APPARTENERE A CRISTO: UN INCONTRO CHE DÀ SAPORE...

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APPARTENERE A CRISTO:

UN INCONTRO CHE DÀ SAPORE ALLA VITA

AMEDEO CENCINI

n prete romano, mi pare, gliel’ha anche detto… papale papale: «Ma

lei, papa Francesco, ce l’ha proprio coi preti. Ogni volta che parla di

loro ha sempre da rimproverarli!». Molti hanno proprio questa impres-

sione, perché, in effetti, so-

no molti gl’interventi di

papa Bergoglio in cui il to-

no è piuttosto deciso e sa di

richiamo, e non in generale,

ma sempre facendo riferi-

mento a modi di essere

molto precisi e da parte di

chi in realtà mostra di voler molto bene alla categoria.

La cosa, per altro, ha una sua logica e si spiega molto facilmente. Papa

Francesco vuole portare avanti una riforma della Chiesa, e sa bene che

una riforma della Chiesa parte dalla riforma del clero; non sarebbe pensa-

bile e possibile alcun cambiamento nella Chiesa senza un cambiamento

dei suoi preti. Molto probabilmente è proprio l’aver intuito questo, o

l’aver capito che il punto nevralgico o d’arrivo della riforma bergogliana è

esattamente questo, ciò che crea qualche maldipancia clericale.

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Proprio per questo all’incontro del Papa con la CEI del maggio scorso,

all’apertura della 69.ma Assemblea generale, dedicata proprio al rinno-

vamento del clero, molti si aspettavano chissà quale tirata d’orecchie. In-

vece papa Francesco ha proposto una riflessione molto pacata e propositi-

va, da parte di chi conosce molto bene la situazione, le fatiche, i dubbi, la

complessità dell’esser preti oggi, non pretende risolvere sbrigativamente

il problema, ma dà un’indicazione precisa per il cammino da fare.

Più precisamente, il Papa parte da tre domande: cosa rende saporita la

vita del prete? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ra-

gione ultima del suo donarsi?

A queste tre domande risponde con un termine preciso e strategico: ap-

partenenza, declinato in tre direzioni, al Signore, alla Chiesa, al Regno. Come

bene ha intuito chi ha formulato il titolo di questa riflessione. Che vorrei

proprio commentare spiegando il senso dei termini, così evocativi. Divi-

derò dunque in tre sezioni tale explicatio terminorum: appartenenza, appar-

tenenza a Cristo, incontro che dà sapore alla vita. E metterò tali termini in

corrispondenza con le tre fasi pedagogiche dell’adesione a un valore: co-

noscenza, esperienza, sapienza. Ma tenendo sullo sfondo l’icona biblica

usata dal Papa nell’indirizzo ai vescovi: Mosè e il roveto ardente.

1. Appartenere: la conoscenza (di sé) che apre alla relazione

Il sacerdote è «uno che non s’appartiene», classica frase fatta, che noi

normalmente carichiamo di senso morale-spirituale, persino un po’ ecces-

sivo al limite dell’improbabile. In realtà, ogni persona normale e che ha

raggiunto un buon livello d’identità non s’appartiene. Appartiene a un al-

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tro, come può essere la moglie; ma può appartenere anche a un ideale, a

un progetto diventato come una passione. L’uomo è fatto per appartenere

a un altro, a chi e come lo decide lui, ma in ogni caso non può esimersi dal

farlo.

Cosa vuol dire appartenere?

1.1. Consegnarsi, fidarsi…

Vuol dire consegnarsi, fidarsi e abbandonarsi (a un altro), esser parte

di… (un progetto comune, un amore…). È il contrario di «si tiene la vita

stretta tra le proprie mani», o non si fida abbastanza dell’altro, o calcola

bene a chi far credito e seleziona con accuratezza le relazioni. Potremmo

forse sintetizzare la differenza dicendo che chi appartiene normalmente

vive una forte relazione o conosce un grande amore, sa innamorarsi; chi

non appartiene a niente e a nessuno di solito non conosce nemmeno

l’esperienza d’un grande amore cui consegnarsi. È un po’ narciso, il Nar-

ciso disperato del mito greco che non si fida di chi lo ama e finisce per in-

namorarsi della sua immagine riflessa sulle acque del lago, immagine che

tenta disperatamente di abbracciare, finendo annegato dentro la sua ac-

qua, dentro questo falso innamoramento. Davvero un’identità liquida la

sua… Immagine diventata incredibilmente di moda in una società liquida

come la nostra.

Cosa c’è all’origine dell’appartenenza, da dove viene?

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1.2. Dall’identità all’appartenenza

Fondamentalmente l’appartenenza suppone una buona identità, solo la

persona che ha acquisito la certezza d’una radicale e stabile positività per-

sonale può permettersi il lusso, e la libertà, di aprirsi all’altro, a lui conse-

gnandosi. Narciso, invece (don Narciso), non s’apre all’altro perché si

vergogna di sé (il contrario della stima), non crede d’essere amato proprio

perché non si sente amabile, non s’imbarca in una relazione d’amore per-

ché teme di non avere i nu-

meri per sostenerla. E finisce

per far l’amore con se stesso,

operazione che – come sap-

piamo − conduce alla morte

per soffocamento.

All’origine, dunque, c’è il

problema della positività

dell’io. Che è un’esigenza

fondamentale nella vita

d’ogni persona. E pure nella

vita del prete e del suo senso d’identità.

Ma che non ha l’attenzione che meriterebbe nella prima formazione, o

ce l’ha solo dal punto di vista dei contenuti (teologici) o del ruolo (pasto-

rale), come fosse automatico il passaggio dal teologico al pastorale, dallo

spirituale allo psicologico. Qui non possiamo affrontare il problema per

esteso, ma faremo solo un veloce accenno, partendo dal rilievo di papa

Francesco nel testo che stiamo considerando circa il presbitero «che si è

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avvicinato al fuoco (del roveto) e ha lasciato che le fiamme bruciassero le

sue ambizioni di carriera e potere»; o il prete, ancora, che «non è un buro-

crate o un anonimo funzionario dell’istituzione […] e non cerca assicura-

zioni terrene o titoli onorifici». Sappiamo, per altro, quante volte risuoni

nei discorsi di Francesco questo invito a liberarsi dal virus del carrierismo

clericale, vero e proprio demone dal potere psicologicamente devastante.

La cui origine va ricercata esattamente in un difetto di positività della propria

identità.

Sabbia

Dove trova la radice della propria identità un presbitero? Non certo nel

primo livello, quello fisiologico, legato al proprio corpo e alla pretesa che

esso sia sempre sano-bello-forte-giovanile, né all’apparenza esteriore, an-

che se vi possono essere residui di questo tipo di identificazione in un cer-

to eccesso di attenzione al proprio look (il prete «bello»), alla propria salu-

te (il don salutista), al proprio abbigliamento (il prete elegante), a quel cer-

to discreto fascino del reverendo (il prete figo). Né l’identità del prete può

trovare il suo fondamento ultimo nelle doti e qualità che egli possiede (sa-

rebbe il livello psicologico), perché questo lo renderebbe pericolosamente

dipendente da tutta una serie di realtà: dai risultati delle proprie prestazio-

ni, dalla stima degli altri, dal consenso della folla…, al punto di non saper

accettare insuccessi né riconoscere i propri limiti…; lo renderebbe invidioso

come un preadolescente di chi ha di più (la famosa «invidia clericalis»,

spreco immondo di energie preziose) e competitivo nelle relazioni (fino a

godere degl’insuccessi altrui), compiacente coi superiori e cinico coi pari o

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con gl’inferiori; lo porterebbe a identificarsi col ruolo (il prete «arruolato»

che non accetta di essere sostituito e vorrebbe non lasciare mai), magari

persino arrabbiato con la vita perché non avrebbe abbastanza, e pauroso di

rischiare e tentare avventure inedite (fingendosi umile laddove è solo in-

sicuro di fare bella figura), e in particolare creerebbe questa insana esigen-

za di emergere, diventare qualcuno, raggiungere titoli (di studio o comunque

di prestigio), fare carriera, vincere sugli altri, interpretando il suo ruolo

come una continua esibizione di sé (ovvero abusandone, vedi i vari esibi-

zionismi liturgici)… Non è su-

perbia se il superbo è uno che

si pensa (o si sforza di pensar-

si) chissà chi; è semmai la di-

sperazione di chi non ha trovato

un punto stabile e definitivo, che

in modo stabile e definitivo gli

dia la certezza della propria

positività, senza bisogno di ricorrere a compensazioni che mai gli risolve-

ranno il problema, e che al contrario non faranno che aumentare in lui una

sete insana e incolmabile, con inevitabili ricadute sul piano pastorale.

Quanti preti si sono persi o hanno perso la loro pace lasciandosi sedurre

da questo livello, tipico della fase adolescenziale, e che assieme al primo

livello (più infantile) sarebbe come la sabbia su cui è impossibile costruire

una solida abitazione (cf. Mt 7,21.24-27)! O quanti preti, con scarsa stima

di sé (e povero senso della loro amabilità) si sono ritrovati proprio per

questo in una situazione di vulnerabilità emotivo-affettiva, che li ha resi

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eccessivamente sensibili rispetto al minimo segnale positivo di attenzione

affettiva (o affettivo-sessuale) nei loro confronti, illudendosi così di poter

risolvere il loro problema («se una mi ama vuol dire che sono amabile»), e

finendo spesso per divenire dipendenti dalla relazione, dalla persona in

questione, da gesti e segni vari d’affetto...! Quante crisi affettivo-sessuali

di preti o ex-preti sono nate non nell’area affettivo-sessuale, ma nell’area

della identità (non abbastanza positiva)! O quanti preti hanno ritenuto di

poter cambiare la propria identità vocazionale, specie quando questa s’è

rivelata meno gratificante rispetto alle attese, come fosse un abito nel

momento in cui questa non gli dava più un positivo ritorno d’immagine!

Roccia

Il livello ulteriore è quello autentico, adulto, roccioso, che non inganna:

il livello ontologico, ove la persona s’identifica per quello che è e per quello

che è chiamata a essere. Non più per quello che ha. Dunque per quello che è

già, anzitutto, per quello che ha ricevuto, per la vita, per l’amore, per gli

altri, per il dono della fede e per tutto quello che continua a ricevere, che è

sempre infinitamente di più del limite o del negativo che pure fa parte

della vita stessa. Ma che apre subito il suo spirito a riconoscere la fonte di

tutto ciò, quella volontà buona che s’è innamorata della mia immagine e

mi ha preferito alla non esistenza. È l’incontro con il roveto ardente, che

mette Mosè di fronte al mistero, quello di Dio – fuoco che arde e non

s’estingue −, e il mistero di se stesso, in particolare di quel che vuole e de-

ve realizzare, della sua vocazione; il mistero di Dio lento all’ira e misericor-

dioso, che ha ascoltato il gemito del suo popolo, e quello dell’uomo, chia-

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mato a manifestare la tenerezza e volontà di salvezza di questo Dio. In

modo assolutamente inedito e imprevisto. Da un lato, tale fuoco brucia

ogni pretesa di autosufficienza dell’uomo (l’invito a non avvicinarsi trop-

po, a togliersi i sandali), dall’altro gli svela il futuro, quello che è chiamato

a essere.

È l’esperienza che dovrebbe essere strutturale per l’uomo-prete, proprio

nel senso che dà una struttura e un contenuto stabili alla sua identità, lo

definisce e lo rassicura nella sua positività, come qualcosa che ha già e che

pure gli sta davanti, e

che nulla più potrà

offuscare. Come una

teofania quotidiana.

Che l’uomo s’ap-

presta a celebrare

«scalzo» (come sotto-

linea papa France-

sco): senza la pretesa

d’esser lui a definire se stesso, la sua identità è «terra santa», luogo che

appartiene a Dio, e lui solo, il Creatore, può svelarti a te stesso. E ti svela

che la tua identità è contenuta-nascosta in quella di Dio, proprio perché

sei stato creato a sua immagine e somiglianza, e la potrai scoprire nella

misura in cui entri nel mistero di Dio, o ti avvicini ogni giorno alle soglie

di questo mistero, di questo roveto ardente. Qualcosa che «arde», non una

considerazione teorica, ma esperienza profonda e intensa, che «marchia a

fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo», le dà

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luce e calore, che ti coinvolge e cambia dentro. E allora tale esperienza ti

rende anche scalzo, sempre più scalzo, ovvero, nelle parole di Francesco,

quelle fiamme hanno bruciato «le sue ambizioni di carriera e potere», per

cui non ha bisogno di «assicurazioni terrene o titoli onorifici». Nel roveto

ardente dell’amore dell’Eterno gli è dato di trovare sempre di nuovo ciò

che dà sostanza e pienezza di significato alla propria persona, al punto

che non avrebbe senso cercare altrove, o lasciarsi illudere dalle luci ingan-

nevoli della carriera e della fama. Il suo bene è Dio, e quella parola che e-

sce dalla sua bocca. C’è una singolare espressione nel discorso del Papa,

quando dice che il prete che ha «accettato di non disporre di sé, non ha

un’agenda da difendere», che va inteso non solo come cose da fare e pro-

getti da realizzare, ma soprattutto come rinuncia a sentirsi artefice di se

stesso, ad autogestirsi la vita in autonomia, a decidere lui cos’è importante

fare, a lasciare che sia la Parola ogni giorno (la Parola-del-giorno) a stabili-

re priorità e urgenze.

In tal senso davvero chi ogni giorno vive questo rapporto con Dio «ro-

veto ardente» può dire che ha costruito la propria vita sulla roccia, e la sua

identità-positività è stabile: può anche vivere situazioni dolorose e negati-

ve, che sembreranno contraddire quella positività radicale, come

l’esperienza della propria fragilità o di tutto ciò che lo indurrà a riconosce-

re il proprio peccato (è un «paralitico guarito», dice Francesco, o «ladrone

graziato»); potrà affrontare insuccessi e fallimenti, soffrire l’eventuale po-

ca considerazione degli altri nei suoi confronti… senza deprimersi troppo,

senza cercare squallide compensazioni. Come purtroppo sovente succede

nella vita di troppi preti.

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1.3. Appartenenza come

L’identità umana nell’identità divina

L’identità è un concetto individuale, si riferisce al singolo e al suo modo

di sentirsi. In realtà l’identità, quand’è correttamente definita, apre all’altro

e alla relazione. Ovvero, come abbiamo accennato più sopra, chi coglie la

propria positività in modo definitivo e stabile coglie, particolarmente nel

caso del credente, di non esser solo, anzi, di essere stato anticipato nel suo

pensarsi e provvedere a e stesso, scopre questa Volontà buona che l’ha

pensato da sempre al punto da volerlo esistente e riempirlo di beni e doni.

A questa Volontà buona egli si consegna, perché si fida di essa. Ma pure

ancor più profondamente perché si sente parte d’essa in qualche modo,

l’identità del credente nasce da quella di Dio secondo una logica di corri-

spondenza di significati, per cui se Dio è l’Amore, la creatura è l’amata; se

Dio è il Padre, io sono suo figlio; se lui è l’acqua viva io mi posso dissetare

solo bevendo di quest’acqua; se il Signore è il Bel Pastore io sono la sua

pecora…

Esser parte del dramma della salvezza

E non solo, l’appartenenza che nasce dall’identità significa che il cre-

dente e tanto più il presbitero è parte d’un progetto divino, che nasce con

la creazione e si compie con la redenzione. Ovvero l’identità vocazionale

presbiterale significa prender parte in modo attivo e responsabile al

dramma della salvezza o, detto diversamente, significa esser salvato (= io

attuale, come processo già compiuto grazie al sangue di Cristo) al punto di

esser chiamato a farsi carico della salvezza dell’altro (= io ideale, salvezza

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in atto, della quale sono responsabile), «partecipe e responsabile del suo

destino». E dunque è un’appartenenza tutt’altro che solo spirituale e mi-

stica, pacifica e scontata, ma che carica di responsabilità drammatica. E, al

tempo stesso, conferma oltre ogni prospettiva solo umana la positività e

dignità dell’essere umano.

Dalla solidità-positività dell’identità al senso forte d’appartenenza

Infine, c’è un’appartenenza, che nasce dall’identità, nei confronti di co-

loro coi quali l’individuo condivide un certo progetto vocazionale, dun-

que l’identità. È così che il marito appartiene alla moglie (e viceversa); è

così che il presbitero appartiene al presbiterio e, più concretamente, ai

presbiteri che ne fanno parte, che solo in quel momento (ovvero a partire

da una solida identità) gli diventano fratelli; è sempre così che nasce la

comunità consacrata, in cui si condivide la medesima identità (senza che

questo porti al livellamento, visto che ognuno lo vive secondo la propria

originalità o secondo il proprio unico-singolo-irripetibile io attuale). Tale

appartenenza è tanto più forte quanto più positiva è l’identità, e indica in con-

creto condivisione, responsabilità reciproca, consegna di sé pure reciproca,

gusto di stare insieme, «obbedienza fraterna»…. Ma c’è anche un risvolto

negativo: molti problemi relazionali derivano da una debole identità, o da una

bassa stima di sé che produce rifiuto di sé, e dunque anche disagio con gli

altri, o proiezione negli altri dei propri conflitti personali irrisolti. Avere

una buona identità (e dunque stima di sé stabile e radicale) è un’esigenza

insopprimibile dell’essere umano. Quando uno non risponde in modo a-

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deguato a quest’attesa la vita diventa una sfida continua e il soggetto un

problema per quei poveretti che gli vivono attorno.

2. Appartenere a Cristo: l’esperienza d’un incontro

Il presbitero appartiene a Dio in forza d’una relazione del tutto partico-

lare che lo rende conforme a Cristo. Proprio come dice il Papa riferendosi

al roveto ardente, che marchia a fuoco, conquista e conforma l’esistenza

del prete a quella di Gesù, «verità definitiva della sua vita».

Dalla fase della conoscenza passiamo ora a quella della esperienza. Come

dire che da un approccio soprattutto di tipo riflessivo-mentale occorre

passare a un approccio più globale, che coinvolge interamente il soggetto,

tutta la sua persona, tutto il suo mondo interiore soprattutto.

2.1. Sensibilità presbiterale, il luogo della formazione (permanente)

E qui c’imbattiamo in un termine che non ci suona nuovo, certamente,

ma che forse non è preso abbastanza sul serio dai nostri progetti formativi

o riformativi, e che invece è d’importanza assolutamente strategica nella

vita d’ogni essere umano. Basti pensare all’invito di Paolo ai Filippesi

(2,5): «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», lad-

dove l’originale fronein sarebbe meglio tradotto con sensibilità, visto che i

sentimenti sono solo una parte di quel tutto che è il nostro mondo interio-

re chiamato sensibilità. È già importante affermare questo: il prete deve

avere la stessa sensibilità di Gesù, non solo i suoi comportamenti. Poiché

la sensibilità – da un lato − è espressione immediata dell’identità,

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dall’altro ognuno dovrebbe formarsi una sensibilità in linea con il proprio

io ideale, con quello che è chiamato a diventare.

In realtà questo è il vero obiettivo della vita del prete, che non può ac-

contentarsi di avere un certo comportamento, da devoto, dice il Papa, o da

corretto esecutore dei suoi doveri, rischiando di diventare «un burocrate o

un anonimo funzionario dell’istituzione», ma deve cambiare il cuore, per-

sino le emozioni, i sentimenti, gli affetti… Dobbiamo riconoscere che an-

cora non è sparita del tutto la tendenza ad accontentarsi nella formazione

iniziale d’una attenzione al versante comportamentale del soggetto, dan-

do pochissima attenzione a quel che avviene dentro, magari a insaputa dello stes-

so. È proprio per questo che sovente si giunge al termine del cammino

formativo (?), e si constata con soddisfazione che la persona ha imparato

molte cose e nozioni, ha superato tutti gli esami e anche qualche prova, ha

mostrato buona volontà e non ha dubbi sulla sua vocazione, ma se uno

spinge lo sguardo oltre la condotta visibile e cerca di guardare «dentro»,

scopre che la sensibilità è rimasta quella di prima, è stata quasi per nulla

sfiorata da tutti i contenuti teologici o dalle operazioni pedagogiche dei

lunghi anni di formazione. A cosa è servita questa formazione? Formazio-

ne che molto probabilmente si fermerà qui, perché ormai lo costatiamo

sempre più, fa formazione permanente solo chi ha intrapreso un cammino

di conversione profonda, che coinvolge la sensibilità, fin dalla prima for-

mazione. Chi non ha inteso e vissuto così la formazione iniziale è molto

difficile che entri nella logica della FP.

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Grande risorsa

La sensibilità è quell’orientamento emotivo, e non solo emotivo, impresso al

nostro mondo interiore dalle esperienze passate e dalle scelte che abbiamo fatto e

continuiamo a fare, in diversi ambiti di vita, orientamento che ci attrae in una di-

rezione precisa. La sensibilità è una realtà complessa, formata dai sensi (e-

sterni e interni), sensazioni (reazioni di tipo fisico all’ambiente), emozioni

(reazioni psicologiche), sentimenti (sensazioni messe abitualmente in at-

to), desideri, gusti, affetti, criteri decisionali, passioni… E in diversi ambi-

ti: esiste infatti la sensibilità relazionale, penitenziale, morale (= la coscien-

za), credente, orante, intellettuale, estetica, vocazionale, pasquale, presbi-

terale, pastorale… È a causa della sensibilità che proviamo simpatie e an-

tipatie, o che un comportamento ci appare corretto o meno, o che «sen-

tiamo» una cosa come moralmente buona o cattiva, o che avvertiamo gu-

sto e attrazione nel vivere in un certo modo, o che siamo capaci di piange-

re. Tutti siamo più sensibili a qualcosa e meno a qualcos’altro, ma tutti

siamo sensibili, non esiste il tipo insensibile a tutto.

Ma da dove viene la sensibilità?

Grande responsabilità

Di solito si pensa che la sensibilità sia un dato pressoché istintivo, che

faccia parte del carattere, da accettare e basta. Niente di più sciocco. La

sensibilità all’inizio della vita è frutto dell’interazione con l’ambiente cir-

costante, ma poi diventa sempre più come il frutto delle scelte della persona, pic-

cole e grandi, poiché ogni scelta sposta energia in una direzione o in un’altra, e

dunque determina una progressiva tendenza: nella mente che giudica una

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cosa come normale e lecita, nel cuore che avverte una sensazione positiva

in quella stessa direzione, nella volontà che si sentirà sempre più spinta ad

agire in quella maniera. Ma è importante dunque ricordare che la sensibili-

tà è la conseguenza dei comportamenti della persona, e può e deve esser oggetto di

formazione; ognuno ne è responsabile, o ha la sensibilità che si merita e che si è

costruito piano piano.

Se dunque il presbitero è chiamato ad avere in sé la sensibilità di Cristo,

deve partire dai sensi (esterni e interni), e poi dare attenzione alle proprie

sensazioni ed emozioni, verificare i propri sentimenti, discernere pensieri

e affetti, gusti e desideri,

interrogarsi sui criteri

decisionali coi quali sce-

glie, riconoscere gli affetti

che agitano il suo cuore,

specie quelli più inten-

si… Con pazienza e co-

stanza. Passando dalla

sincerità che consente di

dare un nome a ciò che uno prova, alla verità, che costringe a chiedersi da

dove venga, come mai sto provando quel sentimento, cosa dice di me

questa emozione. Solo chi compie tale passaggio evita la dittatura dei sen-

timenti e sperimenta libertà.

Celebrazione Eucaristica con S.E. Mons. Domenico Sorrentino

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2.2. Odore delle pecore o mondanità spirituale

Sono entrambe espressioni di papa Francesco. Che indicano le due di-

rezioni opposte che può prendere il mondo interiore, o la sensibilità, del

pastore: o l’odore delle pecore o la mondanità spirituale.

Torniamo all’icona-madre della visione di Francesco proposta a tutti

noi: il roveto ardente che – ripetiamo questi tre verbi così efficaci − mar-

chia a fuoco e conquista l’esistenza del prete per conformarla a quella di

Cristo. Ne viene un cammino formativo formidabile, che non può non

impegnare la persona per tutta la vita, per esser attenta a ogni vibrazione

del cuore, ma anche all’uso dei sensi, per imparare a discernere pensieri e

sensazioni, e a cogliere quel peccato che è «accovacciato alle porte del

cuore», per esser reso simile in tutto alla sensibilità del Figlio obbediente,

del Servo sofferente, dell’Agnello innocente.

Papa Francesco ha sintetizzato il tutto con quella felice espressione di-

venuta emblematica: l’odore delle pecore, a dire un cammino davvero for-

mativo che cambia così radicalmente il modo di sentire del pastore fino a

cambiargli i sensi e rendergli familiare l’odore delle pecore (con tutte le

implicanze più o meno… maleodoranti). Espressione, dunque, che diven-

ta particolarmente efficace all’interno di questa nostra sottolineatura circa

la sensibilità.

Il contrario sarebbe la «mondanità spirituale che corrompe», come qual-

cosa che s’introduce lentamente nello spirito del prete, cammino lento e

lungo un piano che è inclinato, che di solito parte da concessioni veniali e

leggere a certe pretese istintuali, gratificazioni così piccole che il soggetto

non teme di ripeterle, ma che proprio la ripetizione fa lentamente diventare

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abitudini, condizionando piano piano, come abbiamo detto prima, la mente

che dà il suo assenso, il cuore che se ne sente sempre più attratto, la volontà

progressivamente condizionata da qualcosa che s’impone in modo viepiù

automatico. L’individuo è così sempre meno libero e sempre più condizionato

da un atteggiamento interiore che lo attrae verso il basso: a volte verso esi-

ti comportamentali d’una certa gravità (vedi scandali sessuali e dintorni),

nella maggioranza dei casi verso quello spirito mondano, o sensibilità, che

prende il posto della sensibilità cristiana ed evangelica. Mondanità come

mediocrità; mediocrità come già perversione, ma perversione accettata senza

grandi turbamenti e sensi di colpa, senza lacrime né coscienza di conver-

sione, senza chieder perdono a nessuno né capire il male fatto. Ovvero,

esattamente come insensibilità.1

3. Incontro che dà sapore e sapienza alla vita

Il cammino di adesione a un valore culmina nella sapienza. Spesso pen-

siamo che l’esperienza sia il punto finale, e insistiamo perché vi sia un

rapporto esperienziale con il valore in questione che sarebbe il massimo

(ad es. esperienza di Dio). In realtà molte volte le esperienze rappresenta-

no nella nostra vita un evento passeggero, bello in sé, ma che lascia poche

o punte tracce (quante esperienze cosiddette spirituali hanno fatto questa

fine!). E invece no, c’è un altro gradino oltre l’esperienza, è la sapienza.

Vediamo di coglierne le caratteristiche principali.

1 Ho tracciato il percorso che conduce all’insensibilità in A.CENCINI, È cambiato qualcosa? La Chiesa dopo gli scandali sessuali, Bologna 2014, pp.67-93.

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3.1. Definitività

Sapienza è accesso a una verità non solo con una conoscenza intellettua-

le, ma grazie a una esperienza di vita o a un rapporto intenso che segna in

modo definitivo e stabile identità e verità della persona. Il sapere di cui par-

liamo significa qualcosa che ormai è entrato nel modo di essere e di sen-

tirsi individuale, di pensarsi e leggersi, di giudicare il proprio vissuto,

d’intenderne correttezza e autenticità, di scegliere e riscegliere il proprio

progetto vocazionale, motivandolo e rimotivandolo in continuazione. È

proprio la sapienza, intesa come opzione definitiva della propria identità

(attuale e ideale) che consente non solo di non cambiare il proprio proget-

to di vita, ma di passare dalla perseveranza alla fedeltà. Ovvero dalla per-

manenza nello stato vocazionale solo o soprattutto materiale e fisica, a un

restare che è desiderato e scelto; da un permanere che è passivo e ripetitivo,

a una decisione rinnovata che s’avvale di motivazioni nuove e rende creativa

la fedeltà; da una permanenza che il soggetto decide dentro di sé e davanti

a sé, come davanti a uno specchio, a una decisione maturata dinanzi a un

Altro e alla sua fedeltà, la fedeltà è relazionale.

3.2. Sapore

Sapienza − come ben sappiamo − deriva dal latino sàpere, che significa

qualcosa di più del semplice sapere intellettuale o solo spirituale, e che

segnala invece la sensazione intensa del sapore, dell’assaporare la relazione

con il Signore Gesù, del gustare d’esser suoi discepoli, del provare l’Evangelii

gaudium, dell’imparare a godere della gioia delle Beatitudini, del soffrire il pro-

prio peccato. Sapienza psicologico-spirituale vuol dire tale capacità e liber-

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tà, come una nuova sensibilità, che arricchisce enormemente la vita d’una

persona, ma ancor prima − sul piano del contenuto − significa la saggezza

del lasciarsi attrarre dal sapore della verità e la raffinatezza del palato che

ha imparato a gustare ciò che è in sé bello e buono, piacevole e desiderabi-

le, distinguendolo immediatamente da ciò che è cattivo e sgradevole. La

potremmo chiamare sensibilità o coscienza sapienziale.2

Ecco perché la vita spirituale che nasce dall’incontro con Cristo nel suo

significato più profondo è anche sguardo poetico, elaborazione creativa,

esperienza mistica, passaggio dal «fare esperienza» all’«essere esperien-

za», o «esperienza che trascende l’esperienza».

3 Ed ecco perché, come dice

Lonergan, «nelle cose della religione l’amore precede la conoscenza», e la

fede è la conoscenza che nasce dall’amore.4

3.3. Relazione

Infine la sapienza, afferma Giacomo nella sua lettera, è «pura, poi paci-

fica, mite e arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza par-

zialità e senza ipocrisia» (Gc 3,17). È curioso che in questa descrizione bi-

blica della sapienza5

2 Cf A.CENCINI-A.MANENTI, Psicologia e Teologia, Bologna 2015, p.289.

non vi sia alcun riferimento all’aspetto intellettuale di

questo atteggiamento virtuoso, come verrebbe spontaneo, cui vengono

invece attribuite qualità relazionali: pace, mitezza, arrendevolezza, miseri-

cordia, imparzialità… Si direbbe che la sapienza è relazionale, non solo

3 T. MERTON, Semi di contemplazione, Milano 1955, pp.181; 138. 4 B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Brescia 1985, p.156. 5 Cf. in tal senso anche Sap 9,1-6.

21

razionale, crea rapporti e li purifica, fa vivere la qualità delle relazioni

perché giungano alla verità.

Se traduciamo tutto ciò in termini di sensibilità presbiterale-pastorale

vorrei indicare solo un aspetto, che troviamo sottolineato da papa France-

sco nel testo rivolto ai vescovi italiani. Un aspetto che mi sembra partico-

larmente necessario nel prete oggi.

3.4. Com-passione

È la capacità di provare compassione, compassione nel senso di patire

assieme, dunque come espressione ancora d’una certa sensibilità. E che

naturalmente ritroviamo in Gesù, che tutti riconoscevano in lui. Perché la

gente sentiva Gesù come uno che aveva autorità? Così diverso da scribi e

farisei, da quel sacerdote di cui Gesù stesso parla come esempio negativo

nella parabola del buon samaritano?

La risposta è interessante. La gente umile e semplice riconosceva

l’autorità di Gesù non necessariamente perché ne aveva teologicamente

colto l’origine dal Padre, ma perché si sente da lui compresa, e si sente da

lui compresa perché Gesù prende parte al suo dolore, piange di fronte al

feretro del figlio unico di madre vedova come alla notizia della morte di

Lazzaro, si accorge che la folla che lo segue è senza cibo, si commuove di-

nanzi all’ufficiale romano che gli chiede la guarigione del servo, espres-

sione di quel Padre che vede il suo popolo oppresso e soffre per lui e con

lui. Ecco la fonte dell’autorità. Forse ci appare insolita e singolare, eppure

22

continua a esser vero anche oggi. È la compassione la fonte autentica

dell’autorità del prete.6

L’autorità non è un tabù, un prete la deve saper esercitare. Ma stando

bene attento da dove nasce e da dove dovrebbe nascere. Se non c’è com-

passione nel suo cuore, lì si apre la strada verso le sciagurate e variegate

deformazioni del potere, che è l’interpretazione diabolica dell’autorità, o

la compensazione psicologica di

chi non è libero di provare com-

passione (e dunque non sarà

nemmeno autorevole e riconosciu-

to come tale).

Se invece c’è compassione allora

lì c’è vera autorità, quella che dav-

vero fa crescere l’altro (significato

etimologico), e dunque cambia to-

talmente il modo di relazionarsi

del prete, specie con chi è nel do-

lore e nella prova, e si apre con lui

e glielo racconta.

In concreto sacerdote capace di compassione è uomo di Dio capace di

ascolto umano, d’un ascolto il più possibile empatico, che non si ferma a ciò

che l’altro dice o magari di cui il penitente s’accusa, ma che cerca – per

quanto possibile − di capire ciò che c’è dietro, il contesto, il punto di vista 6 In fondo la compassione è ancora espressione di identità positiva e stabile, poiché indica una persona così sicura della propria positività da esser libera di accogliere il dolore (=la negatività) altrui senza il timore di perdere la propria positività.

23

in cui si pone il penitente stesso, soprattutto se dietro si percepisce una

certa sofferenza. Dobbiamo abituarci, dice Bonhoeffer, a valutare le per-

sone più per quello che soffrono, che non per quello che fanno.

Compassione significa un’altra cosa che a noi preti non viene sempre

facile, ovvero la sospensione del nostro giudizio morale. Se ascolti ascolta

davvero, non giudicare immediatamente, altrimenti il giudizio blocche-

rebbe la comunicazione. Il tempo della valutazione morale viene dopo,

prima devi capire.

Compassione è sentirsi allo stesso livello dell’altro. In altre parole, soprat-

tutto se si tratta di rapporto penitente-confessore, non puoi dimenticare

nemmeno un istante che sei anche tu penitente, né più né meno come chi

ora ti sta confessando i propri peccati. Anzi, a volte ti dà anche un certo

esempio di pazienza, fedeltà, forza d’animo, comprensione… Non è com-

passionevole chi si sente superiore all’altro. Il giusto è cordialmente pre-

gato di non fare il confessore!

Infine, compassione è libertà di patire assieme, di ospitare nel proprio cuore

almeno un po’ del dolore dell’altro. Che è una cosa prodigiosa, come una sor-

ta di travaso di sofferenza. Avere un cuore libero, come dovrebbe essere

un cuore sacerdotale, significa consentire a chi soffre e ti racconta la pro-

pria sofferenza di consegnarla almeno in parte a te. Anche per questo ci

consacriamo nella verginità del cuore, perché il cuore sia libero di ospitare

la pena altrui. In quel caso l’altro se ne va in qualche modo alleggerito e il

tuo celibato ha un senso. È un piccolo grande miracolo!

Sarebbe un test formidabile per noi preti. Quante volte ascoltiamo

drammi e disperazioni! Spesso ascoltiamo con professionale competenza,

24

sappiamo pure dire parole che ci sembrano consolatorie, ma poi la perso-

na se ne va e noi torniamo al nostro lavoro come se nulla fosse successo, a

volte persino dimenticandoci della persona e della sua pena. Il test sareb-

be semplice e infallibile: quando uno mi racconta il suo dolore io ci sto

male? Soffro con lui e per lui? Mi sento dentro in qualche modo quella

sofferenza? La riporto nella preghiera, la consegno al Signore?

Allora e solo allora saremmo preti che hanno autorità, l’autorità del Dio

ricco di misericordia e tenerezza. Autorità come sensibilità!

AMEDEO CENCINI, FDCC

25

Appartenere alla Chiesa:

un grembo che continuamente rigenera

LUCIANO MANICARDI

1. Presbitero e tempo

i è stato chiesto di commentare in particolare la seconda parte del

discorso di papa Francesco alla CEI del 16 maggio 2016, la parte

posta da papa Francesco sotto

il titolo: «Per chi impegna il

servizio il nostro presbitero?»

Una parte in cui le parole

chiave sono «comunità»,

«appartenenza», «partecipa-

zione», «relazione», «con-

divisione», ma soprattutto

«comunione». E per poter rispondere alla domande sull’impegno del

presbitero e sulla sua comunione con il Signore, con gli altri preti, con i

parrocchiani o i membri di un’associazione, occorre interrogarsi sulle

possibilità stesse di tale impegno e di tale comunione. Occorre cioè

chiedersi che cosa richieda un «impegno» e che cosa sia preliminarmente

necessario la comunione con «il Signore e con altre persone». Altrimenti il

nostro parlare cade nel vuoto e nella retorica. Dobbiamo cioè affrontare il

problema spinoso del rapporto tra il presbitero e il tempo.

M

26

Impegnarsi significa impegnare il tempo. La sua radice ha in sé l’idea di

dare in pegno, di obbligarsi, di promettere: e promettere è sempre

impegnare il futuro. Il presbitero che ha promesso la sua vita al Signore

nel servizio a una comunità ha impegnato la sua vita, ovvero il tempo del

suo vivere con perseveranza fino alla morte. Impegnarsi per qualcuno è

anzitutto impegnare il proprio tempo. Impegnarsi per qualcuno, come

dice papa Francesco, implica il dare ascolto, il dare parola, il dare

presenza, ma tutto questo significa «dare tempo». Il presbitero nutre

dunque la coscienza di fede che seguire il Signore e perdere la propria vita

nella sequela è semplicemente, e anzitutto, donare il concreto tempo della

vita. Possiamo dirlo così: senza comunione con il tempo, senza un

rapporto pacificato con il tempo, non ci sarà nessuna comunione con il

Signore e con le altre persone.

Ritengo che questo sia il problema decisivo che sottostà a molti

malesseri contemporanei e che rappresenti un’urgenza antropologica e

culturale che potrebbe costituire un tema di riflessione e elaborazione

nelle vostre associazioni. Diciamo di essere in un tempo di crisi, ma

stiamo vivendo una grave crisi del tempo, cioè delle modalità con cui

viviamo la dimensione temporale. Accanto alla dimensione ecologica

applicata allo spazio occorre inventare una ecologia del tempo, perché la

casa (oikos, questo significa la parola eco di ecologia) non è solo spazio,

ma anche tempo, tempo di abitare, di coltivare relazioni, di creare la

dimensione umana domestica, la fratellanza. Un’etica dell’ecologia esige

questa attenzione al tempo: non a caso il vocabolo greco êthos (ἦθος), da

cui proviene il termine «etica», ha anche il senso di «dimora»,

27

«abitazione». Ma il tempo, oggi, spesso anche per il presbitero non evoca

l’immagine della quiete domestica, ma dell’affanno della corsa. Spesso

anche il presbitero «non ha tempo»: sovraccarico di lavoro pastorale,

carenza di preti e pesi pastorali che gravano sempre più sulle spalle di

pochi, causano un ritmo di vita del presbitero spesso non umano, con

rischi di ricadute gravi a livello di qualità umana e spirituale della vita, di

conseguenze psicologiche, perfino di abbandoni. Per potersi impegnare

con serenità e dedizione al servizio delle persone e della comunità occorre

guardarsi dallo strutturare il proprio tempo in modo mondano, come

piccoli manager. Le

patologie del tempo oggi più

diffuse e che patisce anche il

presbitero sono: la

velocizzazione e l’accele-

razione (non si sopporta

l’attesa, la lentezza, il tempo

vuoto), la produttività e l’efficacia (il tempo non perso è quello in cui si

agisce efficacemente e si produce; si pensi all’iperattivismo pastorale);

l’atomizzazione e la frammentazione (non esiste più il tempo, ma solo i

tempi, segmentati, incalzanti, successivi, determinati da ciò che si fa: una

riunione, una catechesi, una eucaristia, un funerale, ...), l’episodicità e la

momentaneità (l’assolutizzazione del presente e il prevalere

dell’immediato sulle altre dimensioni temporali del passato e del futuro).

C’è chi parla di cronofagia per definire il nostro rapporto con il tempo.

28

Ribaltando il mito di Crono che divora i suoi figli, siamo noi umani che

divoriamo il tempo, e così ne abbiamo sempre meno.

Pongo ora alcune questioni sul rapporto presbitero e tempo che

potremo sviluppare e approfondire in sede di discussione.

2. Tempo e salute psicofisica

Se il tempo è vissuto in modo angosciato come nemico, per cui si deve

correre in continuazione, si devono fare azioni pastorali, sacramentali,

catechetiche, a volte devozionali, e tali che il presbitero stesso vi aderisce

poco, e questo ingenera dei modi di essere fondati sul risentimento e

sull’insoddisfazione che si esprimono con stress e rabbia, nervosismo e

frustrazione. E con ricerca di compensazioni. Il rischio dell’esaurimento,

del burnout è in agguato nelle relazioni di aiuto e nel ministero

presbiterale e proprio quando è vissuto con dedizione, con generosità,

senza risparmio. Se si vive il ministero sotto l’egida del dovere, si rischia

lo sfiancamento. Occorre trovare tempi e modalità di respiro. Il filosofo

Byung-Chul Han ha scritto: «In un mondo colpito da una sindrome

generale di dispnea» occorre ritrovare spazi di respiro perché solo così si

potrà ritrovare anche uno spirito: giocando sul doppio senso della parola

greca pneuma (respiro/soffio e spirito) il filosofo afferma che «chi perde il

soffio perde anche lo spirito».

Tempo e vita spirituale

Si abbia il coraggio di riscoprire la lentezza, il soffermarsi sulla cose, il

pensare e il riflettere. Si ritroverà la capacità di stupore che stiamo

29

perdendo, la capacità contemplativa, il godere delle cose, di un paesaggio,

di un fiore, di un volto. L’antica virtù dell’otium, il lavoro interiore, il dare

fondamenta spirituali all’agire umano e pastorale, il dare tempo alla

lettura e al pensare, è essenziale. Si tratta di accordare più importanza alla

qualità che alla quantità. Ma questo implica la creazione di un ordine e

l’assunzione di una disciplina degli impegni e degli orari, richiede il

coraggio di fare delle scelte nella propria giornata e di non subire la

tirannia delle tecnologie e dei mezzi di informazione, della televisione e di

Internet, dello

smartphone e

dei social che,

oltre a essere

strumenti di

grande utilità,

sono anche for-

midabili mezzi

per perdere tem-

po e dissipare se stessi. Otium, in un’ottica cristiana, significa anche

coltivare la preghiera, la vita spirituale.

Già Carlo Borromeo avvertiva i presbiteri: «Eserciti la cura d’anime?

Non trascurare per questo la cura di te stesso e non darti agli altri fino al

punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi certo avere presente il

ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso». Si

stia attenti a non cadere nella nevrosi pastorale e si abbia il coraggio di

imparare a «dire di no». Avere tempo per sé, se non è vissuto come lusso e

30

privilegio, è fondamentale per dare profondità e qualità alla propria

persona e dunque autorevolezza al proprio ministero. In questo mi

permetto di ricordare due strumenti basilari di autoformazione del

presbitero su cui può fare affidamento per una trasformazione del proprio

cuore. La solitudine della propria camera e la Parola di Dio contenuta

nella Bibbia. La Bibbia è uno specchio che ci legge nelle nostre lacune e nei

nostri peccati e che ci offre l’immagine a cui conformarci: Gesù. Leggere la

Bibbia è farsi leggere da essa. Scrive Gregorio Magno: «La Sacra Scrittura

si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui

possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto, possiamo

verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla meta».7

Per i

monaci la cella è specchio del monaco. Lo spazio materiale della cella e lo

spazio spirituale della solitudine divengono luogo di trasformazione e di

crescita spirituale per il presbitero. Dal riflesso si passa alla riflessione,

alla vita interiore. In tempi in cui la solitudine è radicalmente mutata e

rischia di scomparire perché anche in condizioni di solitudine fisica si è

sempre connessi con tante persone e presenze, è compito di chiunque

abbia a cuore l’educazione e la trasmissione di un sapere spirituale, il

coltivarla, esercitarsi in essa e mostrarne la fecondità.

Liturgia e tempo

La liturgia chiede lentezza, non nel senso di lungaggini o di pigrizia, ma

di gravitas, di coscienza della serietà del mistero che si sta celebrando.

Dunque non nel senso di ritualismo o di affettata religiosità, ma nel senso 7 GREGORIO MAGNO, Commento a Giobbe, 2,1,1.

31

che per il presbitero si tratta di essere totalmente e interamente in ciò che

si sta celebrando, immerso in esso, sicché mentre «fa la liturgia», il

presbitero è trasformato dalla liturgia. Ecco dunque che i gesti del

celebrante, il suo incedere, il proclamare l’evangelo, deve avere il giusto

tempo rifuggendo ogni frettolosità sicché appaia che il celebrante celebra

con tutto se stesso, corpo e spirito. Chiediamoci: che significa per il

comune partecipante all’eucaristia ascoltare e pronunciare parole come

«nei secoli dei secoli», «Regno eterno», «in quel tempo», «eternità», «per

sempre», ecc.?

3. Durata e perseveranza

La vita presbiterale richiede perseveranza e fedeltà e si snoda su una

durata. Occorre assumere la responsabilità della propria vita di fede e del

proprio ministero. Allora anche contraddizioni e amarezze, cadute,

sbandate affettive o disordini sessuali, potranno non divenire motivo di

abbandono, ma di re-inizio mettendo fiducia nella misericordia del

Signore. Occorre pazienza, che è la capacità di vivere l’incompiuto e

l’inadeguato in sé, negli altri e nella vita; la capacità di ricominciare

credendo di più alla misericordia di Dio e alla potenza della sua Parola

che all’evidenza della propria debolezza; la volontà di conversione, cioè il

concepire il ministero come la forma della propria sequela Christi e

dunque della mai finita conversione; l’assiduità alla preghiera: solo la

preghiera fa della fede una concreta e quotidiana relazione con il Signore.

Smarrire la preghiera è spesso l’anticamera dell’abbandono del ministero.

32

I passaggi critici della vita

Vi sono momenti della vita, tappe, età, che sono più critici, in cui siamo

più feribili e più fragili. La crisi del superamento della metà della vita − i

fatidici quarant’anni − in cui la coscienza che la morte entra nella nostra

vita perché ciò che ci resta da vivere è meno di ciò che abbiamo già

vissuto, in cui facciamo i conti e ci ritroviamo in rosso, in cui vediamo che

una quantità di possibilità sono chiuse e non più praticabili, è uno di

questi ed è molto destabilizzante. Occorre essere aiutati e accompagnati in

una relazione di paternità spirituale.

Alla radice dell’appartenenza e della comunione ecclesiale

Per chi impegna il servizio il presbitero? Si chiede papa Francesco e

prosegue: «Parti, innanzitutto, non perché hai una missione, ma perché

strutturalmente tu sei un missionario». Potremmo specificare la domanda,

per chi impegna il servizio il presbitero, con la più appropriata, «di chi si

fa servo il presbitero?». Non basta fare dei servizi, ma occorre essere servi.

La differenza è enorme. Si possono compiere molti e buoni servizi nella

Chiesa senza avere alcuna qualità di santità. E chi è il servo? Biblicamente

il servo è reso tale dall’ascolto della parola del Signore. Il servo del

Signore di cui parla Isaia è colui che dice: «Ogni mattina il Signore apre il

mio orecchio affinché io ascolti come i discepoli» (Is 50,4). E Maria è colei

che è resa serva del Signore dalla sua disponibilità radicale all’accoglienza

della parola di Dio in sé: «Ecco la serva del Signore, avvenga di me

secondo la tua parola» (Lc 1,38). Paolo, che più volte si proclama servo di

Cristo, afferma di essersi fatto «servo di tutti» (1Cor 9,19), «servo vostro»

33

(2Cor 4,5), egli cioè ha seguito l’esempio di colui che si piegò a lavare i

piedi ai suoi discepoli facendosi servo di tutti. Ora, alla radice della

comunione ecclesiale vi è l’appartenenza a Cristo attraverso l’ascolto

obbediente della parola del Signore. Attraverso l’impegno della propria

libertà a servizio della parola e della volontà di Dio. E questo è anzitutto

la postura della Chiesa nei confronti del suo Signore. Si deve qui ricordare

che al Concilio Vaticano II

si prese la decisione di

intronizzare l’evangelo

all’inizio di ogni seduta

affinché apparisse che il

Cristo stesso presiedeva il

Concilio e che l’intero

Concilio si poneva sotto

l’autorità della parola di Dio e che questa era la postura della Chiesa nel

suo insieme. Il Proemio della Dei Verbum dice, con parole che allora

risuonavano di una novità rivoluzionaria: «Dei Verbum religiose audiens

et fidenter proclamans, Sacrosancta Synodus verbis S. Joannis obsequitur

dicentis…» («In religioso ascolto della parola di Dio e procla-mandola con

ferma fiducia, il sacro Concilio aderisce alle parole di s. Giovanni il quale

dice…»). Il Proemio presenta il Concilio che parla di se stesso, che svela la

sua autocoscienza e si pone come esempio per quel «popolo degli

ascoltanti della parola» (Karl Rahner) che sono chiamati a essere i

cristiani. La centralità – così biblica – dell’audire, dell’ascolto, che

caratterizza la postura del Concilio e dunque della Chiesa, è decisamente

Celebrazione Eucaristica con S.E. Mons. Stefano Russo

34

innovativa. Lì si afferma che la Chiesa esiste in quanto serva della Parola

di Dio, sotto la parola di Dio, nel doppio movimento di ascolto e annuncio

della parola di Dio: «è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in

questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola»

(Joseph Ratzinger). Per essere Ecclesia docens, la Chiesa deve essere Ecclesia

audiens. E la citazione del prologo della Prima Lettera di Giovanni (1Gv

1,2-3) annuncia il tema centrale e la parola chiave della DV e dell’intero

Concilio: comunione. Comunione che scaturisce dalla comunicazione che

Dio, il Dio trinitario (DV 2), cioè il Dio che è comunione nel suo stesso

essere, fa della sua vita agli uomini e che si manifesta pienamente in

Cristo. Questa comunicazione non è dottrinale, ma vitale, avviene nella

storia, ha come forma e centro il Cristo, come destinatario il mondo intero

e come fine la salvezza dell’uomo. E tale comunicazione è accolta

mediante l’ascolto, che è luogo di conversione del cuore, di

trasformazione della persona umana e di relazione con Dio e con gli

uomini. L’ascolto sempre rinnovato della Parola di Dio nelle varie epoche

e luoghi, nelle diverse contingenze storiche ed ecclesiali, nelle diverse

stagioni teologiche, è ciò che anima e rende vivo il cammino della

tradizione nella storia impedendo alla tradizione stessa di fossilizzarsi. Il

Proemio ha una struttura teologica significativa in quanto si apre e si

chiude sulla dimensione kerygmatica, e solo all’interno di essa viene

situata la dimensione dottrinale. Ciò che è essenziale è ciò che la Chiesa

ascolta e annuncia (dimensione kerygmatica): la dottrina non esiste scissa

dal kerygma della Chiesa. L’ascolto, attitudine decisiva per la Chiesa, è

all’inizio e alla fine del proemio, chiudendolo come in uno scrigno

35

(audiens … audiendo). Il card. Kasper, commentando questo testo di DV

ha scritto: «Non può esservi migliore espressione per dire il primato della

parola di Dio su tutte le parole e azioni del popolo di Dio».

4. Il presbitero, uomo di comunione perché uomo di ascolto

Se la Chiesa, l’ekklesía, nasce dall’ascolto della Parola di Dio che la

chiama (il verbo kaléo «chiamare» è presente nella radice del vocabolo ek-

klesía) a uscire (ek-) e ad andare verso l’umanità, il presbitero, dice papa

Francesco «è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una

comunità concreta di cui condivide il cammino. Il popolo fedele di Dio

rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa

a cui è inviato. Ogni vocazione è sempre ricevuta all’interno della Chiesa e

rende appartenenti alla Chiesa, anche quando questa vocazione chiamasse

a una marginalità nei confronti della Chiesa stessa come appare nella

vocazione monastica. Nella Vita di Antonio, il padre dei monaci, Atanasio

racconta la sua vocazione: un giovane Antonio entra in una chiesa in cui si

sta leggendo Matteo 19, là dove si dice «se vuoi essere perfetto, va’, vendi

quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).

Antonio ascolta quella parola, che significativamente è proclamata nella

liturgia, nella Chiesa, a significare che la vocazione è sempre debitrice

della Chiesa, luogo sacramentale dove avviene la trasmissione della

parola di Dio, e la sente rivolta a sé, in modo personalissimo. Antonio

prende sul serio quella parola ricevuta nel grembo della Chiesa ed inizia

una vita di radicalità cristiana mettendo in pratica ciò che aveva ascoltato

nel Vangelo. E che lo condurrà a vivere la sua fedeltà alla Chiesa nella

36

marginalità del deserto e della vita anacoretica. Il presbitero è uomo di

comunione a misura che si lascia plasmare dall’ascolto e dalla

realizzazione della Parola di Dio. Egli è affidato alla Parola di Dio, come

dice Paolo in At 20,32: non la Parola è affidata a lui in una visione

funzionalistica del ministero, ma il presbitero è lui stesso affidato alla

Parola che ha il potere di custodirlo nella comunione con il Signore, di

dargli forza preservandolo dalla divisione interiore che affatica e

scoraggia. Essere affidati a questa Parola significa da parte dei presbiteri

accettare che essa eserciti la sua signoria su di loro, che le loro vite

facciano perno su di essa. Ora, i presbiteri sono affidati alla Parola

attraverso l’ascolto assiduo della Parola e attraverso la messa in pratica

della Parola stessa. Dovere primario del presbitero è quello di accogliere,

custodire e realizzare la Parola: solo così sarà abilitato a comunicarla a

coloro ai quali è inviato dal Signore e potrà realizzare l’impegno e il

servizio a cui è consacrato. La Parola egli la comprende non in maniera

individualistica o intellettuale, ma collocandosi vitalmente nel grembo

generante di una concreta comunità cristiana. Scrive Gregorio Magno a

proposito del suo leggere la Scrittura per gli altri e con gli altri: «Molte

cose nella Santa Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho

capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratribus meis positus

intellexi) … Mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per

mezzo loro … Grazie a voi imparo ciò che a voi insegno; infatti, con voi

ascolto ciò che a voi dico (cf. Omelie su Ezechiele, II,2,1). L’ascolto della

Parola deve diventare sua realizzazione obbediente. Gesù ha delineato il

processo della Parola che, seminata in abbondanza, può non venire

37

accolta da quegli ascoltatori da lui identificati nel terreno calpestato,

sassoso, spinoso (cf. Mc 4,1-20). Quella parabola dice che l’ascolto consta

dei momenti della interiorizzazione, della perseveranza e della lotta

spirituale: altrimenti il seme della Parola non porta frutto. Ascoltare è un

lavoro, un’ascesi. Il presbitero come uomo di comunione viene plasmato

lì, quotidianamente. La Parola viene ascoltata nella misura in cui viene

realizzata: se non c’è realizzazione, non c’è nemmeno ascolto. Se non c’è

ascolto, non c’è trasformazione, cambiamento, conversione. Il primato

dell’ascolto nella Scrittura sugli altri sensi è legato, per la Bibbia, al fatto

che esso è il senso della conversione: »Ascoltate, e la vostra vita rinascerà«

(Is 55,3). Un ascolto scisso dall’obbedienza, dalla pratica, crea personalità

spiritualmente scisse. E questo è un rischio purtroppo frequente, anche tra

presbiteri e religiosi. C’è il rischio di una schizofrenia tra il dire e il fare,

tra l’annunciare e il realizzare nella propria vita. È impossibile che non ci

sia uno scarto, perché noi uomini non siamo mai capaci di realizzare

pienamente il vangelo e non cadere in peccato, ma occorre da parte nostra

una tensione affinché quello che annunciamo risuoni sempre come

giudizio per noi stessi: se ciò non avviene, la schizofrenia che viviamo

diventa progressivamente una patologia con cui ci abituiamo a convivere,

e le conseguenze inevitabili sono forme patologiche e di doppiezza nella

vita spirituale e nel comportamento. Gesù ha avuto parole severe contro

quelli che «seduti in cattedra … dicono e non fanno«(cf. Mt 23,3). Ma il

magistero quotidiano della Parola rende il presbitero uomo capace di

creare comunione tra le persone a cui è inviato facendosi ministro di

ascolto. È lì che si verifica il movimento virtuoso di cui parla papa

38

Francesco per cui il presbitero si lascia evangelizzare dal Pastore buono,

dalla Parola del Signore, ma anche dal «popolo fedele», «dalla fede

semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive».

Ma questo implica che per «costruire comunità» il presbitero diventi un

asceta dell’ascolto dei fratelli e delle sorelle in umanità. E lì si verifica −

come già detto − che il

presbitero è convertito non

solo dall’ascolto della Parola

di Dio ma anche dall’ascolto

del popolo. Ha detto papa

Francesco nel novembre del

2015 ai presbiteri: «Sapere e

ricordare di essere “costituiti

per il popolo” − popolo santo, popolo di Dio −, aiuta i preti a non pensare

a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non duri, gioiosi ma

non superficiali, insomma, pastori, non funzionari [...] Io vi dico

sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura. Ai preti rigidi …

Lontano! Ti mordono! [...] Il ministro senza il Signore diviene rigido e

questo è un pericolo per il popolo di Dio».

5. La comunione presbiterale

Un intero paragrafo è dedicato da papa Francesco al presbiterio. Ma

credo che ciò che dirò e che riguarda in prima battuta esattamente il

presbiterio si possa applicare anche alla costruzione di comunione

all’interno della comunità con laici e con l’insieme del popolo di Dio.

39

Resistenze alla fraternità presbiterale

«I sacerdoti sono uniti in una fraternità sacramentale, pertanto la prima

forma di evangelizzazione è la testimonianza di fraternità e di comunione

tra loro e con il Vescovo». Così papa Francesco nel discorso del 3 ottobre

2014 alla plenaria della Congregazione per il clero. Se il vescovo e il

presbitero sono servi della comunione ecclesiale, essi non possono

certamente esserli chiudendosi in un dorato isolamento o in atteggiamenti

ieratici o cedendo alla mondanità dell’individualismo imperante. Essi

sono chiamati a vivere la comunione anzitutto tra di loro, tra di loro

presbiteri, e tra presbiteri e vescovo, pena, la smentita del loro ministero,

la loro non-credibilità. La loro concreta comunione, il loro amore

reciproco è la loro prima testimonianza e forma di evangelizzazione.

Prima di ogni preoccupazione pastorale, di ogni attività organizzativa,

anche di ogni celebrazione cultuale, il ministero presbiterale si

caratterizza per questa comunione. Secondo il vangelo di Marco, Gesù,

dopo aver stabilito i Dodici «perché stessero con lui e per inviarli a

predicare» (Mc 3,14), li inviò «a due a due» (Mc 6,7; cf. anche Lc 10,1).

Perché la prima e fondamentale testimonianza a Cristo e al vangelo passa

attraverso la concreta carità vissuta reciprocamente. «Da questo tutti

conosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli

altri». Certo, questa comunione incontra in realtà numerose resistenze nel

vissuto personale dei presbiteri. Perché?

40

Il prevalere del ruolo

Anzitutto, c’è il rischio del prevalere del ruolo: un rischio è divenire

funzionari, magari efficienti, iperattivi (e il peso delle cose da fare è a volte

davvero eccessivo), dimen-

ticando la cosa più importante,

ovvero, la costruzione della

propria umanità, l’attenzione

alle virtù umane, alla relazione

con gli altri. In verità, tendere

concretamente a vivere il

proprio presbiterato insieme,

con gli altri presbiteri, ovvero,

nel corpo presbiterale di una

diocesi, è molto più

impegnativo e faticoso che fare

le cose da soli, senza gli altri, realizzando di fatto la figura di un piccolo

manager piuttosto che di un servo della comunione, e configurando la

comunità ecclesiale come macchina o azienda piuttosto che come corpo.

Ma questo è cedere alla tentazione dell’individualismo dominante. È fare

come fanno tutti. Le parole di Gesù ai Dodici nell’ultima cena secondo il

vangelo di Luca portano un’indicazione molto importante che regola il

ministero apostolico nei confronti della mondanità: «Voi però non così»

(Vos autem non sic: Lc 22,26). L’avversativa dice che c’è una lotta da fare.

41

La fatica di amare chi non si è scelto

L’attenzione alla comunione presbiterale implica un’attenzione agli altri

e un lavoro su di sé. Perché prima che presbiteri siete uomini chiamati ad

amare. E amare è un lavoro, una fatica esigente. Per giungere a relazioni

improntate a rispetto e amore, o almeno a fraternità e carità nel presbiterio,

occorre esercitarsi all’arte di amare chi non si è scelto. Se nel matrimonio i

partner si scelgono in base all’attrazione e all’amore, ai sentimenti, nel

presbiterio si è chiamati a cercare di amare chi ci è dato come co-

presbitero. Si tratta di andare al di là di simpatie e antipatie per mettere in

atto l’amore intelligente secondo il vangelo. Un amore nell’obbedienza.

Un amore che è obbedienza. Un amore che è effettivo ancor prima che

affettivo e si nutre di disponibilità alla collaborazione e anche di

attenzione all’altro, ai suoi momenti di difficoltà, alle sue solitudini.

La resistenza al cambiamento e alla conversione

Se quanto detto è vero, la resistenza alla comunione, che diviene poi

difficoltà a un lavoro insieme, alla sinodalità, è resistenza a quel concreto

cambiamento di sé in cui consiste la conversione. Chiediamo agli altri la

conversione con la predicazione, ma noi siamo disposti a cambiare?

Accettiamo il lavoro trasformativo su di noi che viene grazie alla relazione

attiva e concreta con gli altri, i membri della concreta comunità cristiana, e

anzitutto con gli altri presbiteri? Tertulliano scriveva che unus christianus,

nullus christianus, ovvero, che il cristiano esiste sempre in un corpo, in un

insieme, in una relazione, non da solo, quanto più questo vale per il

presbitero che è a servizio della comunione del corpo ecclesiale. Quel

42

corpo che è anzitutto il presbiterio, nella comunione tra presbiteri tra di

loro e tra presbiteri e vescovo.

Chiamati alla sinodalità

Papa Francesco afferma che «il nostro primo compito è quello di

costruire comunità». Il ministero ricevuto pone il presbitero a servizio

della comunione della comunità cristiana. Egli, dice il Concilio Vaticano II

«è stato consacrato per predicare il vangelo, pascere i fedeli e celebrare il

culto divino» (LG 28). Questo compito egli lo svolge nella coscienza di

essere in mezzo a un popolo di consacrati, cioè di uomini e donne «unti»

(il NT usa il verbo chríein), «santificati» (il NT usa il verbo haghiàzein)

mediante il battesimo, un popolo di «messianici», potremmo dire, perché

discepoli di Gesù il Messia. Il compito del vescovo e del presbitero è

quello di porsi a servizio del camminare insieme della comunità nella

comunione e nella diversità dei carismi. Ora, fin dall’epoca

neotestamentaria la sinodalità è la pratica ecclesiale della comunione. È la

via e la maniera di costruire la comunità e di edificarla nella comunione.

La logica di partecipazione a cui fa riferimento papa Francesco nel

discorso alla CEI trova il suo nome proprio nella sinodalità.

Se il cristianesimo viene chiamato «la via» (hodòs: At 9,2; 18,25-26; ecc.),

la modalità di viverlo è il sýn-odos, «il cammino fatto insieme». Nella

Chiesa, che è corpo del Signore nella storia, un’unica linfa vitale scorre

nelle varie membra sicché costitutivo della pratica ecclesiale è il fare le

cose insieme (sýn) e nella reciprocità, gli uni per gli altri (allélon).

43

Anzitutto, insieme: Paolo parla di collaborare (Fil 1,27; 4,3), di con-soffrire

(1Cor 12,26), di con-gioire (Fil 2,17), di con-riposare (Rm 15,32), di con-

vivere (2Cor 7,3), ecc. Paolo crea neologismi in greco per accentuare

questa dimensione comunionale che deve divenire pratica quotidiana

nella vita ecclesiale. Poi Paolo parla di reciprocità: si tratta di pregare gli

uni per gli altri (Gc 5,16), di perdonarsi gli uni gli altri (Ef 4,32), di

correggersi gli uni gli altri (Rm 15,14), di consolarsi a vicenda (1Ts 4,18;

5,11), di sopportarsi gli uni gli altri (Col 3,13), di accogliersi gli uni gli altri

(Rm 15,7), in una parola, di amarsi gli uni gli altri (cf. Gv 13,34). È invece

una contro-testimonianza quando nella Chiesa si vedono gruppi,

associazioni e movimenti che fanno le cose all’insaputa gli uni degli altri,

o in contrapposizione reciproca, gli uni senza gli altri. Nel discorso di

Paolo in 1Cor 12 sulla Chiesa come corpo formato di molte e diverse

membra, l’apostolo afferma che come nel corpo nessun membro può dire

all’altro «io non ho bisogno di te» (1Cor 12,21), così nella Chiesa nessuna

componente ecclesiale può fare le cose senza o contro le altre né al di

sopra o all’insaputa delle altre. La Chiesa è il luogo della povertà

condivisa: la comunione nasce non dall’accumulo delle forze e

competenze dell’uno e dell’altro, ma dalla condivisione delle povertà di

ciascuno. Questa la «condivisione virtuosa» di cui parla papa Francesco

nel nostro testo.

Il NT presenta la prassi sinodale all’opera in alcuni momenti decisivi

della vita ecclesiale e non la presenta mai nella forma di una democrazia

diretta, ma nell’articolazione tra «tutti», «alcuni» e «uno solo». Gesù,

durante la sua vita, fra tutti i discepoli ne ha scelti alcuni (i Dodici) e tra

44

questi ha distinto Pietro (uno solo). Al momento di completare il collegio

dei Dodici (alcuni) menomato per la defezione di Giuda, Pietro (uno solo)

si rivolge all’assemblea plenaria dei fratelli (tutti) che propone due nomi.

Dopo aver pregato, viene tirata la sorte e scelto Mattia (At 1,15-26). Questa

logica partecipativa è all’opera anche al momento di risolvere una

tensione sorta fra cristiani di origine palestinese e cristiani ellenisti circa il

sostentamento da assicurare alle rispettive vedove: non si agisce di

autorità, ma i Dodici formulano una proposta che, approvata da tutta

l’assemblea, porta alla decisione (At 6,1-7). Il cosiddetto Concilio di

Gerusalemme (At 15), in realtà un incontro in cui si è pervenuti a un

accordo tra Chiese che erano in contrasto su un punto preciso,

l’obbligatorietà o meno della circoncisione e dell’osservanza della Legge

mosaica da parte dei cristiani provenienti dal mondo pagano, mostra bene

lo stile sinodale presentando interventi di autorità delle chiese, riunioni

ristrette e infine riunioni assembleari, in plenaria, diremmo noi.

Ora, il principio sinodale, ovvero la strutturazione a piramide

rovesciata «tutti-alcuni-uno», si accompagna al principio di strutturazione

della comunione per cui vi è un primato. Nella Chiesa non si dà sinodalità

senza primato, né primato senza sinodalità. E la comunità ecclesiale vede i

presbiteri costituire insieme al loro vescovo un unico presbiterio. Se il

vescovo è chiamato ad assumere e ad esercitare una concreta paternità nei

confronti dei suoi preti, rendendosi disponibile ad incontrarli,

interessandosi della loro vita, della loro salute, delle condizioni in cui

vivono, così i preti sono chiamati ad entrare con il loro vescovo in un

rapporto leale, onesto, schietto, rispettoso, collaborativo. Un rapporto non

45

di adulazione, ma di rispetto, non di ribellione e di maldicenza, ma di

parresía. Io non intendo soffermarmi sui fondamenti teologici della

comunione tra presbiteri e tra presbiteri e vescovo, sulla necessità che il

presbiterio, come dice Ignazio di Antiochia, sia «armonicamente unito al

vescovo come le corde sono unite alla cetra» (Agli Efesini 4,1), ma voglio

solo ricordare alcuni atteggiamenti esistenziali e spirituali che possono

rendere possibile nel concreto la comunione presbiterale, tra preti e

vescovo e tra preti e laici. Atteggiamenti da porre in atto certamente nelle

riunioni, nelle assemblee, nelle giornate di aggiornamento e nei vari

consigli, per esempio nel consiglio presbiterale, dunque nelle istituzioni

sinodali, nei consigli pastorali, ma che, più in generale, devono reggere la

relazione quotidiana tra presbiteri, tra presbiteri e vescovo, tra presbiteri e

comunità.

6. La prassi della sinodalità e della collaborazione nel presbiterio

Anzitutto è importante che il vescovo vigili perché ci sia una buona

informazione di tutti i presbiteri circa la vita diocesana. Una dimensione

della sinodalità è l’informazione. L’informazione tende all’edificazione del

corpo ecclesiale. È importante che i presbiteri conoscano con chiarezza le

linee di governo del vescovo, conoscano motivazioni e finalità dell’agire

pastorale che viene loro richiesto, altrimenti, presto o tardi, ci si troverà di

fronte a un rifiuto inconscio o anche aperto della decisione. Ci si troverà di

fronte a una demotivazione, a un divorzio se non dal ministero, almeno

dalla volontà di impegnarsi.

46

Da parte dei presbiteri occorre la volontà di essere presenti alle

occasioni di incontro e di fraternità e di non cedere troppo facilmente alla

tentazione di dire «non servono a nulla», «sono inutili», «tanto non

cambia mai niente».

Occorre accettare di

essere scomodati. E

combattere la pigrizia, il

cinismo e la sfiducia.

Perché la fraternità

divenga responsabilità e

corresponsabilità tra

presbiteri e tra presbiteri e vescovo occorre mettere in atto diversi

atteggiamenti relazionali che comportano un impegnativo lavoro su di sé

e la disponibilità a sempre ricominciare. E ciò che ora elenco è però

essenziale non solo nei rapporti interni al presbiterio, ma in genere nella

conduzione della comunità cristiana, nella collaborazione con i laici, nella

condivisione di responsabilità con i membri della concreta comunità.

Serietà. Si tratta di prendere sul serio ciò che si fa: il proprio e l’altrui

ministero, la propria vita di fede e di preghiera, le relazioni con gli altri, ...

In particolare, si tratta di prendere sul serio le occasioni sinodali e i

momenti assembleari disponendosi a una partecipazione convinta e attiva.

Rispetto. Mi riferisco al rispetto dei preti tra di loro e del prete verso il

vescovo e viceversa. Ma è anche rispetto delle opinioni diverse dalla

propria, rispetto delle differenze, delle debolezze dell’altro. Rispetto è

47

anche capacità di vedere (re-spicere) i propri limiti, le proprie debolezze,

per non travalicare, per non peccare di hybris, per non cadere

nell’arroganza, nella prepotenza, nel disprezzo.

Fiducia. Un vescovo è il primo responsabile della creazione di un

clima di fiducia reciproca nel presbiterio. La sua disponibilità all’ascolto e

all’incontro dei suoi preti, il suo prendersi cura delle situazioni che gli

vengono presentate, nella coscienza che la sollecitudine per i presbiteri è il

suo primo compito, il suo essere «di parola», il suo ricordarsi delle

situazioni di ciascuno, tutto questo favorisce un clima di fiducia e fa

sentire come affidabile il vescovo stesso. Ovvio che questa apertura di

fiducia deve vigere anche nei presbiteri e tra di loro. Senza fiducia non vi

è alcuna possibilità di comunione e di fraternità. Non si abbia paura di far

fiducia!

Lealtà. Sulla fiducia si costruisce la lealtà, che è legame di alleanza con

gli altri, accordo per costruire insieme e camminare insieme. La lealtà è

impegno della volontà che si orienta verso un fine comune, un obiettivo

non individualistico, ma comune.

Sincerità. La sincerità accompagna la lealtà e impedisce di nascondere,

celare, mentire, dire verità parziali. Uno dei significati etimologici del

termine «sincerità» rinvia a «senza cera», in riferimento agli scultori che

non facevano ricorso alla cera per mascherare i difetti delle loro opere.

L’idea sarebbe quella di «genuino», «autentico», «senza finzione».

Sincerità rinvia anche a quella parresía che è libertà di parola e che deve

contraddistinguere ogni riunione sinodale e ogni rapporto intraecclesiale

48

autentico. Sincerità si deve accompagnare a chiarezza di comunicazione,

perché caritas è anche claritas.

Responsabilità. La responsabilità mi situa in rapporto vitale con Dio e

con gli altri e mi spinge a rispondere di me, di ciò che faccio, del ministero

che ho ricevuto, della mia vita di fronte al Signore, di fronte alla mia

coscienza, di fronte alla comunità. E anche, per il presbitero, di fronte al

vescovo e di fronte alla comunità. Della responsabilità fa parte costitutiva,

anche etimologicamente, la parola, la risposta. Una piena responsabilità

non può essere muta o non comunicativa.

Discrezione. Va infine ricordata la necessaria, anzi vitale, discrezione.

Discrezione da parte del vescovo che si trova a conoscere dettagli di

situazioni ecclesiali e personali di presbiteri che richiedono di non essere

divulgati, discrezione da parte di ogni presbitero per non cadere in quella

tentazione così spesso stigmatizzata da papa Francesco della chiacchiera,

della mormorazione, del parlar male degli altri, del vescovo o di altri

presbiteri.

6. Luoghi di costruzione dell’umanità del presbitero e della comunione

nella comunità

Individuo ora tre ambiti, tre punti cruciali su cui si costruiscono la nella

Chiesa: l’ascolto, la parola, l’affettività. Le tre cose rientrano in

quell’attenzione di cui parla papa Francesco affermando che «l’attitudine

alla relazione» è elemento a cui si deve prestare grande attenzione nel

discernimento vocazionale.

49

6.1 L’ascolto

L’ascolto è un atto intenzionale. A differenza del sentire che è meccanico,

l’ascolto esige una decisione, una volontà. Esso richiede concentrazione,

rientrare in sé, rispettare ciò che si ascolta senza manipolare, senza

forzare, senza interpretare arbitrariamente. L’ascolto tende a far emergere

ciò che l’altro dice e sente per far emergere chi l’altro è. Ascoltare è

impegno di tutta la persona, è un essere presenti all’altro senza riserve,

senza distrazioni, con piena attenzione, con coinvolgimento. Un ascolto

distaccato, asettico, non coinvolto, fallisce l’incontro a cui l’ascolto vuole

condurre. L’ascolto è atto che tende all’accoglienza dentro di sé dell’altro

(cum-prehendere). La fraternità presbiterale e l’amore pastorale nascono

dalla volontà di ascolto. Lì, inizia la condivisione di cui parla papa

Francesco.

L’ascolto non ascolta solamente le parole e le frasi ma anche il corpo. Anche il

corpo parla, anzi normalmente il corpo non mente a differenza delle

parole che mascherano o mentono apertamente. Ascoltare è anche

osservare, fare attenzione, cogliere i tic verbali e i movimenti del corpo

che si accompagnano alle parole dette, notare i riflessi emotivi che

sottolineano certi passaggi del parlare dell’altro. Nella comunicazione

umana sappiamo che i gesti, il tono della voce, i lineamenti del volto, le

posture del corpo, gli sguardi, comunicano molto di più del contenuto

delle parole. Ascoltare l’atteggiamento del confratello presbitero che vedo

preoccupato, teso, e che, forse, attende solo qualcuno che gli offra la

possibilità di dire ciò che lo sta facendo soffrire. Certi abbandoni della vita

presbiterale forse si sarebbero potuti evitare se il prete avesse avuto

50

l’occasione (certo, anche il coraggio) di dire ciò gli gravava sul cuore, la

crisi che stava vivendo. L’ascolto suppone che si rompa con i pregiudizi

sull’altro. Precomprensioni, etichette e pregiudizi sono un impedimento

all’ascolto. Ascoltare significa operare una purificazione delle idee che

avevamo sull’altro. Occorre essere aperti alle smentite e alla novità

quando ci si dispone all’ascolto. Il rischio è quello di proiettare sull’altro le

cose che sappiamo di lui o quelle che crediamo di sapere. L’altro non è

una categoria, ma una

persona, un volto, una

unicità irripetibile. E questo

io lo riconosco solo con

l’ascolto.

Ascoltare significa dare

tempo all’altro. La fretta è

nemica di un buon ascolto.

Occorre rimettersi ai tempi

dell’altro, non forzargli la

mano, ma acconsentire ai

suoi tempi perché arrivi a dire ciò che vuole dire. Ascoltare è dire di sì

all’altro e apprestargli uno spazio di rinascita. L’ascolto crea fiducia, che è

la matrice della vita. Ma su questo dare tempo ci siamo già soffermati.

Ascoltare è ospitare. L’ascolto è atto di ospitalità verso l’altro. Occorre

pertanto sgombrare il proprio io da pensieri, distrazioni, rumori,

immagini che riempono e non lasciano spazio all’altro di trovare dimora.

Se il nostro cuore trabocca di preoccupazioni, sofferenze, pensieri

51

autocentrati, non si rende libero per ascoltare e chiude all’altro la porta e

la possibilità di entrare in sé. L’ospitalità dell’ascolto si deve

accompagnare al pudore e alla discrezione. L’altro ci fa fiducia

consegnandoci timori, problemi, paure, parole delicate, angosce,

situazioni inerenti la sfera sessuale o morale: questo esige pudore, non

intrusività, non curiosità fuori luogo o morbosa, perché allora l’ascolto

diventerebbe violenza e abuso, pretesa e prevaricazione.

Ascoltare implica anche il fare silenzio. Non solo il tacere, ma il fare

silenzio, il fare del silenzio un’attività interiore. Il silenzio interiore è

silenzio delle conversazioni interiori, dei litigi interiori, delle voci e dei

rumori, delle immagini che ci attraversano e ci disturbano. L’ascolto esige

l’ascesi mentale, il dominio della facoltà dell’immaginazione. Solo così ciò

che l’altro ci dice e ci comunica ci può raggiungere in modo limpido.

Ascoltare è discernere. L’ascolto opera una cernita, un discernimento, una

scelta tra gli elementi che compongono il messaggio dell’altro. L’ascolto è

atto intelligente, selettivo: legge dentro, fra, negli interstizi del detto e del

non-detto, tra parole e gesti, nota le parole chiave e rivelatrici dell’altro.

Tante parole dette non sono essenziali al fine della conoscenza dell’altro,

ma spesso per comunicare qualcosa di importante si avvolge il messaggio

con parole che costituiscono un cuscinetto protettivo che attutisce il colpo

della rivelazione che sta a cuore. Ascoltare implica anche il vedere e

nominare le paure che possiamo avere nell’ascolto. Le resistenze

all’ascolto: ho il fastidio di chi è noioso, di chi è lento, di chi per dire una

cosa che ho già capito quale sarà, percorre un giro interminabile per

arrivarci, ho il terrore delle persone confuse e poco capaci di esprimersi

52

con chiarezza. L’ascolto diviene così anche svelamento delle nostre

miserie, delle nostre debolezze, delle nostre fragilità. Comprendiamo così

che l’ascolto dell’altro è anche, inscindibilmente, ascolto di sé. E, tra i

frutti che porta, non c’è solo la conoscenza dell’altro, ma anche di se stessi.

E, dunque, la conoscenza del Signore che è in noi, come è nel fratello.

Dunque, un presbiterio diviene realmente tale quando si crea in esso un

clima di ascolto reciproco.

6.2. La parola

La comunione è costruita (o distrutta) anzitutto dalle parole. La maggior

parte dei testi biblici riguardanti il prossimo verte sul parlare: «Dite

ciascuno la verità al proprio prossimo» (Ef 4,25); «Non pronunciare falsa

testimonianza contro il tuo prossimo» (Es 20,16; Pr 25,18); «Colui che

adula il prossimo gli tende una rete» (Pr 29,5); «Con la bocca l’empio

rovina il suo prossimo» (Pr 11,9), ecc. La costruzione della comunione

esige un’etica della parola, una responsabilità della parola. In particolare,

nello spazio della sinodalità, nella vita di un presbiterio e nella vita di una

comunità cristiana, occorre assumere la discussione come metodo

spirituale. La ricerca che si fa attraverso dibattito e discussione, magari

anche accesa, in cui si scontrano opinioni diverse, è la forma spirituale,

cioè mossa dallo Spirito Santo, di ricerca di forme e modalità comunionali.

Altre forme che potrebbero sembrare più spirituali, sono solo devozionali

o magiche. Tommaso d’Aquino si oppone a coloro che aprivano a caso la

Bibbia per risolvere le controversie riconoscendo che una simile pratica è

un’offesa allo Spirito Santo, mentre i cristiani hanno come metodo quello

53

di dibattere e discutere in assemblea: «Invece di cercare l’accordo con gli

altri si fa ingiuria allo Spirito Santo che noi crediamo fermamente essere

presente nella chiesa e nelle assemblee» (Quodlibet XII,36). Né si deve

aver paura della diversità di opinione, di esprimere un parere difforme da

ciò che altri o la maggioranza hanno espresso. «La vera concordia è

intrecciata con la diversità, è intessuta con essa», dice Nicola da Cusa nel

suo De concordantia catholica (CC II,32,233).

Negli incontri come nelle relazioni quotidiane è bene che non ci siano

toni categorici, scatti d’ira, mancanze di rispetto, insulti o ingiurie. La

parola è lo strumento elaborato dagli umani per creare spazi alternativi

alla violenza. Per evitare la violenza occorre che la parola lasci sempre

spazio all’altro. La sinodalità è dunque il metodo di ricerca insieme della

verità e di costruzione comune di un senso attraverso il dialogo, lo

scambio della parola. Metodo che accorda importanza essenziale

all’interlocutore come soggetto e non lo considera mero terminale della

propria parola e della propria volontà (questo sarebbe ricadere nella

violenza). Se è vero che, nello spazio cristiano, ogni istituzione sinodale è

preceduta e nasce dall’evento fondante della comunione, così ogni

istituzione, ogni riunione sinodale deve condurre alla comunione, creare

comunione, avere la comunione come obiettivo ultimo. Comunione che si

edifica per la via faticosa del comune ascolto, della comune discussione,

della comune consultazione, della comune deliberazione.

54

Il processo sinodale può essere sintetizzato in queste quattro tappe:

1) ascolto reciproco

2) dibattito, discussione e confronto di posizioni

3) discernimento

4) decisione

In tutto questo non deve essere temuto nemmeno il conflitto. Il sinodo

sulla famiglia ha portato allo scoperto posizioni non solo diverse, ma

anche opposte e inconciliabili: solo dando voce al conflitto, esso può

essere affrontato e elaborato. Il conflitto è rivelativo di ciò che

normalmente resta celato e nascosto. Del resto, la dimensione conflittuale

è presente nella vita delle chiese fin dai più antichi tempi neotestamentari,

ne fa parte. Noi siamo in un contesto culturale che ha relegato spesso il

conflitto nello spazio del negativo, quando invece il conflitto è parte della

vita, e non è scandaloso che abiti anche il vivere ecclesiale e comunitario.

Una realtà senza conflitti non è solo una realtà senza passioni e senza

convinzioni, ma più in profondità, è una realtà senza vita.

Nella Chiesa abbiamo bisogno di un’ascesi della parola, per giungere a

una disciplina della comunicazione. Non si dimentichi mai che ogni

parola è un gesto, che può fare del bene o del male. E ogni parola ha una

valenza etica: essa esige il rispetto di colui a cui parlo, di me che parlo (il

menzognero offende la propria dignità di persona) e della parola stessa

che non sopporta di essere manipolata, travisata, violentata. E si stia

attenti alle parole che giudicano, che etichettano, che deridono il

confratello, si stia attenti al gossip ecclesiastico. Strumento decisivo di una

comunione autentica e non solo di facciata nella Chiesa è la correzione

55

fraterna. Nella comunità cristiana la correzione del fratello, del presbitero,

che cade nell’errore è una responsabilità connessa all’essere tutti membra

dello stesso corpo. «Io sono custode di mio fratello», dice colui che assume

la responsabilità della correzione fraterna e così si sottrae al rischio di

divenire, come Caino, l’uccisore del fratello (cf. Gen 4,9). La correzione, la

parresía, su cui tanto insiste papa Francesco, il coraggio della parola che

svela il male al fratello per curarlo, è un atto di autentica fraternità, di

amore. Sì, l’amore autenticamente spirituale è capace di correggere e

ammonire l’amato. Il rischio è infatti di tacere il peccato per amore del

peccatore, divenendone così complici.

6.3. L’affettività

Esiste la possibilità di un celibato presbiterale sterile e infecondo. E di

una vita umana del presbitero che può immiserirsi, divenire meschina.

Vivere rapporti di autentica comunione richiede un’umanità salda e sana.

Anche per un presbitero che vive il celibato è importante e vitale la

dimensione dell’amore. Anch’egli deve porsi la domanda, soprattutto, nel

passare degli anni: Chi mi ama? Chi io amo? Questo non pone in

discussione la condizione del celibato sacerdotale, ma interroga la

modalità di vivere l’affettività di ogni presbitero. Maturità affettiva

implica la rottura del cordone ombelicale e l’uscita da una maniera

infantile e adolescenziale di vivere gli affetti. Implica la responsabilità di

farsi educatore e di troncare con la tentazione di farsi seduttore. Implica il

vivere in maniera adulta e responsabile le relazioni con gli altri preti e con

le persone che collaborano in parrocchia. Implica la rinuncia alle relazioni

56

impulsive e il lavoro di integrare il celibato nella propria personalità.

Anche il presbitero non deve dimenticare che è anzitutto un uomo e un

cristiano. Dunque una persona chiamata a umanizzarsi e a coltivare e

nutrire la propria fede. Non si dimentichi mai che, nel cristianesimo, in

cui l’umanità di Gesù di Nazaret narra pienamente Dio, ciò che è

autenticamente umano è anche autenticamente spirituale, e ciò che è

autenticamente spirituale è anche autenticamente umano. Guai se

l’esercizio del ministero diviene paravento per nascondere identità deboli

e immaturità umane o affettive che purtroppo prima o poi si

manifesteranno creando sofferenze se non scandali. Una sana e equilibrata

cura di sé è essenziale per una vita umanamente buona. Molto più che da

difetti di teologia del ministero o da carenze e incertezze della spiritualità

presbiterale, molti problemi dei presbiteri oggi nascono dalla schizofrenia

tra ministero e umanità, nascono da un rapporto non armonico tra

ministero e vita umana, tra ministero e relazioni interpersonali. Da una

carenza di comunione interiore, da una frantumazione interiore, che si

manifesta come doppiezza, come instabilità, come incapacità di fedeltà. Se

il presbitero si situa sulla scia della missione di Gesù stesso, egli è

chiamato anche a seguire Gesù nella pratica della sua umanità, senza mai

dimenticare che lo straordinario di Gesù si situa sul piano umano, non su

quello religioso. Gesù ha rivelato Dio, ha mostrato il volto di Dio nella sua

umanità e nel modo in cui ha vissuto la sua umanità. Oggi che

l’autorevolezza di un presbitero non è più connessa a segni esteriori o a

un ruolo, essa emerge dalla sua qualità umana, dalla qualità delle

relazioni che vive, dalla profondità delle parole che pronuncia e della vita

57

interiore che nutre. È dunque vitale ripetere l’invito apostolico alla

vigilanza. Paolo dice ai presbiteri di Efeso: «Vegliate su voi stessi» (At

20,28). Analogo avvertimento è rivolto a Timoteo: «Vigila su te stesso»

(1Tm 4,16). Sì, vigilare su se stessi, sul proprio corpo, sul vestito, sul cibo,

sulla casa in cui si abita, sui beni della parrocchia, sul denaro, sul

ministero, sulle parole e sui silenzi, sulle relazioni e sui gesti che le

accompagnano. La vigilanza è richiesta a tutti, ma essa assume connotati

particolari in cui vive la condizione del celibato e deve dunque dotarsi di

una struttura dialogica interiore che si misura con la propria coscienza e

con le esigenze del vangelo. Essa è essenziale perché il presbitero diventi

uomo di relazioni mature, capace di comunione, che evangelizza già con il

suo essere, con la sua umanità e con la qualità delle sue relazioni.

LUCIANO MANICARDI, monaco di Bose

58

59

APPARTENERE AL REGNO:

IN UNA «COMPAGNIA» DA CONDIVIDERE

ANTONIO MASTANTUONO

Fedeltà e rischio, tempio e strada,

contemplazione e lotta

non sono termini contraddittori

ma modi diversi e ineludibili

di vivere il proprio mistero di risorti.

(T.Bello)

1. Da «custodi del santuario» a preti sulle strade dell’uomo

ella tradizione religiosa di tutti i popoli la vita di un uomo che cerca

Dio è semplice. Sa che fare, dove andare. Dio lo si incontra sulle

«alture», nei recinti sacri, nel culto, nei

libri sacri, separandosi dal mondo,

andando nel deserto, digiunando, nelle

lunghe penitenze, in pellegrinaggi di

espiazione, estraniandosi da tutto ciò

che è carne e sangue, concretezza della

vita, povere distrazioni in questa valle

di lacrime. L’»uomo di Dio» è il primo

a frequentare questi spazi, è il «tecnico» (per così dire) di questo percorso,

colui che dà direttive, spinge i peccatori a convertirsi e a pensare alla loro

anima. Nessuno può essere insieme «uomo di Dio» e «uomo del mondo».

N

60

C’è stato un tempo (lungo secoli) che, anche nella tradizione «vulgata»

dell’ebraismo e del cristianesimo, le cose andavano così. Sacerdoti, leviti,

preti, monaci, gente «separata», indicavano l’essenziale all’uomo del loro

tempo: fai spazio a Dio nella tua vita, almeno un giorno alla settimana,

almeno in alcune occasioni festose, sapendo che sei destinato a lasciare

questo mondo e che perdi tutto se perdi l’eternità beata di Dio.

Accanto a questa esistenza «religiosa», c’era ovviamente la vita

concreta, «profana», fatta di lavoro, di bisogni da soddisfare. Sapersi

districare tra questi due mondi rimaneva un’arte difficile. E l’uomo di

Dio aggiungeva: «Certamente nella vita mondana farai sbagli, offenderai

la legge divina, ma in questo caso una preghiera in più, una penitenza

supplementare, metterà le cose a posto. E se hai dei dubbi sulla strada da

percorrere, segui me – aggiungeva ancora – calca le mie orme».

Probabilmente si può così delineare il sottofondo mentale di tanti

credenti e praticanti nostrani. Forse anche di tanti preti e di quella figura

che alcuni chiamano il «cattolico medio», senza lasciarci capire per altro,

se quell’essere in mezzo, avvicini quel battezzato a una specie di anima-

sandwich o a un cattolico mediocre.

Oggi nutriamo seri dubbi se un simile «uomo di Dio» possa qualificarsi

come sacerdote cristiano. L’aggettivo «cristiano» fa la differenza, la

specificità, se è vero che il Dio di cui ci ha parlato Gesù di Nazaret è così

distante dalle tradizioni religiose dell’umanità. Proprio Gesù non ci ha

annunciato che Dio lo si incontra non separandoci dalla vita concreta ma

immergendoci in essa? Proprio da lui viene questo «cattivo» esempio: per

salvare l’uomo, non ha atteso che questi salisse fino in cielo separandosi

61

dalla terra, ma piuttosto lo ha inseguito facendosi terra, di terra, humilis,

carne e storia umana.

1.1. Intermezzo: la storia ci dice…

Una simile chiarezza sulla identità del seguace di Cristo e del vangelo

non ha sempre accompagnato il cammino della Chiesa. A volte si è

eclissata o imbarbarita dando luogo a due opposti atteggiamenti. Si è

andati dalla fede del tutto disincarnata a una intromissione tale nelle cose

del mondo da trasformare i ministri ordinati in tutt’altro che «uomini di

Dio», fino a fare della fonte una fonte blasfema di guadagno e,

soprattutto, di potere personale degli stessi uomini di chiesa.

Il Vaticano II ha preso posizione su questi «opposti estremismi». In

particolare la Gaudium et spes ha fatto entrare la storia e la concretezza

umana nella teologia, collocando però l’interesse per il mondo nella

prospettiva della salvezza di «tutto l’uomo», del riscatto, nella liberazione

da ogni idolo. Pace, guerra, acqua, petrolio, lavoro, giustizia, educazione,

salute, casa, tutela dei deboli, equità sociale, diritti umani, sono luoghi

teologici dove Dio ha una parola da dire indicando in che direzione

bisogna trovare la soluzione dei problemi, se si vuole procurare il bene

dell’uomo e non di pochi prepotenti privilegiati.

Da quel momento la vita di un prete comincia ad essere davvero

complicata. Non perché è chiamato a soccorrere i poveri (questo si è

sempre fatto) ma perché non è abituato a vedere concretamente la

sacralità della persona umana nella sua inscindibile unità, e meno che mai

a vedere che nulla è profano, nulla è estraneo a Dio se tocca l’uomo.

62

Dobbiamo aggiungere che il Vaticano II scalzò oltre un millennio di

storia ecclesiastica perché di cose di mondo, di realtà terrestri, per una

prevalente affermazione di potere del papato e dell’alto clero, in un’ottica

che di cristiano aveva solo la copertura, la chiesa si era occupata fin

troppo.

Leggiamo con un certo imbarazzo oggi il Dictatus papae di Gregorio VII,

le affermazione di Innocenzo III sul suo diritto a esercitare potere anche

temporale sui principi terreni, l’Unam sanctam di Bonifacio VIII, gli

anatemi e le audaci affermazioni apodittiche di Gregorio XVI. Papa Borgia

credeva di avere il diritto di stabilire come dividere il Nuovo mondo tra

Spagna e Portogallo. Ed ai tempi di Giulio II si poteva scrivere che «ormai

i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano,

abbandonando le chiese per gli affari. Ormai la guerra produce

addirittura sacerdoti, prelati, cardinali, ai quali il titolo di legato al campo

sembra onorifico e degno dei successori degli apostoli».

Certamente il ministro ordinato del secolo scorso, anche prima del

Vaticano II, aveva abbandonato da tempo quelle tristi contaminazioni, ma

lo stesso si trovò impreparato anche culturalmente ad accogliere le

prospettive conciliari. Sapeva di teologia e di liturgia, ma di economia, di

storia delle dottrine politiche che conosceva? Che cosa di politica

internazionale o di filosofia moderna? Che ne sapeva della sofferenza

delle persone vicine e di intere popolazioni lontane? E poi che poteva farci

lui?

63

2. Verso una spiritualità di incarnazione

Nonostante l’insegnamento magisteriale lo abbia indicato con

chiarezza, tarda a farsi strada una spiritualità di incarnazione. Se a livello

di linguaggio parliamo ormai di uomini e di donne, nella prassi pensiamo

che nostro compito sia quello di dedicarci alle «anime» e ci sembra

plausibile, per quanto riguarda i «corpi», fidarci di «galantuomini»

addetti ai lavori, dei politici che per questo vengono pagati dalla

collettività. A loro volta, questi specialisti della politica preferiscono avere

amica la Chiesa gerarchica, piuttosto che nemica. La blandiscono, e

pagano lieti un qualche tributo per questo ricevendone il vantaggio di

poter decidere, in piena autonomia, secondo criteri anche molto

discutibili, le sorti del pianeta e dell’umanità.

Ecco il tributo pagato ai cristiani: assicurare vie preferenziali per la

pratica della religione cattolica, la libertà di culto, le facilitazioni fiscali,

l’impegno (anche solo teorico) per sostenere nella legislazione i cosiddetti

«valori non negoziabili». Dal lato opposto il tributo pagato dai credenti è

il «voto cattolico», il cauto silenzio, l’astensione dalle critiche «al

guidatore», la contestualizzazione di possibili scivolamenti etici dei

politici. Insomma, niente «conflitti di interessi».

Questa strada ha condotto lontano l’uomo integrale di cui Dio ha cura,

e che la Chiesa deve accompagnare verso il Regno. «L’umanità vive come

un tornante della propria storia, considerati i progressi registrati nei vari

ambiti. Tuttavia va riconosciuto che la maggior parte degli uomini e delle

donne del nostro tempo continuano a vivere in una precarietà quotidiana

con conseguenze funeste. La paura, la disperazione, prendono i cuori di

64

numerose persone anche nei Paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va

diminuendo, l’indecenza e la violenza sono in aumento, si deve lottare per

vivere, e spesso per vivere in modo non dignitoso. Abbiamo creato nuovi

idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova spietata

immagine nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente

umano» (papa Francesco 2013).

Ne segue che è urgente prendere in mano diversamente il destino

dell’uomo, il problema della sua «salvezza». Che non si può delegare ai

politici il senso da dare alla vita umana, il futuro della stessa vita sulla

terra, la determinazione di ciò che è bene o male, la centralità o la

situazione periferica dell’uomo nel governo del mondo o di una piccola

comunità.

È necessario riaffermare con forza il punto basilare della cultura e della

nostra fede che l’uomo non è un «io» isolato il cui destino è strettamente

personale. L’uomo è un «noi», una radicale relazione con altri, anzi

un’intima comunione con tutta la creazione che lo circonda. Non si salva

da solo e non si perde da solo. E se è vero che il prete è inviato all’uomo,

ad essere compagno di un cammino verso quella pienezza di umanità che

noi chiamiamo «salvezza» dell’uomo integrale, allora è anche inviato alla

realtà sociale. Non può ignorare ciò che in qualsiasi modo tocca la

collettività.

Il nostro interessamento per la realtà sociale intanto ha un suo valore in

quanto procede dalla fede e serve l’uomo. Ai politici e a quanti sono

interessati della nostra comune convivenza sulla terra, noi abbiamo solo

da trasmettere una lieta notizia, un Vangelo, che è tale per tutti. Mai

65

possiamo appoggiare un’economia, una teoria di «sicurezza nazionale»,

una difesa dei nostri confini territoriali o del nostro standard di vita, se ciò

oltraggia la dignità di altri uomini, e richiede, in forma sempre nuove,

l’instaurazione di una «società sacrificale». «È meglio che uno solo

perisca invece della nazione tutta» è la logica di Caifa, inammissibile per

un cristiano, ma ovvia per il neoliberismo imperante. Per un presunto

bene di tutto il corpo sociale, non si può mettere in preventivo la morte o

la sofferenza di altre creature umane che condanniamo all’insignificanza e

alla disperazione. Se questo indirizzo continua a prevalere ancora oggi,

significa che il mondo attende ancora la salvezza, ce non ha ascoltato

Cristo.

Il non possumus dei cristiani al sistema vigente nasce dalla tipicità del

messaggio evangelico che fa della sofferenza umana un vero «luogo

teologico». Dio, prima ancora che nel tempio lo si incontra nelle urla dei

sofferenti, degli Abele inermi di fronte alla prepotenza. Parola di Dio,

assieme alla Scrittura, è l’urlo che sale dalle generazioni sacrificate, dagli

innocenti condannati, dagli affamati venuti al mondo per morire

anzitempo.

Non vogliamo che la Chiesa sia serva e strumento dello stato, e neppure

che lo stato sia al servizio di alti prelati ambiziosi. La distinzione degli

ambiti è salutare che rimanga, pur riservandoci come credenti, di

annunziare la nostra visione del destino ultimo dell’uomo, del senso della

sua vita sulla terra, della dignità dell’uomo, della destinazione dei beni,

della giustizia, della salvaguardia del creato, della famiglia, del diritto e

della pace.

66

L’Evangelii gaudium – testo programmatico del pontificato di papa

Francesco − propone quattro principi (cf. nn.221-237) che «orientano

specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un

popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto

comune». Lo fa nella convinzione che la loro applicazione possa

rappresentare un’autentica via verso il bene comune e la pace sociale, di

cui ciascuna nazione e cultura hanno bisogno per crescere e per

svilupparsi, e nella consapevolezza della necessità che voci profetiche si

alzino a difesa della promozione della giustizia e della fraternità. Questi

principi riguardano anche noi preti, e non possono mancare nella

formazione di futuri ministri di Dio, se ancora crediamo che il Regno di

Dio è possibile.

Si tratta del gusto del domani, della fede che le segrete potenzialità

degli uomini possano svilupparsi nel tempo avviando processi di

cambiamento che conducano la realtà opaca verso una maggiore luce.

Niente «tutto e subito», ma scelta di una strategia di piccoli passi che

portino alla pienezza umana nella libertà e nella consapevolezza. Si tratta

di non ignorare i conflitti che ogni convivenza genera, la complessità dei

problemi, ma puntare più sul desiderio della soluzione che sulla

esasperazione ideologica delle parti, quasi che in sé la vittoria di uno

schieramento e l’annullamento del nemico siano automaticamente un

passo verso l’umano. In fondo se siamo un «noi» aspiriamo a un mondo

di pace. Certamente non è nostro ambiente la «guerra infinita» fra nazioni

o religioni, che recentemente ha preso il posto della guerra di classe. Tutto

ciò – sembra dire il papa – significa che i «fatti» sono nostri amici non le

67

ideologie che costringono la realtà dentro i nostri preconcetti. Realtà è il

conflitto, ma realtà è anche il desiderio di un cammino verso una vita che

sia più degna dell’uomo. Realtà è la piccola vittoria, il passo titubante la

nascita di un dubbio sulla bontà del cammino di ieri, se tutto questo apre

a una prospettiva più ampia.

3. Non siamo tranquilli custodi di un ovile

Nella concretezza tutto questo si traduce in un atteggiamento ben

preciso del prete che si occupa del «noi»: guardare questo mondo, mai

passarci distrattamente accanto, farsi un’idea di ciò che accade, conoscere

ciò che opprime o libera l’uomo, le sue

attese, le sue frustrazioni. Sembra che

Gesù abbia una sua idea ben precisa

delle dinamiche del mondo quando lo

paragona «a un uomo lasciato mezzo

morto sulla strada dai ladroni». E

profeticamente avverte che non basta

accorgersi di quello strano intralcio

alla nostra serenità che è il sangue

sulla strada. Bisogna guardare da vicino, scendere da cavallo, interessarsi.

Non si deve imitare l’uomo del Tempio – sacerdote o levita che sia − che

ritiene non gli si addica fare il soccorritore. Pregherà certo per il

malcapitato, ma di più non può.

Guardare significa cercare di capire e interpretare i fenomeni sociali in

atto, farli oggetto di studio, ben consapevoli che da quei fenomeni

68

dipende la vita e la morte di centinaia di milioni di persone. Non basta

ancorarsi ad una conoscenza accademica della Dottrina sociale della

chiesa. Questa è certamente utile, preziosa, ma non conduce lontano da

sola, perché rimane astratta se non si coglie la specificità del nuovo che

appare sotto i nostri occhi. Al di fuori di questo profondo guardare è

impossibile guardare la realtà a cui siamo mandati, assurdo capire l’uomo

del nostro tempo, aiutarlo a pensare e a pensarsi.

Siamo preti per essere mandati nel mondo reale della gente. Siamo

mandati «nella realtà» di quei cuori umani che Dio ha eletto a suo

santuario. Dove si piange e si spera, dove si attende e ci si dispera, dove si

è vittime, e con una gran voglia di diventare carnefici per non

soccombere. Siamo mandati all’uomo del nostro tempo che Dio ama. E

per quest’uomo, anzi per queste «persone concrete» abbiamo una buona

notizia: Dio è interessato al vostro orario di lavoro, alla vivibilità delle

vostre città, alle difficoltà incontrate in famiglia. Lui non vi aspetta solo in

chiesa. Il suo appuntamento è nella vita, in quella concreta vita in cui

spendete o sperperate il meglio di voi stessi.

Si tratta allora di essere :

preti che hanno l’intuito di prevenire,

così come Dio previene, cioè di

arrivare prima, che ha questa dimensione profetica che non tiene la coda

alla storia, ma è avanti.

preti che non stanno al balcone, ma che vivono tra la gente, partecipi

delle gioie e delle sofferenze. Quel prete con l’odore delle pecore di cui

69

parla papa Francesco, perché è così che anche le pecore possono prendere

il respiro di Cristo che già hanno ottenuto con il Battesimo.

Preti che accompagnano,

Preti che cercano di dare frutti,

non che danno le direttive e indicazioni del

percorso, ma che camminano, che si fanno pellegrini con gli altri. E

quando uno cammina con gli altri sa quando deve accelerare il passo e

quando deve fermarsi per aspettare o rallentare il passo per mettersi in

sintonia con chi cammina.

che sanno essere generativi,

Preti capaci di rendere una testimonianza non muta, una testimonianza

palpabile, una testimonianza che, nella coerenza tra parola ed azione,

sappia essere veramente credibile. È attraverso questa testimonianza di

vita che oggi, forse molto più che in altri tempi, siamo chiamati a

rispondere all’invito rivoltoci dalla Prima Lettera di Pietro: essere

«sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della

speranza che è in voi» (1Pt 3, 15).

cioè che

sanno attivare dei processi da cui nascono cose nuove.

Esiste, quindi, una via all’impegno sociale del prete in quanto tale.

Non si tratta di seguire una moda, uniformarsi ad un comportamento che

fa tendenza, quello del prete socialmente impegnato - tra l’altro, in questo

particolare momento, l’impegno sociale sta passando di moda. Non è

questione di giocare a fare i sindacalisti o di occupare spazi che

riguardano i laici. L’impegno sociale del prete non è l’ultima spiaggia a

cui alcuni approdano perché sentono in crisi la loro identità sacerdotale.

La motivazione autenticamente cristiana e sacerdotale sta nel servizio

70

concreto al fratello sul modello di Gesù Cristo che ci ha insegnato,

facendolo per primo, a lavare i piedi ai nostri fratelli.

Preti capaci di vivere il dovere della denuncia di tutte quelle situazioni

che umiliano gli esseri umani e Gesù Cristo in essi. Come i profeti

dell’Antico Testamento dobbiamo levare la nostra voce, senza paura delle

conseguenze che ce ne potranno derivare, senza calcolare, animati dalla

forza dello Spirito. Vi invito a riprendere il testo di Amos e a meditarlo in

questa ottica, al di fuori del contesto liturgico che a volte stempera la forza

d’urto della Parola di Dio: Am 5, 21-24; Am 6, 1.4-7; Am 8,4-7.

E, ancora come i profeti, denunciare con il gesto oltre che con la parola,

sapendo che il nostro modo di fare potrà risultare non accetto a molti, che

ci sarà chi cercherà di screditarci e di metterci in ridicolo, recuperando

quella virtù dei martiri che va sotto il nome di parrhesia, sfrontatezza agli

occhi del mondo, franchezza del testimone agli occhi di Dio.

Per essere preti così è importante «promuovere e curare una formazione

qualificata che crei «persone capaci di scendere nella notte senza essere

invase dal buio e perdersi; di ascoltare l’illusione di tanti, senza lasciarsi

sedurre; di accogliere le delusioni, senza disperarsi e precipitare

nell’amarezza; di toccare la disintegrazione altrui, senza lasciarsi

sciogliere e scomporsi nella propria identità. Serve una solidità umana,

culturale, affettiva, spirituale, dottrinale» per essere capaci di predicare il

Vangelo anche quando è controcorrente rispetto al pensare comune»

(papa Francesco).

71

Ci rimane una perplessità. Ci sono voluti più di 1700 anni per giungere

a respirare in modo corale l’aria evangelica del Vaticano II. Più di 50 anni

per trovare il coraggio di

ascoltare un Concilio ed

equilibrare una visione

dottrinale astratta della

fede con un annunzio di

salvezza nella realtà storica.

Stiamo vivendo oggi un

incredibile kairos: Dio ci

salva perché si fa nostra carne, quel Signore che ci attende in cielo vuole

abitare oggi nei nostri cuori di carne e nelle nostre città perché diventino

pezzetti del suo Regno. Conti-nueremo noi Chiesa su questa strada?

Non abbiamo che una sola risposta. È già una grazia aver iniziato. Per il

resto, mons. Romero diceva: «Noi piantiamo semi, che un giorno

nasceranno, noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li

custodiranno. Siamo profeti un futuro non nostro».

ANTONIO MASTANTUONO, vice assistente generale di AC

Celebrazione Eucaristica con S.E. Mons. Paolo Giulietti

72

I partecipanti al Convegno - Basilica Superiore di San Francesco, Assisi

73

Conclusioni

A CURA DEL COLLEGIO DEGLI ASSISTENTI CENTRALI

Introduzione

a fatica nel tener insieme una molteplicità di impegni che spesso

accompagnano il servizio di assistente nelle diocesi e nelle comunità

parrocchiali ed il pericolo sperimentata che tutto ciò potesse condurre ad

un mistero vissuto a compartimenti stagno sono state le ragioni che ci

hanno spinto a mettere a tema del nostro convegno l’unità di vita del

presbitero-assistente.

Le tre relazioni ci hanno aiutato comporre (o ricomporre) l’identità

sacerdotale attorno al trinomio io-tu-noi (uno-pochi-molti). La vita

sacerdotale innanzitutto una tessitura della relazione quotidiana con il

Signore che non chiude ma apre ad autentiche relazioni con la comunità e,

al suo interno, noi con i membri delle nostre associazioni ed infine con la

realtà più vasta di cui siamo chiamati ad essere, vincendo le tentazioni

della fuga mundi e dell’insignificanza, attori e non spettatori.

Una attenta lettura delle relazioni darà la possibilità di cogliere la

ricchezza delle riflessioni e potrebbero anche diventare, se lo si riterrà

opportuno, occasione di approfondimento negli incontri collegiali.

È sembrato a noi opportuno più che tentare una sintesi di ciò che è stato

detto, riconsegnare alcune delle sottolineature emerse dal lavoro, intenso

L

74

e partecipato dei gruppi, come sentieri su cui continuare a riflettere

insieme.

1. Il collegio assistenti

La diminuzione del numero dei presbiteri ( o forse anche la

diminuzione della disponibilità di alcuni a mettersi a servizio dell’AC),

l’aumento del numero dei servizi pastorali richiesti ad uno solo rendono

ancora più significativa l’esperienza del collegio assistenti.

E’ un’esperienza,

purtroppo, poco

diffusa; vi sono già

tante riunioni

(consigli di presidenza

e di settore….) per cui

mettiamo da parte

l’incontrarsi come

assistenti.

Eppure non sfugge l’importanza di vivere momenti comuni;

potranno essere:

occasione per ripensare ruoli e servizi dell’assistente all’interno del

proprio contesto diocesano;

momenti di condivisione e di riflessione sulla vita delle associazioni

locali;

momento per trovare e indicare strategie perché i vari settori

camminino insieme;

Il Collegio degli Assistenti centrali di AC

75

momento per trovare e indicare strategie perché i vari settori

camminino insieme;

esperienze di fraternità sacerdotale come segno all’interno di tutto il

presbitero diocesano

luogo per accompagnare e avvicinare all’esperienza associativa altri

presbiteri;

strumento di aiuto per assistenti di diocesi vicine che vivono «in

solitudine» il proprio servizio associativo.

2. La vita spirituale

«L’Azione cattolica non ha grandi pretese.

Essa vuole essere come l’asinello

che porta Gesù dentro alla città»

(Mansueto Bianchi, 3 maggio 2014)

L’esigenza e la richiesta di una solida vita spirituale per il prete

assistente, nonché il compito di educare alla vita spirituale, è stata

sottolineata nelle tre relazioni ascoltate, soprattutto in quella di Luciano

Manicardi e nel ricco dibattito di martedì mattina e nelle sintesi dei

gruppi. Questo è uno degli obiettivi dell’assemblea associativa del 2014

che la Presidenza ha cercato di portare avanti con un lavoro di esperienza

e ricerca laboratoriale concentrato nel luogo simbolo: Casa San Girolamo.

76

«Un ascolto dal basso del vissuto delle persone e un ascolto privilegiato

della Parola, devono diventare tratto qualificante e prioritario del servizio

degli assistenti associativi, proprio per crescere nell’arte delle relazioni di

comunione».

La vita spirituale non sta in alto perchè non la possiamo raggiungere,

non è una parte della vita nella quale ci possiamo rifugiare ogni tanto

(«Questa Parola non è in cielo … non è di là dal mare. Invece questa

Parola è molto vicino a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu

possa metterla in pratica» cf. Dt 30,12-14). La vita spirituale è dentro,

unifica, compagina e corrobora tutta l’esistenza del prete e del laico.

Essa non funziona come gli ideali morali o i concetti della mente: essi

vengono dall’alto e si applicano alla realtà. La vita spirituale procede

secondo la dinamica dell’incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo: si

spoglia e cerca l’essenziale, va in basso alla ricerca dell’umano. È un

cammino di umanizzazione secondo l’esempio dell’umanità di Cristo.

La vita spirituale, come umanizzazione del cristiano, ha degli

ingredienti fondamentali: la vita umana, la Parola di Dio, l’esperienza di

Casa San Girolamo - Spello

77

chiesa. Una solida esperienza associativa non può non radicarsi

nell’intreccio della vita con la Parola.

La vita spirituale dell’assistente e del laico di AC guarda alla vita con

uno sguardo contemplativo: sa intravvedere le tracce della presenza del

Signore. Tracce e orme rese più chiare dalla luce della parola del Vangelo.

Per questo parliamo del Primato della Vita. Poiché non solo il Vangelo

illumina e dà senso alla vita; ma anche e soprattutto la vita umana è

l’alfabeto con cui interpreto e capisco le storie raccontate nella Scrittura.

Solo con l’esperienza dell’incontro con il Signore nella loro vita

quotidiana i laici possono dire una parola autorevole alla chiesa: portano

il mondo dentro la chiesa, evangelizzano la chiesa. L’assistente vive in sé

stesso questa dinamica spirituale; poi la condivide nel collegio assistenti e

nella Presidenza. Solo così potrà prendersi cura della vita spirituale dei

laici della sua associazione. Un’AC che non voglia ridursi ad

organizzazione pastorale che prende e spreme i suoi responsabili in un

impegno estenuante, deve offrire prima di tutto una vita bella, una

attrattiva che si diffonde da sé senza bisogno di molte promozioni. Una

vita spirituale solida e caratterizzata dalla positività e dalla gioia sarà il

cuore di associazioni robuste dentro le nostre comunità cristiane.

3. Il discernimento

Parlare di discernimento significa affrontare un processo eminentemen-

te spirituale. Per un credente, infatti, non si tratta di fare valutazioni e

scelte dettate da criteri «mondani» ma di mettersi in ascolto della Parola e

dello Spirito perché siano essi a guidare le azioni.

78

Come preti assistenti possiamo sentirci coinvolti in questo processo su

due fronti: personale e comunitario.

Da un punto di vista più personale, il discernimento prende la forma

dell’accompagnamento spirituale. Esso rappresenta anzitutto un’esperienza

che siamo chiamati a fare, a cercare; ciascuno di noi ha bisogno di essere

accompagnato, di poter fare riferimento ad una figura alla quale dona fi-

ducia e che reputa capace di consiglio.

L’accompagnamento è pure un servizio che siamo chiamati ad offrire in

quanto presbiteri. Come assistenti di Azione Cattolica, crediamo che sia

importante dare spazio e tempo alla cura dell’accompagnamento dei respon-

sabili dell’associazione, almeno nel corso del loro mandato. In questo c’è

uno dei tratti qualificanti del ministero del sacerdote-assistente.

Inoltre, in questo anno di cammino assembleare, sarà preziosa l’opera di

discernimento legata al rinnovo delle cariche associative: un confronto sereno,

capace di partire dalle condizioni di vita reali delle persone, potrà favorire

l’individuazione di persone capaci di assumere un compito oggi e

interiormente attrezzate per portarlo avanti domani. Un discernimento

superficiale e distratto, al contrario, rischia di farci convivere con

continue fatiche, resistenze e ripensamenti. Anche in questo percorso il

ruolo dell’assistente può trovare uno spazio privilegiato di azione e di

accompagnamento.

79

Vi è poi una dimensione comunitaria del discernimento. Il prete-

assistente accompagna i gruppi a viverlo anzitutto maturando e favorendo

un duplice ascolto: della Parola, anzitutto e pure della vita, attraverso quello

sguardo contemplativo che ricerca, al di là della cronaca, il significato de-

gli eventi. Il discernimento comunitario vuole essere un modo per evitare

derive efficientiste o per non rischiare di essere completamente assorbiti

dalla dimensione organizzativa. L’ascolto (della Parola e della vita) è esat-

tamente quell’esercizio che ci obbliga a guardare «oltre noi stessi», sia in

termini di spazio che di tempo; che ci permette di immaginare il futuro e

di orientare verso di esso le nostre scelte attuali.

Il discernimento, infatti, può dirsi autentico quando sfocia nella decisione.

Se non c’è decisione, allo-

ra si rimane nella sfera

dell’analisi.

In questo senso, un ul-

teriore servizio che pos-

siamo rendere

all’associazione nei pros-

simi mesi sarà quello di

accogliere con attenzione le proposte del documento che prepara le as-

semblee. Non è un testo descrittivo, ma un invito alla conoscenza della re-

altà per elaborare a partire da essa e dai bisogni che manifesta una propo-

sta di vita associativa capace davvero di «uscire» e di farsi prossima alle

persone e ai territori.

Celebrazione Eucaristica con S.E. Mons. Nunzio Galantino

80

Una buona programmazione (fatta di studio e di azione, di preghiera e,

appunto, di discernimento comunitario) potrà essere occasione per un ri-

trovato slancio della proposta associativa nei prossimi anni.

4. La leadership dell’assistente di AC

Uno dei temi emersi, in positivo e in negativo, all’interno dei gruppi di

studio è stato quello della leadership. Esso, tra l’altro, è stato messo in

relazione con il tema del rapporto tra sacerdozio battesimale e sacerdozio

ordinato. Sono emerse difatti le seguenti osservazioni:

Questa forte esperienza di ecclesialità (che é l’Azione Cattolica) è

messa a rischio da associazioni che pensano di autogestirci o da assistenti

che non rinunciano alla leadership, credendo di rendere un servizio alla

Chiesa modellando l’associazione a propria immagine.

La rinuncia alla leadership (dell’assistente di Azione Cattolica) apre

alla corresponsabilità, anche e soprattutto nelle situazioni problematiche

della pastorale, come anche nelle divisioni all’interno della comunità e tra

i singoli membri.

Il sacerdote che si lascia formare alla sensibilità della

corresponsabilità laicale spesso è incompreso dai confratelli, perché

giudicato incapace di un ruolo sacerdotale di leadership.

I laici in Azione Cattolica aiutano il prete a riscoprire la vocazione

battesimale, e di conseguenza lo specifico della vocazione ministeriale.

81

Da queste osservazioni ricaviamo alcune domande:

È proprio vero che fare l’assistente di Azione Cattolica vuol dire

rinunciare alla leadership?

Potrebbe esserci una leadership da esercitare all’interno del servizio

di assistenti di Azione Cattolica? Se sì, quale tipo di leadership?

Ancora una volta viene messo in questione il rapporto tra vocazione

battesimale e specifico ministeriale.

Dalle sollecitazioni emerse dai relatori del convegno raccogliamo le

seguenti sollecitazioni:

A cappello di queste nostre considerazioni dobbiamo ridirci qualcosa

di cui siamo convinti tutti. La convinzione cioè che se da una parte

svolgere il servizio di assistenti non è una diminuzione ma una

esaltazione di quella che è la nostra identità sacerdotale; nello stesso

tempo il servizio di assistenti di Azione Cattolica non ci chiede di

rinunciare all’esercizio della nostra leadership ma di reinterpretarla

cercando di ripensarla secondo modelli innovativo.

A proposito della nostra identità sacerdotale non possiamo non

ricordarci che il ministero ordinato è sempre a servizio del sacerdozio

battesimale e che il secondo si specifica a partire dal primo e non il

contrario (cf. PO 1-2). Ma soprattutto ripensiamo a quello «stare in mez-

zo» del pastore nei confronti del suo gregge, richiamato da L. Manicardi

mutuandolo da papa Francesco, non solo dal punto di vista spaziale ma

anche dal punto di vista sostanziale. Esso si configura come la possibilità

82

che ci diamo di vivere con i fratelli relazioni autentiche, mature e

soprattutto alla pari. Questo ci allontana dalla tentazione di percepisci

come «direttori» degli altri, ma come «accompagnatori» di cammini che si

incrociano con i nostri. Tutto questo diventa sostanziale quando arriviamo

a dire parafrasando le parole di sant’Agostino: «Per voi sono sacerdote

con voi sono cristiano«, con tutto quello che questo significa.

Si avverte inoltre la necessità di passare da una leadership autoritaria

a una leadership autorevole (cf. omelia di mons. Galantino), dove non

sono io evidentemente, in quanto presbitero, a essere il termine ultimo

della dinamica

decisionale; ma proprio

perché assistente un

punto di riferimento

importante non solo in

termini di esemplarità ma

anche per un vero

discernimento nello Spirito sulle questioni. Tra l’altro, gli studi

contemporanei sulla leadership ci consegnano diversi modelli per

rileggere il tema della leadership. Tra questi richiamiamo l’attenzione su

quello che ci sembra uno dei modelli più interessanti e più vicini

all’esperienza associativa, ovvero la leadership partecipativa o partecipata.

Una delle possibili definizioni di questo modello potrebbe essere la

seguente: «Il leader partecipativo è infatti una guida perfettamente

integrata nel gruppo che incoraggia ed assiste il gruppo nelle discussioni e

decisioni collettive, suggerendo eventuali strategie e consigliando i suoi

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collaboratori, così da arrivare a risultati condivisi. Lascia libertà di scelta

nella gestione del lavoro, nella divisione dei compiti e nella selezione dei

compagni di lavoro, creando tuttavia consenso e spronando ognuno a

dare il proprio contributo per il bene del gruppo». Crediamo che la

leadership intesa in questa modo possa essere preziosa per esercitare il

proprio servizio di assistenti nelle nostre associazioni parrocchiali e

diocesane.

5. La sinodalità

Significative in questo senso le parole del Papa a Firenze: «Vi

raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro.

Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria «fetta» della

torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti.

Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori

per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà

il conflitto: è logico e prevedibile che così sia. E non dobbiamo temerlo né

ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e

trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo»» (Evangelii

gaudium, 227). Quindi, «la sinodalità si fa e non si dice»

Vorremmo donarvi soltanto alcuni atteggiamenti che, secondo noi,

potrebbero aiutarci a fare sinodalità.

Saper stare: la presenza alla presidenza e far sentire la presenza.

Stare tra/dentro non trovare motivi di lontananze.

Aver voglia di contaminare i pensieri.

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Per fare sinodalità è necessario ri-formarsi e cambiare la mentalità del

direttore.

Sinodalità è spendere tempo, dar parola, significa aver pazienza.

La sinodalità è sedersi con altri.

La sinodalità è fare fatica.

Ancora il papa a Firenze: «Ricordatevi inoltre che il modo migliore per

dialogare non è quello di parlare e discutere, il modo migliore, ma quello di fare

qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici,

ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà».