduzione (Å) per 4 e la reazione di ossidazione (y) per 3. Si ottiene:

y 12H2O + 3H2S ® 3H2SO4 + 24H+ + 24e- Å 24e- + 24H+ + 4HClO3 ® 4HCl + 12H2O

Sommando entrambi i membri delle semi-reazioni si ottiene:

24e- + 24H+ + 12H2O + 3H2S + 4HClO3 ® 4HCl + 3H2SO4 + 12H2O + 24H+ + 24e- Semplificando i termini simili, si ottiene la reazione finale bilanciata:

3H2S + 4HClO3 ® 4HCl + 3H2SO4 Un altro esempio è riportato di seguito. Sia data la seguente reazione di ossido-riduzione:

MnO4- + C6H12O6 ® Mn2+ + CO2 L’elemento manganese (Mn) è quello che si riduce poiché il suo stato di ossidazione passa dal valore +7 nella specie MnO4

- (anione permanganato) al valore +2 nello ione Mn2+. L’elemento che subisce l’ossidazione è il carbonio (C) che nella specie C6H12O6 (glucosio) possiede lo stato di ossidazione 0, mentre nella specie CO2 (biossido di carbonio o anidride carbonica) il numero di ossidazione diviene +4. Le semireazioni di ossidazione e di riduzione sono quindi:

y MnO4- ® Mn2+ Å C6H12O6 ® CO2

Il bilancio di massa, in cui le specie H+, OH- e H2O sono utilizzate per bilanciare gli atomi di ossigeno e idrogeno poiché la reazione avviene in soluzione acquosa, conduce al seguente risultato:

y 8H+ + MnO4- ® Mn2+ + 4H2O Å 6H2O + C6H12O6 ® 6CO2 + 24H+

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Il bilancio di carica si ottiene aggiungendo gli elettroni nel modo seguente:

y 5e- + 8H+ + MnO4- ® Mn2+ + 4H2O Å 6H2O + C6H12O6 ® 6CO2 + 24H+ + 24e-

Per eguagliare il numero di elettroni nelle due semireazioni, è necessario moltiplicare la semireazione di riduzione per 24 e quella di ossidazione per 5. Si ottiene:

y 120e- + 192H+ + 24MnO4- ® 24Mn2+ + 96H2O Å 30H2O + 5C6H12O6 ® 30CO2 + 120H+ + 120e-

Sommando i membri delle due semireazioni e semplificando i termini simili, si ottiene la reazione finale bilanciata:

72H+ + 24MnO4- + 5C6H12O6 ® 24Mn2+ + 30CO2 + 66H2O 6. Gli Stati della Materia 6.1. Lo stato solido Gli atomi e le molecole possono raggrupparsi in insiemi geometricamente ordinati e simmetrici che si ripetono nello spazio fino a formare la struttura dei solidi. In condizioni di temperatura e pressione costanti, un solido ha una forma e un volume ben definiti che non cambiano nel tempo. Dal punto di vista teorico, un solido può essere pensato come generato dalla ripetizione periodica lungo le tre dimensioni dello spazio di un’unità fondamentale che è chiamata cella cristallina o cella elementare. Essa è definita come la figura geometrica che si ottiene collegando con linee ideali le posizioni nello spazio occupate dai costituenti fondamentali del cristallo (atomi o molecole). Il solido risultante dalla traslazione nello spazio della cella cristallina prende il nome di reticolo cristallino. Un esempio semplice, ma che chiarisce il concetto di cella cristallina è quello di un solido monodimensionale costituito da atomi (o molecole) che occupano punti su una retta che sono separati sempre dalla stessa distanza b (Figura 44).

Figura 44. Rappresentazione di un reticolo cristallino monodimensionale. Il solido è generato dallatraslazioneperiodicadell’unitàfondamentale(cellacristallinaoelementare)costituitadadueatomi(omolecole)cheoccupanodueposizioniadiacentieseparatadaunadistanzab. E’ evidente che i cristalli possiedono una proprietà di simmetria in più rispetto alle molecole singole, rappresentata dall’invarianza per traslazione spaziale della cella elementare di una distanza fissa (che prende il nome di periodo del reticolo cristallino). E’ possibile anche

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dimostrare che possono esistere nello spazio solamente 14 tipi di reticoli cristallini (chiamati reticoli di Bravais). In altre parole, solamente le disposizioni spaziali descritte da questi reticoli permettono di riempire lo spazio tridimensionale all’infinito mantenendo la simmetria della cella elementare. I principali tipi di solidi possono essere classificati nelle seguenti categorie: solidi ionici, molecolari, covalenti e metallici. 6.1.1. Solidi ionici Un solido ionico è formato da un semplice aggregato di ioni positivi e negativi che si dispongono in modo ordinato e la cui somma totale delle cariche positive negative è esattamente nulla. Gli ioni possono essere singoli atomi o molecole che possiedono una carica elettrica. I sali sono gli esempi più conosciuti di solidi ionici. Il raggruppamento ordinato degli ioni per formare il reticolo cristallino può esistere solo allo stato solido, poiché la transizione di un solido ionico alla fase liquida, ottenuta sia per riscaldamento ad alte temperature che per dissoluzione in un solvente (ad esempio, l’acqua), porta inevitabilmente all’allontanamento degli ioni e alla distruzione del cristallo. In Figura 45 è mostrata la rappresentazione tridimensionale di un cristallo di cloruro di sodio.

Figura45.Rappresentazionetridimensionaledelcristallodiclorurodisodio(NaCl)formatodaioniNa+eCl-. 6.1.2. Cristalli covalenti Un cristallo covalente è formato da atomi legati fra loro da un forte legame covalente (si ricorda che, nel linguaggio della teoria di Lewis, un legame covalente è dovuto allo scambio di una coppia di elettroni fra gli atomi legati) per dare origine a un reticolo, idealmente infinito, di atomi discreti che ricoprono lo spazio. Un esempio classico di reticolo cristallino covalente è illustrato dalla struttura solida del diamante (Figura 46). Il diamante è una delle possibili forme cristalline del carbonio. All’interno di un cristallo di diamante, gli atomi di carbonio sono legati fra loro in modo covalente e tutti assumono un’ibridazione sp3. Di conseguenza, ciascun atomo di carbonio occupa un vertice di un tetraedro ideale al cui centro si trova un altro, identico atomo di carbonio. Ogni atomo di carbonio nel cristallo, può essere considerato sia il centro di un tetraedro che uno dei suoi vertici, creando in questo modo un reticolo che si ripete sempre uguale nello spazio. La disposizione geometrica dei tetraedri che, ripetuta nello spazio, genera tutto il cristallo e che, quindi, costituisce la cella elementare del diamante, è mostrata in Figura 45. Come si può osservare, la cella cristallina elementare è inserita all’interno di un

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cubo (reticolo ottaedrico) che dà origine a un solido il cui aspetto macroscopico sarà necessariamente quella di un cubo.

Figura 46. Rappresentazione del reticolo cristallino del diamante e della sua cella elementare tetraedrica.

Ne consegue che, un cristallo covalente può essere considerato come una singola molecola visibile a occhio nudo (contraddicendo il motto popolare che le molecole ‘non si possono vedere’). Allora, deve essere possibile assegnare a queste molecole ‘gigantesche’ una formula molecolare ben precisa. Nel caso del diamante, se si considera un cristallo di diamante del peso di x g, la sua formula molecolare sarà data dall’espressione:

𝐶! "(%)'(,*''( %

+,-).!/

dove 12,011 g/mol è la massa molare del carbonio. L’espressione:

𝑁𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝐶 =𝑥(𝑔)

12,011( 𝑔𝑚𝑜𝑙)𝑁!

rappresenta il numero di atomi di carbonio presenti in un campione di x grammi di diamante. Allora, è possibile affermare che non esista una singola molecola di diamante, bensì ogni singolo cristallo di diamante di un certo peso sia una molecola a sé stante la cui formula molecolare è fornita dall’espressione riportata in alto. Ne consegue che la formula C rappresenta la formula empirica del diamante. Il carbonio può esistere in un’altra forma solida chiamata grafene e scoperta solo di recente. L’esistenza di differenti forme solide per la stessa specie chimica è un fenomeno che va sotto il nome di allotropia. Il grafene è un solido covalente molto singolare. Esso è costituito da atomi di carbonio disposti su un piano dove occupano i vertici di esagoni che ricoprono tutta la superficie. Il solido ha, quindi, lo spessore che corrisponde al diametro di un atomo di carbonio e un’estensione idealmente infinita nel piano (Figura 47).

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Figura47.Rappresentazionedelreticolocristallinodelgrafene. Ogni foglio di grafene costituisce, quindi, un’enorme molecola singola la cui formula molecolare può essere ottenuta impiegando la stessa espressione usata in precedenza con il diamante. Se un foglio di grafene è arrotolato su se stesso, e i bordi del foglio saldati fra loro si ottiene un’altra forma allotropica del carbonio chiamata nanotubo (Figura 48). Quest’operazione può essere realizzata solo su dimensioni molto piccole e, quindi, la lunghezza di un nanotubo è normalmente molto piccola (dell’ordine di 10-9 m, da cui il termine ‘nano’).

Figura 48. Struttura di un nanotubo. E’ possibile anche avvolgere un foglio di grafene fino a formare una superficie sferica. Tuttavia, utilizzando la topologia si può dimostrare che non è possibile ricoprire completamente la superficie di una sfera con degli esagoni, e che occorre interporre fra gli esagoni dei pentagoni. Il risultato è un’altra forma allotropica del carbonio che va sotto il nome di fullerene (Figura 49). Anche in questo caso, le dimensioni della specie chimica risultante è molto piccola (10-9 m), ma essa costituisce una molecola singola come accade per tutte le forme allotropiche descritte in precedenza.

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Figura 49. Struttura di un fullerene. Se innumerevoli fogli di grafene sono sovrapposti uno sopra l’altro, si ottiene un’altra forma allotropica del carbonio chiamata grafite (si tratta del comune carbone). Questi strati sono tenuti assieme da forze deboli generate dalla polarizzazione degli elettroni che si muovono lungo i piani di carbonio (Figura 50). Poiché ogni singolo piano di atomi di carbonio corrisponde a una singola enorme molecola, la grafite può essere considerato come un gigantesco aggregato di molecole planari tenute assieme dalle forze che si esercitano fra i piani. Questo solido è, quindi, più propriamente descritto come un cristallo molecolare (vedi paragrafo successivo).

Figura 50. Struttura della grafite. La silice (ossido di silicio) è un altro esempio di cristallo covalente. Un’illustrazione della distribuzione degli atomi nel cristallo è rappresentata in Figura 51. La sua formula empirica è SiO2 e, quindi, la sua formula molecolare può essere scritta come:

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𝑆𝑖! "(%)(0,*01( %

+,-).!/

𝑂(! "(%)'2,3334( %

+,-).!/

Figura 52. Rappresentazione del reticolo cristallino della silice (le sfere in colore rosso rappresentano atomi di ossigeno e quelle in marrone chiaro atomi di silicio). 6.1.3. Cristalli molecolari Un cristallo molecolare è formato da singole molecole tenute assieme da forze molto più deboli di quelle responsabili del legame covalente. La natura di queste forze dipende dal tipo di molecole che costituiscono il cristallo e si possono raggruppare nelle seguenti categorie. Le forze di Van der Waals sono generate dall’esistenza di dipoli molecolari permanenti che producono attrazioni elettrostatiche fra le cariche opposte dei dipoli stessi. Le forze di London si manifestano quando le molecole si avvicinano una all’altra durante la formazione del solido. Quest’avvicinamento provoca la temporanea polarizzazione degli orbitali di legame causata dalla reciproca repulsione con gli elettroni delle molecole circostanti che produce una distorsione della distribuzione elettronica. Il fenomeno dà origine alla formazione di dipoli temporanei che tendono a sparire quando le molecole si allontanano, ma che persistono quando le molecole sono molto vicine come all’interno di un reticolo solido. Il legame a idrogeno è una forza molto particolare che ha origine dall’interazione fra molecole che possiedono atomi d’idrogeno legati ad atomi molto elettronegativi (vedi in basso). Il ghiaccio è la forma solida dell’acqua e costituisce uno degli esempi più importanti di cristallo molecolare. Un cristallo di ghiaccio è formato da singole molecole d’acqua tenute assieme da un tipo di legame chimico completamente diverso da quelli descritti in precedenza. Per osservare questa interazione è necessario che in una molecola siano presenti atomi d’idrogeno legati ad atomi molto elettronegativi. E’ evidente che una molecola d’acqua soddisfa pienamente a questo requisito poiché contiene due atomi d’idrogeno legati a un atomo di ossigeno molto elettronegativo. Quando due molecole d’acqua si legano con un legame a idrogeno, esse si orientano come rappresentato in Figura 52.

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Figura52.Illustrazionedellaformazionediunlegameaidrogeno(inrosso)fraduemolecoled’acqua. I due atomi di ossigeno, assieme all’atomo d’idrogeno interposto fra essi, si trovano sulla stessa linea. L’atomo d’idrogeno oscilla e si dispone fra i due ossigeni, per cui esso può essere pensato come legato a entrambi (si dice che si forma un ‘ponte a idrogeno’). Il valore della distanza di legame fra l’atomo d’idrogeno e l’ossigeno è maggiore di quello di un legame singolo covalente O−H. Quindi, l’energia del legame idrogeno è molto più bassa di quella di un legame covalente (si ricorda che l’energia di legame è l’energia che occorre fornire alla molecola per rompere un legame), ma sufficiente a tenere assieme le molecole d’acqua all’interno di un cristallo di ghiaccio. In breve, la caratteristica più importante del legame a idrogeno è la sua direzionalità poiché esso impone alle molecole d’acqua legate nel ghiaccio di orientarsi precisamente lungo l’asse O−H−O come mostrato in Figura 52. Ne discende che questo legame non può essere considerato di natura puramente elettrostatica perché la forza elettrica di Coulomb ha una simmetria sferica e, dunque, nessuna orientazione privilegiata. Le proprietà del legame a idrogeno, oltre a tenere assieme le molecole d’acqua nel ghiaccio, ne determinano la struttura della cella elementare in cui quattro molecole si dispongono lungo gli assi interni di un tetraedro, definiti appunto dai vari legami a idrogeno, e attorno ad una molecola posta al centro del tetraedro, come mostrato in Figura 53.

Figura53.Rappresentazionedellacellaelementaredelghiaccio. Il reticolo cristallino che è generato dalla traslazione nello spazio di questa cella elementare è mostrato in Figura 54 da due diverse prospettive.

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Figura53.Rappresentazionedelreticolocristallinodelghiaccio. Appare evidente come la struttura dell’acqua solida sia costituita in gran parte da spazi vuoti formati da corridoi esagonali che attraversano tutto il solido. La conseguenza della presenza di questi spazi vuoti è che la densità del ghiaccio è inferiore a quella dell’acqua liquida. Ciò significa che il numero di molecole d’acqua contenute in un certo volume di ghiaccio è sempre inferiore al numero di molecole contenute nello stesso volume di acqua liquida. Un altro esempio di cristallo molecolare è costituito dal reticolo del biossido di zolfo (anidride solforosa) solido formato da singole molecole di SO2 (Figura 54).

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Figura54.Strutturadelbiossidodizolfosolido,SO2(zolfoingialloeossigenoinrosso). 6.1.4. Cristalli metallici I solidi metallici formano una particolare sottoclasse di solidi covalenti dove, tuttavia, occorre utilizzare una differente descrizione del legame che unisce i singoli atomi del metallo. Infatti, i metalli hanno proprietà completamente diverse da quelle dei solidi covalenti come, ad esempio, la capacità di condurre la corrente elettrica e il calore, e la lucentezza dovuta alla proprietà di riflettere la luce. Al contrario, i solidi covalenti isolano sia dal calore, sia dalla corrente elettrica, sono molto duri e resistenti e non riflettono la luce. Queste differenze hanno condotto allo sviluppo di un modello di legame specifico per i metalli che va sotto il nome di teoria delle bande (vedi il prossimo paragrafo). In breve, la struttura cristallina di un metallo è immaginata come costituita da un reticolo di ioni positivi generato dalla perdita da parte di ciascun atomo metallico degli elettroni di valenza. L’enorme numero di elettroni ‘evaporati’ dai singoli atomi si distribuisce uniformemente su tutta la struttura del solido così da formare una specie di ‘mare di elettroni’ in cui sono immersi gli ioni positivi. La carica negativa del mare elettronico confina gli ioni positivi all’interno del cristallo e ne assicura la stabilità. Sono state sviluppate diverse teorie per descrivere questa moltitudine di elettroni. La prima fu proposta da Enrico Fermi che descrisse gli elettroni come un ‘gas’ dalle proprietà quantistiche (gas degenere). Da questa descrizione fu sviluppata quella che è nota come statistica di Fermi-Dirac, che descrive le proprietà d’insiemi di particelle con spin semintero (chiamate fermioni), che sono distinte da quelle possedute da insiemi di particelle con spin intero (chiamate bosoni) che, invece, ubbidiscono alla statistica di Bose-Einstein. Tuttavia, la teoria di maggior successo fu quella che descrive gli elettroni come distribuiti su livelli di energia che possono variare in modo continuo all’interno di quella che è, appunto, chiamata ‘banda di energia’.

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6.1.5. Cenni alla teoria delle bande I fondamenti della teoria delle bande sono stati, ancora una volta, sviluppati facendo uso della simmetria. Come già accennato in precedenza, un cristallo possiede una simmetria traslazionale, cioè resta sempre uguale a sé stesso quando ci si sposta lungo uno qualsiasi dei tre assi spaziali di una quantità fissa chiamata periodo del reticolo cristallino (a). Ne discende, allora, che la funziona d’onda totale, Ψ, che descrive il sistema, deve possedere la seguente proprietà d’invarianza (l’esempio è riferito a un reticolo monodimensionale disposto lungo l’asse x):

Ψ(𝑥) = Ψ(𝑥 + 𝑎) dove a è il periodo del cristallo. Muovendosi lungo il cristallo, un elettrone di valenza (che come già detto non appartiene più a un atomo specifico) potrà saltare da uno ione metallico a quello successivo (o precedente). Una funzione d’onda totale che sia invariante per traslazione può, allora, essere scritta come combinazione lineare delle funzioni atomiche di tutti atomi che formano il cristallo:

Ψ(𝑥) = 9𝑎"𝜓""

(𝑥)

Poiché gli ioni sono tutti uguali, l’elettrone su ciascuno ione sarà descritto dalla stessa funzione d’onda atomica ψi e, di conseguenza, i coefficienti ai avranno tutti lo stesso valore. Si può, allora, scrivere:

Ψ(𝑥) = 𝑎"9𝜓""

(𝑥) = 𝑎"Ψ′(𝑥)

dove Ψ!(𝑥) = ∑ 𝜓"" (𝑥) = 𝑛𝜓"(𝑥) e n è il numero di ioni che compongono il reticolo cristallino. A questo punto, è possibile pensare di sostituire l’indice discreto i nel coefficiente ai, con la posizione nello spazio occupata dallo ione iesimo. L’espressione diviene:

Ψ(𝑥) = 𝑎(𝑥)Ψ′(𝑥) Per mantenere l’invarianza traslazionale, la funzione a(x) deve mostrare un comportamento periodico lungo il cristallo, cioè essa deve ripetersi uguale a se stessa ogni volta che si sposta di un periodo a. Una scelta possibile è la seguente:

𝑎(𝑥) = 𝑒"#$%&

La funzione totale diventa:

Ψ(𝑥) = 𝑒'"#$%& (Ψ′(𝑥)

Utilizzando questa funzione si può dimostrare che la probabilità di trovare l’elettrone sull’atomo che occupa il punto x del reticolo cristallino, e che è data dall’espressione |𝜓"|#, si propaga periodicamente nel cristallo come mostrato in Figura 55. È facile osservare che l’elettrone può muoversi lungo tutto il cristallo e che la probabilità di trovarlo su un singolo ione si propaga periodicamente come un’onda monocromatica.

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Figura55.Variazionedellaprobabilitàditrovarel’elettronesuunoioneparticolarepostoall’internodiuncristallomonodimensionale(lavariazionedell’intensitàdeimassimidipendedalnumerodielettroninelcristallo). Ciò che è ancora più interessante è che, utilizzando la funzione di stato totale scritta sopra per calcolare l’energia dell’elettrone nel cristallo, essa dipenderà dal parametro a, che è tipico di ciascun solido. Il calcolo rivela che l’energia dell’elettrone non assume valori discreti, ma varia in modo continuo all’interno di un intervallo di valori compresi fra un massimo e un minimo (Figura 56). Questo intervallo prende il nome di banda d’energia.

Figura56.Variazionedell’energiadell’elettroneinfunzionedelperiododelcristallo(a).L’energiavariainmodocontinuoall’internodiunintervallodienergia(banda)compresofraunmassimoeunminimo. In definitiva, in un cristallo, gli elettroni sono liberi di muoversi lungo tutto il reticolo cristallino e la loro energia varia in modo continuo, anche se è ‘confinata’ all’interno di intervalli d’energia corrispondenti alle varie bande, che sono caratteristiche del particolare solido. A loro volta, le bande (che sono associate alle differenti funzioni atomiche ψi utilizzate nel calcolo della funzione totale Ψ) sono separate da intervalli di energia proibiti in cui l’elettrone non può trovarsi. Per saltare da una banda a un’altra gli elettroni devono assorbire o cedere energia. Insomma, si può pensare che, passando dalla descrizione quantistica di un singolo atomo a quella di un insieme di atomi contenuti all’interno di un reticolo cristallino, le energie discrete degli stati atomici si trasformino nelle bande tipiche dei cristalli. Per questa ragione, la teoria delle bande, che in origine era stata sviluppata per spiegare il comportamento dei solidi metallici, è stata poi estesa a tutti i tipi di solidi compresi quelli ionici. In tutti i solidi, esiste una banda che contiene tutti gli elettroni di valenza degli atomi che compongono il cristallo chiamata banda di valenza. Gli elettroni che si trovano nella banda di valenza sono tutti accoppiati fra loro con spin antiparalleli e, per questo, non si misura alcun passaggio di corrente elettrica. Per osservare una corrente è necessario che un numero sufficiente di elettroni passi alla banda a energia superiore senza però disporsi con spin opposti,

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ma restando tutti con spin paralleli. La banda a energia più alta che si trova appena sopra alla banda di valenza è chiamata banda di conduzione. La separazione in energia (ΔE) fra le due bande corrisponde alla banda proibita e il suo valore determina le caratteristiche del solido riguardo alla sua capacità di condurre la corrente elettrica. Se ΔE è molto grande, il solido si comporterà come un isolante perché, a temperatura ambiente, gli elettroni non potranno estrarre sufficiente energia dall’esterno per passare alla banda di valenza. Se ΔE è piccolo, basterà un lieve aumento di temperatura per promuovere elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione e osservare il passaggio di corrente che aumenterà con la temperatura. Questo comportamento è caratteristico dei materiali semiconduttori. Infine, se ΔE ≤ 0, gli elettroni potranno fluire liberamente fra le due bande, e il solido mostrerà le caratteristiche proprietà dei metalli. La Figura 57 mostra una rappresentazione schematica fra le energie della bande di valenza, conduzione e proibita per i tre tipi di solidi.

Figura57.Ladistribuzionedelleenergieperlebandedivalenza,conduzioneeproibitaneisolidiisolanti,semiconduttoriemetallici. 6.2. Lo stato gassoso Una sostanza che si trova allo stato gassoso mostra alcune caratteristiche peculiari, la più evidente delle quali è che essa tende a occupare tutto lo spazio disponibile. Questo significa che per definire esattamente le proprietà di questo stato evanescente occorre confinarlo all’interno di un contenitore. Il volume del contenitore (V) costituisce, quindi, una delle variabili principali utilizzate per descrivere lo stato macroscopico di un gas. Le altre due variabili utilizzate nella descrizione dello stato gassoso sono la pressione (P) e la temperatura (T). Infatti, è facile comprendere che un gas esercita una pressione (basta farsi trovare dentro una bufera di vento oppure osservare come si muove un veliero). Allo stesso modo, appare chiaro che un gas può scaldarsi o raffreddarsi come dimostrano i voli delle mongolfiere. Il problema però è che appare anche subito evidente che misurare la pressione esercitata dal vento durante un tifone tropicale, oppure tentare di stabilire la temperatura di un gas riscaldato dentro una mongolfiera, sia impresa assai ardua. La ragione di tutto questo è abbastanza semplice da capire. Durante un uragano tropicale, la pressione del vento cambia continuamente e non è la stessa in tutti i punti dello spazio. Analogamente, quando una mongolfiera sale verso l’alto il gas che si trova nella parte superiore del pallone, è più caldo di quello che si trova in basso (infatti, occorre

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riscaldarlo). Al fine di misurare i parametri P, V e T, è necessario che il gas raggiunga una condizione di equilibrio fisico. Il concetto di equilibrio svolge un ruolo chiave in chimica e in termodinamica e, il raggiungimento dell’equilibrio nello stato di un gas ne fornisce un primo esempio. In un modo generale, l’equilibrio è definito nel modo seguente. Un sistema fisico è considerato all’equilibrio quando le variabili che lo descrivono non variano nel tempo. Applicando questa definizione alle variabili che descrivono un gas, si può affermare che un gas si trova all’equilibrio quando la sua pressione, il suo volume e la sua temperatura non cambiano più al trascorrere del tempo. Quest’ovvia conclusione porta, però, a un'altra domanda. Quando si può essere certi che P, V e T non variano più nel tempo? La risposta è la seguente. Un gas mantiene costanti la sua pressione, temperatura e volume quando i valori di P e T sono uguali a quelli dell’ambiente esterno che circonda il gas. Indicando con Pest e Test la temperatura e la pressione dell’ambiente, il gas sarà all’equilibrio quando 𝑃 = 𝑃$%& e 𝑇 = 𝑇$%& . In queste condizioni, anche il volume del gas (che è poi quello del contenitore) non si modifica più. 6.2.1. Le leggi dei gas La prima teoria che è stata sviluppata per descrivere lo stato gassoso è un esempio classico di teoria fenomenologica. Con quest’aggettivo si vuole intendere una teoria che è stata sviluppata espressamente per spiegare solo un certo tipo ben determinato di fenomeni (ad esempio, le proprietà dei gas) e, quindi, non ha alcun valore in altri ambiti. Essa è, dunque, ben diversa da una teoria cosiddetta fondamentale che pretende d spiegare tutti i fenomeni naturali facendo uso solo di alcuni principi universali. È evidente che una teoria fondamentale è considerata possedere un valore scientifico ed estetico più elevato perché, almeno idealmente, dovrebbe permettere di descrivere tutte le leggi fisiche naturali all’interno di un'unica e compatta rappresentazione. Sfortunatamente, la natura non è sempre sensibile alle esigenze estetiche dell’uomo, e la storia della scienza mostra che le teorie fenomenologiche sono state sempre molto più utili di quelle fondamentali quando lo scopo era di giungere a delle conclusioni precise e non di costruire una visione universale, per quanto elegante, del mondo naturale. Una teoria fenomenologica è costruita seguendo una procedura molto semplice. All’inizio si eseguono vari esperimenti per studiare le relazioni fra le variabili scelte per descrivere il sistema. Sulla base dei risultati sperimentali, si cerca una relazione matematica che leghi le variabili in un’equazione finale. Poiché per un sistema gassoso le variabili scelte per descrivere lo stato del sistema sono P, V e T, che proprio per questo sono chiamate variabili di stato, è necessario studiare sperimentalmente le relazioni che legano queste grandezze. Il sistema sperimentale tipico usato negli esperimenti sui gas è mostrato in Figura 58. Esso è formato da un contenitore che contiene il gas e da un pistone che può essere abbassato o alzato variando, in questo modo, il volume del gas.

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Figura58.Apparatosperimentaleperlostudiodelleproprietàdeigas. Quando il gas è in equilibrio con l’ambiente esterno, la temperatura e la pressione del gas sono uguali in tutti i suoi punti e, quindi, anche sulla parete del pistone in contatto con il gas e sul fondo del contenitore. Aumentando o diminuendo la pressione esercitata sul pistone, oppure riscaldando il gas ponendo a contatto il fondo del contenitore con una fonte di calore, è possibile studiare il comportamento del sistema al variare della pressione e della temperatura. Un esperimento fu condotto dallo scienziato francese Charles per studiare come cambiava il volume al variare della temperatura mantenendo la pressione costante. Per eseguire questo studio, la pressione del gas è mantenuta costante ponendo sul pistone un peso fisso, mentre il gas è riscaldato con una sorgente di calore a contatto con il fondo del contenitore. Al variare della temperatura si osservano le variazioni di volume (Figura 58).

Figura59.ApparatosperimentaleutilizzatoperderivarelaleggediCharles. Una volta misurati i valori del volume alle differenti temperature, i punti sono riportati su un diagramma in funzione della temperatura. Quello che si ottiene è una distribuzione di punti sperimentali che, corretta per le deviazioni casuali, mostra l’esistenza di una relazione lineare fra le variabili V e T quando P è costante (Figura 60).

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Figura 60. Relazione sperimentale fra i valori del volume di un gas osservati a differenti temperaturequandolapressioneèmantenutacostante.Ipunti inrossosonoivalorimisuratisperimentalmente.Lalineaverde rappresentagli stessipunti corretti tenendo contodelle variazioni casuali semprepresentinellemisuresperimentali.LatemperaturaèespressaingradiCelsius(°C). La retta risultante interseca l’asse delle temperature quando il volume si annulla (V = 0). In quel punto, la temperatura vale −273,15 °C. Gli esperimenti mostrano che le rette che descrivono la variazione del volume in funzione della temperatura per i vari gas naturali, convergono tutte nello stesso punto a −273,15 °C (Figura 61). Poiché non ha alcun significato fisico ammettere l’esistenza di un volume negativo, si può concludere che la temperatura di −273,15 °C sia la più bassa temperatura raggiungibile in natura e, quindi, costituisca un limite invalicabile.

Figura61.Rettesperimentalichemostranolavariazionedelvolumeinfunzionedellatemperaturapergasdifferenti. Sulla base di questi risultati, è possibile determinare la relazione che lega il volume alla temperatura per un gas. In breve, si procede nel modo seguente.

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Poiché i punti sperimentali sono disposti lungo una retta, la cui equazione rappresentativa è 𝑦 = 𝑚𝑥 + 𝑞, sostituendo y = V e x = °t, si può scrivere:

𝑉 = 𝑚𝑡(°𝐶) + 𝑞 Per determinare i coefficienti m e q, basta porsi nelle condizioni t(°C) = 0 e V = 0. In particolare, quando t(°C) = 0, si ottiene:

𝑉 = 𝑞 Il coefficiente q è dunque il volume del gas quando la temperatura (°C) è uguale a zero. Indicando questo parametro con V0 si ottiene:

𝑉 = 𝑚𝑡(°𝐶) + 𝑉) In modo simile, si può ricavare il parametro m quando V = 0, ciò che avviene quando il valore della temperatura assume è uguale a −273,15 °C. Si ottiene:

0 = 𝑚(−273,15) + 𝑉)

𝑚 =𝑉)

273,15

L’equazione diviene:

𝑉 =𝑉)

273,15𝑡(°𝐶) + 𝑉)

Questa equazione rappresenta la legge di Charles che descrive la relazione che lega il volume di un gas con la temperatura. A questo punto, è possibile semplificare l’equazione nel modo seguente. Poiché la temperatura di −273,15 °C costituisce il limite inferiore cui è possibile giungere in natura, si potrebbe introdurre una nuova scala di temperatura che ha origine a −273,15 °C. Per far questo, è sufficiente definire una nuova scala di temperatura definita dalla relazione:

𝑇(𝐾) = 𝑡(°𝐶) + 273,15 La nuova definizione di temperatura è nota sotto il nome di temperatura assoluta ed è espressa in gradi Kelvin (K). Sostituendo questa definizione di temperatura nell’equazione che descrive la legge di Charles, si ottiene:

𝑡(°𝐶) = 𝑇(𝐾) − 273,15 da cui,

𝑉 =𝑉)

273,15[𝑇(𝐾) − 273,15] + 𝑉)

Sviluppando i calcoli, l’equazione diventa:

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𝑉 =𝑉)𝑇(𝐾)273,15

−𝑉)273,15273,15

+ 𝑉)

𝑉 =𝑉)𝑇(𝐾)273,15

− 𝑉) + 𝑉)

𝑉 =𝑉)𝑇(𝐾)273,15

Ponendo

'!#(),+,

= 𝑘 l’equazione si può scrivere:

𝑉 = 𝑘𝑇(𝐾)

Ne deriva che, per un gas, esiste una relazione di proporzionalità fra il volume e la temperatura assoluta quando la pressione è mantenuta costante. In particolare, aumentando la temperatura, il volume si espande, e diminuendo la temperatura, il volume si contrae. Seguendo una procedura del tutto simile a quella descritta per la legge di Charles, si può giungere a definire una legge simile per descrivere la dipendenza della pressione di un gas dalla temperatura quando il volume resta costante. Questa relazione è nota come legge di Gay-Lussac. Per studiare questo fenomeno, è necessario mantenere il volume del gas costante bloccando il pistone, e osservare le variazioni di pressione dovute all’aumento di temperatura. La relazione risultante è completamente analoga a quella descritta dalla legge di Charles come riportato in basso:

𝑃 =𝑃)

273,15𝑡(°𝐶) + 𝑃)

dove P0 rappresenta la pressione del gas a 0 °C. Quando la temperatura raggiunge il valore di −273,15 °C, la pressione del gas si annulla. Sostituendo nell’equazione la nuova definizione di temperatura assoluta, si ottiene un’espressione analoga a quella derivata per la legge di Charles:

𝑃 =𝑃)𝑇(𝐾)273,15

𝑃 = 𝑘′𝑇(𝐾)

dove 𝑘! = 𝑃-/273,15. Per completare l’analisi delle relazioni fra le variabili P, V e T che descrivono un gas, resta da determinare sperimentalmente la relazione che esiste fra il volume e la pressione quando la temperatura è mantenuta costante. Questo studio fu condotto da Boyle che scoprì una semplice legge che può essere espressa nel modo seguente. Se un gas subisce una trasformazione a temperatura costante (trasformazione isoterma) passando da uno stato iniziale a uno stato finale, il prodotto della pressione e del volume resta costante:

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𝑃"𝑉" = 𝑃*𝑉* dove Pi e Vi sono la pressione e il volume iniziali e Pf e Vf sono quelli finali. Questa equazione può essere riscritta come:

𝑃𝑉 = 𝑘′′ dove k’’ è una costante. Ciò implica che:

𝑃 =𝑘′′𝑉

Ne discende che esiste una relazione inversa fra il volume e la pressione di un gas a temperatura costante (cioè se il volume del gas aumenta, la sua pressione diminuisce e viceversa). Riportando in grafico la relazione fra P e V si ottiene una funzione iperbolica che prende in nome d’isoterma di Boyle (Figura 62).

Figura62.L’isotermadiBoyleperungasatemperaturacostante. 6.2.2. Equazione di stato dei gas ideali Le tre leggi dei gas ricavate da Charles, Gay-Lussac e Boyle, quando espresse in funzione della temperatura assoluta T misurata in gradi Kelvin, possono essere riassunte nel modo seguente:

𝑉 = 𝑘𝑇

𝑃 = 𝑘′𝑇

𝑃𝑉 = 𝑘′′ Combinando le tre costanti in un’unica costante, si possono scrivere le tre equazioni in una sola espressione:

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𝑃𝑉 = 𝐾𝑇 A questo punto, occorre fare alcune osservazioni molto importanti. Negli esperimenti descritti sopra, la massa del gas utilizzato per le misurazioni, era sempre mantenuta rigorosamente costante. Inoltre, la quantità di gas impiegata era sempre piuttosto piccola. In altre parole, negli esperimenti si preferiva fare uso di gas rarefatti, cioè con una bassa densità (massa per unità di volume). La ragione di questa scelta discendeva dal fatto che, in queste condizioni, tutti i gas mostravano lo stesso comportamento. Non era, dunque, possibile distinguere un gas da un altro semplicemente misurandone le variazioni di pressione e volume a determinate temperature, perché tutti i gas, quando si trovano in uno stato molto rarefatto, si comportano proprio nello stesso modo. Questo stato particolare era chiamato gas ideale e, di conseguenza, le relazioni fra le variabili di stato P, V e T descritte sopra valgono solo quando applicate a gas ideali. Tuttavia, sebbene due gas ideali fossero perfettamente identici e, dunque, indistinguibili se analizzati determinandone le grandezze P, V e T, pur sempre essi avevano un peso diverso. Infatti, un modo semplice per distinguere due gas ideali, è quello di porli nelle stesse condizioni di pressione, volume e temperatura e, poi, misurarne il peso (un altro modo meno rigoroso era quello di sperare che almeno uno dei gas stimolasse alcune reazioni olfattive). Allora la domanda era: qual è l’effetto della massa di un gas sulle sue proprietà? Apparentemente, la massa di un gas non aveva alcuna relazione con le variabili P, V e T, proprio perché l’osservazione sperimentale aveva rivelato che gas di peso diverso, quando posti nelle stesse condizioni, mostravano invariabilmente le stesse proprietà. Eppure, era anche sicuramente vero che, quando si aumentava la massa di un singolo gas, mantenendo il suo volume e temperatura costanti, la sua pressione aumentava. Ciò che sfuggiva era la comprensione di quale variabile legata alla quantità di gas fosse in relazione con le variabili di stato, ma nello stesso tempo anche con il peso del gas. La soluzione fu trovata dopo l’introduzione della teoria atomica e molecolare di Dalton (anzi, l’interpretazione delle proprietà dei gas ideali fu un’altra dimostrazione della correttezza di questa teoria). La spiegazione, come al solito, è molto semplice: invece di esprimere la quantità di gas in termini di peso, bisogna esprimerla in termini di numero di moli (cioè di numero di atomi o molecole che compongono il gas). Infatti, è già stato spiegato che la teoria atomica permette di esprimere la quantità di sostanza sia come peso, ma anche come numero di entità elementari (atomi o molecole) di cui è costituita. Avogadro fu lo scienziato che per primo intuì la relazione che legava il numero di entità elementari (che si possono anche chiamare particelle) con le variabili di stato di un gas ideale enunciando quella che è nota come ipotesi di Avogadro: gas (ideali) differenti, posti nelle stesse condizioni di pressione, volume e temperatura, contengono lo stesso numero di particelle (atomi o molecole). Ne discende che, dai valori di P, V e T misurati per un gas ideale è possibile risalire al numero di particelle (numero di moli) di cui è composto il gas stesso. In altre parole, l’uguaglianza dei valori di P, V e T fra due gas ideali diversi assicura che essi contengano lo stesso numero di costituenti elementari. Misurando P, V e T è possibile contare il numero di molecole (numero di moli) contenute in un gas. L’equazione dei gas può, allora, essere scritta come:

𝑃𝑉 = 𝑛𝑅𝑇 dove n rappresenta il numero di moli dei costituenti elementari del gas e R è una nuova costante (che sostituisce la costante K) che prende il nome di costante universale dei gas. Il valore di R dipende dalle unità di misura scelte per esprimere i valori della pressione e del volume (si rammenti che la temperatura deve essere sempre rigorosamente espressa in gradi Kelvin per

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mantenere la semplicità dell’equazione). L’espressione finale è nota come equazione di stato dei gas ideali. La scoperta che le proprietà di un gas ideale dipendono dal numero di moli delle particelle costituenti ha permesso anche di definire più precisamente le caratteristiche microscopiche di un gas ideale. In particolare, un gas ideale deve essere pensato come costituito di particelle fra le quali non si esercita alcun tipo d’interazione attrattiva o repulsiva e, inoltre, il volume delle particelle deve essere trascurabile rispetto al volume del contenitore. Gas che non soddisfano a questi requisiti, mostrano rilevanti deviazioni dall’equazione di stato dei gas ideali e sono classificati come gas reali. 6.2.3. La legge di Dalton La pressione totale di una miscela di gas ideali è descritta da una regola molto semplice chiamata legge di Dalton. S’immagini che all’interno di un contenitore di volume V sia presente un certo numero di gas differenti. La pressione parziale di ciascun gas nella miscela è definita nel modo seguente. Se il gas iesimo presente nella miscela occupasse da solo tutto il volume disponibile nel contenitore, la sua pressione parziale Pi sarebbe uguale a:

𝑃" = 𝑛"𝑅𝑇 dove ni rappresenta il numero di moli del gas iesimo contenuti nella miscela. La legge di Dalton afferma che la pressione totale della miscela di gas è data dall’espressione:

𝑃&.& =9𝑃""

La pressione totale è, quindi, data dalla somma delle pressioni parziali di ciascun gas. 6.3. Lo stato liquido A differenza degli stati solido e gassoso, non esiste una teoria unitaria dei liquidi e la comprensione della loro struttura intrinseca è ancora in gran parte sconosciuta. Per la descrizione delle proprietà dei liquidi è, quindi, necessario fare riferimento alle loro proprietà macroscopiche dedotte dall’osservazione sperimentale. Le più evidenti proprietà macroscopiche dei liquidi sono: (a) l’assenza di una forma propria che permette al liquido di essere posto in un contenitore di forma qualsiasi, (b) a differenza dei gas che tendono a occupare tutto lo spazio disponibile, un liquido possiede un volume proprio e, di conseguenza, non occupa tutto il volume del contenitore se quest’ultimo è maggiore del volume proprio del liquido, (c) in condizioni ordinarie, la pressione e la temperatura hanno un’influenza limitata sulle proprietà macroscopiche del liquido, anche se possono causarne il cambiamento di stato che dipende dalle proprietà molecolari del liquido. La quasi totalità dei liquidi ordinari sono costituiti da molecole prive di carica elettrica totale che, però, possono essere soggette a forze deboli (interazioni dipolari, di Van der Waals e di London, legami ad idrogeno). Queste deboli forze sono normalmente di natura attrattiva e,

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per questo, sulla superficie del liquido possono dare luogo alla formazione di una pellicola di molecole debolmente legate fra di loro che avvolgono il volume del liquido e lo contengono. Questo fenomeno è noto come tensione superficiale ed è responsabile della forma sferica che tutti i liquidi assumono quando sono dispersi in gocce isolate nel vuoto. 6.3.1. La tensione di vapore A temperature ordinarie, se un liquido è posto in un recipiente con un volume sufficiente a contenerlo, alcune delle molecole che si trovano sulla sua superficie tendono a passare nella fase gassosa sfuggendo alle deboli forze intermolecolari che causano la tensione superficiale. Questo processo è chiamato evaporazione. Se il recipiente è aperto e, quindi, la pressione esterna resta costante (pressione atmosferica), le molecole tenderanno a disperdersi nell’ambiente circostante data la proprietà dei gas di occupare tutto lo spazio disponibile. Tuttavia, se il recipiente è ermeticamente chiuso, l’evaporazione delle molecole superficiali condurrà alla formazione di un gas, costituito dalle molecole del liquido, che sovrasterà la superficie liquida. Per distinguerlo dallo stato gassoso puro, che può esistere anche in assenza della fase liquida, il gas che sovrasta il liquido è chiamato vapore. Se la temperatura resta invariata, ad un certo istante, il numero delle molecole che passa allo stato gassoso non aumenta più e rimane costante nel tempo. In queste condizioni, si afferma che il sistema liquido/vapore ha raggiunto l’equilibrio. La pressione del vapore che giace sulla superficie del liquido, quando il sistema si trova all’equilibrio all’interno di un recipiente chiuso, è definita come la tensione di vapore del liquido. La tensione di vapore aumenta con la temperatura. Questa dipendenza è facilmente interpretabile considerando il meccanismo dell’evaporazione. Infatti, ad una data temperatura, solamente le molecole che si trovano sulla superficie del liquido possiedono un’energia sufficiente a passare nella fase vapore poiché esse devono vincere solamente le deboli forze dovute alla tensione superficiale sommate alla pressione esercitata dal gas che sovrasta il liquido. Invece, le molecole che si trovano all’interno del volume del liquido, oltre alle suddette forze (tensione superficiale + pressione esercitata dal vapore sulla superficie), devono superare anche la pressione esercitata dal volume del liquido che le separa dalla superficie. Di conseguenza, è assai più probabile che una molecola superficiale possa sfuggire al liquido rispetto a una molecola che si trova all’interno della massa liquida. Un aumento della temperatura, farà aumentare anche l’energia delle molecole favorendo, quindi, il procedere dell’evaporazione fino al raggiungimento di un nuovo stato di equilibrio. Tuttavia, questo produrrà un contemporaneo aumento della pressione esercitata dal vapore che, di conseguenza, impedirà ancora una volta l’evaporazione delle molecole interne al liquido. Il progressivo aumento della temperatura nel recipiente chiuso condurrà a un continuo aumento del numero delle molecole che dalla superficie liquida passano in fase vapore e, quindi, al rafforzamento della pressione (tensione) esercitata dal vapore. Il processo di evaporazione si concluderà solamente quando la fase liquida sarà completamente scomparsa e il vapore si sarà trasformato in un gas puro. È interessante notare che, nel processo descritto, il liquido non dà mai origine a quel fenomeno noto come ebollizione. Infatti, si può affermare che, all’interno di un recipiente ermeticamente chiuso, un liquido non bolle mai. La spiegazione di questa osservazione è assai semplice se si considera che l’ebollizione può essere osservata solamente se la pressione che sovrasta il liquido resta costante all’aumentare della temperatura. Ciò si può ottenere semplicemente aprendo il contenitore in modo da esporre il liquido alla pressione atmosferica che, come è noto, è quasi costante. In questa condizione, esiste un valore della temperatura al quale gran parte delle molecole del liquido dispongono di un’energia più che sufficiente per vincere tutte le forze che le trattengono nella fase liquida, siano esse sulla superficie o

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all’interno del liquido. Una volta raggiunto questo valore della temperatura, gruppi di molecole che si trovano all’interno del volume del liquido, passano repentinamente alla fase vapore dando origine alla formazione di bolle di gas, che costituiscono il tratto caratteristico del processo di ebollizione. Le bolle di gas (di forma sferica a causa della tensione superficiale prodotta dalla guaina di molecole liquide che le circondano) formatesi in questo modo, possono risalire alla superficie per unirsi al vapore sovrastante. Durante il processo dell’ebollizione, la temperatura del liquido non aumenta proprio perché l’energia ceduta dal calore è completamente utilizzata dalle molecole per vincere le forze che le trattengono nella fase liquida. È abbastanza ovvio comprendere che un valore elevato della tensione di vapore è caratteristico di quei liquidi con una spiccata tendenza all’evaporazione (volatilità) mentre, al contrario, una bassa tensione di vapore è mostrata da liquidi scarsamente volatili. Un’altra ovvia conseguenza di questa osservazione è che i liquidi con alta tensione di vapore bollono a temperature inferiori rispetto ai liquidi con bassa tensione di vapore. 6.3.2. I diagrammi di stato L’esistenza di differenti stati della materia permette alle sostanze di passare da uno stato all’altro in dipendenza dalle condizioni di pressione e temperatura in cui si trovano. Questi cambiamenti sono chiamati passaggi di stato o transizioni di fase. Una sostanza può passare da uno stato all’altro in modo completo (cioè fino alla scomparsa dello stato di partenza) oppure solo parzialmente generando, in questo modo, una condizione di equilibrio in cui fasi differenti coesistono. I passaggi di stato più comuni sono l’evaporazione (liquido ® gas), la solidificazione (liquido ® solido, gas ® solido) e la sublimazione (solido ® gas). È possibile ottenere una rappresentazione grafica delle transizioni di fase di una sostanza riportando in un grafico pressione/temperatura (P,T) i punti corrispondenti ai valori di P e T in cui si osserva l’esistenza di un’unica fase o dell’equilibrio di due o più fasi. Un tipico esempio di diagramma di stato è quello riportato nella Figura 63 in basso.

Figura63.Diagrammadistato(difase)dell’anidridecarbonica.

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All’interno del diagramma si possono individuare tre aree distinte associate a quei valori di P e T che determinano l’esistenza di un’unica fase (solida, liquida o gassosa). Queste aree sono separate da tre linee curve (rossa, verde e blu) che individuano quei valori di P e T in cui coesistono due fasi in equilibrio (solido/liquido, liquido/vapore, solido/gas). Le tre curve si incontrano in un punto, chiamato punto triplo, che descrive lo stato in cui coesistono tutte le tre fasi in equilibrio. È possibile distinguere un altro punto notevole posto all’estremità superiore del ramo della curva (blu) che descrive l’equilibrio liquido/vapore, chiamato punto critico. Esso corrisponde a quel valore della temperatura al disopra del quale non è più possibile liquefare il gas (temperatura critica), qualunque sia la pressione applicata al sistema. A temperature superiori alla temperatura critica si osserva la formazione di un nuovo stato della materia, chiamato fluido supercritico, che può essere descritto come un gas ultradenso, che possiede alcune proprietà tipiche dei fluidi pur non essendo un liquido convenzionale. Una trattazione a parte merita la descrizione del diagramma di stato dell’acqua illustrato in Figura 64. È già stato ricordato che l’acqua è un liquido caratterizzato da proprietà peculiari dovute, in particolare, alla formazione di legami idrogeno fra le molecole d’acqua. Una caratteristica notevole del diagramma di stato dell’acqua è la forma della linea che separa le regioni corrispondenti alla fase solida (ghiaccio) e alla fase liquida. Questo grafico mostra un andamento rettilineo con una pendenza negativa. Il valore negativo del coefficiente angolare di questa retta è determinato dalla minore densità dell’acqua solida rispetto all’acqua liquida. Questa caratteristica unica dell’acqua è riconducibile all’esistenza della fitta rete di legami idrogeno nel ghiaccio. La minore densità del ghiaccio, e la conseguente pendenza negativa della retta, produce un effetto importante sulla transizione solido/liquido. In particolare, se a basse temperature al disotto del punto triplo (regione in basso a destra nel grafico intorno al valore 0,00 °C), un aumento della pressione fa passare il gas acqua allo stato solido, continuando ad innalzare la pressione, il ghiaccio passa allo stato liquido proprio a causa della pendenza negativa della retta. Questo comportamento si osserva solo con il liquido acqua a causa della minore densità del solido rispetto a quella del liquido (un aumento di pressione favorisce sempre la transizione alla fase più densa).

Figura64.Diagrammadistato(difase)dell’acqua.

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7. Le soluzioni Una soluzione è formata dal mescolamento di un liquido con un'altra sostanza sia essa solida, liquida o gassosa. Il liquido è chiamato solvente mentre la sostanza aggiunta al liquido prende il nome di soluto. Il solvente è sempre in quantità superiori a quella del soluto. Il semplice mescolamento del soluto con il solvente non produce necessariamente una soluzione. Affinché il sistema risultante possa essere considerato una soluzione, il soluto deve essere sciolto dal solvente fino a separare completamente le singole molecole (se si tratta di un solido molecolare) o i singoli ioni (se si tratta di un solido ionico). In Figura 65 è rappresentato il processo di dissoluzione del cloruro di sodio in acqua. È interessante notare che, alla fine del processo di dissoluzione, ogni ione è circondato da una sfera di molecole d’acqua che isolano completamente gli ioni gli uni dagli altri. Questo processo è chiamato solvatazione e ha luogo sia con specie ioniche che con molecole neutre purché esista un’interazione qualsiasi fra soluto e solvente. In generale, sostanze ioniche o polari tendono a sciogliersi in solventi polari, mentre sostanze neutre e apolari tendono a sciogliersi in solventi apolari (le molecole di un solvente polare possiedono un momento dipolare, mentre le molecole di un solvente apolare sono prive di momento dipolare).

Figura65.Rappresentazionedelprocessodidissoluzionedelclorurodisodioinacqua. 7.1. La concentrazione delle soluzioni Al fine di poter sviluppare una descrizione quantitativa delle soluzioni, è necessario definire alcune grandezze misurabili che esprimano il rapporto fra la quantità di soluto e solvente. Questo rapporto è chiamato concentrazione della soluzione. Sono stati formulati molti modi per esprimere la concentrazione e i più importanti sono elencati nel seguito.

𝑀𝑜𝑙𝑎𝑟𝑖𝑡à(𝑀) =𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜(𝑚𝑜𝑙)𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒(𝐿, 𝑑𝑚))

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𝑀𝑜𝑙𝑎𝑙𝑖𝑡à(𝑚) =𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜(𝑚𝑜𝑙)

𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝑘𝑔)

𝐹𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜(𝑋!) =𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜(𝑚𝑜𝑙)

𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 + 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝑚𝑜𝑙)

𝐹𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝑋!) =𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝑚𝑜𝑙)

𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 + 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝑚𝑜𝑙)

%𝑝𝑒𝑠𝑜/𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒(%𝑝/𝑉) =𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜(𝑔)

𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑑𝑒𝑙𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒(𝐿, 𝑑𝑚))

Di particolare rilievo sono le grandezze molarità (M) e molalità (m) perché di uso molto frequente. È importante notare che nella definizione di molarità si utilizza il volume della soluzione, mentre in quella della molalità si impiega la massa del solvente. Questa distinzione si riflette nei due modi differenti di preparare i due tipi di soluzioni. Nel primo caso (molarità), la procedura da seguire richiede che all’inizio il soluto sia completamente disciolto nella minima quantità di solvente e che solo successivamente si aggiunga il solvente necessario per raggiungere il volume finale desiderato. Questa procedura assicura che il volume finale corrisponda esattamente al volume della soluzione (se si aggiungesse il soluto a un volume di solvente uguale al volume finale, durante il processo di dissoluzione le interazioni intermolecolari potrebbero provocare un aumento o una diminuzione del volume del solvente utilizzato). Al contrario, per preparare una soluzione con molalità nota non è necessario sciogliere all’inizio il soluto, ma basta aggiungerlo alla massa finale del solvente. 7.2. Le proprietà colligative Una domanda che sorge immediata quando si descrivono le proprietà delle soluzioni è quella di sapere come variano i processi fondamentali a cui è soggetto un liquido, come l’evaporazione, l’ebollizione e i passaggi di stato, quando ad esso si aggiunge un soluto (questi fenomeni sono raggruppati sotto il nome di proprietà colligative). Per rispondere a questo quesito, ancora una volta, si è dovuto ricorrere al metodo sperimentale per ricavare una legge generale dai dati fenomenologici. In particolare, gli esperimenti hanno mostrato che la variazione della tensione di vapore di un liquido (P) causata dall’aggiunta di un soluto può essere espressa dalla legge:

𝑃 = 𝑋+𝑃) dove P è la tensione di vapore del solvente nella soluzione, P0 è la tensione di vapore del liquido puro e XS è la frazione molare del solvente. La formula ottenuta è conosciuta come legge di Raoult. Al fine di applicare correttamente la formula di Raoult, è necessario distinguere fra i vari tipi di soluto che, a questo scopo, possono essere classificati in due grandi categorie: (i) soluti non volatili, e (ii) soluti volatili. Come suggerisce la definizione, i soluti non volatili sono costituiti da quelle sostanze che posseggono una tensione di vapore nulla (cioè, non hanno nessuna tendenza a passare nella fase gassosa). In generale, si tratta di composti ionici (sali, acidi forti) che, poiché sono formati da ioni elettricamente carichi, non possono comportarsi come un gas. Al contrario, le sostanze volatili (come liquidi, gas e solidi che possono sublimare) possiedono una loro intrinseca tensione di vapore. È evidente che, nel caso

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di una soluzione contenente un soluto non volatile, l’unico contributo alla tensione di vapore della soluzione proviene dal solvente. Al contrario, quando un soluto è volatile, la sua tensione di vapore intrinseca contribuisce alla tensione di vapore totale della soluzione assieme a quella del solvente. Per il calcolo della tensione di vapore totale (Pt) occorre utilizzare la legge di Dalton per le miscele di gas. Assumendo che la soluzione contenga n componenti (per componenti si devono intendere tutte le sostanze che compongono la soluzione compreso il solvente), la tensione di vapore parziale (Pi) per ciascun componente (i) sarà data dalla legge di Raoult:

𝑃" = 𝑋"𝑃") dove Xi rappresenta la frazione molare del componente i-esimo. La tensione di vapore della soluzione sarà data dalla somma delle tensioni di vapore dei singoli componenti in accordo con la legge di Dalton:

𝑃, =9𝑃"

-

"./

Come già detto in precedenza, nel caso di soluti non volatili, l’unico contributo alla tensione di vapore totale proviene dal solvente e sarà descritto dalla formula di Raoult:

𝑃, = 𝑋+𝑃+) dove XS è la frazione molare del solvente e 𝑃/- è la tensione di vapore del solvente puro. È facile osservare che, per una soluzione contenente dei soluti non volatili, la tensione di vapore della soluzione è sempre inferiore a quella del solvente puro. Il risultato descritto ha conseguenze importanti sui passaggi di stato a cui può essere soggetto il solvente in questo tipo di soluzioni. Infatti, se la tensione di vapore della soluzione è inferiore a quella del liquido puro, ciò conduce alla conclusione logica che la soluzione bollirà a temperature più elevate rispetto al liquido puro per compensare la diminuzione della capacità delle molecole di solvente di passare nella fase vapore. Questo fenomeno è conosciuto come innalzamento ebullioscopico. Appare, invece, più complesso, spiegare il passaggio allo stato solido di una soluzione contenente un soluto non volatile. Infatti, l’osservazione sperimentale mostra che la solidificazione avviene a temperature più basse rispetto al solvente puro, un fenomeno noto come abbassamento crioscopico. A prima vista, la diminuzione della tensione di vapore della soluzione potrebbe far pensare che sia più facile per il solvente passare allo stato solido e, dunque, condurre all’errata previsione che la formazione del solido avvenga a temperature più elevate del solvente puro. Tuttavia, un’analisi più accurata, basata sui dettagli molecolari del processo di solidificazione, permette di giungere alla previsione corretta come descritto di seguito. Un passaggio di stato può sempre essere rappresentato come un trasferimento di molecole da una fase all’altra. Ad esempio, dal punto di vista molecolare, l’evaporazione non è altro che il trasferimento di molecole dalla superficie del fluido al gas. In modo analogo, la solidificazione può essere interpretata come la formazione di un reticolo cristallino ordinato da parte delle molecole del solvente. In entrambi i casi, la presenza di molecole di soluto (non volatile) interferisce con questi processi. Infatti, nel caso dell’evaporazione, la superficie della soluzione sarà occupata anche da molecole (o ioni) di soluto oltre che da quelle del solvente. Ne discende che, nella soluzione, il numero di molecole superficiali di solvente è inferiore a

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quelle del liquido puro. Di conseguenza, nell’unità di tempo, sarà più basso anche il numero di molecole di solvente disponibili per passare nella fase gassosa producendo un abbassamento della tensione di vapore. Se a questo interpretazione si aggiunge anche il fatto che alcune molecole nella fase gassosa possono subire il processo contrario e ritornare nella fase liquida (generando in questo modo un equilibrio dinamico fra le molecole nello stato di vapore e quelle nello stato liquido, come illustrato nella Figura 66), si comprende ancora di più come la presenza di un soluto non volatile conduca ad un abbassamento della tensione di vapore. In modo del tutto analogo, si può pensare che la presenza di particelle di soluto renda più difficile la formazione del reticolo cristallino e, dunque, il passaggio allo stato solido. È già stato ricordato, infatti, che il processo di dissoluzione implica che fra le molecole di soluto e quelle di solvente si eserciti sempre un qualche tipo di forza attrattiva e questa interazione può sicuramente perturbare la struttura ordinata del cristallo in via di formazione richiedendo un ulteriore abbassamento di temperatura per raggiungere il punto di congelamento.

Figura 66. Rappresentazionemolecolare del processo d’evaporazione chemostra l’equilibrio dinamicoche s’instaura quando, nell’unità di tempo, in numero di molecole che passa nella fase vapore èesattamenteugualealnumerodiquellecheritornanonellafaseliquida,mantenendocostante,inquestomodo,sialaquantitàdiliquidochedigasall’equilibrio. L’interpretazione molecolare mette in luce anche un altro fattore fondamentale che governa la natura delle proprietà colligative delle soluzioni. In questo modello, appare evidente che le proprietà chimiche delle molecole di soluto non abbiano alcuna influenza sulla variazione della tensione di vapore, l’innalzamento ebullioscopico e l’abbassamento crioscopico. A livello molecolare, ciò che conta è il numero di particelle presenti in soluzione piuttosto che la loro natura chimica. Infatti, al fine di far diminuire il numero di molecole superficiali di solvente, l’effetto più marcato è prodotto da quante molecole di soluto occupano a loro volta la superficie del liquido. Analogamente, aumentando il numero di particelle di soluto, diventa sempre più arduo sistemarle all’interno del reticolo cristallino del solvente senza creare distorsioni e modifiche del reticolo stesso. In breve, le proprietà colligative delle soluzioni dipendono dal numero delle particelle di soluto e non dalla loro natura chimica. Un ultimo fenomeno che rientra nello studio delle proprietà colligative delle soluzioni è quello della pressione osmotica. In Figura 67, è illustrato un tipico apparato sperimentale che si utilizza per misurare la pressione osmotica. All’interno di un tubo a U, è inserita una membrana semipermeabile, che ha la proprietà di far passare solo le molecole di solvente. In un ramo del tubo, si pone un liquido puro (si supponga acqua pura), mentre nell’altro si pone

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una soluzione contenente un soluto non volatile a una certa concentrazione. All’inizio dell’esperimento, nei due rami del tubo, l’altezza dei due liquidi è uguale. Trascorso un certo tempo, si potrà osservare che il livello nel ramo che contiene la soluzione si è innalzato di una certa quantità, mentre nel ramo contenente il liquido puro si è abbassato della stessa quantità. Misurando la distanza fra il livello della soluzione e quello del liquido puro quando il sistema ha raggiunto l’equilibrio, si può calcolare il volume della colonna d’acqua che si è abbassata e, conoscendo la densità del liquido puro, la sua massa. La pressione esercitata da questa massa è chiamata pressione osmotica.

Figura67.Apparatosperimentalepermisurarelapressioneosmotica. La spiegazione di questo fenomeno risiede, ancora una volta, nella differenza fra la tensione di vapore della soluzione e quella del liquido puro. Come dimostrato in precedenza, la tensione di vapore del liquido puro è sempre superiore a quella della soluzione. Ne discende che, all’interfaccia con la membrana semipermeabile, s’instaura una differenza (gradiente) di pressione che spinge le molecole del liquido puro ad attraversare la membrana e ad entrare nella soluzione innalzandone il livello. Il processo s’interrompe quando il volume della colonna di liquido nel ramo contenente la soluzione è aumentato a tal punto che il suo peso controbilancia esattamente la pressione osmotica esercitata dal solvente puro. Le proprietà colligative illustrate in questo paragrafo sono tutte rappresentate da formule che permettono di calcolare l’entità della variazione delle grandezze fisiche coinvolte. In particolare, la differenza fra la temperatura di ebollizione di una soluzione rispetto a quella del liquido puro (innalzamento ebullioscopico) è descritta dalla relazione:

∆𝑇!" = 𝑇!"#$% − 𝑇!"& = 𝐾!"𝑚𝑖 dove 𝑇$0%.1 è la temperatura di ebollizione della soluzione, 𝑇$0- quella del liquido puro, 𝐾$0 è una costante sperimentale (costante ebullioscopica), m la molalità e i è conosciuto come coefficiente di Van’t Hoff (il cui significato sarà chiarito alla fine di questo paragrafo). Analogamente, la differenza fra la temperatura di congelamento della soluzione, 𝑇23%.1, e quella del solvente puro, 𝑇23- , (abbassamento crioscopico) è data dalla formula:

∆𝑇'( = 𝑇'(& − 𝑇'(#$% = 𝐾'(𝑚𝑖

Soluzione Solvente

MembranaSemipermeabile

DV

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dove 𝐾23 è una costante sperimentale (costante crioscopica) e i è il coefficiente di Van’t Hoff. Infine, la pressione osmotica (p) è espressa dalla relazione:

𝜋 = 𝑀𝑅𝑇𝑖 dove M è la molarità della soluzione, R la costante universale dei gas, T la temperatura assoluta e i il coefficiente di Van’t Hoff. Per completare la descrizione delle formule riportate sopra, resta da spiegare il significato del coefficiente i. Esso tiene conto della dipendenza delle proprietà colligative dal numero di particelle presenti in soluzione, un concetto già incontrato nei paragrafi precedenti. La necessità della sua introduzione nasce dal fatto che le molecole di molti soluti (in particolare, i soluti ionici) quando sciolte in soluzione si dissociano in componenti più piccole. Ad esempio, il sale NaCl quando sciolto in acqua si dissocia nei suoi ioni Na+ e Cl-. Ciò significa che, sciogliendo una mole di NaCl in acqua, il conteggio finale delle particelle realmente presenti in soluzione sarà esattamente doppio (2 moli) poiché per ogni entità NaCl si ottengono due ioni Na+ e Cl-. In questo caso, i = 2. Se si considera il sale CaCl2, che sciolto in acqua produce uno ione Ca2+ e due ioni Cl-, allora i = 3. In breve, il fattore i è uguale al numero di componenti elementari in cui si scompone una sostanza quando è sciolta in un solvente per formare una soluzione. 8. La chimica dell’acqua 8.1. Introduzione all’equilibrio chimico Il concetto di equilibrio è già stato introdotto nella descrizione delle proprietà dei gas e formulato assumendo che, quando le proprietà di un sistema non variano nel tempo, il sistema si trova in uno stato di equilibrio. Questa descrizione può essere estesa anche alle reazioni chimiche. Infatti, nella gran parte dei casi, una reazione chimica non procede fino al completo esaurimento dei reagenti (quando essi sono mescolati nelle esatte proporzioni stechiometriche). In realtà, la reazione chimica si blocca prima dell’esaurimento completo dei reagenti raggiungendo quello che, appunto, è chiamato l’equilibrio chimico. Il punto di equilibrio è caratteristico di ogni reazione chimica e deve essere determinato sperimentalmente. Per determinare quantitativamente il punto d’equilibrio, gli esperimenti dimostrano che, qualunque sia la quantità dei reagenti iniziali, il punto di equilibrio si raggiunge quando il rapporto fra le concentrazioni dei reagenti residui e dei prodotti formatisi in seguito alla reazione è uguale a una costante che, per questo, è chiamata costante di equilibrio. Sia data la generica reazione bilanciata:

aA + bB + ���� D cC + dD + ���� dove a, b, c, d sono i coefficienti stechiometrici. La costante di equilibrio della generica reazione è definita come:

𝐾01 =[𝐶]2[𝐷]3 ⋯[𝐴]&[𝐵]4 ⋯

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Se la reazione avviene in fase gassosa, la costante di equilibrio prende la forma seguente:

𝐾015 =

𝑝22𝑝33 ⋯𝑝&&𝑝44 ⋯

dove pa, pb, pc, pd sono le pressioni parziali (definite dalla legge di Dalton) dei gas che partecipano alla reazione. L’esistenza della costante di equilibrio ha conseguenze fondamentali sul decorso di una reazione chimica. Infatti, è facile comprendere che qualunque perturbazione che abbia l’effetto di modificare le concentrazioni (o le pressioni parziali) dei reagenti e dei prodotti presenti all’equilibrio provoca uno spostamento del sistema dal punto d’equilibrio che, necessariamente, condurrà alla riattivazione della reazione chimica fino al ripristino dell’equilibrio. Ad esempio, se fosse introdotta nella reazione che si trova all’equilibrio, una quantità in aggiunta della specie C, ciò provocherebbe un aumento del valore della concentrazione [C] di questa specie che, di conseguenza, non potrebbe più soddisfare il rapporto espresso dalla costante di equilibrio. Per ritornare al punto di equilibrio, la reazione deve ripartire consumando parte della quantità di C in eccesso, per formare le specie A e B così da ricondurre il rapporto delle concentrazioni a tornare uguale al valore della costante di equilibrio. Insomma, le reazioni che raggiungono l’equilibrio possono riattivarsi in entrambi i sensi della reazione (come descritto dall’uso delle frecce bidirezionali) al fine di ripristinare lo stato di equilibrio quando è alterato da una perturbazione qualsiasi. Questo fenomeno è spesso indicato con i nomi legge dell’azione di massa oppure principio di Le Chatelier. In realtà, non si tratta di alcun nuovo principio o legge fisica, bensì di una conseguenza naturale dell’esistenza di una costante d’equilibrio per le reazioni chimiche. Il valore della costante di equilibrio per una reazione chimica dipende solamente dalla temperatura e, di conseguenza, può essere modificato solo modificando il valore di questo parametro. 8.2. La dissociazione spontanea dell’acqua L’acqua ha la proprietà di dissociarsi spontaneamente in ioni H+ e OH-. La reazione è la seguente:

H2O D H+ + OH- La dissociazione dell’acqua è una reazione che raggiunge l’equilibrio e, quindi, è descritta da una costante di equilibrio che ha la seguente forma:

K =[H6][OH7][H#O]

Poiché il termine [H2O] rappresenta la concentrazione dell’acqua all’interno di un volume d’acqua, essa è una costante (vale 55,5 mol/L) e può essere incorporata nel valore della costante di equilibrio. Allora, si può scrivere:

𝐾[H#O] = 𝐾8 = [H6][OH7]

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La costante Kw è chiamato prodotto ionico dell’acqua e, in condizioni standard (T = 298 K, P = 0,1 MPa), ha il valore 1,1 × 10-14. Utilizzando questo valore, è possibile calcolare la concentrazione degli ioni H+ e OH- presenti nell’acqua pura in condizioni standard. Il ragionamento è molto semplice. Quando si raggiunge l’equilibrio, sia x il numero di moli per unità di volume (concentrazione) di ioni H+. Poiché la dissociazione di una molecola d’acqua dà origine a uno ione H+ e a uno ione OH-, ne segue che la concentrazione di ioni OH- sarà anch’essa uguale a x. Sostituendo la variabile nell’espressione del prodotto ionico dell’acqua si ottiene:

𝐾8 = [𝑥][𝑥] = 𝑥# Risolvendo l’equazione si ottiene:

[H6] = [OH7] = 𝑥 = T𝐾8 = T107/9 = 107: Ne segue che la concentrazione degli ioni H+ e OH- nell’acqua pura è esattamente uguale a 10-7 mol/L. Per convenienza, questo risultato si esprime in termini logaritmici definendo le seguenti grandezze:

𝑝𝐻 = − log[H6] = − log(107:) = 7

𝑝𝑂𝐻 = − log[OH7] = − log(107:) = 7 La relazione fra queste due grandezze si può facilmente ottenere esprimendo il prodotto ionico dell’acqua in termini logaritmici:

−𝑙𝑜𝑔𝐾8 = (− log[H6]) + (−log[OH7] da cui,

𝑝𝐾8 = 𝑝𝑂𝐻 + 𝑝𝐻 = 14 In conclusione, nell’acqua pura, il valore della concentrazione degli ioni H+ e OH- è esattamente uguale a 10-7 mol/L, da cui pH = pOH = 7. Quando la concentrazione delle specie H+ e OH- sono uguali, la soluzione acquosa è chiamata neutra. 8.3. Le reazioni acido-base La dissociazione dell’acqua è il fenomeno fondamentale che regola il comportamento delle specie chimiche sciolte in questo liquido. In particolare, l’acqua è responsabile delle proprietà delle sostanze chimiche che prendono il nome di acidi e basi. E’ importante notare che il comportamento acido o basico di una specie chimica è strettamente legato alla presenza dell’acqua e non potrebbe manifestarsi in un altro solvente. 8.3.1. Reazioni degli ossidi degli elementi con l’acqua Nel paragrafo dedicato alle reazioni di ossido-riduzione, sono state descritte le reazioni degli ossidi degli elementi con l’acqua. E’ stato mostrato che queste reazioni danno origine alla formazione di composti misti che contengono l’elemento considerato, l’idrogeno e l’ossigeno,

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e rappresentabili con la formula generale XnOmHl. Occorre distinguere due tipi di ossidi e, quindi, due tipi di composti misti. La prima categoria è formata dagli ossidi dei metalli. Nella Tabella Periodica, i metalli più comuni sono i metalli alcalini e alcalino-terrosi, che costituiscono i primi due gruppi. Questi metalli possiedono un solo stato di ossidazione importante (+1 per i metalli alcalini e +2 per i metalli alcalino-terrosi) e, quindi, formano un solo tipo di ossido binario (con formula XO per i metalli alcalini e XO2 per i metalli alcalino-terrosi). Le reazioni di questi ossidi con l’acqua possono essere descritte nel modo seguente:

X2O + H2O ® 2XOH

XO + H2O ® X(OH)2

E’ importante far notare, a questo punto, come questi composti misti dei metalli alcalini siano scritti nella forma X(OH)n e non nella formulazione generica XnOmHl. Ad esempio, si preferisce scrivere X(OH)2 e non XO2H2. La ragione di questa scelta sarà chiarita nel seguito di questo paragrafo. Altri elementi metallici possono trovarsi nei gruppi superiori, ma solamente dal terzo periodo in poi (ad esempio, gallio, alluminio, stagno, piombo e i metalli di transizione). Questi metalli hanno stati di ossidazione multipli e, di conseguenza, possono formare vari tipi di ossidi e di composti con l’acqua. Sebbene questi ossidi non saranno trattati in dettaglio in queste note, il loro comportamento è del tutto analogo a quello descritto per i metalli dei primi due gruppi. Ad esempio, lo stagno può esistere nei due stati di ossidazione principali +2 e +4. Esso può, quindi, formare gli ossidi SnO e SnO2. Questi ossidi reagiscono con l’acqua secondo le reazioni:

SnO + H2O ® 2Sn(OH)2

SnO2 + H2O ® Sn(OH)2 che sono analoghe a quelle descritte per i metalli alcalini e alcalino terrosi. La seconda categoria di ossidi è costituita dai composti dell’ossigeno con gli elementi non-metallici. Questi elementi si trovano negli ultimi gruppi e appartengono ai primi periodi (in particolare, al primo e secondo periodo). Questi elementi mostrano stati di ossidazione multipli, positivi e negativi, e possono formare molti tipi di ossidi binari quando hanno numeri di ossidazione positivi (negli stati di ossidazione negativi formano composti binari con l’idrogeno). L’esempio del cloro può chiarire meglio questo comportamento più complesso. Il cloro può esistere nei seguenti quattro stati di ossidazione positivi: +1, +3, +5 e +7). Gli ossidi binari corrispondenti sono: Cl2O, Cl2O3, Cl2O5 e Cl2O7. Le reazioni di questi ossidi con l’acqua dà luogo alle seguenti reazioni:

Cl2O + H2O ® 2HClO

Cl2O3 + H2O ® 2HClO2

Cl2O5 + H2O ® 2HClO3

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Cl2O7 + H2O ® 2HClO4 Ancora una volta, è interessante notare come sono convenzionalmente scritti i composti ottenuti per reazione con l’acqua. Ad esempio, in luogo della scrittura ClO4H si preferisce scrivere HClO4. Occorre anche ricordare come, in passato, gli ossidi degli elementi non-metallici fossero chiamate anidridi. 8.3.2. Gli acidi e le basi in soluzione acquosa Dal punto di vista delle formule di struttura, qual è la differenza fra i composti misti con l’idrogeno e l’ossigeno dei metalli e quelli dei non-metalli? La risposta è che essi sono completamente simili. Ad esempio, la formula di struttura dei composti LiOH e HClO, ottenuti rispettivamente per reazione di LiO2 e di Cl2O con H2O, sono le seguenti:

Li−O−H

Cl−O−H Analogamente, le formule di struttura dei composti Be(OH)2 e HClO2, ottenuti rispettivamente per reazione di BeO2 e di Cl2O3 con H2O, sono:

H−O−Be−O−H

O−Cl−O−H La caratteristica comune di questi composti è che tutti contengono almeno un gruppo dove l’ossigeno si lega all’idrogeno (−O−H). Tuttavia, il comportamento di questo gruppo è assai diverso quando gli stessi composti, una volta formatisi per reazione con H2O, sono di nuovo sciolti in acqua. Ad esempio, quando la specie HClO è posta in acqua, si dissocia nel modo seguente:

Cl−O−H ® Cl−O- + H+ In altre parole, il legame O−H si rompe rilasciando uno ione H+, mentre gli elettroni del legame restano sull’atomo di ossigeno che assume una carica negativa. Al contrario, la specie LiOH posta in acqua, si dissocia nel modo seguente:

Li−O−H ® Li+ + OH- In questo caso, è il legame Li−O che si rompe liberando uno ione Li+, mentre gli elettroni di legame restano ancora sull’atomo di ossigeno producendo il gruppo OH- (gruppo ossidrile). Analogamente, le sostanze Be(OH)2 e HClO2 si dissociano nel modo seguente quando poste in acqua:

H−O−Be−O−H ® Be2+ + 2OH-

O−Cl−O−H ® O−Cl−O- + H+

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Allora, è possibile giungere alla seguente conclusione generale: i composti misti fra un metallo e l’idrogeno e l’ossigeno, quando sciolti in acqua, rilasciano ioni ossidrile (OH-), mentre gli stessi composti con un non-metallo rilasciano protoni H+. I primi prendono il nome di basi (o idrossidi) di Arrhenius, mentre i secondi sono chiamati acidi di Arrhenius. Questa definizione spiega anche il modo diverso di scrivere composti che, seppure strutturalmente simili, in acqua si dissociano rilasciando ioni differenti. In particolare, la formula di un acido è sempre scritta ponendo l’idrogeno (H) per primo per porre in evidenza che esso può liberare ioni H+. Invece, la formula di una base è sempre scritta raccogliendo i gruppi OH in un’unica parentesi per indicare che si scompone producendo ioni OH-. Da quanto detto, si può prevedere che, quando si sciolgono nella stessa soluzione acquosa un acido e una base di Arrhenius, avviene una serie di reazioni microscopiche, che sono esemplificate in basso nel caso dell’acido HClO e la base LiOH:

HClO ® ClO- + H+

LiOH ® Li+ + OH- Non bisogna dimenticare che in soluzione acquosa è presente anche l’equilibrio dell’acqua:

H2O D H+ + OH- Poiché gli ioni H+ e OH- provenienti dall’acido e dalla base avranno l’effetto di aumentare le concentrazioni degli stessi ioni che partecipano all’equilibrio dell’acqua, al fine di ristabilire l’equilibrio, l’unica possibilità è che lo ione H+ reagisca con lo ione OH- per formare molecole d’acqua e, quindi, riportare il valore del prodotto [H+][OH-] a quello stabilito dalla costante di equilibrio Kw (1,1 × 10-14). Se si assume che le concentrazioni della base e dell’acido siano uguali, e che queste specie siano completamente dissociate in soluzione, allora anche il numero di ioni H+ e OH- che si liberano saranno uguali e potranno reagire nel rapporto 1:1 per formare acqua fino a raggiungere il valore [H+] = [OH-] = 10-7. Le reazioni microscopiche che avvengono in soluzione sono dunque:

HClO ® ClO- + H+

LiOH ® Li+ + OH-

H+ + OH- D H2O Sommando i membri delle tre reazioni si ottiene:

LiOH + HClO ® Li+ + ClO- + H2O La reazione finale è fittizia perché costituisce la somma di tre reazioni reali che avvengono in soluzione. Sebbene essa sia nota come reazione fra un acido (HClO) e una base (LiOH) per dare un sale (LiClO), in realtà, l’unica reazione acido-base è quella degli ioni H+ con gli ioni OH-, mentre le altre sono reazioni di dissociazione.

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Le considerazioni esposte sopra costituiscono la base della teoria di Arrhenius degli acidi e delle basi. In questa interpretazione, una base ha sempre la forma di un idrossido del tipo X(OH)n, che si dissocia quantitativamente in acqua per produrre ioni OH-. Le basi di Arrhenius sono, quindi, basi forti, cioè completamente scomposte negli ioni Xn+ e nOH-. Un acido di Arrhenius ha sempre la forma HnA (dove A rappresenta la parte della molecola legata agli atomi d’idrogeno) e si dissocia negli ioni nH+ e An-. Tuttavia, non tutti gli acidi di Arrhenius si dissociano completamente in acqua e, allora, occorre distinguere fra acidi forti (completamente dissociati) e acidi deboli (parzialmente dissociati). Poiché la teoria di Arrhenius non rende conto delle proprietà di tutti gli acidi e le basi conosciute, la trattazione completa di delle reazioni acido-base richiede l’introduzione di una teoria più generale che sarà descritta nel seguito. La categoria di sostanze il cui comportamento acido o basico in soluzione acquosa è più difficile da spiegare per la teoria d Arrhenius è quella dei composti binari fra gli elementi non-metallici e l’idrogeno. Ad esempio, il composto HCl (acido cloridrico) si comporta in acqua come un acido di Arrhenius dissociandosi completamente in ioni H+ e Cl- (acido forte). Al contrario, la specie NH3 (ammoniaca) quando sciolta in acqua, genera ioni OH-, nonostante non esistano gruppi ossidrile nella sua struttura molecolare. Qual è la loro origine? Per spiegare questo fenomeno, Broensted e Lowry proposero una nuova definizione di acido e base. Secondo la nuova teoria, una base di Broensted-Lowry è una specie chimica capace di accettare ioni H+, mentre un acido di Broensted-Lowry è una specie chimica capace di donare ioni H+. Una reazione acido-base deve essere interpretata come un trasferimento di ioni H+ dalla molecola dell’acido a quella della base. Questa semplice rappresentazione può spiegare l’origine degli ioni OH- in una soluzione acquosa di ammoniaca se si ammette che la molecola di H2O possa comportarsi sia come accettore di protoni (base) che come donatore di ioni H+ (acido). Questa proprietà è chiamata anfoterismo. Anche nella teoria di Broensted-Lowry, dunque, l’acqua riveste un ruolo chiave nel determinare le proprietà acido-base di una sostanza. Infatti, nella reazione acido-base dell’ammoniaca, si suppone che l’acqua si comporti come un donatore di protoni (acido) secondo la reazione descritta in basso:

NH3 + H2O D NH4+ + OH- Questa ipotesi spiega naturalmente la formazione di ioni OH-. Invece, il comportamento di un acido come HF (acido fluoridrico) è interpretato nella teoria di Broensted-Lowry ammettendo che l’acqua si comporti come un accettore di protoni secondo la seguente reazione:

HF + H2O D H3O+ + F- E’ importante notare che questa rappresentazione delle reazioni acido-base richiede che si postuli l’esistenza della nuova specie H3O+, chiamato ione idrossonio, che ricopre lo stesso ruolo rivestito dallo ione H+ nella teoria di Arrhenius. Nel seguito, quindi, le notazioni −log[H+] e −log[H3O+] potranno essere utilizzate in modo equivalente per indicare il pH. La struttura ipotetica dello ione idronio è mostrata in basso.

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In generale, si può allora definire un acido monoprotico HA (cioè che può scambiare un solo ione H+) di Broensted-Lowry come una specie che reagisce con l’acqua secondo la reazione:

HA + H2O D H3O+ + A- In modo simile, si può definire una base monoprotica B di Broensted-Lowry come una specie che reagisce con l’acqua secondo la reazione:

B + H2O D BH+ + OH- Queste reazioni devono essere entrambe interpretate come reazioni di equilibrio e, quindi, sono caratterizzate da una costante di equilibrio. La costante di dissociazione acida Ka è descritta dalla seguente relazione:

𝐾& =[H;O6][A7]

[HA]

Analogamente, la costante di dissociazione basica Kb è definita dalla relazione:

𝐾4 =[BH6][OH7]

[B]

In entrambe le relazioni, quando la pressione e la temperatura non variano, la concentrazione dell’acqua può essere considerata costante e, quindi, è incorporata nel valore della costante di equilibrio. Il fatto che la dissociazione degli acidi e delle basi di Broensted-Lowry sia concepita come una reazione di equilibrio ha importanti conseguenze sperimentali. Infatti, una reazione di equilibrio implica che essa possa avvenire anche al contrario e che, all’equilibrio, i due processi opposti abbiano la stessa velocità (si rilegga il paragrafo sull’equilibrio chimico). Allora, se un acido HA si dissocia trasferendo un protone all’acqua (che si comporta da base) e formando la specie A- e lo ione idrossonio H3O+, ciò significa che, osservando la reazione al contrario, l’anione A- accetterà un protone da H3O+ (che si comporterà da acido) ritrasformandosi nell’acido di partenza HA. Ne consegue che la specie A- si comporta come un accettore di protoni e, quindi, deve essere considerata, a tutti gli effetti, una base di Broensted-Lowry. Si dice che A- è la base coniugata dell’acido HA. In modo del tutto simile, la specie BH+, che si forma dalla base B per trasferimento di un protone dall’acqua, quando si osserva l’equilibrio di dissociazione al contrario, si comporta come un donatore di protoni per riformare la base di partenza B. Si può, quindi, affermare che la specie BH+ sia un acido di Broensted-Lowry e, per questo, prenderà il nome di acido coniugato alla base B.

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Allora, se A- è una base e BH+ è un acido, quando essi si sciolgono nell’acqua dovrebbero dare luogo ai seguenti equilibri:

A- + H2O D HA + OH-

BH+ + H2O D H3O+ + B A questi equilibri saranno associate le costanti descritte in basso:

𝐾&" =[HA][OH7]

[A7]

𝐾4" =[H;O6][B][BH6]

Le costanti 𝐾4" e 𝐾0" sono chiamate costanti d’idrolisi per le ragioni che saranno spiegate nel seguito. E’ facile dimostrare che le costanti d’idrolisi sono in relazione con le costanti di dissociazione dei rispettivi acidi e basi coniugati, 𝐾4 e 𝐾0 . Per ricavare queste relazioni è sufficiente moltiplicare ambo i membri dell’espressione delle costanti 𝐾4" e 𝐾0" per il prodotto ionico dell’acqua:

𝐾&" =[HA][OH7]

[A7][H;O6][OH7][H;O6][OH7]

𝐾4" =[H;O6][B][BH6]

[H;O6][OH7][H;O6][OH7]

Semplificando alcuni termini uguali, si ottiene:

𝐾&" =[HA][A7]

[H;O6][OH7][H;O6]

𝐾4" =[B][BH6]

[H;O6][OH7][OH7]

Sostituendo 𝐾5 = [H)O6][OH7], si ottiene:

𝐾&" =[HA][A7]

𝐾8[H;O6]

𝐾4" =[B][BH6]

𝐾8[OH7]

E’ facile osservare che i termini rimanenti sono:

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1𝐾&

=[HA]

[A7][H;O6]

1𝐾4

=[B]

[BH6][OH7]

Perciò, le costanti d’idrolisi possono essere scritte come:

𝐾&" =𝐾8𝐾&

𝐾4" =𝐾8𝐾4

Il risultato è sicuramente ragionevole. Infatti, esso afferma che le costanti degli equilibri inversi a quelli della dissociazione dell’acido HA e della base B (descritti da 𝐾4" e 𝐾0" ), sono esattamente uguali all’inverso delle costanti delle reazioni di HA e B con l’acqua (descritti da 𝐾4 e 𝐾0). In conformità a quanto esposto sopra, è facile comprendere come sia abbastanza agevole interpretare le proprietà di un acido di Arrhenius all’interno della teoria di Broensted-Lowry. In particolare, un acido forte di Arrhenius può essere descritto come un acido di Broensted-Lowry che possiede una costante di dissociazione molto grande, cioè dell’ordine 𝐾4 ≈ ∞ (ad esempio, la 𝐾4 di HCl è circa 1051). Meno evidente è il ruolo delle basi forti di Arrhenius X(OH)n in questa teoria. Queste specie sono più assimilabili a dei sali contenenti un catione e l’anione OH-. Quando sono posti in acqua, essi si separano nei rispettivi ioni Xn+ e OH-. La specie cationica è innocua poiché non reagisce con l’acqua e, quindi, non influenza il pH. Al contrario, poiché la specie OH- partecipa all’equilibrio dell’acqua, essa ha un forte impatto sul valore del pH. Queste considerazioni si possono estendere a tutti i sali formati da un catione e un anione. Poiché queste specie si dissociano completamente quando sono in sciolti in acqua, occorre sempre valutare la natura chimica del catione e dell’anione per capire se essi possono influenzare il pH. In generale, valgono le seguenti considerazioni. Se il sale è formato da un catione che proviene da una base forte di Arrhenius [X(OH)n] e da un anione A- , la specie cationica non ha alcun effetto sul pH. Al contrario, poiché la specie anionica A- proviene dalla dissociazione di un acido di Broensted-Lowry, HA, essa è necessariamente una base di Broensted-Lowry e, allora, è indispensabile valutare la sua forza. Come si fa? Basta usare la corrispondente costante d’idrolisi 𝐾4" = 𝐾5/𝐾4. Se 𝐾4 ≫ 1 allora 𝐾4" tenderà a zero e la base A- sarà debolissima e, quindi, non avrà alcuna influenza sul pH. Al contrario, se 𝐾4 ≤ 1078, allora ne discende che 𝐾4" ≥ 107+- e A- avrà un effetto misurabile sul pH. La stessa analisi può essere applicata a un sale del tipo XA che si dissocia negli ioni X+ e A-. Se il catione X+ è l’acido coniugato di una base di Broensted-Lowry (ad esempio, NH4

+), esso si comporterà da acido di Broensted-Lowry e la sua forza dovrà essere valutata considerando il valore della sua costante d’idrolisi 𝐾0" = 𝐾5/𝐾0. Ancora una volta, se la base coniugata è molto forte, 𝐾0 ≫ 1, allora 𝐾0" → 0. Di conseguenza, l’acido X+ sarà debolissimo e non avrà alcuna influenza sul pH. Al contrario, se 𝐾0 ≤ 1078, allora 𝐾0" ≥ 107+-e l’acido X+ mostrerà un effetto misurabile sul pH. Naturalmente, l’analisi dell’effetto dell’anione A- sarà del tutto identica a quanto descritto in precedenza.

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In conclusione, quando si scioglie un sale nell’acqua, occorre sempre fare molta attenzione a capire se il catione e l’anione di cui è formato possono reagire con l’acqua trasferendo o accettando protoni. Riassumendo i risultati dell’analisi riportata sopra, è possibile formulare la seguente regola. Se il catione e l’anione di cui è formato un sale sono coniugati rispettivamente a una base e a un acido forti, essi non mostreranno alcuna tendenza a reagire con l’acqua e, di conseguenza, non influenzeranno il valore del pH. Al contrario, se il catione e l’anione di cui è formato un sale sono coniugati rispettivamente a una base e a un acido deboli, essi reagiranno con l’acqua e, di conseguenza, avranno un effetto osservabile sul valore del pH. Quest’ultimo fenomeno è storicamente noto come ‘idrolisi dei sali’ e spiega l’origine del nome ‘costante d’idrolisi’. A questo punto, è opportuno chiedersi come si possa calcolare il pH in ciascuna delle situazioni descritte sopra. In realtà, esiste una semplice strategia generale di calcolo che fa uso della costante d’equilibrio associata alla particolare reazione acido-base. Occorre porre l’accento sul fatto che le considerazioni riportate nel seguito valgono per concentrazioni iniziali di acido e di base > 10-6 M. In queste condizioni, è possibile trascurare la quantità di H3O+ e OH- provenienti dalla dissociazione dell’acqua. Si consideri l’acido debole HA che si dissocia secondo la reazione:

HA + H2O D H3O+ + A- La costante di dissociazione è:

𝐾& =[H;O6][A7]

[HA]

Quando si raggiunge l’equilibrio, sia x il numero di moli per unità di volume (concentrazione) di ioni H3O+ che si formano. Naturalmente, x sarà anche uguale alla concentrazione di ioni A- che sono presenti all’equilibrio poiché il rapporto molare fra H3O+ è A- è uguale a 1. Allora, se a è la concentrazione iniziale dell’acido (cioè la concentrazione calcolata e introdotta nella soluzione all’inizio), all’equilibrio la concentrazione di HA rimasta dopo la dissociazione sarà a − x. Sostituendo nell’espressione dell’equilibrio si ottiene:

𝐾& =(𝑥)(𝑥)(𝑎 − 𝑥)

=𝑥#

(𝑎 − 𝑥)

Poiché x = [H3O+], risolvendo l’equazione si ottiene il valore del pH:

[H;O6] = 𝑥 = T𝐾&(𝑎 − 𝑥) Analogamente, si può considerare la base debole B, che si dissocia in acqua secondo l’equilibrio:

B + H2O D BH+ + OH- La costante di dissociazione è:

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𝐾4 =[BH6][OH7]

[B]

Indicando con b la concentrazione iniziale della base e seguendo lo stesso ragionamento utilizzato nel caso dell’acido HA, si può scrivere:

[OH7] = 𝑥 = T𝐾4(𝑏 − 𝑥) Queste equazioni possono essere utilizzata per discutere il calcolo del pH in differenti condizioni come descritto nel seguito. 8.3.2.1. Acidi e basi forti Un acido forte e una base forte sono completamente dissociati in acqua. Ne segue che:

𝐾& → ∞ 𝑥 = 𝑎

e 𝐾4 → ∞ 𝑥 = 𝑏

In prima approssimazione, si può allora scrivere:

[H;O6] = 𝑎

𝑝𝐻 = − log[H;O6] = −log(𝑎) Analogamente:

[OH7] = 𝑏

𝑝𝑂𝐻 = − log[OH7] = −log(𝑏)

𝑝𝐻 = 14 − 𝑝𝑂𝐻 8.3.2.2. Acidi e basi deboli Un acido debole e una base debole non sono completamente dissociati in acqua e sono caratterizzati da valori delle costanti di dissociazione inferiori a 10-3. Nelle formule,

[H;O6] = 𝑥 = T𝐾&(𝑎 − 𝑥) e

[OH7] = 𝑥 = T𝐾4(𝑏 − 𝑥)

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il valore di x è trascurabile rispetto a quello della concentrazione inziale (a e b). Allora, le formule possono essere approssimate nel modo seguente:

[H;O6] = 𝑥 = T𝐾&(𝑎)

[OH7] = 𝑥 = T𝐾4(𝑏) Da cui:

− log[H;O6] = 𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔T𝐾&(𝑎) e

− log[OH7] = 𝑝𝑂𝐻 = −𝑙𝑜𝑔T𝐾&(𝑏)

𝑝𝐻 = 14 − 𝑝𝑂𝐻 8.3.2.3. Sali Un sale è una specie chimica che contiene un catione e un anione. Quando sciolti in acqua, i sali sono completamente dissociati negli ioni costituenti. Siano A- e B+ l’anione e il catione che formano il sale. Come discusso in precedenza, si possono presentare i seguenti casi. (i) A- e B+ provengono da un acido forte (HA) e da una base forte (BOH), rispettivamente. Allora, questi ioni non hanno alcuna tendenza a reagire con l’acqua e il pH risultante sarà esattamente uguale a 7 (neutro). (ii) Il catione B+ proviene da una base forte (BOH) mentre l’anione A- è la base coniugata proveniente da un acido debole (HA) la cui costante di dissociazione è Ka. Il catione B+ è innocuo e non influenza il valore del pH, mentre l’anione A- potrà reagire con l’acqua secondo la reazione:

A- + H2O D HA + OH- Se s è la concentrazione iniziale del sale, il pH sarà dato dall’espressione:

− log[OH7] = 𝑝𝑂𝐻 = −𝑙𝑜𝑔`𝐾8𝐾&

(𝑠)

𝑝𝐻 = 14 − 𝑝𝑂𝐻

− log[H;O6] = 𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔`𝐾8𝐾&

(𝑠)

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(iii) L’anione A- proviene da un acido forte (HA) mentre il catione BH+ è l’acido coniugato proveniente dalla base debole (B) la cui costante di dissociazione è Kb. L’anione A- è innocuo e non influenza il valore del pH, mentre il catione BH+ potrà reagire con l’acqua secondo la reazione:

BH+ + H2O D H3O+ + B Se s è la concentrazione iniziale del sale, il pH sarà dato dall’espressione:

− log[H;O6] = 𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔`𝐾8𝐾4

(𝑠)

8.3.2.4. Soluzioni tampone Una soluzione tampone acida contiene un acido debole (HA), cui è associata la costante di dissociazione Ka, e un sale formato da un catione innocuo e da un anione A- che è la base coniugata dell’acido debole. In soluzione sono presenti i seguenti equilibri simultanei:

HA + H2O D H3O+ + A-

A- + H2O D HA + OH- Per determinare il pH, è possibile utilizzare l’espressione della costante di dissociazione dell’acido debole:

𝐾& =[H;O6][A7]

[HA]

Ricavando il termine [H3O+] si ottiene:

[H;O6] = 𝐾&[HA][A7]

In forma logaritmica, l’espressione diventa:

−𝑙𝑜𝑔[H;O6] = −𝑙𝑜𝑔𝐾& − 𝑙𝑜𝑔[HA][A7]

che può essere anche scritta come,

𝑝H = 𝑝𝐾& − 𝑙𝑜𝑔[HA][A7]

Indicando con a la concentrazione iniziale dell’acido debole HA, e con s la concentrazione iniziale del sale che contiene l’anione A-, in prima approssimazione, è possibile trascurare la quantità di HA che si trasforma in A- e, in modo simile, la quantità di A- che si trasforma in

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HA secondo i due equilibri simultanei riportati in alto. Quest’approssimazione è più che ragionevole perché i due equilibri simultanei operano in modo opposto. In particolare, la dissociazione dell’acido debole HA produce ioni A- e H3O+ e consuma l’acido debole HA. Al contrario, la dissociazione della base coniugata A- produce l’acido debole HA e lo ione OH- e consuma la base coniugata A-. In altre parole, i due equilibri annullano reciprocamente i loro effetti mantenendo la concentrazione delle varie specie in soluzione quasi costante. Si afferma che la presenza dei due equilibri simultanei ha un’azione tamponante sulle variazioni delle concentrazioni delle specie in soluzione comprese le concentrazioni degli ioni H3O+ e OH-. Il risultato è che il pH della soluzione tampone subisce variazioni minime all’interno di un certo intervallo di concentrazioni dell’acido debole HA e della sua base coniugata A- (cioè fintantoché sono presenti in soluzione entrambi gli equilibri simultanei). Il pH può essere, allora, calcolato con la formula seguente:

𝑝H = 𝑝𝐾& − 𝑙𝑜𝑔(𝑎)(𝑠)

dove a è la concentrazione iniziale dell’acido debole e è la concentrazione iniziale del sale che contiene la base coniugata. Quando a = s, pH = pKa e si afferma che la soluzione possiede il suo massimo potere tamponante poiché il valore del pH si trova proprio al centro dell’intervallo di variazione delle concentrazioni di HA e A-. Considerazioni simili possono essere ripetute per una soluzione tampone basica formata da una base debole B e da un sale che contiene un anione innocuo e un catione BH+ che costituisce l’acido coniugato della base debole. In soluzione, sono presenti i seguenti equilibri simultanei:

B + H2O D BH+ + OH-

BH+ + H2O D H3O+ + B Per il calcolo del pH si può utilizzare la costante di dissociazione della base debole Kb:

𝐾4 =[BH6][OH7]

[B]

Ricavando il termine [OH-] si ottiene:

[OH7] = 𝐾4[B][BH6]

In forma logaritmica, l’espressione diventa:

−𝑙𝑜𝑔[OH7] = −𝑙𝑜𝑔𝐾4 − 𝑙𝑜𝑔[B][BH6]

che può essere anche scritta come,

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𝑝OH = 𝑝𝐾4 − 𝑙𝑜𝑔[B][BH6]

Indicando con b la concentrazione della base debole B e con s la concentrazione del sale che contiene l’acido coniugato BH+, la formula diviene:

𝑝OH = 𝑝𝐾4 − 𝑙𝑜𝑔(𝑏)(𝑠)

e

𝑝𝐻 = 14 − 𝑝𝑂𝐻